ISSN 1827-8817 10122
mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 22 GENNAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
I legali annunciano che il Cavaliere non si presenterà dai Pm. Napolitano insiste: «Basta esasperazioni»
I cattolici Pdl in purgatorio Severo intervento del Papa: «Le istituzioni ritrovino le radici etiche» Benedetto XVI richiama l’urgenza di ridare «un’anima» alla cosa pubblica. E ora si fa sempre più rumoroso il silenzio dei credenti “berlusconiani”. Bossi al premier: «Si riposi, ci siamo noi» 1 2 3
Alla maggioranza dell’ipocrisia dico: io non mi vergogno a parlare di morale
Il fattore Bertone, ovvero quando lo scandalo investe la Nazione
Prima viene la propria coscienza, poi la fedeltà al proprio partito
di Savino Pezzotta
di Rocco Buttiglione
di Paola Binetti
uel che è certo è che siamo diventati un paese strano, dove le cose cambiano di significato a seconda delle convenienze personali. Nella vicenda di cui tanto si parla in questi giorni e che coinvolge direttamente il premier, abbiamo dovuto assistere a tanti di quei rovesci di verità da far venire la febbre.
lla fine il card. Bertone ha parlato, con saggezza e coraggio. Ci voleva saggezza, ma anche coraggio, perché il Segretario di Stato con il suo intervento si espone ad una duplice critica. Da un lato ci sono quelli che avevano già fornito in anticipo le ragioni del suo silenzio e che si trovano spiazzati dal suo intervento.
un certo punto sembrava che lo scandalo di questi giorni non fosse più quello di una immoralità diffusa che coinvolge un sistema di valori degradato al punto da esprimere il massimo disprezzo nei confronti della donna, sembrava che lo scandalo fosse il silenzio dei cattolici. da pagina 2 a pagina 5
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Il Consiglio dei ministri apre alle richieste dell’Anci: «Parliamone»
Federalismo, guerra sui tempi Calderoli: un rinvio sì, ma non i sei mesi chiesti dai centristi La «riforma» della Marcegaglia
Se il sasso di Marchionne colpisce Confindustria di Gianfranco Polillo l sasso lanciato da Sergio Marchionne nello stagno della politica economica italiana non è stato senza conseguenze. Quello che era una tranquillo e sonnolento tran tran si è improvviso animato in un vortice, che ha contagiato l’intero sistema delle relazioni industriali. La prima reazione è stata di Federmeccanica: non più un unico contratto nazionale, ma tanti accordi locali. Poi, inevitabilmente, è toccato a Confindustria ripensare il proprio ruolo. a pagina 10
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di Francesco Pacifico
LA STRATEGIA DEL SENATÙR
In ogni caso, il Carroccio punta alle elezioni
ROMA. Per ora, il governo ha concesso una settimana, come avevano chiesto i Comuni per ridiscutere da capo il decreto sui costi. Quanto ai sei mesi chiesti invece dal terzo polo, la risposta l’ha data direttamente Bossi. Con una pernacchia. Nessun problema: Casini ha risposto che così com’è i centristi voterà no al decreto. E addio grande riforma. Sicché ora la sfida federale si gioca tutta sui tempi: una settimana o sei mesi? In realtà, la questione è più di sostanza: in una settimana si possono aggiutare i conti (a vantaggio dei Comuni), mentre in sei mesi si può rivedere tutto l’impianto della riforma. Il guaio è che Tremonti di cambiare tutto non ne vuole proprio sapere. Malgrado la pressione di Calderoli. a pagina 8
seg1,00 ue a p(10,00 agina 9 CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
di Enrico Cisnetto
Parla Paolo Feltrin
«La Lega all’incasso, a qualunque costo» «La partita ormai è solo politica: il Carroccio lavora già al dopo-Berlusconi»
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ome è stato fin dal primo giorno della legislatura, le sorti del governo sono totalmente nelle mani della Lega. O meglio, di Umberto Bossi, che continua ad essere il decisore unico in un partito che ci metterebbe un minuto a dividersi nel momento in cui dovesse mancare la sua leadership. Inutile inseguire altre variabili, per sapere cosa succederà occorre intuire le intenzioni del Senatùr. Perché con il voto del 14 dicembre è andata definitivamente a farsi benedire la possibilità di creare una maggioranza alternativa in questo parlamento.
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Franco Insardà • pagina 8 15 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
a pagina 9 IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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pagina 2 • 22 gennaio 2011
il fatto I legali presentano la memoria difensiva: «Il premier non andrà a Milano, quei reati sono da tribunale dei ministri»
La Chiesa insiste
Dopo Bertone, anche il Papa richiama la moralità delle istituzioni. Berlusconi: «Non parlano di me». E i cattolici Pdl continuano a tacere il retroscena di Errico Novi
ROMA. Parla il Papa, e dovrebbe indurre gli altri al silenzio. Non solo per l’autorità che gli riconoscono adesso persino le componenti più laiche dell’opposizione, ansiose di una censura al premier, ma anche perché le sue parole, riferibili certo agli ultimi scandali, sono comunque improntate alla pietà. Dopo giorni di invocazioni rivolte alla Chiesa perché assumesse una posizione sul caso Ruby, e in attesa delle prolusioni del cardinale Bagnasco al consiglio permanente della Cei di lunedì prossimo, Benedetto XVI trova il modo in una volta sola di richiamarsi all’etica pubblica e alla morale dello spirito. Lo fa davanti ai tutori dell’ordine e della sicurezza, durante l’udienza a dirigenti e personale della questura di Roma: «La società e le istituzioni pubbliche ritrovino la loro anima, le loro radici spirituali e morali, per dare nuova consistenza ai valori etici e giuridici di riferimento e quindi all’azione pratica». È significativo che il Papa parli davanti ad agenti di polizia, cioè a chi, chiamato a difendere la comunità, sente di essere lasciato spesso in una condizione di solitudine proprio da parte delle istituzioni politiche. Il richiamo del Pontefice si colloca su un piano di universalità e al tempo stesso di severa censura di tutte le carenze che il potere sembra esibire.
Cosicché Berlusconi sembra improvvisamente più piccolo, meno facilmente difendibile. Anche se con qualche sussulto di rabbia, con uno spasmo dialettico persino generoso, i cattolici del suo partito tentano di schivare il colpo. Non reagisce bene proprio quel sottosegretario alla Famiglia, Carlo Giovanardi, chiamato in causa nei giorni scorsi dallo squallore delle ragazze di Arcore incoraggiate da padri e fratelli a scalare posti nel gradimento del premier. Giovanardi si chiede nervoso «che novità c’è» nelle parole del Papa. Allo stesso modo Maurizio Lupi si augura che «tutti se ne sentano stimolati e interrogati». Posizione analoga a quella di Maurizio Gasparri: «Non strumentalizzate». È l’inerzia della difesa cieca assicurata finora al Cavaliere, che sollecita simili risposte. Resta il fatto che l’intervento di Benedetto XVI
Bossi vuole «commissariare» definitivamente l’esecutivo pensando al voto
«Ora Silvio si riposi un po’, a governare ci penso io» di Andrea Ottieri
ROMA. Tra pernacchie, ripensamenti, minacce e battute a effetto, la strategia politica di Bossi si sostanzia in una sola affermazione sfuggita ieri mattina al Senatùr: «Berlusconi si riposi un po’, che a governare ci pensiamo noi». Il che è quanto succede, in effetti, da un paio d’anni: tanto nei sogni dei leghisti, quanto – sovente e sempre più spesso, ultimamente – nella realtà. Come dire: meglio un premier debole che uno forte (e questo lo sanno anche i sassi), soprattutto se il premier debole ha la necessitò di mettersi in secondo piano per un po’, onde evitare – mettiamo – contestazioni in pubblico. Chissà se è proprio per questo timore che ieri Berlusconi, pure essendo atteso ufficialmente, ha disertato i funerali dell’alpino Luca Sanna ucciso in Afghanistan. Comunque, fermiamoci sulla strategia leghista. Ieri Bossi chiacchierando con i giornalisti a Montecitorio è sbottato dicendo che il povero Berlusocni è «sotto pressione», «controllato da tutte le parti» quasi fosse «la mafia». «In un Paese normale e democratico queste cose non avvengono», aggiunge Bossi, immaginando giustamente che nei “paesi normali” i presidenti del consiglio non organizzano festini e non si dichiarano amici fraterni di personaggi quanto meno di dubbio gusto né di minorenni dalle abitudini contraddittorie. Ma non importa: secondo il Senatùr è giusto che il Papa chieda alle istituzioni di ritrovare «le radici morali»: evidente ritenendo che sia la magistratura ad aver smarrito la propria moralità. Quanto a Berlusconi, comunque, il numero uno del Carroccio ha tuonato che le dimissioni del premier non sono in discussione («è inutile chiedere cose che non ser-
vono a niente»), ma poi come una stilettata dietro le spalle, è arrivato il perfido consiglio all’amico di Arcore: «Silvio vada un po’ a riposare da qualche parte che al resto ci pensiamo noi».
Fin qui, la politica, quella vera. Per lo spettacolo, Bossi ha atteso le domande su questioni più concrete. Tipo la richiesta del Terzo polo di un rinvio di almeno sei mesi del voto sul decreto sui costi del federalismo. A domanda (che ne pensa), Bossi risponde con una pernacchia. Che è un altro tratto di quella rivoluzione della semplificazione brandita dal suo pupillo Calderoli, e già ampiamente rilanciata da gesti dell’ombrello, dito medio alzato e simili. Perché sprecare parole quando un gesto occupa meno spazio sui servizi tv? Ma, al di là della volgarità alla quale Bossi ha abituato l’Italia, resta la certezza di una Lega atterrita dall’eventualità che il proprio cavallo di battaglia diventi piuttosto un cavallo di troia dell’opposizione nel cuore del governo. Quel «Berlusconi si riposi che a governare ci pensiamo noi» significa proprio questo: Bossi vuole mano libera per trattare con chiunque e a oltranza per ottenere uno straccio di riformetta federalista da sbandierare poi al proprio elettorato scontento, in occasione delle elezioni. Perciò è bene che il premier si faccia commissariale definitivamente. E se ne stia buono buono a godersi le sue festicciole. Nella sua ridotta di Palazzo Graziali (dove ieri si è tenuto il consiglio dei ministri, non piuttosto a Palazzo Chigi) Berlusconi è stato avvisato del simpatico consiglio e ha risposto: «Noi andiamo avanti a governare ma se l’esecutivo non dovesse farcela chiederemo di andare alle quella elezioni anticipate». Dissimulare sempre e comunque: uno dei comandamenti berlusconiani.
Poi il Senatùr va in soccorso del Cavaliere: «Lo trattano come se fosse un mafioso»
mette anche la sordina alle irrequietudini dello stesso Berlusconi, ai sui propositi di «punire» i pm eversivi. Anche perché il presidente della Repubblica incrocia le sue nuove raccomandazioni a quelle del Pontefice, «si trovino nella Costituzione e nella legge», dice, i riferimenti per «equilibrare le ragioni della legalità nel loro rigore e le garanzie del giusto processo». Si segua cioè la strada degli equilibri già ora assicurati dalla Carta, ricorda il Capo dello Stato, anziché abbandonarsi alle «tentazioni di conflitti istituzionali e di strappi mediatici». E qui i richiamo alle intenzioni punitive proclamate dal premier sembra netto, esplicito.
Ritrovare le radici morali, secondo il Papa, e non pretendere di cavarsela con iniziative e propositi irragionevoli, secondo il presidente della Repubblica. È questo doppio richiamo a smorzare definitivamente i furori berlusconiani. Oltretutto Benedetto XVI inserisce il suo intervento in un più ampio discorso sul «senso di insicurezza dovuto alla precarietà» che è acuita «anche dall’indebolimento dei principi etici su cui si fonda il diritto». Cioè il Papa si riferisce a un pericoloso scardimamento delle certezze, dei valori su cui si fonda la società. Un clima incerto, fiaccato nei suoi «ordinamenti». In cui c’è bisogno di «risolutezza nel compiere il bene». Le difficoltà della condizione generale non ammettono dunque diserzioni da parte di chi ha «responsabilità». E lo stesso Napolitano parla non senza richiamarsi alle generale necessità di un maggiore «equilibrio» tra poteri e istituzioni. Alla severità del doppio richiamo si aggiunge una condizione politica di fatto che è frustrante, per Berlusconi, Perché Umberto Bossi a sua volta si sbilancia sul presidente del Consiglio con un tono quasi compassionevole. Si rammarica ancora una volta per la «pressione» dei magistrati su Berlusconi, che «è un presidente del Consiglio, mica la mafia». E però il Senatùr, da una parte, si mostra un po’ meno liquidatorio dei dirigenti pidiellini a proposito del Papa («Questo è giusto, se non lo dice lui chi lo deve dire»). Dall’altra fa intendere di aver colto la debolezza del Cavaliere, quando gli suggerisce di «ripo-
L’ECCESSO DI DISSIMULAZIONE
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Una maggioranza ipocrita che si vergona della morale Non è più accettabile questo balletto nel quale i valori cambiano di senso a seconda delle convenienze personali di Savino Pezzotta
uel che è certo è che siamo diventati un paese strano, dove le cose cambiano di significato a seconda delle convenienze personali. Nella vicenda di cui tanto si parla in questi giorni e che coinvolge direttamente il nostro presidente del Consiglio, abbiamo dovuto assistere a tanti di quei rovesci di verità da far venire la febbre. Siamo arrivati al punto che non si riesce più a capire quali siano i punti di riferimento per esprimere una giudizio. Resto comunque convinto che il dovere di Silvio Berlusconi sarebbe quello di dare le dimissioni e impiegare tutto il tempo libero a difendere, se ci riuscirà, la sua reputazione personale. Lo dico perché, avendo perseguito con caparbietà il legittimo impedimento, presumo sia ben poco il tempo che ha per seguire la questione giudiziaria che gli è scoppiata tra le mani. Ed è chiaro che quando si deve andare nelle aule di tribunale a difendere il proprio onore non si può andare in giro per Palazzo Chigi, correre a Mosca e fare anche una capatina a Tripoli. Per il suo bene, il presidente del Consiglio dovrebbe fare una passo indietro per poter tornare innocente sul palcoscenico della politica. Ma sappiamo che non lo farà e che trascinerà - con la complicità di Bossi - il nostro Paese in una situazione di estrema difficoltà.
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sarsi» perché tanto «ci pensiamo noi». Quel noi, certo, allude a tutta la Lega. Ma anche a Tremonti. I due soggetti politici rispetto ai quali Berlusconi, in queste ore, coltiva le maggiori preoccupazioni, anche per il difficile cammino del federalismo (su un rinvio della riforma il capo leghista risponde ancora una volta a colpi di pernacchie). Che ci sia un’inquietudine vera, nel presidente del Consiglio, lo capiscono anche i ministri durante il Consiglio della mattinata. In quella sede Berlusconi chiede di stargli ancora a fianco, minimizza le parole pronunciate il giorno prima dal cardinal Bertone («non sono contro di noi») e però non esclude che «se non potessi più governare, ci sarebbero le elezioni». Perciò «dobbiamo tenerci pronti». Anche a Bossi il voto non sembra impossibile, soprattutto se la delega alla riforma federale dovesse davvero incagliarsi. E dunque tutto torna, nonostante il fax con cui i legali del premier annunciano ai pm che il loro assistito non si presenterà in Procura perché i reati sono da Tribunale dei ministri. Loro, i magistrati, vanno avanti. Tengono per ore a rapporto la escort Nadia Macrì. Alimentando ancora di più le ansie del Cavaliere.
«La società e le istituzioni pubbliche ritrovino la loro anima, le loro radici spirituali e morali, per dare nuova consistenza ai valori etici e giuridici di riferimento e quindi all’azione pratica», ha detto ieri il Papa parlando ai funzionari della Questura di Roma. E invece Bossi ha consigliato a Berlusconi di «prendersi un periodo di riposo, tanto a governare ci pensiamo noi»
Certo è che in questi giorni si è sviluppato un grande Festival dell’ipocrisia e della dissimulazione. Già a suo tempo il cardinal Mazzarino principe della Chiesa non certo santo ma che di politica si intendeva - aveva sostenuto che un politico era tenuto alla dissimulazione, ma oggi mi sembra si stia esagerando. Incominciamo a notare come nei discorsi che si fanno c’è una parola che viene esorcizzata, obliata e possibilmente rimossa. Tutti la avvertiamo nel nostro subconscio ma non la diciamo. Il politicamente corretto ce lo impedisce oppure ne abbiamo paura. Ma deve essere capitato qualche cosa di grave se nella nostra società e nel discorso pubblico l’uso di una parola c’intimorisce al punto che non la pronunciamo o la diciamo poco. Forse è il segno che il relativismo etico è ormai penetrato anche dentro di noi. Sono pochi i politici che la usano in modo normale e nei dibattiti televisivi s’inizia sempre esorcizzandola. Quando si discute di quanto scrivono i giornali sugli incontri e le cenette di Arcore si premette: «Non sono un moralista», quasi a voler giustificare un giudizio di valore o morale su fatti e persone. Capisco, è difficile tentare di fare discorsi in cui si deve dire se quanto si sente e si legge sta dalla parte del bene o del male; allora tutti preferiscono esprimere un giudizio “politico”, trovare una soluzione “politica”, riportare gli avvenimenti nella sfera “politica”, allontanandosi frettolosamente dal più impegnativo e instabile uso del termine “morale”. E cosi vediamo, in queste vicende che riguardano Berlusconi, molte persone per bene della maggioranza, rifugiarsi dietro la “Ragion Politica” o tacere. I più “furbi” si lanciano in una difesa sperticata dell’amato leader per poi aggiungere: «ma il mio stile di vita è diverso». Non si accorgono che, tentando di distinguersi, mettono una toppa peggiore del buco che vogliono coprire. Forse se si esprimessero pub-
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blicamente con maggior chiarezza e dicessero quello che realmente passa dentro di loro e che molte fanno trapelare in conversazioni private, sarebbe bene per tutti e anche per il caro Silvio. È proprio vero quello che scriveva un filosofo contemporaneo: «Amici, amici non ho amici». Abbiamo anche assistito a discorsi molto interessanti che tirano in ballo vescovi e cardinali. Capisco che una parte di cattolici si sia sentita turbata e frastornata da certe notizie e che abbia sperato di avere qualche luce da parte dei propri pastori. Un atteggiamento comprensibilissimo e credo di alta sensibilità ecclesiale. Quello che invece mi ha lasciato di stucco è stato sentire alcuni laicissimi signori chiedersi perché i vescovi e la Chiesa non si pronunciassero, gli stessi che quando i vescovi i esprimevano su altre questioni erano pronti a gridare contro l’ingerenza clericale. Un poco di equilibrio servirebbe sempre. Quando si parla di Chiesa sono tre le categorie che mi infastidiscono: i clericali che hanno gli occhi sempre chiusi e che forse pensano che voler bene alla Chiesa significhi abbandonare l’uso critico della ragione; gli atei devoti che vorrebbero trasformare il Cristianesimo in una religione civile e la Chiesa in guardiana di chi sta oggi al Governo; i laicissimi che hanno il compito quotidiano (vedi Micromega) di insegnare al Papa come fare il Papa. Ora che il Cardinal Bertone ha detto cose chiare - quelle che noi cattolici feriali e un poco infanti ci volevamo sentire dire speriamo s’acquietino. Condizione che a noi cattolici non è data mai.
Mentre con un po’ di prurigine ogni giorno ci leggiamo le 5 o 6 prime pagine dei grandi quotidiani che ci rendono edotti dei “giochini” che forse si sono fatti in quel di Arcore, non si ragiona molto su come uscire da questo “stato di eccezione” e non si valuta come la personalizzazione della politica (veniamo chiamati a votare persone più che partiti o programmi) abbia incrinato il confine tra pubblico e privato. Credo sia inutile invocare la privacy quando l’ostensione del nome privato del leader serve per catturare il consenso. Rendiamoci conto che questa vicenda va chiusa al più presto e per chiuderla non si può vivere la situazione pensando di alzare i toni, lanciare grida contri i magistrati, fare il verso al Capo dello Stato. Sono necessarie le dimissioni con la consapevolezza che una stagione è finita e che occorre lasciare lo spazio perché se ne apra una nuova. Berlusconi deve rendersi conto che una gestione autoreferenziale e particolaristica della cosa pubblica non è più possibile e che chiudersi nella ridotta con gli armigeri di Giussano può solo prolungare l’agonia. Oltretutto non lo faranno gratuitamente. Quando è necessario, allora, usiamo la parola “morale” e usiamola senza timore anche nei confronti di noi stessi. Mettiamo al bando l’ipocrisia, il politicamente corretto, cercando sempre, con un poco di verità praticata secondo la logica di Giovanni XXIII, di contrastare ferocemente l’errore e non l’errante, di far uscire il Paese dai turbamenti, dagli interrogativi, dall’incertezza e dalla sfiducia verso la politica in cui certi modi di essere e di fare ci hanno portato.
Sono necessarie le dimissioni del premier: una stagione è finita e occorre lasciare lo spazio giusto perché se ne possa aprire una nuova
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L’ALLARME DI BERTONE
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Ormai questo scandalo investe tutta la Nazione Ha fatto bene il Segretario di Stato a intervenire in questo momento: si stava per travolgere tutto di Rocco Buttiglione lla fine il card. Bertone ha parlato, con saggezza e coraggio. Ci voleva saggezza, ma anche coraggio, perché il Segretario di Stato con il suo intervento si espone ad una duplice critica. Da un lato ci sono quelli che avevano già fornito in anticipo le ragioni del suo silenzio e che si trovano spiazzati dal suo intervento. Dall’altro ci sono quelli che gli rimproverano di non avere parlato prima. Io invece penso che abbia avuto ragione prima a non parlare e che abbia ragione anche adesso a farlo. Vediamo perché. In precedenti occasioni ed anche nei giorni scorsi autorevoli commentatori hanno sostenuto la tesi che io riassumo nel modo seguente: «Meglio un politico donnaiolo che fa leggi a favore della famiglia che non un politico integerrimo che invece fa leggi che la famiglia la distruggono. Nella sfera pubblica non siamo chiamati a pronunciarci sulla moralità privata di un uomo politico ma sulla sua capacità politica, sul contributo che dà per il bene comune». È vero. La moralità privata è bene consegnarla alla coscienza della persona e, eventualmente, al suo confessore se ne ha uno. Giudizio morale e giudizio politico non sono la stessa cosa ed è sbagliato confonderli. Per questa ragione ha fatto bene Bertone a tacere fino a quando questo è stato possibile. Ma allora perché adesso ha parlato, che cosa è successo? Non è tanto la gravità delle accuse, che pure ha la sua importanza perché qui si parla di prostituzione minorile. Il problema è che siamo passati da fenomeni di immoralità privata allo scandalo pubblico. Lasciamo da parte la questione se la colpa maggiore di questo passaggio vada attribuita alla magistratura che spia il Cavaliere e poi mette tutto in piazza (come dice Berlusconi) oppure al Cavaliere stesso che anche dopo la crisi provocata dal “caso D’Adda-
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rio” continua ostentando pubblicamente il suo stile di vita senza nemmeno preoccuparsi di tenerlo nascosto. In ogni caso la questione è diventata pubblica e la Chiesa non può non dare un giudizio pubblico. Davanti allo scandalo pubblico il silenzio della Chiesa verrebbe percepito dal popolo come una sorta di assenso, come una collusione con l’idea che i potenti sono esentati dalla morale comune e che basta pagare per ottenere una indulgenza plenaria senza pentimento e senza penitenza. La Chiesa deve preoccuparsi prima di tutto della fede del popolo e in particolare dei più deboli.
Credo che molto abbia pesato nella decisione del card. Bertone la percezione del fatto che quello stile di vita pubblicamente esposto rischia di diventare senso comune. Quando un padre, alla domanda se la figlia giovanissima sia la favorita di Berlusconi risponde: «Purtroppo no», quando un giovane dichiara alla radio «io amo le donne come Berlusconi e me ne vanto» un Pastore non può non sentire il dovere di intervenire. Se non si interviene come si fa a spiegare poi che amare le donne è un’altra cosa, non è usarle ma averne cura e rispettarle ed accompagnarle nella vita? Come si fa a spiegare che ci sono cose che contano più del denaro e della notorietà e del potere? Quando lo scandalo diventa pubblico la Chiesa è tenuta a dare una risposta pubblica. Ecco la differenza fra la crisi presente ed altre crisi precedenti. Per la verità già quando ci fu la “crisi D’Addario” la Chiesa diede un giudizio morale chiaro e l’allora direttore di Avvenire Dino Boffo ha pagato un prezzo amarissimo di persecuzioni e calunnie per questo. Se però qualcuno si illudeva in questo modo di avere intimidito la Chiesa adesso ha avuto modo di ricredersi… Quelli che anche in questo caso hanno invocato la giusta distinzione fra politica e morale hanno ignorato la differenza fra condotte sregolate private e scandalo pubblico. Questa distinzione il card. Bertone ha mostrato invece di conoscere perfettamente. Questa nozione di scandalo pubblico non è ignota, per la verità, neppure alla Costituzione italiana che parla a
Davanti allo scandalo pubblico la Chiesa non può tacere: deve pensare prima di tutto alla fede del popolo, quella dei più deboli
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questo proposito di “decoro”. Chi in qualunque modo rappresenta lo Stato deve avere anche un comportamento privato che non contraddica in modo plateale i valori fondamentali della nostra cultura nazionale. L’erosione della sostanza morale della nazione provocata dallo scandalo pubblico pesa certo di più dei vantaggi che derivano da una buona politica in questo o quel settore. Del resto, sia chiaro, il card. Bertone non ha chiesto le dimissioni di Berlusconi. Questo è un compito dei laici che fanno politica. Egli si è limitato a dare un giudizio morale di etica pubblica su di uno scandalo pubblico. Una situazione così è intollerabile. Cosa bisogna fare per uscirne è questione politica e su questo terreno il card. Bertone non si addentra.
Una lettura da raccomandare a quelli che si sono occupati di queste cose è quella di Niccolò Machiavelli che è in realtà molto più morale di tanti suoi nipotini. Machiavelli dice che il principe oltre ad essere efficiente come principe deve anche essere buono come uomo, o almeno sembrarlo. Se non lo è ma almeno lo sembra i suoi difetti privati non danneggiano lo Stato (la moralità è un elemento fondamentale del bene pubblico). Se invece il principe non solo non è buono ma non riesce nemmeno a sembrarlo allora è cattivo non solo come uomo ma anche come principe. Certo, nelle posizioni di Bertone e di altri vescovi si legge in trasparenza un problema di cui noi politici dobbiamo farci carico: «Ma non è possibile trovare una guida politica che realizzi il bene comune politico (che include la difesa dei valori non negoziabili) e contemporaneamente offra una ragionevole testimonianza morale (o almeno non dia scandalo pubblico)»? È compito nostro, dei laici cristiani impegnati in politica (ed in modo particolare dell’Udc e del Polo Nuovo), costruire la risposta a questa domanda.
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LA LEZIONE DEL PAPA
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Prima viene la coscienza, poi la fedeltà al partito I cattolici, con il loro esempio, combattono da sempre contro il continuo degrado dei modelli di vita comune
un certo punto sembrava che lo scandalo di questi giorni non fosse più quello di una immoralità diffusa che coinvolge un sistema di valori degradato al punto da esprimere il massimo disprezzo nei confronti della donna, ridotta ad un mercato di usa e getta, sembrava che lo scandalo fosse il silenzio dei cattolici o più ancora il silenzio delle gerarchie della Chiesa. Eppure tante voci si sono alzate in questi giorni, e tante voci autorevoli avevano già espresso giudizi severi su comportamenti e stili di vita che nulla hanno a che vedere con la formazione che i cattolici ricevono fin da bambini, in famiglia e non appena si accostano alla loro preparazione ai sacramenti. La dottrina della Chiesa in materia di etica sessuale è nota a tutti, a tal punto da essere considerata uno dei punti di maggiore contraddizione con la forte secolarizzazione del nostro tempo. Molte critiche si sollevano spesso per accusare la Chiesa di arretratezza culturale, priva di quella modernità che vede nella liberalizzazione dei costumi
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di Paola Binetti sessuali una delle tipiche espressioni della libertà individuale. Bigotteria, ipocrisia, sono alcuni dei termini utilizzati per descrivere quel tipo di condotta che fa riferimento al senso del pudore, al valore della fedeltà. Il vietato vietare della fine degli anni Sessanta è gradatamente scivolato verso il tutto è permesso. Una televisione che aveva la pretesa di trasmettere valori e convinzioni, è stata archiviata a favore di una televisione in cui Il grande fratello detta la linea ad altri programmi in cui sono protagonisti tronisti e veline. L’ostentazione del corpo femminile è diventato un leit motiv in tutti gli spettacoli di intrattenimento, in modo sempre più spinto fino a scadere in una volgarità di pessimo gusto. Ma questo modo di far televisione ha creato in molte ragazze la convinzione che fosse anche un modo rapido di far carriera, una sorta di orizzonte di carriera ben remunerato e scarsamente impegnativo in quanto a studi e formazione. All’inizio sono state le TV commerciali e poi si è creato un fenomeno di contagio vistoso, che
ha invaso anche la Tv di Stato e le più recenti televisioni digitali.
Senza questo popolo anonimo di ragazze in offerta speciale, sempre più giovani e sempre meno consapevoli delle conseguenze di scelte profondamente degradanti, non si capirebbe questo circo mediatico che ha popolato le notti di Arcore e che ha rivelato il lato più buio e più oscuro della personalità del premier, esponendolo a ricatti di ogni tipo. È difficile distinguere dove cominci lo stile delle tv Mediaset, e non solo!, che rincorrono gli indici di ascolto con prodotti sempre meno sofisticati e dove inizi il dilagare sociale di una distorta maniera di concepire l’intrattenimento a casa, in tv e in molti altri luoghi alternativi. Il Rubygate, e lo scandalo che sta montando a velocità crescente anche sul piano politico, segna - forse! - il break point di questo processo di involuzione dei costumi a cui in questi ultimi tempi le diverse televisioni avevano offerto una overdose insopportabile di squallore, fatto di una sensualità ostentata senza alcun riferimento di tipo morale. Su que-
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sto non si può certo dire che i cattolici abbiano taciuto: sia che si tratti di associazioni di famiglie, basta pensare alle posizioni del Moige, sia che si tratti di associazioni di telespettatori, sia che si tratti della stampa cattolica capitanata da Avvenire o da Famiglia cristiana, i cattolici hanno parlato e parlato molto, assumendosi il rischio di essere etichettati in modo antipatico, ma non per questo stando zitti. Le loro voci non hanno avuto però quell’attenzione che meritavano e che oggi tutti reclamano. Ma anche in questo caso i cattolici hanno parlato. Hanno parlato i cattolici che frequentano le parrocchie, rivelando sgomenti il loro sconcerto e cercando di capire cosa stesse succedendo. Hanno parlato i cattolici nei luoghi in cui si svolge la loro vita associativa, per protestare contro una certa stampa che vive di gossip e di immagini sempre più provocanti, contro una televisione sguaiata che racconta l’involuzione del movimento femminile in Italia. Hanno protestato per reclamare un recupero di moralità, la buona vecchia moralità sessuale, che rappresenta un quadro di riferimento essenziali per affrontare l’emergenza educativa. Hanno parlato i cattolici del Pd e i cattolici del Centro; hanno parlato poco i cattolici della Pdl e il loro silenzio è sembrato una sorta di giustificativo della condotta del premier. Eppure alcuni di loro intervenendo nel dibattito pubblico hanno chiaramente stigmatizzato certi comportamenti, ne hanno preso le distanze, hanno messo in primo piano il loro stile di vita, radicalmente diverso. Ma si sono astenuti dal dare giudizi che oltre ad avere una connotazione morale avrebbero avuto anche una connotazione politica chiaramente destabilizzante, se fosse venuta da loro.
E in questo senso il silenzio dei cattolici, soprattutto se hanno un ruolo politico, merita un approfondimento in più. Intervenire con un ruolo critico forte e chiaro quando ci si muove in sintonia con il proprio gruppo di appartenenza è indubbiamente più facile e richiede un grado minore di coraggio. Ma quando dare una testimonianza forte pone in discussione la tenuta del proprio gruppo occorre un supplemento di prudenza, una valutazione più articolata e forse condivisa. Alle naturali difficoltà che alcuni politici cattolici sperimentano, proprio per la complessità del loro ruolo, deve corrispondere negli altri un surplus di coraggio, di chiarezza e di coerenza con i valori che definiscono la nostra identità cattolica. I cattolici, pur nella irrinunciabile responsabilità personale, formano sempre una comunità che va ben oltre i loro rispettivi schieramenti, un corpo unico, in cui c’è una oggettiva complementarietà, che consente di condividere compiti e responsabilità, per cui alle difficoltà di alcuni possono e debbo-
no supplire le energie e le risorse degli altri. L’unità dei cattolici in politica si esprime anche attraverso questa solidarietà nella testimonianza, per cui più l’altro fatica a dare la sua, più mi sento impegnato ad offrire la mia, perché tanti altri cattolici che non sono impegnati in politica non abbiano dubbi sulla chiarezza dei valori in gioco e sulla correttezza dei giudizi che debbono accompagnare certi fatti.
Sulla necessità di mantenere alto il senso dell’esempio, che ha una intrinseca dimensione etica, si sono espressi nel giro di poche ore sia il Cardinal Bertone, segretario di Stato, che lo stesso Benedetto XVI, e il Cardinal Bagnasco lo farà con tutta probabilità il prossimo lunedì, in occasione dell’assemblea permanente della Conferenza episcopale. Bertone ha detto in modo inequivocabile che «nei Sacri Palazzi si segue con attenzione e con preoccupazione queste vicende italiane». E Benedetto XVI ha sottolineato lo stretto rapporto che lega il proprio modo di agire con il modo di giudicare e di va-
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Ancora una volta Benedetto XVI ci dice che la religione e la morale non possono essere confinate nella quotidianità alla sola sfera privata
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lutare le cose: «Nella nostra epoca di mutamenti si registra una diffusa insicurezza, dovuta all’indebolimento della percezione dei principi etici su cui si fonda il diritto e degli atteggiamenti morali personali, che a quegli ordinamenti sempre danno forza». C’è in questa affermazione una profonda sollecitazione a vivere in modo esemplare per poter prendere decisioni che siano altrettanto esemplari. Quello di Benedetto XVl è un invito forte rivolto a tutti i cattolici, in particolare in questo momento ai cattolici impegnati in politica: tornare a porre la religione e la morale al centro del nostro impegno pubblico, senza avere paura che quanti in questi giorni hanno tuonato contro il silenzio della Chiesa, ricomincino ora a tuonare contro le parole della Chiesa.
diario
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È morto a Terni Enrico Micheli
Nuove regole per i professori
Il Tar boccia le «classi-pollaio»
TERNI. È morto ieri Enrico Mi-
ROMA. Via libera dal Consiglio
cheli. Aveva 73 anni, era umbro ed è morto nella sua città natale, Terni: era malato da tempo. Prima manager all’ Iri, nella sua carriera politica Micheli è stato sottosegretario alla presidenza del Consiglio nei governi Prodi e D’Alema e nell’ultimo governo Amato. Con D’Alema fu anche ministro dei Lavori Pubblici. Deputato del Pd, è stato tra i più stretti collaboratori di Romano Prodi, con il quale ha contribuito a fondare l’Ulivo. «Se ne è andato un vero servitore dello Stato, una persona generosa e perbene, un’intelligenza vivissima e piena di idealità», così il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. I funerali si terranno oggi alle 14.30 presso la Basilica di San Francesco a Terni.
dei Ministri al primo decreto attuativo della riforma dell’università: il provvedimento approvato mette fine al sistema dei concorsi locali e introduce l’abilitazione nazionale per l’accesso alla docenza. Questa abilitazione diventa la condizione per l’accesso all’associazione e all’ordinariato attribuita da una commissione nazionale sulla base di specifici parametri di qualità. I posti saranno poi attribuiti a seguito di procedure pubbliche di selezione bandite dalle singole università, cui potranno accedere solo gli abilitati. I concorsi saranno banditi inderogabilmente ogni anno nel mese di ottobre per concludersi cinque mesi dopo e l’abilitazione avrà durata quadriennale.
ROMA. Entro 120 giorni il ministero dell’Istruzione e il ministero dell’Economia doranno emanare il Piano generale di edilizia scolastica. L’ordine arriva dal Tar del Lazio che ha accolto una class action proposta dal Codacons contro le «classi-pollaio», ovvero quelle aule scolastiche nelle quali il numero di alunni, attorno ai 35-40, supera i limiti fissati dalla legge. «Ora il ministro Gelmini dovrà emettere un piano in grado di rendere sicure le aule scolastiche ed evitare il formarsi di classi da 35 o 40 alunni ciascuna», ha detto il presidente del Codacons, Carlo Rienzi. «Se non lo farà saremo costretti a chiedere la nomina di un commissario ad acta che si sostituisca al ministro ed ottemperi a quanto disposto dal Tar».
Oggi a Torino ci sarà solo una «kermesse di idee»: e Bersani, con tutto lo stato maggiore del Pd, starà in platea
Veltroni che abbaia non morde L’ex segretario torna al Lingotto, ma rinviando ancora una resa dei conti di Riccardo Paradisi
Pierluigi Bersani, che comunque domani sarà in platea alla convention veltroniania, commenta duro: «Non credo che il Lingotto rappresenterà un’alternativa, non è questo il clima. Alla fine io, Veltroni e gli altri parleremo di Italia: non ci guarderemo la punta delle scarpe perché sarebbe da irresponsabili»
hi s’attende oggi dal Lingotto due di Walter Veltroni qualcosa di decisivo in merito al chiarimento di conti all’interno del Pd resterà molto probabilmente deluso. Quello di oggi a Torino organizzato dai veltroniani infatti sarà un convegno, dove Veltroni terrà un discorso alto e nobile riproponendo retorica e idee del Pd che avrebbe voluto costruire, che avrebbe dovuto essere e che invece non è stato. Ma sarà un intervento il suo slegato a una precisa strategia politica, mirata alla costruzione d’un alternativa all’attuale segreteria Bersani.
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Certo le differenzerestano e dopo l’ultima direzione nazionale del Pd, dove i modem di Veltroni non hanno partecipato al voto, sono differenze ancora più profonde. Ma è un dissenso che non intende strutturarsi per dare battaglia, che al massimo riesce a mettere in campo il confronto delle idee. Che in politica significa un po’poco. Nel caso Modem significa marcare una presenza qualificata in un momento di evidente debolezza della leadership di Pierluigi Bersani. Alla kermesse di Torino partecipano del resto esponenti di spicco del partito democratico americano, come l’ex senatore Gary Hart e il politologo inglese Anthony Giddens: teste d’uovo adatte alla presentazione d’un manifesto dei valori. «Movimento Democratico – dice il veltroniani Grassi – vuole sottoporre agli italiani un programma di sviluppo basato su pochi punti, ma chiari e precisi. Vuole coinvolgere nel suo progetto i cittadini, invitandoli ad entrare in una casa trasparente, dove tutti hanno le chiavi di accesso e nessuno
deve chiedere il permesso all’altro per sentirsi accolto». Parole alate, ecumeniche, interlocutorie appunto.A capire che il Lingotto due potrebbe essere un’iniziativa veltroniana nell’accezione più banale del termine, è del resto proprio un veltroniano critico come Ermete Realacci : «Sarebbe sbagliato proporre un’operazione nostalgia stile Gozzano: ”Non amo che le rose che non colsi”. Invece mi pare importante ripartire dai nostri punti di forza per un’Italia giusta, aperta, forte». Insomma secondo Realacci «L’appuntamento di Torino sarà utile se riuscirà ad indicare una prospettiva convincente e a parlare dell’Italia. Dovrà prima di tutto fare i conti con l’inquietante deriva del berlusconismo in atto senza lasciarsene ipnotizzare. Ciò che ha infatti indebolito, nei mesi passati,
la possibilità di chiudere l’esperienza dei governi Berlusconi è stata la mancata percezione, da parte di larga parte del Paese, dell’esistenza di una credibile alternativa. Se le difficoltà del centro-destra si fossero incontrate con la forza elettorale e con la capacità di parlare al Paese, compreso chi non ci votava, che aveva il Pd all’inizio la situazione sarebbe oggi ben diversa». E non basta rilanciare a parole come ha fatto Veltroni illustrando il depliant d’invito al Lingotto due . «Rilanceremo la sfida riformista di cui l’Italia ha bisogno spiega Veltroni - Inviteremo tutte le forze, le energie e le ricchezze di cui il centrosinistra riformista e il Pd dispongono». Perché «Il Movimento democratico non è una corrente, ma un luogo dove le persone possono incontrarsi indipendentemente dalla loro
appartenenza. Adesso deve diffondersi in tutto il Paese per sostenere il Pd». La realtà è che Veltroni vede bene l’inadeguatezza dell’attuale segreteria, della strategia delle alleanze d’alemiana che ha paralizzato il Pd nella stasi dell’indecisionismo permanente, tentato dall’aggancio del centro ma spaventato d’essere superato a sinistra da forze giustizialiste e radicali, dalla minaccia erosiva costituitva da Antonio di Pieltro e Nichi Vendola. Veltroni sa bene che il suo errore cardinale, che ha generato poi le sue dimissioni, è stato proprio l’alleanza con Di Pietro, frutto di quella residua e fatale riserva mentale che gli ha impedito di rompere gli indugi con ogni sinistra illiberale. Una promiscuità che aveva affossato il governo Prodi e che aveva pregiudicato la vittoria
della sua campagna elettorale del 2008 contro Berlusconi. D’altra parte Veltroni non ha mancato di sottolineare queste differenze rispetto a Bersani in interventi e interviste dove non ha risparmiato critiche al Pd, non ultima la vicenda Fiat dove Veltroni ha indicato chiaramente la posizione della sua componente, pronunciandosi in favore del ”si” a petto dell’afasia d’un Pd la cui posizione finale è sembrata risultare la media ponderata delle ragioni del ”ni”all’accordo di Mirafiori. Eppure malgrado queste profonde divergenze Veltroni non riesce a pensarsi come istanza politica alternativa nel Pd. Preferisce volare sul cielo sicuro del confronto delle idee, non scendere sul terreno della battaglia politica. E così organizza una convegno dove tutti sono ecumenicamente invitati: Bersa-
diario
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Ieri i funerali di Luca Sanna, il premier non si presenta ROMA. Si sono svolti ieri mattina a Roma, presso la Basilica di Santa Maria degli Angeli, i funerali solenni del primo caporal maggiore Luca Sanna, ucciso in Afghanistan martedì scorso. Poco prima dell’inizio delle esequie il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, visibilmente commosso, ha salutato la vedova dell’alpino con la quale ha parlato per alcuni minuti. Ai funerali hanno partecipato le più alte cariche civili e militari, ma era assente il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, rimasto a Palazzo Graziali: una decisione presa all’ultimo minuto, visto che tutto era pronto per l’arrivo del premier. Nella chiesa di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, in piazza della Repubblica a Roma, c’era però a rappresentarlo il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Monsignor Vin-
Povero Sud, se tornano i borbonici cenzo Pelvi, arcivescovo ordinario militare per l’Italia, ha pronunciato l’omelia. «Nessuno dei nostri militari vuole fare l’eroe – ha detto -.Tutti vogliono tornare a casa dalle loro famiglie e dai loro amici. Ma tutti non esitano a porre a rischio il proprio futuro, sapendo che possono dare la vita o rimanere segnati. Questo è il vero eroismo quotidiano della famiglia militare». Dopo i funerali di Stato, il feretro è partito alla volta della Sardegna.
quanto possa fare un Matteo Renzi, la cui candidatura potenziale viene vista con grande disagio dal grosso del partito che a parte le sue velleità rottamatrici lo vede ancora come un outisder e un personaggio locale.
ni, Rosy Bindi, Enrico Letta. Bersani ostenta anche tranquillità: «Parleremo d’Italia, non d’alternative interne». A Torino alla fine mancherà solo Massimo D’Alema ma, come dire, si tratta di idiosincrasie prepolitiche. Gli altri ci saranno tutti in nome del pluralismo nell’unità, in realtà prestandosi a un fotogramma plastico d’un gruppo dirigente incapace sia di marciare unito sia di confrontarsi in una battaglia politica. Alcuni veltroniani non nascono una certa delusione. Fioroni avrebbe voluto per esempio spingere di più, imprimere all’evento torinese una maggiore valenza polemica interna, anche perché – è il ragionamento di alcuni Modem – le condizioni per aprire un confronto serio e duro nel Pd ci sarebbero.
Le condizioni di minorità politica potrebbero essere modificate e rovesciate facendo le mosse giuste, soprattutto in un momento in cui è palese che malgrado la situazione favorevole e la crisi della destra il Pd non è in grado di giocarsi un ruolo politico in una partita dove sembra solo riuscire a individuare supplenti alla sua azione, ora il presidente della Repubblica ora addirittura le gerarchie vaticane per la loro rampogna sui facili costumi del Premier. Ma quale potrebbe essere la mossa dei veltroniani? Una freccia al loro arco, che accarezzano spesso come una tentazione proibita, è il coinvolgimento di Sergio Chiamparino nella partita da aprire per la leadership del Pd. Uomo di struttura ma anche espressione della società civile, solida tradizione nel partito ma anche capace d’interlocuzione con imprese e corpi intermedi, mai esitante su federalismo, modernizzazione e vertenza Mirafiori Chiamparino metterebbe in moto nel Pd dinamiche imprevedibili. Di fronte all’attivazione di questa variabile sarebbe difficile per Enrico Letta – che vive in questo Pd un disagio ogni giorno più profondo - far finta di nulla e persino Dario Franceschini potrebbe tornare sui suoi passi dopo la rottura conVeltroni. Insomma Chiamparino aprirebbe una discussione vera nel partito molto di più di
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L’arma segreta dell’ex leader potrebbe essere Sergio Chiamparino
Dall’alto: Bersani, D’Alema, Rosy Bindi e Anthony Giddens che domani sarà al Lingotto per la convention veltroniana
Tanto più che il baricentro di Renzi sembra ancora essere, salvo alcune escursioni nazionali, tutto interno a Firenze. Stesso discorso vale per Nicola Zingaretti.Tanto più che lo step successivo della carriera dell’attuale presidente della provincia di Roma potrebbe essere una candidatura al Campidoglio, favorita anche dall’oscurarsi della cometa alemanniana. L’obiezione di d’alemiani e bersaniani a vocazioni maggioritarie e veltronismi di ritorno è nota: quella strategia e quel progetto sono stati sconfitti sul campo, se quella era l’alternativa è un’alternativa già fallita. La controreplica dei veltroniani, che di questa tesi vorrebbero convincere lo stesso Veltroni, è che a fallire è stata la strategia delle alleanze su cui s’era costruita l’unione di Prodi. Dopo la sconfitta Veltroni avrebbe dovuto insistere, seguendo lo schema di navigazione seguito da Cameron in Gran Bretagna: incassare la sconfitta e poi tornare a sfidare Blair alla seconda occasione, utilizzando il tempo a proprio favore, affinando un’identità, rafforzando la leadership, sciogliendo promiscuità ed equivoci. E non è un ragionamento peregrino considerando che il Pd che perde con Veltroni è un partito al 33% mentre oggi è dato al 25%. Ma anche per il Pd è tempo di elezioni e quando si entra in campagna elettorale si smette di pensare, si pensa ad esistere. Tempo d’elezioni, perché anche se non ci saranno quelle anticipate tuttavia la legislatura è arrivata alla sua curva discendente. L’ossessione del gruppo dirigente del Pd, come di tutti gli altri, adesso è quella di esserci anche al prossimo giro, di mantenere le posizioni. Sicché il Lingotto due poteva essere tutte le cose che ci siamo detti, ma sarà quello che la realtà gli imporrà di essere: un atto di testimonianza e di presenza. Salvo sorprese naturalmente.
a ricorrenza dei centocinquanta anni dell’unità d’Italia ha fornito l’occasione ai vari movimenti neoborbonici e filo borbonici, presenti soprattutto in Campania, di organizzare sul territorio meridionale una sorta di controstoria del Risorgimento o di critica della ragione unitaria. Si moltiplicano, infatti, gli incontri, i dibattiti e le presentazioni dei libri. La critica neoborbonica incrocia almeno tre elementi che le fanno gioco: un revisionismo storico del processo di unificazione dell’Italia che da tempo, in verità, ha messo in luce le ragioni dei vinti e i torti post-risorgimentali dell’esercito piemontese; alcune pubblicazioni di libri che hanno avuto un buon successo di vendite come Terroni di Pino Aprile, Il sangue dei vinti di Giordano Bruno Guerri, Gli ultimi giorni di Gaeta di Gigi Di Fiore; e, inoltre, il tema del federalismo e del leghismo.
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Le occasioni di dibattito, dunque, non mancano e anche quando il confronto accentua la polemica fino a diventare una tempesta in un bicchier d’acqua, tutto sommato la discussione è salutare e rimane istruttiva. Ma c’è un punto in cui la critica neoborbonica non è più né un legittimo “punto di vista” sul passato né un ragionamento utile alla conoscenza della storia del Regno delle Due Sicilie. È il momento in cui la controstoria perde forza e significato e diventa una storia al contrario perché si nega il valore stesso dell’unità nazionale e si sostiene la tesi falsa dei nostalgici che dicono «si stava meglio quando si stava peggio» e il suo corollario insensato e storicamente inverificabile che dice «se il Sud fosse rimasto indipendente adesso sarebbe più progredito e già federalista». In realtà, la «indipendenza» del Regno non avrebbe dato alle popolazioni meridionali la possibilità di un miglioramento per il semplice motivo che, se fosse stato possibile, già nei decenni centrali dell’Ottocento si sarebbe dovuto concretizzare un miglioramento sociale e un cambiamento di riforme politiche. Non vale quindi la pena, soprattutto per i neoborbonici, fare la solita analisi di com’eravamo perché da qui non se ne ricava nulla. C’è, invece, un altro argomento che va considerato e per chi nega il senso e il valore dell’unità nazionale dovrebbe essere quello fondamentale: perché crollò il Regno delle Due Sicilie? Lo storico Paolo Macry in una conferenza «Tra politica e mito: cronache del 1860» tenuta alla Provincia di Benevento ha risposto proprio a questa domanda osservando che in fondo il Regno non crollò né per la conquista di Garibaldi né per la congiura internazionale manovrata dall’Inghilterra ma perché la classe dirigente borbonica e napoletana del tempo fece scelte sbagliate che ne determinarono la caduta e, in sostanza, l’auto-caduta. I neoborbonici dovrebbero considerare meglio le responsabilità dei Borbone. Ieri come oggi, nei momenti politici importanti le responsabilità decisive sono quelle di chi dirige.
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politica
In consiglio dei ministri, il leghista ottiene più tempo per la riforma. Ma il problema resta quello di convincere Tremonti
Supermarket Federalismo Calderoli accetta di rinviare il voto come chiesto dai Comuni, ma dice no al Terzo Polo che vuole sei mesi in più per discutere di Francesco Pacifico
ROMA. Con una pernacchia – destinata a chi chiede un rinvio al federalismo fiscale – Umberto Bossi prova a dare la linea ai suoi colonnelli e agli alleati. Ma il suono non è servita a dare coraggio a Silvio Berlusconi e Roberto Calderoli. La bocciatura della fiscalità municipale da parte del Terzo polo ha avuto invece i suoi effetti. «È un pastrocchio che non voteremo», fa sapere Pier Ferdinando Casini.
Tanto che premier e ministro della Semplificazione hanno concesso di far slittare di una settimana il termine concesso alla commissione Bicamerale per votare il testo. Ma si sono rimessi alla decisione del Parlamento su una possibile proroga semestrale all’approvazione della riforma. Più passano le ore e più vacillano le aperture – da parte degli enti locali e del Pd – che in questi mesi ha saputo costruirsi in questi mesi. Perché dietro il no dell’Udc, di Fli, dell’Api e del Mpa c’è la consapevolezza che alla Bicamerale guidata da Enrico La Loggia gli equilibri sono contro il governo. Non a caso il finiano Mario Baldassarri ha voluto ricordare ai suoi ex alleati che la nascita del gruppo dei Responsabili – seppure la campagna acquisti avesse avuto successo – non può cambiare la composizione della commissione, «perché i suoi membri sono scelti collegialmente dai presidenti di Camera e Senato». C’è da fare i conti con Gianfranco Fini. Ma il Terzo polo non canta vittoria, perché stoppato (per ora) il decreto il nuovo obiettivo diventa modificarlo. Con l’impianto che va ridiscusso in Parlamento, anche per completare il riequilibrio delle funzioni tra livelli statali. Spiega Gian Luca Galletti, vicecapogruppo alla Camera dell’Udc: «Se la Lega pensa di ricattarci con lo spettro elettorale ha sbagliato strada. A noi interessa cambiare il testo, perché se passa così com’è c’è il rischio che la finanza dei Comuni sarà legati ai derivati più di quanto accade già oggi. Eppoi manca la parte del Codice delle autonomie». Secondo l’esponente di via dei due Macelli si va verso «un federalismo che è soltanto una
«La Lega è già al dopo-Berlusconi» Per Paolo Feltrin, i padani sanno che avranno bisogno dei centristi di Franco Insardà
ROMA. «Giulio Tremonti è il successore in pectore di Berlusconi, il suo team manager si chiama Lega e senza il Cavaliere non ci sarebbero problemi per il Carroccio, il Terzo Polo e buona parte del Pdl a trovare dei punti di accordo programmatici per il prosieguo della legislatura». Nel giorno in cui Umberto Bossi dichiara: «Berlusconi si riposi, facciamo noi» il politologo Paolo Feltrin, docente di Scienza dell’amministrazione dell’università di Trieste, analizza i possibili scenari futuri. Professor Feltrin, con il passare delle ore la Lega diventa sempre più oggetto di desiderio. È dal 14 dicembre che la Lega è sempre più decisiva per il governo. È sotto gli occhi di tutti che è iniziata l’uscita di scena di Berlusconi. In questi frangenti, come è successo recentemente anche in Tunisia, si entra in una fase molto tattica. Ogni attore può vincere o perdere tutto, dipende se si indovina o meno il timing: è una sorta di partita di scacchi giocata da più giocatori. Quando un leader, che è stato per molto tempo al potere, deve passare il testimone inevitabilmente c’è sempre qualcuno che si scotta le dita. La Lega ha da tempo sul tavolo il federalismo e proprio su questo il suo “cavallo” Tremonti gli sta creando problemi.
Sul federalismo alla Lega basta una vittoria di facciata che non è così complicato ottenere. Anche perché per il federalismo vero bisognerà aspettare quindiciventi anni. Ma al momento il meccanismo si è inceppato. Infatti e per farlo ripartire gli uomini di Bossi hanno capito di avere bisogno di altre forze politiche e in particolare del Terzo Polo, che, legittimamente chiede di discutere di tutto il resto.Tutto questo avviene in un momento di estrema debolezza di Berlusconi, che coincide con il ruolo strategico del centro. Il Terzo Polo, quindi, diventa interlocutore privilegiato della Lega? Direi proprio di sì. Basti pensare che tra il 14 dicembre e il 7 gennaio si considerava finito, mentre dopo la vicenda Ruby il Terzo Polo ha riconquistato un ruolo centrale e si sono riaperti tutti gli scenari. In quest’ottica va letto anche lo slittamento, deciso dal Consiglio dei ministri, dei tempi del federalismo municipale? La maggioranza ha bisogno di tempo per dialogare con il Terzo Polo. La Lega diventa dorotea? Non la definirei dorotea, ma la Lega vuole garantirsi il dopo Berlusconi, sa di non dovere rimanere con il cerino in mano, le tenta tutte, fino a minacciare le elezioni
anticipate, mentre il premier ha tutto l’interesse a rimanere alla guida del governo anche un solo giorno in più. Il suo vero obiettivo, ripeto, non è il federalismo, ma rimanere forza di governo. Per farlo deve mantenere Tremonti come erede naturale del Cavaliere. Se salta questo progetto alla Lega si apre un problema di uomini e di strategia. E una possibile alleanza della Lega anche con il Pd? In questo momento no. Senza Berlusconi è difficile che possa reggere un’asse PdlLega, mentre più realisticamente ci potrà essere un’alleanza tra Terzo Polo, Carroccio e una parte del Pdl. Esclude un ribaltone in stile ’94? Mi rifarei più al 92-93. Berlusconi non vuole mollare, ma il gioco delle forze in campo lo porta naturalmente verso l’uscita. Occorre, però, qualcuno che si prende l’incarico di coprire l’ultimo miglio per farlo uscire. Nel 92-93, nel caso di Craxi, questo compito fu assunto da Giuliano Amato, dopo i tentativi intempestivi dei vari Martelli, Formica e De Michelis. E allora Amato fece una coalizione di governo non alternativa al precedente, ma ottenne l’appoggio di tutti. Chi è l’Amato del 2011? Se non viene bruciato prima e azzecca i tempi il nome è uno soltanto: Giulio Tremonti.
politica
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La strategia del Senatùr prescinde da quella del governo ome è stato fin dal primo giorno della legislatura, le sorti del governo sono totalmente nelle mani della Lega. O meglio, di Umberto Bossi, che continua ad essere il decisore unico in un partito che ci metterebbe un minuto a dividersi nel momento in cui dovesse mancare la sua leadership. Inutile inseguire altre variabili, per sapere cosa succederà occorre intuire le intenzioni del Senatùr. Perché con il voto del 14 dicembre è andata definitivamente a farsi benedire la possibilità di creare una maggioranza alternativa in questo parlamento, mentre è del tutto escluso che Berlusconi pensi a fare un passo indietro a favore di un altro premier per mantenere in piedi l’attuale centro-destra. L’unica variabile terza è quella dei mercati finanziari, ma appartiene all’imponderabile.
Con o senza «grande riforma», ora Bossi vuole sfruttare la crisi del berlusconismo
Dunque, comunque vada avanti l’inchiesta aperta dalla Procura di Milano – ma c’è da scommettere che gli effetti che doveva avere li abbia già avuti – la prosecuzione o meno della legislatura dipende esclusivamente dalla Lega: se stacca la spina si va alle elezioni, altrimenti il Governo dura (anche se non può far altro che trascinarsi avanti). E non ci vogliono particolare capacità divinatorie per capire che Bossi abbia interesse ad andare alle elezioni. Il tema, semmai, è quando e in che modo. La tesi più diffusa è: non appena avrà portato a casa il federalismo fiscale (pardon, municipale: adesso vedo che lo si chiama così). È una valutazione che ha fondamento logico: la Lega ha detto che è per raggiungere questo obiettivo che sta al governo,
Potrebbe essere un problema presentarsi all’elettorato dopo aver approvato una legge svuotata di senso e incapace di incidere davvero sulla società
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bandierina per le elezioni». Tanto che «Calderoli almeno dovrebbe non chiamarlo federalismo, perché non c’è nemmeno una tassa municipale». Per l’ex ministro Linda Lanzillotta l’unico effetto del testo è «un aumento della fiscalità generale. Anche perché per come è disegnata l’Imu, c’è il sospetto che sia lo strumento lasciato ai sindaci per pareggiare i bilanci. Senza contare il rischio di un aumento delle tariffe». Quindi la parlamentare dell’Api ricorda a Bossi che se si torna al voto, «gli elettori finiranno anche per votare sulla serietà del federalismo. Non vorrei che si commettesse l’errore fatto dal centrosinistra nel 2001, che approvò la riforma del Titolo V perché avvicinavano le elezioni». Il fronte è agguerrito anche perché oltre a una battaglia po-
Ma il Carroccio punta alle elezioni di Enrico Cisnetto deve assolutamente portarlo a casa a tutti i costi. Poi, non avrà più motivo di restare imbrigliata in un esecutivo che certo non gode del favore popolare – il che non significa che ad eventuali elezioni Berlusconi è destinato a perdere, perché sono note le sue capacità in campagna elettorale (le uniche che ha in politica, per la verità) e perché sono ancora più noti agli italiani i difetti e i demeriti dei suoi avversari – e più in generale avrà tutto l’interesse a riguadagnare la libertà di poter suonare la grancassa dell’antipolitica, vero motivo fondamentale del suo consenso, che la permanenza nei gangli di potere di “Roma ladrona” oggi non le consente più di tanto di fare. Può essere, dunque, che questo sia lo
litica se ne sta combattendo una amministrativa che potrebbe avere non pochi impatti sugli equilibri tra centro e periferia del Paese, per non parlare di Nord e Sud. Senza contare che i centristi e i loro emendamenti appiano al
schema che ha in testa Bossi. Ma c’è un’altra, direi opposta, ipotesi cui non darei meno probabilità.
La Lega sa che la riforma federale tanto agognata, senza risorse, con un obiettivo giusto (il passaggio ai costi stan-
È non solo per salvare la durata della legislatura che Roberto Calderoli deve continuare a trattare. Ieri, in una conferenza stampa a margine del Consiglio dei ministri, ha garantito che «c’è un sostanziale accordo sulle richieste presentate dal-
Casini (Udc) si scaglia contro «un pastrocchio al quale diremo no». I moderati chiedono certezze sulla copertura della cedolare secca, sgravi a inquilini e sulle seconde case, compartecipazione all’Iva momento l’unica stampella alla quale possono appigliarsi sindaci, governatori e presidenti di Provincia. I quali devono fare i conti con una manovra che taglia di 14 miliardi i loro bilanci e che rischiano di vedere delineati i costi standard su livelli di spesa e trasferimenti decurtati dalla stessa Finanziaria.
l’Anci. Con il ministro Tremonti e con il presidente La Loggia abbiamo concordato una serie di risposte positive a dei quesiti posti dall’Anci, ritengo che si sia ricomposta la posizione del governo rispetto alla stessa Anci e che c’è una sostanziale condivisione delle richieste». Quindi, e dopo aver annunciato
dard nei servizi pubblici locali, sanità in testa) ma i cui effetti sono destinati ad essere visibili nel medio periodo, e ora per di più sottoposta a molti compromessi per trovare il consenso dell’Anci e avere i numeri in parlamento, rischia di fare flop. E cosa ci sarebbe di peggio che aver insistito tanto su una riforma – peraltro non propriamente in cima ai desideri dei suoi elettori, che badano di più a temi come la sicurezza – che poi si rivelasse inutile, marginale o addirittura controproducente? Dunque, Bossi potrebbe essere attratto dall’idea di sfruttare il tira e molla intorno alla riforma – è di ieri il rinvio di una settimana dell’esame in consiglio dei ministri, mentre le opposizioni chiedono una moratoria di sei
una proroga di una settimana, ha fatto sapere di attenersi alla volontà del Parlamento su un possibile allungamento dei lavori. «C’è la volontà di spaccare il capello, di concedere tutti i possibili approfondimenti». Nota Baldassarri: «Il governo non poteva fare diversamente». Ma aggiunge La Lanzillotta: «Abbiamo posto problemi sostanziali che riteniamo difficile risolvere in cinque giorni». I centristi hanno annunciato un corposo pacchetto di emendamenti per migliorare la fiscalità municipale, ai quali seguirà anche uno nella legge di conversione al Milleproroghe per allungare di sei mesi la durata dell’intera delega, che al momento scade il 21 maggio. In primis intendono dare una copertura finanziaria alla cedolare secca – che in termini di mancato gettito costerebbe 2,8
mesi – per far saltare il banco urlando «ci hanno affossato il federalismo e Berlusconi, preso dai suoi problemi, non ha fatto niente per impedirlo!». Tra l’altro, mentre nello scenario precedente non sarebbe facile aprire la crisi dopo aver ottenuto il federalismo senza apparire dei traditori – a meno di non concordare la cosa con Berlusconi, che finora ha però dimostrato nei fatti di non volere le elezioni anticipate – in questo caso l’occasione per rompere sarebbe servita su un piatto d’argento.
Probabilmente, ad oggi neppure Bossi sa bene cosa farà, al di là del continuo richiamo, negli ultimi tempi, alla necessità di interrompere la legislatura non appena fosse chiaro che non ci sono più le condizioni per proseguire, accompagnato dalla previsione che sarà inevitabile. Troppe le variabili in ballo. Molta l’attenzione a non sporcarsi le mani nel difendere il Cavaliere (si noti come in quest’ultima circostanza siano prevalsi i silenzi e le frasi ambigue, tipo quella di ieri contenente l’invito «vada a riposarsi che qui ci pensiamo noi»). Quasi certamente la vera decisione Bossi la prenderà sulla base della percezione di quanto sia logorato il rapporto tra gli italiani e la politica, cioè in che misura oggi si riviva il clima di fine stagione che c’era nel 1992 (e da cui la Lega ha tratto linfa vitale decisiva). E se ha la mia stessa sensazione – e cioè che quella corda si stia nuovamente strappando – è probabile che scelga la strada che porta più velocemente possibile il Paese alle urne. Piaccia o non piaccia, questa è la situazione. Tutto il resto sono chiacchiere. (www.enricocisnetto.it)
miliardi e non 1 miliardo – recuperandoli dai tagli imposti all’acquisto di beni e servizi dell’ultima manovra. Queste risorse potrebbero servire per aiutare gli inquilini, che non vedono benefici da come è delineata la cedolare. Non a caso si chiede di abbassare al 15 per cento l’aliquota per i contratti a canone concordato e al 20 per quella a canone libero.
Per quando riguarda le addizionali, Baldassarri suggerisce come «via maestra la compartecipazione all’Iva e non all’Irpef». Dai centristi anche le richieste di legare la tassa di soggiorno alle stanze d’albergo e non ai turisti, di rivedere l’Imu sulle seconde case – «Colpisce chi non vota» – e di inserire «un blocco delle tariffe locali per evitare il rischio dell’aumento della pressione fiscale».
economia
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La rivoluzione Fiat cambierà il Paese e la situazione dei contratti l sasso lanciato da Sergio Marchionne nello stagno della politica economica italiana non è stato senza conseguenze. Quello che era una tranquillo e sonnolento tran tran si è improvviso animato in un vortice, che ha contagiato l’intero sistema delle relazioni industriali. La prima reazione è stata di Federmeccanica: non più un unico contratto nazionale, ma tanti accordi locali per realizzare obiettivi di maggior crescita ed un vantaggio che non andrà - almeno così si spera ad incrementare solo i dividendi o i già lauti appannaggi dei manager. Per ora siamo solo nel campo delle proposte e delle reazioni negative da parte di tutte le organizzazioni sindacali: comprese quelle che hanno fatto da battistrada per gli stabilimenti Fiat. Ma la sfida è appena iniziata. Ci vorrà il tempo necessario per convincere i riottosi e dimostrare che le nuove proposte hanno diritto ad una cittadinanza che, per il momento, altri non vedono. Intanto si va avanti nella discussione. Vedremo in seguito quali saranno i possibili sviluppi. Questa pressione, tuttavia, qualcosa sta producendo. Confindustria, che nei mesi passati aveva subito più che condiviso l’iniziativa di Marchionne, ha dovuto prendere atto che qualcosa è mutato nel profondo degli equilibri sociali italiani. Ha dovuto lanciare nuove proposte che, in qualche modo, si muovono in sintonia con questo nuovo mondo, in un’accelerazione che, solo qualche mese fa sembrava del tutto improbabile.
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È stata la stessa Marcegaglia a scendere in campo e declinare un progetto di riforma per l’organizzazione imprenditoriale italiana. Una dei tanti - è stato detto - con un pizzico di malizia, nel ricordare i precedenti tentativi abortiti sul nascere. Ma questa sembra essere la volta buona. E non tanto perché a ripeterlo è questa giovane imprenditrice. Ma perché è il tempo che è cambiato all’improvviso, rendendo obsoleto quello che solo ieri sembrava essere una normalità inattaccabile. Snowball: come dicono gli inglesi. La valanga creata dal lancio di una palla di neve dall’alto di una montagna subito dopo una bufera primaverile. L’effetto Marchionne - appunto che ha scosso l’albero della quiete italiana ed imposto a tutti di aprire gli occhi sugli effetti indotti dalla globa-
Il sasso di Sergio colpisce Emma Il ciclone scatenato dalle posizioni di Marchionne travolge Confindustria di Gianfranco Polillo
La leader di Confindustria Emma Marcegaglia. In basso Sergio Marchionne
lizzazione e sulla necessità di rispondere alle sollecitazioni provenienti da un mondo che cambia a ritmi vertiginosi.Vedremo se quelle di Emma saranno solo buone intenzioni o la scelta necessaria per evitare il peggio.
Dove il peggio ha il volto dell’abbandono silenzioso. La newco che produrrà le nuove vetture non farà parte di Confin-
dustria. Stesse intenzioni sembrano aver manifestato gli ultimi giganti italiani. Eni ed Enel sono guardinghi e lo stesso atteggiamento è caldeggiato in sede Finmeccani-
processi. Nel frattempo, tuttavia, si tenta di correre ai ripari. Come? Razionalizzare la struttura centrale, dare più spazio al territorio, tagliare i costi, meno passerelle convegnistiche e più servizi: queste le enunciazioni. Basteranno?
Difficile rispondere. Che si debba cambiare nell’organizzazione è un dato di fatto, più che un semplice auspicio. Sotto questa profilo, la Marcegaglia coglie uno dei corni del dilemma, quando sottolinea l’esigenza di uscire dal ”vecchio schema fordista” che rappresenta ancora l’orizzonte teorico del vecchio contratto collettivo su basi nazionali. Ma è sufficiente motivare questa posizione ricorrendo al termine di moda del ”federalismo” anzi ”dell’iperfederalismo” come ha detto testualmente? Abbiamo dei dubbi. La dimensione dell’organizzazione industriale, nelle sue forme possibili, è molto più complessa. Nello stesso territorio possono convivere forme organizzative diverse. La stessa varietà si trova all’interno di un identico comparto industriale. È il miracolo dell’elettronica, della comunicazione, dell’utilizzo dei nuovi materiali e della loro sostituibilità. Questi elementi hanno cambiato radicalmente il paradigma produttivo liberandolo definitivamente dalle rigidità di un mondo povero, dal punto di vista tecnologico, come era il vecchio capitalismo analizzato dagli economisti classici. Oggi le forme stessa dell’organizzazione industriale presentano una varietà che non ha eguali, obbligando tutti coloro che vi lavorano - operai, im-
Secondo la Marcegaglia aumentano le adesioni all’unione industriale. Ma questo non toglie che ora sono loro a doversi muovere ca. Emma ribadisce, cifre alla mano, che le nuove adesioni circa l’11 per cento in più dal 1997 - smentiscono i profeti di sventura. Ma nel mondo degli affari le quote più che contarsi, si pesano. Il bilancio complessivo potrà essere redatto solo al termine di questi
piegati e dirigenti - ad organizzare la propria vita in funzione delle nuove esigenze. Non è una novità. Si rilegga, per favore, quello che scriveva Antonio Gramsci in Americanismo e fordismo.
Si vedrà allora che quella strada non era avversata, ma che compito del ”moderno principe” - vale a dire le organizzazioni della politica - era quello di educare le masse a vivere nella modernità: quale unico mondo possibile. Una lezione su cui dovrebbero meditare, soprattutto, Fiom e Cgil, ma che farebbe bene anche ad Emma nell’individuare, con maggior precisione, il core business dell’organizzazione che presiede.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“Il discorso del re” di Tom Hooper
PAS DE DEUX ALLA CORTE D’INGHILTERRA di Anselma Dell’Olio
on era un grosso azzardo prevedere che Il discorso del re avrebbe fatto ve fare un discorso importante alla British Empire Exhibition a Wembley; per l’alincetta di candidature per l’Oscar. Colin Firth, già vincitore per quelora duca di York, è una catastrofe, un’esperienza penosa per lui e per il pubsto film, domenica scorsa a Los Angeles, del Golden Globe, era blico in sofferente ascolto. La prospettiva dell’ascesa al trono era sempliMagistrali già il favorito per il premio a miglior attore protagonista cemente un incubo per l’interessato. (Non per il lucido padre, scettiprima ancora di essere nominato per la statuetta più ambita. La co sull’erede.) La famiglia aveva provato a guarire Bertie con i Colin Firth e Geoffrey notte di domenica 27 febbraio, sapremo chi sarà incoronamiglior logopedisti di Londra, senza risultati percepibili. Rush nell’interpretare to re per un anno. La storia di Giorgio Vl d’Inghilterra, Il titolo inglese, The King’s Speech, ha un doppio sipapà d’Elisabetta II, poco conosciuta all’estero, vagnificato.Vuol dire sia il discorso del re, sia la pail rapporto tra il balbuziente Giorgio VI, le la pena di essere raccontata per la sua unirola del re, in senso letterale. Dopo l’esperienalla ricerca disperata della guarigione, versalità. Può sembrare strano che i cittadini di za traumatica a Wembley, Elizabeth, duchessa e il suo logopedista. una repubblica possano riconoscersi nel percorso di diYork va in incognita a conoscere un logoterapeuun principe della corona, cresciuto nella bambagia con ta australiano di cui sente parlare, tale Lionel Logue, atSono l’anima di un film castelli, carrozze e camerieri personali; eppure è così. Albert tore fallito e senza titoli di studio, come estremo tentativo impeccabile sotto tutti per aiutare il marito. È impossibile immaginare questo film con Frederick Arthur George Windsor era il secondogenito di Giorgio i punti di vista attori diversi. Colin Firth (Albert/Giorgio VI, perché il nome di batteV. L’erede al trono era il fratello maggiore Edward. Albert, Bertie per simo ricorda troppo le origini teutoniche della famiglia regnante) secongli intimi, era timido e balbuziente, un impedimento grave anche per i codo noi è il miglior primo attore in attività oggi. muni mortali. Nel 1925, all’alba della radiodiffusione internazionale, Albert de-
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Parola chiave Aldilà di Sergio Belardinelli Quando l’Iguana si ispirava agli Stones di Stefano Bianchi
Ammaniti: se la vita si rivela in cantina di Maria Pia Ammirati
Ricordo di Carlo Bo cent’anni dopo di Leone Piccioni L’Unità d’Italia sulle punte di Diana Del Monte
Il primato della Pittura alla prova del Nano di Marco Vallora
Pas de deux alla corte d’
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È eccezionale anche in film dimenticabili (Genova di Michael Winterbottom) o addirittura kitsch (A Single Man di Tom Ford); se hanno vinto premi, è per merito suo. È difficile separarlo dai suoi personaggi: in Genova pensi «avrà perso la moglie anche lui». Si esce dal film di Ford su un vedovo gay negli anni Cinquanta, convinto che Firth non può essere che omosessuale. Alla scorsa Mostra di Venezia, dove Firth è stato premiato con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile, abbiamo appreso che l’attore britannico è sposato da anni con la romana Livia Giuggioli, e parla molto bene l’itaiano, con proprietà di linguaggio e senz’ombra di calata alla Stanley e Ollio. Ha due figli con Livia, e tre da una lunga relazione precedente con l’attrice Meg Tilly (uno è figlio naturale, ma considera suoi anche i due dell’ex compagna). Ha un viso anonimo che può essere bello o insignificante, e una recitazione interiore che utilizza alla perfezione nel rendere il tormento intimo di un balbuziente aristocratico, costretto all’umiliazione pubblica.
Ma Firth non è solo, in questo film meraviglioso, classico e d’altissimo livello tecnico-artistico. Il Premio Oscar Geoffrey Rush (Shine) è Logue, il terapeuta australiano senza complessi per la mancanza di credenziali istituzionali e per il modesto tenore di vita. (Lo studio è in un sottoscala per permettere ai pazienti di esercitarsi ad alta voce, con scioglilingua, urla, strepiti e turpiloquio, tecniche allora innovative). L’affascinante duello recitativo degli attori rispecchia lo scontro di volontà che il demotico australiano ingaggia per spianare il campo di gioco tra lui e un membro della famiglia reale. Il conflitto a due è irresistibile e produce sfolgoranti scintille. Il maestro insiste che lui non si recherà a Palazzo per le sedute, ma è il duca che deve venire da lui, nel suo studio. Non è la pretesa più scioccante. Insiste che Sua Altezza Reale lo chiami «Lionel». Come se questo non fosse già abbastanza irrituale, esige di poter chiamare il duca «Bertie», di norma usato esclusivamente dai famigliari; una lesa maestà che in altri tempi lo avrebbe fatto rinchiudere nella Torre di Londra. «Mio il gioco, mio il castello, mie le regole», annuncia il terapeuta all’allibito duca. Albert gira sui tacchi e se ne va indignato, non tanto perché tiene all’appellativo regale, ma per rispetto alla tradizione. Insomma, si fa come si è sempre fatto. Rush è così abile da far trasparire, oltre al piglio di un uomo sicuro del fatto suo, la tremarella sottotraccia di un povero cristo, fatto da sé e con la famiglia da crescere, che sta giocando la partita della sua vita. Se vince, ha davanti a sé un’autostrada a otto anno IV - numero 3 - pagina II
corsie senza curve; se perde, continuerà a sfangarla nell’anonimato. Non è un dettaglio da poco, chiedere di dare del tu a un Windsor: ma sa che il maestro non può essere sottomesso all’alunno. Dopo averci riflettuto, il futuro sovrano capisce d’essere al capolinea. Accetta le condizioni per lui iperboliche, che stridono con tutto quello che ha imparato nella vita di corte sin dalla nascita. Logue è un terapista completo. Spiega che nessuno nasce balbuziente: è il prodotto di traumi piscofisici dell’infanzia. Il nobiluomo è scettico - un aristocratico non scarica su altri i propri difetti, e l’uomo è fin troppo disposto a credersi fallato e colpevole. Ma con le domande giuste viene fuori un quadro di scosse educative che non richiedono analisi arcane. Da bambino Albert era cagionevole di salute e con problemi di stomaco cronici. Si spaventa facilmente ed è «predisposto alle lacrime». Nato con le gambe a X, negli anni della crescita ha gli arti inferiori irrigiditi da stecche fasciate strette per raddrizzarle. È mancino ma lo obbligano a usare la mano destra. Il fratello Edward (Guy Pearce, eccezionale) era nato bello, dritto, sano, superficiale. Il papà re era severo. «Mio padre aveva paura di sua madre, io avevo paura di mio padre, e maledizione, i miei figli avranno paura di me», pare abbia detto; anche se apocrifa, la dice lunga sul carattere dell’uomo.
Da adulto, però, il padre stima Bertie molto più del fratello. Si augura niente meno che il principe di Galles non si sposi mai e che non abbia prole, e che nulla si frapponga tra la corona, Bertie e la figlia primogenita Lilibet (Elizabeth). La storia è nota. Il principe di Galles, all’epoca una star internazionale, fotografato e adulato come Lady Diana molti decenni dopo, s’innamora di Wallis Simpson, un’americana di Baltimora. Più volte divorziata e con mariti viventi, non può essere neanche la moglie morganatica del re, tanto meno regina. L’erede deve scegliere tra il trono e la donna di cui dice di non poter fare a meno. Un anno dopo la morte di Giorgio V (un austero e sempre commendevole Michael Gambon) e prima d’essere incoronato, il figlio maggiore che il padre s’augurava eterno scapolo senza eredi, abdica. Appresa la notizia, Bertie va dalla madre e scoppia in un pianto disperato. Nelle poche e incisive scene tra i due fratelli, scritte con penna felice, s’intuisce la sferzante crudeltà e malanimo del più grande e più figo verso il fratello sfortunato ma stimato più di lui, destinato a soffiargli un trono che nemmeno desidera. In un breve cammeo, Eve Best è una temibile, comandina Mrs. Simpson, la jolie laide di Baltimora, amica di Hitler, che dopo aver ascoltato alla radio la ri-
inghilterra nuncia al trono del suo uomo «per la donna che amo», mormora: «Sei un deficiente!». È probabile che preferisse essere l’amante di un re che la moglie dell’inutile duca di Windsor.
Sopra, alcune immagini del film di Tom Hooper e un ritratto del vero Giorgio VI
IL DISCORSO DEL RE GENERE STORICO
REGIA TOM HOOPER
DURATA 111 MINUTI PRODUZIONE GRAN BRETAGNA, AUSTRALIA 2010
INTERPRETI COLIN FIRTH, GEOFFREY RUSH, HELENA BONHAM CARTER, GUY PEARCE, JENNIFER EHLE
DISTRIBUZIONE EAGLE PICTURES
USCITA 28 GENNAIO
Ben altro tipo era Lady Elizabeth-Bowes Lyon (poi Regina Madre di Elisabetta II, morta a 102 anni), la moglie senza titoli nobiliari che Albert ha corteggiato invano per due anni. La giovane temeva una vita troppo pubblica nell’acquario della famiglia reale. Alla lunga cede e pare sia stato un matrimonio d’amore. Helena Bonham-Carter, in un ruolo tinca (in gergo teatrale ingrato) comunica compassione, tatto, amore e dedizione al marito afflitto per la sua menomazione. Non è mai una comparsa, una bella statuina messa lì per verità storica. È lei la moglie che Logue deve convincere per prima (come gli dice il perspicace figlio dell’australiano). È lei che sprona il duca ad accettare le condizioni democratiche ma anticonformiste poste dal logopedista. Rush rende credibile un uomo del popolo, autodidatta, sicuro della propria abilità ma non impudente, e con una brillante intuizione: per poter aiutare Bertie, devono essere alla pari. Attore e personaggio confluiscono senza cuciture, per creare un credibilissimo uomo degli antipodi, un colono dell’angolo più selvaggio e remoto dell’impero britannico, un diamante grezzo, con la finezza di riconoscere un uomo non solo afflitto nella parola, ma troppo timido, troppo protetto dagli asfissianti privilegi monarchici, per essersi creato amicizie vere. Firth è all’altezza del partner: coglie ogni sfumatura del carattere di Albert: il padre e marito robusto e valoroso, il ritegno e l’ira, il leader frustrato e commiserevole. La nascita e l’evoluzione del loro rapporto sono l’anima del film. Il pas de deux si sviluppa con ritmo, carisma e suspense verso un appuntamento decisivo: un discorso alla radio in cui deve parlare alla nazione, e infondere coraggio e la certezza di una leadership salda e sicura, nell’affrontare l’incombente, durissimo conflitto con il nazifascismo. La sceneggiatura di David Seidler (molta televisione e Tucker, un uomo e il suo sogno di Francis Ford Coppola, con Jeff Bridges) è solida, i dialoghi brillanti. La colonna sonora di Alexandre Desplat (Tutti i battiti del mio cuore, The Queen, L’uomo nell’ombra di Polanski e l’attesissimo Tree of Life di Terrence Malick) è calzante nelle suggestioni classiche e mai invadente. Costumi, scenografia e fotografia sono eccellenti, e tutto è condotto con maestria da Tom Hooper, regista di pochi film e molta tv di qualità, specie la premiata miniserie John Adams, sul secondo presidente degli Stati Uniti. Da vedere, e se il doppiaggio gli fa onore, da rivedere.
MobyDICK
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ALDILÀ onosco un farmacista che, mentre lavora, a suo modo, per il mantenimento della salute degli uomini, ironizza continuamente sulla loro salvezza. Vederlo all’opera, mentre con consumato sussiego distribuisce ai suoi clienti sacchetti pieni di medicine, maneggia i soldi dentro il cassetto o sistema le ricette, è già un’emozione. Ma ascoltare le domande che pone nell’esercizio di queste sue funzioni rappresenta un’esperienza degna di Gogol.Tra lo stupore dei presenti, per lo più anziani, assorti ciascuno sui propri acciacchi, Arturo (chiamiamolo così) si guarda intorno, guarda lontano, magari verso di me che sono appena entrato in farmacia, e domanda: «Dico a voi: esiste la vita eterna?»; «E l’anima? Che cos’è l’anima?»; «E l’inferno e il paradiso dove stanno?». Sarà per il modo in cui vengono poste, ineffabile e inopportuno insieme, o forse per la suggestione dell’ambiente, i cui vasi e alambicchi evocano una scienza antica, parente dell’alchimia, nonché un po’ ostile a ciò che sa di religione, sta di fatto che le domande di Arturo suonano in realtà come subdole sentenze, rese ancora più urticanti dal fatto che il nostro farmacista mai oserebbe perdersi una messa. Al confronto, la perfidia dei farisei che domandano a Gesù di chi sarà moglie nel regno di Dio la donna che in vita è stata sposa di sette fratelli è roba da bambini. Eppure, ciò nonostante, questa farmacia sembra una sorta di accademia moderna, dove ignari clienti hanno la ventura di trovarsi coinvolti in conversazioni, bislacche quanto si vuole, ma su argomenti che interessano per davvero: l’immortalità dell’anima, la vita dopo la morte, il paradiso, l’inferno. Se vi aggiungiamo il sesso e la famiglia, ci sono forse argomenti che interessano di più?
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Una volta di tutti questi problemi parlava incessantemente la Chiesa. Ma oggi, persino in chiesa, dei problemi di Arturo si parla pochissimo. Le omelie si affidano più alla sociologia che alla teologia, più ai problemi di questo mondo che a quelli dell’altro. L’aldilà diventa così una specie di luogo immaginario dove semplicemente proiettiamo il nostro aldiquà: luci bianche e musica celestiale, tenebra e stridore di denti; immagini tratte forse dalla nostra fede cristiana, ma certo anche fuorvianti rispetto a ciò che di essenziale la fede ci dice in proposito. Nell’aldilà, infatti, vedremo finalmente Dio come egli è. Saremo faccia a faccia con lui. Il dialogo, il più delle volte faticoso, che però dura da sempre, tra Dio e gli uomini, troverà il suo compimento. Risplenderemo nell’eternità di Dio e lo faremo, non come uomini dimezzati, come anime separate dai corpi, ma come uomini nuovi. L’uomo vecchio che siamo stati sarà lo stesso che, guardando Dio, scoprirà la novità della propria natura immortale; scoprirà che la morte non è l’ultima parola, ma il nuovo inizio, il compimento, la risurrezione, l’ingresso definitivo nel regno
L’inferno e il paradiso non sono luoghi geografici, ma due dimensioni realissime della nostra persona, del nostro essere uomini, della nostra anima, intesa come ciò che ci fa essere ciò che siamo
Faccia a faccia con sorella morte di Sergio Belardinelli
Semplificando un po’, nel “Regno che non è di questo mondo” che raggiungeremo dopo la morte ci aspetta o la solitudine, l’ostinata determinazione a bastare a noi stessi, o lo stato di grazia di chi, sentendosi amato, si sente a sua volta capace di amare. Solo in questa prospettiva si può dare senso all’esistenza terrena di Dio dal quale ognuno di noi proviene, amato da sempre nella propria irripetibile unicità. Forse le domande di Arturo sull’aldilà sono così insidiose perché fanno conto sul fatto che, di solito, anziché trarre ispirazione dal «regno di Dio» per interpretare il nostro, assumiamo il nostro regno come misura di quello di Dio; pensiamo quest’ultimo come un luogo qualsiasi e l’eternità come una sorta di prolungamento del tempo, per esorcizzare magari la nostra paura della morte. Ma l’aldilà, il regno «che non è di questo mondo», non è una semplice raffigurazione consolatoria fuori del tempo e della storia; è piuttosto la sola condizione che rende l’aldiquà vivibile
e degno di essere vissuto. Quanto all’inferno e al paradiso, essi non sono luoghi geografici, ma due dimensioni realissime della nostra persona, del nostro essere uomini, diciamo pure, della nostra anima, se la intendiamo come ciò che ci fa essere ciò che siamo. L’inferno è la solitudine, la nostra ostinata determinazione a bastare a noi stessi; il paradiso è invece lo stato di grazia di chi, sentendosi amato, si sente a sua volta capace di amare. Mi rendo conto che sto semplificando parecchio, ma di certo in questa prospettiva le domande di Arturo diventano meno insidiose. La morte e la sofferenza di questa vita non cessano per questo di essere uno scandalo, né ven-
gono purtroppo eliminate; acquistano però un senso che ci aiuta ad accettarle e a condividerle, senza rimuoverle; un senso che le include in un universo simbolico che dà preminenza alla vita, che commisura ciò che siamo e facciamo a una vita che non finisce mai, esaltandone in questo modo, non soltanto la serietà, ma anche la bellezza. Ovviamente tutti temiamo la morte, ma, parafrasando un passo dello Zibaldone leopardiano, si potrebbe dire addirittura che più di tutti la temono coloro che non trovano ragioni sufficienti per vivere. E chissà che non sia questo il vero motivo per cui oggi ci affanniamo tanto a rimuoverla. Come dice Leopardi, «gli antichi, vivendo, non temevano il morire»; siamo noi, i «moderni», che invece «non vivendo, lo temono».
Guardare in faccia la morte è stato per secoli un gesto virile, forse l’ultimo gesto virile anche per le vite più umili. La «buona morte» coincideva con una morte consapevole, una morte da vivi; morire «vecchi e sazi di giorni», come Giobbe, costituiva la speranza di molti. Oggi l’ideale sembrerebbe quello di morire senza accorgercene, all’improvviso, magari sotto anestesia. Niente di strano dunque che questa mentalità da «anime morte» manifesti così poco interesse per le anime dei morti o per la vita dopo la morte. Preferiamo considerare questi temi come irrazionali, riducendoli ironicamente e strumentalmente alle ingenue cosmologie del passato, che prevedevano il paradiso «sopra», la terra in mezzo e l’inferno «sotto». È pur vero, però, che la realtà, fosse anche attraverso le insidiose domande di Arturo, continua incessantemente a interpellarci sul senso della vita e della morte, della gioia e della sofferenza; non si rassegna; ci costringe a pensare. «Hai trasformato questo antico luogo eretico in un volgare luogo erotico»: questo il rimprovero che Arturo si è sentito rivolgere spesso da un suo vecchio amico, nostalgico dei bei tempi in cui in farmacia si parlava soprattutto contro il papa e contro i preti e infastidito dal triviale disimpegno dei discorsi a sfondo sessuale che pare si facciano sempre più frequenti. Qualche volta, si sa, persino il paradiso viene associato a esperienze molto «carnali». E nella farmacia di Arturo in questo senso non si fanno eccezioni, anzi. Non è questo tuttavia il vero motivo per cui anch’io definirei questa farmacia un «luogo erotico». Se lo è (e lo è), è perché, contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare, il nostro Arturo, che di donne proprio non capisce nulla, è però animato davvero dall’eros. La sua profonda timidezza, il suo timore di far male anche solo a una mosca, la sua difficoltà a trattare le cose più elementari di questo mondo (a eccezione delle ricette) sono diventati col tempo il propellente di un’autentica passione per le cose ultime. E quando domanda dove stanno l’inferno e il paradiso, mi piace pensare che Arturo conosca meglio di tutti la risposta migliore.
MobyDICK
Rock Quando pagina 14 • 22 gennaio 2011
musica
DE PROFUNDIS per la discografia di Bruno Giurato
l’Iguana
he Iggy Pop sia rockstar dalle mille sorprese lo dimostra Kill City, disco che esce dall’oblìo arrampicandosi fin lassù, a sorpresa, tra le sue incisioni più riuscite. Ricapitoliamo. Nel 1975, a Los Angeles, James Newell Osterberg (all’anagrafe suona così) è uno zombie che cerca di dimenticare lo sfascio della sua band, gli Stooges, e rifarsi uno straccio d’identità. Raw Power, l’album del rilancio sponsorizzato da David Bowie, è acqua passata da due anni che gli sembrano un’eternità. L’Iguana perde i pezzi, si buca e beve vodka: per alleviare, confida a chi ancora osa stargli vicino, certi dolori alla schiena troppe volte stressata nei suoi masochistici concerti. In realtà, si sta impegnando a distruggersi. In extremis, decide di cambiar vita facendosi disintossicare in una clinica psichiatrica. Fra i pochi a fargli visita, oltre a Bowie, c’è il chitarrista James Williamson che aveva suonato in Raw Power. James ha una band, e gli propone di comporre qualcosa insieme. L’Iguana, allora, si mette a fare la spola fra la clinica e un garage adibito a sala d’incisione. Vivaddio, non riesce a star lontano
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Jazz
on incrociamo le dita, incrociamo i dati. Dato numero 1. Nielsen Music ha pubblicato uno studio dedicato al download a pagamento, e non sono buone notizie per la discografia. Non raggiunge il 20% la quota di utenti internet a livello globale che scaricano brani a pagamento, e sono ancora meno numerosi coloro i quali acquistano album digitali. Ma la cosa che colpisce di più è la mancanza di un nuovo standard per l’appassionato di musica: tanto sul piano delle modalità quanto su quello dell’hardware utilizzato il consumo è estremamente frammentato, ancora difficilmente riconducibile a un modello di business sostenibile che rimpiazzi il calo di ricavi causato dal crollo delle vendite di supporti fisici. Dato numero 2. L’ultimo monitoraggio di MarkMonitor a riguardo del trafffico che transita sui maggiori contenitori e distributori on-line di file pirata colloca in cima alla graduatoria della Top 100 RapidShare: con oltre 13 miliardi (leggesi tredici miliardi) di visitatori annuali. Per Megaupload ci sono quasi 5 miliardi di visite. La novità è il regresso di The Pirate Bay, superato da Hotfile, 4Shared e Mediafire. Segno, fanno notare gli specialisti, di un cambiamento di tendenza acceleratosi negli ultimi mesi: quantomeno in termini di traffico (se non di scambi effettivi) i siti di file-hosting sopravanzano ormai decisamente i siti BitTorrent. Una volta andavano bene anche i vari Emule, Limewire, Frostwire eccetera, adesso a quanto pare i siti di file-hosting fanno sempre più da padrone. Dato numero 3. Visto in negozio di dischi l’ultimo dei Negramaro, Casa 69, in vendita alla cifra di 23 (leggesi ventitrè) euro. Incrociare i dati fa vedere quanto sia inutile incrociare le dita. La discografia l’è morta, e si sta pure suicidando. Punto.
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si ispirava agli Stones di Stefano Bianchi
zapping
dal rock e il rock lo ricompensa con pezzi nuovi di zecca (Kill City, Consolation Prizes, Lucky Monkeys, Beyond The Love, Sell Your Love...) più Johanna e I Got Nothin’ che gli Stooges avevano già sperimentato dal vivo. Pronto il nastro, Williamson lo propone ai discografici ma nessuno si azzarda a lavorare con un artista che definire bollito sarebbe un eufemismo. Le canzoni, finite in un cassetto, rivedono la luce nel ’77 dopo che Iggy si è «ripulito» a Berlino rilanciandosi, complice Bowie, con The Idiot e Lust For Life. James Williamson riesce a far pubblicare Kill City ma ottiene in cambio un flop: i suoni risultano troppo impastati e la partita che l’ellepì pretenderebbe di giocarsi col nuovo repertorio di Iggy Pop, è persa in partenza. Trentaquattro anni dopo, rimasterizzato a dovere, Kill City mostra finalmente tutto ciò che di buono aveva seminato: un rock schietto ed efficace, spesso a immagine e somiglianza dei Rolling Stones, ideale anello di congiunzione fra la violenza sonica degli Stooges e l’elettronica berlinese. Con questo repertorio che dà perfino spazio al sax, all’armonica a bocca e a due brani strumentali
(Night Theme e Master Charge) persuasivi come temi da film, Iggy Pop cerca (e si conquista) una rinascita il più possibile «pulita» puntando su giri chitarristici (nel pezzo che intitola il disco) che sarebbero andati a genio ai Van Halen; mostrandosi il più «stoniano» possibile nel passo spinto stile Brown Sugar di Beyond The Law, nello sviluppo melodico alla Angie di No Sense Of Crime, nel voler somigliare a Mick Jagger in una Lucky Monkeys che sembra uscita da Exile On Main Street. In parecchi passaggi del disco, l’Iguana s’addolcisce come un agnellino: ascoltare per credere SellYour Love, ballata dai riverberi soul incorniciata da un sassofono «jazzy»; la corposa Johanna, di nuovo sax e un pianoforte in primo piano; le implosioni e le esplosioni di I Got Nothin’, coi suoi cori alla Knockin’ On Heaven’s Door di Bob Dylan e qualche scheggia di glam rock. Annota Iggy nel libretto del cd: «Riascoltandolo, apprezzo ciò che questo disco vuole esprimere: validi concetti e musica ben concepita. Kill City non appartiene a nessun genere in particolare, è in assoluto fra i primi album indipendenti e molti musicisti ne hanno tratto ispirazione. Spero vi piaccia». A me è piaciuto. Ve lo consiglio. Iggy Pop & James Williamson, Kill City, Alive Records/Bomp!, 18,90 euro
Il memorabile tocco di Tommy Flanagan
stato pubblicato recentemente da Solar, casa discografica spagnola, un cd di grande interesse. Si tratta delle incisioni che un trio di eccezione, quello formato dal pianista Tommy Flanagan, che fu anche uno dei migliori e più assidui accompagnatori di Ella Fitzgerald, dal contrabbassista Wilbur Little e dal batterista Elvin Jones, aveva realizzato a Stoccolma il 15 agosto 1957 e pubblicate originalmente da Prestige in un long playing ormai da tempo introvabile. Bene dunque ha fatto questa casa spagnola a riproporre quelle incisioni. Il cd non solo comprende tutti i brani che erano inseriti nel long playing, ma anche ben sei alternate takes di quattro dei nove brani incisi dal trio. Di cosa si tratta? Gli appassionati e non solo sanno che nel corso di una seduta di incisione spesso, di uno stesso brano, vengono realizzate due o più versioni. In seguito gli stessi
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di Adriano Mazzoletti musicisti o il responsabile artistico decidono quale delle diverse interpretazioni è la migliore. Ma non è detto che quella scelta sia sempre indiscutibilmente la più riuscita, perciò a volte, da quando è nato il compact disc, vengono inserite anche quelle a suo tempo scartate. È il caso di questo disco di Tommy Flanagan dove è possibile ascoltare tre versioni di Chelsea Bridge, la stupenda composizione di Billy Strayhorn, che fu il fedele collaboratore di Duke Ellington. Due di Willow Weep for Me, celebre tema che Ann Ronell compose nel 1932 reso popolare da Cab
Calloway e infine due di Verdandi e tre di Delarna, temi composti, questi, dallo stesso Flanagan. E per la gioia degli appassionati il disco comprende anche un paio di «bonus tracks», provenienti da altri due album, uno che Flanagan incise, questa volta a New York il 18 aprile 1957, con John Coltrane (How Long Has This Been Goin’ On), l’altro con Jay Jay Johnson, 14 maggio dello stesso anno (So Sorry Please). L’ascolto delle diverse esecuzioni di Chelsea
Bridge o di Willow Weep for Me dimostrano ancora una volta la grande immaginazione nell’improvvisazione delle diverse linee melodiche di cui era capace questo pianista le cui origini stilistiche risalgono al bebop, ma che - a differenza di altri colleghi della stessa scuola - viene anche ricordato (Flanagan è scomparso dieci anni fa a settant’anni) per il tocco delicato e insieme incisivo, il gusto impeccabile e il controllo perfetto della materia sonora. Ciò malgrado, la sua fama è stata di gran lunga inferiore al suo valore. C’è da augurarsi che la nuova pubblicazione di questo splendido disco possa finalmente conferire - anche se postumo - il giusto riconoscimento a questo straordinario musicista. Tommy Flanagan Trio, The Complete Overseas Session, Solar Record, Distribuzione Egea
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arti Mostre Il primato della Pittura alla prova del Nano
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di Marco Vallora
ome promesso nell’altra puntata, ecco discendere dall’alata astronave-bonami (architettata per pompare il teschietto tempestato di strass di Hirst a Palazzo Vecchio) e ritrovarci, «prosasticamente», tra le carni vilipese e lucenti del Bronzino. Accusate dallo stesso in-curatore, in questo clima di velinismo impazzito e di immondi mercimoni, di «fornicare» col Pontormo! Capisco che ognuno ha la Fede che si merita, capisco che Lele Mora è il nuovo Vasaricortegiano di Palazzo, ma scendere verso un lenocinio mentale così miserando, d’impostare una recensione intorno al sillogismo «Bronzino sta a Pontormo come Corona a Lele Mora» non può passare impunito. E davvero ci perseguita.Tenendo poi conto che la pochezza critica che, sola, si sa accompagnare al catalogotrousse del Love vattelapesca di Hirst, non sa nemmeno farcire d’altro le pagine sberluccicanti del volumetto, se non ricorrendo al riempitivo d’un ridicolo apparato aziendale mercantile, sopra il taglio dei diamanti e il loro valore, tipo orafo di Valenza o brochure da grand’hotel cheap. Che miseria! Lasciamoci ancora sorprendere un attimo nello stanzino delle scope miliardarie all’aggiornato (uh, che coraggio!) Palazzo Vecchio. Perché filtrando, per via di code e benevolenza, a ritroso, dall’uscita, almeno di lì si ha un curioso effetto di rifrazione, nella teca di plexiglass, per cui il teschio pare galleggiare ectoplasmatico, in una nebbia olografica. Effetto un po’ più suggestivo di quello diretto-pacchiano, da diva anni Trenta. Ma certo il geniale Artista non ha nemmeno avanzato questa trovatina da niente, ora che serialmente s’è già buttato a ricoprire di stelline ricche il teschiolino di bimbo, dio che poesia, che pathos! chissà che brivido adesso le dirigenze innamorate della
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Moda
Repubblica Toscana: lo proietteranno sulla vetta pendente della Torre di Pisa, fosforescente anche di notte? Spostiamoci dunque in ambito ben più ricco d’altra luce e intelligenza. Siamo tornati nella magnifica stanza del Paragone, ove Bronzino si confronta con le altre arti, «si grande Apelle, e non minore Apollo», come conviene anche il Vasari, che a lui concede, miracolosamente, quello che non tollera in Tiziano: la capacità di manifestare la verità viva, tangibile della vita. «Tanto bella che non ha pari, e par che viva». Che respiri: incredibile come Bronzino, pur nella sua corazza di pietra dura, riesca a perforare i secoli e uscire immacolato, come l’abate Faria, in un’aura che pare già
Biedermeier, quasi winterhalteriana, con la ipotizzata «Figlia di Matteo Sofferoni», un po’ tirolese. Ma non bonamizziamoci troppo, e torniamo al suo mondo, quello appunto, del Paragone tra le arti, proposto in quegli anni da Benedetto Varchi («sodomita» convinto e già allora deriso dai curators pecorecci dell’epoca) sul primato della Scultura o della Pittura. Dilemma posto ai grandi artefici del momento, da Pontormo a Cellini, da Vasari a Michelangelo, che tiene ovviamente per la scultura. Mentre i pittori (con il ritrovato dei vari specchi en abîme) sostengono che si può benissimo ottenere «tutte le sorti delle vedute», anche posteriori senz’«avere camminamenti attorno». Richiede il parere pure dell’Apollo Bronzino, ottimo poeta non solo di versi comici e berneschi (delizioso quello dedicato alle cipolle o a un formaggio popolare) ma anche di rime petrarchesche. Lui risponde con una lunga lettera, che beffardamente non si conclude. Non sappiamo le ragioni, ma certo le intuiamo, grazie a uno di quei giochi d’arguzia che fan così remota quell’epoca d’oro dai nostri giorni lele-mora. Conclude e risponde, con l’impressionante doppio ritratto del nano Morgante (nelle foto), che ha un davanti e un dietro, e pure un farfallino malizioso sul sesso (per far felici gli imbecilli del sarcasmo) come a dire che anche la pittura può farsi aggirare, e in più concede una meditazione sul tempo che fugge. Davanti la caccia è appena iniziata, con i volatili di richiamo sguinzagliati; nel retro è scesa la notte, la selvaggina s’addensa esanime e la civetta torna a riposare. E tutt’intorno, che meraviglia di lampi di genio, con quelle maschere che paiono vive e quelle carnagio-
ni che sono di diaspro burroso e quelle grottesche d’ebano, che sembrano animarsi per cine-sortilegio, e la Venere blu del collezionista accigliato, che diresti già un’invenzione di Yves Klein. E la signorina-tumistifi Laura Battiferri, che le batte davvero fredde a tutto quel contorno di natiche e debosce medicee, nonostante sia la signora Ammannati, e quel ditino luterano e bisbetico, che lascia la sua orma irata e umidiccia, sul suo immancabile petrarchino. Evocando l’ironia salace dell’Aretino: «E io, non mi potendo saziare di vedere i cortigiani, perdea gli occhi per i fori della gelosia, vagheggiando la politezza loro in quei sai di velluto e di raso, con la medaglia nella berretta e con la catena al collo, col petrarchino in mano, cantando con vezzi».
Bronzino. Pittore e poeta alla corte dei Medici, Firenze, Palazzo Strozzi, fino al 24 gennaio
Adesso l’unisex si declina al maschile
a giacca da smoking sui jeans over, cavallo basso (trenta centimetri) e fondo stretto. Camicie bianche e maniche cortine che si fermano sopra il polso (Dolce & Gabbana), spalle smilze per gli abiti in pelle (Roberto Cavalli): arriva una moda fatta più per i figli che per i padri. Una moda senza pietà per i rotoli di ciccia e le maniglie dell’amore, una moda che esige un lato B come si deve, e rende obbligatoria la palestra. Le 39 sfilate della moda maschile puntano sull’eccentricità e sull’ironia, altro che classici. T-shirt trapuntate e maglie imbottite, montgomery extralarge abbinati ai pantaloni a gamba stretta (Burberry), tessuti grossi, mantelline trasparenti anni Sessanta. Questo ragazzo elegante, un po’dandy, ha rinunciato all’abito formale (non ci sono più occasioni degne) perciò andrà benissimo la maglia di Prada, nella versione girocollo e polo al posto della camicia, o al massimo una coreana abbottonata dietro, a piccole pieghe, color pastello (rosa, addirittura) in mezzo a tanto nero, blu e grigio e qualche
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di Roselina Salemi abbinamento inatteso tra lurex e camoscio. Ma che ragione c’è di rinnovare il guardaroba se il mondo rischia di finire nel 2012? La moda non ci crede e perciò si discute animatamente sul concetto di eleganza: troppe banalità, contesta Giorgio Armani. Lui punta su dettagli, pantaloni con il bordo di maglia al fondo e lunghi cappotti di cammello, montone e pelle al posto dei tessuti tecnici, polacchini di vernice chiara, effetto «luce e lusso». E poi possiamo anche continuare a raccontare i bei tessuti di Ermanno Scervino, i suoi meravigliosi jersey, i suoi giovanotti che vanno in ufficio con la 24ore consumata, rubata al papà, ma impeccabili nei cappotti double indossati su leggerissimi piumini-duvet e camicie denim corrose dal tempo. Hanno un parka doppiato con la maglia e si sono convertiti alla pelliccia ecologica che avvolge i colli dei cappotti e i revers delle soffici maglie piumino jacquard. E per la sera? Smoking in maglia di metallo; giacche in velluto bordate in nappa plongé con gilet incorporato e ricamato a piccolo punto. Possiamo continuare con Missoni, Ferragamo, Bottega Vene-
ta che presenta il colore «espresso» (un marrone molto carico) e via di seguito, e scoprire in tutti lo stesso sforzo titanico di offrire nuovi incantesimi e nuovi status symbol che mischiano, accumulano, raddoppiano. Ma dal mazzo di carte, viene fuori sempre la stessa immagine, androgina, indefinita, e forse non è un caso che Miuccia Prada si sia presentata con una giacca in camoscio da uomo, disegnata e indossata all’istante. C’è una vanità autenticamente femminile in questi maschi che amano gli anfibi, ma anche le maglie jacquard con il filo metallico e le calze lunghe, luminescenti. Andiamo senza drammi verso l’unisex, in tutti in sensi. Vivienne Westwood, dopo averli fatti sfilare, anni fa, con la gonna o lo chignon, adesso mette il rossetto ai suoi ragazzi. Prima era una provocazione, adesso succede davvero. Che sfumatura preferirà lui: gambero o peonia?
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Nel ’38 già scriveva di Ungaretti, Montale, Campana e Sbarbaro. Pronto ad approfondire le sollecitazioni provenienti dalle più importanti culture europee, è stato un po’ sommariamente definito come il critico dell’ermetismo. Oggi, a cento anni dalla nascita e a dieci dalla morte, Carlo Bo appare come uno dei pochi scrittori del Novecento difficili da sostituire. Per il suo ingegno, la sua sapienza, la sua umanità, la sua profonda spiritualità…
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Quella fede ne
di Leone Piccioni ento anni dalla nascita e dieci dalla morte di Carlo Bo, uno dei pochi critici e scrittori del Novecento cha appare oggi molto difficile da sostituire non solo per il suo ingegno, per la sua cultura, la sua umanità ma per tutte le frequentazioni letterarie dei suoi lunghi anni di vita. Un percorso assai lungo e difficile da ripercorrere, e non certo a sufficienza negli spazi di un articolo o di un breve saggio. Ci ha provato nel ’94 Sergio Pautasso con una lunga antologia critica di Bo pubblicata da Rizzoli, intitolata, proprio come un suo famoso saggio, Letteratura come vita, e, quel che più conta, con la prefazione di Jean Starobinski alle 1600 pagine del volume in cui scorrono saggi di Bo sulla letteratura italiana, quella francese, quella spagnola, gli scritti spirituali, quelli di varia umanità, certi suoi segreti personali.
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Carlo Bo è stato un po’ sommariamente definito come il critico dell’ermetismo. Ecco cosa scriveva in proposito: «Vivevamo in una realtà che non ci soddisfaceva: non c’era niente che ci soddisfacesse, se non la poesia, la letteratura: la poesia ci pareva, forse per eccesso, l’unica via di salvezza. I termini di raffronto erano Mallarmé, Ungaretti, Montale, Éluard. Dalla guerra ci vennero altri interessi e altre preoccupazioni. La nostra opposizione al fascismo era totale, ma in molti di noi, in fondo, non era esattamente motivata: le vere motivazioni fu la guerra (almeno dalla crisi di Spagna) a farcele trovare. Ci trovavamo ad agire in un panorama della letteratura nostra ed europea che era bell’e fatto: si poteva naturalmente sbagliar di grosso e rifiutare la vera letteraanno IV - numero 3 - pagina VIII
tura; ma sarebbe stato un errore grave, un vero abbaglio, anche se tanti l’hanno preso. E c’eran molti punti di riferimento stabili, che sono saltati per aria, non ci sono più. Croce era volutamente tenuto fuori dai nostri confini: lo leggevamo ma lo escludevamo per rifiuto, specialmente in odio ai crociani, senza venir meno al grande rispetto che lui si meritava. Ma lo stesso spirito di supinità che si può riscontrare oggi da parte di molta cultura nei confronti della moda, lo aveva la cultura del tempo rispetto a Croce. Per credere nella letteratura, si doveva rompere con Croce: lui stesso, del resto, aveva rotto con la letteratura, da un pezzo, rifugiandosi nella difesa dei suoi gusti vecchiotti». Nel ’39 teorizza il tema dell’assenza nella letteratura: è nel libro L’assenza, la poesia: «Parlando di assenza intendevamo esprimere, o meglio, io intende-
nica possibile verità del momento». Citazioni importanti sulle quali è bene soffermarsi perché liberano quel clima e quel tempo da ogni retorica, da ogni materialismo, da ogni realismo per toccare direttamente i sentimenti della spiritualità, dell’amore,
condizione - scriveva Bo a proposito della letteratura e della vita - ma soltanto la prima, l’unica ragione di essere». Alla letteratura da svago o da esercitare «nelle pause della vita», Bo non aveva mai creduto. «Per noi sono tutte e due e in egual misu-
La poesia, il testo letterario erano per lui la vita stessa, come recita il titolo di un suo saggio fondamentale. «La parte migliore e vera della vita...», che non vive al di fuori dell’anima e cerca la verità vo esprimere, il distacco da una realtà che non ci soddisfaceva e ci umiliava. Tutta la polemica proseguiva Bo - tra impegno e disimpegno che sarebbe scoppiata dopo la guerra aveva le sue origini proprio in quel tempo… Assenza era una specie di negazione e di rifiuto della società del tempo con tutte le sue cadute. In questo vuoto che apparentemente veniva creato dall’assenza, dalla filosofia o religione dell’assenza, ecco che assumeva risalto invece la poesia, intesa come l’u-
del dolore, della nuova speranza («voce festiva della speranza»).
Del ’38 sono gli Otto studi dedicati - pensiamo anche un po’ al gusto della scelta per quell’epoca - a Ungaretti, Montale, Campana, Serra, Boine, Jahièr e Sbarbaro con l’aggiunta di quella esperienza contenuta nel saggio Letteratura e vita che costituì un po’il vademecum per tanti suoi coetanei e persone più giovani. «Non ci preoccupano tanto i due termini della nostra
ra strumenti di ricerca e quindi di verità: mezzi per raggiungere l’assoluta necessità di sapere qualcosa di noi, o meglio di continuare ad attendere con dignità, con coscienza una notizia che ci superi e ci soddisfi… Per un letterato non c’è che un’unica realtà, questa ansia del proprio testo verso la verità; il resto è stata materia nobile e ormai abbandonata. La letteratura è la vita stessa e cioè la parte migliore e vera della vita. È una letteratura d’entusiasmo: e non vive
al di fuori dell’anima». E concludeva: «Non si pensi che questa letteratura rifiuti la vita, no, l’accetta soltanto in un grado di maggiore purezza e come simbolo svelato».
Bo nacque a Sestri Levante e non mostrò al principio dei suoi studi nessuna particolare preoccupazione per la letteratura. Era un bel giovanotto, abilissimo nuotatore. «Da mio padre mi giungeva - racconta - il senso, il sacro rispetto della libertà individuale» (di qui l’antifascismo), «da mia madre mi veniva il senso religioso che in parte proveniva da un sentimento profondo cui in seguito ho cercato di ispirarmi e di restare fedele» (di qui gli scritti di spiritualità e di varia umanità). A Genova, in seconda liceo, incontra come insegnante di greco Camillo Sbarbaro. Un incontro che cambia la sua vita. Nel ’29 va a Firenze per continuare gli studi e lì incontra tra gli studenti Luzi, Traverso, Landolfi («diventato uno dei migliori scrittori italiani se non addirittura il migliore») e Poggioli. Esperti di letterature straniere: france-
22 gennaio 2011 • pagina 17 Carlo Bo con Giuseppe Ungaretti (foto Archivio Università degli Studi “Carlo Bo”). L’immagine è tratta dal libro di Giorgio Tabanelli “Carlo Bo, Il tempo dell’ermetismo” appena pubblicato, in occasione del centenario della nascita del grande critico, da Marsilio Editore. A sinistra, il Palazzo Ducale di Urbino e Bo col suo inseparabile sigaro
ella letteratura letteratura francese del ’40, il gran libro su Mallarmé del ’45 e La nuova poesia francese del ’52. Sulla letteratura spagnola si prende il grande merito di aver tradotto per primo in Italia le poesie di García Lorca nel ’40, mentre del ’48 è il libro Carte spagnole. Non pensiamo di aver elencato tutte le opere di Bo dedicate alla letteratura ma credo si possa passare per importanza agli scritti di spiritualità, ricordando almeno Siamo ancora cristiani? del ’64, Don Mazzolari e altri preti del ’79 e Sulle tracce del Dio nascosto dell’84, che raccoglie sessantotto articoli scritti tra il ’60 e l’80 per Il Corriere della Sera. Si chiede Bo: «Che cosa ho voluto fare con gli scritti spirituali? Sono partito in
Si rimproverava il vizio di cominciare una battaglia e subito dopo abbandonarla. Diceva di sé: «La persona ha mostrato le stesse insufficienze dello scrittore, la peggiore condanna per chi si professa cattolico» se, spagnola, tedesca, russa. E a Firenze c’è anche il gruppo delle Giubbe rosse, caffè frequentato dai letterati del tempo, da Montale e Gadda, e c’è il gruppo della rivista cattolica Il Frontespizio con Bargellini, Betocchi, Lisi. Da questo crogiuolo i vasti, penetranti temi della ricerca di Bo.
Eccoci ai suoi libri: per la letteratura italiana antica e contemporanea oltre gli Otto studi, Nuovi studi del ’46, Della lettu-
ra e altri saggi del ’53, nel ’64 l’importante scritto L’eredità di Leopardi, nel ’67 La religione di Serra, tutti scritti preceduti da un’antologia dei Lirici del Cinquecento curata da Bo già nel’41. Si aggiungano le inchieste sul Neorealismo del ’51, sul Surrealismo del’44. Per la letteratura francese, il saggio su Jacques Rivière, sua tesi di laurea, pubblicato nel ’35, l’ampio libro Delle immagini giovanili di Sainte-Beuve del ’38, i Saggi di
Il ricordo di Ravasi nella “sua” Urbino arlo Bo si è laureato all’Università di Urbino nel 1937. Nel ’39 ebbe la cattedra di Letteratura francese e nel 1950 divenne Rettore di quella Università, che oggi porta il suo nome, e lo restò fino alla morte, nel 2001. Venne a ogni scadenza puntualmente riconfermato. In occasione del centenario la “Fondazione Carlo e Marise Bo per la letteratura europea moderna e contemporanea”, attiva dal 2000 e promossa dall’ateneo urbinate, dal Comune di Urbino e dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Pesaro, ha organizzato una serie di manifestazioni che hanno preso avvio già lo scorso novembre e proseguiranno fino a
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maggio (info: www.fondazionebo.it). Importante l’appuntamento del 25 gennaio, data di nascita di Bo: Monsi-
gnor Gianfranco Ravasi parlerà alle ore 17, al Teatro Sanzio (in Corso Garibaldi), di “Spiritualità e scrittura di Carlo Bo”.
sordina e dalla letteratura pura, ma devo dire che questo capitolo mi ha aiutato a rientrare nel mondo e quindi a cercare delle parole che tutti fossero in grado di comprendere… Ho coscienza della fragilità e spesso della fatuità delle mie convinzioni. Per poter dire di aver fatto davvero qualcosa bisognerebbe avere almeno delle risposte dai lettori; ora di risposte ne ho avute, ma non oserei sostenere di essere diventato un suggeritore riconosciuto». Scrive ancora. «La meditazione diventa ben più amara e crudele. Alludo allo spirito di conseguenza che mi è mancato, al vizio perpetuo di cominciare una battaglia e subito dopo abbandonarla. La persona ha mostrato e ingigantito le stesse insufficienze dello scrittore, e questa è la peggiore condanna per uno che si professa cattolico». E scrive di MariBernanos, tain, Green, La Pira, Don Orione, Don Mazzolari. Ho ascoltato anni fa una commemorazione fatta da Bo su Don Mazzolari, che aveva conosciuto e frequentato di persona. Concluse quella commemorazione quasi piangendo e disse di aver incontrato nella vita tanti uomini importanti, scrittori, artisti, politici ma che in Don Mazzolari aveva trovato un Santo e quando si incontra un Santo tutti gli altri valori perdono quota e sembrano ben poca cosa.
Studente universitario a Firenze, allievo di De Robertis, sentii nominare da lui i due nomi nuovi della critica che promettevano risultati importanti: Carlo Bo e Gianfranco Contini. Contini era avviato soprattutto alla ricerca filologica: arriverà a essere uno degli studiosi internazionali più grandi. Bo oltre agli studi sulla letteratura tendeva - come si è detto - a una ricerca di varia umanità e anche di spiritualità. L’ho conosciuto nel ’48 dopo le elezioni politiche vinte dalla Dc, mentre dirigevo la terza pagina del Popolo (direttore Mario Melloni). Giancarlo Vigorelli, di cui ero da tempo amico, portò Bo in redazione al giornale e mi resi subito conto di aver incontrato in lui un uomo di grandissima cultura, di febbrile sensibilità e di grande simpatia. Allora Bo firmava in esclusiva su un quotidiano milanese, ma accettò di collaborare a quel «mio» Popolo con una sigla.Arrivò quasi subito prima alla Stampa e poi al Corriere della Sera fino alla morte. Da allora la nostra amicizia si fece più grande e più confidenziale. Non c’era volta che Bo venisse a Roma che non ci vedessimo per fare colazione sempre allo stesso ristorante che frequentò tutta la vita e che tutt’oggi frequento anch’io. Era un intenditore di buona cucina anche se i suoi pasti erano molto leggeri e non beveva vino. Se io andavo a Milano, come avvenne per diversi anni perché insegnavo allo Iulm, ogni lunedì mattina ero a colazione a casa sua e della sua cara e affascinante moglie, la scrittrice Marise Ferro. Bo viveva tra Milano, Urbino a Sestri Levante, suo luogo di nascita.Tre sedi e tre straordinarie e vastissime librerie. Tutti i suoi libri Bo li ha regalati all’Università di Urbino, e adesso costituiscono il fondo della «Fondazione Carlo e Marise Bo per la letteratura europea moderna e contemporanea». Ordinava i libri anche in Francia per essere più al corrente della produzione letteraria. A Urbino Bo andò in cattedra nel ’39 come professore di francese e, dal ’50 fino alla morte ne fu Rettore. Era circondato da ottimi collaboratori, insegnanti, assistenti: ricorderò sempre Ursula Vogt e, almeno, il professor Pino Paioni. Da piccola università di provincia Urbino divenne una grande università molto frequen-
tata. Bo creò i Collegi che ospitavano gli studenti e fece ricostruire molte aule universitarie. Anche la città ne sentì i benefici. Passava le giornate all’università e alla sera si poteva sempre trovare al Circolo con gli amici. Nella conversazione appartiva abbastanza taciturno. Ma certe sue occhiate, certi suoi sorrisi erano molto più eloquenti di tante parole: conversava con gli occhi. A Milano la domenica mattina andava alla messa del Duomo anche per ascoltare le omelie di Padre Davide Maria Turoldo. Anche a Sestri d’estate Bo lavorava, specialmente la mattina, e poi passava un po’di tempo al caffè con gli amici e i cari nipoti. Non ricordo che abbia mai scritto una «stroncatura». Si doveva - diceva - avere almeno rispetto del lavoro degli altri anche se non riusciti. Era velocissimo nel pensiero e nella scrittura. Ricordo una colazione con lui a Vicenza: mentre si mangiava arrivò una telefonata del Corriere che chiedeva un articolo urgente: Bo si fece portare la carta e restando al tavolo scrisse di getto il suo pezzo che poi trasmise subito per telefono al giornale.
Amava molto farsi raccontare (anche più volte) certe battute che conoscevo specie di Gadda e di Cardarelli. Delle prime ero stato testimone lavorando in Rai per anni con il Gran Lombardo («uno scrittore detto La Fava annunciò di aver scritto un poema sulla libertà: preferisco la schiavitù» dichiarava Gadda). Le battute di Cardarelli mi venivano soprattutto ripetute da Vincenzo Talarico ed Ennio Flaiano (ho raccolto quelle battute da Pananti a Firenze in due libretti, Cardarelliana e Identikit dell’ingegnere). Era anche lui un efficace battutista. A Urbino durante le agitazioni studentesche si sentì accusare in una riunione dagli studenti: «È colpa tua, Bo, se i Collegi non funzionano; è colpa tua Bo per la mensa, è colpa tua Bo per la qualità delle lezioni…». Imperturbabile, con il suo eterno sigaro in bocca, ascoltava; poi si rivolse all’esaltato studente solo per dirgli: «Chiamami Carlo!». (Similmente, in modo opposto, a quella esclamazione di De Gasperi rivolta al giovane comunista Pajetta che inveiva contro di lui dandogli del tu: «Giovanotto, mi dia del lei!»).
Narrativa
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libri
Niccolò Ammaniti IO E TE Einaudi, 116 pagine, 10,00 euro
elle classifiche dei libri (eterogenee) venduti, pre e post natalizie, resta tra i primi posti, come si usa dire «stabile», Io e te di Niccolò Ammaniti. Non è un caso eccentrico per lo scrittore romano che è diventato negli anni un punto di riferimento, non solo generazionale, per un sostanzioso numero di lettori. Io e te è un lungo racconto di formazione, genere già ampiamente esperito da Ammaniti, che centra in pieno l’universo adolescenziale attraverso l’accostamento deformante della lettura adulta. I suoi libri, che inaugurarono la stagione cannibale, resistono al di là dell’etichettatura del momento mantenendo una cifra espressiva e stilistica sempre ad alti gradi di incandescenza. La formazione dei protagonisti, per lo più osservata col tratto crudo di un realismo appiccicato alla vita - vite degradate, periferiche o semplicemente allo sbando non rinuncia, nemmeno in questo ultimo esile libro, a concentrare l’energia in un vero e proprio urlo finale. L’urlo di personaggi compressi e inadatti alla vita normale. In apparenza la linea narrativa sembra essere ancora un richiamo di quello straordinario romanzo che è Io non ho paura, che aveva però nella prima persona la dirompente (senza intermediazioni) necessità di essere brutale. Il protagonista di Io e te è come se avesse gelato quella carica corrosiva e spietata, per rendersi, pur nell’implacabilità del malessere, osservatore del proprio e dell’altrui destino. Lorenzo ha quattordici anni, è afflitto dal suo essere diverso dai gruppi di altri adolescenti, sfiora o esibisce una forma di autismo, di autoisolamento dalla realtà circostante. Ma lungi dall’esser malato, Lorenzo è solo diverso dagli altri, è già grande e si muove con difficoltà nel mondo di grandi e ragazzi. Scorgendo l’affanno dei genitori finge di essere normale, si normalizza, e s’inventa una settimana bianca a Cortina con i compagni di scuola. Nel senso che il gruppo parte e Lorenzo resta a Roma. E come un ragazzo d’oggi, e di famiglia, non s’allontana troppo da casa, s’infila nella cantina di casa gabbando il controllo del portiere. Cosa fa un ragazzo in una cantina, in realtà molto ben allestita provvista di libri, utensili, un giaciglio e
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Riletture
Se la vita si rivela in cantina Ancora nella linea del racconto di formazione e dell’universo adolescenziale, il nuovo romanzo di Niccolò Ammaniti di Maria Pia Ammirati
vari prodotti a lunga conservazione? Impara a vivere, certo, ma impara anche a osservare, a gestire il tempo, lo spazio ridotto attorno a sé. Si tiene in contatto con la madre (il padre resta un personaggio al limite dell’assenza) attraverso telefonate, quelle che si fanno tra una madre e un giovane figlio, immaginando che tra i due ci sia molta distanza. Lorenzo sostiene la finzione, si inventa di sciare e mangiare, si inventa la casa dell’amica da cui dovrebbe stare. Invece madre e figlio sono vicini, e Lorenzo comincia ad abituarsi alla solitudine, ai rumori che arrivano da fuori e dall’edificio. Il lettore si aspetta una svolta, e osserva il giovane protagonista che a sua volta è in osservazione. Poi accade qualcosa. Nella cantina capita anche la sorellastra di Lorenzo, una ragazza da tempo in lotta con la famiglia perché drogata. Il primo incontro tra i due è un match tra due esseri animali che si contendono la privatezza di uno spazio, poi Lorenzo diventa il medico della sorella. Esce per rubare medicine e cibo, si trova a combattere il peggio che possa capitare a 14 anni, la droga e i suoi effetti. La solitudine di Lorenzo, protetta e chiusa dai genitori, si spacca, Lorenzo entra nel mondo. Quando la sorella sparisce per inseguire sogni e vite impossibili, Lorenzo rientra in casa. La gita in montagna è finita. Una settimana di vacanza sarà servita a Lorenzo per aprire un varco nel suo mondo chiuso, ma non apre la via d’uscita a chi sta più male di lui. Il racconto, che è tripartito secondo una struttura di prologo, svolgimento e chiusura, si apre e si chiude con Lorenzo adulto dieci anni dopo i fatti della cantina. Dopo dieci anni la sorella è morta e giace in una morgue di montagna. Lorenzo la trova sdraiata sul marmo, fredda e bianca, ma ancora bella come ai tempi della settimana bianca passata in cantina.
Italiani, strana gente (da Carducci a Cazzullo)
nessuno più degli italiani piace parlar male degli italiani. Gli italiani si possono dividere in due grandi categorie (anche se il gioco può prevedere più divisioni e raggruppamenti): gli arcitaliani e gli antitaliani. Ma qui converrà distinguere semplicemente tra italiani che parlano male degli italiani - e questo è un vizio nazionale - e italiani che fustigano le cattive abitudini e il «carattere» degli italiani, e questa è una virtù. Una distinzione che faceva, tra gli altri, Indro Montanelli quando diceva che i critici e i detrattori del carattere nazionale, tra i quali il grande giornalista si iscriveva a giusto titolo, sono i primi difensori dell’Italia. Nell’anniversario dei centocinquanta anni dell’Unità conviene rileggere, tra le altre cose, anche la grammatica italiana, la lingua degli italiani, le parole che gli italiani usano per capirsi, fraintendersi e naturalmente parlar male di se stessi. Ce ne offre l’occasione Pietro Trifone con il suo ironico e leggero e perciò istruttivo libro intitolato Storia linguistica dell’Italia disunita, edito da Il Mulino (che fa il verso, capovolgendolo, ma con rispetto, al famoso libro di Tullio De Mauro Storia linguistica dell’Italia unita).
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di Giancristiano Desiderio Massimo D’Azeglio nel suo celebre I miei ricordi scrive la nota frase: «Pur troppo s’è fatta l’Italia, ma non si fanno gli italiani». Frase conosciuta nella sua versione contratta: «Fatta l’Italia, bisogna fare gli italiani». Come che sia, D’Azeglio nel suo libro di memorie introduceva l’argomento con una frase meno nota ma non meno vera: «I più pericolosi nemici degl’Italiani non sono gli Austriaci, sono gl’Italiani. E perché? Per la ragione che gl’Italiani hanno voluto fare un’Italia nuova, e loro rimanere gl’Italiani vecchi di prima». Insomma, tanto per parlar male di noi e non perdere l’abitudine, gli italiani sono sempre gli stessi, non cambiano mai. Per dirla con Federico De Roberto nei Viceré: «Ora che l’Italia è fatta, dobbiamo fare gli affari nostri». Il malcostume degli italiani di parlar male di sé non ha risparmiato neanche la stessa Italia che è quasi subito diventata Italietta. A chi non andava giù l’Italia di Giolitti - che fu un’età di progresso - la definiva l’Italietta giolittiana. Ma l’epiteto non è mai scomparso e si è rinnovato nel tempo: si è parlato spesso di Ita-
Breve antologia di una tendenza: parlar male di sé e del paese, purché a farlo siamo noi
lietta fascista ma anche di Italietta andreottiana o craxiana e anche berlusconiana. Lo stesso Tullio De Mauro attesta la formula Italietta dal 1927, mentre il Deonomasticon Italicum di Schweickard segnala un esempio risalente al 1912, ma già quindici anni prima, nel 1897, il letterato Filippo Zamboni aveva adoperato il diminutivo per apostrofare il paese - «Oh Italietta!» - in un saggio intitolato Gli Ezzelini, Dante e gli schiavi. Se l’Italia è Italietta gli italiani sono italioti (il primo a dirlo pare sia stato Carducci) e si può continuare con italico, italiesco, «Italia alle vongole» e il classico «all’italiana». Poi ci sono i modi in cui gli italiani, cioè gli italici, si chiamano tra loro: terrone, polentone, lumbard, beduino, baluba. Insomma, gli italiani si detestano amabilmente.Vogliono, però, che a farlo siano loro stessi e non gli stranieri. Lo nota giustamente Aldo Cazzullo nel libro Viva l’Italia (Rizzoli): «Questo non vuol dire che noi italiani non amiamo il nostro paese. Anzi, nel profondo vi siamo intimamente legati. Alla nostra maniera, però. Ci piace parlarne male, ma ci indigniamo quando sono gli stranieri a farlo. Ho visto antiberlusconiani difendere Berlusconi a un tavolo di tedeschi, e anticomunisti difendere i comunisti italiani a un convegno all’università di Chicago». Ah, gli italiani!
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Oriente
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ALTRE LETTURE
LA MODERNITÀ È NATA DAL MARE di Riccardo Paradisi
di Pier Mario Fasanotti
no dei più noti scrittori del Giappone odierno si chiama Murakami Haruki. I lettori italiani lo conoscono grazie alla Einaudi che ha pubblicato undici suoi testi narrativi. Quello che ha riscosso più successo s’intitola Kaka sulla spiaggia. Ora si propongono i suoi racconti che, come accade di solito, riassumono i più forti leit motiv. Alcuni critici hanno paragonato Haruki a narratori americani come Fitzgerald, Carver, Capote, Salinger. La tentazione di accostare uno scrittore a un altro, in specie se uno dei due proviene da un territorio enigmatico come il Giappone, è sempre forte. Ma non così lecita. Haruki ha tratti unici. È molto sensibile alla tematica del destino e snoda vicende alla ricerca del marchio emozionale che è impresso in ciascuno di noi. Questo è il caso del racconto Il settimo uomo.Vi si racconta di un bambino che esce di casa nella pausa concessa da un tifone devastatore.Va in riva al mare con K., l’amico del cuore. Entrambi sono affascinati dal moto lieve e singolare delle onde. A un certo punto il mare si fa ringhioso, si alza e aggredisce K. che, inebetito, rimane sulla battigia malgrado le urla di avvertimento. K. verrà visto, in un istante, imbozzolato dall’onda. Ha un sorriso beffardo, allunga la mano come se volesse afferrare l’altro. Il bambino, dinanzi alla morte di K, (mai il cadavere verrà ritrovato), cade in uno stato febbrile popolato di incubi. Chiede alla famiglia di poter vivere distante dal luogo luttuoso. Lo accontentano. Per tutta la vita si terrà distante dal paese natale e dall’acqua. Tuttavia la morte del padre lo convince a tornare. Anche per verificare, nel profondo, il momento in cui «l’asse del tempo scricchiolò forte». Affronta il nucleo nero della paura, senza più chiudere gli occhi. In alcuni racconti s’insinua l’elemento fantastico (altro motivo per
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Thriller
Haruki
e la lugubre leggerezza dell’essere cui è azzardato paragonare Haruki a certi americani), fantasia e disagi emotivi si intrecciano, come nel racconto La scimmia di Shinagawa. La ventiseienne Mizuki è sorpresa dalla difficoltà di ricordare il proprio nome, addirittura se lo fa incidere su un braccialetto. Davanti a una psicologa, che si rivelerà piuttosto atipica, racconta di quando era in collegio, lontano da casa, e della bellissima compagna Yuko che le confidò di soffrire d’invidia, lei pur corteggiatissima e vista da tutte come modello. Prima di congedarsi (si suiciderà tagliandosi le vene),Yuko affida a Mizuki il cartellino col proprio nome. E in tono scherzoso l’avverte che qualche scimmia potrebbe rubarlo. Dopo alcune sedute, la psicologa informa Mizuki di aver trovato la soluzione dell’amnesia e la porta in una cella do-
ve è rinchiuso il vero responsabile. Che è una scimmia parlante, e che confessa di aver rubato i due cartellini, col nome della paziente e con quello di Yuko. La scimmia ladra per natura spiega che col furto s’è portata via anche la causa della sofferenza delle persone. E quale sarebbe la mia? Chiede Mizuki. La giovane donna rimarrà sconcertata, ma non sorpresa, nell’apprendere una verità che è sempre stata in fondo al suo cuore.Verità che risale all’infanzia, ma che rischia di influenzare sia il presente sia il futuro. L’autore scava nei meccanismi nascosti delle persone. Lo fa con apparente leggerezza, senza tuttavia abdicare al tono lugubre che sovente si riscontra nella narrativa orientale. Dominano la delicatezza e la pietà. Murakami Haruki, I salici ciechi e la donna addormentata, Einaudi, 376 pagine, 22,00 euro
Interno di famiglia con delitto di Mario Donati
proposito di questo thriller psicologico scritto dall’argentina Claudia Piñeiro c’è un’osservazione fatta da José Saramago: «Un’infaticabile analisi di un microcosmo sociale in via di decadenza». Indubbiamente anomalo rispetto ai più triti meccanismi del poliziesco, il racconto della Piñeiro ha il merito di non voler spiegare tutto. L’autrice è abilissima a tratteggiare personaggi e ambiente con pochi particolari: una frase, un modo di camminare, una smorfia, l’apparizione di un oggetto. All’inizio pare tutto semplice, o addirittura scontato, poi la storia si dipana inseguendo gli ondeggiamenti delle singole personalità. Tutte alla deriva, come indica Saramago, senza approdi, senza percorsi tracciati. Inés, quarantenne, moglie dell’enigmatico Ernesto, alto dirigente d’azienda, intuisce che la telefonata che lui riceve non ha nulla a che vedere con il lavoro. Poco prima, e casualmente, ha trovato nella sua ventiquattrore un foglietto con un cuore disegnato col rossetto. «Ti amo». La firma è «tua». Lo pedina e assiste alla scena cardine della vicenda, vicino al laghetto del parco Bosques de Palermo, a Buenos Aires. Lì c’è Alicia, la sua segretaria, che s’avvinghia a lui. Ernesto cerca di divincolarsi, poi la strattona e la donna, cadendo, batte la testa su un sasso. Muore. Inés torna a casa e decide di aiutare il marito innocente. La sua intenzione è quella di irrobustire la tela matrimoniale con l’ausilio della complicità, ossia il sentimen-
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l grande mutamento che ebbe luogo fra ’500 e ’600 nel mondo della navigazione in generale e nel modo di combattere le guerre sul mare disegnò il volto politico ed economico dell’Europa moderna ponendo le basi del suo predominio sul globo. La guerra sul mare (1500-1650) di Jan Glete (Il Mulino, 346 pagine, 28,00 euro) racconta nel dettaglio come avvenne questo mutamento - le nuove tattiche e strategie, la formazione di marine statali permanenti - e ne illustra gli effetti nelle diverse aree europee. A partire dal Cinquecento, ecco la tesi del saggio, è il mare e non la terraferma a diventare il campo di battaglia dove si decidono gli assetti di potere all’interno dell’Europa.
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to che in vent’anni di convivenza è andata affievolendosi. Inés è intraprendente. Riesce a intrufolarsi nell’appartamento di Alicia, dove scopre documenti e foto ridicoli e compromettenti. È lei la «tua» del messaggio? È cosa da non rivelare ai lettori, ovviamente. A questi lasciamo il dubbio sulla «terza donna», la prepotente e sensuale Charo, nipote di Alicia. Comparirà e scomparirà come un fantasma narrativo, mentre Ernesto, indolente e subdolo, e Inés, più contorta di quanto appare all’inizio della storia, giocano come il gatto col topo, in apparenza dalla stessa parte: il problema vero è quello di individuare un’unica preda, ammesso che ci sia e sia quella giusta. Sullo sfondo s’agita la figlia diciassettenne Laura, alle prese con un’indesiderata gravidanza. È lei a fare da catalizzatore di un grave smarrimento familiare. Sprezzante, dura, introversa, Laura è l’adolescente che ha staccato gli ormeggi dal primario nucleo sociale che dovrebbe, in teoria, proteggerla e aiutarla nella crescita. L’autrice fa improvvisi scarti, disorienta e diverte il lettore, cambia registro, osserva da varie angolazioni il dipanarsi di fatti e sentimenti, per poi alzare il voltaggio emotivo con la descrizione di un destino, non si sa se cercato o no. La solidarietà coniugale si sgretola, ma senza odio manifesto. Rimane sempre in scena il repertorio delle pulsioni da tragedia greca: ira, inganno, vendetta, invidia, dolore, eccitazione, sconforto. Invece del grido domina il sorriso triste e maligno. Claudia Piñeiro, Tua, Feltrinelli, 142 pagine, 10,00 euro
OCCIDENTE ESTREMO E DECADENTE *****
he gli Usa siano in una fase di declino è un dato di fatto. La parabola dell’impero americano non è diversa a quella di altri imperi per i quali la crescita eccessiva dell’estensione territoriale e l’ambizione egemonica si sono trasformate in un fattore di debolezza verso l’esterno e di fragilità al proprio interno. L’America che descrive Federico Rampini nel suo Occidente estremo (Mondadori, 287 pagine, 18,00 euro) è un Paese in cui il debito pubblico e i tagli feroci hanno reso ogni struttura fatiscente in cui strade, metropolitane e ospedali non sono paragonabili a quelli realizzati nelle grandi capitali asiatiche. Occidente estremo è un mosaico di esperienze vissute da un grande inviato, di luoghi e personaggi incontrati nei due imperi in competizione.
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LE STAGIONI DELLA VITA *****
a condizione umana, sempre provvisoria pur nella sua apparente continuità, muta con il mutare del corpo e dell’animo sotto la spinta dell’esperienza e dei fatti di tutti i giorni. Le età della vita di Carlo Maria Martini (Mondadori, 215 pagine, 18,00 euro) analizza le grandi tappe dell’esistenza umana scandita dalle stagioni della vita: l’infanzia, la giovinezza, l’età adulta, la vecchiaia. Una guida alla vita ispirata da comprensione e amore, perché «la grande tenerezza con cui Dio ci è vicino mette in fuga la timidità e la paura, producendo pace, serenità e gioia. Si sente che qualcuno è presente ed è molto più grande di noi; che le piccole cose che stiamo vivendo ci portano verso una presenza capace di non abbandonarci mai».
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Teatro
MobyDICK
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di Enrica Rosso
l germe della «maraviglia» che nel lontano 1865 indusse il matematico Lewis Carroll a perdersi nella contemplazione della grazia di una giovanissima amica - certa Alice Lidden, figlia del diacono - da lui ossessivamente ritratta in scatti che hanno fatto il giro del mondo e che lo hanno in seguito spinto a scrivere Le avventure di Alice nel Paese delle meraviglie prima e Alice allo specchio dopo, entrambi fortunatissimi, torna a colpire. Diventa Alice si meraviglia nella versione spettacolare andata in scena al Teatro Furio Camillo di Roma in prima nazionale ideata, diretta, prodotta e interpretata da Carla Cassola. Tutto avviene in un luogo claustrofobico che assorbe immagini e suoni (a cura di Luca Spagnoletti) e rimanda echi. Uno spazio ingannatore in cui la superficie orizzontale e quella verticale si dilatano, interagiscono e a tratti si sovrappongono con un notevole effetto di disorientamento grazie al contributo fondamentale della videoscenografia di Sergio Gazzo. Alice vecchia è già in scena, protetta e contenuta nella sua urnavasca da bagno da cui fa emergere rari gesti stilizzati e potenti. Si respira la sua fierezza e pericolosità da belva ferita, la sua regale indignazione. Comanda a bacchetta tre prigionieri esemplari: Ali-
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Televisione
spettacoli
In difesa delle donne nel nome di Alice
ce giovane Valentina Izumi, il Cappellaio Matto Giulio Pampiglione, il Molestatore Gilles Coullet. A volte irrompe in video lo Stregatto Andrea Tidona che ha collaborato anche alla drammaturgia. I tre malcapitati sono costretti a dar cor-
po alle esperienze che vengono di volta in volta rigurgitate dalla dispotica vecchia. Corpi seminudi a interrompere il buio con la loro luminosa bellezza, che compongono immagini seppellite dal tempo, nella rincorsa di episodi autobiografici di oltraggio al pudore subiti in una vita da riesumare e proporre come si trattasse di siparietti, teatrini dell’orrore, per andare oltre in una catartica ricongiunzione con la libertà esterna, specchio di quella interiore. La coreografa tunisina Nawel Skandrani li imbriglia ulteriormente stabi-
lendo per loro una griglia di movimenti fluidi, solo apparentemente liberi. Gli interpreti sono bravissimi, nitidi nei movimenti, puri nelle intenzioni, accurati nel loro gioco di ruolo. Lo spettacolo scorre per un’ora e trenta contrappuntato da un’ironia perfida e implacabile, sia a livello drammaturgico che visivo. Un allestimento coraggioso, raffinato e rigoroso, condotto con perizia dalla Cassola che dopo quindici anni di repliche del monologo cult Rosel di Harald Müller (chi l’ha visto non l’ha più scordato) si mette in gioco personalmente per dar voce alla causa femminile con un materiale tanto intimo. Non si tratta di un desiderio di esposizione gratuita del privato, ma di far fruttare l’esperienza personale per crescere artisticamente. D’altronde, carta canta, la violenza sulle donne è argomento quanto mai attuale. Si comincia da piccole e si continua da grandi in un crescendo di volgarità, «maravigliandosi» ogni volta di quanta disperante superficialità e ignoranza, quanta prepotenza e arroganza, quanto malessere ci siano dietro a quegli atteggiamenti verbali e non, quelle violenze che spesso restano inconfessate perché da troppi considerate plausibili e che sono comunque abusi.
Alice si meraviglia, Roma, Teatro Furio Camillo fino al 6 febbraio, info: 06 7804476 - www.teatrofuriocamillo.it
Signorini e il lato festaiolo del “governo del fare” ono di gran moda i programmi civettuoli, abbondanti di sorrisi, del «volemoce bene», di rivelazioni banali offerte in tono storicamente grave, di corteggiamenti e motteggi che tengono in poco conto le ammuffite (sic) categorie sessuali, di esclamativi come «amore», «tesoro» e altri, da tè con anziane signore dai capelli azzurrini sempre in piega, «ma lo sai, cara, ma lo sai che mia nipote, “sta sciagurata…”». Le parodie di Franca Valeri sono oggi realtà. E via, via, zampettando sul viale più battuto del mondo: niente massi o sampietrini, solo il manto gelatinoso del pettegolezzo. Pardon, gossip: con l’inglese si laurea lo stesso asino. In tv il genere civettuolo trionfa con Kalispera (Canale 5). Mattatore è Alfonso Signorini che sullo schermo ha riprodotto il format dei due settimanali mondadoriani che dirige, Chi e Sorrisi e Canzoni. Kalispera è il termine greco per dire buonasera. Non male come titolo, Signorini
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di Pier Mario Fasanotti del resto è laureato in Lettere. Il conduttore è il megafono festaiolo del «governo del fare», anzi del fare del bene.Visto che il salottino è stata l’occasione per Ruby rubacuori per diffondere una verità di panna montata, molto distante da quella giudiziaria. Ecco fatto: non più la tigre marocchina, ma la Cenerentola che non lascia mai le scarpette a casa del principe. Coerentemente con la storiella recitata da Signorini.
Due rane cadono in un secchio pieno di latte. La prima, che è triste di natura, grida «ma che sciagura, qui io muoio!». E infatti muore. La seconda rana, l’ottimista, è contenta anche se beve un nutrimento che le fa schifo, poi zampetta con tale vigore che alla fine il latte si trasforma in burro. In questa maniera si salva. Traduzione: solo chi è ottimista, anche se è immerso in un liquido facilmente immaginabile, vive sereno. Siamo all’ottimismo governativo. Chi vede il bicchiere sempre mezzo vuoto sarebbe da fucilare. La filosofia di Signorini si fa predica: via, perché tanto litigare in tv? Capita persino al Grande Fratello, non parliamo di Ballarò e di Anno Zero. Poi gli ospiti. Indovinello: chi entra dalla porta così simile a quella di Porta a porta? Facile: Emanuele Filiberto, il bel ragazzo che ha finalmente indicato alla dinastia Savoia la strada più consona al dna degli ex regnanti: lo spettacolo. Lui sor-
ride, Signorini l’ha invitato apposta. Quelli seri o seriosi, dice, «mi stanno sugli zebedei», equivalente lombardo del siciliano «cabasisi». «Amore»: così lo chiama l’anfitrione, in pantaloni a quadrettini. Impagabile soddisfazione quando il Savoia fa il baciamano alla valletta, Elena Santarelli. S’abbracciano, poi cadono per finta: che risate tra il pubblico pagato e non pagante. «Alfonso, che gioia!». «Finalmente un principe! Senti, tesoro…»: e così Signorini dà il via al suo amore per l’amore, per il sorriso, per le buone maniere. Ma è pur sempre un giornalista, quindi deve fare domande: «Tu come e dove hai incontrato la tua Clotilde?». Francamente non ce la facevamo più a umiliare questa curiosità. Idem dinanzi a un filmato con i soliti famosi (e indagati) come Lele Mora. Ma il vero scoop è Belen Rodriguez. Chissà che fatica scovarla. Altro filmato: l’argentina e il tatuato mentre si strofinano alle Maldive, infine zoomata sui rispettivi «lati B». E cinguettante apprezzamento di Signorini per quello di lui, «che è un bravissimo ragazzo». È vero, dobbiamo diventare tutti come quella rana ottimista, in mezzo a veline con boxer e calzettoni.
MobyDICK
Danza
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di Diana Del Monte
egge n. 4671 del Regno di Sardegna: «Articolo unico: Il Re Vittorio Emanuele II assume per sé e suoi Successori il titolo di Re d’Italia. […] Da Torino addì 17 marzo 1861». Il 21 aprile di quello stesso anno, la legge n. 4671 divenne la n. 1 del Regno d’Italia. Per quanto appaia retorico, è comunque costruttivo, in occasione dei 150 anni d’Italia, rinnovare il ricordo del grande contributo che la creatività italiana ha dato all’arte di tutti i tempi; sapere che prima del Regno d’Italia c’era un’Italia di fatto, separata e lontanissima in molti aspetti, ma riconosciuta e riconoscibile nella sua effervescenza culturale, inoltre, serve a non trasformare la nostra storia in un documento-monumento di infelice pesantezza. Le spalle che sorreggevano il «fare l’Italia» del 1861 erano ampie e forti e le sue radici si alimetavano tanto dell’opera del Brunelleschi quanto di quella del Boccaccio; la danza italiana, dal canto suo, era parte integrante del quadro. Gli italiani che hanno contribuito a disegnare una parte decisiva della storia del balletto, infatti, sono stati tanti; tra questi si possono ricordare Bergonzio Botta che curò un grandioso convivio coreografico in occasione degli sponsali di Galeazzo Sforza e Isabella d’Aragona, presto imitato in tutte le corti italiane ed europee; Giovanni Battista Lulli, ballerino e pantomimo di fiducia di Luigi XIV e padre dell’Académie Royale de musique et de danse di Parigi; i grandi trattatisti come Guglielmo Ebreo, Caroso, Negri, Lambranzi; Gaspare Angiolini, autore di capolavori quali Don Juan e Semiramide,
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considerati le pietre miliari del balletto moderno; Salvatore Viganò, da Stendhal ritenuto degno di sostenere il confronto con Shakespeare; la discendenza Taglioni, Filippo e sua figlia Maria - soprannominata «Maria piena di grazia» emblema del balletto romantico e prima ballerina a indossare le scarpette da punta. Tuttavia, così come nella musica l’identità nazionale è istintivamente associata ai cori verdiani, nella danza l’accostamento tra la conquista dell’unità d’Italia e l’arte del balletto viene immediatamente ricondotta ai Balli Grandi di Luigi Manzotti.
L’Unità sulle punte L’arte e la cultura, è stato scritto e riscritto, sono state le prime e più importanti forme di dialogo tra Italia e Italia e tra Italia ed Europa; un patrimonio edificato in egual misura sulla massaia che preparava i piatti della tradizione e sull’opera di Goffredo Mameli che, non ha caso, si intitolava Il canto degli italiani. Un sentire l’Italia, in breve, che andava molto oltre la legge n. 4671.
L’arte coreutica ottocentesca, dal canto suo, rispondeva a questo sentimento popolare con maestose costruzioni coreografiche, un barocchismo coreologico nel quale affluiva tutta la generosa retorica risorgimentale e su cui regnava incontrastata l’opera del danzatore e coreografo milanese Luigi Manzotti. La terza fioritura della danza italiana ottocentesca ruppe così l’unità d’azione teorizzata dal «grande legislatore della danza classica» Carlo Blasis e Manzottti, seguendo le orme di Rota, cedette all’irresistibile tentazione del virtuosismo. Ancora una volta, l’Italia sbigottì il mondo e lo fece con spettacoli magnificenti composti da decine di quadri, azioni coreogafiche di massa ed evoluzioni sincrone; su questi antesignani del fulgore novecentesco di Broadway, Hollywood e della sua diretta discendente Bollywood, si riversò la furia torrentizia dell’allegoria celebrativa per il nuovo Regno d’Italia. Il «grande ballabile» per eccellenza coreografato da Manzotti fu, senza ombra di dubbio, l’Excelsior, ma la sua prima grandiosa coreografia, quella che gli regalò la fama incotrastata, fu Pietro Micca. Romano d’elezione a d’ispirazione, Manzotti debuttò con questo suo primo balletto il 18 gennaio del 1871, a un mese esatto dal decennale della prima convocazione del Parlamento - avvenuta il 17 febbraio del 1861. Sul palco del Teatro Apollo nella giovanissima capitale, la figura del militare piemontese, protagonista della nota vicenda storica, venne assunta dal Manzotti come simbolo delle eroiche gesta degli italiani a cui, appena ventenne, il danzatore aveva assistito e a cui, forse, aveva anche partecipato. A impersonare il minatore era lo stesso coreografo, accompagnato da una carica di ballerine-bersagliere battuta da sessantaquattro tamburi; la partecipazione emotiva del pubblico, e probabil-
Dopo Botta, Lulli, Caroso, Negri, Viganò, Taglioni, così l’arte del balletto ha contribuito alla costruzione dell’identità nazionale. Specialmente con il “Pietro Micca” e, più tardi, l’“Excelsior” di Luigi Manzotti. Concepiti come simboli di eroismo nostrano e di illuminata civiltà italiana
mente degli stessi interpreti, fu enorme e Pietro Micca si sarebbe certamente potuto definire un trionfo, se il termine non servisse oggi a descrivere l’impresa più maestosa del Manzotti: l’Excelsior. Dieci anni dopo il primo, infatti, in occasione della Prima Esposizione Industriale ospitata dalla città di Milano, al Teatro alla Scala debutta una delle imprese coreutiche più imponenti della storia del balletto. Diviso in 6 parti e 11 quadri e animato da 450 elementi, il balletto Excelsior esaltava la vittoria della luce e della civiltà - rappresentati da Alessandro Volta e dall’istmo di Suez - sull’oscurantismo, incarnato, in apertura, dall’inquisizione spagnola. Sul libretto, l’autore scriveva: «Vidi il monumento innalzato a Torino in gloria del portentoso traforo del Cenisio e immaginai la presente composizione coreografica. È la titanica lotta sostenuta dal Progresso contro il Regresso ch’io presento a questo intelligente pubblico: è la grandezza della Civiltà che vince, abbatte, distrugge, per il bene dei popoli, l’antico potere dell’oscurantismo che li teneva nelle tenebre del servaggio e dell’ignominia. […] Ecco il mio Excelsior che sottopongo al giudizio di questo colto pubblico».
Corti di figuranti e animali, decine di tramaglini, di cavalli e di elefanti di Brahma, l’Excelsior fu un vero trionfo, replicato per 103 sere alla Scala e più volte ripreso sia in Italia che all’estero; nel 1895 fu lo spettacolo inaugurale dell’Eden di Parigi, un teatro costruito appositamente per rispondere alle esigenze tecniche dei colossali balletti manzottiani. Il dichiarato patriottismo, espresso anche dalle centinaia di lampade e bandiere tricolore che adornavano la sala, non fu l’unico elemento che fece dell’Excelsior uno dei primi balletti realmente italiano. È immediatamente deducibile dalle date, infatti, che la maggioranza delle persone presenti sul palcoscenico erano nate o cresciute prevalentemente sotto l’Italia unita. In una convergenza spazio temporale particolare, dunque, l’Excelsior portava in scena i nuovi italiani, coloro che della loro nazione avevano in memoria quasi esclusivamente le immagini di unità, a esibirsi in una celebrazione dell’Italia di fronte a coloro che il Paese l’avevano unificato.
ai confini della realtà I misteri dell’universo
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di Emilio Spedicato
altezza che gli esseri umani raggiungono alla loro maturità varia secondo diversi fattori: i maschi sono generalmente più alti delle femmine; le popolazioni che dispongono di poco cibo (ad esempio l’affollata Asia sudorientale) tendono a essere più basse in statura di quelle che dispongono di più calorie; fattori genetici possono entrare in gioco. Ritroviamo questi fattori ad esempio presso i pastori Watussi e Masai, dove raggiungere i due metri non è raro, risultato cui forse contribuisce anche la dieta a base di latte mescolato con il sangue fresco dei bovini. In Asia notevoli per la statura sono i Khampa, popolazione del Tibet orientale da cui i lama assumevano le loro gigantesche guardie del corpo, pittorescamente descritte da Alessandra David Néel e da Heinrich Harrer. Nel secolo passato erano noti i giganteschi fuegini, della Patagonia e della Terra del Fuoco, ora estinti e capaci di vivere nudi pur in un clima assai rigido (Tacito afferma cosa simile dei Germani del suo tempo). Queste popolazioni occupavano un habitat abbastanza ampio.
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È noto che popolazioni ristrette ad habitat piccoli possono sviluppare nanismo o gigantismo a seconda della disponibilità di cibo, fatto vero anche per gli animali. Ad esempio il più grande orso non è il pur gigantesco grizzly delle Montagne Rocciose ma quello di Kodyak, che vive nell’isola omonima, sita fra Alaska e penisola di Bering. In quest’isola dove l’uomo non è presente l’orso dispone di una enorme quantità di pesci e di foche con cui nutrirsi. Passando a popolazioni umane giganti sviluppatesi in piccoli ambienti, possiamo ricordare quanto Amerigo Vespucci racconta nelle sue lettere a Lorenzo de’ Medici. Dice che in una piccola isola al largo della costa equatoriale sudamericana il gruppo di marinai inviato a esplorarla incontrò un villaggio dove stavano delle donne gigantesche, la cui altezza, stando esse inginocchiate, superava quella dei marinai. Dopo un po’ arrivarono i loro uomini, ancora più giganteschi, armati di arco e frecce. Nulla fecero contro i marinai terrorizzati, che tornarono incolumi alle loro navi.
MobyDICK
A un dito dal cielo
Una storia simile si trova in Garcilaso Lopez de la Vega nel suo meraviglioso libro sugli Incas (era figlio di un capitano spagnolo e di una principessa incaica). Racconta dell’ultima spedizione incaica per l’espansione dell’impero verso Nord, che portò alla conquista dell’attuale Equador e alla rovina dell’impero, il cui legittimo re fu spodesta-
giore quantità di cibo disponibile, che ora porta a gravi fenomeni di obesità. Ma esiste probabilmente un altro fattore di crescita, di cui non si discute, ovvero l’aumento dell’anidride carbonica nell’aria. È un fenomeno che coinvolge anche la vegetazione. Ad esempio il volume di legname per ettaro delle foreste finlandesi, studiate in modo accura-
Amerigo Vespucci raccontava a Lorenzo de’ Medici di averli incontrati in un’isola della costa equatoriale. Ma numerose sono le notizie che ci arrivano sui giganti e sui fattori che determinano la crescita. Non ultimo, ai nostri giorni, l’anidride carbonica… to dal traditore Atahualpa figlio di una principessa dell’Equador, indebolendo l’impero al momento dell’invasione degli spagnoli guidati da Pizarro e Almagro. Durante questa spedizione furono conquistate delle isole abitate da giganti. Sia in questo che nel caso citato da Amerigo è probabile che l’abbondanza di cibo dal mare abbia favorito lo sviluppo del gigantismo. Nel corso del Novecento la statura media è cresciuta virtualmente in tutto il mondo, in Italia per i giovani di leva di una decina di centimetri, fenomeno notevolissimo. A tale crescita ha contribuito certamente la mag-
to, ha mostrato che esse oggi contengono il 30% di legname in più che a fine Ottocento. Esperimenti negli anni Venti del secolo passato in Unione Sovietica mostrarono che topi cresciuti in un ambiente con più anidride carbonica vivevano più a lungo e diventavano più grandi. Osservazione confermata da esperimenti fatti presso l’Università dell’Oregon una quindicina di anni fa. Tornando più indietro nel tempo, è stata sorprendente la scoperta di scheletri, o meglio di mummie perfettamente conservate di uomini e donne, nelle sabbie dei deserti Lop Nor e Takla Makan nel cuore dell’Asia, di dimensioni sui due metri e più. Le prime mummie furono trovate pare dal grande esploratore svedese Sven Hedin a inizio Novecento, nei
dintorni delle rovine di una città ora chiamata Loulan. Altre sono state trovate altrove, presso le rovine di città associate a una civiltà che terminò con il disseccamento dei laghi di acqua dolce che un tempo caratterizzavano quella regione. Questi laghi si formarono verso il 9400 a.C. quando si sciolsero velocemente i grandi ghiacciai del Tien Shan, del Nan Shan e del Kunlun. Sono mummie perfettamente conservate con i loro vestiti, curiosamente simili a quelli dei celti europei, e sono di persone di tipo europeo. Sono state associate alla cosiddetta civiltà tocarica, citata anche da geografi latini, in cui si parlava una lingua di tipo indoeuropeo documentata in vari testi ritrovati nel tempio buddista di Dung Huang, nascosti dietro una falsa parete.
Ancora più indietro nel tempo e più spettacolari per le enormi dimensioni, sono gli scheletri di giganti ritrovati in varie località della Sardegna, specialmente nella zona di Pauli Arbarei. I ritrovamenti sono relativamente recenti, da quando gli aratri a mano, che scendevano poco nel terreno, sono stati sostituiti da quelli meccanici, che arrivano anche a 80 cm. In questo modo molte tombe, ricoperte da 40-50 cm di terra, sono venute alla luce. Si tratta di scheletri di dimensioni anche superiori ai tre metri, almeno uno di quattro metri. Quasi tutti questi scheletri sono stati fatti scomparire, bruciati su invito dei sacerdoti che vi vedevano esseri demoniaci o trasportati fuori Sardegna; esiste un museo privato in Svizzera che ne avrebbe 48 e alcuni si trovano in musei olandesi. Alcuni scheletri sono stati trovati nascosti entro nuraghi, e in alcuni casi lo scheletro era ricoperto da tessuto umano mummificato. Su questi ritrovamenti, e sulle leggende associate, si può consultare il libro di Luigi Muscas, I giganti e il culto delle stelle.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Per un futuro più giusto e un mondo migliore LA CRISI DEL CETO MEDIO (I PARTE) Cos’è oggi il ceto medio in Italia? Perché il ceto medio è in crisi nel Paese? Quali sono le cause che relegano questo vasto e diffuso gruppo sociale ad un ruolo insignificante nel complesso panorama economico e politico italiano? Parliamo di un ceto sociale sui generis che raggruppa le principali categorie imprenditoriali ed amministrative del Paese e che, secondo le ultime stime, s’attesterebbe intorno al 60 per cento dell’intera popolazione italiana. La nostra analisi si propone di studiare, partendo da alcune valutazioni di carattere generale, lo stato di salute del ceto medio, per cercare di comprendere e ricomporre le ragioni del suo declino, della sua attuale identità sociale. È necessario partire dalla condizione economica del Paese in cui il capitalismo si sta distaccando dalla democrazia, dal mito illuministico degli uguali, per sostituirlo con quello dell’egoismo, dei conflitti economici emergenti, delle disuguaglianze territoriali (Nord- Sud), delle sperequazioni dei diritti fondamentali dei cittadini. La politica ha ceduto le armi all’economia, in cui il contrattualismo sfrenato del capitalismo finanziario ha fatto scuola e, ormai, è la forma più moderna di un regime politico “oligarchico” ed “autoritario”, in cui sotto i poteri centrali dello Stato, disorganizzati e svigoriti, dominano sempre più nuovi vassalli potenti: le grandi imprese, autentiche regine della globalizzazione (Fiat ed affini). L’altra situazione che crea confusione e disagio tra le categorie del ceto medio è la frequente e non più sostenibile instabilità degli orientamenti ideologici dei partiti che contano. È un’amara constatazione il vedere che chi è di sinistra fa cose di destra e viceversa. E l’impressione generale che si ricava è che destra e sinistra non facciano più differenza. Si pensa solo al consenso elettorale! In questo quadro economico e politico, incerto e smarrito nei valori, chi paga le conseguenze inevitabilmente sono le categorie più a rischio che, per la loro disunione, vengono, di volta in volta, attratte da quei partiti che blandiscono proposte di comodo, strumentali ai loro contingenti interessi. Viene fuori un sistema sociale ed economico squilibrato dove emerge, in modo evidente, la debolezza del ceto medio che, a causa della sua indolenza o del lasser faire, consente a delle minoranze sociali di minare alla base la sua unità. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “…VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
LE VERITÀ NASCOSTE
La crisi economica e sociale è stata pagata e la stanno pagando le classi più deboli e principalmente i giovani. La disoccupazione giovanile è alle stelle, nonostante questi ragazzi abbiano ottima preparazione culturale e professionale. A pagare poi sono i lavoratori dipendenti, i pensionati e le piccole imprese in crisi. Per i lavoratori dipendenti troppo precariato, troppa incertezza per il proprio futuro, poco rispetto della loro dignità. Pensionati che non ce la fanno ad arrivare a fine mese, con pensioni da fame. Le piccole imprese in crisi non possono richiedere aiuti finanziari alle banche e sono costrette a chiudere. Servizi socio-assistenziali che vengono tagliati in conseguenza delle scelte fatte del governo, diminuiti drasticamente i finanziamenti agli enti locali, regioni, province e comuni. Lavoratori dipendenti e pensionati pagano le tasse come prevede la legge, ma vorrebbero che tutti facessero come loro, per pagare meno. Chi non paga le tasse è uno speculatore, un fuorilegge, mette la mani nelle tasche di chi è più povero di lui e di chi è onesto. Cari cittadini dobbiamo tutti insieme portare avanti un grande progetto, per liberarci dalle mafie, dalle corruzioni e dalle illegalità. Dobbiamo tutti rispettare le regole, la legge, gli essere umani, gli animali, le piante e tutti i doni di Dio per essere finalmente onesti.
Francesco Lena
LANCETTE DELL’OROLOGIO FERME SENZA GIUSTIZIA L’approvazione della mozione sull’estradizione di Cesare Battisti segna un punto a favore per l’Italia nella lunga battaglia per assicurare alla Giustizia un criminale che ha seminato morte e dolore. Il tempo può portare al perdono, ma solo dopo che il colpevole ha espiato le proprie colpe, secondo le civili regole che una collettività si è data. Fino a che questo non è avvenuto, le lancette dell’orologio rimangono ferme a quel terribile periodo.
Lettera firmata
FINANZIAMENTO PUBBLICO AI PARTITI I fatti di questi giorni portano nuovamente alla luce una stortura del sistema politico del nostro Paese. In Italia - è cosa nota, verrebbe da dire - lo Stato di diritto è temperato dal principio non scritto “fatta la legge, trovato l’inganno”. E così, dopo ben due referendum che ne sancivano l’eliminazione, il finanziamento pubblico ai partiti è tornato sotto le mentite spoglie di rimborso elettorale. Una lauta remunerazione che la partitocrazia s’è assegnata (per ogni legislatura e al di là della sua durata) per sopravvivere e mantenere inalterato l’attuale sistema di potere. Un ginepraio tipico del nostro Paese i cui frutti sono i disastri politici ai quali ogni giorno il
cittadino - suddito, disarmato e disamorato - è costretto ad assistere. Probabilmente, se i partiti dovessero cercare il proprio sostentamento direttamente presso l’elettorato, sarebbero costretti, gioco forza, a tornare ad occuparsi dei temi che le persone hanno più a cuore, del vivere quotidiano e non delle dispute di Palazzo.
Giacomo Caldini
SINISTRA BRAMOSA DI POTERE EGEMONICO Le più agguerrite componenti della sinistra sono impegnate a colpire Silvio Berlusconi (sicuro argine contro l’insidia rossa), fin dalla sua entrata in politica. Si utilizzano perfino ipotesi di “lenzuola e mutande”, mentre resta impunita la stragrande maggioranza dei reati più gravi d’omicidio, furto e rapina a mano armata. La sinistra pretende la conquista e il mantenimento del potere egemonico. Come diceva Josif Stalin: «Non si può fare una rivoluzione portando i guanti di seta».
Lettera firmata
L’EUROPA MERITA DI MEGLIO LA SFIDA GLOBALE NEL MEDITERRANEO Vacilla la fortezza Europa, un tempo cristiana! La sfida globale nel Mediterraneo è quella di governare (e non subire) l’integrazione dei popoli, l’immigrazione quali-
L’IMMAGINE
Pedaggi evasi? Ergastolo! HENAN. La Cina è nota per sanzioni a volte decisamente severe, ma non può non stupire comunque il fatto che un contadino sia stato condannato all’ergastolo (più 300.000 dollari di multa) per avere “evaso” per otto mesi i pedaggi dell’autostrada. Tanto più se, per rapimenti o omicidi sono state comminate pene anche di 15 anni. Non pagare l’autostrada è più grave che uccidere dunque in Cina? Sembrerebbe proprio di sì, anche se va detto che l’ammontare di pedaggi “evasi” sarebbe attorno al mezzo milione di dollari. Per evitare di pagare i pedaggi, l’uomo avrebbe acquistato al mercato nero due targhe militari, dato che i mezzi dell’esercito sono esentati dal pagamento delle autostrade. È stato forse “l’impersonazione” di alti ufficiali militari ad essere considerata un’aggravante: infatti i media locali hanno sollevato molti dubbi sui reali motivi della condanna, estremamente severa, tanto che il giudice che ha presieduto il processo ha dovuto organizzare una conferenza stampa per confermare la veridicità dell’accaduto. Va aggiunto che l’uomo non ha voluto usufruire di avvocati nel corso del processo, e viene da pensare che anche questo non lo abbia aiutato.
ficata, la nascita responsabile e non violenta del diritto di cittadinanza. L’Europa, oggi Eurabia, merita di meglio per la difesa dei diritti e delle libertà fondamentali della persona. Non è tempo per cercare colpe della situazione presente. È tempo di cambiarla. Dopo il fallimento del multiculturalismo, occorre un decisivo sforzo politico e sociale per la tutela della persona, dell’interesse nazionale in patria, per l’affermazione del diritto-dovere di partecipazione economica di ogni persona al governo del mondo.
Nicola Facciolini
OCCHIALI DA SOLE IN MONTAGNA
Guardaroba “atomico” Un fungo nucleare, fortunatamente innocuo. L’esplosione che vedete è stata creata ad arte da Alain Guerra e Neraldo de la Paz, due artisti cubani, con materiale preso direttamente dal cestino della biancheria: vecchi calzini, costumi da bagno, abiti da giorno e da sera, per un totale di 50 capi d’abbigliamento
Parlare di occhiali da sole in pieno inverno sembrerebbe un controsenso, ma coloro che frequentano la montagna, e quindi la neve, sono particolarmente coinvolti, considerato che la neve riflette i raggi del sole quattro volte più della sabbia (+400%) e l’uso di occhiali da sole, il cui scopo è di proteggere gli occhi dalle radiazioni solari, diventa necessario. La tentazione di rivolgersi alla prima bancarella per un acquisto è forte, vista la differenza tra i prezzi praticati dal tradizionale negozio di ottica e quelli del venditore ambulante. A differenza della falsa borsetta griffata, il cui acquisto non provoca un danno alla salute, gli occhiali da sole, quando non sono conformi alle prescrizione di legge, possono causare danni alla vista, cioè cataratta, degenerazione maculare e congiuntiviti. Gli occhiali da sole fuori legge sono proprio quelli messi in vendita sulle bancarelle da improvvisati venditori. Gli occhiali da sole devono essere accompagnati dalla nota informativa, prevista tra l’altro dalla legge, dove sono indicati: il fabbricante o mandatario; il grado di protezione, la categoria (da 0 a 4, dal più chiaro al più scuro); i limiti di impiego; le istruzioni d’uso; la marchiatura Ce.
P.M.
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cultura
Per l’imperatore francese, eravamo una pedina del grande gioco internazionale che trasformò la geografia politica europea
Allons enfants... de l’Italie! Luci e ombre del ruolo che Napoleone III ebbe nel processo storico dell’unità del nostro Paese, nella biografia di Eugenio Di Rienzo di Enrico Singer a lettera è datata 12 luglio 1861. Il regno d’Italia è stato proclamato quasi quattro mesi prima, il 17 marzo. Cavour ha appena avuto il tempo di vedere realizzato il suo sogno: è morto il 6 giugno. Ed ecco che Napoleone III, il secondo imperatore dei francesi, scrive a Vittorio Emanuele II, il primo re degli italiani, per mettere nero su bianco i confini di un rapporto che ha attraversato momenti di grande sintonia e di comune azione, ma anche di grandi contrasti.
L
Perché se è vero che senza l’aiuto della Francia, senza le vittorie di Magenta e Solferino ottenute sugli austriaci grazie al decisivo intervento dell’Armée, l’unità del nostro Paese non si sarebbe mai fatta, è altrettanto vero che Parigi ha difeso fino all’ultimo il potere temporale di Pio IX inviando i suoi soldati in difesa dello Stato pontificio per evitare quello che sarebbe poi successo, nove anni più tardi, con l’ingresso dei bersaglieri a Roma attraverso la breccia di Porta Pia, definitivo traguardo, il 20 settembre del 1870, dell’unificazione nazionale. Nella monumentale biografia che Eugenio Di Rienzo, ordinario di Storia moderna all’uni-
versità La Sapienza di Roma e direttore della Nuova Rivista Storica, ha dedicato a Napoleone III, questa lettera è a pagina 275 e il suo testo integrale vale più di qualsiasi racconto per cominciare a comprendere i retroscena di un pezzo così importante della nostra storia di cui, proprio adesso, stiamo celebrando il 150° anniversario. Scrive Napoleone III: «Sono stato felice di poter riconoscere il nuovo Regno d’Italia proprio nel momento in cui Vostra Maestà perdeva, con il conte di Cavour, una personalità notevole che aveva più di ogni altra contribuito alla rinascita della sua patria. In questo modo ho voluto offrire un’ennesima prova della mia simpatia per una causa per la quale abbiamo combattuto fianco a fianco. Ma, nel ripristinare i nostri rapporti ufficiali, mi sento obbligato a esprimere alcune riserve per l’avvenire. Un gover-
no è, infatti, sempre legato ai suoi antecedenti e il mio, da dodici anni, sostiene a Roma il potere del Santo Padre. Malgrado il mio desiderio di non occupare militarmente nessuna parte del suolo italiano, le circostanze sono sempre state tali da impedirmi di sgomberare Roma. Facendolo senza serie garanzie sarei venuto meno alla fiducia che il Capo della nostra religione aveva riposto nella protezione della Francia. Oggi la situazione non è mutata e devo dichiararvi francamente che, pur riconoscendo lo Stato italiano, io manterrò la mia armata a Roma fin tanto che Vostra Maestà non si sarà riconciliato con la Santa Sede e fin quando il Pontefice sarà minacciato di vedere quel che resta del suo dominio temporale invaso da una forza regolare o irregolare. In questa circostanza, vi prego di farvene convinto, io sono mosso soltanto dal sentimento del mio dovere. Posso anche avere avuto opinioni opposte alle vostre nel
credere che le trasformazioni politiche debbano essere opera del tempo e che un’aggregazione nazionale completa non possa essere durevole che a patto di essere stata preparata dall’assimilazione degli interessi, delle idee, dei costumi di vita e, quindi, di ritenere, in una parola, che l’Unità avrebbe dovuto precedere l’Unione. Ma questo mio convincimento in nulla ha potuto influire sulla mia condotta. Gli italiani sono i migliori giudici dei loro destini e non posso io, il cui mio potere è scaturito da un’elezione popolare, pretendere d’interferire nelle decisioni di un popolo libero».
Al di là di tutte le vulgate che dipingono Napoleone III come un incondizionato amico dell’Italia, magari per le grazie della contessa di Castiglione che Cavour - per altro zio della giovane nobildonna - gli avrebbe spinto nel letto, il lavoro di Eugenio Di Rienzo mette per la prima volta nella corretta dimensione le luci e le ombre del ruolo che l’imperatore dei francesi ha avuto nella vicenda storica che ha portato all’unità del nostro Paese. È inutile cercare il nome di Virginia Oldoini - la contessa di Casti-
cultura
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Più che a un’Italia unita, il sovrano d’Oltralpe pensava a una federazione di Stati italiani in cui il Papa, da Roma, avrebbe avuto la funzione di arbitro e Parigi la supremazia politica. Del resto, quale Stato vedrebbe bene la nascita di una grande potenza vicina? Qui a fianco, un’illustrazione della Battaglia di Magenta. In basso a sinistra, la copertina della biografia dedicata a Napoleone III di Eugenio Di Rienzo. In basso, un’immagine di Vittorio Emanuele II e un ritratto dell’imperatore dei francesi Napoleone III
Napoleone III continuò a osteggiare il progetto di un’Italia completamente unita. Per esempio, dopo lo sbarco dei Mille a Marsala, la Francia propose all’Inghilterra di unire le due flotte per creare un pattugliamento navale che impedisse a Garibaldi di arrivare in Calabria. L’idea di Napoleone era di mantenere i Borboni nel Sud peninsulare e offrire la Sicilia a un’altra casa regnante. Ma il più evidente segnale di ostilità al disegno unitario di Vittorio Emanuele II e di Cavour è l’interruzione delle relazioni diplomatiche successiva alla violazione dei confini dello Stato pontificio da parte dell’esercito sabaudo e alla battaglia di Castelfidardo dell’11 settembre 1860. Napoleone, d’altra parte, si rendeva conto che non poteva fare a meno delle relazioni con l’Italia che stava nascendo perché questo avrebbe significato lasciare mano libera agli inglesi.
La Francia, così, riconobbe tardiva-
glione, appunto - in questo libro. Di Rienzo non si occupa del gossip d’epoca. La sua indagine è il risultato di anni di ricerche negli archivi francesi, russi, austriaci, prussiani, inglesi e, naturalmente, italiani per ricostruire le mosse e le manovre delle grandi Cancellerie: di Bismarck, di Palmerston, di Gorciakov oltre che di Cavour e del suo ambasciatore a Parigi, Costantino Nigra.
Il risultato, come scrive lo stesso autore, è una biografia narrata senza ricadere nella “leggenda aurea” o nella “leggenda nera” che tante volte si sono sovrapposte all’opera di quello che i contemporanei definirono arbiter Europae, per glorificarlo, o Napoleone il piccolo, come fece Victor Hugo, per denigrarlo. Quella che emerge è la figura di uno statista che non fu, alternativamente, un amico o un nemico dell’Italia, ma piuttosto un sovrano sempre attento prima di tutto agli interessi francesi che vide nel nostro Paese, a volte con calcolata generosità e più spesso con cinica spregiudicatezza, una pedina del grande gioco internazionale che trasformò la geografia politica europea e che contribuì a determinare un nuovo equilibrio di potenza tra gli Stati destinato a rimanere sostanzialmente immutato fino al 1918 e, per certi versi, fino al 1945. Il disegno di Napoleone III era di costruire una grande zona d’influenza nella pianura padana per bloccare ogni velleità di espansione austriaca. Di qui l’appoggio dato alla nascita di quella che, nei suoi piani, doveva rimanere una media potenza, il Regno Sabaudo, che doveva comprendere il Piemonte, la Liguria, la Lombardia, il Veneto e arrivare sino agli Appennini, escludendo la Toscana, lo Stato pontificio e il Regno delle Due Sicilie. Dal punto di vista francese, l’obiettivo era perfettamente comprensibile: del resto, quale Paese vedrebbe di buon oc-
chio la nascita di una grande potenza vicina? Più che a un’Italia unita, Napoleone III pensava a una federazione di Stati italiani in cui il Papa, da Roma, avrebbe avuto la funzione di arbitro e Parigi la supremazia politica. Si è sempre detto che la Francia firmò l’armistizio di Villafranca (11 luglio 1859), poco dopo vittoria di Solferino (24 giugno), perché aveva paura che la Prussia entrasse in guerra a fianco dell’Austria minacciando i confini renani dove erano rimasate pochissime truppe francesi. In realtà, la Prussia non aveva intenzione di sferrare un attacco alla Francia anche se fece di tutto per farlo credere e mobilitò sei corpi d’armata da spedire sul Reno. Questo Napoleone III, alleato della Russia, lo sapeva perfettamente, come dimostrano le corrispondenze diplomatiche da Pietroburgo. Accettare Villafranca, incassando comunque Nizza e la Savoia, e ridurre la campagna d’Italia a un evento di portata limitata, pur con l’importante cessione della Lombardia al Piemonte, non fu dunque un atto obbligato, ma una decisione tesa a frenare le ambizioni di Cavour. Il trattato di Villafranca, che interrompeva il conflitto dopo che era stata liberata soltanto la Lombardia e non anche il Veneto come previsto dagli accordi di Plombières, fu un duro colpo. Al punto che i patrioti italiani paragonarono quell’armistizio al “tradimento” di Campoformio con il quale, nel 1797, il grande zio Napoleone Bonaparte aveva interrotto la sua campagna in Italia tenendo Milano ma lasciando, già allora, Venezia all’Austria. Francesco Crispi, futuro presidente del Consiglio, confessò in quell’occasione di «detestare Napoleone cagion di tanti mali al nostro Paese e vero ostacolo da superare per la conquista dell’unità nazionale». Anche dopo la Seconda guerra d’indipendenza,
mente il nuovo Regno: arrivò dopo la Gran Bretagna, gli Stati Uniti e persino dopo la Turchia. Soltanto il 12 luglio 1861 l’imperatore francese scrisse a Vittorio Emanuele II quella lettera in cui si diceva «felice di poter riconoscere il nuovo Regno d’Italia», ma nello stesso tempo ribadiva che le circostanze gl’impedivano di sgomberare Roma e contestava il modo in cui si stava formando lo Stato italiano con quella frase per certi versi profetica «un’aggregazione nazionale completa non può essere durevole che a patto di essere stata preparata dall’assimilazione degli interessi, delle idee, dei costumi di vita» - sostenendo che «l’Unità avrebbe dovuto precedere l’Unione». L’atto finale di questa strategia arriva alla vigilia della Terza guerra d’indipendenza, nel 1866: Napoleone III, da un lato, spingeva l’Italia a entrare in guerra a fianco della Prussia contro l’Austria, ma contemporaneamente firmava con questa un accordo segreto in cui si diceva che, in caso di sconfitta dei prussiani, se in Italia si fossero verificate sollevazioni popolari per riportare sul trono i principi che regnavano prima del 1859, la Francia non avrebbe opposto resistenza. Parigi diceva esplicitamente di tenere soltanto all’integrità del territorio costituito da Piemonte, Lombardia e il Veneto che si sarebbe ricongiunto con l’Italia. La sorpresa venne dalla vittoria dell’esercito prus-
siano, dato invece per perdente da tutte le diplomazie europee, Francia in testa. E i bersaglieri entrarono a Roma il 20 settembre 1870, quando i francesi avevano già richiamato il loro contingente per tentare l’ultima, inutile difesa contro quei prussiani che avrebbero voluto liquidare quattro anni prima. Se questa è una sintesi dei limiti che Napoleone III tentò di imporre al processo di formazione dello Stato italiano, Eugenio di Rienzo restituisce all’imperatore dei francesi - ancora una volta con grande ricchezza di particolari e di documenti inediti - tutti i meriti che non possono, certo, essergli negati. Anche perché, in patria, fu costretto a pagare un alto prezzo per sostenere comunque la causa italiana. All’entusiasmo popolare per la campagna d’Italia manifestato dai quadri del bonapartismo di sinistra, dagli ambienti operai, perfino dagli oppositori in esilio, si contrapponeva una reazione contraria in altri e più estesi settori della società. Le masse rurali dei dipartimenti di confine esposte al pericolo della reazione della Prussia, i vertici militari, la grande finanza rappresentata dal barone Rothschild, i seguaci della dinastia orleanista (che sostenevano i Borboni), e alcuni importanti membri del governo, compreso il ministro degli Esteri, il conte Walewski, e, soprattutto, la quasi totalità dell’opinione pubblica cattolica che era ovviamente schierata a difesa del potere temporale di Pio IX. E’ dal bilanciamento di questi elementi che Napoleone III determina la sua politica. Scrive Eugenio Di Rienzo che la storia del Secondo Impero fu sempre una storia globale: una storia francese, in primo luogo, ma anche compiutamente europea nella quale la voce del discendente di Napoleone il grande per usare la definizione di Victor Hugo si unì al coro di altre voci, a volte più potenti e meglio intonare della sua.
Lo stesso si verificò nell’azione interna - alla quale sono dedicate altre centinaia di pagine di questa monumentale biografia - che fu messa in campo dal regime nato dal colpo di Stato del dicembre 1851 con il quale Luigi Bonaparte, che era stato eletto presidente, si autoproclamò secondo imperatore dei francesi. La conclusione di Eugenio Di Rienzo è che, anche con tutte le sue ombre, Napoleone III non merita la grottesca raffigurazione di un caudillo predecessore delle grandi tirannie totalitarie del “secolo breve” appena trascorso. L’ultimo inquilino delle Tuileries fu, piuttosto, il creatore di un sistema di governo originale che non si è estinto con la fine del suo impero - il 2 settembre 1870 con la resa ai prussiani - né con la sua morte in esilio in Inghilterra il 9 gennaio del 1873. «Quel modello di governance si è riproposto, in Francia e fuori di Francia, in un passato molto prossimo e si ripropone anche nel nostro tempo tutte le volte che le disfunzioni di quella che è stata definita la “democrazia latina” sembrano poter suggerire la scorciatoia di una soluzione alternativa, fatta di antipolitica autoritaria, di leaderismo plebiscitario, populistico, carismatico». E per questo, oltre a fornire per la prima volta una chiave di lettura europea delle radici storico-politiche che hanno portato alla nascita dell’Italia unita, il libro di Eugenio Di Rienzo appare più che mai una storia attuale.
mondo
pagina 26 • 22 gennaio 2011
L’ex premier Tony Blair di nuovo davanti alla Commissione Chilcot, incaricata di far luce sulla guerra contro Saddam
«La mia verità sull’Iraq» «Ignorai le riserve legali sul conflitto. Ma era necessario affrontare gli estremismi» di Antonio Picasso robabilmente le speranze dell’ex Primo ministro britannico, Tony Blair, di passare alla storia come l’erede di Churchill e della Thatcher, non si realizzeranno nella loro completezza. Gli errori commessi alla fine del suo secondo mandato e durante il terzo, hanno offuscato l’immagine del leader laburista. Anche i critici più feroci, tuttavia, non potranno esentarsi dal riconoscere a Blair una solida coerenza. Un atteggiamento che l’ex inquilino di Downing Street sta ribadendo in questi giorni, apparendo davanti alla commissione d’inchiesta sulla guerra in Iraq, presieduta da sir John Chilot. Ieri Blair ha sottolineato nuovamente la sua con-
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non paga in politica. Per quanto possa essere un punto di onore morale. Per questo, l’insistenza sulla giustezza del proprio operato spinge Blair a nuove critiche da parte dell’opinione pubblica nazionale. Ieri di fronte al salone delle conferenze di Londra, sede dell’audizione, i manifestanti soni tornato a esporre cartelli simili a quelli che si potevano osservare nelle strade di tutta Europa, otto anni fa proprio di quest’epoca. “Blair-bliar!” Un gioco di parole che, in forma di anagramma, accusa l’ex premier di calunnia.
Sono due le considerazioni che emergono dalla deposizione di Blair. La prima relativa al-
L’ex inquilino di Downing Street non torna sui suoi passi, come vorrebbe “l’accusa”, e conferma di non avere rimpianti per l’invasione del 2003. Ma prova «profondo rammarico» per le vittime vinzione per cui il mondo sia oggi migliore, dopo la caduta del dittatore iracheno, Saddam Hussein. Ha ricordato che, per quanti errori possano essere stati commessi nel dichiarare guerra al regime di Baghdad otto anni fa, il tutto è stato portato avanti in buona fede. Ha voluto puntualizzare la questione per cui il Regno Unito mosse guerra in appoggio agli Stati Uniti non per una volontà esclusiva del Primo ministro, bensì dopo il raggiungimento di un accordo unanime dell’intero Gabinetto. Infine, ha ammesso di aver sottovalutato le indicazioni giuridiche dell’allora suo consigliere legale, Lord Goldsmith, in merito a un eventuale svantaggio nel decidere per il conflitto.
Anzi, Blair ha proprio detto di non essersi sentito vincolato dal parere del suo assistente, in quanto il memo fornito da quest’ultimo appariva, nell’ottica della sua linea operativa, «non comprensibile». Il Blair di oggi, come si vede, non sembra distaccarsi molto da quello del 2003: fiero alleato degli Stati Uniti di George Bush e paladino della democracy building in Iraq. La coerenza
la guerra in Iraq, l’altra di maggior respiro è relativa all’alleanza fra la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. Il fatto che l’ex Primo ministro abbia chiamato in causa i suoi colleghi di governo fa pensare a un tentativo di distribuzione delle colpe. Una sorta di “mal comune mezzo gaudio”.Tuttavia, le parole di Blair sono viziate sia da un punto di vista giuridico, sia in relazione ai documenti nelle mani di sir Chilot. Infatti, a differenza dell’esecutivo italiano, o francese, in cui il Presidente del Consiglio è corresponsabile del proprio operato di fronte al Parlamento, in quanto le decisioni sono adottate da tutti i ministri a livello collettivo, quello inglese è un Gabi-
netto collegiale il cui premier è primus inter pares. È infatti quest’ultimo che riceve l’incarico dal sovrano. I responsabili dei singoli dicasteri del governo di Sua Maestà non prestano alcun giuramento. Le loro azioni, per quanto siano fatte oggetto di discussione a Westminster, richiedono il placet definitivo del premier. E non è un caso che l’appellativo di quest’ultimo sia: “Primo ministro di Sua Maestà”. Proprio a sottolineare che, a suo tempo Blair, oggi Cameron, siano individualmente alla testa dell’esecutivo. A questo aspetto meramente accademico, si aggiunge la documentazione di cui è in possesso la commissione di inchiesta. Stando al Foreign Office, nel marzo 2003, l’allora ministro degli Esteri, Jack Straw, difese di fronte a Blair la tesi che le forze armate britanniche «non avrebbero dovuto essere coinvolte».
Un ex funzionario del dicastero, il cui nome è rimasto anonimo, sostiene che Straw cercò di convincere il premier affinché venisse effettuato un ulteriore tentativo di pressing diplomatico su Sad-
dam. Per quanto non sia stato registrato, pare che lo scambio di opinioni fra Blair e il suo ministro avvenne proprio a Downing street, di fronte a molti testimoni e in forma assolutamente personale. Leggendo fra le righe, si può pensare a uno
te alla luce. Lo stesso ex leader laburista ammise di essere stato convinto dalle prove addotte dagli Usa. D’altra parte, sia Londra sia Washington erano entrambe convinte che, per importare la democrazia nel cuore del Medioriente, non vi fossero A destra, il momento della caduta della statua di Saddam in Iraq e Sir John Chilcot, a capo dell’inchiesta sul conflitto. In alto, l’ex premier Tony Blair
scontro del tutto personale fra i due. Stando a questa testimonianza, si ritorna alle accuse che, dalla guerra in Iraq in poi, sono state indirizzate all’ex Primo ministro. Protagonismo, superficialità e fretta nell’adottare le decisioni adeguate. Lo sappiamo: per Blair e per Bush, la guerra era l’unico modo per detronizzare Saddam Hussein e per fermare i suoi programmi di produzione di armi di distruzione di massa. Di queste poi se ne confutò l’esistenza. La tanto acclamata smoking gun non venne effettivamen-
alternative all’attacco. «La politica della Gran Bretagna era orientata alla necessità di affrontare la questione delle armi di distruzione di massa, e se questo avesse comportato un cambiamento di regime, amen», parole di Blair, pronunciate solo ieri.
A questo punto, i nodi da sciogliere sono ancora quelli di otto anni fa. La risoluzione Onu numero 1441 venne interpretata in modo estensivo.Vale a dire in favore della guerra, piuttosto che come offerta da presentare a Baghdad, affinché permettesse agli osservatori internazionali di compiere
mondo
22 gennaio 2011 • pagina 27
Nuovo messaggio video del leader di al Qaeda: «Ritiratevi o la pagherete»
Osama minaccia Sarkozy (e la Russia torna a Kabul) Medvedev presto in Afghanistan, la prima volta dopo il ritiro dell’Armata Rossa: «È una nuova pagina» di Luisa Arezzo sama bin Laden è tornato a farsi sentire. A suo modo, con l’ennesimo messaggio audio (adesso in corso di verifica) ritrasmesso dalla rete satellitare Al Jazeera, questa volta si è rivolto direttamente al popolo d’Oltralpe: «La Francia deve ritirarsi dall’Afghanistan oppure gli ostaggi non saranno liberati». E ancora: «Il messaggio che vi abbiamo mandato in passato è lo stesso di quello di oggi (ieri, ndr.) - afferma la voce attribuita al terrorista saudita nell’audiomessaggio trasmesso dalla tv qatariota - la liberazione dei vostri ostaggi è condizionata dall’uscita dei vostri soldati dai nostri paesi. Se il vostro presidente non vuole uscire dall’Afghanistan è perché segue gli americani, ma questa sua posizione ha ripercussioni sui vostri (connazionali, ndr.) che sono nostri prigionieri. Lui ne chiede la liberazione immediata, ma noi non li libereremo se lo chiede con le minacce. Lui e tutti voi pagherete molto cara questa posizione, sia dentro che fuori la Francia». Bin Laden si riferisce sia agli ostaggi francesi detenuti in Niger che a quelli rapiti in Afghanistan. In settembre sette cittadini stranieri, tra cui appunto cinque francesi, sono stati rapiti nel piccolo paese africano e adesso sono tenuti in ostaggio in Mali. Dei sequestri si è detto responsabile l’ala nordafricana di Al Qaeda (Aqmi). Il 30 dicembre del 2009, invece, due giornalisti francesi, Stéphane Taponier e Hervé Ghesquière, che erano in missione per France 3, sono stati rapiti insieme a tre guide afgane da un gruppo di talebani locali ad est di Kabul, nella provincia di Kapisa e sono ancora prigionieri.
O
l’ennesima ispezione. Gli Usa e la Gran Bretagna, del resto, erano convinti che, attraverso le procedure macchinose e burocratiche del Palazzo di Vetro, non si sarebbe mai arrivati a un dunque. Né Blair né Bush, inoltre, assecondarono i suggerimenti dei proprio consiglieri giuridici.
Lord Goldsmith, nella fattispecie, ricorda i giudizi ricevuti sulla propria consulenza. L’ex procuratore disse che la 1441
to nei confronti degli Stati Uniti. Da quando cioè il governo di Clement Atlee, anch’esso laburista, riuscì a ottenere da Washington un prestito di 3.750 milioni di dollari, al valore del 1945. In sessant’anni e rotti di storia, Londra non si è mai dimenticata dei favori giunti da oltreoceano. E, ogni volta che ne ha visto la necessità, è intervenuta in appoggio alle iniziative di Washington. C’è chi afferma che il Regno Unito, in questo modo, si sia ridotto a essere
Il coinvolgimento del Regno Unito nella guerra fu impopolare e a otto anni di distanza è ancora un fattore chiave nel giudizio che i suoi connazionali danno sull’eredità dell’ex primo ministro non era sufficiente per un’iniziativa bellica. Blair replicò che si trattava di «avvertimenti provvisori». Quella che poi sarebbe diventata la coalition of the willing non volle sentire ragioni. Da qui la fretta ad agire, forse in modo superficiale e magari anche, da parte dei leader americano e britannico, dando maggior peso al proprio sesto senso invece che alle analisi degli osservatori. Nella prospettiva del lungo periodo, però, il comportamento di Blair, allora e quello odierno, riprende l’inossidabilità della alleanza fra le due sponde dell’Atlantico. È dalla fine della seconda guerra mondiale che la Gran Bretagna si sente in debi-
una costola degli Usa. Blair a sua volta, così com’è spiegato nel film Tv di Stephen Frears proprio del 2003, sostiene di aver ribadito un’alleanza nata ancora ai tempi di Churchill e di Roosevelt e poi rinforzata da Reagan e dalla Thatcher.
La sua è una tesi che, sulla carta, ha una logica. Il paragone storico, tuttavia, non torna in suo favore. Sia dal secondo conflitto mondiale sia dalla guerra fredda il duopolio Londra-Washington ne uscì vincitore. Quella in Iraq è, al contrario, una crisi esplosa per buona fede, ma ancora oggi irrisolta e le cui responsabilità gravano proprio su questa alleanza.
ti i servizi dello Stato a Parigi come sul campo sono pienamente mobilitati a questo fine».
E proprio nel giorno in cui il leader di al Qaeda torna a farsi sentire, ieri si sono incontrati a Mosca il presidente afghano Karzai con il suo omologo russo, Dmitri Medvedev. Che potrebbe essere presto il primo capo del Cremlino a visitare Kabul dai tempi della disastrosa ritirata dell’Armata rossa, nel 1989. Ieri, infatti, il presidente russo ha accettato «con piacere» l’invito del collega a recarsi in Afghanistan, Paese che concentra i timori e i desideri di rilancio regionale della Russia, dalle preoccupazioni per il narcotraffico che trova facile transito sul territorio russo al potenziale economico rappresentato dalla ricostruzione afgana. Si apre «una nuova pagina» nelle relazioni russo-afgane, ha dichiarato Medvedev a fianco di Karzai, primo dirigente afgano in visita di stato a Mosca dai tempi dell’occupazione sovietica. Karzai è stato in precedenza nella capitale russa, ma sempre nell’ambito di riunioni internazionali. Ieri, invece, con il presidente russo e il premier Vladimir Putin ha discusso del trasferimento della responsabilità della sicurezza dalla Nato alle for-
Editto talebano a Bala Murghab contro le compagnie telefoniche: «Spegnete le reti». Così non si possono rintracciare i miliziani
Infine due giovani francesi, rapiti il 7 gennaio a Niamey da uomini dell’Aqmi, sono stati uccisi l’indomani nel Mali durante un fallito blitz militare franco-nigerino per liberarli. In un precedente messaggio, diffuso il 27 ottobre 2010, bin Laden aveva rivendicato il sequestro di questi cinque francesi nel Sahel e avvertito che la Francia avrebbe pagato a caro prezzo sia il mancato ritiro delle sue truppe che «le sue ingiustizie» contro i musulmani. Immediata e ferma la risposta francese: «Siamo determinati a proseguire la nostra azione a favore del popolo afgano con i nostri alleati», ha affermato il portavoce del Quai d’Orsay, Bernard Valero. «La Francia è impegnata in Afghanistan accanto ai suoi alleati nell’ambito dell’Isaf», ha detto Valero. «Questa forza che ha il mandato dell’Onu e l’avallo degli afgani ha come missione di contribuire al ritorno della stabilità e al ripristino della pace e dello sviluppo in Afghanistan e ciò non toglie che la Francia lavori senza sosta per la liberazione dei nostri due connazionali tenuti in ostaggio in Afghanistan come degli altri ostaggi francesi nel mondo.Tut-
ze nazionali afghane entro il 2014, obiettivo che Medvedev approva. Sempre ieri, proprio mentre a Roma si tenevano i funerali del nostro militare Luca Sanna, un mezzo Lince della Task Force South in forza al reggimento lagunari Serenissima del Regional Command West, è stato coinvolto in un’esplosione da Ied (gli ordigni artigianali disseminati dai talebani sulle strade), per fortuna senza causare né feriti né vittime. Ma la situazione è sempre molto tesa. È arrivato anche un nuovo “editto”dei talebani contro le compagnie telefoniche afghane, costrette a spegnere le loro reti per la maggior parte del giorno per impedire che i miliziani vengano localizzati dalle truppe straniere di stanza nel Paese. Questa volta le restrizioni riguardano il distretto di Bala Murghab, nella provincia di Badghis e controllata dai militari italiani: la stessa dove è avvenuto l’attacco mortale al caporalmaggiore Luca Sanna.
quadrante
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Giordania in piazza «Pane e libertà»
Proteste a Tirana, almeno 3 morti
AMMAN. Al grido di “pane e liberta’”più di 5000 giordani sono scesi per le strade di Amman e altre città del paese per protestare contro la poverà e chiedere le dimissioni del premier Samir Rifai. «Via Rifai! Il popolo giordano non si piega», urlava il corteo che dalla moschea di Al-Hussein, nella capitale giordana, si è snodato fino all’ufficio del Comune. Ad organizzare la protesta, sull’onda della rivolta tunisina, l’ala locale dei Fratelli musulmani e il loro braccio politico, il Fronte di Azione islamica (Iaf). Per tacitare il crescente malcontento popolare, ieri il premier aveva annunciato un piano di 211 milioni di euro per aumentare i salari. Il 25% della popolazione vive sotto la soglia di povertà.
TIRANA. È di almeno 3 morti il bilancio provvisorio degli scontri tra polizia e manifestanti contro il premier Sali Berisha a Tirana. Ai sassi e agli oggetti scagliati da centinaia di dimostranti i poliziotti hanno risposto con lacrimogeni e autopompe per disperdere la folla. L’Albania vive una profonda crisi politica in cui l’opposizione - guidata dal sindaco della capitale, il socialista Edi Rama - accusa il governo del premier di corruzione. Le tensioni hanno portato la settimana scorsa alle dimissioni del vice premier Ilir Meta. «Non vogliamo prendere il potere con la forza e senza elezioni» ha dichiarato Rama «ma il governo si deve dimettere e indire il voto anticipato».
San Suu Kyi arriva su Twitter RANGOON. Aung San Suu Kyi potrà connettersi a internet da casa. La “Dama di Rangoon”, praticamente tagliata fuori dal mondo e senza telefono nè internet per 15 degli ultimi 21 anni, aveva annunciato prima della sua liberazione (due mesi fa) il desiderio di usare Twitter per entrare in contatto con i birmani, in particolare i giovani. E appena liberata aveva chiesto di attivare una linea presso un’azienda privata. La domanda è stata successivamente trasferita all’azienda statale Yatanarpon Teleport. I birmani devono infatti ottenere l’autorizzazione delle autorità per avere internet a casa. «Suu Kyi è molto contenta», ha detto il suo capo della sicurezza, «ma ancora non lo sta usando perchè si sente poco bene».
Il 2011 sarà l’anno del debutto della prima portaerei cinese. E del confronto con gli States per il controllo delle vie marittime
Se la Cina va per mare
Gli Usa sfidati sul piano tecnologico con unità stealth e missili antinave n Cina partito comunista e forze armate sono come una matrjoska. E la veloce salita degli uomini del partito a protagonisti della scena internazionale, significa un’altrettanto importante protagonismo degli uomini con le stellette, già molto invadenti in un campo che non dovrebbe essere il loro: l’economia. Al vertice tenuto questi giorni con l’inquilino della Casa Bianca, Barack Obama, il presidente Hu Jintao ha portato un piccola sorpresa: una sfida alla supremazia tecnologica americana, con il primo volo di un aereo invisibile ai radar. Dopo che anche nel settore dei sottomarini delle unità di superficie la tecnologia stealth cinese era stata sperimentata. Hu è presidente della commissione militare in ossequio alla cultura maoista secondo cui il potere politico nasce «dalla canna del fucile». E i militari sono dei grandi elettori nel partito. Ma è sul mare, nelle acque profonde degli Oceani e in quelle vicino alle coste del Chung Kuò che si giocherà la grande sfida tra Washington e Pechino. Seguendo le più elementari norme che regolano la vita di una potenza “insulare” e marittima come gli Usa il controllo delle vie del mare rimarrà essenziale per mantenere l’egemonia del modello democratico-liberale e liberoscambista, come prevalente. Ci sono già le sibille che contano gli anni che restano a Washington,
I
di Pierre Chiartano prima del gran sorpasso dei cinesi, ma siamo ancora lontani da quella boa. Certo è che l’America dovrà cercare di fiaccare ogni tentativo di Pechino di diventare una potenza marittima e di fare in modo che la Marina militare cinese non allarghi troppo la rete di basi e porti a livello globale. Per non parlare della assai prossima sfida su Taiwan che eccita gli animi del nazionalismo cinese e toglie il sonno al Pentagono.
Shi Lang è il nome dell’ammiraglio del Celeste Impero che, nel 1693, conquistò l’isola di Formosa e sarà anche il nome della prima portaerei con la bandiera rossa. Sicuramente non è un buon presagio per il futuro di Taiwan come Stato indipendente. La cinghia di trasmissione tra politica e forze armate in Cina non è mediata, ma diretta. Più del 30 per cento dei delegati che eleggono i vertici del partito provengono dalle fila degli uomini in divisa. Passata la politica di Mao Zedong, che vedeva le forze armate impegnate a sostenere i partiti fratelli in Corea, Indonesia, Malesia, Vietnam, Birmania e Mozambico, con l’arrivo di Deng Xiaoping ci fu la cancellazione quasi totale delle missioni all’estero e il disastroso conflitto contro i cugini vietnamiti. Circa mezzo milione di militari furono rispediti a lavorare nei campi di riso. Con i tagli dei già
scarsi fondi, arrivò però il permesso di mettersi in affari. Vent’anni fa la crescita cinese fu spinta proprio da loro, un esercito di “partite Iva” nel vero senso della parola. E sono stati sempre loro con la rete di società basate a Honk Kong e Macao a mettere a segno una delle operazioni più importanti per la rinascita della Marina militare cinese. Il governo cinese, tra il 1997 e il 1999 tolse quasi tutte le aziende all’esercito, eliminò i privilegi e il contrabbando, per poter entrare nel Wto. Ma in cambio dovette moltiplicare gli investimenti in armi e nuove tecnologie e nell’ultimo decennio le spese militari sono cresciute a un tasso del 10 per cento annuo. L’obiettivo quello di non perdere un eventuale conflitto regionale per riconquistare Taiwan. Qualcosa però è rimasto nelle mani dei militari, soprattutto per attività coperte all’estero. Ora raccontiamo dall’inizio la storia di quella sarà probabilmente la prima portaerei cinese. La Varjag, era la seconda portaerei classe Admiral Kuznetsov. Varata nel 1988 con il nome di Riga, fu trasferita incompleta all’Ucraina al crollo dell’Unione Sovietica. All’inizio del 1998 la Chin lot tourist and amusement agency, società cinese con base a Macao comprò la Varjag dal governo di Kiev per 20 milioni di dollari. Il progetto ufficiale era quello di trasformarla in un casinò galleggiante ormeggiato nel porto dell’ex colonia portoghese. Il contratto di vendita impediva
l’utilizzo militare dell’unità e l’obbligo di smantellare ogni sistema di bordo. Una volta completate le operazioni di acquisto la vecchia portaerei, dal destino ancora incerto, cominciò un’altra Odissea. Navigò senza una meta precisa nel Mar Nero per più di un anno, in attesa che il governo di Ankara la autorizzasse ad attraversare il Bosforo. La nave con i cavi di traino dei quattro rimorchiatori occupava una lunghezza di circa 550 metri. Le autorità turche temevano che non potesse effettuare in sicurezza le 15 correzioni di rotta necessarie per attraversare lo stretto. Ma sulla vera utilizzazione di questa unità c’erano già molte ambiguità, alimentate anche, nel 1999, dal contenuto di un articolo comparso sulla stampa di Honk Kong, che affermava che due ditte della difesa, una francese e una britannica, avevano proposto al governo di Pechino di riequipaggiare l’ex nave sovietica come unità militare.
Finalmente, nel settembre del 2001, la Varjeg riuscì a ottenere il via libera da Ankara per passare lo stretto del Bosforo e a prendere il mare verso la destinazione finale. Alle sette del mattino del primo novembre 2001, l’ex portaerei da 50mila tonnellate era entrata nelle acque territoriali turche. Ma un altro incidente la vide protagonista nell’Egeo, dove una burrasca spezzo i cavi di traino e costrinse la International transport contractors a una complessa operazione di recupero. Nel marzo del 2002 arrivò nel porto cine-
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Nucleare, ripartono i colloqui con Teheran. Che non cede ISTANBUL. Riparte dalla Turchia il negoziato del 5+1 con Teheran sul dossier nucleare. Sul tavolo che si è aperto ieri nel Palazzo Ciragan di Istanbul, c’è ancora la proposta iraniana, firmata da Ankara e Brasilia, sul trasferimento all’estero dell’uranio a basso arricchimento per la sua trasformazione in combustibile. Ipotesi mai veramente accettata dall’Occidente che si era visto rifiutare lo scorso anno l’ipotesi di lavoro dell’Aiea, ma su cui Teheran sembra aver ormai puntato i piedi. Nonostante le dichiarazioni distensive del negoziatore iraniano Said Jalili, che ha definito «molto positiva l’atmosfera»,Teheran infatti sembra restare ferma sulle sue posizioni: «La sospensione o il congelamento dell’arricchimento dell’uranio non è argomento di discussione al tavolo dei colloqui con il 5+1 a Istanbul» ha subito messo le mani avanti Abolfazl Zohrevand, consigliere di Jalili, prima di
se di Dailan. La Chin Lot era un’azienda sussidiara della Chinluck holding, legata a sua volta alla Goldspot investment ltd. Tutte le società erano legate all’esercito popolare, attraverso ex ufficiali trasformatisi in manager ai tempi di Deng. Anche se la Chinluck aveva poi negato ogni coinvolgimento delle forze armate di Pechino nell’acquisto della Varjeg, tre dei direttori della società provenivano da Shandong, la base della Flotta del Nord della Marina militare cinese. Erano dunque società paravento dei militari: la Chinluck era una società fantasma e la Chin Lot era priva di indirizzo e sede. Ricordiamo che proprio un anno prima, nel luglio del Duemila, il cacciatorpendiniere lanciamissili Shenzhen e la nave di scorta Nancang avevano attraversato per la prima volta l’Oceano Indiano meridionale, giungendo fino al Capo di Buona Speranza. C’era stato un precedente che aveva reso credibile la prima copertura dell’operazione Shi Lang. Dal 1985 erano state portate a termine due operazioni simili che trasformarono le portaerei Kiev e Minsk in altrettanti alberghi galleggianti. Anche l’unità Melbourne australiana era stata acquistata dai cinesi. Tanta segretezza e dissimulazione era però funzionale ad un progetto che avrebbe creato troppo allarme a Washington, in tempi dove l’America costruiva e disfava gli equilibri internazioDue marinai issano la bandiera rossa. In alto, due cadetti della Marina cinese. Nella pagina a fianco, la portaerei Shi Lang
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
iniziare la riunione. Le speranze riposte su questo incontro, il primo dopo il nulla di fatto di dicembre a Ginevra e dopo una sospensione dei colloqui durata 14 mesi, non sono comunque molte. Al tavolo siedono il gruppo dei 5+1 (Usa, Russia, Francia, Cina, Gran Bretagna piu’ la Germania), i rappresentanti dell’Aiea, e l’Alto rappresentante Ue, Catherine Asthon. Il “team” è pronto a giocare il tutto per tutto per un accordo. Ma non è detto che ci si arrivi.
La flotta cinese deve difendere le linee di rifornimento di materie prime utili per alimentare l’economia nali e dove i cinesi erano appena l’ombra di ciò che sono diventati oggi. L’argomento era tabù e in parte lo è ancora adesso, perché Pechino sa bene che il momento del confronto diretto non è ancora arrivato e tiene ancora un profilo basso sulle proprie forze navali. Anche se oggi è in possesso del missile balistico antinavea combustibile solido DF-21D, con gittata di 2mila chilometri, testato nel 1995 proprio vicino a Taiwan.
Dal 16 novembre del 1985 al 19 gennaio 1986, una flotta costituita dal cacciatorpendiniere lanciamissili Hefei e la nave da scorta oceanica Fengcang salparono per la loro prima visita in territorio straniero. Quindi in quel periodo comincia la “rinascita” delle forze navali di Pechino. La rotta della missione comprendeva passaggi attraverso i porti di Karachi in Pakistan, di Colombo nello Sri Lanka e di Chittagong nel Bangladesh, attracchi non casuali. A conferma che il progetto Varjeg proseguiva, era giunta una notizia, attraverso l’organo ufficiale del People’s liberation army: nell’Accademia di guerra di Dalian erano partiti i corsi per piloti della marina ad ala fissa. Ciò che aveva interessato gli analisti occidentali era stata la lo-
ro durata, aumentata fino a quattro anni, come l’addestramento di piloti imbarcati richiede. Nel 2009 sono stati mandati altri piloti in Brasile, per frequentare corsi equivalenti. Inoltre Pechino aveva comprato, sempre dai russi, quattro sistemi di avvicinamento per portaerei, non si sa se per equipaggiare le future unità o solo per addestrare i futuri piloti. Comunque era un segnale che il progetto proseguiva. Nei cantieri di Dailan, la Varjeg è stata a lungo monitorata dai satelliti e dal 2008 le attività a bordo si sono intensificate, con l’inasprimento delle norme di sicurezza per chi lavora nel cantiere.
Nel 2009, un rapporto dell’intelligence navale Usa dava per certo l’entrata operativa di una portaerei cinese nel biennio 2010 e 2012. Il 24 novembre dello scorso anno è poi cominciata l’istallazione del radar di bordo e ufficializzato il nome dell’unità della marina numero 83, Shi Lang, come l’ammiraglio che conquisto Taiwan nel XVII secolo. La flotta cinese è anche lo strumento più tangibile per mantenere i contatti tra la comunità quanxì sparsa nel mondo e la madrepatria. Nel mese di agosto dello scorso anno un gruppo navale cinese composto dal cacciatorpediniere Guangzhou e la fregata Chaohu è arrivato a Taranto. Il fatto più importante era che ad accogliere i marinai cinesi c’erano 350 cittadini cinesi residenti in Italia e una quindicina di rappresentanti dei media e stampa cinesi oltre l’ambasciatore di Pechino in Italia. A significare l’importanza politica della presenza navale cinese nel Mediterraneo. La marina del Chung Kuò sta da tempo scaldando i muscoli per difendere gli interessi di Pechino sul mare. Innanzitutto le linee d’approvvigionamento di materie prime ed energia provenienti da Africa, Medioriente, Sud America e Australia. Il nuovo secolo ha assistito anche allo sviluppo dell’aviazione di marina: è comparso l’aereo da combattimento FeiBao poi il nuovo Shenhjang J-15, un derivato dal russo Shukoi Su-33 Flanker D. Ora la marina cinese possiede circa 80 unità a bassa tracciatura radar e infrarossa per non parlare degli investimenti fatti sulla cyber war. Insomma, il 2011 potrebbe diventare per gli ammiragli del Chung Kuò l’anno del grande debutto.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
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il personaggio della settimana Oltre ad aver scritto minacce, avrebbe spifferato alla stampa dati confidenziali sui clienti della banca
Il postino di Assange: spia, pentito o gentiluomo? Viaggio nel mondo (reale e virtuale) dell’ex banchiere Rudolf Elmer, accusato di violazione di segreto di Stato per aver consegnato al leader di Wikileaks una lista con 2mila nomi di evasori di Maurizio Stefanini uello che fa un fischio». I giornali hanno cercato di renderlo con «colui che denuncia le irregolarità e/o le illegalità del proprio datore di lavoro», ma non è facile tradurre in italiano quel che significa il nome del sito Swiss Whistleblower Rudolf Elmer, su Internet al www.rudolfelmer.com/home/. Il whistle in inglese è semplicemente il nostro fischietto, ma il tin whitle è un popolare flauto di metallo tipico del folklore anglo-irlandese: d’altronde anche nel nostro Sud ci sono flauti popolari che sono chiamati “fischiotti”. Blow, come ci ricorda la canzone di Bob Dylan Blowin’ in the Wind, significa invece “soffiare”. Dunque, il signor Rudolf Elmer è, letteralmente, uno svizzero che soffia nel suo fischietto. Come un vigile urbano? Sì, e no. Effettivamente, da noi i vigili usano il fischietto per dare segnali di circolazione, e a volte per segnalare un’infrazione al codice della strada. Il fischietto della nostra polizia municipale e quel tipo di cappello che a Roma è chiamato pizzarda e a Milano ghisa derivano però da copricapi e strumenti di segnalazione di quella che in Inghilterra è
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la polizia tout court, e che per tradizione fischia imperiosamente per segnalare che sta venendo commesso un crimine. Per questo è difficile da rendere nella nostra lingua: da noi, i fischi vengono più spesso lanciati dagli ammiratori di belle donne, o dai delinquenti che fanno il palo ai compari. Ma forse questa ambiguità è simbolica, se si pensa al modo in cui la Svizzera si trova appunto in mezzo tra Italia e Inghilterra. A dir la verità più vicina a no dal punto di vista geografico, ma probabilmente più vicina agli inglesi come tratti culturali, con il che la medietà è ristabilita.
“Attivista-Riformatore-Banchiere”, si presenta infatti Elmer in questo sito. E nel dare il “Benvenuto alla mia webpage”, su uno spazio che simula un taccuino a quadretti e sotto un disegno del suo volto pensoso con gli occhiali e la mano sotto al mento: «La missione di questa pagina web è: sfidare il Segreto Bancario Svizzero presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e i Tribunali Svizzeri; fornire agli investitori che stabiliscono una struttura offshore o hanno a che fare con cause giudiziarie bancarie l’opportunità di informarsi se vogliono agire in modo da rispettare l’etica e la morale, così come sugli aspetti rischiosi delle materia; ristabilire la reputazione dei whistleblowers (come ad esempio a proposito dell’Lgt, in quel caso del Liechtenstein in cui il whistleblower ha ricevuto compensi eccessivi per fornire informazioni ai governo tedesco e britannico); mostrare che una banca privata etica e morale è possibile!». Il riferimento all’Lgt, impresa finanziaria della casa regnante del Liechtenstein, riguarda quello scandalo del 2008: quando un tecnico informatico della stessa Lgb di nome Heinrich Kieber passò ai servizi segreti tedesco i nomi di 700 evasori del fisco federale, in cambio di 4,2 milioni di euro. Dunque, il whistleblower è già non più l’agente delle forze dell’ordine che segnala il crimine, ma quello che da noi è il pentito che si trasforma in “talpa”. Collaboratore della legge, ma un tantinello
torbido. Senonché, nel 2010 il termine di whistleblower è finito poi associato a Hervé Falciani: o “monsieur Falsianì”, come lo chiamavano i suoi concittadini. Il 38enne esperto informatico residente a Mentone ma nato nel Principato di Monaco da una famiglia di origini toscane e con doppio passaporto italiano e francese, che con abilità di hacker ha sottratto alla Hsbc informazioni segrete su 127mila conti correnti appartenenti a 80mila persone di mezzo mondo: francesi, tedeschi, colombiani, cinesi. E anche italiani: 7.094 file che ha passato al setaccio della Guardia di Finanza, la cosiddetta “lista Falciani”. E qui passiamo dal “pentito”prezzolato, al giustiziere solitario che agisce non richiesto in favore della legge stile Supereroe, Batman o Zorro. Un personaggio tanto improbabile, che in molti hanno infatti sospettato un semplice agente segreto doc. Mentre Kieber si è arricchito e Falciani è stato lodato, però, il 56 enne Elmer è invece finito dentro. E qui abbiamo appunto la terza versione del whistblower e, come conseguenze, appunto la variante di quello che fischia per fare il “palo”, e viene invece arrestato. Nato a Zurigo, nella città stessa che ha dato alla Banca svizzera l’icona degli “gnomi zurighesi”, Elmer nel 2002 era da vent’anni dipendente della banca Julius Bär e da otto anni stava in una filiale delle isole Cayman. Filiale alle Cayman di una banca svizzera: in campo di segreto bancario l’equivalente del figlio di uno scozzese o una genovese nato a Barcellona sul versante della tirchieria. Ma dopo una fuga di notizie era stato sottoposto alla macchina della verità assieme ad altri dipendenti, secondo un costume dell’istituto. E non essendo stati i risultati soddisfacenti, lo avevano licenziato in tronco. Lui allora aveva fatto causa alla Banca chiedendo vari milioni di indennizzo, ma aveva perso. E nel 2005, anzi, si era fatto pure trenta giorni di carcere, e il 2005 è pure l’anno in cui lancia il suo sito, che assicura “senza fine di lucro”, contro l’opacità finanziaria.“Il segreto bancario è il furto più grande nella storia dell’umanità ed
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ha conseguenze catastrofiche per le persone più povere della terra”. Non è che sia particolarmente originale: già Bertolt Brecht aveva spiegato che «il vero delitto non è rapinare una banca, il vero delitto è fondare una banca». Brecht però le banche le conosceva solo perché ci depositava i propri soldi: in conti abbastanza cospicui, peraltro, e proprio in banche svizzere, nel mentre lavorava a Berlino Est al servizio del regime della Germania Orientale, ma tenendosi comunque ben stretta per ogni evenienza una cittadinanza au-
leaks, ma poiché il sito di Assange è nato solo nel 2006, in effetti è stato Elmer il primo antesignano di Assange, anche se poi il maestro è stato abbondantemente superato dall’allievo. I contatti tra i due risalgono al 2008, e già erano stati segnalati dalla stampa tedesca. Ma è stato lunedì che Elmer si è fatto vedere in conferenza stampa mentre passava a Assange due cd con nomi di ben 2.000 potenziali evasori, per un periodo compreso tra 1990 e 2009. Tra di essi individui, multinazionali, istituzioni finanziarie, hedge fund
Secondo il tribunale, l’uomo in realtà non avrebbe agito per ragioni etiche, ma solamente per vendetta striaca. Elmer, invece, la cosa la conosceva dall’altro punto di vista, e in profondità. «Sono stato attivo nel settore per 33 anni. Ho lavorato in sei diverse entità nascoste in limbi fiscali. Ho aiutato a nascondere decine di migliaia di milioni di politici, istituzioni finanziarie e organismi multinazionali, che avrebbero potuto essere impegnati per migliorare l’educazione, la sanità o le pensioni di milioni di persone umili in tutto il mondo. Per questo motivo sono un colpevole, un testimone, un informatore, un attivista e un riformatore». Oggi si dice che è andato con Wiki-
di vari Stati tra cui Svizzera, Stati Uniti, Germania, Regno Unito. E anche i nomi di 40 politici.
Ma un conto è dare queste informazioni alla Giustizia; un conto è affidarsi al misterioso australiano che ha scombussolato la diplomazia mondiale. Insomma, mercoledì l’ex-banchiere, o dovremmo forse dire bancario?, si è dovuto presentare di fronte a un tribunale distrettuale proprio di Zurigo. Imputazioni: minacce, tentata coazione e violazione del segreto bancario. Dichiarato colpevole, è stato condannato come
prima cosa, in mattinata, a farsi 240 giorni di prigione o a pagare una multa di 7.200 franchi svizzeri: circa 5.500 euro. A norma di legge, rateizzabile in 240 rate giornaliere da 30 franchi l’una. Pena sospesa con la condizionale per due anni, ma con l’obbligo di pagare 5000 franchi a titolo di tre quarti delle spese processuali. Ma poi in serata lo hanno addirittura arrestato, per “disprezzo della Corte”. Secondo il tribunale, Elmer non avrebbe agito per ragioni etiche, ma solo per vendetta. La storia ricostruita è quella di un dipendente infedele che inizia a scantonare quando gli rifiutano una promozione che ritiene di meritare, e che dopo un meritato licenziamento si porta via illegalmente un bel po’ di informazioni confidenziali, e con quelle cerca di ricattare il suo exdatore di lavoro. Questi gli risponde picche, e il whistleblower va allora dalla stampa. Ma neanche i giornalisti se lo filano, e allora lui si è rivolto ad Assange. «Lei ha fatto parte per anni del mondo bancario e ne ha tratto profitto» gli ha detto il giudice. Va detto che per lo meno sulla “tentata coazione” Elmer si è riconosciuto colpevole. «È vero, ho spedito e-mail anonimi ai responsabili della Banca: mi trovavo in una situazione di assoluta emergenza!». Insomma, sarebbe stato un atto di legittima difesa di fronte alla “guerra psicologica” che gli avevano scatenato contro. Ma le minacce le respinge. Non è stato lui, dice, ad aver annunciato un falso attentato con una bomba contro la sede zurighese della banca Julius Bär. Non è stato lui ad aver spedito alla banca una e-mail con la quale chiedeva che gli venissero versati 50.000 franchi. Un particolare che un giorno forse non lontano potrebbe intrigare un soggettista cinematografico: sia l’avvocato che lo difende che il procuratore che cerca di farlo condannare solo due donne, che si sono metaforicamente accapigliate con veemenza tutta femminile. «C’è una campagna orchestrata ad arte per mettere a tacere il mio assistito», protesta l’avvocatessa. La Banca avrebbe infatti ingaggiato dei detective
Dalle Cayman alla galera Rudolf Elmer è un ex dirigente della filiale alle isole Cayman della banca svizzera Julius Bär: dopo essersi dimesso nel 2002, aveva cercato di denunciare alle autorità le attività della banca, soprattutto per quanto riguarda le attività nei paradisi fiscali. Dopo che le denunce erano rimaste senza esito, aveva passato alcune informazioni a Wikileaks nel 2007. Lunedì scorso ha incontrato Assange a Londra e gli ha consegnato due cd contenenti i nomi di circa 2.000 evasori. Due giorni fa è stato arrestato a Zurigo, poche ore dopo la condanna a pagare oltre 6.000 franchi svizzeri (circa 4.500 euro) per i precedenti reati di violazione del segreto bancario e minacce a un altro dipendente. Secondo il tribunale, non avrebbe agito per ragioni etiche, ma solamente per vendetta. Elmer, sul suo sito, si presenta comunque così: «Attivista-Riformatore-Banchiere». Aggiungendo che «la missione di questa pagina web è: sfidare il Segreto Bancario Svizzero presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e i Tribunali Svizzeri; fornire agli investitori che stabiliscono una struttura offshore l’opportunità di informarsi se vogliono agire in modo da rispettare la morale; mostrare che una banca privata etica è possibile».
privati che si sono messi a sorvegliare Elmer e famiglia notte e giorno. Inoltre, contesta la violazione del segreto bancario. È vero: Rudolf Elmer riconosce di aver trasmesso dati di clienti della banca a diverse autorità fiscali della Svizzera e anche ad organi di stampa. Ma i dati sono stati spediti dalle Isole Cayman. Dunque: non si può neanche parlare di violazione del segreto bancario svizzero!
Attenzione alla raffinatezza giuridica: quando uscì il film Il Codice da Vinci e si parlò del segreto bancario svizzero che proteggeva la filiale di un istituto elvetico a Parigi, le associazioni rappresentative delle banche svizzere si arrabbiarono peggio che non l’Opus Dei per il modo in cui la stessa pellicola l’aveva ritratta. «La filiale di una banca svizzera in Francia è sottoposta alla legge francese!», puntualizzarono con stizza. Bene: è esattamente quello che sta ora ripetendo l’avvocatessa di Elmer. Ha inoltre chiesto il proscioglimento dall’accusa di minacce, ed ha proposto una pena pecuniaria alternativa di 1050 franchi, da 30 rate di 30 euro: anch’essa, con la condizionale. «Rudolf Elmer non sembra aver imparato nulla dal procedimento in corso», tuona invece la procuratrice. Insiste dunque che bisognerebbe appioppargli almeno otto mesi di carcere, oltre a una multa da 2000 franchi. D’altra parte, all’accusa che Elmer fa alla Banca di aver evaso le tasse a sua volta facendo figurare come svolte alle Cayman alcune attività effettivamente svolte in Svizzera, la stessa Banca ha ribattuto che era stato lo stesso Elmer a approfittare della documentazione in suo possesso per fabbricare prove false.