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ISSN 1827-8817 10125

he di cronac

Bisogna fare cose folli, ma farle con il massimo di prudenza

Henry Millon De Montherlant 9 771827 881004

di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 25 GENNAIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Cavaliere presenta la memoria difensiva mentre i deputati propongono una legge per punire i giudici

L’Italia tradita dal potere Dura reprimenda di Bagnasco contro il degrado morale del Paese Il presidente dei vescovi: «Preoccupano la mole dell’inchiesta e la desertificazione dei valori. I primi ad essere colpiti sono i nostri giovani: si deve tornare all’educazione di base, per tutti» IL TURBAMENTO OLTRETEVERE

Il testo della relazione all’assemblea Cei

Uno schiaffo, forte ma diplomatico

Il dovere di cambiare

di Luigi Accattoli

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di Angelo cardinal Bagnasco ome ho già più volte auspicato, bisogna che il nostro Paese superi, in modo rapido e definitivo, la convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni. Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine. In tale modo, passando da una situazione abnorme all’altra, è l’equilibrio generale che ne risente in maniera progressiva, nonché l’immagine generale del Paese. La collettività, infatti, guarda sgomenta gli attori della scena pubblica, e respira un evidente disagio morale.

ttimo per comunicativa e puntuale per contenuto è a mio parere il messaggio venuto ieri dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi, sul “turbamento”del Paese per le feste di Arcore e la battaglia che su di esse si è scatenata. Quanto alla richiesta che la Chiesa parli, ora essa appare soddisfatta: aveva detto abbastanza Avvenire e poi qualcosa il cardinale Bertone e ieri il cardinale Bagnasco, che si è collocato a metà tra i due: dicendo meno di Avvenire – quanto a riferimenti espliciti al premier – ma più di Bertone. È facile prevedere che ci sarà baruffa tra gli interpreti del presidente dei vescovi per quanto ha detto ad Ancona: ci sarà chi l’applaude per lo “schiaffo” a Berlusconi e chi l’apprezza perché si è “smarcato dal gossip” e non è andato “contro il governo”. Io dico che avranno ragione – in qualche modo – ambedue i cori. a pagina 5

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Da Sacconi a Bertolini: «Un invito rivolto a tutti»

Il Pdl fa buon viso a cattivo gioco: «La scomunica non c’è stata» Cautela e soddisfazione nelle prime reazioni al discorso di Ancona: «Se l’è presa anche con i giudici» Errico Novi • pagina 3

a pagina 2

L’esplosione nella sala arrivi di Domodedovo. Medvedev: «Prenderemo i terroristi»

Terrore all’aeroporto di Mosca Nuovo attentato kamikaze: decine di morti e centinaia di feriti Annuncio ai Comuni

Calderoli: «Federalismo da riscrivere» All’incontro di ieri con l’Anci il ministro leghista ha detto sì a tutte le richieste Francesco Pacifico • pagina 6

di Luisa Arezzo

Le indagini si dirigono nel Caucaso

La minaccia arriva sempre dalla Cecenia

er ora, il bilancio è di trentacinque vittime e oltre cento ferite: Mosca è sotto shock e ripiomba nell’incubo kamikaze, a meno di un anno dall’attentato alla metropolitana. Stavolta il terrorista - uno solo, sembra - si è fatto esplodere nella saletta vip del’aeroporto di Domodedovo, proprio accanto al ristorante del più grande scalo civile della capitale russa. L’esposione è stata devastante non solo per i sette chili di tritolo che conteneva la bomba, ma anche per via della terribile (e consueta) imbottitura rudimentale di bulloni e pezzi di ferro. a pagina 10

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

di Antonio Picasso a mancanza di una rivendicazione immediata e ufficiale ha aggiunto ulteriore confusione nelle autorità moscovite investite dall’attentato. Non è sufficiente, infatti, parlare di «azione terroristica», come ha laconicamente comunicato la Polizia. Al momento a Mosca, sono ricercate tre persone, probabilmente di origine caucasica. a pagina 11

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NUMERO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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pagina 2 • 25 gennaio 2011

il documento La prolusione del cardinal Bagnasco punta il dito contro lo scontro istituzionale e la mancanza di morale nella nostra politica

Il dovere di cambiare

«La desertificazione dei valori e il disastro antropologico rendono irrespirabile l’aria nel nostro Paese. Serve un’inversione di rotta» la novità di Angelo Cardinal Bagnasco

ome ho già più volte auspicato, bisogna che il nostro Paese superi, in modo rapido e definitivo, la convulsa fase che vede miscelarsi in modo sempre più minaccioso la debolezza etica con la fibrillazione politica e istituzionale, per la quale i poteri non solo si guardano con diffidenza ma si tendono tranelli, in una logica conflittuale che perdura ormai da troppi anni. Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci – veri o presunti – di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine. In tale modo, passando da una situazione abnorme all’altra, è l’equilibrio generale che ne risente in maniera progressiva, nonché l’immagine generale del Paese. La collettività, infatti, guarda sgomenta gli attori della scena pubblica, e respira un evidente disagio morale.

Colpisce “l’interventismo” evidenziato anche dai toni del cardinale

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La vita di una democrazia – sappiamo – si compone di delicati e necessari equilibri, poggia sulla capacità da parte di ciascuno di auto-limitarsi, di mantenersi cioè con sapienza entro i confini invalicabili delle proprie prerogative. [...] Come ho già avuto modo di dire, chiunque accetta di assumere un mandato politico deve essere consapevole della misura e della sobrietà, della disciplina e dell’onore che esso comporta, come anche la nostra Costituzione ricorda. Dalla situazione presente – comunque si chiariranno le cose – nessuno ricaverà realmente motivo per rallegrarsi, né per ritenersi vincitore. Troppi oggi – seppur ciascuno a modo suo – contribuiscono al turbamento generale, a una certa confusione, a un clima di reciproca delegittimazione. E questo - facile a prevedersi - potrebbe lasciare nell’animo collettivo segni anche profondi, se non vere e proprie ferite. La comunità nazionale ha indubbiamente una propria robustezza e non si lascia facilmente incantare né distrarre dai propri compiti quotidiani. Tuttavia, è possibile che taluni sottili veleni si insinuino nelle psicologie come nelle relazioni, e in tal modo – Dio non voglia! – si affermino modelli mentali e di comportamento radicalmente faziosi. Forse che questo non sarebbe un attentato grave al-

L’allarme sulla crisi e l’appoggio agli studenti di Vincenzo Faccioli Pintozzi toni sono diversi da quelli solitamente usati da un prelato di grande prudenza – intesa in senso di virtù teologale – come Angelo Bagnasco. L’arcivescovo di Genova non è più un “personaggio in cerca d’autore”, come più di un maligno lo dipingeva a inizio mandato per sottolineare la presunta sudditanza al Segretario di Stato vaticano Bertone, e lo dimostra con quest’ultimo intervento. Un intervento a tutto campo, che parte con il doveroso richiamo alla libertà religiosa e con un accorato appello contro la persecuzione dei cristiani in giro per il mondo: «Nessuno Stato accetta oggi tranquillamente condizioni di disuguaglianza nei rapporti economici, politici e culturali: se questo è vero, ed è fatto valere nelle sedi internazionali, occorre che il problema delle più elementari garanzie negate alle minoranze religiose – in non poche situazioni nazionali – venga posto con la lucidità e l’energia necessarie».

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Bisogna dare ascolto alle preoccupazioni reali e ai dubbi sinceri per meglio capirsi e per poter procedere con l’apporto più ampio e onesto possibile». Per Bagnasco, questa è la prima generazione “non garantita”, cui bisogna dare ascolto.

Ma c’è un’altra, maggiore emergenza che il porporato intende sottolineare: la crisi economica, che «non è finita. E che non sia esaurita lo dicono studiosi ed economisti, ma del fatto abbiamo conferma anche nella concreta vicinanza alla gente, nostra e dei nostri cari sacerdoti, ai quali indirizziamo il pensiero grato e fraterno». La crisi, dunque, ma non solo: «Contribuisce ad impensierirci ulteriormente il senso di spaesamento che perdura, non come un’atmosfera evidentemente artificiosa e momentanea, ma come stato d’animo concreto, affatto passeggero. Per questo resta sempre necessario ascoltare per meglio comprendere e opportunamente decidere». Insomma, come detto in apertura, un intervento a tutto tondo da parte di un prelato che, oggi più che mai, parla a nome dei vescovi italiani. E la parte relativa al malessere del Paese derivante dalla politica sembra passare persino in secondo piano: perché quello di Bagnasco è un allarme generalizzato ed endemico, una serie di bisogni che è necessario comprendere per poi risolvere. Forse è questo il vero cambiamento di passo della Conferenza episcopale italiana: la consapevolezza che non sia più il tempo di soluzioni già scritte, che serva necessariamente confrontarsi con tutti per trovare la strada migliore. Un cambiamento non da poco, rispetto ad alcune linee forse un po’ troppo assolutistiche presentate in passato su temi non religiosi, ma sociali. Un cambiamento forse imposto, anche perché il tempo a disposizione sembra essere sempre meno.

Questa è la prima generazione “non garantita”, cui bisogna dare ascolto per forza

Ma quello della libertà religiosa è un tema quasi dovuto, negli ultimi mesi: l’impegno e le parole di Benedetto XVI sulla questione sono inequivocabili e numerosissime, e la preoccupazione ecclesiastica per l’avanzamento della cristianofobia nel mondo è nota e radicata. Nel corso del suo intervento, però, il cardinal Bagnasco esprime anche altre due posizioni forti: la prima è di sostegno ai giovani studenti italiani che – nei giorni prima di Natale – hanno manifestato contro i tagli al settore dell’educazione in Finanziaria; la seconda è un memento sulla crisi economica internazionale ancora presente nei mercati mondiali. «La contestazione studentesca sviluppatasi nelle settimane precedenti il Natale - dice il cardinale - è un fatto che merita una riflessione non scontata.

la coesione sociale? E quale futuro comune potrà risultare, se il terreno in cui il Paese vive rimanesse inquinato? È necessario fermarsi tutti - in tempo, fare chiarezza in modo sollecito e pacato, e nelle sedi appropriate, dando ascolto alla voce del Paese che chiede di essere accompagnato con lungimiranza ed efficacia senza avventurismi, a cominciare dal fronte dell’etica della vita, della famiglia, della solidarietà e del lavoro. Come Pastori che amano la comunità cristiana, e come cittadini di questo caro Paese, diciamo a tutti e a ciascuno di non cedere al pessimismo, ma di guardare avanti con fiducia. È questo l’atteggiamento che permetterà di avere quello scatto di coscienza e di responsabilità necessario per camminare e costruire insieme.

Così, non possiamo non porre mente particolare alle giovani generazioni e al dovere educativo che investe in primissimo luogo la famiglia, e irrinunciabilmente i genitori, sostenuti dai parenti, in particolare dai nonni. La Chiesa è consapevole di questo diritto, primordiale perché naturale, dei genitori quali essenziali educatori dei loro figli, e si concepisce anzitutto al loro servizio, e questo fa con profondo rispetto e la premura che viene da un patrimonio umano e religioso a tutti noto. A sua volta, la Chiesa stessa ha un irrinunciabile mandato educativo, che intende assolvere con dedizione assoluta e santità di vita. Certamente l’istituzione scolastica fa tutto quello che può, specialmente attraverso l’impegno serrato di una moltitudine di docenti e operatori, competenti e generosi. Eppure, questo dispiegamento di disponibilità pare non bastare, tanto è grande e delicata oggi «la sfida educativa». Per questo deve entrare in campo la società nel suo insieme, e dunque con ciascuna delle sue componenti e articolazioni. Se la scuola – come oggi si intende – dev’essere «comunità educante», bisogna convincersi con una maggiore risolutezza che la società nel suo complesso è chiamata ad essere «comunità educante». Affermare ciò, a fronte di determinati «spettacoli», potrebbe apparire patetico o ingenuo, eppure come Vescovi dobbiamo caricarci sulle spalle anche, e soprattutto, questo onere di richiamare ai doveri di fondo, di evidenziare le connessioni, di scoprire i pilastri portanti di una comunità di vita e di destino.


le reazioni Casini: «Nessuno strumentalizzi le parole del cardinale»

E il Pdl festeggia: «Nessuna scomunica»

Da Sacconi a Bertolini c’è grande soddisfazione: «Un invito alla sobrietà rivolto a tutti. Anche ai giudici» di Errico Novi

ROMA. Paghino anche i magistrati. Aspettino una punizione. E anzi, che le toghe comincino con il prendere nota degli appunti rivolti dalla Cei. Più o meno è questo lo spirito con cui il Pdl accoglie il discorso del cardinale Angelo Bagnasco. C’è chi come il sottosegretario all’Interno Alfredo Mantovano fa una controdeduzione preventiva di qualunque possibile analisi sfavorevole al premier: «Il partito di Repubblica non lo ammetterà mai ma si aspettava molto di più dalla relazione». Altri, innanzitutto il ministro del Welfare Maurizio Sacconi ma anche Maurizio Gasparri e Isabella Bertolini, enfatizzano i passaggi in cui il presidente dei vescovi italiani si sofferma sul conflitto tra poteri: «È un aspetto particolarmente condivisibile, l’invito a superare questo scontro che dura ormai da 20 anni. È una prolusione equilibrata», dice Sacconi quando l’intervento del cardinale si è concluso da pochi minuti, «che si rivolgono anche alla magistratura»

Il presidente della Cei Angelo Bagnasco e il premier Silvio Berlusconi insieme in una foto del febbraio dello scorso anno, alle celebrazioni per l’aniversario del Concordato Se si ingannano i giovani, se si trasmettono ideali bacati cioè guasti dal di dentro, se li si induce a rincorrere miraggi scintillanti quanto illusori, si finisce per trasmettere un senso distorcente della realtà, si oscura la dignità delle persone, si manipolano le mentalità, si depotenziano le energie del rinnovamento generazionale. È la speranza, pane irrinunciabile sul tavolo dei popoli, a piegarsi e venire meno. Il cuore dei giovani tende - per natura - alla grandezza e alla bellezza, per questo cerca ideali alti: bisogna che essi sappiano che nulla di umanamente valevole si raggiunge senza il senso del dovere, del sacrificio, dell’onestà verso se stessi, della fiducia illuminata verso gli altri, della sincerità che soppesa ogni proposta, scartando insidie e complicità. In una parola, di valori perenni.

Gesù è il modello affascinante, l’amico che non tradisce e viene sempre incontro, che prende per mano e riaccende ogni volta la forza sorgiva che sostiene la fiducia verso la realizzazione di sé e la vera felicità. Questo - come adulti e come giovani - abbiamo bisogno di vedere e di sentire sempre, oltre ogni moralismo ma anche oltre ogni libertarismo, l’uno e l’altro spesso dosati secondo le stagioni.

Bisogna che nel suo complesso il Paese ringiovanisca, torni a crescere dal punto di vista culturale e quindi anche sociale ed economico, battendo i catastrofismi. Cambiare in meglio si può e si deve.

Le cortine fumogene svaniscono, arroganze e supponenze portano a poco. I sacrifici che i cittadini stanno affrontando acquistano un senso se vengono prospettati obiettivi credibili e affidabili. Tra questi, c’è l’orizzonte di una maggiore giustizia sociale e di una modernizzazione effettiva in ogni articolazione pubblica, anche quella a beneficio dell’utenza più larga, specialmente se perseguita nel rispetto delle regole, e respingendo il malaffare e le intimidazioni di ogni mafia. Come è obiettivo inderogabile l’avvio delle riforme annunciate, applicandosi in un’ottica puntigliosamente coinvolgente tutte le forze politiche, ciascuna secondo la misura intera nella parte assegnata dai cittadini. Bisogna avere fiducia nelle nostre qualità e potenziare la capacità elaborativa di ogni sede responsabile, affinando l’attitudine a captare umori e orientamenti per poterli comporre in vista di una mediazione d’insieme la più alta possibile. Un Paese complesso richiede saggezza e virtù.

Non si nota solo questo, è chiaro. Lo stesso responsabile del Welfare non si lascia sfuggire il messaggio «a coloro che hanno responsabilità pubbliche nelle istituzioni, alle coscienze di tutti, credenti e non credenti». Sta di fatto che se “il partito di Repubblica”, come lo chiama Mantovano, non ottiene scomuniche (semmai davvero qualcuno le ritenesse possibili), quello del premier si aggrappa energicamente a ogni sfumatura riferibile alla magistratura. Pier Ferdinando Casini ricorda che ogni strumentalizzazione mortificherebbe la Chiesa. Ma prevale il clima di rappresaglia, vendetta, in ogni caso di scontro tra fazioni. Chi nella maggioranza prende la parola – non moltissimi – non manca di rimarcare la molteplicità di destinatari della prolusione. Atteggiamento che in qualche modo sembra intrecciarsi con l’altra novità che arriva in giornata dal Pdl: l’accelerazione su una legge destinata a punire «l’ingiusta intercettazione». Anche in questo caso nel mirino ci sono le toghe. E l’iniziativa del deputato Luigi Vitali, esponente pdl della commissione Giustizia, sembra realizzare perfettamente l’annuncio fatto qualche giorno fa dal Cavaliere: i pm saranno puniti. «No, si tratta di responsabilizzarli», dice il parlamentare. Sta di fatto che il ddl, presentato più di due mesi fa, subito dopo che trapelarono le prime informazioni sul caso Ruby, prevede sanzioni disciplinari per pubblici ministeri e per qualunque magistrato che autorizzi intercettazioni pur essendo «incompetente».

a imputati intercettati e poi prosciolti sia a testimoni le cui conversazioni siano state «sbattute sui giornali». Il testo realizza almeno in parte, e in certi punti in modo ancora più severo rispetto all’originale, la ratio di quel ddl intercettazioni bloccato l’estate scorsa dai finiani. Tanto più che la legge firmata da Vitali e da altri deputati (Lehner, Cassinelli e quell’Edmondo Cirielli che a suo tempo ripudiò la legge salva Previti) introduce addirittura la retroattività di queste sanzioni: sarebbe cioè possibile infliggerle per chiunque sia stato coinvolto in indagini negli ultimi cinque anni. Il clima è questo, dunque. La tensione nel Pdl è tutta rivolta a colpire i pm di Milano in contropiede. Eppure anche sulla prolusione di Bagnasco non si conta un diluvio di dichiarazioni, nel partito del Cavaliere. Si materializzano sulle agenzie solo gli “addetti”del settore. Cioè quelle prime linee, ministri e parlamentari, istituzionalmente incaricati dal premier di dare la linea.

Aspetto che sembrerebbe corroborare il disappunto di Berlusconi per un presunto sfilacciamento del suo esercito. Secondo il presidente del Consiglio «in molti già si preparano al dopo, già si sono ritirati dalla battaglia, non si espongono». Esagerazioni? Se ve ne sono, il Cavaliere non è il solo a coltivarle. Spiega un fedelissimo: «Fino a un po’ di tempo fa, sulle questioni più importanti dichiaravano tutti. Anche il parlamentare più sconosciuto teneva a piantare una bandierina almeno ogni tanto. A testimoniare la sua vicinanza a Berlusconi con un intervento di fuoco. Adesso parlano davvero solo quelli preposti a farlo, e in effetti non è un bel segnale». Paradossale. Ma allora come reagirà Berlusconi nel leggere il commento di un esponente ciellino del Pdl come Mario Mauro? Il presidente degli eurodeputati berlusconiani indica sì gli elementi chiave del discorsio di Bagnasco nel «conflitto, improvvido, tra i poteri dello Stato» e nella «determinazione a fare delle istituzioni uno strumento della lotta per il potere». Mette all’indice pure «il moralismo interessato», però poi si compiace per la «parola chiara su chi è chiamato a ricoprire cariche pubbliche: non apparire sobrio e onorevole ma esserlo. E queste parole», chiosa Mauro, «più che un commento chiedono una immedesimazione». L’eurodeputato di Cl insomma approfitta per attestare il disagio della sua componente, per dire a Berlusconi che così non va bene. Seppure sottovoce, con garbo, quasi con affetto. Visto il clima di sospetti, c’è il rischio che su Mauro sia chiamato a pronunciarsi il collegio dei probiviri.

I non molti che intervengono enfatizzano i passaggi sul «conflitto tra poteri». Intanto arriva un ddl contro le «ingiuste intercettazioni» dei pm

Previsti anche «indennizzi fino a 100mila euro» a carico degli stessi pm da pagare sia


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l’approfondimento

Il discorso di Angelo Bagnasco all’Assemblea della Cei di Ancona disegna un progetto complessivo per ricostruire l’Italia

Il Partito della Chiesa

Il nodo aperto dalla fine della Dc è ancora irrisolto. «L’apertura di tutti gli schieramenti alle tematiche cattoliche non ha dato i risultati sperati e adesso il Vaticano deve ripensare tutta la sua strategia». Parla Vittorio Possenti di Riccardo Paradisi iamo a un punto particolare dei rapporti tra politica italiana e Chiesa cattolica. Dopo l’esaurimento della dottrina Ruini della diffusione trasversale del lievito cattolico si assiste a a una crisi tra le gerarchie e lo schieramento che in tutti questi anni l’episcopato ha avuto come interlocutore privilegiato sulla difesa dei cosiddetti ”valori non negoziabili”, soprattutto in riferimento ai temi bioetici e di difesa della vita. Non si tratta solo delle severe parole di Bagnasco pronunciate alla conferenza episcopale ad Ancona e riferibili alle note vicende che interessanti il presidente del Consiglio. Si tratta di qualcosa di più profondo e di più strutturale che ha a che vedere, come dice a liberal Vittorio Possenti – tra i più autorevoli filosofi politici cattolici e membro del comitato nazionale di bioetica – l’unità stessa del Paese rispetto alla quale la situazione di oggi è più complicata rispetto a quindici anni fa, a un’inesistente politica per la famiglia, a una disoccupazione giovanile in au-

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mento». Insomma le gerarchie vaticane stanno oggi riflettendo sulla strategia più opportuna di interlocuzione con la politica italiana da una posizione sospesa, attendista.

Possenti ripercorre la storia del complicato rapporto tra le due sponde del Tevere partendo dalla fine del partito di riferimento cattolico. «Lo spartiacque della crisi tra mondo cattolico e politica italiana è l’anno ’93-’94, quando avviene il crollo della Dc e la nascita del Partito popolare. Le elezioni del marzo ’94 segnano la sconfitta del centro politico inteso come luogo di identità culturale e di geografia politica. Sconfitta anomala peraltro perché il centro guidato da Mino Martinazzoli conquista in quella tornata elettorale 6 milioni di voti. Ma i popolari si trovano in una condizione impossibile, bersaglio di una campagna furibonda contro il centro che si sostanzia nella polarizzazione destra sinistra, nel “o di qua o di la”. I sei milioni di voti di Martinazzoli, che oggi ne farebbero la terza

forza politica del Paese al 16%, dopo Pdl e Pd, non sono potuti entrare nel gioco politico democratico perché messi fuori campo dalla legge elettorale. Un paradosso, visto che la lega con la metà di quel consenso manda in parlamento due volte e mezzo i deputati popolari. Da quel punto in avanti s’è proceduto con la presenza dei cattolici in politica come problema. È stato tentato l’aggancio con Prodi e il centrosinistra foriero di particolari insuccessi e delusioni. Ha avuto apparentemente più successo l’aggancio con

L’episcopato è preoccupato per la tenuta e l’unità del Paese

Berlusconi e il suo gruppo che però alla prova dei fatti, al netto della tenuta sul fronte bioetico, s’è rivelato deludente sul piano delle politiche cattoliche». Possenti non si riferisce solo agli ultimi scandali ma dello stato di stagnazione del Paese. «Il documento emerso dalla settimana sociale di Reggio Calabria di ottobre parlava dell’Italia come potenza declinante sotto moltissimi profili, dalla disoccupazione giovanile alla moralità pubblica. Un bilancio negativo del rapporto di questi anni con la politica».

Certo, questo risultato volge di segno, come si accennava, sulle questioni bioetiche: dalla difesa dell’embrione alle politiche di contenimento su clonazione e fine vita. «Ma l’alleanza Berlusoni-Lega non ha portato un miglioramento su tutti gli altri fronti», ripete Possenti. Dunque? «Dunque occorre, da parte dei cattolici, una ripresa d’iniziativa in prima persona, non delegando a nessuno, che sia di centrodestra o di centrosinistra la rappresentanza delle proprie istanze». Entrare in scena in prima persona, dunque: passare dalla persuasione morale all’azione. Il problema è che i cattolici non hanno più una propria classe politica dirigente all’altezza del compito: «L’epoca di Fanfani, Dossetti o Moro è finita. Il mondo cattolico italiano non forma più classi dirigenti proprie da molti anni. Sicchè riprendere l’iniziativa su un terreno dove s’è persa molta strada è difficile». Ma che co sa è ca pitato perché si è interrotta una lunga tradizione di formazione


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Le opinioni del presidente della Cei sono in linea con quelle di Bertone e dell’«Avvenire»

Lo schiaffo a Berlusconi: duro ma diplomatico Il testo letto ieri è più risoluto del previsto, ma resta al di qua dei limiti di un discorso che non voleva aprire un contenzioso con il premier di Luigi Accattoli ttimo per comunicativa e puntuale per contenuto è a mio parere il messaggio venuto ieri dal cardinale Angelo Bagnasco, presidente dei vescovi, sul “turbamento” del Paese per le feste di Arcore e la battaglia che su di esse si è scatenata. Quanto alla richiesta che la Chiesa parli, ora essa appare soddisfatta: aveva detto abbastanza Avvenire e poi qualcosa il cardinale Bertone e ieri il cardinale Bagnasco, che si è collocato a metà tra i due: dicendo meno di Avvenire – quanto a riferimenti espliciti al premier – ma più di Bertone. È facile prevedere che ci sarà baruffa tra gli interpreti del presidente dei vescovi per quanto ha detto ad Ancona: ci sarà chi l’applaude per lo “schiaffo” a Berlusconi e chi l’apprezza perché si è “smarcato dal gossip” e non è andato “contro il governo”. Io dico che avranno ragione – in qualche modo – ambedue i cori in quanto il cardinale ha posto la massima attenzione nell’evitare di dire una qualsiasi parola – tra le molte che giustamente ha dedicato al caso – che potesse prestarsi a un uso strumentale e di parte.

blici: ciò che fanno in privato un Berlusconi o un Vendola non è affatto per loro “indifferente” ma viene dopo rispetto alla rispettiva linea politica. È per questa ragione che la disapprovazione del comportamento del presidente Berlusconi formulata in chiaro da Avvenire doveva essere rivendicata e magari approfondita dal cardinale quanto al contenuto, ma non poteva esserlo nominalmente. Penso che Bagnasco nella prolusione di ieri – come

La mia lettura è che il presidente dei vescovi abbia detto tutto ciò che poteva dire senza essere accusato di oltraggio, ma l’abbia detto con il massimo di diplomazia, arrivando a non nominare mai Berlusconi, né le feste e tampoco le ragazze, ma neanche l’inchiesta della Procura di Milano e le ragioni addotte dal premier per non presentarsi ai giudici. L’accenno ai «poteri che si tendono tranelli» chiama in causa anche i magistrati, con lo stesso trattamento per allusione che in più passi è riservato a Berlusconi. Il monito a “fare chiarezza” nelle “sedi adeguate” non fa del resto sconti a nessuno, a partire dal premier ma senza escludere ogni altro soggetto in conflitto. Da cristiano comune mi aspettavo che il cardinale dicesse di meno ma fosse più diretto. Da cronista dei fatti di Chiesa intendo invece la sua scelta, tesa a rispondere alle aspettative di un uditorio vastissimo che va da chi avrebbe voluto una chiara accusa, non essendo soddisfatto di quanto si era azzardato a dire Avvenire, a chi non avrebbe voluto la sortita di Avvenire né vorrebbe mai che gli ambienti di Chiesa abbiano ad aprire un qualsiasi contenzioso con Berlusconi e il suo governo. Occorre aver presente un punto chiave dell’intendimento degli ecclesiastici ogni volta che si occupano – controvoglia – del comportamento privato di personaggi pub-

già nel settembre del 2009 sul caso Boffo – abbia raggiunto un equilibrio estremo oltre il quale non potrà andare ma che al momento è risultato efficace: dire senza nominare e denunciare senza condannare.

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Stando ai rari ma calcolati interventi, Oltretevere si disapprovano le feste e le abitudini del Cavaliere

Che la gerarchia ecclesiastica disapprovi alto pur parlando basso lo si intende facilmente se si ricordano nell’insieme i suoi rari ma calcolati interventi da quando sono in questione l’alcova forse deserta di Berlusconi e le sue feste affollate, cioè dalla primavera del 2009 a oggi. Alla fine di luglio del 2009 vi era stata una terza e più decisa uscita dell’Avvenire di Boffo, dopo due più leggere in maggio e giugno: «Non ci piace – scriveva il direttore – che determinati comportamenti siano messi a confronto con un consenso – emergente dai sondaggi – che di per sé è qualcosa di inafferrabile, quasi che da questi possa venire l’avallo a scelte poco consone». La questione etica veniva così formulata: «C’è davvero, per la classe politica, ancor prima della decenza, un a priori etico che va salvaguardato sempre e in ogni caso?» Dino Boffo verrà attaccato dal Giornale di Feltri e sarà costretto alle dimissioni. Aveva infranto il tabù di aver nominato e censurato il Premier, mentre fino a quel momento la segreteria e la presidenza della Cei avevano fatto richiami non nominali. E vibrante e puntuale era stato, in un’omelia del 6 luglio del 2009, l’arcivescovo Mariano Crociata, segretario della Cei, che aveva puntato il dito contro il “libertinaggio gaio e irresponsabile” che stava guadagnando terreno nell’immagine del Paese e aveva accennato anche a scandali con «implicazione di minori», ma ovviamente non aveva nominato Berlusconi. Non lo nominò neanche il cardinale Bagnasco alla fine di settembre di quello stesso anno, che pur faceva sua la censura mossa da Avvenire e richiamava la Costituzione per il monito sulla “misura”, la “sobrietà” e la “disciplina” a cui dovrebbe attenersi chi assume un “mandato politico”: monito che poi ha fatto scuola e che il cardinale ha riproposto ieri. Ultimamente il cardinale Tarcisio Bertone ha detto di condividere l’avvertenza del Presidente della Repubblica sul “turbamento” del Paese e poco prima Avvenire aveva detto assai di più: «Anche solo l’idea che un uomo che siede al vertice delle istituzioni dello Stato sia implicato in storie di prostituzione e, peggio ancora, di prostituzione minorile ferisce e sconvolge». L’Avvenire del direttore Tarquinio va avanti a suo rischio e pericolo, come già quello di Boffo. Ma l’ufficialità vaticana ed episcopale non punta il dito su Berlusconi e credo che non lo farà finchè egli resterà in sella. Lo farà – forse – quando egli non sarà più così potente in ordine agli interessi della cattolicità. www.luigiaccattoli.it

di classi dirigenti cattoliche? «L’ipotesi che faccio è che si tratti d’una conseguenza del prevalere di una cultura e di fenomeni di massa, dei media e dello spettacolo, che non favoriscono la formazione in profondità come è quella cattolica». Da qui anche un atteggiamento poco propulsivo: «Fa riflettere anche il progetto culturale che, iniziato nel ’97 con Ruini, mi è parso appannato rispetto all’impulso iniziale. Sui 150 anni dell’unità d’Italia s’è parlato più di tradizione che di progetto. E questo mi sembra un campanello d’allarme perché se i cattolici italiani devono riprendere l’iniziativa la mancanza d’un progetto culturale è un problema». Eppure, è l’opinione di Possenti, malgrado tutte le difficoltà, la scelta peggiore è restare nel guado: «Per semplificare si potrebbe dire che i tempi sono maturi per un progetto politico neoguelfo ma che questo progetto si scontra con due grandi scogli. Il primo, come dicevo, è l’assenza d’una diffusa classe dirigente cattolica. Il secondo è la perdurante presenza d’un sistema elettorale punitivo per il centro. Quello che un progetto del genere potrebbe trovare sulla strada è la presenza d’un partito cattolico come l’Udc che se dovesse resistere abbastanza a lungo, anche grazie alla costituzione di questo terzo polo, potrebbe ereditare il consenso in uscita da un centrodestra che non si profila più come qualcosa d’eterno, almeno per come lo conosciamo». Insomma secondo Possenti si tratta d’andare oltre l’attuale posizione delle gerarchie riassumibile con la strategia di interlocuzione privilegiata con uno schieramento politico, ma anche di andare oltre la dottrina Ruini della semina a trecentosessanta gradi del lievito cattolico. «La strategia di Ruini, imposta dalla dissoluzione della Dc ha portato dei risultati positivi, come il referendum del 2005 ma è una strategia datata che a destra come a sinistra lascia scoperti più temi di quanti ne metta in sicurezza. È anche vero che per ricostruire leadership cattoliche ci vogliono tempi lunghi ma se l’episcopato continua a prendere su di sè il problema, a fare da supplente, questa formazione verrà sempre più ritardata, il laicato sempre più deresponsabilizzato». C’è poi un altro aspetto negativo: «Nel momento in cui cardinali e vescovi entrano in rapporto diretto con la politica, facendo a meno d’un partito di riferimento, la contaminazione con la politica si fa sentire. Il suggeritore condiziona ma è anche sempre condizionato». Un largo partito a forte identità cattolica recupererebbe la politica all’autonomia ed esonerebbe l’episcopato dall’interventismo.


diario

pagina 6 • 25 gennaio 2011

Una legge contro il «caporalato»

Italiani sempre più vecchi

Il Papa promuove i social network

ROMA. Le categorie Cgil degli

ROMA. Gli italiani sono sempre

edili e dell’agricoltura, Fillea e Flai, insieme alla Confederazione hanno lanciato una campagna dal titolo «Stop caporalato», con l’obiettivo di inserire nell’ordinamento penale il reato di caporalato, che oggi «è punito in caso di flagranza fanno sapere le due organizzazioni - con una sanzione amministrativa di appena 50 euro per ogni lavoratore». A questo scopo Fillea e Flai hanno messo a punto una proposta di legge. Manifestazioni, assemblee, camper, gazebo di stampa, utilizzo dei social network, presidi nei «mercati delle braccia»: questi alcuni degli strumenti che verranno utilizzati per sensibilizzare i cittadini, i lavoratori, i mass media e le istituzioni locali.

più longevi, ma le nascite diminuiscono, nonostante l’apporto sempre maggiore delle madri straniere. Il dato emerge dalle stime anticipate dei principali indicatori demografici relativi all’anno 2010, diffusi dall’Istat. Nel corso dell’ultimo anno la popolazione è continuata a crescere e ha superato i 60 milioni 600mila residenti al primo gennaio 2011, con un tasso d’incremento del 4,3 per mille. E la speranza di vita sale ancora: 79,1 anni per gli uomini, 84,3 anni per le donne con, rispettivamente, un guadagno di tre e due decimi di anno sul 2009. Rispetto all’anno precedente risultano in calo tanto le nascite quanto i decessi, ma le prime in misura maggiore dei secondi.

CITTÀ

DEL VATICANO. Il Papa promuove internet e i social network: «La proclamazione del Vangelo può e deve avvenire anche via Internet, ma essa richiede una forma rispettosa e discreta di comunicazione, che stimola il cuore e muove la coscienza». Così ha detto Benedetto XVI nel suo messaggio per la 45/a Giornata mondiale delle Comunicazioni sociali. Secondo papa Ratzinger, «i credenti, testimoniando le loro più profonde convinzioni, offrono un prezioso contributo al web». Quanto ai social network, «offrono nuove opportunità di condivisione, quindi di dialogo, scambio, solidarietà e creazione di relazioni positive». Occorre però «evitarne i pericoli, quali il rifugiarsi in una sorta di mondo parallelo».

La Lega ha bisogno della «sua» riforma e accetta la richiesta dell’Anci: tutto rinviato per il testo sulla finanza comunale

Federalismo, si ricomincia

Da Calderoli sì ai Comuni. Ma i centristi insistono: «Cambiare il decreto» di Francesco Pacifico

«È stato un incontro molto utile, soprattutto perché il ministro Calderoli ci ha ascoltato con attenzione e al termine ha annunciato alla nostra delegazione che presenterà un nuovo decreto legislativo sul federalismo municipale»: è questa la dichiarazione fatta dal vicepresidente vicario dell’Anci, Osvaldo Napoli, al termine dell’incontro

ROMA. Come ogni lunedì anche ieri Giulio Tremonti si è tenuto ben lontano da via XX settembre. E poco importa che nelle sale del ministero dell’Economia Roberto Calderoli stesse concordando un nuovo decreto con i sindaci sul federalismo municipale. La trattativa non è ancora conclusa. Ma forse non è un caso che proprio l’assenza dell’ingombrante collega abbia permesso al ministro della Semplificazione di mostrarsi più generoso e disponibile verso le richieste della controparte. Anche perché ai sindaci, come o più della riforma stessa, interessa recuperare parte dei 4,5 miliardi e mezzo di trasferimenti che proprio il Tesoro ha deciso di tagliare per il prossimo biennio con la manovra di luglio. Soldi che soltanto lo sblocco delle addizionali possono riportare nelle casse dei municipi. Senza dimenticare che i primi cittadini reclamano ancora di essere risarciti dopo l’abolizione dell’Ici sulla prima casa, balzello che ha visto ridurre le loro entrate di circa due miliardi all’anno.

Sono in molti a pensare che il miglior alleato di Umberto Bossi rischi di diventare il peggior nemico di Roberto Calderoli. E che Giulio Tremonti sia il principale ostacolo alla realizzazione del federalismo fiscale, l’ex dentista bergamasco se lo sente ripetere ogni qualvolta riceve sindaci o governatori (soprattutto leghisti). Come con la tela di Penelope, uno media, smussa gli angoli, sblocca risorse e concede poteri agli amministratori. Poi, quando agli accordi dovrebbe-

ro seguire le leggi, arriva l’altro (il dominus di via XX settembre) a far saltare tutto. E può farlo senza colpo ferire perché è difficile smentirlo quando sostiene che non ci sono soldi. Eppoi nella delega al federalismo è scritto che i regolamenti attuativi – quelli dove si sciolgono nodi centrali come le quote di perequazione – dovranno essere vergati dal ministro dell’Economia. Ma fare questa a riforma a costo zero è quasi impossibile. Osvaldo Napoli, numero due dell’Anci e ieri in via XX settembre in rappresentanza del presidente Sergio Chiamparino, non a caso premette che «le cose saranno chiare soltanto

con un nuovo testo. Infatti nessuno delle parti ha preso una posizione, prima della nuova bozza e del nostro direttivo in calendario per domani». Ma l’ex sindaco di Giaveno e vicecapogruppo del Pdl alla Camera ha parlato di «un incontro estremamente franco e concreto, con il ministro Calderoli che ha ascoltato le nostre problematiche e le nostre richieste. E abbiamo iniziato un lavoro che ha una parte, non tutto, di positività». Se il dialogo con i Comuni sembra riallacciato, ora c’è da ricostruire anche un rapporto con il Pd e con il Terzo polo. Con motivazioni diverse hanno chiesto una proroga di sei mesi all’ap-

provazione complessiva della riforma e presentato non pochi emendamenti per legare le addizionali comunali all’Iva e non all’Irpef, consentire sgravi anche agli inquilini con la cedolare secca fino ad alleggerire la posizione dei proprietari della seconde case. cioè la categoria che con la nuova Imu rischia di doversi accollare tutto il gettito mancante ai municipi dopo l’abolizione dell’Ici. E con 14 voti a 14 nella Bicameralina presieduta da Enrico La Loggia, le opposizioni hanno il coltello dalla parte del manico: perché un voto negativo al parere sul decreto della fiscalità municipale non sarà vincolante, ma potrebbe avere come

estrema conseguenza anche quello di dover spingere il governo a ritornare alla delega originaria sul federalismo. Spiega Gian Luca Galletti, vicecapogruppo dell’Udc alla Camera: «Aspettiamo il nuovo testo annunciato dal ministro Calderoli per capire se sono state prese in considerazione le nostre proposte. Altrilmenti il voto sarà contrario. Perché l’Anci è un’associazione di categoria e non sempre gli interessi dei Comuni coincidono con quelli dei cittadini». Galletti non vuole acuire lo scontro tra livelli di governo dello Stato. «Capisco lo stato d’animo dei sindaci, costretti a lavorare in pessime condizioni


25 gennaio 2011 • pagina 7

Libertà di esprimere la propria fede

Il dopo Mirafiori in un vertice Federmeccanica-sindacati ROMA. La proposta di sostituire il contratto nazionale con gli accordi aziendali non è all’ordine del giorno, ma sindacati e Federmeccanica hanno affrontato anche questo argomento, sia pure marginalmente, durante il vertice di ieri. Nella convocazione dell’associazione di Confindustria, si parlava solo di Commissione auto. Il tema principale dell’incontro è stato quindi la nuova disciplina del contratto per l’auto, le norme che dovranno consentire alle newco della Fiat di Pomigliano e Mirafiori di rientrare nel sistema confindustriale. Al tavolo non c’erano i rappresentanti della Fiom, le tute blu della Cgil che non hanno siglato le ultime intese con il Lingotto. «Ormai la Fiom si è spinta troppo oltre per rientrare negli accordi delle attuali relazioni industriali», ha detto Rocco Palombella, numero uno della Uilm.

dopo i tagli di Tremonti. Ma non si può firmare un accordo che non ha niente a che fare con il federalismo». Ma accanto all’ultima versione del testo si attende con non meno trepidazione la relazione tecnica del Tesoro. Quella che, stando alle prime indiscrezioni, avrebbe visto al ribasso l’impatto sul gettito della cedolare secca: non più i 2,8 miliardi di euro in meno stimati nei mesi scorsi, ma un miliardo tondo, da recuperare soltanto con la lotta all’evasione. Giuliano Barbolini, senatore del Pd e relatore d’opposizione nella Bicamerale sul federalismo, parla di «un pasticcio: ancora mancano le relazioni tecniche per valutare le modifiche proposte dal governo al decreto sul federalismo municipale approvato dal Consiglio dei ministro lo scorso 5 agosto e già si annuncia un nuovo testo. Calderoli dovrebbe ringraziarci, visto che abbiamo sollecitato uno slittamento dei termini per il pronunciamento della commissione. Così si mortifica il confronto di merito». Giulio Tremonti intanto se ne sta a guardare. E la scelta è anche tattica, perché mettere il naso in un ambito che rischia di segnare la fine del governo e dell’asse del Nord tra Bossi e Berlusconi, potrebbe precludergli chance in una futura candidatura a Palazzo Chigi. Che a differenza di quello che gli ha mandato a dire Emma Marcegaglia, avrà i crismi del civil servant e una bollinatura elettorale. Chi è vicino al ministro, ripete che più del federalismo stesso – per lui la conditio sine qua non è che sia a costo zero – guarda con interesse alla riforma fiscale. Al riguardo, Renato Brunetta ha parlato di settimane per la presentazione di una delega in Consiglio dei ministri. In realtà il ministro dell’Economia si attende le prime relazioni dei quattro tavoli che si occupano del dossier già a marzo, ma questo non vuol dire che il processo subirà rallentamenti. Pur garantendo piena economia agli economisti che ha messo alla guida dei quattro

g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i

«Dopo il referendum di Mirafiori - ha aggiunto - abbiamo apprezzato il dialogo a riaprire i rapporti tra la Cgil e Confindustria ma questa organizzazione è andata al di là di quello ce si definisce un normale rapporto tra sindacati». Sulla questione Fiat è invece tornato il ministro dello Sviluppo Economico, Paolo Romani: «Mi piacerebbe che si parlasse del merito della proposta Fiat, nella quale, non c’è nulla di rivoluzionario, travolgente o antidemocratico».

Il ministro tratta su addizionali e perequazione. Ma ora c’è da convincere Tremonti

Dall’alto: Umberto Bossi, Enrico Letta, Giulio Tremonti e Sergio Chiamparino. Nella pagina a fianco, Roberto Calderoli

gruppi di lavoro (Piero Giarda, Vieri Ceriani, Enrico Giovannini e Mauro Maré) avrebbe usato la sua moral suasion per superare gli intoppi che si sono registrati nelle prime riunioni: sia quando Confagricoltura e il Forum delle Famiglie ha avuto da ridare sulla decisione di accorpare le 242 agevolazioni per i nuclei più numerosi sia quando le banche hanno proposto di allargare la sfera delle transazioni elettroniche contro il sommerso. Ma come nelle scorse settimane, ieri Roberto Calderoli ha aperto alle richieste dei Comuni su uno sblocco anticipato delle addizionali, che nel futuro schema federale sostitueranno pezzi di Irpef nazionale per garantire l’invarianza fiscale ai cittadini. Ma si è detto anche detto disponibile a riconsiderare la dinamicità del gettito, così come a ricalcolare l’aliquota Imu o a indicare su quali tributi ci sarà perequazione (lasciando in capo allo Stato centrale quelli meno stabili).

Misure che servono ai sindaci a tenere sul territorio quel surplus di quanto raccolto, che il Tesoro però vuole usare per finanziariare la perequazione. Tremonti, oltre a non permettere che la periferia non giri al centro una parte di tasse, è convinto che il federalismo deve essere la leva principale per responsabilizzare la classe dirigente locale. Ma per realizzare l’intento sta seguendo una strada che genera tensioni soprattutto nel Carrocio: tagliare le risorse agli enti locali (fossero i 14 miliardi dell’ultima manovra come l’abolizione dell’Ici sulla prima casa) per vincolarne i trasferimenti, i risparmi o i Fas. Sulla carta, e lo sperano i sindaci leghisti, si potrebbe rompere. Non a caso Enrico Letta ha offerto a Calderoli una soluzione degna del movimentismo catalano: una nuova maggioranza con Pd e Terzo polo in cambio del federalismo. Ma se il Cavaliere respingerà l’offensiva dei Pm, in via Bellerio si teneranno Tremonti e continueranno a esporlo a Pontida come il migliore dei ministri padani.

Con profonda tristezza si è appreso nei giorni scorsi di innumerevoli atti di grave violenza verso i cristiani presenti in India, Pakistan, Nigeria e Irak. Recentemente poi vi è stato il grave attentato alla Chiesa Copta di Alessandria d’Egitto, dove hanno perso la vita 23 persone e altre sono rimaste ferite, a causa di un attentato che ha voluto colpire una comunità cristiana che da millenni testimonia in quella città le origini cristiane.Vogliamo rivolgere, oltre che un atto di accusa per questi gesti irrazionali, che non hanno nulla a che vedere con il credere in Dio, la nostra più sincera e calorosa vicinanza alle comunità cristiane che in questo periodo vivono con sofferenza e difficoltà il loro essere discepoli di Cristo. Inoltre vogliamo, anche a motivo dell’opera silenziosa ma importantissima di molte persone consacrate che in Italia e nel mondo compiono azioni di dialogo con esponenti di varie religioni, con la volontà di costruire un mondo, dove possa essere presente una convivenza pacifica tra popoli e religioni all’insegna della reciproca libertà di esprimere la propria fede - condannare l’opera violenta di chi utilizza arbitrariamente il nome di Dio per compiere azioni violente verso uomini e donne inermi, sfregiando ciò che di più importante è stato dal Signore creato all’inizio del mondo, cioè l’umanità. Pertanto invitiamo ogni nostra comunità di vita consacrata, come segno di vicinanza ai nostri fratelli e alle nostre sorelle vittime di tale ondata di odio contro di loro, di dedicare momenti di preghiera per tale intenzione, come anche per chiedere al Signore Dio che possa essere superata ogni occasione di violenza contro i suoi discepoli.

Carlo e Alberto

L’IMMAGINE

Basta flash, per favore Una foto fa piacere, due pure, ma centinaia no! E questo timido orso polare, stanco delle attenzioni dei visitatori dello zoo di Mosca, dove vive, cerca di stare alla larga dai flash coprendosi il muso con le zampe

SANTORO E VAURO, FALSI MORALIZZATORI Il sito cattolico Pontifex ha giustamente denunciato per «offesa a capo di Stato estero» il vignettista Vauro, il giornalista Michele Santoro e il presidente della Rai Paolo Garimberti. Il motivo: una vignetta mostrata dallo stesso Vauro come di consueto verso la fine del programma AnnoZero, di giovedì scorso. Nel fumetto, appariva Benedetto XVI che, riferendosi al presidente del Consiglio Silvio Berlusconi coinvolto nel recente caso Ruby, diceva: «Ze a lui piacciono tanto minorenni può zempre farzi prete!». Bruno Volpe, direttore di Pontifex si è scagliato contro il «programma fazioso, istigatore di odio e da estirpare come metastasi». «L’ignobile vignetta finale del comunista Vauro», ha continuato Volpe, «ha offeso i cattolici e il Papa, con un assurdo, volgare, trucido riferimento al tema della pedofilia nella Chiesa». Secondo Volpe, Benedetto XVI è il papa che ha affrontato la questione della pedofilia clericale «con piglio, autorità e chiarezza esemplari». Per l’offesa al papa, il direttore ha chiesto l’oscuramento di quel programma, la cacciata immediata di Vauro e ha invitato gli abbonati a non pagare più il canone. Contro la tracotanza anticattolica dei compagni Santoro e Vauro, anche il quotidiano dei vescovi Avvenire tramite la penna di don Maurizio Patriciello ha duramente criticato la pseudo satira di Vauro: «non si può continuare a infangare impunemente quegli onesti cittadini dell’Italia e del mondo che sono i preti. Quelle vignette dovrebbero far ridere tutti e invece, spesso, mortificano e uccidono nell’animo tanti innocenti. La satira è il nuovo idolo davanti al quale inchinarsi, il diritto dato ad alcuni di dire, offendere, infangare, calunniare gli altri senza correre rischi di alcun genere». Il parroco se l’è presa anche con quelli che nello studio di AnnoZero, «ridono di un dramma atroce e di innocenti violentati, di me e dei miei confratelli sparsi per il mondo impegnati a portare la croce con chi da solo non ce la fa». La morale che si ricava dai falsi moralisti di AnnoZero che giovedì sera avrebbero dovuto “illuminare”gli italiani sui vizi di Berlusconi è semplicemente ipocrita! I nuovi moralizzatori (che furbamente non si fanno più chiamare comunisti, ma democratici) vorrebbero far credere all’opinione pubblica che Berlusconi, il Papa e i preti sono il male assoluto e loro, degli stinchi di santi. Stinchi senz’altro, ma di tutt’altra natura.

Gianni Toffali - Verona


pagina 8 • 25 gennaio 2011

il paginone

Cina, Sudan e Corea del Nord al vertice della lista dei violatori dei diritti umani. Ma quest’anno c’è anche l’Italia dei respingimenti assi avanti non ce ne sono. Ed è colpa nostra. Anzi, si rinuncia ai valori democratici per gli interessi economici. I diritti umani nel mondo continuano ad essere più che altro belle enunciazioni sulla carta piuttosto che realtà vissute quotidianamente dagli abitanti di questo pianeta. E il rapporto annuale di Human Rights Watch lancia un j’accuse chiaro e forte: se i regimi totalitari sono per i loro cittadini degli inferni in terra, questo però avviene anche per responsabilità di quelle realtà democratiche e liberali che tendono troppo ad essere distratte. Distratte per interesse, perché alla fine i diritti degli altri valgono meno del business proprio, e quindi si può chiudere un occhio o anche tutti e due sull’applicazione della democrazia in quei posti che sono così importanti per le relazioni commerciali. Ma si tratta di un boomerang, in un mondo globalizzato come il nostro. Credere di poter scambiare petrolio e flussi economici coi diritti umani di miliardi di persone non porta quei risultati che i profitti a breve termine

P

L’Onu e l’Unione europea commettono un grave errore ad affidarsi ai canali diplomatici e non alla condanna pubblica dei regimi mondiali fanno sperare. Infatti i diritti compressi di popoli lontani finiscono per avere riflessi diretti sui popoli vicini. Perché l’oppressione provoca una reazione che spinge al terrorismo, perché la povertà alimenta l’emigrazione, e perché la mancanza di diritti consente uno sfruttamento del lavoro a costi così competitivi da rendere Per questo il rapporto non lesina critiche a tutti, dai soliti regimi alle organizzazioni internazionali, dall’icona Obama ai governi islamici, dalla Russia all’Italia. Sì, anche all’Italia, in cui si eviden-

ziano i rischi di razzismo e xenofobia. Ma sul banco degli imputati la cosa che fa più notizia è l’accusa di viltà alle Nazioni Unite e all’Unione Europea: per Human Rights Watch alcuni Paesi e anche le maggiori organizzazioni e istituzioni democratiche internazionali hanno dimostrato una “timidezza” eccessiva che sfiora la “viltà” nei confronti di governi repressivi, un atteggiamento che ha avuto serie ripercussioni sulla difesa dei diritti umani.

È questa la principale e in qualche modo innovativa denuncia contenuta nelle 649 pagine del rapporto annuale che mette a fuoco «il fallimento dei Paesi che dovrebbero ergersi a paladini di questi diritti», il cui «ritualistico supporto al “dialogo”e alla “cooperazione”con i governi repressivi è troppo spesso una scusa per non far nulla in tema di diritti umani». Per non parlare della “quasi universale codardia” nei rapporti con la Cina, uno dei più lampanti esempi di come i governi «effettivamente chiudano i loro occhi davanti alla repressione». «Malgrado più di una dozzina di Paesi continuino a perseguire un dialogo sui diritti umani con il governo cinese, poche di queste opache discussioni hanno prodotto risultati significativi nel 2010», ha denunciato Human Rights Watch. Per il direttore generale di HRW, Kenneth Roth, «l’errore fondamentale commesso dal segretario generale delle Nazioni Unite e da numerosi Paesi membri della Commissione per i diritti dell’Uomo è di dare la precedenza a dialogo e cooperazione piuttosto che a pressioni pubbliche verso gli Stati colpevoli di violazioni dei diritti umani». In particolare «l’Unione Europea sembra essersi adeguata a questa idea», sottolinea HRW: infatti il ca-

Human Rights Watch pubblica il suo annuale Rapporto

Il mondo d di Osvaldo Baldacci po della diplomazia Catherine Ashton «ha espresso più volte la sua preferenza per una “diplomazia tranquilla”indipendentemente da qualsiasi circostanza», sostiene Roth. L’Onu e l’Unione europea, dunque, commettono un grave errore ad affidarsi ai canali diplomatici e non alla condanna pubblica per convincere i regimi repressivi, come quello cinese, a porre fine alle violazioni dei diritti umani. Inoltre, rimarca Hrw, la comunità internazionale si astiene dal criticare i Paesi africani produttori di petrolio, nonostante la repressione e la corruzione presenti in questi Stati. In particolare, l’Occidente esita a denunciare gli abusi commessi in Nigeria e in Angola, i due Paesi che si contendono il primato continentale per la produzione di greggio, e in Guinea Equatoriale, precisa l’organizzazione. A Luanda, dove regna una “corruzione endemica”, Hrw evidenzia un deterioramento dei «diritti fondamentali come la libertà di espres-

sione e di informazione nel 2010».Tuttavia, «i partner commerciali esitano a criticare il governo per proteggere i loro interessi economici», deplora Hrw. In Nigeria, l’organizzazione denuncia «diffusi abusi da parte della polizia, la distrazione delle enormi risorse petrolifere e l’impunità» di cui godono i responsabili delle violazioni dei diritti dell’uomo. Anche in questo caso, «il ruolo di potenza regionale della Nigeria, le sue esportazioni di petrolio e il suo contributo alle missioni di pace dell’Onu, fanno sì che i governi stranieri, tra cui Stati Uniti e Regno Unito, siano reticenti a criticare pubblicamente il Paese». Anche la Guinea equatoriale, dove regnano “corruzione, povertà e repressione”, go-

Da sinistra a destra il presidente americano Barack Obama; il capo della diplomazia europea Catherine Ashton; Paul Kagame e il Nobel Liu Xiaobo. In alto la copertina del Rapporto 2011


il paginone

25 gennaio 2011 • pagina 9

e il ritorno a regimi tirannici. Dalle esecuzioni in Iran alle “persecuzioni” degli attivisti in Russia fino alle “diffuse discriminazioni” contro i cristiani copti in Egitto e alla drammatica condizione di sottomissione delle donne in Arabia Saudita. Non mancano critiche durissime a paesi come Corea del Nord e Zimbabwe. In Iran la situazione nel 2010 è peggiorata: le «restrizioni della libertà di espressione e associazione» aumentano, così come «le discriminazioni religiose e sessuali, sono proseguite senza sosta». Il regime ha arrestato più di 6mila persone dopo le contestate elezioni presidenziali del 2009 mentre «centinaia di avvocati, attivisti, giornalisti e leader delle opposizioni continuano a rimanere in prigione».

sulla situazione del pianeta e attacca la comunità internazionale: «Siete deboli»

dei diritti negati de di tale trattamento, grazie alla sua ricchezza petrolifera. Gli Stati Uniti, le cui imprese dominano il settore, si sono accontentati «di adottare alcune misure» contro il regime del presidente Teodoro Obiang Nguema. Ma sempre in Africa c’è un esempio positivo, cioè dei risultati che secondo l’organizzazione l’Occidente può ottenere quando non ha paura di alzare la voce, Hrw porta l’esempio della Guinea, «dove si sono tenute le prime elezioni libere dall’indipendenza del 1958» grazie alle pressioni esercitate dalla comunità internazionale. «I tentativi di ritardare il processo elettorale si sono scontrati con gli interventi sistematici» di Parigi, Washington, Bruxelles e delle organizzazioni internazionali, sottolinea Hrw, che invita quindi la comunità internazionale a non rinunciare ai «valori democratici per ragioni economiche».

Queste critiche non sono piaciute ad Onu e Ue. La Commissione europea ha subito replicato indignata parlando di “critiche infondate” nei confronti della Ue a proposito della difesa dei diritti umani. «La nostra posizione - ha affermato la portavoce dell’esecutivo europeo - è sempre la stessa: i diritti umani non sono negoziabili». Bruxelles «studierà con attenzione il rapporto di Hrw per rispondere con precisione alle critiche sollevate nei suoi confronti», ha messo in chiaro la Hansens. Anche Obama finisce nel mirino. La sua amministrazione è accusata di essere troppo

lenta nel correggere le storture del sistema giudiziario e carcerario negli Usa. «I progressi sono stati lenti, a volte nulli, per porre rimedio ad alcuni errori del sistema giudiziario e della legge antiterrorismo». In particolare Hrw critica il sistema giudiziario e carcerario statunitense, dove i neri - si rileva - vengono ancora discriminati e dove vengono inflitte “pene estreme” anche ai minori. Anche l’Italia ha un suo capitolo non troppo lusinghiero nel rapporto. A parte l’essere accomunata ai Paesi democratici che non difendono abbastanza i diritti, al nostro Paese sono fatti specifici addebiti in tema di razzismo e xenofobia: in Italia «la violenza razzista e xenofoba resta un problema pressante», comincia il testo, in cui si critica la politica italiana su immigrazione, respingimenti e discriminazione delle comunità Rom e Sinti. L’organizzazione internazionale ricorda gli incidenti di Rosarno del gennaio 2010 affermando che «molti paesi hanno espresso preoccupazione sul razzismo e la xenofobia in Italia» durante il Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite che si tenne nel febbraio scorso. Il rapporto ricorda anche come il Comitato europeo per di diritti sociali del Consiglio d’Europa nell’ottobre scorso ha pubblicato una «condanna per l’Italia per le discriminazioni nei

confronti dei Rom», che «continuano a sopportare un alto livello di discriminazione e povertà nonché deplorevoli condizioni di vita sia nei campi autorizzati sia in quelli abusivi». Inoltre, secondo Hrw, l’Italia ha continuato a deportare i sospetti di terrorismo in Tunisia, nonostante i rischi di maltrattamenti. Poi si ricorda che nel rapporto di aprile scorso del Comitato europeo per la prevenzione della tortura si afferma che «l’Italia viola la proibizione di respingimento quando intercetta barche di emigranti che cercano di entrare in Italia, restituendoli alla Libia senza selezionare chi ha eventualmente bisogno di protezione internazionale». Infine nel rapporto si ricorda che «l’Italia non ha concesso asilo a dozzine di eritrei respinti in Libia nel 2009». Critiche anche per i fatti del G8 di Genova 2001 per il quale si osserva che nonostante la condanna subita da 25 poliziotti su 29 accusati, «il ministro dell’Interno ha deciso di non sospendere gli agenti accusati di violenze». Naturalmente tutte queste accuse ai Paesi occidentali liberal-democratici non devono far dimenticare gli orrori perpetrati dai regimi repressivi che occupano una buona parte del Paese. E anche le ripetute e impunite violazioni che avvengono in autocrazie in bilico tra lo sviluppo democratico

Nella penisola italiana «la violenza razzista e xenofoba resta un problema pressante». Citati i casi di Rosarno e le leggi sull’immigrazione clandestina

La tortura viene spesso utilizzata per estorcere confessioni ed almeno nove dissidenti politici sono stati giustiziati dal novembre 2009. In Cina basterebbe ricordare il caso del Premio Nobel per la Pace 2011 Liu Xiaobo, ma poi si va dall’imprigionamento di giornalisti e blogger sino alla “pervasiva” repressione degli Uiguri nella regione autonoma dello Xinjiang. In Birmania alle violazioni del regime si aggiunge la tragedia di mezzo milione di sfollati e profughi. Nel 2010 in Russia secondo Hrw si è registrato un «clima profondamente negativo». Il rapporto critica duramente l’assenza di efficaci politiche per la difesa dei diritti umani: «Ai retorici impegni presi dal presidente Medvedev nel campo dei diritti umani - si legge - non sono seguite misure concrete a sostegno della società civile». E gli attivisti per i diritti dell’uomo in Russia «restano vulnerabili di fronte alle continue aggressioni e ai continui attacchi» dovuti anche ad una severa legislazione “anti-estremisti”, che di fatto viene utilizzata per mettere a tacere ogni critica al potere. Il rapporto poi parla anche della devastata terra di Haiti, vittima del terremoto: il sisma ha “esacerbato” il già alto livello di abusi e violazioni dei diritti umani compiuti nel Paese sia dalle autorità che da soggetti criminali, e in particolare le donne sono fortemente esposte al rischio di violenze sessuali, il cui tasso era già particolarmente elevato prima del disastro. Donne in difficoltà anche in Arabia Saudita, che «continua sistematicamente a sopprimere i diritti di nove milioni di donne e bambine, di otto milioni di lavoratori stranieri e di due milioni di cittadini sciiti». La possibilità per le donne, di lavorare, studiare, sposarsi o viaggiare resta nelle mani degli uomini, ha denunciato l’organizzazione, aggiungendo che il governo non ha ancora fissato un limite minimo di età per contrarre matrimonio. E infine il rapporto si occupa anche della dilagante cristianofobia, in particolare focalizzandosi sull’Egitto: i copti, ha denunciato Hrw, continuano ad essere oggetto di “diffuse discriminazioni”, malgrado «la Costituzione egiziana assicuri pari diritti a prescindere dalla fede religiosa». I cristiani egiziani, che rappresentano il 10% della popolazione, affermano di essere considerati cittadini di serie B, lamentando violazioni della loro libertà di culto e una sistematica esclusione dall’accesso ai vertici della vita economica, sociale e politica.


mondo

pagina 10 • 25 gennaio 2011

Medvedev: «Prenderemo i responsabili». Innalzato il livello di sicurezza. Ricercate tre persone, si segue la pista caucasica

L’inferno scoppia a Mosca Attentato kamikaze nella sala arrivi dell’aeroporto: sono almeno 35 i morti di Luisa Arezzo ttentato kamikaze all’aeroporto Domodedovo di Mosca, il più importante, bello e nuovo della Federazione Russa. L’attentatore, con addosso almeno 7 chili di esplosivo (si pensa a tritolo “arricchito” da chiodi, bulloni e frammenti di ferro) si è fatto esplodere alle 16,37 locali - due ore prima in Italia provocando almeno 35 morti e 130 feriti, di cui almeno una trentina verserebbero in condizioni disperate. Ferma la reazione del presidente Dmitri Medvedev: «Li prenderemo, i

A

spetti, filmati dalle telecamere passate imemdiatamente al vaglio degli inquirenti, sono ricercati dalle forze speciali di polizia. Uno di loro potrebbe essere l’attentatore. Si tratterebbe di tre persone arrivate nella capitale da alcune settimane (e dunque almeno segnalate alla polizia) che i video hanno mostrato intente ad entrare in aeroporto e superare senza problemi i vari sistemi di sicurezza presenti nello scalo. Sistemi, come dicono molti viaggiatori, meno “duri” rispetto a quelli di Londra o New York. Tanto da

«È arrivato il momento di instaurare un regime speciale per garantire la sicurezza». Queste le parole del presidente della Federazione che ha dato l’ordine di alzare l’attenzione anche nelle stazioni responsabili saranno puniti». Le sue parole sono andate in diretta su radio e televisione proprio poco dopo che le prime interviste ai testimoni oculari venivano mandate in rete sui siti web dei quotidiani: «Qui è l’inferno, c’è tanto fumo, tante persone insanguinate». Questo il triste leit motiv dei tanti passeggeri in transito nel primo hub di Mosca (oltre 22 milioni di viaggiatori nel 2010) nonché primo aeroporto della capitale (in tutto cinque, ma gli altri quattro conservano ancora un aspetto fieramente sovietico). I primi sospetti si sono subito concentrati sulla matrice terroristica di stampo caucasico, probabilmente ceceno. Tre so-

rendere lo scalo il più appetibile per i viaggiatori proprio perché esente da file estenuanti sia in partenza che all’arrivo.

Un’apparente immagine di serenità che potrebbe essere davvero costata cara al Cremlino, da ieri - come ha detto lo stesso Medvedev dopo la prima riunione di emergenza - pronto a instaurare un regime speciale per garantire la sicurezza dei cittadini». Il kamikaze, come accertato dai primi rilievi sui resti dell’attentatore e divulgato in serata a Mosca, sarebbe un uomo tra i 30 ed i 35 anni, dall’aspetto arabo. L’attentato, il primo a prendere di mira un aeroporto in Russia, è stato

compiuto nella zona degli arrivi, accessibile al pubblico e molto affollata, mentre erano attesi 30 voli di cui 15 internazionali. In un primo momento, un piccolo giallo ha avvolto l’esplosione, visto che le prime voci parlavano di un kamikaze al nastro bagagli dei voli in arrivo. Notizia che avrebbe presupposto la presenza dell’attentatore su un volo e quindi inspiegabile (si sarebbe dovuto fare esplodere ad alta quota). La smentita, però, è arrivata quasi subito. Il kamikaze si è fatto saltare nell’area attigua, subito fuori dall’area di ritiro delle valige. Ed è stata così violenta da far cadere tutta la neve sopra i tetti dello scalo. Il presidente Dmitri Medvedev, che è apparso molto provato, ha subito cancellato il suo viaggio al Forum economico di Davos, dove era atteso oggi e dove domani avrebbe tenuto il discorso di apertura. Mentre al momento in cui andiamo in stampa non è ancora arrivata nessuna dichiarazione da parte del premier Vladimir Putin che, al momento della tragedia, si trovava in visita, per la prima volta, al deposito della banca centrale russa. La televisione russa ha mostrato immagini del luogo dell’attentato, piena di fumo e con la gente che correva in tutte le direzioni e molti corpi di morti e feriti distesi sul pavimento. Un testimone ha raccontato a una radio di aver visto molte persone senza braccia o gambe dopo l’esplosione. Subito dopo l’attentato, l’area è

stata evacuta e i voli in arrivo sono stati deviati su altri scali.

Anche se la chiusura dell’aeroporto è stata - vista la gravità dell’atto - assolutamente breve: poco più di mezz’ora. Dopo l’attacco, ovviamente, sono state immediatamente rafforzate le misure di sicurezza. La polizia ha subito ordinato controlli serrati nelle stazioni delle metro e negli altri principali punti nevralgici della città nel timore che potessero essere condotti a termine altri attentati. Secondo l’agenzia di stampa Ria Novosti, i servizi segreti

russi erano stati avvertiti «almeno una settimana fa» che qualcuno stava pianificando un attentato contro uno degli aeroporti moscoviti. Ma evidentemente la “soffiata” non aveva destato l’attenzione che avrebbe meritato. Immediata la reazione di condanna della comunità internazionale: Il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, ha espresso «a nome personale e dell’intero Governo la ferma condanna del vile attentato terroristico all’aeroporto di Mosca. Alle famiglie delle vittime, all’amico popolo russo e ai suoi leader vanno il nostro


mondo

25 gennaio 2011 • pagina 11

Non si esclude l’azione per procura. I terroristi forse mossi da al Qaeda

La paura arriva dal Caucaso e dagli indipendentisti ceceni Colpire lo scalo aeroportuale significa “dimostrare” l’inefficienza dell’apparato di sicurezza del Cremlino di Antonio Picasso a mancanza di una rivendicazione immediata e ufficiale ha aggiunto ulteriore confusione nelle autorità moscovite investite dall’attentato. Non è sufficiente, infatti, parlare di «azione terroristica», come ha laconicamente comunicato la Polizia. Al momento a Mosca, sono ricercate tre persone, probabilmente di origine caucasica. Ma anche questo non basta per far credere che le autorità abbiano la situazione sotto controllo. La prima a risentire del caos consequenziale all’attacco è stata la Borsa. La piazza affari di Mosca, ieri, alla notizia dell’esplosione, ha perso il 2% dei titoli scambiati. Già questo è un punto a favore dei terroristi. Di qualsiasi matrice essi siano. L’attentato, come appare chiaro visto l’obiettivo colpito, punta a ferire un’economia nazionale già devastata dalla crisi finanziaria. Mettere sotto scacco il sistema dei trasporti e delle comunicazioni del gigante russo significa estromettere l’intero Paese dai canali del turismo internazionale e degli scambi commerciali globali. Come seconda conseguenza, la decisione del Presidente, Dmitri Medvedev, al momento, di non partecipare al World Economic Forum di Davos, che si è aperto ieri, è un’ulteriore vittoria per i terroristi. Il leader russo mancherà a un importanto appuntamento internazionale per colpa di un gruppo di sovversivi in armi. Tuttavia, sull’identità di questi ultimi, in mancanza di notizie certe, non si possono che formulare ipotesi. Il primo pensiero va agli indipendentisti ceceni, che da tanto, troppo tempo non colpivano al cuore l’eterno nemico russo. L’episodio più recente risale al 29 marzo dello scorso anno. In quella occasione, due attentatrici suicide si erano fatte esplodere, a distanza di mezz’ora di una dall’altra, nella metropolitana della capitale, proprio nel momento di maggiore affluenza di passeggeri. Bilancio: 38 vittime. Un caso simile precedente risale al settembre 2004, quasi in contemporanea con il massacro di Beslan (386 morti). Quella fu la volta della stazione di Rizhaskaya, sempre nella capitale. Una donna uccise 10 persone. Sette mesi prima, seguendo lo stesso spaventoso canovaccio, il target colpito era stato un treno fra le stazioni di Paveletskaya e Avtozavodskaya (41 vittime).

L

cordoglio e la nostra vicinanza», si legge in una nota. «Fermissima condanna per il grave attentato» è stata espressa anche dal ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che ha definito l’attacco un atto «barbaro e ingiustificabile».

Il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, si è detto «scioccato», e ha anche assicurato che l’Alleanza atlantica è «al fianco della Russia» nella lotta al terrorismo. Dura la condanna anche del Consiglio d’Europa: il presidente dell’Assemblea ha chiesto un minuto di silenzio e ha ricordato come ogni atto terroristico rappresenti un attacco a tutto quello che il Consiglio d’Europa rappresenta. Se la pista cecena dovesse trovare conferme nelle prossime ore, però, una cosa sarebbe certa: scuole, teatri, treni, aerei e metropolitana: i kamikaze del Caucaso non hanno esitato a colpire qualsiasi obiettivo servisse a portare il terrore nel cuore della Russia.

- fu oggetto di aspre critiche da parte dell’opinione pubblica russa. Era necessaria tanta violenza? Ci si chiese in entrambe le occasioni. «Occorre instaurare un regime speciale per garantire la sicurezza», ha dichiarato Medvedev ieri, proprio di fronte al fumo che saliva da Domodedovo. Parole, quelle del leader del Cremlino, che suggeriscono come il governo russo sia intenzionato ad adottare una linea di repressione per la quale in passato hanno pagato anche i civili innocenti. È il segno di una continuità viziosa, tra Putin e Medvedev, nelle politiche di sicurezza di Mosca.

L’origine cecena, in questo momento, è la prima a essere valutata. Per quanto Mosca, negli ultimi mesi, sia stata presa più volte di mira, colpire il suo scalo aeroportuale significa dimostrare l’inefficienza del suo apparato di sicurezza. Vuol dire creare

Il gesto punta a ferire un’economia nazionale già devastata dalla crisi finanziaria mettendo sotto scacco il sistema delle comunicazioni del gigante russo

In alto, lo scalo internazionale di Mosca, il Domodedovo, dove ieri alle ore 14.37 (in Italia) un kamikaze si è fatto eslpodere provocando almeno 35 morti e 130 feriti. I passeggeri che si trovavano nel primo hub moscovita hanno parlato di scene apocalittiche. Nella pagina a fianco, la lunga scia di ambulanze per i feriti

Ma bisogna risalire alla fine di ottobre 2002, per trovare un episodio della portata di violenza simile a quella di ieri a Domodedovo. Le immagini del sequestro del teatro Dubrovka sono ben chiare nella memoria non solo dei russi. Per tre giorni il commando di terroristi ceceni, composto da 41 elementi, tra cui alcune donne, tenne sotto scacco le forze speciali di Vladimir Putin. Il blitz ordinato da quest’ultimo provocò la morte sia degli attentatori sia di 129 ostaggi. Il bilancio catastrofico dell’operazione - simile a quello che si sarebbe ripetuto a Beslan

un’ondata di panico che difficilmente resterà circoscritta all’interno del Paese. Solo i mujaheddin del Caucaso si sarebbero potuti spingere tanto in profondità ai gangli delle istituzioni russe e provocare un danno di immagine così grave. Tuttavia da questi ragionamenti, non si può escludere una sorta di attentato “per procura”. I ceceni avrebbero potuto agire perché mossi da al-Qaeda, o da altri gruppi jihadisti, entrambi interessati a destabilizzare il territorio russo e la politica estera del suo governo. Con gli occhi del mondo puntati sul Nord Africa, infatti, appare più semplice colpire in altri quadranti. Se poi aggiungiamo il fatto che la Russia è sempre più intenzionata ad avere voce in capitolo nelle criticità dell’Asia centro-meridionale, ecco che la sommatoria di eventualità e ipotesi trova una ragion d’essere. Venerdì scorso, il presidente afghano, Hamid Karzai, ha invitato ufficialmente Medvedev a Kabul. È certo che i talebani non vogliano trovarsi di fronte ai nuovi russi nel loro territorio. Essi si sentono erroneamente gli eredi dei mujaheddin che sbaragliarono l’Armata rossa trent’anni fa. Lo spauracchio del passato potrebbe ripresentarsi. Perché allora non entrare in contatto con i fratelli nel jihad della Cecenia e lanciare un monito ben preciso al Cremlino?


quadrante

pagina 12 • 25 gennaio 2011

Karzai inaugura nuovo parlamento KABUL. Il presidente afghano Hamid Karzai inaugurerà domani il nuovo Parlamento. In un gesto che sembra voler chiudere le tensioni degli ultimi giorni sull’inizio dei lavori parlamentari e sulle denunce di brogli nelle legislative di settembre, la presidenza della repubblica ha detto di avere inviato alla Corte suprema la lettera dei neo-eletti parlamentari che rifiutano il tribunale speciale che esamina le irregolarità. In precedenza Karzai aveva detto che avrebbe varato il nuovo governo solo se i parlamentari avessero riconosciuto il potere del tribunale speciale sui presunti brogli che potrebbero escludere dalla nuova Wolesi Jirga (Camera bassa) decine di eletti. Evidentemente, ci ha ripensato.

Libano, Hezbollah forse al governo

Oggi la marcia anti-Mubarak

BEIRUT. In Libano si profila una

IL CAIRO. «L’inizio di qualcosa

maggioranza a sostegno di Najib Mikati, il magnate delle telecomunicazioni candidato alla guida del governo da Hezbollah. Decisivo il sostegno espresso dal druso Walid Jumblatt, leader del Partito Sociale Progressista. Il Partito di Dio e i suoi alleati potevano già contare su 57 voti, ai quali si sono adesso aggiunti quelli dello stesso Mikati e di 7 membri su 11 del gruppo parlamentare di Jumblatt: l’inedita alleanza potrà dunque contare sul sostegno di 65 deputati su 128. Mikati nel 2009 fu eletto nell’ambito della coalizione facente capo al premier uscente Hariri. Venerdì scorso, però, ha annunciato a sorpresa la sua candidatura per conto del gruppo radicale sciita vicino a Siria e Iran.

di grande»: così gli attivisti egiziani definiscono l’imponente manifestazione che, sull’onda della rivoluzione dei gelsomini in Tunisia, opposizione e società civile si terrà oggi al Cairo e in altre città egiziane. Una marcia nata grazie al tamtam su Facebook e a cui hanno aderito, secondo il quotidiano egiziano Al Masry Al Youm, già 80 mila persone. Salario minimo, fine della legislazione di emergenza e limite a due soli mandati dell’incarico presidenziale: queste le richieste degli attivisti. Il timore di scontri è altissimo (anche per la contro manifestazione indetta dai fedeli di Mubarak) considerato in aggiunta che il 25 gennaio in Egitto viene celebrata la festa della Polizia.

Il Paese potrebbe dividersi: le Fiandre da un lato e la Vallonia dall’altra. Secondo Bart de Wever «lo Stato è fallito»

Se anche il Belgio fa crac

Non si dice, ma i problemi economici sono il vero motore della crisi di Enrico Singer o ha ammesso anche Yves Laterme, il primo ministro di un governo che ha ormai battuto tutti i record di provvisorietà: «I belgi non hanno nulla in comune tra loro tranne il re, la nazionale di calcio e qualche birra». Amara constatazione che il piccolo, sonnolento Belgio era riuscito a tenere per anni sottotraccia nascondendosi dietro la sua facciata ufficiale di cuore istituzionale dell’Europa unita e, addirittura, di modello del federalismo continentale, ma che è esplosa con tutta la sua forza domenica scorsa quando migliaia di persone sono scese in strada per gridare «vergogna» ai politici che da 256 giorni non riescono a trovare la soluzione alla crisi cominciata subito dopo le elezioni del 13 giugno 2010 che hanno sancito una quasi chirurgica spaccatura in due del Paese tra fiamminghi e valloni e le loro rappresentanze - 74 a 75 - nel Parlamento nazionale. Da quando è nato, nel 1830, il regno del Belgio è sottoposto alle tensioni tra le nazionalità artificialmente riunite in un unico Stato dopo la sconfitta di Napoleone a Waterloo che si trova a pochi chilometri da Bruxelles - il 18 giugno del 1815. Finora tutte le dispute hanno sempre trovato un compromesso: anche per questo l’ennesima lite tra i partiti non aveva suscitato particolare interesse fuori dai confini del Paese e Laterme, nonostante il suo fosse un incarico pro tempore, aveva potuto gestire con relativa tranquillità e autorevolezza anche il semestre di presidenza belga della Ue che si è concluso proprio il primo gennaio scorso.

L

Ma adesso tutti gli equilibri sono saltati e la sensazione è che, quasta volta, si sia rotto qualcosa in profondità. Che il rischio concreto sia quello di cancellare il patto sociale, economico e politico, sul quale si fonda il Paese che potrebbe anche dividersi: le Fiandre da una parte, la Vallonia dall’altra. Il leader dell’ala dura degli autonomisti fiamminghi, Bart de Wever, lancia segnali di guerra. Dice che «il Belgio è uno Stato fallito che non ha

Valloni e fiamminghi hanno avuto nel corso della storia unitaria un’evoluzione economica molto diversa: le Fiandre sempre governate dalla destra sono divenute la parte prospera ed imprenditoriale mentre la Vallonia, socialista, è rimasta indietro

più futuro» e propone la creazione di una Repubblica delle Fiandre liquidando in un colpo solo l’unità del Paese e anche la monarchia. La sua, certo, è una provocazione, una posizione estrema che non è condivisa nemmeno da tutte le forze politiche fiamminghe. Ma è il segnale rivelatore della gravità di uno scontro che era cominciato come tante altre crisi politiche degli ultimi decenni e che si è avvitata su se stessa in un confronto che appare senza fine. Anche il re, Alberto II, se ne è reso conto tanto che, per la seconda volta nella storia, ha convocato il Consiglio della Corona - che non si riuniva dai tempi dell’indipendenza del Congo, nel 1963 - e ha nominato una commissione di mediazione. Che tuttavia, almeno per il momento, ha mancato il suo compito. Con il risultato di avere moltiplicato i pericoli all’orizzonte perché l’instabilità politica ha aggravato la crisi

economica. Con una crescita che non supera l’1 per cento, una disoccupazione media di oltre il 10 per cento, un deficit pubblico al 6 per cento e un debito tornato sopra il 100 per cento, di questi tempi il Belgio di tutto ha bisogno, fuorché di attirare l’attenzione di mercati e speculazione sulle proprie fragilità interne.

Anche il governatore della Banca Centrale, Guy Quaden, ha rivolto un accorato appello ai politici perché trovino finalmente un accordo. Ma la sua voce è rimasta inascoltata. E il primo contraccolpo è già arrivato: Standard and Poor’s ha abbassato da stabile a negativo l’outlook sul credito del Paese, minacciando di tagliare anche il rating nei prossimi mesi se non si riuscirà a formare il nuovo governo che dovrebbe rispettare l’impegno preso di ridurre il deficit al 4,1 per cento del Pil entro quest’anno. Anche se

i contendenti non lo ammettono, rifugiandosi dietro questioni di principio, i problemi economici sono il vero motore della crisi. Quando il Belgio ottenne l’indipendenza dal regno dei Paesi Bassi, nel 1830, la sua aristocrazia parlava francese e le regioni francofone del Paese ricche di miniere di ferro e carbone - disprezzavano il nord fiammingo, la cui economia si reggeva prevalentemente sui commerci e sull’agricoltura. Ma valloni e fiamminghi hanno avuto nel corso della storia unitaria un’evoluzione economica molto diversa: le Fiandre - sempre governate dalla destra – sono divenute la parte prospera ed imprenditoriale, mentre la Vallonia, tradizionalmente socialista, dopo la grande crisi dell’industria mineraria, è rimasta indietro. I dati macroeconomici delle due regioni sono indicativi: oggi il nord del Belgio ha una disoccupazione dell’8,8 per cento, la Val-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

I Palestinian Papers affossano il processo di pace in Medioriente GAZA. «L’Autorità nazionale palestinese (Anp) e Israele hanno creato un sistema mirato a eliminare la questione palestinese». Questa l’accusa che il portavoce di Hamas a Gaza Sami Abu Zuhri rivolge al governo Mahmoud Abbas. Il commento di Hamas segue la decisione della tv Al Jazeera e del quotidiano britannico The Guardian di mostrare documenti nei quali si sostiene che l’Anp offrì (fra il 2008 e il 2010) allo Stato ebraico grandi concessioni su «Gerusalemme e i rifugiati» in cambio di un accordo di pace stabile e duraturo. Secondo l’emittente basata in Qatar, i «Palestinian Papers» offrono «uno sguardo senza precedenti» sul processo di pace. Da queste emergerebbe «la disponibilità dell’Anp a concedere insediamenti illegali israeliani a Gerusalemme Est» e un atteggiamento «creativo» su Haram al-Sharif, dove sorge la moschea di Al Aqsa; i compromessi dell’Anp sui rifugiati e il diritto al ritorno;

lonia è al 19 per cento. Le Fiandre pesano per il 57,3 per cento del totale del prodotto interno lordo belga e per ben l’80,5 per cento dell’export. Ma, soprattutto, ogni anno, i fiamminghi versano 5 miliardi di euro per il sostenere i francofoni del sud. E, un po’come nella nostrana Padania, si sono diffuse le rivendicazioni autonomiste e le accuse, in questo caso alla “Vallonia ladrona”di essere parassita e fannullona. Alla questione economica s’intreccia, naturalmente, la querelle intorno alla difesa a oltranza della lingua, simbolo dell’identità collettiva delle due comunità, che è da sempre uno dei principali nodi del contendere fra i 10 milioni e mezzo di cittadini belgi che sono divisi, ufficialmente dal settembre del 1963, da ben demarcate frontiere linguistiche. Il fiammingo è parlato al Nord da 6 milioni di persone e, al Sud, il francese è la lingua dei 3,4 milioni di valloni; a Est la piccola comunità germanofona 70mila abitanti - ha il diritto di parlare il tedesco e uno statuto a parte ha la capitale dove vige il bilinguismo per più di un milione di persone che sarebbero per l’88 per cento francofone, anche se Bruxelles, geograficamente, è nelle Fiandre. A questa complicata alchimia linguistica, nel 1993, si aggiunse una riforma istituzionale che ha fatto del Belgio uno Stato federale che si fonda sulle tre regioni confederate (Fiandre, Vallonia e Bruxelles capitale) e sulle tre comunità linguistiche (francofoni, fiamminghi e germanofoni). Quello che per anni è stato proposto come un modello del federalismo da esportare anche in altre parti d’Europa, si basa su diversi livelli istituzionali con tre Parlamenti regionali e un Parlamento federale composto di una Camera dei rappresentanti e da un Sena-

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

dettagli sulla cooperazione nel campo della sicurezza tra Anp e Israele; scambi privati tra negoziatori palestinesi e americani alla fine del 2009, mentre veniva discusso il rapporto Goldstone all’Onu. «Questa è una prova ulteriore che l’Anp è composta da traditori», ha affermato Mahmud aZahar, dirigente di Hamas a Gaza. Immediata la reazione del principale negoziatore palestinese, Saeb Erekat, che ha parlato di una grande menzogna.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma

to. Con altrettanti esecutivi ai quali sono affidate competenze specifiche: allo Stato federale le linee guida dell’economia, della previdenza sociale, dell’educazione, del fisco e delle relazioni diplomatiche, alle comunità regionali tutto il resto.

Ma è proprio sulla guida dell’economia e sulla gestione delle risorse fiscali che il meccanismo si è inceppato. E che la prospettiva della disgregazione del Belgio è entrata nella categoria degli sviluppi possibili. Wilfred Martens, che del Belgio è stato primo ministro e che è presidente del Partito popolare europeo, ricorda che il suo Paese è «il centro dell’Unione Europea» e si chiede: «Come possiamo non dare un pessimo esempio se decidessimo di dividerci?». Paradossalmente, però, è proprio l’integrazione europea che gli autonomisti fiamminghi

Il re Alberto II ha convocato per la seconda volta il Consiglio della Corona, che non si riuniva dal 1963 utilizzano come argomento per sostenere i loro obiettivi. Come dire che, per assicurare il momento politico unificante non serve più il piccolo regno del Belgio con il suo governo centrale che, per altro, è tenuto a rispettare gli obiettivi sia economici che strategici fissati a livello europeo. Bruxelles, insomma, è già capitale amministrativa dell’Unione europea e potrebbe, senza troppo scandalo, consentire che le Fiandre diventassero a tutti gli effetti uno Stato. I sostenitori di questa tesi aggiungono che gli oltre sei milioni di fiamminghi sarebbero una popolazione più numerosa di quella di Paesi che sono a pieno titolo membri della Ue come le tre Repubbliche Baltiche, per non parlare di Cipro o di Malta. L’attuale crisi del Belgio diventa, così, lo specchio della crisi dell’integrazione europea e, per molti versi, ne prefigura i due possibili esiti. La divisione del Belgio significherebbe la vittoria dell’Europa delle «piccole patrie» e la rinuncia definitiva dell’ambizione dei padri fondatori di fare della Comunità un soggetto politico unitario.

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mondo luttuosi scontri di piazza a Tirana, che rischiano di avere come effetto un’involuzione di quel processo che sembrava ormai condurre l’Albania sulla strada dell’Europa, sono stati originati da una violenta repressione, con morti e feriti, di una manifestazione - l’ultima di una lunga serie - indetta contro il governo di Sali Berisha dal partito socialista di opposizione, guidato dal sindaco Edi Rama. Oggetto della contestazione continua ad essere la legittimità del governo in carica, con richiesta di elezioni anticipate dopo che lo scorso gennaio il vice primo ministro Meta era stato costretto a dimettersi perché accusato di corruzione. La magistratura, che sta raccogliendo le prove di un intervento armato mirato da parte delle forze dell’ordine che ha provocato tre morti tra i manifestanti, ha addirittura ordinato l’arresto del generale Ndrea Prendi, capo della Guardia Repubblicana, e di altri sei uomini, accusati di omicidio plurimo, uso eccessivo della forza e abuso d’ufficio. La polizia, tuttavia, si sta rifiutando di procedere agli arresti, mentre il carismatico Edi Rama, pur dichiarandosi contrario a ogni violenza, preannuncia che le dimostrazioni di piazza continueranno fino alla caduta del governo Berisha e all’indizione di nuove elezioni.

25 gennaio 2011 • pagina 15

me ancora è l’Albania, all’attuazione integrale dell’acquis comunitario. Progressi effettivamente erano stati ottenuti, ma l’attuale messa in discussione della “chiarezza democratica” all’interno del Paese rischia di bloccare un processo faticoso, ma che sembrava bene avviato. Il presidente albanese Bamir Topi, che nella sua ultima visita in Italia si era dichiarato convinto che l’inserimento a pieno titolo del Paese nell’Unione era ormai vicino, azzardando addirittura l’ottimistica ipotesi del 2012, sta lanciando ora inviti alla calma.

I

I risultati delle elezioni politiche del giugno 2009, più volte rimandate, in realtà non erano mai stati accettati dall’opposizione socialista. C’era voluto più di un mese, perché, alla fine di tante polemiche, fossero pubblicati e validati. Ciò nonostante i positivi rapporti degli osservatori della Ue e dell’Osce, secondo i quali si era trattato di elezioni libere e democratiche. Il contestato vincitore era stato il Partito Democratico di centro-destra di Sali Berisha, che allora ottenne 71 seggi su 140. Vittoria risicata, ma che secondo gli esperti - attraverso coalizioni avrebbe comunque potuto permettere di governare. Il 28 aprile 2009 l’Albania aveva presentato regolare domanda di annessione all’Unione Europea ma, come è noto, ogni nuovo candidato deve superare un percorso assai articolato, al termine del quale deve dimostrare di rispettare tre distinti criteri. Il primo è politico, ovvero deve essere basato su istituzioni stabili, che garantiscano democrazia, stato di diritto, tutela delle minoranze e rispetto dei diritti dell’uomo. Il secondo criterio è economico, e prevede un sistema di mercato affidabile, assieme alla capacità di far fronte alla concorrenza. Il terzo è quello del così detto acquis comunitario, ovvero la capacità e la volontà di accettare gli obblighi e gli obietti-

Maggioranza (Sali Berisha) e opposizione (Edi Rama) convocano la piazza

Perché il Paese delle aquile non vola di Mario Arpino

Il sindaco di Tirana ha lanciato un appello all’Italia affinché condanni la violenza di Stato «che uccide innocenti» vi di un’unione politica, economica e monetaria. La labile situazione politica, della quale i moti di piazza della scorsa settimana sembrerebbero rappresentare solo la punta dell’iceberg, certamente non porta acqua al farraginoso mulino dell’integrazione. Ed è un vero peccato, perché negli anni dopo Hoxa il Paese aveva davvero fatto molti passi avanti, e anche i cittadini oggi hanno maggiore consapevolezza dei propri limiti, di quelli posti dalla situazione culturale generale e dallo scollamento che, marcatamente, si può spesso notare tra una classe politica elitaria ed il popolo. Ciò nonostante, l’integrazione europea, che secondo i sondaggi è condivisa da oltre il 90 per cento della popolazione, oggi, dopo l’adesione alla Nato, costituisce ormai la sfida principale, e dal 1991 tutti i governi albanesi l’hanno considerata come priorità nella loro agenda politica. Anche l’Unione, questo gli albanesi lo riconoscono, pur attraverso le sue

complesse procedure si è sempre dimostrata disponibile a un graduale avvicinamento. Il passo fondamentale, che ha mutato lo status del Paese nei confronti dell’Unione, era stato l’Accordo di Stabilizzazione e Associazione (Asa) firmato il 12 giugno 2006.

tivato un altro piano, il cosiddetto Strumento di Assistenza pre-adesione (Ipa), dal quale ancora oggi, fino a tutto il 2013, l’Albania può continuare ad attingere fondi, in funzione dei progressi già compiuti e dalla loro valutazione da parte della Commissione. I settori elegibili da parte albanese sono la realizzazione della politica di coesione, lo sviluppo delle risorse umane e la componente che riguarda lo sviluppo rurale. Se i fondi sono utilizzati con efficacia, questo insieme di risorse è in grado di portare i candidati effettivi e quelli potenziali, co-

La firma era stata preceduta, già nel 1999, dall’inclusione dell’Albania, assieme agli altri paesi dei Balcani occidentali, nel Processo di Stabilizzazione e Associazione (Psa), che a Feira, l’anno seguente, assumevano lo stato di “candidati potenziali”. Il processo, già nel 2001, portava all’applicazione anche per l’Albania del programma Cards (Community Assistance for Reconstruction, Development and Stabilizazion), rendendo disponibili alcune centinaia di milioni di euro per sostenere lo sviluppo nelle cinque aree classiche riferite alla stabilizzazione democratica, alla giustizia e In alto ed in apertura alcune affari interni, al miimmagini degli scontri della scorsa glioramento delsettimana. Edi Rama ha chiamato l’amministrazione, i suoi a scendere in piazza venerdì allo sviluppo econo28, mentre Berisha ha indetto mico e sociale, aluna marcia della pace per sabato 29 l’ambiente e le risorse naturali. Era stato successivamente at-

L’evidente scollamento tra classe politica e paese reale, posto tragicamente in luce anche da questi scontri di piazza, sembrerebbe dimostrare che il Paese non è ancora sufficientemente maturo per comprendere nella sua intierezza il vero significato dell’adesione alla Ue. Sul fronte dell’Unione, dopo le ricorrenti accuse di corruzione emerse anche durante gli attuali disordini, taluni ambienti della Commissione e del Parlamento, dove già sull’Albania regna un certo scetticismo, richiederanno a gran voce una scrupolosa dimostrazione dell’impiego delle ingenti risorse sinora concesse. Altri, tra i quali si schiera l’Italia, temono invece che i troppi ritardi allontanino pericolosamente l’Albania dall’Europa, lasciando così spazio – specie nel nord del Paese - all’attivismo islamico, sempre latente. Come sta accadendo in Bosnia e in Turchia. Il ministro Frattini, che a favore dell’Albania si è speso molto, in consonanza con la Ashton teme il peggio e ha lanciato un appello alla calma ed alla ragionevolezza. Siamo il primo partner commerciale, primo investitore e, con un miliardo di euro, anche primo donatore. Secondo la Caritas, in Italia la comunità albanese, stimata in 430 mila regolari stanziali, è la meglio integrata per lingua, lavoro e livello di scolarità, con 84 mila alunni negli istituti di formazione, di cui 20 mila nelle università. Nel marzo scorso la nostra ambasciata aveva lanciato un imponente programma di scambi culturali, che ha annoverato oltre ottanta eventi, nel quadro della stagione “Italia e Albania 2010: due popoli, un mare un’amicizia”, mentre l’italiano si sta facendo rapidamente spazio come lingua straniera più diffusa. È evidente tutto il nostro interesse ad adoperarci, pur senza interferire, alla soluzione di questa nuova crisi. Anche se, alla resa dei conti, a decidere sulle credenziali democratiche dell’Albania e sull’opportunità e i tempi del suo ingresso nella Ue non saremo solamente noi.


ULTIMAPAGINA New York. Annunciato successo per «Too late! (Antigone) contest #2», lo spettacolo diretto da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò

E la Grande Mela si mise in di Diana Del Monte

oo Late! (Antigone) contest #2 ha spalancato le porte della “Grande Mela”alla compagnia fondata e diretta da Enrico Casagrande e Daniela Nicolò come una testa d’ariete. Too late! infatti, è anche ciò che si sono sentiti rispondere molti degli aspiranti spettatori, arrivati troppo tardi al 427 di Lafayette St. per poter entrare a far parte di quella fortunata “élite dei 75”. Inserito nel programma della settima edizione di Under The Radar, il festival del Public Theatre dedicato alla scoperta di nuove produzioni nel campo del teatro indipendente, Too Late! ha chiuso sabato sera la sua settimana di repliche con un costante “tutto esaurito” e un’ottima risposta da parte della critica d’Oltreoceano. Per la loro prima esperienza statunitense, dunque, i Motus hanno deciso di mettere in scena il secondo contest del progetto Syrma Antigónes, un percorso quadrangolare iniziato nel giugno del 2009 con Let the sunshine in e conclusosi lo scorso ottobre con Alexis, una tragedia greca. Nato come naturale proseguimento del lavoro che Nicolò e Casagrande avevano iniziato con Ics(X) Racconti crudeli della giovinezza (20072008), il progetto su Antigone ripropone il tema del conflitto generazionale sotto una nuova prospettiva; il tòpos si apre così ad una lettura critica dei codici sociali e delle strutture comportamentali volte all’esibizione di una qualsivoglia forma di potere. In questo contesto, le tecniche di consolidamento e rafforzamento della supremazia invadono tanto la sfera intima e privata quanto quella pubblica e colui che detiene l’autorità assume tanto le sembianze del padre quanto quelle del dittatore. Durante il primo workshop di studio sull’Antigone, svoltosi nel 2008, Casagrande e Nicolò si scontrano con un evento della cronaca greca: il quindicenne Alexis Grigoropoulos viene ucciso ad Atene da una pallottola della polizia. Il fatto, che a suo tempo scatenò una massiccia protesta popolare, conduce il neonato progetto teatrale verso una sempre più decisa affermazione del tema delle rivolte nel contemporaneo e diventa l’episodio guida di tutto il progetto. La chiave di lettura è suggerita dagli stessi fondatori della compagnia che titolano Too Late! il secondo contest, esplicitando il richiamo all’Antigone brechtiana messa in scena dal Living Theatre nel 1967. Un invocazione a un teatro dell’agire, dunque, «per trasformare l’indignazione in azione», nella speranza che l’irreparabile non sia ancora giunto. Recitata in italiano, ma sovratitolata in inglese per la platea newyorkese, la performance gioca su un

T

continuo entrare ed uscire dal ruolo dei due attori, Silvia Calderoni e Vladimir Aleksic, che fondono la loro vita privata nel più ampio spettro di possibilità proposte dalla pièce. Questo andare e venire di Silvia e Vladimir in Antigone-Emone e Creonte non può non far pensare a una tecnica di straniamento da collegare all’origine brechtiana della performance; la lettura dei critici d’Oltreoceano, d’altra parte, non ha certamente trascurato questo aspetto, così come non ha ignorato il grande lavoro fisico e

lettura di Too Late!, infatti, ci sono certamente le infinite morfologie del potere, ma c’è anche e soprattutto l’infinita necessità di svelarle. Too Late! appare sin dal primo sguardo un lavoro sul ruolo del teatro o, più propriamente, un esempio del ruolo critico che il teatro deve assumere di fronte alla realtà politico-sociale. Vladimir chiede: «Tu cosa pensi quando reciti?», e Silvia risponde: «Che ci credo! Sono più le volte che mi ascolto quando recito che quando parlo nella vita di tutti i gironi». Con intelligente e implacabile occhio critico, Casagrande e Nicolò ricordano in questo lavoro com’è possibile, attraverso le luci dell’evento teatrale, svelare i codici che guidano la vita quotidiana e, trasportando il quotidiano nell’extraquotidiano, mettono in primo piano l’invisibile, scuotendo lo spettatore dal suo torpore. «Di che colore erano le bombe a Belgrado?» chiede lei a Vladimir: «Boh! - risponde lui bianco-gialle... Comunque, molto luminose”»; Silvia si allontana con noncuranza e conclude: «In tv sono verdi». In questo viaggio, la grande versatilità del corpo della Carandini trasforma la fisicità dell’attrice in una materia plastica totalmente malleabile; il suo corpo sembra nato per rappresentare quasi concettualmente l’attore per eccellenza, individuo in grado di essere tutto e il contrario di tutto. Silvia è uomo e donna, è un ragno appeso al soffitto e un bambino capriccioso, è giovane e vecchia, si arrampica su Aleksic e si siede su una sedia con la stessa semplicità. Durante i 55 minuti di performance, mentre recita, Silvia si scrive addosso, lasciando i segni del passaggio del tempo e della storia sulla sua pelle. Dichiara la sua reale identità, scrivendo “actress”, e insieme a Vladimir racconta la necessità del mezzo teatrale di svelare. Rinnovare un compito con una così importante storia alle spalle non è certo facile e l’inizio affidato ad una bottiglia che ruota, con tutto il pubblico seduto sul palco - «il danzatore che viene indicato, comincia» -, appare come una dichiarazione d’intenti semplice ma chiara che i Motus sono riusciti a portare a buon fine. Contrariamente a ciò che dichiarano, dunque, sembra proprio che Daniela Nicolò ed Enrico Casagrande siano perfettamente in e nel giusto tempo.

MOTUS

L’ottimo lavoro di squadra e l’alto livello della preparazione dei suoi membri hanno convinto sia il pubblico sia la critica d’Oltroceano vocale dei due performer e la loro perfetta sintonia, esaltata della figura flessibile e androgina della Carandini e dall’autorevole e matura presenza scenica di Aleksic.

«Una performance sia cerebrale sia emotiva» è stato un commento della critica statunitense, «55 minuti che catturano per l’intensità (della performance) che occasionalmente sfuma in inaspettati momenti di levità». L’ottimo lavoro di squadra e l’alto livello della preparazione dei suoi membri hanno, dunque, convinto il pubblico e la critica d’Oltroceano; nonostante ciò, quest’ultima sembra essere vittima di una rapida fascinazione nei confronti del tema principale, le rivolte contemporanee, che le fa perdere una parte della ricchezza che caratterizza la performance dei Motus e che conduce lo spettatore a quella preziosa “riflessione del giorno dopo”.Tra le possibili chiavi di


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