mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 29 GENNAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
A sorpresa, il leader Udc interviene al meeting dei cento deputati centristi e moderati. Oggi Fini e Rutelli
È nata l’alternativa
Parte il nuovo polo: l’unica via politica d’uscita dalla paralisi Berlusconi insiste nella guerra istituzionale contro tutti e Bossi lo invita a non fare più polveroni su Fini. Ma Casini, dal convegno di Todi: «Il Cavaliere ormai non governa più, siamo noi il futuro» OLTRE IL BIPOLARISMO
I GIUDIZI DEGLI ALTRI
Questo è l’inizio di una nuova Repubblica
FIORONI: «PD, NON ALLEARTI CON VENDOLA E DI PIETRO» «Di fronte a Berlusconi che conduce il paese dentro al baratro, dobbiamo costruire insieme il modo per vincere le elezioni», dice Beppe Fioroni.
di Enrico Cisnetto
a pagina 5
SALVATI: «RIFORMATORI UNITI INTORNO A DRAGHI»
difficile ragionare sulla nascita del «Polo per l’Italia» astraendosi da quanto sta accadendo nella politica italiana. Ieri l’amico Pezzotta parlava di “schifo”, sostenendo che le cose vanno chiamate con il loro nome e invocando reazioni conseguenti. Sono d’accordo, a patto che sia abbia il coraggio di chiamare “schifo” non solo quanto emerge dalle vicende personali di Berlusconi ma anche l’ennesima operazione giudiziario-mediatica cui ci tocca di assistere in un quadro che ancora una volta in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario è stata definito di “fallimento della giustizia”. E che non si esiti a chiamare “schifo”il fatto che Berlusconi all’ottavo anno di governo (gli abbuoniamo il 1994, perché è quello in cui offrì a Di Pietro i galloni di Guardasigilli) sia ancora lì a raccontarci i difetti della magistratura senza aver mai fatto nulla per porci rimedio. a pagina 8
È
Uno studio di Lorien conferma il trend positivo
Casini, Fini e Rutelli: uniti sono già al 14,6% I sondaggi premiano l’alleanza: è data già vicina al 15% delle preferenze, con un bacino “di simpatia” ancora più ampio: tocca infatti il 28,4% a pagina 3
«Servirebbe un governo di transizione guidato da una figura rassicurante per i mercati. Mario Draghi, per esempio», dice Michele Salvati.
a pagina 6
CACCIARI: «INSIEME SI PUÒ USCIRE DALLA PALUDE» «Sarà decisiva la fase costituente del nuovo polo: è evidente che siamo all’epilogo dello schema bipolare italiano», dice Massimo Cacciari.
a pagina 7
FOLLI: «VINCERETE DANDO UNA NUOVA VISIONE» Per Stefano Folli, «di fronte al degrado generale può esserci, anzi c’è senza dubbio il bisogno di un’area di centro liberaldemocratico».
a pagina 9
Ancora vittime e coprifuoco in Egitto: la polizia lascia il posto all’esercito
Prove di guerra civile al Cairo Mubarak manda in piazza i carri armati. Fermato El Baradei di Luisa Arezzo
L’opinione del consigliere di Obama
li oppositori del presidente Hosni Mubarak lo avevano denominato il Venerdì della Collera e i fatti hanno confermato che non si trattava soltanto di uno slogan: ieri, in tutto l’Egitto la rabbia popolare è esplosa come mai prima d’ora al grido di «Basta Mubarak». Ma il vecchio raìs non ci sta e come era prevedibile decide di schierare le unità militari per le strade, fermare e poi arrestare El Baradei e usare il pugno di ferro. Contro i manifestanti - almeno dieci morti, decine di feriti e oltre 400 arresti è il bilancio provvisorio degli scontri che ieri hanno messo a ferro e fuoco sia il Cairo sia altre città del Paese - da Alessandria a Suez dove è stato imposto il coprifuoco - e contro i giornalisti e tutti i mezzi di informazione.
Ma adesso l’Europa deve alzare la voce a parola fine sulla rivolta tunisina non è ancora stata scritta. Non sappiamo se la cosiddetta rivoluzione dei gelsomini produrrà dei cambiamenti fondamentali o si fermerà a un deciso restyling. Né si sa come finirà negli altri paesi arabi in fermento, Egitto in testa.
a pagina 27
a pagina 26
G
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
20 •
WWW.LIBERAL.IT
di Marc Lynch
L
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
un nuovo polo per l’italia
pagina 2 • 29 gennaio 2011
Adornato, Baldassarri, Lanzillotta e Reina aprono il convegno di Todi
La via politica per uscire dal passato
Sovranità popolare e governo della legge: le parole chiave dell’Italia che vogliamo di Franco Insardà
TODI. La scritta Nuovo Polo per l’Italia è impressa su uno sfondo bianco e accompagnata da un tricolore stilizzato. E se nuovo sta a intendere un superamento dell’attuale bipolarismo militarizzato, il richiamo alla Bandiera dimostra la ricerca di un modo di fare politica che guardi ai contenuti e non si fermi al consenso. Ieri a Todi, all’annuale convention di liberal Fli, Udc, Api, Mpa e Liberaldemocratici hanno pre-
cadere in partigianerie. Siamo di fronte a un disastro antropologico: fermiamoci in tempo prima che degeneri ancora di più». A queste come alle parole del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, e del presidente della Conferenza episcopale italiana, Angelo Bagnasco, sembrano ispirarsi i relatori Ferdinando Adornato, Mario Baldassarri, Linda Lanzillotta e Giuseppe Reina che hanno aperto i lavori della due giorni umbra.
Adornato: «La soluzione non è giudiziaria»
E Adornato parte
dall’attualità, dagli attacchi al presidente della Camera, Gianfranco Fini: gli espriSarebbe insieme me la solidarietà dei assurdo presenti perché «l’ofe ridicolo che, fensiva contro di lui è a quasi spudorata: non solo perché è improponiun ventennio bile un parallelo tra il da Mani Pulite, presunto scandalo l’Italia della casa di Montenon riuscisse carlo e l’acclarato a costruire una «via politica» per scandalo del casino uscire dalla crisi di Arcore, ma soprattutto perché Fini ha del sistema sempre rispettato qualsiasi giudizio sentato il logo che viene mostra- della magistratura, che ha archito con orgoglio a tutti i parteci- viato il caso, mentre Berlusconi, panti e che dà il via al primo alla magistratura, ha dichiarato coordinamento nazionale del guerra». Evidenziando come gruppo con l’obiettivo sia di tira- «nella storia della politica, specie re fuori il Paese dalle secche del in quella italiana, è sempre stato berlusconismo sia di rimettere in assai difficile far convivere tradimoto un’Italia, sempre più lonta- zioni culturali, percorsi di vita, sensibilità diverse. Lo spirito di na dall’Europa. L’aria che si respira a Todi è di- scissione, vera e propria malattia versa dagli altri appuntamenti di italiana, ha sempre finito per liberal: meno laboratorio politi- prevalere, prima o poi, sulle raco, più coordinamento operativo, gioni dell’unità. Non a caso, del per mettere a punto le strategie resto, lo spazio del Nuovo Polo del Nuovo Polo per l’Italia. Una per l’Italia si è aperto di fronte al sorta di risposta implicita all’ap- fallimento delle fusioni a freddo pello lanciato dal segretario del- e delle unioni di pura convenienla Cei, monsignor Mariano Cro- za elettorale». ciata, per «superare le risse, le Nella nuova formazione politica guerre di tutti contro tutti, senza si incontrano e si integrano l’i-
spirazione cristiana, il pensiero liberale, il patriottismo nazionale, le virtù civiche repubblicane. Valori e ideali che tratteggiano un’alleanza che, ha precisato Adornato, «si presenta con cinque segni distintivi: siamo un’alleanza di rinnovamento costituzionale, di modernizzazione liberale, di promozione sociale, di ricostruzione morale». La scommessa, secondo l’esponente centrista, è «dimostrare che è possibile stare assieme in nome del bene comune, del rilancio della politica e della sua dignità. Cercheranno di dividerci, hanno già cominciato a farlo e continueranno, con tecniche rozze e più sofisticate. Ma non ci riusciranno se crederemo in noi stessi».
L’invito, invece, è quello di non ripetere l’errore (e gli orrori) degli anni Novanta. Mentre la soluzione è «costruire una “via politica”per uscire dalla crisi di sistema e non una “via giudiziaria” come avvenne con Mani pulite». Linda Lanzillotta richiama la necessità di «un grande progetto di rinascita morale, civile ed economica. Per questo sarebbe necessario coinvolgere le migliori energie del Paese: della cultura, della scienza, della tecnologia, dell’impresa, della finanza, del non profit, del lavoro, della società». L’ex ministro degli Affari regionali nota che il progetto di rimettere l’Italia sui binari della crescita passa per «un assetto politico e istituzionale adeguato, all’altezza del compito, un assetto che superasse le contrapposizioni sterili e paralizzanti del bipolarismo come lo abbiamo conosciuto nell’ultimo quindicennio. E che oggi non sembra possibile». Al riguardo Adornato ha sugge-
rito di evitare qualsiasi «genere di trauma istituzionale o sociale all’Italia in un momento assai delicato della sua storia. In un’Italia che è bipartisan solo per la tragica collaborazione nel disastro ambientale che oggi accomuna nelle inchieste Bertolaso e Bassolino ci uniamo per andare oltre l’insensata guerra tra berlusconismo e antiberlusconismo». Berlusconismo che, come ha sintetizzato Adornato, si è trasformato da chance a pericolo visto che «la Casa della libertà poteva rappresentare l’embrione di un moderno partito popolare e liberale. E molti di noi hanno nel passato lavorato per trasformare il
ria del complotto e, legata ad essa, la propaganda mitologica della sovranità popolare che non a caso animano la decisiva battaglia di questi giorni».
È inquietante, però, secondo Adornato osservare come «la teoria del complotto o del “doppio Stato”, a lungo agitata dalla sinistra extraparlamentare contro le massime istituzioni del Paese, sia oggi diventata l’unica vera ideologia del premier, brandita a seconda delle circostanze, contro il Quirinale, la magistratura, la Consulta, l’opposizione, gli ex-alleati». Secondo l’esponente centrista Berlusconi non si reca in Parlamento a denunciare la cospirazione e non invia all’autorità giudiziaria una documentata relazione, perché si tratta di una irresponsabile strategia di difesa, sempre combinata Bisogna ridurre con la campagna contro Fiil deficit ni, per mascherare la sua e contenere profonda crisi politica». il debito pubblico, Ma per Adornato «nessun ma è necessaria magistrato l’ha obbligato a una manovra spaccare il Pdl, mettendo a “aggiuntiva” rischio i numeri necessari per destinare per il governo del Paese. risorse Nessun magistrato l’ha obbligato a rinunciare, quana sostegno do era in tempo, all’orizdella crescita zonte di un governo di reeconomica sponsabilità nazionale deberlusconismo in una chance di legando invece a Tremonti la tericostruzione politica del Paese. nuta dei conti e disinteressandoMa non ci siamo riusciti. Oppure si delle riforme. Nessun magici eravamo sbagliati nel ritenerlo strato l’ha obbligato, dopo le avpossibile. Il partito del predellino visaglie dei casi Noemi e D’Adha poi spazzato via ogni illusio- dario, a perseverare in comporne. Berlusconi da federatore si è tamenti indecorosi con totale astrasformato in eliminatore. Due senza di scrupoli verso l’immagisole suggestioni resistono: la teo- ne dell’Italia. Nessun magistrato
Baldassarri: «Più risorse per sostenere la crescita»
COSÌ VOTEREBBE L’ITALIA PDL LEGA NORD LA DESTRA
28,6 11,3 0,3
FUT E LIB UDC API MPA PD IDV SEL
40,2
14,6
25,3 6,2 8,2
39,7
1,3
RADICALI
0,7
Mov5stelle
2,9
PENSIONATI SOCIALISTI ALTRO
0,2 0,2 0,2
ROMA. I sondaggi premiano il coraggio del Terzo Polo. La nuova realtà è data già al 14,6% delle preferenze, con un bacino “di simpatia”ancora più ampio: tocca infatti il 28,4%. Dopo il voto di fiducia del 14 dicembre, che aveva visto prevalere un atteggiamento filo-governativo, le cose sono cambiate: nell’ultima settimana di rilevazioni, infatti, il centrodestra ha registrato un serio contraccolpo, passando dal 42,4 al 40,2%. Pesano ovviamente gli scandali che hanno colpito Silvio Berlusconi. Il Pdl, dice il sondaggio Lorien che pubblichiamo a lato, lascia sul campo oltre l’1,6%, mostrando comunque una tenuta derivata dall’aìrroccamento della base. La Lega continua invece nel suo trend negativo: il sospetto degli elettori di una sua “contaminazione” con il Pdl - e il conseguente abbandono dei valori simbolo del Carroccio - fanno scendere da dicembre le preferenze per il partito del Senatùr. Il centrosinistra registra
un leggero recupero complessivo dell’area dopo il tonfo di due mesi fa, pari all’1,7%. In particolare il Partito democratico si conferma intorno al 25%, ma non sembra in grado di sfruttare le difficoltà dell’avversario. L’Italia dei Valori si assesta al 6%, mentre l’esplosione si registra nelle fila di Sinistra Ecologia e Libertà, che sfonda la soglia simbolica dell’8%.
Il nuovo Polo rende invece più solidi i propri presidi. L’Unione di Centro supera nettamente per la prima volta il 7%, confermando la propria solidità e capacità di attrazione suffragata anche dall’alto giudizio che gli elettori danno all’operato di Casini, considerato il leader più affidabile dal 28,6% degli intervistati. Futuro e Libertà si assesta intorno al 5%: un risultato ammirevole, considerando la debacle del 14 dicembre che - per gli intervistati - va ascritta ai futuristi. L’Api si conferma in crescita.
L’AREA DEI POTENZIALI ELETTORI È ANCORA PIÙ GRANDE 17 gennaio
Sicuramente si
Istituto: Lorien Public Affaire di Lorien Consulting Criteri per il campione: sondaggio realizzato su un campione rappresentativo della popolazione maggiorenne italiana. Metodo di raccolta informazioni: interviste CATI ad un campione rappresentativo per sesso ed età. Numero delle persone interpellate ed universo di riferimento: Campione di 1.000 cittadini strutturati per sesso ed età.Data in cui è stato realizzato il sondaggio: 24/25 gennaio 2011 Metodo di elaborazione: CATI – SPSS – Intervallo di confidenza 95% Direttore di ricerca: Antonio Valente - Rapporto a cura di Felice Meoli
27 gennaio
26,3
Sicuramente si
3,1
Probabilmente si
COME LEGGERE LE SCHEDE
l’ha obbligato a telefonare alla questura di Milano per far rilasciare“la nipote di Mubarak” nella mani di una sua amica per poi affidarla a una prostituta brasiliana. Nessun premier al mondo, infine, affiderebbe a un signore come Lele Mora l’organizzazione del suo tempo libero». Proprio per differenziare il Nuovo Polo per L’Italia dal berlusconismo Adornato ci ha tenuto a precisare: «Noi nasciamo per contestare la favola dell’uomo solo al comando, del direttore che con la bacchetta magica risolve i problemi di un’orchestra che non sa suonare, l’illusione di un leaderismo senza partiti che è stata la chimera della Seconda Repubblica. Nell’era della globalizzazione, non è l’esaltazione di un solista ma il gioco di squadra, la sintonia di una classe dirigente nella quale le competenze di ciascuno si sommano nel progetto di tutti». Poi rivolto agli esponenti della maggioranza si è chiesto se nel Pdl «non ci sia più una sola voce politica che abbia a cuore la dignità della politica e il senso dello Stato? Possibile che la Lega non capisca che ormai è Berlusconi il vero ostacolo sul cammino delle riforme? L’attuale maggioranza potrebbe seriamente esprimere un governo con un premier diverso ed evitare al Paese altri traumi e perdite di tempo. Ma se non riesce a farlo,
Il Terzo Polo è già al 14,6 Sarebbe la forza decisiva per poter governare il Paese
5,2 7,3 1,5 0,6
FED SIN
Un sondaggio Lorien del 27 gennaio conferma il tramonto del bipolarismo
Probabilmente no
23,2
NS/NR 1,1
2,7
Probabilmente si
25,7
Probabilmente no
25,9
Sicuramente no
28,4
46,8
28,6
Sicuramente no NS/NR
38,9 4
Base: Totale campione
Lanzillotta: «Un grande progetto di rinascita»
vo Polo per l’Italia è lo strumento per far ricominciare a circolare, nelle strade di un Paese stordito, la speranza del futuro». Perché, come ha scandito Linda Lanzillotta, il Nuovo Polo per l’Italia nasce «dalla volontà di rompere l’immobilismo e di riunire le fratture della società italiana». Proprio nel corpo del Paese «ci sono enormi energie e qualità. Infatti il compito della politica è liberare l’Italia dalla cappa sotto cui è finita per liberare finalmente le sue energie».
Finanziarie del 2009 e del 2010. Tutti testi scritti da Giulio Tremonti, nei quali le misure espansive sono schiacciate dal rispetto maniacale dei saldi.
coinvolgendoli nella definizione degli obiettivi e dei trasferimenti, non fa fatica a delineare il perimetro del Nuovo Polo per l’Italia: fisco, liberalizzazioni, produttività e lotta alla precarietà. «Occorre un’agenda per la crescita che punti su ricerca e innovazione, il digitale, un uso sostenibile delle risorse, una politica industriale e un mercato del lavoro per l’era della globalizzazione, una piattaforma contro la povertà per garantire coesione sociale e territoriale, senza dimenticare la famiglia, centro e cuore dei grandi mutamenti della nostra epoca». Il professor Mario Baldassarri, guardando soprattutto all’attualità, ha richiamato l’accento sul lascito della crisi economica e sulle misure adottate per fronteggiarla. Il presidente della commissione Finanze del Senato vuole che il Nuovo Polo per l’Italia parta dalle modifiche all’ultimo Milleproghe depositate a Palazzo Madama così come agli emendamenti per migliorare le
che consenta di tagliare ulteriormente la spesa per avere risorse da spostare al sostegno della crescita economica e del reddito delle famiglie e delle imprese».
strazioni statali (a cui porre un tetto) e i trasferimenti a fondo perduto alle imprese da abolire. «In questo modo», spiega, «troverebbero piena copertura i provvedimenti a suo tempo presentati in Senato, sia nella loro formulazione ridotta per circa 7 miliardi, sia nella loro formulazione più completa per circa appunto 34 miliardi di euro. Queste risorse, una volta liberate, possono costruire, accanto alla gamba del rigore, anche la gamba dello sviluppo e quella della giustizia sociale».
Le proposte dell’allievo di MoL’Italia oggi digliani furono«accettate allora ha bisogno dal governo come ordine del di una grande giorno ma dopo 14 mesi sono anprogetto cora lettera morta». Invece oggi, di rinascita «fermo restando il sacrosanto e morale, civile condivisibile obiettivo di ridurre ed economica. il deficit pubblico e contenere la È necessario crescita del debito pubblico, occoinvolgere corre valutare la necessità di una le migliori L’ex ministro che tentò di ri- manovra “aggiuntiva” rispetto a energie del Paese durre gli sprechi degli enti locali quella presentata dal governo È proprio nel non aver saputo molto meglio rompere gli indugi e andare alle elezioni. Elezioni che noi non solo non temiamo, ma aspettiamo sicuri di una nostra significativa affermazione, decisiva per formare qualsivoglia governo». Ma allo stesso modo ha chiesto al Pd di «sciogliere l’eterno nodo di Gordio della sinistra italiana, quello tra riformismo e antagonismo».
Sulla strategia politica Adornato ha detto chiaramente: «Non ci candidiamo a battere Berlusconi mettendo insieme tutto e il contrario di tutto pur di ottenere un voto in più. Siamo già oltre questa logica. Noi ci candidiamo a governare il Paese con valori, programmi e alleanze realmente omogene. Nessuno di noi ha scelto la strada più comoda.Tutti abbiamo deciso di mettere al primo posto gli interessi dell’Italia. Gli altri due Poli vivono ancora nel passato, noi proponiamo il ritorno della vera politica. Il Nuo-
coniugare le richieste dell’Europa e le necessità delle imprese che si legge il fallimento del centrodestra, acuito anche dal divario infrastrutturale tra Nord e Sud il superamento del quale, come ha sottolineato l’esponente dell’Mpa Giuseppe Reina, «è divenuto non più un elemento complemenBisogna tare, ma un punto orientare, nodale che il Paese potenziare, deve sciogliere per accelerare puntare a una diil processo mensione nuova deldi sviluppo la propria sussisteninfrastrutturale za sul mercato globaper aumentare le. Si tratta di orienle opportunità tare, potenziare, accelerare il processo oltre i confini di sviluppo infradel territorio strutturale del Paese europeo affinchè esso divenPer ottenere questo risultato ga, in nome e per conto dell’inteBaldassarri suggerisce di inter- ra Europa, strumento e luogo di venire su tre capitoli di spesa: il esportazione di opportunità di blocco degli stipendi, gli acquisti sviluppo oltre i confini del terridi beni e servizi delle ammini- torio europeo».
Reina: «Puntare tutto sulle nuove opportunità
pagina 4 • 29 gennaio 2011
un nuovo polo per l’italia
Al Bramante di Todi, i deputati centristi e moderati disegnano i contorni programmatici del polo che vuole cambiare il Paese
Ci candidiamo a governare «Non aspetteremo i magistrati, vogliamo vinceremo con la politica»: Casini indica la strada per superare il berlusconismo ormai al tramonto di Errico Novi
TODI. «Da oggi parte la scossa. Da oggi portiamo qualcosa di diverso nel dibattito di questo Paese». Lorenzo Cesa si presenta così all’hotel Bramante di Todi. A pochi minuti dall’assemblea nazionale dei parlamentari del Nuovo polo per l’Italia il segretario dell’Udc mette subito sul tavolo le ambizioni dell’alleanza. «Intendiamo rivolgerci a milioni di italiani moderati, alle persone di buonsenso che non ne possono più di questo spettacolo indecente, che credono in questo Paese e si impegnano per crescere con lui. Da oggi hanno una parte politica che li rappresenta». Svolta. Novità. Cambio di passo. Sono le
Urso: «Costruire insieme un’alternativa» Gli elettori non ci chiedono di essere semplicemente l’ago della bilancia tra due schieramenti, ma di costruire un progetto nuovo di alternativa di governo chiavi di tutti gli interventi dell’assemblea. Delle relazioni introduttive di Adornato, Baldassarri, Lanzillotta e Reina come di quelle dei parlamentari e dirigenti di Udc, Fli, Api, Mpa, Lib-dem, repubblicani come La Malfa e liberali come Guzzanti, che si avvicendano sul palco. La novità e la capacità di rappresentare l’alternativa è anche il codice a cui Pier Ferdi-
nando Casini affida il suo discorso. Che segna la vera traccia politica della giornata di Todi, che affronta e scioglie tutti i nodi, dalla giustizia alla leadership. In tutti, da Cesa a Lombardo, la convinzione di poter incidere in modo decisivo è incoraggiata dallo squallore raggiunto dalla contesa politica. Con due conflitti paralleli, tra Berlusconi e la magistratura da una parte e tra l’intera maggioranza e Gianfranco Fini dall’altra, seppur con l’ultimo distinguo di Bossi («abbassiamo i toni e facciamo meno casino»). Proprio l’intenzione di distinguersi da questo degrado rafforza la determinazione, e la fiducia, dei partecipanti a questa “costituente”. Anche Francesco Rutelli raggiunge il luogo della convention con buon anticipo sull’inizio dei lavori. «Siamo qui perché la soluzione alla crisi italiana non può venire dalla magistratura ma dalla politica. Per questo stiamo lavorando con umiltà a un nuovo orizzonte che unisca le forze sane di questo paese». Sono parole che torneranno nell’intervento di Casini. C’è una stella polare, dice il leader di Alleanza per l’Italia: «La concretezza: dobbiamo dare risposte ai problemi degli italiani, l’economia, il lavoro, la competitività».
Su questi temi il Nuovo polo vuole presentarsi con il volto dell’innovazione, come attesta Adolfo Urso: «Non pensiamo di realizzare un terzo polo per sfuggire alla logica del bipolarismo. Essere l’ago della bilancia è un’idea che fa parte del già vissuto, un’idea che alla luce di quanto avviene in questi giorni rischia di apparire poco ambiziosa. Gli elettori ci chiedono di costruire un’alternativa di governo, lo dimostrano i sondaggi». Casini raccoglie in pieno la sfida. Aperta peraltro dalla sostanziale ritirata di Berlusconi «che non ha più voglia di governare il Paese». Parte da qui il leader dell’Unione di centro,
non prima però di richiamarsi all’esempio più lampante, la fine della Prima Repubblica. «Quel mondo non è finito per Tangentopoli. Si era piuttosto esaurita una sorta di spinta propulsiva. Sono convinto allo stesso modo che la soluzione politica della crisi che c’è oggi in Italia non possa essere lasciata alle vicende giudiziarie. Sarebbe una sconfitta enorme per la politica». Simile a quella del ’93.
«Il nostro Nuovo polo deve essere una grande forza tranquilla che riesce a distinguere la polemica, in cui siamo pure noi trascinati, dalla politica. Il nostro compito oggi è la responsabilità di chiudere una fase della nostra storia. Nel ’94 abbiamo creduto a un percorso attorno a Berlusconi. Vedevamo le anomalie, i conflitti d’interesse, i limiti. Ma molti di noi, sbagliando, hanno pensato che il tempo attenuasse queste anomalie. Superiamole», ed è questa la prima proposta concreta di Casini, «restituendo la democrazia agli elettori: non è accettabile che cinque persone scelgano mille parlamentari. Se oggi nel Pdl tante persone, nostre amiche, sono paralizzate dalla paura, è per il meccanismo perverso di selezione della classe dirigente che noi abbiamo accettato». È anche la prima autocritica. Quindi il discorso torna a Berlusconi: «Il vero fallimento è di chi ha proposto la rivoluzione liberale e oggi, dopo vent’anni, fa i conti con il nulla». Oggi per giunta, aggiunge Casini, «arriviamo al punto che Bossi è il leader moderato del governo, è lui a dire “forse non andremo alla manifestazione”. Questa politica ha prodotto populismo senza mai assumere scelte impopolari. Oggi abbiamo un Paese in grande deficit di crescita ma gravato comunque dal debito pubblico». Il caso Montecarlo? «Una fuga dalla realtà. Fini fa in modo impeccabile il presidente della Camera». E allora,
ecco, «noi vogliamo un’alternativa a Berlusconi perché non ha più voglia di governare il Paese. Non solo non lo ha governato, ma non vuole più affrontare le questioni». L’Aquila e i rifiuti di Napoli sono esempi di questa volontà di elusione. «C’è
Bocchino: «Diversi, ma uniti sui valori seri» Costruiamo un percorso comune partendo da punti diversi. Ma sul senso della famiglia siamo d’accordo: a letto alle 22 e niente eccessi alla Berlusconi un fallimento di ogni promessa riformatrice a partire dalla giustizia». Nell’intervento di Casini c’è anche un passaggio sulla «mancanza di crescita che produce disoccupazione e, quindi, il rischio delle “due Italie”, giacché è sul Mezzogiorno che la disoccupazione produce i danni più gravi». Anche sulle manifestazioni dei giovani Casini prende tutti in contropiede: «In piazza ci vanno anche i ragazzi che prendono trenta e lode ma non troveranno un lavoro. Come si fa a risolvere tutto con la battuta “vadano a studiare”?». E quindi l’altra proposta che farà discutere: «Tassazione delle rendite finanziarie. Non possiamo dare solo una risposta in termini di modernizzazione, non possiamo prescindere dall’aspetto sociale. Dob-
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L’appello al Pd di Giuseppe Fioroni
«Non possiamo allearci con i conservatori della Fiom. Costruiamo un’alleanza di riforme con i centristi» di Gabriella Mecucci
ROMA. L’incontro di Todi dove si trovevano tutte le componenti del “Nuovo polo”, avviene proprio nel momento in cui la crisi del berlusconismo è sotto gli occhi di tutti: da una parte lo squallido squadernarsi dello scandalo sessuale e dall’altra la situazione del paese sempre più difficile. Il Presidente Napolitano è intervenuto su entrambi i temi esprimendo forte preoccupazione. In questa dificilissima situazione su quali contenuti e su quali alleanze punta il Pd? Con quali occhi guarda alla nascita del Polo degli italiani? Onorevole Giuseppe Fioroni non pensa che di fronte alla crisi verticale della premiership berlusconiana, sia arrivato il momento di aprire una nuova fase politica? Che sia necessaria una nuova fase politica è sotto gli occhi di tutti. Occorrerebbe che il premier facesse un passo indietro e questo non solo per l’iniziativa della magistratura ma anche per la situazione che sta vivendo il paese che non si può permettere di continuare così. L’Italia cresce di un punto - se vogliamo essere ottimisti - un punto e mezzo all’anno di Pil, mentre il debito progredisce di 4 punti percentuali. Così facendo c’è una data certa: molto prima della scadenza dei dieci anni, i nostri titoli di stato non saranno solvibili. E non c’è banca centrale europea che possa risolverci un simile problema. Chi ha investito sui nostri Bot e sui nostri Cct staccherà allora la spina e noi rischieremo di trovarci peggio della Grecia. A fronte di questi problemi, chi governa ha la testa rivolta da un’altra parte: deve occuparsi del Rubygate. L’Italia è molto meglio della sua classe dirigente politica, merita di più e proprio per questo occorre aprire una nuova fase, una nuova prospettiva. Per aprire una nuova fase politica, occorre trovare anche una nuova strategia di alleanze. E che cosa ne pensa il Pd? E la componente politica veltroniana di cui lei fa parte? Dobbiamo prendere atto che viviamo in un paese che ha bisogno di scelte coraggiose e innovative. Che deve cambiare profondamente. Per realizzare ciò, c ‘è bisogno di una coalizione che dica chiaramente quello che pensa e riesca a fare quello che dice. Dobbiamo imboccare la strade delle riforme, non c’è alternativa. Non possiamo allearci con chi è in realtà conservatore e ci riporta nella tradotta della Fiom. Da questo punto di vista la vicenda della Fiat è emblematica. Dobbiamo costruire un’alleanza di progresso, un incontro fra riformatori. E io non ho dubbi che Casini con il suo polo sarà un importantissimo interlocutore di questo processo. Il seminario di Todi è un importante appuntamento politico per andare alla fondazione di quello che fin qui è stato chiamo “Terzo polo”, che cosa si aspetta? Non lo chiami Terzo polo, in politica chiamarsi terzi non va bene. In politica l’importante è vincere e riuscire a realizzare le cose che contano per il paese. Preferisco, quindi l’espressione “Casini e il suo polo”. Di fronte a Berlusconi che non fa un passo indietro e che conduce il paese dentro al baratro, dobbiamo costruire insieme il modo per vincere le elezioni. Per arrivare primi. Parliamo del Pd e in particolare dell’argomento del giorno: le Primarie. C’è la vicenda di Napoli. E ci sono le dichiarazioni di Bersani. Il segretario ha sostenuto che, quando ci sono le Primarie non di partito ma di coalizione, i democratici devono esprimere un solo candidato... Penso che le Primarie sono uno strumento che è consegnato all’intelligenza politica dei gruppi dirigenti. Tutto naturalmente può essere migliorato. Se c’è qualcosa che non funziona bene, il problema però non è dello statuto, ma della politica.
“
Berlusconi deve fare un passo indietro non solo per le inchieste della magistratura sugli scandali sessuali, ma perché la situazione del Paese è grave e non può continuare così
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biamo unire l’Italia. Oltretutto, senza un governo di larga coalizione, non riusciremo mai a fare quelle scelte impopolari che sono doverose». Sulle diversità interne: «Non ha senso dire chi è venuto da destra, chi dal centro, chi da sinistra: ma una coalizione politica nasce se insieme si guarda al futuro ciascuno con il suo contributo. Siamo diversi ma abbiamo un’idea che è quella della democrazia dell’alternanza». E qui c’è appunto anche la risposta all’intervento di Urso: «Il bipolarismo sarebbe una cosa splendida se fosse virtuoso, se non si fosse paralizzato attorno alla figura di Berlusconi».
Sul tema della leadership: «Non vogliamo riprodurre Berlusconi. Il nostro disegno politico ha potenzialità enormi, ma il limite lo creiamo noi se interpretiamo l’operazione come un’alleanza di gruppi dirigenti che stanno nel palazzo. Così falliamo. Invece dobbiamo radicarci nel Paese, stipulare un patto con la società civile». Infine su Pdl e Pd: «Chiediamo a chi è in Parlamento con Berlusconi di facilitare un’alternativa che vogliono anche loro. Berlusconi ci voleva con lui nel Ppe? Bene, se avesse a cuore il destino dei moderati oggi farebbe un passo indietro e consentirebbe un’alleanza più ampia. Anche con il Pd dobbiamo avere rispetto per chi, come Ranieri, avrebbe avuto il nostro consenso. Non dobbiamo evitare il dialogo con il Pd ma incalzarlo: sta con chi ha votato sì a Mirafiori o con chi comeVendola definisce Marchionne un bandito? L’Italia non ha bisogno delle elezioni, ma se il governo deve restare per il nulla, si vada al voto anticipato». Se alla crisi istituzionale va data una risposta politica, come spiega Ferdinando Adornato, compito del Nuovo polo, dice subito Mario Baldassarri nella seconda delle relazioni mattutine, è anche opporre una «diversa strategia di politica economica: la linea del governo Berlusconi-Tremonti rischia di scivolare dal rigore al rigor mortis». Tema a cui arriva anche Rocco Buttiglione, che pure parte da un’analisi più ampia dei fattori di coesione e di distanza tra le forze del Nuovo polo: «Cosa ci tiene assieme? Innanzitutto la paura per l’incapacità dell’Italia di fare lo sforzo che i tempi richiederebbero. E per i punti di riferimento che stanno saltando nel Paese, per i laici come per i cattolici». Cita, il presidente dell’Udc, «i padri afflitti perché la loro figlia non è la preferita».Va ricostruito «un rapporto tra politica e moralità». Ma non con una coalizione ideologica: «DellaVedova e io cercheremo soluzioni comuni. Se non le troveremo faremo battaglie su fronti opposti, senza compromettere la finalità della coalizione che stiamo costruendo». Quindi il discorso della linea alternativa a quella di Tremonti: «Lui ha tenuto i conti in ordine ma ha trascurato la competitività. Come dice Baldassarri, serve una ragionevole spesa in deficit che investa su infrastrutture materiali e immateriali, consentendo ai nostri giovani di saper fare quello che i cinesi non sanno fare».Paola Binetti chiede unità innanzitutto nel metodo: «Ripartiamo dalla riscoperta di una dimensione etica del fare politico: dare contributi sulla base di uno studio personale concreto, avere sempre una consapevolezza, da parte di ciascuno dei nostri parlamentari, di quello che si vota in aula». Così è possibile «incontrarci nelle differenze che pure ci sono». Di metodo parla a lungo anche Italo Bocchino: «La nostra è una coalizione che comincia con serietà, sobrietà e competenza ad affrontare i problemi. Dobbiamo distinguerci per questo». Ma serietà, ag-
giunge il capogruppo di Fli, «vuol dire anche essere sinceri nell’ammettere che ci avviamo a un percorso comune partendo da posizioni diverse. Questa coalizione d’altronde nasce dalla crisi di sistema, evidente, profonda, che c’è oggi in Italia e che deve per forza portare a qualcosa di nuovo. Più che distruggere il bipolarismo l’obiettivo che dobbiamo darci è scomporre quello attuale e contribuire a costruirne un altro, di tipo europeo. Il nostro non è un modello occidentale, ma un sistema in cui si realizza ancora il timore paventato da Bobbio di un predominio del populismo sulla componente moderata di ciascuna delle due vecchie coalizioni. Risolvere il nodo», dice Bocchino, «supera anche il problema della leadership: noi esprimiamo una pluralità di leadership, e conta solo che chiunque rappresenti il Nuovo polo sia espressione di quella componente moderata a cui si riferisce Bobbio».
Poi i pilastri: «Interesse nazionale, sicurezza, etica pubblica, ribaltando lo schema per cui il furbo va preferito all’onesto, la famiglia. Se metteremo questi punti al centro e garantiremo al nostro interno democrazia e partecipazione, be’, potrà esserci un’ulteriore fase di transizione ma poi costruiremo noi il polo moderato». Una delle urgenze avvertite a Todi è quella di liberare il Nuovo polo da quell’aggettivo, «terzo», che sa di «classifica». Se ne preoccupa Raffaele Lombardo, governatore della Sicilia e leader dell’Mpa, pronto a far valere il suo riuscito esperimento locale: «Noi ci vantiamo di essere il primo polo ben prima che si formasse il terzo, e
Buttiglione: «Non c’è un successore di Silvio» Il successore di Berlusconi non esiste perché il successore dovrà essere un partito che nomina un leader. Non un leader che crea un partito lo abbiamo sperimentato con la Regione». C’è anche un problema di squilibrio territoriale, nelle politiche dell’esecutivo, come dimostra Giuseppe Reina dell’Mpa. Aggiunge Giovanni Pistorio, capogruppo al Senato degli autonomisti: «Nessuna intenzione di indurre nel Nuovo polo un meridionalismo assistenzialista, piuttosto l’appello a puntare su tre questioni: investimenti nelle infrastrutture, nuova politica fiscale che crei le condizioni per gli investimenti al Sud e un vero riassetto istituzionale. Non c’è più spazio per quegli interventi che al massimo potevano indurre nel Mezzogiorno uno stimolo ai consumi. Non ci interessa più». Il Nuovo polo tiene a rappresentarsi subito come un’area autonoma anche in politica estera. Se ne occupa tra gli altri il deputato dell’Api Gianni Vernetti, fedelissimo di Rutelli, che presenta a Todi una lunga relazione sulla «dimensione etica» che l’Italia dovrebbe ritrovare anche per farsi carico di un valore a rischio, dal Maghreb al Medio Oriente: la libertà religiosa.
un nuovo polo per l’italia
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1/I giudizi degli altri • Michele Salvati Michele Salvati invita le opposizioni e i moderati (anche quelli del Pdl) a non «sprecare» la parte finale della legislatura varando un governo guidato da Mario Draghi. Nella pagina a fianco, Massimo Cacciari: il filosofo ed ex sindaco di Venezia chiede a Bersani di favorire il superamento defintiivo del bipolarismo che da noi ormai è fallito
«Ci vuole una transizione: tutti i riformatori si uniscano intorno a Mario Draghi» di Errico Novi
ROMA. «Sarebbe il caso di portarsi un Credo che lui riuscirebbe a mantenere po’avanti con il lavoro. Il terzo polo dovrebbe arrivare con il Pd a un’ipotesi comune sulla legge elettorale. Solo così potrebbero materializzarsi quegli scenari a cui guarda questa nuova area politica. Servirebbe un governo di transizione guidato da una figura rassicurante per i mercati. Mario Draghi, per esempio. Lui può traghettare il Paese nella Terza Repubblica, con un nuovo sistema di voto, ovviamente». Michele Salvati indica con largo anticipo il punto di caduta di tutti i discorsi sulla nuova alleanza moderata: la riforma elettorale.Tema che costituisce anche il punto di snodo dei rapporti tra la nuova area moderata e il Partito democratico, secondo il professore di Economia della Statale di Milano ed editorialista del Corriere della Sera, che è anche uno dei veri padri fondatori del Pd. L’iniziativa del nuovo polo nasce anche dalla contemporanea crisi di Pdl e Pd. Chiederle che prospettiva ha il nuovo polo equivale a chiedere quanto sia irreversibile questa crisi. Primo, siamo senz’altro d’accordo su questa duplice e contemporanea crisi. Che è crisi del messaggio ma anche della pratica politica. Però dei problemi si pongono già anche per il terzo polo. I due principali partiti che hanno promosso quest’area provengono da tradizioni molto diverse: gli ex An che si sono ribellati allo strapotere di Berlusconi e gli ex democristiani doc. Immaginarli in un polo compatto non mi risulta facile. Non dico nulla su Rutelli e i suoi che vengono da un’esperienza di centrosinistra puro, ricordo che quando parlavo con Rutelli di sinistra democratica lui rettificava sempre: “centrosinistra!”. Le maggiori difficoltà riguardano la posizione di Fini. Finora orientato a costruire una destra decente e liberale.
forte quest’identità se non ci fosse una contraddizione in termini con Casini e Rutelli che si collocano su una posizione molto più centrista. Con il secondo che si è spostato sempre più verso un elettorato cattolico. Mentre Fini ha rafforzato tra l’altro l’immagine di una destra laica. C’è il comune profilo moderato, però. Ci sono anche margini di movimento modesti rispetto alle politiche macro e micro economiche, se vogliamo, che impongono scelte poco fantasiose a chiunque. Il discorso riguarda tutti, sia questa Forza Italia ripulita che è il Pdl sia il Pd. In termini macroeconomici ci muoviamo su un percorso obbligato, in termini “micro” bisogna scontare interessi con cui nessuno vuole davvero scontrarsi. Rispetto alle politiche pub-
alleanza tra Pdl-Lega e nuovo polo, il Cavaliere potrebbe imporre il veto su Fini? Penso a questo ma anche alla nascita di un nuovo governo senza Berlusconi premier, con un centrodestra allargato, nell’attuale legislatura. Voglio dire che la presenza nel terzo polo di Fini pone un problema generale, sul medio lungo periodo, ma anche più specifico e immediato, con un esecutivo, poniamo, guidato da Tremonti. È la conseguenza dei livelli d’odio raggiunti ormai tra Fini e Berlusconi. Il presidente della Camera avrebbe collocazione naturale nel centrodestra, che però non lo accetterebbe. Con Casini e Rutelli non ci sono queste incompatibilità Differenze sì. Casini è sempre stato un solido centrista, vicino al Vaticano, Rutelli ha fatto parte del Pd, ma nel momento in cui si alleano tra loro, nessuno dei due snatura la propria immagine. Fini invece sì.
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to. Avremmo in ogni caso conseguenze di drammatica incertezza al Senato. Ecco perché avrebbe più senso realizzare questa grande alleanza nell’attuale legislatura. Si potrebbe dire: lo facciamo solo per l’emergenza, per tenere a bada l’economia e approvare la legge elettorale. Sarebbe andata così se il 14 dicembre non ci fosse stata la fiducia. Sarebbe stato meglio. Si sarebbe preparata la strada alle urne, alla Terza Repubblica. Un brevissimo interludio per mettere da parte Berlusconi. Certo, una simile opzione avrebbe richiesto un patto preciso, un presidente come Mario Draghi, o anche Montezemolo, ma dico Draghi perché mi sembra la figura di cui la speculazione internazionale può fidarsi di più, mentre non so se Montezemolo susciterebbe la stessa considerazione. In ogni caso un personaggio completamente fuori dagli schieramenti che ci aiuta a traghettare il Paese. L’esperimento durerebbe sei mesi, un anno al massimo. Ma una cosa servirebbe già da ora: la legge elettorale. Bisognerebbe portarsi avanti con il lavoro. Direi di sì, sarebbe indispensabile. Ultima cosa: crede a una scissione, ipotizzata da alcuni, della parte liberaldemocratica, veltroniana, del Pd, che andrebbe a saldarsi con il nuovo polo? È possibile. Non me lo auguro. E vorrei precisare: il Pd è diviso non in due ma, a mio giudizio, in tre spezzoni. Uno che ha già scelto Vendola, uno che ha un profilo liberaldemocratico che più chiaro non si potrebbe e un corpaccione intermedio che tenta di tenere tutto assieme. Bersani, per intenderci, non ama Vendola. Ma sono distinzioni che troviamo in tutti i maggiori partiti della sinistra europea. Pesano i sistemi che altrove sono quasi tutti maggioritari. E da noi tutto dipende dalla nuova legge elettorale, la sola che può portarci fuori dalla Seconda Repubblica. Di cui siamo prigionieri. Il rischio di implosione del sistema è molto forte.
I rischi di implosione definitiva del sistema sono molto forti. Solo un esecutivo di transizione può propiziare la Terza Repubblica
bliche, insomma, il terzo polo non avrebbe problemi di coerenza interna. Resta appunto il problema di strategia per Fini, che può emergere anche nel quadro agitato di questi giorni. A cosa si riferisce esattamente? Dati i rapporti di forza attuali, in caso di voto anticipato sarebbe interessante capire come nascerebbe per esempio un nuovo centrodestra ripulito. Perché si può dare per certo che la sola condizione posta eventualmente da Berlusconi per ritirarsi sarebbe proprio l’esclusione di Fini. Tutti ma non lui. Lei dice che di fronte a un Senato senza vincitori e a una possibile
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Il nuovo Polo può attrarre moderati e cattolici del Pdl? Sì. Addirittura me lo auguro. Può acquistare voti dal Pdl come dal Pd, il terzo polo. Ma proprio rispetto ai rapporti tra democratici e terzo polo si apre una questione complicata. Vediamo. Se il Pd intraprendesse una linea quasi veltroniana, poniamo, conterrebbe le perdite al centro ma non a sinistra dove si creerebbe un rassemblement quotabile oltre il 10 per cento, attorno a Vendola. In un quadro simile, non impossibile con elezioni a breve, nascerebbe probabilmente un embrassonsnous enorme, da Fini al Pd, appunto. E i problemi di identità aumenterebbero, anche all’interno del terzo polo, soprattutto per Fini. Anche per il Pd, cer-
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2/I giudizi degli altri • Massimo Cacciari
«Con voi si può uscire dalla palude» La nascita del Terzo Polo permetterà di superare l’agonia del finto bipolarismo di Riccardo Paradisi
ROMA. «Per il momento il Terzo polo è ancora la risultante dei processi di disgregazione altrui. Sarà decisiva la sua fase costituente, decisiva anche sul futuro assetto del gioco politico. Perché è evidente che siamo all’epilogo dello schema bipolare italiano». Massimo Cacciari, che ragiona con liberal, sul nuovo Polo degli Italiani alterna realismo e visioni di prospettiva. «È certo che la nascita di questa nuova area immette nel sistema una variabile che potrebbe rivelarsi decisiva». Professore, lei non vede un futuro per Pd e Pdl i due grandi blocchi politici che, in varie forme, occupano la scena italiana da quasi un decennio. Perché? Ma perché in questi due partiti è evidentemente in corso una scomposizione progressi-
va, inarrestabile. Del resto due dei componenti del Terzo polo – Fini e Rutelli – sono stati anche i due cofondatori di quei partiti, da cui, in modo diverso, hanno maturato percorsi di fuoriuscita che sono destinati a continuare. Basta vedere cosa sta accadendo nel Pd dove è chiaro che i prossimi ad uscire, dopo le prossime elezioni, saranno gli ex popolari e gli ex della Margherita. Questo avviene nel Pd ma nel Pdl dopo la rottura di Fini non sembrano esserci nuove opposizioni interne, nuove eresie e scismi all’orizzonte. Per ora nel Pdl la colla tiene di più, ma tutto è legato alla presenza di Berlusconi: quando non ci sarà più lui, il Pdl sarà un luogo da cui tutti vorranno uscire anche perché si scateneranno dinamiche così divisive da erodere tutto il patrimonio di consenso fin qui accumulato. Dinamiche già presenti se si pensa al ruolo di sponda interna con la Lega che sta giocando Giulio Tremonti. Il Terzo polo nasce a petto d’uno scenario in via di scongelamento dunque. Esatto, ed è per questo che è ora il momento giusto per l’affacciarsi d’un nuovo polo. Quale siano il suo programma e la sua strategia però è ancora presto per dirlo, mi sembra che questa definizione del resto sia ancora di là da venire. Non sarà facile però trovare un profilo unitario, un’amalgama vera. Insomma, si tratta ancora di capire se c’è il modo di combinare l’ispirazione di Casini con quella di Fini per esempio sulle questioni eticamente sensibili. La libertà di coscienza? Si certo, la libertà di coscienza: si ricorreva a questa formula anche nel Pd per conciliare posizioni opposte sugli stessi temi. S’è visto cosa è accaduto e cosa continua ad accadere. Non sono quelli della bioetica temi su cui si possa scherzare troppo. Insomma, il rischio che succeda quello che è successo nel Pd è enorme. Su questo punto ultimamente Fini s’è dimostrato molto duttile.
Sì, ma Fini ultimamente ha anche una posizione molto indebolita dalla sconfitta della mozione di sfiducia dello scorso 14 dicembre su cui aveva investito molto. La posizione più forte oggi è indubbiamente quella di Casini che a sua volta dovrà tenere conto del proprio elettorato che sul fronte bioetico è molto motivato. D’altra parte se puoi temporeggiare ora, sotto elezioni un programma dovrai anche declinarlo e dentro un processo costituente serio certi temi non puoi eluderli. Il tema su cui, soprattutto i centristi, battono molto per ora però è il fallimento pratico di questo schema bipolare, che s’è inghiottito coalizioni di destra e sinistra a ripetizione… Questa è un’intuizione che solo un cieco potrebbe contestare. È evidente che questo bipolarismo sia un flop gigantesco. Intendiamoci io sono convinto che il sistema bipolare sia quello più confacente a una democrazia matura, ma in Italia non c’è una democrazia matura, sicché ragionare di modellistica astratta è da imbecilli. La realtà italiana è che non si riesce a dar vita ad aggregazioni politiche vere. Per questo dobbiamo passare attraverso una fase di decostruzione dei blocchi attuali come ponte di transito verso la rimodulazione di aggregazioni dotate di qualche senso strategico autentico e d’una cultura politica. Come in tutti i paesi civili. Solo in Italia la politica è una dimensione parallela rispetto alla cultura. Ecco, il Terzo polo potrebbe rappresentare questo ponte. Il bipolarismo s’è scongelato anche nella mente degli italiani? Il bipolarismo come schema non sì scongelerà finché non esisterà un’alternativa seria e vera alla leadership di Berlusconi. Perché chi crede che Berlusconi cada sul Ruby-gate è un povero illuso. In questa roba non c’è niente di definitivo contro Berlusconi, non c’è nessuna pistola fumante. E l’Italia non è un Paese che ti manda a casa per queste cose. Del resto le sembra che Berlusconi stia smobilitando? Che vada in cerca di un salvacondotto? E d’altra parte nei son-
daggi il Pdl sale mica scende. Insomma se ne esce con un’alternativa forte. E siamo costretti a fare i soliti nomi: Draghi, Monti, Montezemolo… allora sì… se il terzo polo riuscisse a coinvolgerli… se loro si esprimessero per la fine di questo bipolarismo… se uno di loro – meglio di tutti sarebbe Draghi – si decidesse a scendere in campo… allora… Ecco, questa sarebbe un’accelerazione risolutiva. L’altra, quella della prova elettorale del Terzo
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lusconi resti in sella. Cade se lo molla la Lega perché non passa il federalismo, ma se passa ce lo teniamo. Ma ha visto cosa è successo alle primarie del Pd a Napoli? Che c’entra, scusi? C’entra, c’entra. Finché il Pd non fa chiarezza, finché da lì non se ne vanno tutti quelli che non erano del Pci, non s’arriverà mai alla constatazione di quello che è evidente: il Pd non è mai nato, non esiste. Deve cessare l’equivoco. I
Lo scandalo di Ruby non ha scalfito, in realtà, Berlusconi: cadrà solo se lo molla la Lega. E Bossi si sfilerà solo se non passerà il federalismo. In caso contrario, ci teniamo questo governo polo che si presenta con le sue forze è una via più lunga, anche se non meno foriera di conseguenze Ossia? Tatticamente si può andare alle elezioni con questo schema attuale dove il Terzo polo al Senato diventa condizionante per la formazione di un governo. A quel punto s’apre una falla nel sistema, c’è la possibilità d’un governo senza Berlusconi. Magari di un governo Tremonti. A quel punto la situazione si sblocca. Il problema è se si arriva (e come) alle elezioni perché guardi che non è affatto improbabile che Ber-
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centristi vadano a costituire un centro forte che possa essere alternativa alla destra e gli ex Pci facciano un partito socialdemocratico. Magari ripassando l’abc della politica appreso in un partito serio, che ha generato una classe dirigente d’altissimo livello da Berlinguer ad Amendola passando per Napolitano. L’eroico tentativo di Veltroni di fare una cosa nuova del Pd è fallito. Prendiamone atto. Basta continuare con la finzione. Lo sciolga Bersani l’equivoco: dia vita a un partito socialdemocratico capace di una sua politica autonoma.
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un nuovo polo per l’italia 3/I giudizi degli altri • Enrico Cisnetto
Può essere il Primo Polo Serve un’aggregazione di moderati e di riformisti, laici non laicisti e cattolici non clericali, che conquisti lo spazio politico del governo di Enrico Cisnetto difficile ragionare sulla nascita del “Polo per l’Italia”, che dovrebbe vedere anche formalmente la luce oggi a Todi, astraendosi da quanto sta accadendo nella politica italiana. Ieri l’amico Pezzotta parlava di “schifo”, sostenendo che le cose vanno chiamate con il loro nome e invocando reazioni conseguenti. Sono d’accordo, a patto che sia abbia il coraggio e l’onestà intellettuale di chiamare “schifo” non solo quanto emerge dalle vicende personali di Berlusconi – che vanno giudicate non sotto il profilo morale, che non va mai confuso con il giudizio politico, ma sotto quello “comportamental-istituzionale”, perché certe condotte non sono compatibili con il ruolo che ricopre e le funzioni che deve svolgere – ma anche l’ennesima operazione giudiziario-mediatica cui ci tocca di assistere in un quadro che ancora una volta in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario è stata definito di “fallimento della giustizia”. E che non si esiti a chiamare “schifo” il fatto che Berlusconi all’ottavo anno di governo (gli abbuoniamo il 1994, perché è quello in cui offrì a Di Pietro i galloni di Guardasigilli) sia ancora lì a raccon-
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tarci tutti i difetti della magistratura senza aver mai fatto nulla per porci rimedio visto che della tanto evocata “grande riforma della giustizia”non si è mai vista neppure l’ombra.
Insomma, intendo dire che è impensabile che nasca non solo una nuova forza politica ma soprattutto una forza politica nuova sulla base della sola pulsione antiberlusconiana, come qualcuna delle componenti che sono riunite a Todi in certi momenti ha fatto pensare. È vero che lo stesso Pezzotta ha saggiamente ricordato che a Todi non nasce un nuovo partito per effetto della fusione di alcuni già esistenti, ma si crea invece un coordinamento parlamentare che ha il compito di interpretare al meglio il ruolo di opposizione in questa maledetta congiuntura. Ma sia al fine di realizzare nell’immediato l’obiettivo che ogni opposizione è logico si ponga, sia soprattutto per fare in modo che, nel tempo, l’aggregazione parlamentare diventi la giusta premessa per dar vita ad un vero e proprio soggetto politico, occorre partire con il piede giusto. E allora, sia consentito a chi, come il sottoscritto, da oltre un decennio denuncia le contraddizioni del bipolarismo all’italiana e predica la necessità di passare al più presto alla Terza Repubblica, mettendo in guardia sull’inarrestabile declino del Paese – cioè, sia det-
to senza iattanza, ben prima di tutti i “terzisti”riuniti a Todi – di attrarre l’attenzione su alcuni pericoli che si scorgono lungo la strada della costruzione del “Polo per l’Italia”, e di indicare alcune scelte che paiono indispensabili.
Il primo pericolo era quello di continuare ad autodefinirsi “terzo polo”. Lo indico al passato, perché per fortuna mi pare un po’ tutti abbiano colto la contraddizione insita in quella definizione: non si può denunciare il crollo dei due poli del
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ma parlamentare e il proporzionale puro a qualcosa che ambiva confusamente ad essere altro (ne venne fuori, purtroppo, il fallimentare “bipolarismo all’italiana”), così oggi si deve passare da un maggioritario senza precedenti e senza uguali in Europa (chi prende un voto di più ha la maggioranza assoluta dei seggi) e ad un presidenzialismo strisciante di stampo populista, ad un sistema possibilmente più maturo. Ecco, qui sta il primo dei tre nodi decisivi su cui si deve ragionare per costruire il “Polo per
e non appena sarà sgombrato il campo dalle macerie che questa guerra senza quartiere è destinata a lasciare.
Il terzo nodo, infine, riguarda la convivenza di laici e cattolici. Anche qui è nota la mia idea: le forze politiche destinate a creare il “Polo per l’Italia”, cui possono aggiungersi altri movimenti e associazioni, devono
Legge elettorale, piattaforma politica anti-declino e convivenza civile all’interno del Paese. Sono questi i tre nodi che la nuova realtà deve sciogliere, senza alcuna incertezza nostro bipolarismo straccione e poi rivendicare per sé il ruolo di “terzo”. La “terza forza”serviva quando serviva creare le condizioni per anticipare la fine della Seconda Repubblica, sulla base di un’analisi, risultata purtroppo più che fondata, che considerava certo il fallimento del bipolarismo e nefasto il suo protrarsi nel tempo. Qui, invece, c’è bisogno di costruire il “primo polo”, cioè un’aggregazione di moderati e di riformisti, laici non laicisti e cattolici non clericali, che erediti di fatto il voto e lo spazio politico che fu del centro-sinistra della Prima Repubblica. È quello che nel linguaggio giornalistico e politico ormai corrente – e questo la dice lunga a proposito della fine di un’epoca – viene chiamato il “dopo Berlusconi”, che poi altro non è se non la necessità di individuare uomini, risorse e strategie per fare al più presto ciò che lo stesso Cavaliere fece nel 1994: raccogliere, senza continuità alcuna, l’eredità di chi aveva avuto il consenso fino a quel momento. Allora la catarsi fu Tangentopoli, oggi l’implosione del sistema berlusconiano che avviene subito dopo a quello, tuttora perdurante, che ha travolto la sinistra. Ma la condizione è la stessa: costruire un nuovo sistema politico. Perché così come allora si passò da un regime politico basato sul siste-
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l’Italia”: definire preventivamente il sistema politico più adatto a fare della Terza Repubblica una svolta positiva nella vita del Paese. Visto da dove si viene, considerati gli errori che si sono commessi, la cosa più logica è adottare il sistema tedesco, e non solo per la legge elettorale ma anche per gli assetti istituzionali e le regole di funzionamento della democrazia. Altri potranno preferire l’esperienza francese, ma una cosa è certa: occorre che chi intende creare il nuovo polo scelga. E scelga in fretta e senza confusi compromessi.
Il secondo nodo da sciogliere riguarda invece la definizione della piattaforma programmatica su cui edificare la proposta politica. In molte circostanze ho detto la mia, e sarebbe ripetitivo tornarci. Ma senza un “progetto Paese” non si va da nessuna parte. E oggi qualunque piano anti-declino degno di questo nome non può che avere come premessa la scelta – obbligata – di una fase (non breve) di convergenza delle forze politiche maggiormente rappresentative, da unire in una “grande coalizione” che affronti le grandi riforme strutturali che non si sono mai fatte. Ma di questo varrà la pena parlare non appena saranno più chiari i tempi e i modi delle esequie della Seconda Repubblica,
conservare la loro autonomia e con essa le radici identitarie (sperando che tutti i soci del club ce l’abbiano). Ma nello stesso tempo devono dar vita ad un nuovo soggetto unitario, destinato a presentarsi alle elezioni, cementato esclusivamente dal programma di governo. Nel quale, per effetto di un “grande patto” metodologico, sono esclusi i temi etici, destinati ad essere contestualizzati solo in sede parlamentare, evitando che i governi li assumano come elementi del programma o li facciano oggetto di propri disegni e decreti legge. Saranno dunque i singoli esponenti politici, i singoli parlamentari a portare avanti le diverse tesi, ma non i partiti che si candidano alla guida del Paese, che devono avere come unico collante il programma di governo, da cui appunto le tematiche etiche sono escluse. Spero proprio che a Todi si dicano parole chiare su tutte queste questioni. Perché altrimenti, a parte riscuotere il mio personale disinteresse, il “Polo per l’Italia” rischia di non convincere i milioni di italiani stanchi sia del “bunga bunga” sia delle sue strumentalizzazioni, di essere la giusta e tanto attesa alternativa. (www.enricocisnetto.it)
4/I giudizi degli altri • Stefano Folli
«L’Italia sta marcendo: datele una nuova visione e vincerete la scommessa» di Errico Novi
ROMA. «Di fronte al degrado generale della situazione politica può esserci, anzi c’è senza dubbio il bisogno di un’area di centro liberaldemocratico. Ma l’operazione non può reggersi su un’impostazione retorica: tutto dipende dalla capacità di offrire una visione nuova al Paese, di presentare proposte e programmi, e di farlo con un linguaggio comprensibile per l’elettorato. Visione e chiarezza». Stefano Folli vede lo spazio per la sfida del nuovo polo. Così come vede i punti di debolezza. Ma appunto, l’editorialista del Sole-24Ore attende di verificarne la forza soprattutto con la consistenza del progetto politico. Che non può limitarsi né a una «furbesca manovra concepita per lucrare sulla crisi del centrodestra» né a un programma che «si riduca al solito elenco della spesa». Senza una visione non si porta in salvo un Paese che ormai, osserva Folli, «sta marcendo», L’ambizione di partenza è notevole: superare lo schema attuale, la contrapposizione tra berlusconismo e antiberlusconismo, e contribuire in modo decisivo a cambiare la geografia politica italiana. Ci crede? Partiamo da una cosa: ci sono punti di forza e punti di debolezza. I primi li conosciamo: il degrado generale della situazione politica e soprattutto il senso di smarrimento in cui si trova il Paese; la sensazione ormai diffusa da tempo che il bipolarismo non ha funzionato; e quindi l’esigenza di una qualche novità. Novità che il terzo polo ritiene di incarnare. Certo. Può far leva proprio su questa sensazione di smarrimento in cui si trova un Paese ormai anchilosato. Smarrimento e delusione rispetto alle promesse del bipolarismo,
della Seconda Repubblica, provocano forse anche un salutare superamento di quel clima da tifoserie contrapposte che per anni ha compensato il vuoto: gli elettori si sono sentiti coinvolti in uno scontro che in qualche modo eccitava. Una suggestione che però adesso non irretisce quasi nessuno. Paradossalmente le vicende di questi giorni, nel breve, possono rianimare il meccanismo delle tifoserie. Sono d’accordo però sul fatto che nel medio temine prevarrà la ricerca di soluzioni più razionali. Tutto questo non elimina però i punti di debolezza. Vediamoli. La legge elettorale prima di tutto. Così
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C’è sicuramente bisogno di un’area di centro liberaldemocratico. Non dovrà proporre però la solita nota della spesa ma un programma animato da un’idea nuova del Paese»
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com’è concepita oggi lascia poco spazio al terzo polo. Gli consente di essere decisivo solo nel caso in cui al Senato non emergesse una maggioranza. Il secondo nodo è la coesione tra i gruppi. L’Udc ha un suo profilo, è la forza più strutturata. Il partito di Fini presenta ancora molte incognite. Non siamo ancora sicuri che non si tratti semplicemente di gruppo parlamentare formatosi per l’impulso di particolari circostanze. Rutelli non ha ancora una capacità di rappresentanza ben definita. Tanto per cominciare, sui temi etici bisogna approfondire e arrivare a indicazioni programmatiche comuni. Sono le fragilità della prima fase. O no?
Va superato il rischio di ridurre tutto a un’operazione di ceto politico. Bisogna dimostrare di avere una capacità progettuale vera, non solo sul piano retorico. Equivoci che si risolvono appunto con un’iniziativa politica seria. Possibile con la forza dell’unità: che nella relazione di Adornato, per esempio, è invocata come segno distintivo rispetto al’eterno vizio italiano della scissione. Condivido l’assunto. Ma la risposta potrà venire solo dai fatti. C’è sicuramente bisogno di un’area di centro liberaldemocratico che sappia proporre qualcosa di nuovo al Paese. E d’altronde l’Udc doveva per forza andare oltre se stessa. Ma attenti a non passare solo per l’alleanza tra spezzoni di un quadro politico in crisi. Al Paese bisogna presentarsi con un linguaggio nuovo, si deve entrare nel merito delle questioni con proposte originali. Devo dire che lo sforzo c’è. Ma?.... Ma tra i punti deboli non trascurerei la questione della leadership interna, della sua legittimazione. Adesso pare secondario, ma se si va alle elezioni il nodo andrà sciolto, Si dovrà essere precisi sul programma e sulla leadership. E rispetto al programma, non basterà un elenco banale di propositi. Dovrà emergere con chiarezza una visione nuova per il Paese. Insomma, le elezioni potrebbero diventare uno stimolo positivo. Sì ma attenti: vista l’ambizione, positiva certo, di rappresentarsi come un nuovo polo, be’, bisogna essere all’altezza dell’ambizione sul piano della visione e della struttura. Il Paese sta marcendo e il voto anticipato sarebbe la sola maniera di uscire dal pantano. Servono risposte all’altezza. Il terzo polo può essere attrattivo per i moderati del Pdl, per i cattolici in particolare?
Può esserlo certamente, dipende dalla sua capacità attrattiva. E poi bisogna fare i conti con la contingenza politica. Ricordarsi tra l’altro che andare da soli significherà lottare su due fronti. In campagna elettorale torneranno storie come quella di Montecarlo: ecco, anche a quello bisognerà rispondere in modo non convenzionale.Tra l’altro questo ci porta alla questione Fini: è necessario che il suo profilo politico emerga in modo più netto. Finora ha avuto questo scudo della presidenza della Camera, dovrà essere più riconoscibile. Il che però comporterà dei problemi rispetto alla leadership del terzo polo. Le incognite di questa fase agitatissima ovviamente pesano. Ma anche rispetto a questo, sarebbe il caso di esprimere in modo comprensibile per gli elettori il rifiuto di un’alleanza di tutti contro Berlusconi, invocata dalla sinistra. Ma nel Pd non potrebbe verificarsi l’altra ipotesi? E cioè che le posizioni diverse, anche sulle alleanze, producano una scissione della componente liberaldemocratica e un incontro di quest’ultima con il terzo polo? Può succedere. Dipende da come il Pd affronterà questa crisi identitaria che, d’altronde, è permanente. Ma anche dalla capacità attrattiva del terzo polo. Potrebbe nascere, certo, un’intesa tra le forze liberaldemocratiche e laiche. Ma è un processo lungo e suggerirei di non scommettere su questo. Non subito. È uno scenario che potrebbe imporsi nella prossima legislatura. Ma intanto bisogna vedere su un piano pragmatico come si organizzano le forze politiche adesso. Perché nel prossimo futuro qualcosa dovrà pur accadere, e si tratterà probabilmente di un ritorno alle urne.
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politica
Oggi nuove proteste dell’Anm. Dal procuratore generale Esposito un invito alla misura per tutti: toghe e politica
Guerra totale ai giudici
Caso Ruby, Montecarlo, riforma: Berlusconi lancia i suoi anatemi mentre i magistrati rispondono: «Senza risorse, siamo al collasso» di Riccardo Paradisi e sedie che oggi resteranno vuote davanti al ministro della Giustizia Alfano durante la cerimonia d’apertura dell’anno giudiziario che si terrà nelle corti d’appello italiane sono un’immagine abbastanza eloquente della lacerazione istituzionale che segna il paese. È vero, non è una forma di protesta inedita quella che alcuni settori della magistratura mettono oggi in atto, ma stavolta a questo dissenso così clamoroso s’aggiunge una lunga filiera di rotture che insistono sulla già corrosa tenuta del circuito istituzionale italiano.
L
Al conflitto permanente tra la presidenza del Consiglio e settori del potere giudiziario s’aggiunge ufficialmente quella tra presidenza del Senato e della Camera dopo l’interrogazione arrivata a Palazzo Madama sulla casa di Montecarlo. Interrogazione il cui contenuto – che dimostrerebbe l’appartenenza della casa al cognato del presidente della Camera – viene ritenuto però del tutto irrilevante dalla Procura di Roma per mancanza di elementi costitutivi dell’ipotizzato delitto di truffa. Conflitti che si aggiungono alla tensione tra governo e parlamento, allo scollamento delle rappresentanze del lavoro con il moltiplicarsi di divisioni dentro il sindacato, il mondo
Il ministro Alfano rilancia contro le critiche dell’Anm: «Il governo arriverà fino alla fine della legislatura e faremo la riforma della Giustizia» dell’impresa inquieto. Una situazione pesante e pericolosa dentro cui i media non giocano solo un ruolo di rappresentazione e rispecchiamento ma sono parte attiva come potere (quarto o quinto che sia) effettivo in gioco. Una situazione pesante e pericolosa appunto di cui il primo a essere molto preoccupato è il presidente Giorgio Napolitano – presente ieri all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la corte di cassazione di Roma – l’unico punto d’equilibrio nella perenne fibrillazione che ora rischia davvero di crinare gli architravi della casa comune. L’anno giudiziario si diceva: non c’è solo la protesta dei magistrati che lasceranno le sedie vuote per mostrare visivamente il «disagio per le iniziative legislative in corso» e dire no alle «leggi ad personam che distruggono il sistema giudiziario» italiano; non c’è solo la levata di scudi dell’Anm che per voce del suo presidente Palamara denuncia le pressioni politiche e ”la denigrazione dell’i-
Il commento di Crociata alla conferenza di Ancona
La Cei: «Noi indignati, anche se pacati» ANCONA. «Non c’è contrapposizione tra l’indignazione e la pacatezza. La pacatezza riguarda il modo di affrontare i problemi che indignano». Lo ha detto il segretario della Cei, monsignor Mariano Crociata, commentando il comunicato finale sui lavori del Consiglio episcopale di Ancona. «Questi fatti ci coinvolgono, non ci vedono solo spettatori. È troppo facile indignarsi senza sentirsi coinvolti, senza la pretesa di giudicare dall’alto o chiamandosi fuori, in uno sforzo di solidarietà che coinvolge tutto e tutti. Fermiamoci in tempo prima che il disastro antropologico degeneri ancora di più». Secondo monsignor Crociata, «se tale ricerca viene piegata e strumentalizzata, rimane tacciabile di essere una difesa di parte. E si prolunga la difficoltà a prendere in mano la situazione». Serve invece «uno sforzo a superare il clima di rissa e faziosità continua per affrontare i problemi che riguardano tutti». «Come ha detto il cardinal Bagnasco, da questa situazione - ha rilevato ancora Crociata - nessuno ne
esce bene. Mi pare un tipo di considerazione che invita a farsi carico di impegni che il momento richiede». «Le partigianerie – ha continuato Crociata – non portano solo a danneggiare una parte, ma tutto il Paese. Una delle cose che mancano in questo momento è il sentimento che fa vedere lucidamente le cose per poi capire che fare. Finché la ricerca del bene comune viene strumentalizzata, finché è tacciabile di essere una difesa di parte, diventa difficile prendere in mano la situazione. Assistiamo a un abbassamento della tensione morale che riguarda tutti, a cominciare da chi ha più responsabilità. Prevale invece la ricerca del proprio interesse a scapito del bene di tutti». Infine l’alto prelato ha accennato anche al federalismo fiscale: «Si rischia la divaricazione del Paese. È un banco di prova significativo per verificare l’attenzione verso tutte le esigenze del Paese. La Chiesa esprime la propria preoccupazione affinché una parte del Paese non venga abbandonata a se stessa».
stituzione davanti dei cittadini”; c’è anche la grave denuncia della crisi strutturale in cui versa la giustizia in italia formulata dal Procuratore generale Vitaliano Esposito: «È oramai sotto gli occhi di tutti come al situazione quasi fallimentare della giustizia e dei suoi tempi si stia trasformando in una situazione che si può definire quasi di insolvenza per lo Stato». Il Pg denuncia come a causa della eccessiva durata dei processi «non siamo più in grado neanche di pagare gli indennizzi dovuti per la violazione dei canoni di un giusto e celere processo. E ciò ha portato di recente la Corte di Strasburgo a parlare, senza mezzi termini, di defaillance dello Stato italiano, tale da minacciare perfino i meccanismi di applicazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali». Ma Esposito ne ha per tutti: «I magistrati italiani hanno il dovere del riserbo al quale non sempre si attengono senza rendersi probabilmente conto che una notizia o un giudizio da loro riferita o espresso, data la funzione svolta, assumono una rilevanza del tutto diversa da quelli provenienti dalla generalità dei cittadini». A inquadrare senza remore il contesto critico del Paese è stato il primo presidente della suprema Corte Ernesto Lupo: «Questa apertura dell’anno giudiziario cade in una fase particolarmente delicata e critica della vita del nostro Paese, in cui sembrano prevalere contrapposizioni, frammentazioni e interessi settoriali, mentre è necessario fortificare il senso della dimensione comune e della coesione collettiva, come presupposto per uscire dalle difficoltà che l’Italia vive».
Ma poi Lupo mette dei punti fermi: «Per quanto ci compete, assicuriamo che i magistrati continueranno ad adempiere alle loro funzioni con serenità e con impegno, fedeli al modello di giudice che efficacemente un nostro filosofo del diritto ha delineato come proprio dello Stato democratico costituzionale: un giudice capace, per la sua indipendenza, di assolvere un cittadino in mancanza di prove della sua colpevolezza, anche quando il sovrano o la pubblica opinione ne chiedono la condanna, e di condannarlo in presenza di prove anche quando i medesimi poteri ne vorrebbero l’assoluzione». La replica del ministro Alfano non è molto conciliante ed è in linea con l’ultimo invito di Berlusconi di non disarmare sul fronte polemico con la magistratura politicizzata. «Se potremo godere, come io penso, del tempo che la Costituzione assegna alla legislatura, allora il cammino delle riforme sulla giustizia sarà percorso fino in fondo».
politica
29 gennaio 2011 • pagina 11
I falsi depuratori «sversavano» i liquami direttamente in acqua ROMA. La cricca napoletana dei rifiuti aveva deciso che il percolato poteva anche finire in mare. Smaltire i liquami prodotti dai rifiuti contenuti nelle discariche in depuratori insufficienti o non funzionanti con il risultato che – pur di risparmiare e lucrare sui fondi pubblici – queste sostanze terminassero direttamente nelle acque del golfo di Napoli.
A Napoli, dove sono ancora in strada 450 tonnellate di immondizia, i magistrati della procura, i carabinieri del Noe e gli uomini della Finanza sono convinti che questo patto scellerato sia stato stretto negli scorsi anni da politici, imprenditori, funzionari della Protezione civile, del ministro dell’Ambiente e della Prefettura, «con illeciti commessi a partire dal 2006 e per taluni reati sino al dicembre 2009». Al centro dell’inchiesta ci sono da un lato il vecchio contratto di costruzione e gestione degli impianti campani (come l’inceneritore di Acerra) delle controllate Impregilo Fibe e Fisia, dall’altro i mancati controlli fatti dagli uomini succedutisi alla guida del Commissariato per l’emergenza rifiuti in Campania. Un patto che ha retto perché ha visto coinvolti o protagonisti pezzi da Novanta come l’ex governatore Antonio Bassolino (indagato). Il quale si dice «sereno e certo di dimostrare la mia estraneità ad ogni ipotesi di reato». Ai domiciliari l’ex prefetto di Napoli e commissario all’emergenza rifiuti Corrado Catenacci e l’ex numero due della Protezione civile ai tempi di Bertolaso, Marta Di Gennaro. In totale gli inquirenti hanno emesso 14 ordinanze di custodia cautelare. Con Catenacci e la Di Gennaro sono finiti ai domiciliari l’ex direttore generale del ministero dell’Ambiente Gianfranco Mascazzini, Enrico Foglia, Gabriele Di Nardo, Mario Lupacchini. Sono finiti invece in carcere Giovanni Melluso, Generoso
Rifiuti in mare, Bassolino indagato Nuova inchiesta a Napoli: arrestati l’ex prefetto e l’ex vice di Bertolaso di Francesco Pacifico Schiavone, Vincenzo Mettivier, Antonio Tammaro, Antonio Recano, Gaetano De Bari, Claudio De Biasio e Lionello Servia. Con Bassolino indagate 38 persone, tra le quali l’ex capo della segreteria politica Gianfranco Nappi e l’ex assessore Luigi Nocera. I reati ipotizzati dal Procuratore Giovandomenico Lepore e dall’aggiunto Aldo De Chiara «sono l’associazione per delinquere, il traffico illecito di rifiuti, diverse fattispecie di falsità ideologiche in atto pubblico, la truffa in danno di enti pubblici, il disastro ambientale». Nelle loro ordinanze gli inquirenti scrivono che il conferimento di percolato da discarica «altamente inquinante» finiva «in elevate quantità in depuratori già di per se inadeguati, oppure con una imponente attività di sversamento lungo il litorale campano, in grado di determinare il disastro ambientale delle coste». A permettere un tale scempio anche il fatto che gli indagati
che, seguendo le regole, «avrebbero impedito una condotta certamente pregiudizievole per l’ambiente». Al conferimento in impianti inadeguati seguiva «un’attività di depurazione meramente apparente», con la conseguenza che i liquami non trattati venivano sversati sulle coste campane: su quelle protette del Salernitano o su quelle inquinate del Napoletano e del Casertano. Il tutto con «la compartecipazione, con uomini della Fibe e del commissariato per l’emergenza rifiuti, di altri soggetti, anche di vertice, sia pubblici che privati, ed operanti: presso il ministero dell’Ambiente, presso la regione Campania, presso il Commissariato straordinario per le bonifiche e le acque». Soggetti in grado anche di «assicurare una costante copertura formale, anche in cambio della accondiscendenza dei gestori dei depuratori, comunque remunerati, ad accettare il conferimento del percolato proveniente dalla gestione dei Rsu».
L’ex governatore: «Sereno e certo di dimostrare la mia estraneità». Il Procuratore Lepore: «Non c’è volontà della politica di risolvere il problema» «hanno ricoperto nel tempo, e più volte, ruoli di altissima responsabilità nelle strutture pubbliche, anche specificatamente competenti nella gestione dei rifiuti». Senza dimenticare che molti di loro avrebbero dovuto far «emergere sin da subito le problematiche tecnico-funzionali che hanno interessato la gestione dei rifiuti e gli impianti – nel caso di specie in particolare i depuratori – in cui sono stati riversati». Personaggi
Alfano è convinto che il governo durerà 5 anni e andrà avanti, almeno proverà a farlo. Il Guardasigilli conclude il suo intervento alla cerimonia di inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione e coglie l’occasione per assicurare che farà di tutto per realizzare una riforma necessaria’ come quella della giustizia, anche se incontra spesso resistenze corporative». Da qui l’invito al gioco di squadra «perché solo così si può vincere lentezza e inefficienza». Alfano rivendica ”risultati positivi” conseguiti «L’opera difficile e faticosa del governo in tema di giustizia è stata assai poco messa in rilievo dagli organi di informazione solitamente concentrati su altri temi». Si diceva del consiglio dei ministri. Berlusconi vi
ha dato letteralmente la carica all’esecutivo «Dobbiamo pensare ai problemi veri del paese, quelli che interessano gli italiani». il Cavaliere ha chiesto ai ministri di ”rimboccarsi le maniche”e di reagire di fronte agli at-
In una nota Stefania Prestigiacomo esprime «sorpresa e rammarico per la notizia del coinvolgimento dell’ex direttore generale del ministero dell’Ambiente, Gianfranco Mascazzini. Ci auguriamo che Mascazzini, dirigente pubblico di lunghissima esperienza, conosciuto e apprezzato, possa chiarire la sua posizione». Gaetano Pecorella, presidente della Commissione bicamerale sul ciclo dei rifiuti, nota che l’operazione della magistratura fa da corollario al «disastro ambientale della Campania, un mare magnum inafferrabile. L’ex avvocato di Silvio Berlusconi aggiunge di «non conoscere il contenuto dell’indagine», eppure sostiene che «rispetto ad altre regioni del Meridione in difficoltà con il ciclo dei rifiuti, come Sicilia, Puglia o Calabria, la situazione della Campania appare ancora più grave e irrisolvibile. Ciò è legato all’infiltrazione camorristica in tutte le attività. In Sicilia, per esempio, il ruolo della mafia è meno evidente». Nel centrodestra il presidente della commissione Ambiente, Antonio D’Alì registra che il governatore Stefano Caldoro ha ereditato un’altra patata bollente dalla gestione precedente. Ma il consigliere regionale Luigi Schifone, pur definendosi «garantista a tutto tondo», nota che i 14 arresti effettuati dai carabinieri del Noe devono far riflettere».
Fa riflettere il fatto che sia Catenacci (attuale presidente dell’azienda provinciale Sapna) sia Mascazzini (in Abruzzo commissario per il rischio idrogeologico) ricoprono ruoli molti importanti nella gestione e salvaguardia dell’ambiente. Secondo il Procuratore Lepore non c’è «la volontà da parte della politica di risolvere il problema. Altrimenti oggi sarebbe stato risolto. Si parla solamente, ma finora non è stato fatto nulla. Non è possibile che un’emergenza si prolunghi per tanto tempo».
gente». Nessuna accelerazione sul voto, anzi il premier ha invitato a continuare l’operazione di allargamento della maggioranza che è rimasta bloccata in questi giorni sotto il polverone giudiziario e ha definito «fallimentare il tentativo del Terzo Polo di dare una spallata alla coalizione» in occasione della mozione di sfiducia nei confronti di Sandro Bondi. Poi l’affondo sulla magistratura: «Siamo in uno Stato democratico e non in uno Stato di polizia». In mattinata il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura Michele Vietti aveva difeso l’operato della magistratura: «L’attività della magistratura non sottende disegni sovversivi. È funzione giurisdizionale, per lo più silente e operosa»
La denuncia del procuratore generale Esposito:«Non siamo più in grado di pagare gli indennizzi per la violazione dei canoni di un giusto e celere processo».La Corte di Strasburgo parla di defaillance dello Stato italiano tacchi della procura di Milano. Ha rassicurato i presenti che non c’e’nulla di rilevante penalmente nell’inchiesta e ha invitato tutti a «concentrasi sul lavoro perché l’opinione pubblica deve avere la percezione concreta di un governo che agisce e pensa solo alla
economia
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Si chiude il tradizionale meeting dei grandi sull’economia entre il premier giapponese Naoto Kan sta mettendo piede sull’aereo che lo porterà al vertice di Davos, ecco la brutta notizia. Il rating sul debito del Paese (204 per cento del Pil) scende da AA a AA-: un piccolo colpo che il nuovo responsabile economico (Kaoru Yosano) accetta con filosofia, forte del fatto che i relativi titoli, per circa il 90 per cento, sono nella mani sicure dei residenti. Non è stato comunque un buon viatico per un vertice che fa più notizia per la stravaganza di alcuni comportamenti dei protagonisti, che non per il contenuto effettivo delle possibili proposte. Del resto il World Economic Forum, negli anni ha perso – se mai ne avuto – significato. Il Forum è una fondazione di diritto privato, con sede in Svizzera. Davos è appunto una località delle Alpi del versante elvetico. È composto da uomini d’affari, leader politici, intellettuali e giornalisti. Ci si riunisce per discutere di vari problemi: non solo di carattere economico. Alcune sessioni sono state dedicate, ad esempio, ai problemi della salute o dell’ambiente. Varie pubblicazioni ne certificano gli sforzi, rivolti a influenzare – non sapremo con quale risultati – i responsabili politici del Pianeta.
M
In quest’ultima sessione, la parte del leone l’ha svolta Nicolas Sarkozy, che vi ha partecipato in qualità di presidente del G 20: l’organismo che raggruppa i Paesi più sviluppati del mondo ed ha, di fatto, soppiantato il vecchio G8, che rifletteva un Mondo dimezzato. E mentre lo yen subiva, a seguito del declassamento, uno scivolone (ben visto dalle autorità nipponiche) Sarkò si è lanciato in un’appassionata difesa dell’euro. Non una semplice moneta – come ha detto tra lo scetticismo di una platea più che paludata – ma un
Processo ai manager La risposta di Davos L’unica opinione condivisa al vertice è l’attacco agli stipendi fuori controllo di Gianfranco Polillo
mostra che i mercati non si fanno intimorire né dalla forza politica dei propri interlocutori, né dalla batteria di dati economici – sicuramente meglio di quelli europei – che ne fanno da contorno. Sta di fatto che dopo quella decisione lo spread di tutti i titoli europei è leggermente aumentato: 159 punti base, per quello italiano.
Nonostante questo, il vertice ha consentito di riporre in un cono di luce un dibattito che, nei mesi precedenti, era stato, invece, oscurato. Quello relativo agli appan-
Di fronte alla crisi, ognuno segue la propria strada: se il Giappone trema per lo yen debole, l’Europa rilancia la propria moneta “fattore identitario”. Difficile non essere d’accordo. Una difesa necessaria, quindi, che riflette, tuttavia, le grandi incertezze che percorrono il Vecchio Continente. Se l’euro è così forte, se le difese approntate per la sua inviolabilità sono così solide; che bisogno c’era di ostentare determinazione e risolutezza? Oltre gli slogan, il caso giapponese in qualche modo è un segnale allarmante. Di-
naggi milionari dei grandi manager. Sembrava che la crisi avesse mitigato quelle pretese. Ma così non è stato. Malgrado i grandi salvataggi, a spese del contribuente, la rincorsa è ripresa. Le banche «troppo grandi per fallire» sono diventate ancora più grandi, grazie ad un processo di concentrazione – ma anche questa è una caratteristica della crisi in atto – che ha subito una forte accelera-
Istat: nel 2011 i salari cresceranno meno dell’inflazione
Più poveri e più tartassati ROMA. L’invito della Ue alla moderazione potrebbe tradursi in Italia in un’ennesima erosione del potere d’acquisto. Già nel 2010 i salari sono cresciuti di poco (+2,2 per cento) rispetto all’inflazione (+1,5). Quest’anno, e se non ci saranno sostanziali ritocchi ai 4,9 milioni di lavoratori in attesa di rinnovo contrattuale, gli aumenti (+1,5 per cento) potrebbero essere inferiori di un’inflazione, che viaggia verso il +2 per cento. Questa la previsione dell’Istat. Ancora più preoccupante se unita al combinato disposto tra bassa crescita (i più ottimisti parlano di un +1 per cento) e minore gettito, che si traduce in un aumento della fiscalità. Senza contare che per Tremonti non ci sono soldi per tagliare le tasse o aumentare le detrazioni alle famiglie. Se non bastasse, il 2011 rischia di essere un anno all’insegna di forti aumenti. Ne sanno qualcosa gli automobilisti tra i nuovi pedaggi autostradali e l’aumento dei premi assicurativi. Ma le cose potrebbero peggiorare visti tagli
dell’ultima Finanziaria a Regioni, Comuni e Province e le ripercussioni sui servizi.
Le associazioni dei consumatori calcolano una sovratassa occulta da circa 1.100 euro all’anno. Aumenti da spalmare tra il pieno per l’auto, le bollette per acqua luce, gas e rifiuti, l’abbonamento per il treno o l’autobus e i costi bancari fissi per conti corrente e mutui. Rispetto ai vecchi i nuovi contratti di lavoro hanno un annualità in meno di rinnovo e sono basati su un calcolo del costo della vita (l’Ipca) sterilizzato rispetto agli effetti dei prodotti energetici. Senza dimenticare che il grosso degli aumenti salariali viene – se ci sono commesse – legato alla produttività aziendale. Il sociologo Gian Maria Fara, presentando l’ultimo rapporto Eurispes sul Paese, ha sottolineato che «in totale sono circa 16 milioni le persone in disagio profondo, a cui va aggiunta una quota della cosiddetta povertà nascosta. Con il ceto medio che sta lentamente scomparendo». (f.p.)
zione. «Una banca americana è fallita, altre cinque – ha ricordato Sarkozy – sono sprofondate fin quasi all’inferno», ma nessuno dei responsabili ha pagato. I guasti che quei comportamenti hanno prodotto sono stati posti a carico della popolazione più debole: a cominciare da coloro che hanno perso il lavoro e che, difficilmente lo ritroveranno. Fosse, almeno, servito da lezione. Ma – come osserva Joseph Stiglitz, nobel per l’economia – oggi «il sistema finanziario è più a rischio di prima». Non che non si sia fatto nulla. Negli Usa, ad esempio, la DoodFrank bill, ha tentato di porre dei paletti, ma gran parte di quei principi non hanno poi trovato attuazione. La leva finanziaria – aggiunge l’economista – resta eccessiva. Le Banche centrali, dopo l’emergenza, hanno assunto un atteggiamento fin troppo condiscendente. Del resto – aggiungiamo noi – è ben difficile rimettere ordine, se la politica monetaria della Fed continua a pompare liquidità nel mercato, nella speranza di rimettere in moto la macchina produttiva americana, grazie all’estenuante caduta del dollaro.
Il problema resta sempre lo stesso: chi è che paga? Finora – si dice -l’eccesso di liquidità non ha determinato una ripresa dell’inflazione. E’ solo una mezza verità che riguarda il settore manifatturiero. Gli anticorpi sono stati forniti da un eccesso di capacità produttiva, che si manifesta nei dati dolorosi della disoccupazione. Ma se si guarda alle derrate alimentare o all’andamento di alcuni beni rifugio (come l’oro) è tutto un altro discorso. Qui l’inflazione non solo si manifesta, ma sta determinando fenomeni politici di grande rilievo. La cosiddetta “rivoluzione dei gelsomini”, che ha infiammato la Tunisia e debordata in Egitto e in Algeria, sarà stata pure alimentata da internet, come molti si compiacciono di affermare. Ma alla base delle grandi manifestazioni di massa e dei lutti, che ne sono conseguiti, è soprattutto il rincaro del pane, aumentato – ad esempio in Egitto – a un tasso di quasi il 20 per cento al mese. Sul mercato dei future il fenomeno è evidente. I premi pagati sono da record. Siamo, quindi, a un brusco ritorno della crisi del 2008 che procurò morti e feriti nelle strade. Attenti, quindi, a quello che potrà accadere nei prossimi giorni. Da Davos ci attendevamo un segnale, che purtroppo non è venuto.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Livia Belardelli he la scrittura non paghi non è una novità. Lo sanno anche i muri che vivere facendo lo scrittore è un lusso per pochi. A potersi permettere questo privilegio sono solo i grandi da oltre 100 mila copie all’anno, corteggiati e adulati dalle case editrici. L’esordiente di rado supera le 4 mila questa è la media - e il più delle volte fa fatica a raggiungere addirittura le tre cifre se si esclude la nutrita schiera di parenti e amici a cui viene imposto l’acquisto. D’altronde allo scrittore in erba che si affaccia al mondo dell’editoria si para davanti uno scenario spesso desolante. Una giungla di carta, fatta di sedicenti editori che, pur di guadagnare qualche spiccio, accarezzano ego e vanità dell’esordiente con proposte che sono, troppe volte, truffe in piena regola. L’aspirante autore - diversi i profili che mirano all’approdo letterario: si va dal giovane ingenuo al vecchio professore, dal professionista con il pallino della creatività al pensionato annoiato - non solo comprende con fulminea e trasparente certezza che non si campa con la scrittura ma addirittura, ed ecco qui il paradosso, si trova a dover pagare per scrivere. Insomma, è come dire «vuoi lavorare? E allora paga!». Uno stipendio al contrario, il dipendente che retribuisce il datore di lavoro. Tante sono infatti le piccole case In America editrici che, ricalcando l’autore che pubblica l’eufemismo utilizzato nelle letproprie spese è visto come
C
ALLA FIERA DELLA
VANITY PRESS
a uno che investe su se stesso. Da noi, salvo poche eccezioni, è guardato con commiserazione e ignorato dalla stampa. Breve guida per orientarsi tere di risposta in una giungla di carta inviate agli autori, (e di imbrogli…) chiedono «un contributo
per la pubblicazione». Funziona così. «Gentile esordiente, le scriviamo dopo aver letto con interesse la Sua Opera che ci ha ben impressionato. Da qui la convinzione che il Suo lavoro sia pronto a entrare nel nostro progetto di pubblicazione e lancio di nuovi autori». Segue batticuore per l’ignaro e ingenuo scrittore che, per un attimo, vede avverare i propri sogni di gloria e immagina, lievemente superbo, il proprio testo nella vetrina di una grande libreria. Segue un elenco scritto di tutti i servigi offerti dalla casa editrice, distribuzione e promozione in ogni dove, radio, televisione, grandi fiere. Fin qui tutto bene.
Viaggio nell’editoria a pagamento
Parola chiave Declino di Gennaro Malgieri Anna Calvi? Grande come Patti Smith di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Rispetto per Mameli, un romantico per niente vacuo di Francesco Napoli
C’era una volta a Napoli il ballo dei re di Gabriella Mecucci Quel vento di primavera che spazzò gli ebrei di Anselma Dell’Olio
Meglio gli ori antichi delle finte retrospettive di Marco Vallora
alla fiera della Vanity
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Fino a quella frase che, all’istante, porta il moderno Icaro a bruciarsi le ali e a scendere giù in picchiata. «Per chiarezza e correttezza» continua la letterina - chiarezza che, inspiegabilmente, poco viene utilizzata in trafiletti e annunci pubblicati dalla suddetta casa editrice per adescare sprovveduti da spennare - «teniamo a precisare» - sul precisare vale quanto detto sopra - «che i nostri accordi di edizione prevedono che l’autore acquisti un quantitativo prefissato di copie del proprio libro». Così, a talento e creatività, si sostituisce il criterio del portafogli. Acquistare 200/300 copie del proprio libro significa sborsare 2500/3000 euro, anticipatamente alla pubblicazione del libro stesso, dunque senza avere alcuna certezza sull’editing, la distribuzione e la promozione del volume. Insomma, si paga per dare forma cartacea al proprio manoscritto, e la casa editrice si tramuta in nulla più di una tipografia - tra l’altro affatto a buon mercato visto che per le 200/300 copie una tipografia chiede in media trai 600 e i 1000 euro - perdendo le caratteristiche di selettività e autosufficienza che dovrebbero contraddistinguerla. Ma allora perché questi ibridi esistono e sopravvivono? Una possibile risposta è efficacemente rivelata nella traduzione inglese del fenomeno, dove all’italiano «editoria a pagamento» (Eap) si sostituisce un binomio di grande potenza espressiva: Vanity Press. Perché gli abusivi confezionano e vendono borse di marca taroccate in mezzo alla strada? Semplicemente perché qualcuno le compra. Così, se la Eap sopravvive è colpa anche di chi è disposto a pagare per compiacere il proprio narcisismo. In sostanza l’editoria a pagamento è figlia della vanità dello scrittore e, a volte, dell’ingenuità dell’esordiente oltre che dell’esigenza bruciante di comunicazione. Il motore dell’editoria dovrebbe essere il talento, la casa editrice un imprenditore che investe su questo talento assumendosi dei rischi. Difendersi parlando di democratizzazione, accusando le case editrici affermate di chiudere le porte in faccia agli esordienti, è una contraddizione bella e buona.
Una grande casa editrice come Longanesi riceve tra le 15 e le 30 proposte editoriali a settimana ma pubblica con il contagocce. Minimum Fax ne riceve 6-7 al giorno, per un totale di circa 2000 testi all’anno e ne pubblica un paio. Una a pagamento è disposta a stampare l’80% dei dattiloscritti che le arrivano, immettendo sul mercato - si fa per dire - anche 100 titoli in tre mesi senza alcuna selezione. Si può parlare di democratizzazione? La pubblicazione non è un diritto inalienabile dell’essere umano. E non è forse più democratico premiare il talento anziché la disponibilità economica? E magari evitare di ingolfare un mondo già saturo di opere con volumi di dubbio spessore letterario che, in questo caso per fortuna, non avranno alcuna visibilità. «Mettere un filtro editoriale e limitare il numero dei pubblicati significa fare il bene dell’autore» chiarisce Nicola Lagioia, scrittore ed editor di Minimum Fax. Gli autori che si pubblicano vanno seguiti e maggiore sarà il numero dei pubblicati, minore sarà l’attenzione che la casa editrice potrà assicurare loro. Sulla stessa lunghezza d’onda anche Giuseppe Strazzeri, vicedirettore editoriale di Longanesi, che spiega come la pubblicazione di un nuovo autore sia un lavoro oneroso. «L’esordiente è la più bella sorpresa per l’editore ma anche il più alto rischio, è un percorso professionale completamente da costruire, è un autore da rendere noto partendo dall’assolutamente ignoto». È una sfida in cui si crede. Per questo il numero degli esordienti non può essere così elevato, perché non si possono lanciare troppi neo-autori se non si può assicurare loro un’adeguata comunicazione e promozione. «Un’uanno IV - numero 4 - pagina II
nica circostanza fa eccezione» dice Strazzeri, «e si tratta dell’editoria che ha un basso bacino d’utenza. Nel caso dell’editoria accademica il contributo può essere lecito, ad esempio per pubblicazioni scientifiche di alto valore ma che, a causa della loro specificità, sono indirizzate a una piccola nicchia di esperti del settore.Tutto ciò però non vale assolutamente nel campo della narrativa». Un altro mondo a parte è quello della poesia. Anche lì, a causa del limitato bacino d’utenza, il contributo è un biglietto necessario, a meno di non essere autori di chiara fama. «Soltanto le grandi case editrici come Mondadori, Einaudi, Guanda e poche altre possono permettersi di pubblica-
PER SAPERNE DI PIÙ
- Editori a perdere, Miriam Bendia, Antonio Barocci, Stampa Alternativa - La guida 2010 degli editori che ti pubblicano, Leonardo Pappalardo, Delos Books - Come pubblicare un libro, Andrea Mucciolo, Eremon Edizioni - I mestieri del libro, Oliviero Ponte di Pino, Editrice TEA - Editoria. Guida per chi vuole pubblicare, Alessandro Gusmano, Editrice Zanichelli - Il pendolo di Foucault, Umberto Eco, Bompiani - Come si scrive un Racconto, Gabriel Garcia Marquez, Giunti - Come non scrivere un romanzo, Howard Mittelmark, Sandra Newman, Corbaccio - Lettera a un giovane scrittore, Claire Delannoy, Ponte alle Grazie
press
re gratis», spiega Loretto Rafanelli, autore di libri di poesia ed editore dei Quaderni del Battello Ebbro. «Anche in questo settore però si può parlare, se non di malcostume, di malcostume a metà. È vero che la poesia è difficile da distribuire ma è vero anche che tanti editori domandano contributi all’autore gonfiando una legittima e necessaria richiesta in maniera eccessiva senza tra l’altro assicurare una distribuzione adeguata». Conclude Lagioia sottolineando un aspetto importante: «Il libro non è un film, per rientrarci basta vendere 2000-2500 copie». E questo traguardo deve essere raggiunto grazie al lavoro dell’editore che, in quanto tale, deve prendersi un rischio che, a giudicare dalla tiratura, non è nemmeno così gravoso da necessitare l’intervento monetario dell’autore. La questione, sempre più dibattuta, trova spazio nel luogo principe della libera comunicazione scritta, il web, dove tanti utenti hanno messo su un vero e proprio circuito di informazione sull’argomento. Così nascono siti salvagente per scrittori alle prime armi che, grazie alle indicazioni di varia natura presenti su internet, possono orientarsi nel mondo virtuale come nella giungla cartacea dell’editoria. È il caso di Writer’s Dream, Scrittori in causa, Galassia Arte, Scrittori sommersi e tanti altri ce ne sono, che segnalano case editrici più e meno virtuose e danno voce alle esperienze di chi, per vanità o ignoranza, si è trovato ad avere a che fare con editori poco seri.
I blog sul web rimandano anche ai cugini cartacei consigliando diversi libri sull’argomento. Tra questi compare quello di Andrea Mucciolo, fondatore del portale di arte e letteratura esordiente Galassia Arte, Come pubblicare un libro, seguito ideale di Come diventare scrittori oggi. Senza impegnarsi in giudizi morali sull’editoria a pagamento, Mucciolo fornisce un’agile guida per districarsi tra gli ingarbugliati percorsi che possono condurre alla pubblicazione, analizzando gli errori più comuni nella ricerca di un editore, le truffe a cui si può andare incontro, i modi di tutelarsi, il tutto in maniera schietta e oggettiva, senza lasciarsi trasportare da malumori e nemmeno dal piagnisteo un po’ becero tipico dei «truffati» del web. Un atteggiamento vittimistico che, mi dice, è prerogativa degli italiani. «Nei Paesi anglosassoni, negli Stati Uniti in particolare, è assente il piangersi addosso che contraddistingue molti dei nostri compatrioti aspiranti scrittori» spiega. D’altronde anche negli Usa si è diffusa la «piaga» dell’editoria a pagamento, mi conferma Antonio Monda, scrittore, giornalista e docente alla New York University. «Non è nemmeno una prerogativa dell’editoria, ciò avviene in tutto il mondo dell’arte. Ho diverse testimonianze di amici a cui è stato chiesto di “partecipare alle spese” quando hanno cercato di pubblicare cataloghi o hanno proposto mostre in gallerie». Eppure la situazione americana, benché analoga alla nostra, suscita atteggiamenti e pensieri differenti. «Negli Usa l’autore che pubblica a proprie spese è visto come una persona che investe su se stessa, nel pieno spirito di intraprendenza del “pioniere” americano, il Self-published man. Nel nostro Paese invece un autore che pubblica a pagamento è visto come uno sfigato, completamente ignorato dalla stampa», ribadisce Mucciolo. Effettivamente l’editoria statunitense è più indulgente nei confronti degli esordienti, con librerie che vendono soltanto libri pubblicati in proprio dagli autori. In più «ogni potenziale scrittore è informato e soprattutto ha molta più autoconsapevolezza sul significato di un marketing puro» conclude. E allora forse sarebbe necessario ripartire proprio da qui. Anziché demonizzare case editrici e compatire esordienti ingenui l’autore dovrebbe prima di tutto diventare imprenditore di se stesso puntando, se il talento creativo alla base è presente, su tenacia, capacità e costanza per raggiungere il faticoso traguardo della pubblicazione.
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scolto una sinfonia di due secoli fa e il pensiero corre a che cosa abbiamo perduto rinunciando a coltivare la bellezza, la sapienza, la spiritualità, l’armonia delle forme. Due secoli di razionalismo hanno prodotto devastazioni che fanno ormai parte del paesaggio che ci circonda e ci fanno accettare, come se fosse naturale, di discutere della «morte del romanzo», della «fine della politica», della «crisi dell’arte», della «paura di misteriose malattie», della scomparsa dell’Occidente, dell’annichilimento del pensiero europeo incapace di esprimere qualcosa di meno caduco dello stile di vita, della moda, della gastronomia che pure non vanno disprezzati, né sottovalutati. Ma una volta, prima che la decadenza s’impossessasse delle nostre menti e contaminasse le nostre anime, che producesse meccanismi infernali dei quali siamo prigionieri, c’era un’idea di grandezza alla quale si sacrificava perfino la vita e la si offriva all’Eterno, come estremo atto d’amore. Oggi chi può dire che la generosità coincida con la gratuità, in senso metafisico prima che materiale? Ecco perché anche le espressioni migliori della letteratura risentono di una mediocrità difficile da nascondere poiché le resistenze sono state abbattute, negli ultimi decenni si sono affermati pensieri oggettivamente poveri che hanno trasmesso il rumore della modernità a tutti i popoli, perfino a quelli che erano rimasti al riparo dalle trasformazioni del razionalismo materialistico, introducendoli in un universo meccanicistico e deterministico banale ed elementare nel quale la sinfonia è una rara armonia perduta e il frastuono è la colonna sonora della nostra vita. Lo chiamano «declinismo» questo rapido trascorrere da una visione edenica della realtà e dell’immaterialità a una accettazione postribolare dello svolgimento dei rapporti umani fondati sull’«egualitarismo inintelligente», come è stato definito sul Corriere della Sera del 23 gennaio scorso da Andrea Carandini che senza scomodare nessun apocalittico del Novecento, ha semplicemente riproposto un tema che le istituzioni culturali sono assolutamente refrattarie dall’affrontare: la decadenza, appunto, quale espressione di un momento storico tra i più deprimenti della vicenda umana, almeno dalla caduta dell’Impero romano.
A
Non si rivendica qui un’eredità difficilmente riproponibile, ma quantomeno la riappropriazione di una misura dell’esistenza fondata sulla cultura diffusa, sul riconoscimento del bello, sul rispetto delle tradizioni. Non c’è niente da fare: si possono invocare tutti i sostegni che si vogliono alla produzione della conoscenza, ma senza idee non ci sono risorse che bastino a far mutare l’orizzonte spaventoso in un giardino delle delizie. Perciò Carandini, sconcertando tardo-illuministi che non coltivano la sacra religione del pessimismo eppure immalinconiscono nell’osservare i segni del deperimento della civiltà occidentale ed euro-mediterranea (solo per limitarci al
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DECLINO Molte delle cose che oggi ci circondano hanno contribuito a formare una macchia indelebile sulla coscienza dell’umanità: la decadenza che si è impossessata delle nostre menti e delle nostre anime
La visione del vuoto di Gennaro Malgieri
ti». Un pianto antico che dovrebbe commuovere perfino chi questo linguaggio non lo comprende poiché il dolore di queste parole è un atto d’amore verso tutto ciò che abbiamo perduto e paradossalmente di fiducia in una possibile rivolta che induca le poche élites rimaste in piedi, reazionarie per disperazione, a continuare nell’opera di richiamo allo smarrito universo morale e civile dal quale potrebbero venir fuori le armi per combattere la decadenza. Dobbiamo crederci per quanto sia difficile. I cicli storici hanno un inizio e una fine. L’incognita è se quello che stiamo vivendo evolverà in meglio o in peggio. I segni, a essere sinceri, non sono incoraggianti. Scuola, università, ricerca, editoria, televisione, cinema, prosa, tecnologie non offrono modelli tali da farci ritenere che possa essere alle viste una riconquista di ciò che abbiamo perduto o che si sta progressivamente deteriorando. Se il sesso e il denaro sono i soli feticci ai quali dedicare l’esistenza e se i modelli di vita che la pubblicità e la letteratura ci propongono rimandano ossessivamente a essi, come fare per risalire la china? Davvero il destino che prepariamo alle generazioni che verranno è intriso dei veleni che abbiamo interiorizzato?
Su questo interrogativo
Il tramonto dell’Occidente e dell’Europa e la disarticolata umanità sono manifestazioni della stessa malattia interiore che può essere vinta con un unico farmaco: il riconoscimento della sacralità della vita. Solo questo risveglierà la sapienza, punto di equilibrio per vivere secondo i bisogni reali dell’uomo caso nostro), ha scritto: «Dopo generazioni di egualitarismo, che ha pericolosamente ravvicinato l’asino al sapiente, la qualità culturale si è straordinariamente abbassata». Con chi vogliamo prendercela? Con la politica? E sia: tanto, è come sparare sulla trincea più fragile e sguarnita. Con le accademie? Va bene. E così pure con il sistema delle comunicazioni, con le grandi agenzie di orientamento, con lo sfruttamento della natura a fini meramente economicistici neppure immaginando che dal rapporto equilibrato con essa dipende la rinascita della persona nel contesto armonico delle forme esistenti. I responsabili sono tanti. E tutti insieme hanno contribuito a formare
una macchia indelebile sulla coscienza dell’umanità che si chiama appunto decadenza. Dice, sconsolato e pessimista fino al sublime Carandini: «Le qualità umane da eccellenti diventano mediocri e - peggio - si diffonde un amore sconsiderato per la mediocrità: come è bello essere ignoranti, protervi, urlatori, volgari! Un tempo si scrivevano romanzi in cui la formazione era lo scopo di una vita. Il merito nella ricerca era il solo metro di giudizio per l’avanzamento negli studi. Libri, archivi, antichità, belle arti, monumenti, paesaggi costituivano il serbatoio nazionale della memoria su cui si edificavano persone e personalità, che ora si plasmano invece su insistenti pubblicità e costumi sempre più inattraen-
credo si debbano fermare tutte le diagnosi - politiche, artistiche, culturali, economiche, sociologiche - che siamo in grado di fare. Se non si comprende che l’avvelenamento è come un fiume che diventa sempre più impetuoso, fino a trascinare in un nero oceano di disperazione ogni cosa, è impossibile immaginare un avvenire diverso da quello che non è difficile ipotizzare. Certo, ogni tramonto prevede un’aurora. Ma se si resta rinchiusi in una sorta di bunker cullandosi nell’illusione che sia perfino confortevole restarci, con tutti i gadget che si hanno a disposizione, perché bisognerebbe attendere una nuova alba? Ecco, il declino è la visione del vuoto che consapevolmente si accetta per dare alla vita mortale l’illusione dell’eternità. La grandezza, al contrario, è consapevolezza di essere partecipi di un’altra vita, di una storia che non finisce con un ultimo respiro. Lo sapevano gli antichi dai quali non abbiamo appreso nulla che non fosse lieto per un breve momento. Eppure so che la sinfonia che sto ascoltando avrà ancora poche note, ma non per questo morirà per sempre. Al contrario, ritornerà fino a quando la bellezza sarà capace di tendere delicatamente la sua mano a chi saprà riconoscerla. Il declinante Occidente, la decadente Europa, la disarticolata umanità sono manifestazioni diverse della stessa malattia dell’anima che per essere vinta necessita del solo farmaco che si conosca: il riconoscimento della sacralità della vita che sola può garantire il risveglio della sapienza quale chiave dell’equilibrio indispensabile per poter vivere conformemente ai bisogni reali dell’uomo. Il resto appartiene alle illusioni della modernità tra le quali affoghiamo le nostre avide pretese di immortalità.
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MobyDICK
Pop
musica
Viva Van Halen, GIUSTO DEL ROCK di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi hioma fiammeggiante, labbra scarlatte, voce maiuscola, chitarra dagli effetti stranianti, Anna Calvi è l’artista dark che ci voleva e meno male che è arrivata. Lo dico e se volete lo ripeto, innamorato come sono del suo disco d’esordio. Ma a dirlo, soprattutto, sono stati Brian Eno e Nick Cave. E scusate se è poco. Eno, dopo che un amico l’aveva vista esibirsi al Luminaire di Londra raccontandone mirabilie, l’ha invitata a pranzo, è diventato il suo mentore e ha esclamato: «È la cosa più bella dopo Patti Smith». Cave, dopo aver ascoltato i suoi provini e la rivisitazione di Jezebel, canzone portata al successo da Edith Piaf, l’ha voluta come supporter nei concerti dei suoi feroci Grinderman. Ventidue anni, londinese, padre romano e madre svizzera, Anna Calvi non ha paura di confrontarsi con la sua parte più oscura. Tant’è che ha scritto testi e musica di queste nove incredibili canzoni che prediligono, spiega, «gli spazi vuoti e le pause per poter raggiungere atmosfere suggestive. Ogni strumento, come ogni parola, deve saper raccontare una storia. E ogni singola nota ha la sua importanza. Non ce ne devono mai essere troppe, ma solo quelle necessarie». Anna Calvi (intitolato semplicemente così: nome e cognome), prodotto da quel Rob Ellis che di dark lady se ne intende (leggi PJ Harvey), è disco melodico e possente, sussurrato e deragliante, velenoso e impressionista. Dentro, ci sono evidenti, spontanei rimandi a Nick Cave (quello più romantico e decadente, d’inizio carriera), a certe bizzarrie musicali che hanno scandito le colonne sonore di Twin Peaks (David Lynch) e Pulp Fiction (Quentin Tarantino), alle rivoluzionarie partiture classiche di Olivier Messiaen,
C
Jazz
zapping
bbene sì, come nella celebre poesia di Jorge Louis Borges, anche nella musica esiste un insieme di giusti che magari non sanno di esserlo, ma salvano il mondo agli occhi del creatore. Qualche nome è arrivato perfino ai cuori incalliti e alle ’ricchie afone. Sono quasi tutti autodidatti. I famosi «talenti naturali». Gente stra-nota come John Coltrane, Paco De Lucia, Charlie Christian, Ornette Coleman, Santana. Gente un po’più d’essai come Nusrat Fateh Ali Khan, Salif Keita, Massimo Urbani. Musici sconosciuti e oscuri come Mica Cozzucoli (che una volta fece dire a De André: «Se sapessi cantare come questa donna sarei felice») e perfino un chitarrista ignoto che si trova nel romanzo L’uccello che girava le viti del mondo di Murakami. E alla categoria appartengono anche certi musicanti fragorosi. Il più potente, festoso, esilarante, chitarrista del mondo è Edward Van Halen. Noto come virtuoso (ma come tale superato da ipertecnici ferratissimi come Steve Vai, Paul Gilbert, Bumblefoot) in realtà è un giocherellone vulcanico. Oggi che l’assolo di chitarra è provato, riprovato, tagliato e incollato, nei dischi di Van Halen colpisce che alla partenza dell’assolo la chitarra d’accompagnamento scompaia. Segno che l’olandese trapiantato a Los Angeles suona tutto il brano dall’inizio alla fine, non ritocca né aggiunge niente. Il suo cameo chitarristico in Beat It di Michael Jackson venne registrato «buona la prima», come si conviene a un rocker. E insomma, il fatto che, dopo 26 anni i Van Halen siano di nuovo in studio con il cantante originale David Lee Roth, e che stiano mettendo mano (e volume) a un nuovo disco conforta non solo noi. Ma (ditelo a bassa voce) anche il Creatore. Vivat.
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Anna Calvi? Grande come Patti Smith Claude Debussy e Maurice Ravel, a leggendarie voci femminili (da Edith Piaf a Nina Simone, passando per Maria Callas) che Anna ha ascoltato e riascoltato: «Ma sono cresciuta», tiene a sottolineare, «anche con le voci sublimi di Jeff Buckley e David Bowie». Però la sua, di voce, preferisce non svelarla subito. E allora se ne sta volutamente in disparte, come un coro, nell’enfasi crepuscolare di Rider To The Sea che il tocco di una chitarra flamenca contribuisce a impreziosire. Poi, libera e audace, segue le tracce di No More Words e First We Kiss che dagli anni Sessanta (con un doveroso orecchio a Burt Bacharach) indietreggiano fino al decadentismo mitteleuropeo. E se Desire, vocalmente parlando, è puro e impetuoso istinto che ricorda Patti Smith e Siouxsie Sioux, la più crepuscolare Su-
zanne & I ondeggia fra il rock esistenziale degli Smiths e il vellutato pop di Scott Walker. Nel sepolcrale blues di The Devil, invece, Anna riesce addirittura a sdoppiarsi sfoderando una nebbiosa interpretazione alla Nico (la chanteuse che rese inimitabile il primo disco dei Velvet Underground) e sfoggiando impeccabili acuti da soprano. E dopo essersi goduta l’ubriacante galoppata sonora di Blackout, eccola a proprio agio nelle sfaccettature di una I’ll Be Your Man che dopo aver citato Stand By Me di Ben E. King ed essersi abbandonata al tipico twangy sound chitarristico stile Duane Eddy, si fa avvolgere dal Nick Cave più tenebroso. E la tenera e insinuante Morning Light, che chiude magicamente il disco, sarà senz’altro fra le cose più belle che Anna Calvi proporrà in concerto: il 9 aprile al Locomotiv di Bologna, il 10 al TreeSessanta di Gambettola (FC), l’11 al Circolo degli Artisti di Roma. Anna Calvi, Anna Calvi, Domino Recording/Spin-Go!, 14,90 euro
Quando Miles, Keith e John suonavano al Cellar Door estività e tempi di regali sono ormai un ricordo, ma i ritardatari e gli irriducibili ammiratori di Miles Davis, non potranno privarsi di un cofanetto recentemente pubblicato da Sony e Bmg, importato in Italia e reperibile nei più importanti negozi. La splendida confezione in pelle chiara è corredata da un volumetto di ben 96 pagine riccamente illustrato con quaranta foto dello stesso Davis e dei musicisti che si ascoltano nei sei cd contenuti nella raccolta, e raccoglie le registrazioni provenienti dalle esibizioni che il gruppo di Davis diede dal 16 al 19 dicembre 1970, in un locale di Washington (DC), il Cellar Door. In quell’occasione Davis dirigeva un gruppo con il sassofonista Gary Bartz, il chitarrista John McLaughlin, il giovanissimo bassista Michael Henderson, il percussionista Airto Moreira e due musicisti che di lì a poco avrebbero preso il volo con le loro ali, il
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di Adriano Mazzoletti pianista Keith Jarrett e il batterista Jack De Johnette. Formazione per certi versi di transizione, in quanto Davis dopo aver avuto al suo fianco per lunghi periodi, Sonny Rollins, John Coltrane e Wayne Shorter, aveva sostituito l’ultimo con Steve Grossman e successivamente con Gary Bartz che era già stato a fianco di Max Roach e Art Blakey e che rimase con Davis per circa un anno, quando nel gruppo si alternarono Dave Liebman, Sonny Fortune, Carlos Carnet e altri, senza che Davis riuscisse a trovare un partner degno dei precedenti. Keith Jarrett, che si ascolta in tutte le registrazioni, aveva già fatto parte dei Jazz Messengers di Art Blakey, del quartetto di Charles Lloyd e aveva da
poco costituito un trio con Charlie Haden e Paul Motian. Preferì però accettare l’offerta di Davis, e per un certo periodo suonò a fianco di Herbie Hancock. Quando, lasciato Davis per costituire un suo nuovo trio con cui ottenne la celebrità, chiese a De Johnette di unirsi a lui, Davis lo sostituì con Al Fo-
ster. Le registrazioni contenute nel cofanetto Sony-Bmg sono di notevole importanza. Infatti la presenza del chitarrista inglese John McLaughlin, con esperienze nel pop-rock, l’utilizzo da parte di Jarrett del piano e organo Fender preludono al periodo cosiddetto «elettrico». Sarà però solo all’inizio degli Ottanta, dopo un lungo periodo di silenzio dovuto a problemi di salute, che Davis invaderà l’attualità del jazz, suscitando molte polemiche e concludendo la sua carriera nel 1991 a soli sessantacinque anni. I ventotto brani compresi nei sei cd, fra originali e standards del jazz, per un totale di oltre sei ore, vanno ad aggiungersi ai dischi e alle registrazione, molte delle quali ancora inedite, di un periodo di grande interesse nella storia musicale di Miles Davis. Miles Davis, The Cellar Door Session 1970, Sony-Bmg
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arti Mostre Meglio gli ori antichi
o, non vi consiglieremo la mostra di Eleonora Brigliadori, che pure andrebbe vista (occhioni stellari con lagrima a goccia, nudi primordial-stratosferici, e la pretesa cosmica di un’inaugurale Ewolwing Art!), che pure andrebbe delibata, per capire sin dove si spinge la soglia della liceità espositiva (al Vittoriano!). Ove invece in simultanea si sta spegnendo un’affascinante mostra (piena di documenti, cimeli, borderò, fotografie e lettere, le lettere straziate a «Gabri D’Annunzio») della Duse in tournée (ottima curatela e catalogo di Maria Ida Biggi).Vi consiglieremo invece di salire al piano nobile e affrontare la discutibile Vincent van Gogh. Campagna senza tempo. Città moderna? Basta il titolo a far capire che qualcosa scricchiola. O meglio, ripartiamo da capo. Da tempo ritengo che un critico serio debba, al di là di opportunismi o ipocrisie, «lavorare» con onestà, come si fa con un amico caro, che ti telefona e ti dice: «Ho due ore libere a Roma, che faccio, vado a vedere, Chagall, Van Gogh, il punk a Villa Medici?», spesso è sintonizzato sulle onde lunghe della critica pubblicitaria.Allora sei sincero e rispondi: certo, Chagall, anche se è preoccupantemente discontinua, come è stato lui in vita. Una corsa in discesa verso il peggio, senza freni. E non scegliere, come sai, è pericoloso. I risultati si vedono. Il punk, se vuoi, per curiosità. Ma soprattutto per capire che cosa sta diventando Villa Medici, con un direttore a dir poco eccentrico. Certo, se tornasse redivivo Balthus, ri-morirebbe stecchito sulla soglia: nemmeno un sospiro di obbrobrio. Ma non è questo: però, che senso, far invadere l’austera villa da delle grafiche gridate e da dalle Regine Elisabette, con labbra sigillate da spille da balia, e altri prevedibili vilipendi sessuo-rockettari, quando fra poche settimane quelle pareti ritroveranno il silenzio paludato delle tele di Poussin? Benissimo
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delle finte retrospettive di Marco Vallora
svecchiare, alternare, ma che vuol essere questo? Un bocca a bocca estremo, salvifico, per portare un po’ di sangue alternativo, «figlio dei fiori», tra le mura decrepite, e far sostanzialmente dispetto a Papà? Non è un po’ infantile e altezzoso, tutto ciò, tipo i pugnetti in tasca vent’anni o più dopo? Come la pretesa dell’épater a tutti i costi. Però poi guardi queste grafiche, soprattutto di dischi hard, efficaci, non c’è dubbio, talvolta geniali, ma t’accorgi che
Architettura
tutto è già stato fatto, che tutto ha un debito, tutto in fondo è «antico». Per esempio in rapporto con la cultura costruttivista russa, che si fa un baffo di tutta questa pretesa sovversione. Vuoi rompere con l’accademia, ma in fondo sei già tu accademia. Triste. «Allora devo salire a Van Gogh, oppure no?». Certo che sì, ci mancherebbe: basta un solo disegno, e ci sono ovviamente (talvolta ancor meglio di troppi olii discontinui) alcuni schizzi a china, a rapida stenografia di penna, che meriterebbero una salita a piedi anche su un grattacielo. Però bisogna pure esser sinceri: certo che gli sforzi, declinati in pompa magna dagli organizzatori, ad apertura del catalogo Skira, ci sono, con trionfalismo un po’ esagerato (allora che dovrebbe dire Marco Goldin, con le spesso ingiustamente vituperate sue mostre?), ma che può significare una mostra così, almeno ci si lasci dire bizzarra, per un pubblico che non ha avuto la fortuna di conoscere a fondo ed equilibratamente Van Gogh? Gliela puoi «vendere» così, come se fosse una retrospettiva esaustiva e basta? È il solito problema: certo, meglio che niente. Ma non saranno anche svianti e diseducative, queste finte-retrospettive, monche e discontinue? Peccato anche che latitino le didascalie: che
ha senso esporre la lettera manoscritta a Aurier, senza spiegare che è quella in cui lui dice, «lasciatemi stare, non “scopritemi”, non me ne importa nulla del successo, badate piuttosto a Gauguin, che ha molto più talento di me, lasciatemi nel mio brodo»? Allora, se proprio devo essere sincero, e hai un’ora soltanto, vai a vederti la prodigiosa mostra degli Ori antichi della Romania: ci sono pezzi formidabili, a dimostrare che la modernità è un’invenzione friabile.Tra Sciti, Moldavi,Traci, che tracimano con un’eleganza «selvaggia» senza fine, capisci davvero perché «gotico» derivi dai Goti. Sì, penso che sia la mostra più consigliabile a Roma, e senza snobismo. Magari da accoppiare a quella del Quirinale, dedicata al misterioso e svelato Magnifico Cratere. E poi, ci può essere una definizione più bella di: «cratere laconico con anse configurate»?
Ori Antichi della Romania prima e dopo Traiano, Roma, Mercati di Traiano, fino al 3 aprile; L’Italia e il restauro del Magnifico Cratere, Roma, Palazzo del Quirinale, fino al 6 febbraio
Gizmo, il coraggio di rompere gli schemi
eyner Banham nel 1965 scriveva in The Great Gizmo: per migliorare la situazione umana occorre impiegare piccoli attrezzi, potenti e di solito compatti. «L’uomo che ha cambiato la faccia dell’America aveva un gizmo, un gadget, un aggeggio o un arnese, in mano, nella tasca di dietro, ai lati della sella, alla cintura, nel rimorchio, attorno al collo, sulla testa, o dentro un silo rinforzato». Gizmo era il fornello a gas, il cappello Stetson, il motore fuoribordo, il walkietalkie, la bomboletta spray e il rasoio elettrico senza fili. Oggetti piccoli e intelligenti, davvero utilissimi nelle situazioni difficili. Gizmo, ora, è un sito internet di grande impatto culturale centrato sull’architettura contemporanea, condotto da Marco Biraghi, Silvia Micheli e Gabriella Lo Ricco: www.gizmoweb.org È in libreria l’annuario del sito, MMX (Zandonai, 301 pagine, 26,00 euro). La sigla significa 2010, pur evocando acronimi diffusi fra gli architetti come S, M, L, XL o MVRDV o SKNE. Il logo scelto è il bersaglio, target, degli arcieri. È una pacifica bomba al fosforo - luce improvvisa di intelligenza - gettata con garbo nello stagno paludoso custodito dai tromboni accade-
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di Guglielmo Bilancioni mici, depositari da sempre di inerzia e mediocrità, dediti a riprodurre l’inoperosità nel bandire le idee brillanti, i collegamenti che insegnano, le teorie e, in fin dei conti, la cultura che dicono di trasmettere. MMX mette in discussione una critica asservita alla merce e le riviste nelle quali la grafica prevale su qualità inesistenti, ed evidenzia, invitando all’approfondimento, le parole-chiave del nostro tempo: ecologia, contesto, crisi, rendering, restyling, icona, idea, identità. Il volume è suddiviso in Zone: aree all’interno delle quali vengono indicati e decriptati alcuni fenomeni, segnalati come emergenze sensibili: la città, l’architettura, la Zona Verde, la Teoria, la delicata e ormai fragile Zona Storia. (Vi sono molti storici che, come diceva Karl Kraus, «si occupano della Storia con l’intento di sottrarla all’umanità»). Un Indice indagatore rimanda, come un link in ogni pagina, a tutte le altre pagine che hanno analogia con l’argomento indicato. E con un grande Pollice Alzato viene siglata
la sezione «L’architettura che mi piace» ©, dove molti studiosi uniscono gusto e giudizio e argomentano una loro predilezione. Gli attivisti di Gizmo, con una veste elegante e idee combattive, varcano confini: quelli fra arte contemporanea e architettura contemporanea, fra idee e forme, fra moda e astrazione, fra storia e progetto. Sono veri Space Invaders, portatori addestrati, reagenti estetici e politici; sono i calmi agitatori di una critica militante, e anche divertente, e di una visione seria e riconoscibile dell’attualità. Il panorama dell’architettura, oggi, ne aveva proprio un grande bisogno. Se si accende questo libro-dispositivo si può sorridere e riflettere, e lo si può fare nello stesso momento, come quando ti viene presentata una pubblicità, che ricorda il glorioso Hara-kiri francese, di una sedia tubolare di acciaio con una presa usb (!!) per mantenerla calda. Nell’editoriale di apertura, «Ciò che manca», gli autori dicono quel che vogliono, affermando con chiarezza che oggi «manca il coraggio di rompere gli schemi, la forza e il coraggio di prendere posizione, la capacità di sottoporre a critica il sistema dominante, onestà, integrità, agilità, intelligenza, sensibilità, interpretazione, immaginazione». Grazie: moltissimi sono pronti a ricevere in dono un poco di tutto questo e a cercare il resto dentro di sé.
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il paginone
1960: nell’anno che mise fine al dopoguerra la città partenopea, dove si svolgevano le regate olimpiche, celebrò il ritrovato ottimismo con una festa grandiosa, mondanissima. Imbandita dai Serra di Cassano nel loro storico palazzo, vi convennero oltre mille invitati: fu un tripudio di re, di nobili storie, di ricchezza, di cervelli. Un libro rispolvera oggi quelle memorie, non per nostalgia ma come viatico per ritrovare l’anima di una grande capitale europea di Gabriella Mecucci ra una bella serata di settembre del 1960 quando Napoli visse un’esplosione di felicità, di ottimismo, di eleganza. Erano già iniziate le regate olimpiche, che si svolgevano nel Golfo, e le celebrazioni per «il suo ultimo e gentile poeta», Salvatore di Giacomo: fu una cerimonia «in uno splendore di stelle e di mare». Davanti al porto erano ormeggiati gli yacht miliardari, a partire dal Cristina di Aristotele Onassis. Mentre Roma, listata a lutto per i funerali di Mario Riva, assaporava l’impossibile e cioè la prima grande vittoria olimpica di un italiano in una gara di velocità: Livio Berruti «bruciò» sul filo di lana le «antilopi nere», Napoli visse la «notte dei re». Era una città ricostruita, almeno in parte, dopo le immani catastrofi della guerra e percorsa da una carica di vitalità e ottimismo tanto da far tornare in mente l’entusiastica definizione di Stendhal: «Sola capitale d’Italia, la più bella città dell’universo». A questa recupero di identità e di immagine partecipò anche l’aristocrazia e in particolare quella parte di essa che nel lontano 1799 aveva capeggiato la «rivoluzione giacobina» e la «Repubblica partenopea». Palazzo Serra di Cassano il 3 settembre del 1960 aprì il suo storico portone principale per una grandiosa festa. Era rimasto chiuso per un secolo e mezzo, dopo che l’illustre antenato Genna-
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ro era uscito di lì per essere condotto al patibolo, condannato a morte dai Borbone insieme all’eroica Eleonora Fonseca Pimentel. Rovesciata la Repubblica con l’aiuto determinante di Orazio Nelson, Ferdinando sedette di nuovo sul trono. E scattò la sanguinosa vendetta.
Era notte fonda quando gli oltre mille invitati al «Ballo dei re», a cui presero parte teste co-
Famiglie reali, aristocratici italiani, industriali sfilavano tra due ali di folla, che teneva meglio di ogni altro la scena: il popolo napoletano con la sua intima grandezza, felice di risentirsi al centro del mondo ronate, monarchie in esilio, aristocratici di tutte le risme, grandi borghesi, artisti, intellettuali, cominciarono a varcare lo storico portone dei Serra di Cassano. Un tripudio di nobili storie, di ricchezza e di cervelli. Napoli quella sera, fra le Olimpiadi e la grande festa dei Serra di Cassano, si presentava come una città in pieno fermento cosmopolita. Di nuovo vicina a capitali come Parigi, Londra,Vienna. Arrivarono uno dietro l’altro i reali di Grecia, in testa l’aitante Costantino, che avrebbe vinto nel mare antistante la medaglia d’oro per la vela, e il giovane e bellissimo
Juan Carlos, che proprio allora conobbe la futura moglie Sofia, la regina d’Olanda con le figlie, le principesse svedesi e quelle danesi, nonché gli Aosta, mentre i Savoia - compresa Maria Gabriella - disertarono. C’era un giovanissimo Karim Aga Khan, i duchi di Windsor, ma anche Onassis e Callas nonché un super eccentrico Salvator Dalì, il raffinatissimo creatore di moda Roberto Capucci, Gianni e Umberto Agnelli con le mogli. E poi una scarica di aristocratici italiani - su tutti la splendida e mondanissima Myrta Barberini - e di grandi industriali. Quasi
nessuno aveva detto di no all’invito dei duchi. Mancava solo Reza Pahlavi perché la moglie Farah Diba stava per dargli il sospirato erede. L’assenza di Grace e Ranieri di Monaco nasceva invece da uno spiacevole diktat di Federica di Grecia: «Non desidero incontrarmi con un’attrice che gioca a fare la regina».
Ma chi teneva meglio di ogni altro la scena era il popolo napoletano, mai privo di una sua intima grandezza. Due ali di folla si radunarono ai lati di via Monte di Dio, in cima alla quale era piazzato il settecentesco palaz-
zo dei Serra di Cassano, progettato dall’architetto San Felice. Qualcuno temette che i più poveri insorgessero davanti a tanta ricchezza, ma il cosiddetto popolino partenopeo si entusiasmò, applaudì, conquistato dall’eleganza e dal risentirsi al centro del mondo. Non c’era servilismo. Anzi. La sensazione della dignità riconquistata inebriava la gente rendendola disposta alla generosità mescolata con la benevola ironia. Le migliaia di persone stipate intorno a Palazzo Serra di Cassano gridarono ai superfusti blasonati e alle principesse al loro braccio un rassicurante: «Come siete belli». Non dimenticarono nemmeno la loro fede monarchica e, quando arrivò Maria Cristina d’Aosta, cento mani afferrarono, accarezzarono la sua gonna di faille rosso degradé per renderle omaggio. Il racconto di quella splendida serata si ricava da un
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C’era una volta Napoli no, che sorvolava l’Unione Sovietica per fotografarne gli obiettivi, fu abbattuto e Krusciov bloccò il riavvicinamento fra Est e Ovest. L’incontro dei quattro grandi a Parigi si risolse in un disastro. Ma nonostante ciò il mondo intero credeva nel cambiamento. In Urss c’era il «disgelo» e la gente assaporava con piacere i segnali d’apertura di un regime che era stato ferocemente totalitario. Negli Usa intorno alla candidatura di John Kennedy si erano uniti tutti coloro che volevano un mondo meno rigido e una gestione della società più umana. In Italia si sperava che il nascente centrosinistra portasse riforme, una nuova solidarietà, un vento di modernità nel costume, mentre già da qualche anno il boom economico aveva migliorato la vita degli italiani. La creatività era alle stelle, in quell’anno - tanto per
Alcuni scatti tratti dal libro “1960 L’anno dei re a Napoli - Il ballo a palazzo Serra di Cassano, le Olimpiadi, la Dolce vita”, a cura di Masha Prunas Hobart, Francesco Serra di Cassano, Amedeo Palazzi, Peter Glidewell e Fabio Nicolucci (edito da Electa) bel pezzo di Francesco Serra di Cassano, scritto per un libro dal titolo: 1960. L’anno dei re a Napoli. Il ballo a Palazzo Serra di Cassano, le Olimpiadi, la Dolce vita, edito Electa (172 pagine, 50,00 euro). È un volume elegante con 150 splendide foto e numerosi scritti di chi partecipò all’evento. Ce n’è uno di Capucci che descrive la moda dell’epoca quando «nei balli si portava un abito largo mai aderente, stretto in vita senza le maniche, oppure con una piccola manica cortissima… I colori erano in prevalenza chiari, luminosi: rosa, celeste, verde acqua, lilla, giallo, mai il nero: i guanti erano d’obbligo… Le scarpe erano sempre della stessa tinta dell’abito e spesso anche della stessa stoffa; le borsette mai a tracolla come oggi, si portavano al polso per favorire i movimenti e il ballo. Di corredo all’abito le meno giovani indossavano la stola sempre della
stessa stoffa dell’abito per nascondere il décolleté. I capelli non erano mai sciolti, si portavano di taglio corto o acconciati… Sui gioielli un discorso a parte: prevalentemente di famiglia e talvolta interamente conservati nel patrimonio… Il trucco leggero e semplice».
Basta la descrizione dei dettami della moda per rendere evidente quanto il mondo sia cambiato da allora. Il modo di abbigliarsi è quasi opposto. E anche il clima che regna in Italia e nel mondo è profondamente diverso: il 1960 fu un anno cruciale - come racconta nel breve saggio che apre il volume Nicola Caracciolo. «Si può dire senza timore di sbagliare che fu l’anno che mise fine al dopoguerra tra grandi speranze e grandi pericoli». La distensione sembrò scivolare su una buccia di banana e rischiare di bloccarsi: un aereo spia america-
venimento giusto nel momento giusto. Entriamo nel palazzo e sbirciamo nei saloni di quella splendida festa. L’architettura era stata riportata al suo antico splendore dopo ben cinque anni di restauri, fra il 1955 e il 1960, che avevano cancellato le «offese» della guerra e del tempo. Rappresentava così sia il simbolo dell’antica grandezza della città, che l’intenso lavoro per la sua ricostruzione. Tornato bellissimo, carico di storia (acquistato dai Serra di Cassano nel 1679) e di gloria, il palazzo era l’emblema stesso che il peggio era passato e che si apriva un periodo migliore. Re, principesse, duchi e super ricchi salirono l’antico scalone e si fermarono al fresco della loggia esterna per salutare la folla venuta a vederli. Simbologia nella simbologia, il Palazzo era ed è un’isola di bellezza e potenza,
Sartù di riso. E poi c’era la Cupola di crepes Serra di Cassano, ripiena di deliziosi frutti del Golfo maritati a una delicatissima salsa vellutata al pesce, i fritti misti alla napoletana con al centro le Uova della monachina. Dal mare alla terra con i Medaglioni di vitello del conte, le Granatine Castagneto, i Fricadoncini alla Pavoncelli, la Parmigiana di melanzane e i Carciofi alla Gerace. Una teoria di piatti tipici della cucina napoletana colta. Su questo i duchi avevano puntato, anche se non mancavano caviale, aragoste, galantine, gelatine e alla fine grande pasticceria e champagne. Quando la notte era ormai avanzata e le fatiche del lungo ballo si facevano sentire, apparvero i maccheroni «aglio, uoglio e peperoncino». Al loro ingresso scoppiò l’applauso. Quell’evento mondanissimo interpretò, dun-
Mentre a Roma Berruti bruciava le “antilopi nere”, l’evento napoletano interpretò l’atmosfera dinamica e ottimista che si respirava in Italia, già baciata dal boom economico e con una creatività alle stelle fare un esempio - uscirono tre grandi film: la Dolce vita di Federico Fellini, L’avventura di Antonioni, Rocco e i suoi fratelli di Visconti. E a Napoli? La città partenopea partecipava del clima del Paese: ricostruzione, condizioni economiche migliori, vivacità culturale. In politica, era ancora l’epoca di Achille Lauro sindaco, ma era forse il momento migliore del suo regno. E poi i napoletani si erano entusiasmati all’idea di essere una delle sedi olimpiche: si sentivano apprezzati e insieme sfidati. Avevano quindi dato il meglio di loro. Non potevano sfigurare di fronte a Roma. La città resse a meraviglia il confronto. Il ritornare sulla scena europea e mondiale, dove era stata per due secoli, le dava un brivido di vita, quasi una vertigine. I Serra di Cassano interpretarono col «ballo dei re» l’atmosfera dinamica e ottimista che si toccava con mano sia in Italia che nel Golfo: fu l’av-
che domina uno dei quartieri più antichi e più decrepiti della Napoli spagnolesca.A pochi metri in linea d’aria «si sparge» la simil casbah del «Pallonetto» e la famosa via Egiziaca a Pizzofalcone, uno dei più vecchi vicoli napoletani, calato nel buio perpetuo.
Le lussuose auto attraversarono due ali di folla del «Monte di Dio», gli invitati scesero con smoking e abiti da favola ed entrarono nel Palazzo trovandovi uno straordinario spettacolo. Due orchestre, in una delle quali cantava un giovanissimo Peppino di Capri, e una cena davvero da re: cibo e vini squisiti. I Monzù - così si chiamano i grandi cuochi napoletani - avevano dato fondo alla fantasia e alla succulenta gastronomia locale. I saloni illuminati da 350 candelabri contenevano tavoli addobbati di fiori e carichi di Timballi flammand, Paté delle due Sicilie,
que, lo spirito del tempo. Oggi un libro a più firme e tre mostre ce lo ripropongono. L’obiettivo è dichiarato: «Cinquant’anni dopo, quanti vissero quel momento felice stentano a riconoscere una città avvilita e devastata - si legge in apertura del volume - dalla speculazione edilizia. Nello scorrere le immagini del ballo sembra davvero di vedere un mondo scomparso. Ma questo libro non vuol essere solo un documento nostalgico. Ci piace pensare che dopo tante umiliazioni, proprio come all’epoca del ballo, si ritrovi la voglia di vivere nella bellezza… Se una città italiana può dare l’esempio, questa è Napoli». La più ferita, la più oltraggiata, la più sola fra le nostre città può avere la forza di ricominciare? Può uscire dal cliché di Calcutta del Mediterraneo? Sepolta sotto l’immondizia e travolta dalla criminalità c’è ancora l’anima di una capitale europea.
Narrativa
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libri
Ed McBain L’UNIVERSO DEL CRIMINE Einaudi, 420 pagine, 17,50 euro
nche per coloro - ma io credo pochi che avessero solo un’idea vaga di Ed McBain è da consigliare la sua raccolta di racconti, usciti oggi a cinque anni dalla scomparsa di uno dei migliori maestri del genere poliziesco americano. Letteratura popolare, o pulp, dicono certuni. D’intrattenimento, senza dubbio, ma la sua è, scorrendo soprattutto i racconti, letteratura e basta. McBain in realtà si chiamava Salvatore Lombino (classe 1926). Dopo un buon apprendistato come autore di racconti usciti sulla rivista Manhunt, nel 1954 firma con il nome di Evan Hunter il romanzo che lo rende celebre: Il seme della violenza (The Blackboard Jungle). LombinoHunter cambia nomi. Si firma Hunt Collins e Richard Marsten, ma anche McBain, e con questo pseudonimo inventa quel poliziesco corale, o di squadra, che è la saga dell’Ottantasettesimo distretto (Cop Hater), nel quale spicca la figura, empatica e umanissima, del tenente Steve Carella. Quasi cento romanzi, ambientati, a partire dal 1956, a New York, città in disarmo, dove dominano la notte, la pioggia, la sporcizia, la solitudine, la discesa all’inferno per causa della droga, delle bande violente, dei senzatetto. Non più un solo, tribolato e a volte spaccone detective, ma un intero gruppo. L’autore si allontana dal consueto ed esasperato individualismo investigativo, un genere che tuttavia non morirà mai. McBain si accosta, per qualità narrativa, alla celebrata triade dei noir: Jim Thompson, Cornell Woolrich e David Goodis. Polizieschi o noir puri, in ogni caso pagine che descrivono il dramma, la mediocrità, le paure, le ossessioni e le piccole o grandi speranze dell’umanità. Significativo è il racconto intitolato Agonia. Un ragazzo di sedici anni, Andy, esce dalla sala da ballo per comprare le sigarette.Vuole tornare dentro, se non altro per stare vicino a Laura, la ragazza dei suoi sogni e dei suoi progetti. Ma alcuni coetanei lo aggrediscono e lo feriscono mortalmente con una coltellata. Tutto è dipeso dal fatto che Andy indossa un giubbotto con la scritta Royal, la banda con cui guerreggia quella dei Guardian. Sta quindi per morire per un’insulsa e puerile appartenenza. Il suo corpo è a terra, sotto la pioggia. Cerca di emettere parole, ma dalla sua bocca viene fuori solo un
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Questa è la vita… Parola di McBain Non un maestro di genere ma un narratore puro. Leggere per credere i racconti raccolti con il titolo “L’universo del crimine”
Il bibliofilo
di Pier Mario Fasanotti
grugnito o una bolla di sangue. All’inizio non immagina di morire, ma a poco a poco gli cade addosso la consapevolezza della fine prossima. E così addio a Laura, addio alla tanta vita che gli rimarrebbe da vivere. Gli si accosta un tale che scherzosamente gli offre alcol da sorseggiare, senza accorgersi della sua agonia. Poi passa nelle vicinanze un’anziana donna con un ombrello rotto e andatura regale. La quale fruga nell’immondizia dei cassonetti ma, essendo un po’sorda, non sente il flebile richiamo di Andy. Una coppia di ragazzi inizia ad amoreggiare nell’oscurità di un vicolo, salvo poi accorgersi di lui, che perde sangue. Il menefreghismo, la voglia di non immischiarsi in pericolose storie tra bande faranno sì che i due si allontanino. Il perbenismo e la paura non affrontano la morte di un estraneo. Intanto Andy cerca, disperatamente, di sfilarsi il giubbotto. Vuole essere solo Andy e non uno dei Royal. Vuole morire o sopravvivere come individuo. Alla fine lo scorge la sua Laura, ma è troppo tardi. Accorre un poliziotto, che però segna nel suo taccuino Royal e non Andy. Nel racconto Piccolo omicidio c’è una bambina di non più di otto mesi trovata senza vita (strangolata) sulla panca di una chiesa. Il poliziotto incaricato delle indagini fa di tutto per risolvere il caso: il suo superiore lo pressa per evitare che l’opinione pubblica possa accusare la polizia di ignorare un episodio tanto raccapricciante quanto pietoso, immaginando già i titoli taglienti della stampa popolare. Le ricerche della madre e del padre vanno spedite. Si viene a sapere che il papà della bambina, imbarcatosi su una nave da guerra, è morto in combattimento. Alla fine il detective Levine, dopo vari appostamenti, incontra davanti alla chiesa la madre della bambina morta. Perché l’ha fatto? La donna confessa in tono neutro, come se fosse travolta da una micidiale stanchezza esistenziale: piangeva, l’ho ammazzata per questo, del resto dopo la morte di mio marito che cos’altro potevo fare? Una vita spezzata. Perché piangeva troppo. McBain non ha bisogno di tanti aggettivi o contorcimenti psicologici: i fatti sono lì davanti, nudi e crudi. Questa è la vita, caro lettore.
Vecchi e nuovi, gli Esercizi «corretti» della Bemporad i sono autori che, per tutta la vita, si dedicano alla stesura di un unico libro. È il caso di Giovanna Bemporad, poetessa schiva e appartata, ferrarese di nascita ma da anni residente a Roma, che ha al suo attivo alcune memorabili versioni dall’Eneide e dall’Odissea. Con un gusto e un’ispirazione di taglio classico, sostenuti dal ricorso a un melodioso endecasillabo sciolto, la poetessa si dedica dall’«età regale» dell’adolescenza, in maniera rigorosa ed eccentrica, alla riscrittura dei suoi Esercizi, usciti originariamente in una piccola brochure edita a Venezia nel 1948 per i tipi di Urbani e Pettenello. Nel volumetto, che presentava nell’antifrontespizio un ritratto dell’autrice effettuato da Virgilio Guidi, sono presenti liriche e traduzioni della Bemporad maturate all’epoca del suo girovagare, ebbra di un «sonno non dissimile alla morte», nella Venezia spettrale del dopoguerra, alla ricerca di una poesia «sublime», ispirata ai modelli dell’antichità classica e del simbolismo ottocentesco. Il libro era originariamente diviso in due parti: nella prima figuravano le poesie scritte dall’autrice, in cui veniva sapientemente coniugato un registro alto, di
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di Pasquale Di Palmo ascendenza classica, al taglio visionario delle immagini; nella seconda confluivano le traduzioni, che spaziavano da Omero a Saffo, da Hölderlin a Baudelaire, da Valéry a Rilke. E proprio nel felice connubio tra nitore formale e libertà espressiva, anche se ricavata da modelli classici che rinviano a topoi abusati come quelli di Eros e Thanatos, risiede il fascino di questi «esercizi», concepiti alla stregua di uno strenuo corpo a corpo con la forma, levigata come quella di certe sculture che riescono a restituirci un’idea di levità da una materia lavorata in maniera assidua, esasperata. Non è un caso, d’altronde, che Pier Paolo Pasolini, amico e sodale in gioventù della poetessa, notasse, in una recensione apparsa nello stesso 1948, che «ci troviamo di fronte a una poesia “diretta”, che aggredisce i suoi argomenti nominandoli: si pensi a quante volte è nominata la “morte”». Esercizi fu ristampato nel 1980, in forma rimaneggiata, nella prestigiosa collana «verde» di Garzanti, con un’acuta presentazione di Giacinto Spagnoletti che rilevava come «alla Bemporad sem-
Usciti in origine in una piccola brochure nel ’48, ristampati nell’80, ritornano con variazioni e inediti
bra indispensabile tutta la poesia, l’intero suo corpo sensibile, altrimenti lei, così anticonformista rispetto alle mode correnti, non troverebbe come far vibrare la sua voce ad altezze inconsuete». Il merito dell’edizione garzantiana fu quello di far conoscere, in un’epoca ancora dominata dalle sperimentazioni avanguardistiche, una voce dal timbro inconfondibilmente composto e lieve, che si ricollega a quella linea prosodica che da Petrarca approda a Leopardi e infine a Penna. Ora la Bemporad licenzia, a distanza di trent’anni da quella garzantiana, un’ulteriore versione della raccolta, edita sotto il titolo di Esercizi vecchi e nuovi nella collana «Lumen Poesia» delle Edizioni Archivio Dedalus (236 pagine, 20,00 euro). La differenza sostanziale rispetto alle lezioni precedenti riguarda la struttura stessa della silloge che accoglie solo la parte creativa, opportunamente ritoccata e arricchita di nuove integrazioni. Soppresso lo specimen relativo alle traduzioni, il volume, articolato in varie sezioni dai titoli epigrammatici, ha il merito di presentare un mannello di inediti, oltre a una serie di testimonianze quanto mai preziose sull’attività della poetessa: da Pasolini a Spagnoletti, da Zanzotto a Pagliarani e Anceschi, ai più giovani Raffaeli e Trevi.
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poesia
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Mameli, un romantico per niente vacuo di Francesco Napoli ichele Novaro incontra Mameli e insieme scrivono un pezzo» canticchiava Rino Gaetano in una delle sue famose ballate, Sfiorivano le viole del 1976, e quel pezzo che i due scrissero altro non è che il Canto degli italiani, del 1847, noto ai più come Inno di Mameli. Il canto debuttò il 10 dicembre di quell’anno, quando fu presentato ai cittadini genovesi e a vari patrioti italiani in occasione del centenario della cacciata degli Austriaci dal capoluogo ligure. Le cronache del tempo riferiscono di una grande eccitazione nell’aria all’echeggiare di quelle note: mancavano pochi mesi al 1848 ed era stata abolita una legge che vietava assembramenti di più di dieci persone: così ben 30 mila persone ascoltarono l’inno imparandolo in breve tempo a memoria. Dopo pochi giorni, tutti conoscevano quel Canto che veniva modulato senza sosta in ogni manifestazione (più o meno pacifica). Durante le Cinque giornate di Milano gli insorti lo intonavano a squarciagola: il Canto degli italiani era già diventato un simbolo del Risorgimento. Quando si diffuse, le autorità savoiarde cercarono di vietarlo, considerandolo eversivo (per via dell’ispirazione repubblicana e antimonarchica); visto il totale fallimento, tentarono di censurare almeno l’ultima parte, estremamente dura con gli Austriaci, al tempo ancora formalmente alleati.
«M
In seguito fu proprio intonando l’Inno di Mameli che Garibaldi, con i suoi Mille, intraprese la conquista dell’Italia meridionale e quindi la riunificazione nazionale. Mameli era già morto, ma le sue parole, che invocavano un’Italia unita, erano più vive che mai. Anche l’ultima tappa di questo processo, la presa di Roma nel 1870, venne accompagnata da cori che lo cantavano al suono degli ottoni dei bersaglieri. Con buona pace di tanti leghisti, le tappe fondamentali dell’Unità d’Italia sono state accompagnate da questo inno e non dal pur patriottico e struggente Va’ pensiero verdiano. A proposito dell’inno certo non bisogna pensare ai capolavori dell’alta letteratura, come d’altro canto sarebbe forse impossibile anche per l’aria del Nabucco, ma la forza dei cadenzati senari di Mameli, l’invito insistito all’unità e al sacrificio in nome della patria, intrecciati ai ricordi di una grandezza passata, gli danno un’efficacia trascinante, una capacità di suscitare emozioni che è dote tuttora evidente e rag-
il club di calliope
guardevole, meritevole a mio avviso di gran rispetto e attenzione. Goffredo Mameli nacque a Genova nel 1827, dove compì gli studi, rampollo di una nobile famiglia sarda trapiantata in Liguria e degli aristocratici Zoagli di Genova da parte materna.Tutta la sua breve parabola si compì sul fronte del Risorgimento italiano. All’indomani dell’armistizio che sanzionò la fine delle Cinque giornate di Milano nel 1848, rientrato a Genova protestò contro l’accordo e redasse l’Inno militare che Giuseppe Verdi provvide a musicare, pur suggerendo al giovanissimo ed entusiasta poeta più d’una modifica. Morì nel 1849 durante la difesa della Repubblica Romana. I primi suoi versi furono tutti d’intonazione romantica e appassionata (La vergine e l’amante, Il giovine crociato, L’ultimo canto) ma a far data dal 1847, sull’onda della radicalizzazione dello scontro politico-militare nel nostro Paese, compose varie cantiche, come La battaglia di Marengo o l’ode Ai fratelli Bandiera, di elevato impegno politico che testimoniano l’orientarsi del poeta verso posizioni decisamente democratiche e repubblicane.
E al Mameli poeta probabilmente non giovò la leggenda della sua vita e quella parte della sua poesia che di tale leggenda costituisce l’eco più sonora, e allo stesso tempo più labile, perché stilisticamente indifferenziata e anonima. Di tutta la sua produzione patriottico-politica resta oggi solo il senso di un impegno eccezionale, impegno di moralità: e non già la generica moralità risorgimentale, ma quella che trovava radice nelle sue convinzioni mazziniane. Il suo ideale repubblicano, sebbene intinto di venature giacobine, la sua profonda religiosità laica, la sua resistenza alle posizioni neoguelfe dell’epoca, rivelano di Goffredo Mameli la serietà dei propositi, sia pure nell’entusiasmo che si respirava subito prima del ’48, e una visione concreta della storia e della politica italiana, che certo mancarono a molti moderati. Mameli resta, tuttavia, un lirico di qualità che certo avrebbe potuto approdare a ulteriori sviluppi, se si considera l’età in cui scrisse. Potrebbe destare una strana impressione al lettore - e intendo anche quello più avvertito - sentir dire che questo poeta minore dell’Ottocento non sia in realtà un fondo di biblioteca inerte e polveroso, ma abbia in sé un che di incandescente. Pertanto non mi sembra giusto collocarlo, come fatto da
CANTO DEGLI ITALIANI Fratelli d’Italia L’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Dov’è la vittoria?! Le porga la chioma, che schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamoci a coorte, siam pronti alla morte; l’Italia chiamò Noi siam da secoli calpesti, derisi perché non siam Popolo, perché siam divisi: raccolgaci un’unica bandiera, una speme: di fonderci insieme già l’ora suonò. (…) Goffredo Mameli
Ferruccio Ulivi e Giorgio Petrocchi, in una mera dimensione di «vacuo romanticismo». Riconoscibile nella poesia di Mameli una sorta di meditazione della voluttà idealizzata in un indefinito sentimento di mestizia. Certo, in lui persistono tipiche astrazioni oleografiche ma sono ben visibili anche un morbido languore che nel quadro complessivo del primo Ottocento resta ignoto in Italia. E già lo stesso Carducci, che nell’Ottocento al medesimo tempo rappresentò un faro poetico e critico, riconobbe in Mameli fertili riecheggiamenti da Byron, Lamartine, Manzoni e Leopardi, per poi concludere come «al modo della intonazione, al colorir più questa che quella frase, a un accento di petto che a un bel tratto prorompe fuori, voi sentite quel che è l’uomo e quel che sarà l’artista, se avrà tempo e circostanza da svolgersi», tempo che non ebbe poi.
INCURSIONI NELL’IGNOTO, NAVIGANDO SUL FIUME SACRO in libreria
IL TANGO
di Giovanni Piccioni
Eri dietro la porta. Ti ho lasciato fuori, nell’infinita solitudine della piazza affollata. Ho finto di non sentire che stavi bussando, che chiamavi. (Dovevo saperlo ch’eri venuto a cercarmi) Ascoltavo le note ardenti di un tango, ero perduto, chiuso dentro il mio fango. Luciano Luisi (Da L’ombra e la luce, Casa Editrice Rocco Carabba)
l Fiume Sacro. Dieci anni nella poesia di Roberto Mussapi 1990-2000 di Ettore Canepa (Le Lettere, 18,00 euro) è un saggio che scandaglia e analizza con passione, ricchezza di riferimenti e particolari tematici quattro poemi di Mussapi: Gita meridiana (1990), Racconto di Natale (1995), La polvere e il fuoco (1997) e Antartide (2000). Il «fiume sacro» del titolo riprende un’immagine del Coleridge di Kubla Khan che è stata interpretata come una metafora dell’immaginazione creativa. I quattro testi di Mussapi costituiscono un progetto poematico complessivo, svolto nel segno dell’avventura e legato all’archetipo del viaggio dantesco. Con esso avviene un distacco dalla linea lirico soggettiva prevalente; il poeta si inoltra nell’ignoto, nell’altro da sé, rinunciando al protagonismo per fare spazio alla rivelazione dell’inatteso e del diverso. Creare è ricordare, e poetare significa avventurarsi nel mare della memo-
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ria, nel «fiume sacro» del mondo dei morti. Una poesia così alta e complessa ha un substrato di cultura letteraria e filosofica molto articolato. Qui vogliamo citare il pensiero di Lévinas, secondo cui la persona va pensata come alterità sciolta da ogni legame con l’io e si fa rivelazione. Tale rivelazione si annuncia nel volto. «Il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso». Il senso che può riempire la nostra vita dipende da una presenza concreta, che ogni volta ci confronta con la sua novità e imprevedibilità. È il confronto con il prossimo. Fra i molteplici spunti tematici individuati da Canepa segnaliamo quello ricorrente della donna, della presenza femminile, accesso privilegiato all’essere: «Nel buio del reclinante oblio del viso/ lei sconosciuta e silenziosa mi condusse al sonno,/ vidi il suo capo chinarsi come un declivio/ d’ombra mentre traversavamo Genova, il porto,/ le grandi onde…».
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Teatro
spettacoli DVD
Un miracolo per Michelina
n nuovo spazio teatrale per Roma Capitale, una bella sala in grado di accogliere duecento spettatori, fresca di restauro, con i velluti dei tendaggi di un rosso brillante: è il Teatro Ambra alla Garbatella in piazza Giovanni da Triota 15. Nel cuore dello storico quartiere, non lontano dal Teatro Palladium, si svela affacciato su un cortile protetto da un ampio cancello di ferro. Gestito dai conduttori artistici dell’Ambra Jovinelli, offre al pubblico una stagione leggera ma non troppo con una spiccata vocazione per la drammaturgia italiana. Dopo l’inaugurazione della scorsa settimana propone come seconda uscita la ripresa di Michelina di Edoardo Erba che ne firma anche la regia, affidata in prima battuta ad Alessandro Benvenuti (ex Giancattivi). Tutto avviene nel profondo Nord. Lomellina, Oltrepò pavese: ovunque ti giri cieli grigi e pianura padana a perdita d’occhio, nebbia permettendo. Siamo nell’immediato dopoguerra e il cantante sentimentale Arturo Bonavia, già di suo non un astro del palcoscenico, si trova in ambasce perché la sua soubrette di punta, nota per la sua dirompente vitalità, si è invaghita di un carabiniere e l’ha mollato su due piedi, in piena tournée. Ma si sa, la fame aguzza l’ingegno ed ecco quindi che il nostro non esita a sostituirla con una bella mondina, la Michelina del titolo, incontrata per via. La istruisce sommariamente, le fa indossare un costumino discinto e la ingaggia per condividere con lui «la cinica e un po’ dispotica, scaramantica un poco ipnotica
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Televisione
di Enrica Rosso vita dell’artista», ma ben altro destino era tracciato per lei in cielo. Intanto, non molto lontano, il Cardinal Dorigo è disperatamente alla ricerca della mondina che sola lo può aiutare a mandare avanti le pratiche definitive di una questione che gli sta tanto a cuore: la beatificazione di suor Ercolina Corbella. Michelina infatti è il testimone di punta del terzo, fondamen-
tale, miracolo necessario per l’assunzione in cielo della religiosa. Dopo un primo incontro, tra un numero di varietà e l’altro, i due scopriranno di aver altro da condividere e nello sgomento generale daranno una svolta comune alle loro vite. La scrittura scorre giocosa, a tratti scoppiettante, ritmata da battute brevi, spesso a effetto, in un susseguirsi di situazioni divertenti. La regia di contro langue, senza troppe invenzioni, affidata soprattutto ai tempi comici degli interpreti. Nel ruolo del titolo la sempre brava Maria Amelia Monti a fare i conti con la verve di Giampiero Ingrassia. Insieme capitanano un drappello di attori di provata esperienza: Amerigo Fontani, Mauro Marino, Gianni Pellegrino, Annalisa Amodio. Tutti chiamati a esprimere anche le loro qualità canore. Federico Odling firma le composizioni musicali che accompagnano alcuni momenti della commedia e che citano le melodie in voga del periodo. Paolo Macioci individua le zone dell’azione e le illumina. Il grande palcoscenico si offre in tutta la sua nera ampiezza ad accogliere i sogni di gloria e di amore dei due protagonisti (ma tanto nudo spazio non ci pare una scelta stilistica quanto una condizione sine qua non e di fatto non giova allo svolgersi dell’azione: risulta troppo vuoto, poco sfruttato, ingoia i personaggi e li svilisce).
Michelina, Ambra Teatro alla Garbatella, Roma, piazza Giovanni da Triora 15, fino al 30 gennaio, info: www.ambragarbatella.eu - tel. 06 81173900
IL VIAGGIO DANTESCO NEL MONDO DEI SOGNI opo aver «rovinato» la saga di Batman con The Dark Knight, film così riuscito da rendere superflue le prossime avventure dell’uomo pipistrello, Christopher Nolan ha realizzato il suo capolavoro firmando Inception. Il film sul dantesco viaggio nel mondo del sogno arriva ora in dvd in edizione limitata: un cofanetto contenente il film, un documentario e numerosi gadget (compresa la trottola, oggetto-simbolo della storia). Ciliegina sulla torta, la versione in blu-ray permette di attivare delle finestre che «spiegano» i passaggi più oscuri dell’intreccio. I fan di Lost moriranno d’invidia…
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WEB
GLI HOMELESS RACCONTATI DA TOM WAITS ra da anni che l’autore di alcune delle canzoni più «letterarie» della musica leggera americana prometteva la pubblicazione di un libro. Finalmente Tom Waits ha deciso di accontentarci, mettendo in vendita su internet - in soli duemila esemplari - un volume che racconta la dura vita dei senzatetto. Più che di un romanzo si tratta di una lunga ballata, ispirata ai ritratti che il fotografo Michael O’Breins ha realizzato tra gli homeless americani. Il fine è ovviamente benefico: il ricavato sarà destinato a due associazioni cattoliche che assistono le persone sospinte ai margini della società.
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di Alfonso Francia
Mistero: “patacche” per orfani di leggende
na delle frasi più belle di Albert Einstein è, a mio avviso, questa: «Solo due cose sono infinite, l’universo e la stupidità umana, e della prima non sono sicuro». Se la applichiamo alla televisione, i riscontri non mancano. Su Italia 1 va in onda in prima serata Mistero. Scritto in caratteri pseudo-gotici, ovviamente. Come ovviamente il condu\ttore, il talvolta attore Raz Degan, è avvolto da nebbia prodotta da ghiaccio sintetico e collocato in locali che ricordano un castello medievale. La cornice vuole essere suggestiva. Il quadro, ossia il contenuto, è a dir poco modesto. Galleria di fatti curiosi trattati come se fossero tutti comprovanti l’esistenza di una realtà sfuggente, aliena, impenetrabile. In altre parole, qualsiasi fenomeno che non sia ancora stato studiato in modo approfondito dalla scienza viene collocato in uno spazio tale da far pensare a mondi paralleli o roba del genere. A far da «valletta» al programma c’è anche la scrittrice Melissa P., in abiti vedo-non vedo. Recita frasi a effetto. Per esempio: «La mente mette i limiti, il cuo-
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di Pier Mario Fasanotti re li spezza»; «L’utopia non è limitata da nessun obbligo di pretendere risultati, la sua sola funzione è di consentire ai suoi adepti di condannare ciò che esiste in nome di ciò che non esiste». È la prima volta che sento parlare di «adepti dell’utopia». Veniamo a qualche spot misteri-
essere state provocate da «grattamenti». In ogni caso il conduttore di Mistero, assieme ai suoi collaboratori, insiste sulla tesi delle «scie chimiche». Detto volgarmente: effetto di elementi inquinanti, tanto è vero che, come ha dichiarato un biologo di Parma, nell’acqua piovana di
co. C’è Silvia, una ventenne che ha la pelle ulcerata e sostiene che da essa escono filamenti di natura incerta.Viene fatta visitare da un chirurgo plastico di Milano, il quale con molta prudenza lascia intendere che le ferite deturpanti potrebbero
Milano è stata trovata una quantità impressionante di quarzo. Peli alieni o semplice pollution? E a proposito di cose o esseri provenienti dallo spazio, Andrea Pinketts, giallista, si reca a Petrate, piccolo paese del centro-Italia, e qui incontra
Filiberto Caponi già noto (anche ai carabinieri) per aver fotografato una specie di Et alto circa 45 centimetri, con occhi molto simili a quelli che disegnano i bambini fantasiosi o ispirati dalla retorica ufologica. Il Caponi, che di mestiere fa il ceramista e il restauratore, a suo tempo fu accusato di aver fotografato una statuetta di creta, ovviamente di sua fattura. Gli uomini dell’Arma sequestrarono foto e altro materiale nel suo laboratorio (per sospetto di turbativa della quiete pubblica). Ma lui dice che comparvero anche uomini vestiti di nero. Men in black, come nel film comico. Il paese visitato da Pinketts con passo da detective ultranavigato è legato alla leggenda delle fate sibilline che si sarebbero incontrate con i pastori della pianura. Questi antichi abitanti si sarebbero poi accorti che le ancelle di Sibilla, belle e sensuali, avevano zampe caprine. Insomma, dal cielo mitologico casca il ciarpame moderno. Che si fa trasmissione televisiva. Per noi, ormai rattristati orfani di leggende, van bene anche le «patacche», per dirla all’emiliana.
Cinema
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con rapida diffusione di tutte le malattie infantili: rosolia, scarlattina, varicella, morbillo e anche casi di tifo. Tra gli adulti qualsiasi cosa: casi d’appendicite acuta diventano, in pratica, sventramenti. Con solo due fornellini per sterilizzare gli aghi, ci vogliono 45 minuti per fare un’iniezione d’insulina. «Persino al fronte nel ’14 eravamo più forniti», dice un ex’ambulanziera di Verdun. Laurent era la ragazza ebrea che sfuggì allo sterminio della famiglia in Bastardi senza gloria e la violinista nell’amatissimo Il concerto. È un’attrice di enorme talento e grazia; rende onore all’altruismo eroico di Monod, sorella spirituale della filosofa Simone Weil, e la cui vita merita un film a parte. Ci sono difetti: si esagera nello sforzo di restituire onore ai francesi, e alcune scene chiavi sono tecnicamente deboli. L’epilogo sul dopoguerra e il ritrovamento di Joseph e Nono tolgono un po’ di forza alla sconvolgente soppressione della coscienza avvenuta nella culla dell’Illuminismo. Ci aiuta a non uscire carponi dal cinema, certo, ma non è detto che questo sia un bene. Da vedere.
di Anselma Dell’Olio
a Rafle è il titolo originale di Vento di primavera, che prende il nome dall’operazione Vent di printemps, pianificata per risolvere «la contaminazione ebraica» dell’Europa con la Soluzione Finale. Il 13 luglio 1942, dopo una serie di trattative tra i leader nazisti della forza d’occupazione tedesca e il regime collaborazionista di Vichy, parte l’ordine di arrestare, rinchiudere e deportare i 23 mila ebrei stranieri o apolidi residenti in Francia. Riescono ad arrestarne 13 mila: gli altri si nascondono con l’aiuto di cittadini francesi gratis o a pagamento. Circa 8 mila ebrei sono portati al Velodromo d’Inverno a Parigi, allestito come prigione provvisoria, prima della deportazione nei campi della morte in Europa dell’Est. Solo a Parigi, 9 mila tra poliziotti e gendarmi eseguono la massiccia retata d’ebrei, grazie allo zelo del Prefetto di polizia René Bousquet, più tardi amico mai rinnegato di François Mitterrand. La vergogna della nazione dei Diritti dell’uomo, terra d’asilo dei perseguitati, s’avvale d’un soprannome: la rafle du Vélo d’Hiv. Il film di Rose Bosch segue la storia degli ottomila che finiscono al Velò d’Hiv. L’ha colpita l’esistenza di una sola immagine dell’enorme retata: dei camion vuoti davanti al velodromo. Scopre così che solo 25 adulti e nessuno dei 4 mila bambini, di quei 13 mila tornano vivi, tranne un adolescente: Joseph, undici anni, perché scappa dal secondo lager a Beaune-La-Rolande, prima della deportazione a Est. Il film racconta la sua storia e quella di Nono, molto più piccolo, attraverso gli occhi e le esperienze condivise con gli internati di Annette Monod (Mélanie Laurent), un’infermiera protestante realmente esistita. Si comincia con la vita quotidiana delle famiglie ebree, sempre più condizionate dalle leggi razziali, dalla stella gialla sul petto, fino alla cacciata da tutti i luoghi pubblici: scuole, teatri, cinema, bar, parchi e area di ricreazione per bambini compresi. Bosch, ex giornalista d’inchiesta, ha fatto ricerche approfondite, contagiata dall’ossessione del produttore Ilan Goldman (La Vie en Rose), suo marito, per l’infamia. Il film inizia con la scritta: Tutti i personaggi del film sono realmente esistiti. Tutti gli eventi, anche i più estremi, sono accaduti in quell’estate del 1942.
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Prima della visione del film, ben girato in stile classico, senza bellurie cinefile, temevo il già visto. Dopo Schindler’s List di Steven Spielberg e Il pianista di Roman Polanski, opere di massimo impatto, e dell’esecrabile, popolare La vita è bella (tre Oscar di cui a Hollywood si sono pentiti subito, sentendosi storditi e turlupinati da una campagna miliardaria e una forma d’ipnosi collettiva), sarebbe stato difficile resistere a qualcosa di mediocre fattura. Ma lo sguardo del film si fa sempre più profondo e avvincente. Seguiamo il percorso delle vittime, e quello dei persecutori e mandanti: autorità tedesche e solerti politici e funzionari francesi. Scene come quella in cui Hitler presenta una Mercedes decappottabile di cioccolato a bambini biondi deliziati, mentre i bimbi ebrei soffrono d’inedia, hanno un effetto cumulativo
Quel vento di primavera che spazzò gli ebrei
potente. Si resta definitivamente incollati al racconto quando s’arriva all’interno dell’immenso velodromo, con bambini che corrono e giocano, malati in barella agonizzanti e la gente che s’abbandona sugli spalti senza alcun conforto, i cessi intasati, una puzza insopportabile, e senza acqua in piena estate. La fotografia è ottima e gli attori efficaci, in particolare la Laurent e Jean Reno nei panni del medico ebreo senza medicine, pochi strumenti e solo sei infermiere per curare 7-8 mila detenuti prelevati dalle loro case durante la notte, da ospedali, ospizi, manicomi, perfino dagli asili. Ci sono dieci decessi al giorno,
“La Rafle” è il titolo originale del film di Rose Bosh che rievoca la retata per eliminare la “contaminazione ebraica” dalla Francia. Uno sguardo profondo e avvincente sugli eventi estremi accaduti nel 1942. Da non perdere “Febbre da fieno”, teen-movie dell’esordiente Laura Luchetti prodotto dalla Disney
Febbre da fieno è l’opera prima di una giovane regista da festeggiare. Laura Luchetti ha scritto e diretto un insolito film di genere prodotto dalla Disney: non male per chiunque, specie se debuttante. La regista dice che voleva fare un film che, bello o brutto, si riconoscesse come suo. Temeva più d’ogni cosa essere omologata ad altri registi di film giovanili. Missione compiuta. Il film è molto gradevole e la cornice originale. Twinkled è un negozio di modernariato anni Sessanta-Settanta: abiti, parrucche, dischi in vinile, stivaletti, giubbotti, skateboard e oggetti casalinghi di design da collezionisti. Il proprietario Stefano (Giuseppe Grandini, un giovane-vecchio rotondo e simpatico alla Giuseppe Battiston) assume part-time Camilla (Diane Fleri, spigliata, mai leziosa e con un accattivante erre arrotata), studentessa che vive sola con il fratello down Gigio (Mauro Arsella, ottimo). Ci lavorano anche Franki (Giulia Michelini), insicura e innamorata persa di Jude Law, e Matteo (Andrea Bosca) di cui Camilla è cotta a prima vista. Ma il ragazzo si strugge per Giovanna, la ballerina che lo ha scaricato per una coreografa un anno prima. L’emporio ha una buffa clientela di spostati e nerds, i fissati che frequentano luoghi per dare una seconda chance a cianfrusaglie d’epoca. Il racconto ruota intorno all’indebitato e caramellaro Stefano, sua moglie Patrizia (Cecilia Cinardi) e al ritorno in scena di Giovanna, che vuole un figlio e sfarfalla intorno al suo ex, assai lusingato. Regia, scenografie e gli altri reparti tecnici sono di qualità, e diversissime dal tipico teen movie; c’è una Roma non banale, spesso ripresa dall’alto, e con una splendida sequenza girata al Maxxi, il nuovo museo d’arte contemporanea nel quartiere Flaminio, una scelta indovinata, e una colonna sonora non scontata, simpatica e mai sciropposa. Basta la galleria di piccole donne scanzonate, senza le mossette d’ordinanza, per apprezzare lo sguardo d’autore di Luchetti. Le auguriamo fortuna: ha re-immaginato il Young Adult movie, con personaggi atipici e un respiro internazionale. Gigio, il fratello down di Camilla, è un tocco felice; forse si poteva sfruttare meglio, ma trattarlo senza enfasi è una scelta di classe.Vedere per credere, insieme con i vostri ragazzi.
Camera con vista
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rrivo a Hong Kong in treno da Canton, due ore per 135 km, in orario. Sono emozionata, come la prima volta che vidi New York, come quando arrivi finalmente in una città leggendaria, sognata per anni. Le aspettative sono alte, insomma, anche se so perfettamente che vedere Hong Kong nel 2011 non è come averla vista, diciamo, una trentina, anche venti anni fa. Conosco troppo bene l’Oriente e i suoi scempi per farmi illusioni. Sarà rimasto in piedi qualcosa del mito? Così scendo dal treno e m’infilo in un taxi, di quelli rossi e bianchi uguali nel tempo, con la guida a destra che sembra di stare ancora sotto il dominio inglese. E finalmente i tassisti un po’ d’inglese - soltanto un po’- lo parlano e sono gentili, si fanno in quattro per capirti. Non come nella «vera» Cina, dove se non gli mostri subito l’indirizzo scritto in ideogrammi, ti fanno scendere senza complimenti. Il traffico è fuori misura, asfissiante. Ti chiedi come farai a emergerne e intanto, procedendo a passo di lumaca per strade e stradine, ti senti il peso dei grattacieli addosso, la baraonda di gente, scritte, negozi dentro i cinque sensi, tutti e cinque insieme, un inferno. Anche in albergo, una volta chiusa la porta della camera, non è proprio che si tira un sospiro di sollievo. Forse perché l’hotel non è un cinque stelle, la stanza - pur provvista di tutto, dalla Tv al collegamento wifi libero - è piccolissima, una scatoletta panoramica in cima a un grattacielo, in cima a una collina. Non mi piace stare così in alto e, no, non è un’impressione: sono giornate ventose e la stanza oscilla con l’edificio. Un senso si instabilità anche quando dormo si estende, nella mia immaginazione, a tutta la città, ne diviene simbolo e rappresentazione.
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Dunque mi butto subito nel groviglio di vicoli, scalinate, scale mobili, gallerie a vetrata, aeree, per pedoni che attraversano le strade da un edificio all’altro: una ragnatela di scorciatoie in cui è facilissimo perdersi, ma che permette di percorrere la città evitando caos e frastuono. In mezz’ora (compresi gli errori di itinerario) arrivo al porto, allo Star Ferry, e m’imbarco per Kowloon, la parte di Hong Kong sulla terraferma, di fronte all’isola. Perché Hong Kong ha la particolarità di essere due in una: l’isola tutta dislivelli e la piatta Kowloon da cui ti godi lo spettacolo di uno dei più impressionanti skyline del mondo, una silhouette frastagliatissima, colorata, un cityscape molto sorridente. Ma basta questo per far pace con una metropoli iperconsumista dove i camminamenti pedonali non fanno che vomitarti da un centro commerciale all’altro, lussuosi e sterminati? Le griffe più famose del pianeta propongono uno via l’altro negozi che sono appartamenti trasparenti, a volte interi palazzi. Ristoranti semplici o chic (e che costano in genere molto poco)
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ai confini della realtà
Il senso del sacro
e una ciambellina di giada di Sandra Petrignani propongono le cucine di ogni Paese. Decor modernissimi negli interni dei grattacieli, percorsi da ragazze sofisticate e manager frettolosi, fanno da vertiginoso contraltare agli esterni vecchiotti, zeppi di mercatini, in cui oziano e trafficano cinesi di stampo tradizionale, quelli che nei parchi ancora praticano con lentezza ipnotica il Tai-chi Chuan. Sul traghetto per Kowloon l’atmosfera, invece, è familiare. Sarà il mare, l’ondeggiare tranquillo della barca, il cigolio del legno, i gesti antichi dei marinai: il lancio preciso della fune all’attracco, lo sferragliare della grata che si apre per permettere ai passeggeri di scendere. Non vedo
do a camminare. Purtroppo la traversata dura poco anche in traghetto, ma io ci torno e ci ritorno. Mi dirigo all’incrocio fra Salisbury e Nathan road dove sorge l’albergo più antico e fascinoso di tutta Hong Kong, il Peninsula, che mi ricorda il Taj Mahal Hotel di Bombay con i suoi ambienti coloniali, i marmi, la ricchezza ovattata. Naturalmente anche qui, nei sotterranei dell’Arcade, non si sfugge allo shopping: un centinaio di negozi, soprattutto gioiellerie, offrono abbaglianti souvenir per generosi nababbi e signore che vendono care le loro prestazioni. Quando un giorno mi spingo fino al lontano Jade Market, mi commuovo di tene-
Sì, l’abbiamo vista al cinema e in cartolina, ma la Hong Kong dalle mille luci che saetta i suoi alti palazzi dall’acqua al cielo nel buio della notte è la visione più clamorosa che una città moderna, eppure antica, possa offrire. Una nuova, sorprendente epifania… i manager incravattati e le bellissime in minigonna. Forse non usano il traghetto. Per andare a Kowloon scelgono i tunnel che attraversano lo stretto sottacqua, dove finalmente le macchine possono sfrecciare nella superstrada a più corsie. Oppure vanno in motoscafo e passano da una riva all’altra in un soffio. I giovani a Hong Kong hanno sempre fretta, se chiedi un’indicazione, te la danno continuan-
rezza per le affollate bancarelle da cui la modernità è distante come la terra dal sole, stracolme di giade forse vere, forse finte, riconoscibili solo agli intenditori. Finirò per comprarmi una ciambellina verde infilata in un cordoncino rosso, che mi convinco essere giada e non vetro, dato il prezzo, e dovrà portarmi fortuna. Una sera, con la mia giada al collo, prendo il tranvetto antidiluviano, tutto scricchiolii
di legno fine Ottocento, e salgo al Victoria Peak. Mi aspetto di vedere quello che ho già visto mille volte in fotografia: uno spettacolare panorama dall’alto della foresta di grattacieli illuminati, piantati fitti dalla collina alla baia, uno diverso dall’altro. La forma minacciosa dei paesaggi alla Blade Runner.
Ritengo di conoscere abbastanza Americhe del Nord e del Sud e tanti Orienti lanciati verso sciagurate speculazioni edilizie per non farmi meravigliare più di tanto. Invece l’emozione mi sorprende prima di arrivare in vetta. Mi taglia il respiro. La cremagliera sfrigola e sale. Il treno passa stretto dentro pareti di edifici altissimi che ci guardi dentro, nelle finestre. Vedi la vita della gente dentro gli appartamenti, dentro i grattacieli che sembrano pioverci addosso vicinissimi. Li vedi, dalla posizione in arrampicamento del trenino, come fossero piantati storti sulle fondamenta e in procinto di crollare, come replicanti torri di Pisa giganti, troppo inclinate e in bilico. Sbarchiamo, io e gli altri passeggeri, instabili sulle ginocchia. Stentiamo a riprendere la normale posizione verticale. E ancora non sappiamo cosa ci aspetta. Sì, uno l’ha vista al cinema e in cartolina, ma la Hong Kong dalle mille luci che saetta i suoi alti palazzi dall’acqua al cielo nel buio della notte, nel silenzio del Picco con le sue terrazzette fra gli alberi, i suoi bisbigli, i canti di misteriosi usignoli (veri, registrati?), è la visione più clamorosa che una città moderna, eppure già antica nella sua modernità, possa offrire, l’indicibile epifania di un nuovo senso del sacro.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Federalismo: aumenteranno le tasse. Tremonti novello Badoglio LA CRISI DEL CETO MEDIO (II PARTE) Per inquadrare la personalità del ceto medio ricorriamo ad una metafora prendendo in prestito il giudizio che Albert Hirschman ha del conducente di un’auto bloccata in un ingorgo; egli sa, spera, vedendo le prime auto in testa all’ingorgo muoversi, che tra breve, da un momento all’altro, potrà venire il suo turno, ricevendone una sensazione di incoraggiamento nel pazientare ancora. È l’attesa, lo spazio di tempo apparentemente vuoto, che segnala il punto vulnerabile del carattere del ceto medio, intempestivo a muoversi e speranzoso nelle decisioni altrui. Coloro che, in questi ultimi tempi, stanno studiando la condizione del ceto medio su vasta scala, sono Paul Ginsborg e Zygmunt Bauman, illustri economisti. Entrambi, con una forte dose di pessimismo, recitano il de profundis del ceto medio. Lo fanno con argomentazioni decise che teorizzano il livello d’incomunicabilità delle sue componenti principali, accelerato anche da chi, politicamente, non ha interesse a vedere unito “un gruppo sociale” che da solo, se lo capisse e volesse, sarebbe in grado di cambiare la storia nel nostro Paese. Paul Ginsborg ne La scomparsa del ceto medio asserisce che, in questi ultimi 15 anni, il ceto medio si è diviso in due mondi, piuttosto diversi l’uno dall’ altro: un ceto medio, capace di bridging (la capacità di costruire ponti con altre categorie sociali basate sul lavoro dipendente); un ceto medio, tendente al bonding (la tendenza a rafforzare i legami interni a uno specifico gruppo prevalentemente dedito al lavoro autonomo). Ne rinviene un quadro sociale sfaldato in cui è facile fare invasioni di campo promettendo - cosa che sta facendo il governo Berlusconi - ad uno (bridging) agevolazioni fiscali, condoni edilizi, la depenalizzazione sostanziale del falso in bilancio; all’altro (bonding) lo smantellamento della scuola pubblica, gli stipendi in calo verticale in termine di potere d’acquisto, il degrado senza fine delle grandi istituzioni culturali. Zygmunt Bauman, nel suo libro Consumo, dunque sono, teorizza la liquescenza del ceto medio, un processo di marginalizzazione di una classe sociale, opportunista ed eternamente in conflitto con se stessa. Bauman parte dalla constatazione, in base a valutazioni di mercato, che il sistema economico attualmente è “bipolare” ed è rappresentato da due estremi sociali: i poveri e i ricchi, nei quali confluiscono, in una parte, coloro che sono afflitti da emergenze di tutti i giorni, nell’altra, coloro che godono di una situazione di assoluto benessere. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE “…VERSO IL PARTITO DELLA NAZIONE” SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Con il federalismo aumenteranno le tasse. Il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si sta comportando come il maresciallo Pietro Badoglio quando emanò il proclama dell’armistizio dell’8 settembre e dichiarò che le truppe italiane potevano reagire ad eventuali attacchi di qualunque provenienza, senza però attaccare di propria iniziativa.Vale a dire che le truppe tedesche si potevano prendere l’Italia, come è successo. Ci riferiamo all’addizionale Irpef che i comuni potranno, non dovranno, decidere di aumentare. Cosa faranno i comuni in perenne caccia di soldi? Aumenteranno le addizionali! I sindaci si prenderanno così i nostri soldi, cioè i cittadini pagheranno più tasse. Questo sarà l’effetto immediato del federalismo. Insomma una bella furbata come è nel costume italiota.
Paolo Cremona
MERCATO TV “SENZA REGOLE” Che a decidere le sorti del mercato tv in Italia, dopo che anche l’Europa si è detta favorevole all’ingresso di nuovi soggetti televisivi, sia l’unica azienda privata interessata a mantenere il proprio status di monopolista insieme alla tv di Stato è indice di sistema malato dove sono saltate tutte le regole del gioco.
Liliana Cantone
NESSUN OSTELLO PER I GIOVANI A ROMA L’ostello della gioventù di Roma non esiste più: la sede storica della catena internazionale degli ostelli della gioventù fino ad ora nella foresteria sud, progettata da Enrico del Debbio al Foro Italico, ha chiuso per sempre i battenti, lasciando la Capitale senza alcun luogo di accoglienza “low coast”per i giovani. È una sconfitta per la città di Roma, che non è stata in grado di opporsi allo sfratto voluto dal Coni dello storico ostello. È una sconfitta per i tanti illustri intellettuali, politici, associazioni e cittadini che hanno aderito ad appelli, iniziative e dibattiti per la salvaguardia dell’unico ostello della gioventù di Roma. È una sconfitta dolorosa per i dipendenti dell’ostello che hanno perso il posto di lavoro. Ma soprattutto è una sconfitta per tutto il turismo giovanile nazionale e internazionale.
Lettera firmata
cittadini della polis democratica, in vista della realizzazione del bene comune. Il cuore della questione sociale è soprattutto l’educazione. La questione educativa è conditio sine qua non per un rinnovamento sostanziale della vita socio-politica. Il mondo cattolico ha una grande responsabilità in ciò, ma anche vaste potenzialità e risorse. È necessario riscoprire una metodologia di base. Quale? Credo che la riflessione sulla dottrina sociale della Chiesa debba vedere come protagonisti gruppi di laici che si riuniscono periodicamente per un suo approfondimento, nelle associazioni, nei movimenti, nei quartieri, ovunque. Dai princìpi, propri di tutte le dottrine, poi bisogna passare alla declinazione operativa, al confronto con la varietà dei problemi della vita quotidiana, fatta sotto la propria responsabilità individuale o come gruppo. Poi, dopo la fase formativa, passare alla fase informativa. Comunicare pubblicamente la propria posizione, con il proprio nome e cognome, metterci cioè “la faccia”, e preparare così il consenso in vista di una possibile candidatura che necessariamente deve essere fatta attraverso un partito politico in una campagna elettorale. Ai partiti, a questo punto, la grave responsabilità di dare spazio e candidature a coloro che, dalla società e nella politica, intendono portare un rinnovamento ormai non più ulteriormente procrastinabile.
Glauco Santi
RINNOVAMENTO E PARTECIPAZIONE Oggi è urgente un rinnovamento nella sostanza, oltre che nella forma, perché possa essere riscoperto il gusto della partecipazione popolare per essere protagonisti, come
IL PDL STRUMENTALIZZA LE DIMISSIONI FINI Tutti gli italiani, anche quelli più sprovveduti, hanno capito che il tema delle dimis-
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
Spaghetti, pollo e... locuste WAGENINGEN. Mangiare insetti per salvare il Pianeta? È la tesi di un ricercatore olandese: introdurre formiche, cavallette, farfalle e grilli nell’alimentazione contribuirebbe seriamente a ridurre i gas serra derivanti dall’allevamento di bestiame. Calcolando, infatti, la quantità di gas serra (nel caso specifico metano e ossido di azoto) prodotta dalle cinque specie diverse di insetti e comparandola a quella di bovini e suini, il ricercatore ha dimostrato che gli insetti inquinano, al chilo, circa il 99 per cento in meno dei ruminanti e almeno la metà dei suini. Un bel risparmio, soprattutto considerando che l’industria della carne bovina e suina è colpevole di circa il 18 per cento delle emissioni globali di CO2 (e quindi concausa del cambiamento climatico). Anche se lo studio non tiene conto dell’intero ciclo produttivo necessario per la grande distribuzione, in linea di principio la carne di insetto ha tutte le carte in regola per sostituire quella bovina nella futura società sostenibile. Un solo dubbio resta: siamo davvero sicuri di preferire una manciata di locuste a una succosa fiorentina?
sioni di Fini e della casa di Montecarlo è sollevato strumentalmente dal Pdl per mischiare le carte e confondere le idee. Il presidente della Camera risponderà alla magistratura come è giusto, e il Premier?
Mario Della Ragione
FERMARE IL BOOM DEMOGRAFICO E L’INVASIONE CLANDESTINA Dalla natura abbiamo risorse limitate, avversità e calamità. Il continuo boom demografico mondiale inasprisce la lotta per la sopravvivenza: riduce lo spazio vitale e le risorse disponibili per ciascuno. La ragione deve controllare l’istinto sessuale e le nascite, onde evitare di degradare la Terra in un termitaio sofferente, per riduzione dell’affabilità, nonché aggravamento di penuria, disoccupazione, inquinamento, conflitti e crimini. Le migrazioni accendono tensioni ed eventuali tumulti fra etnie dai diversi costumi. L’invasione clandestina va fermata soprattutto dall’Italia, già angustiata per sovrappopolazione, crisi, disoccupazione, ristagno, fiscalismo, inflazione e difficoltà dello Stato assistenzialista e superindebitato.
Gianfranco Nìbale
CANNELLA, VIN BRULÉ E DOLCI. ATTENZIONE AL FEGATO!
Sfida intorno a un palo La pole dance è una gara di agilità, una disciplina ginnica vera e propria, che si avvale di pali come la lap dance, ma in cui ad emergere sono le qualità atletiche delle concorrenti, per regolamento molto più “vestite”. Nella foto, una giovane pole dancer di Buenos Aires si prepara per le selezioni di Miss Pole Dancing Southamerica
Siamo in pieno periodo invernale e una serata con vin brulé riscalda e mette allegria. Chi ha problemi al fegato, però, dovrebbe astenersi dal bere vin brulé e dall’uso di prodotti, come i dolci, alla cannella. Il problema sono le cumarine contenute nella cannella: possono nuocere alle cellule epatiche, cioè al fegato. In naturopatia, le cumarine vengono sfruttate soprattutto come antiartritici sotto forma di impacchi di fieno. In commercio esistono due varietà di cannella: la cannella Cassia e la Ceylon. La prima è usata prevalentemente per la produzione di dolci industriali e contiene un’alta concentrazione di cumarine, la seconda, utilizzata comunemente in cucina, non pone alcun problema a livello sanitario.
Primo Mastrantoni
mondo
pagina 26 • 29 gennaio 2011
A sinistra, scontri al Cairo. Nella pagina a fianco, manifestanti in Tunisia. In basso, Mohamed El Baradei, che dopo essere tornato in patria giovedì è già diventato leader dell’opposizione. L’ex direttore dell’Aiea, nonché premio Nobel per la pace, ieri si è unito a centinaia di fedeli raccogliendosi in preghiera in una moschea del popolare quartiere di Giza, dove sorgono le Piramidi e la Sfinge. All’uscita, però, è stato bloccato dalla polizia, che gli ha impedito di allontanarsi dalla zona
Le rivoluzioni arabe viste da Marc Lynch, direttore del blog sul medioriente di Foreign Policy, professore alla Georgetown e consigliere di Obama
L’Europa alzi la voce
La Casa Bianca ha sostenuto i manifestanti. Senza ingerenze ma con intelligenza. Perché il Vecchio Continente tace? a parola fine sulla rivolta tunisina non è ancora stata scritta. Non sappiamo se la cosiddetta rivoluzione dei gelsomini produrrà dei cambiamenti fondamentali o si fermerà a un deciso restyling. Ma buona parte della comunità politica si sta muovendo, domandandosi se le proteste tunisine potranno ripetersi (con successo?) anche nei paesi arabi, Egitto in testa (come testiominiano gli scontri di questi ultimi giorni) ma anche la Giordania, loYemen, l’Algeria, la Libia e praticamente ogni paese dell’area. Io sono fra gli scettici, lo dico subito. Ma certo sono rimasto colpito dalla virulenza degli incidenti in Egitto e delle posizioni dei manifestanti che, fino a due giorni fa, sono riuscito a seguire su Twitter. Un altro mondo è possibile.
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È questo che pensano e sperano le giovani generazioni egiziane, e questa speranza, agli occhi dei leader dei paesi arabi, è un virus pericolosissimo, capace di dare una forza straordinaria ai movimenti di protesta. Ci sono ottimi motivi per ritenere che la maggior parte dei regimi interessati (almeno potenzialmente) rimarranno in piedi. Ma non dobbiamo sottovalutare e ignorare l’incredibile ener-
di Marc Lynch gia che sta circolando in Nordafrica e Medioriente. Un’energia capace di sorprendere parecchi dittatori. Le tesi degli scettici sono solide. Senza scadere nell’ovvio, è chiaro però che ogni paese arabo è un caso a sé. Con storia, cultura, economia, demografia e geografia urbana punto differente. Le decine di articoli apparsi sulla Tunisia robusta middle class, alto livello di istruzione, geograficamente piccola, legata all’Europa da interessi commerciali e immigrazione, esposta alla crisi finanziaria, geostrategicamente poco interessante - lo dimostra-
tovalutare. Le immagini degli scontri hanno sicuramente colpito l’opinione pubblica occidentale ma molto meno quelle del Cairo, abituato alle proteste di massa pro-palestinesi, anti gurerra in Iraq, del movimento Kefaya, dell’organizzazione 6 aprile, dei giudici e degli avvocati, dei sindacati. Il problema, per i governi in carica, è solo in termini di scala numerica. Niente altro. E questo è speculare per molti altri Paesi arabi.
I dittatori imparano l’uno dall’altro, non solo dal passato. Il summit arabo della scorsa
Le proteste non sono dirette dall’opposizione, non sono organizzate dai partiti e non sono protese a un’alternativa politica. Ecco perché la transizione democratica è a rischio no. Ma c’è una particolarità che unisce le leadership arabe: quando si tratta della propria sopravvivenza sono pronte ad adeguarsi, accettano la sfida e la girano a proprio favore. Egitto e Giordania sono almeno dieci anni che gestiscono le rivolte e la loro esperienza su come sedare (spesso reprimere) la folla è molto articolata e da non sot-
settimana lo ha mostrato molto chiaramente. Ogni leader arabo è in stato d’allerta, ben deciso a non ripetere gli errori di Ben Ali. Freneticamente, tutti stanno facendo larghe concessioni ai loro popoli, in termini economici, di decremento dei prezzi e di aumento dei beni di prima necessità. E naturalmente, in contemporanea, hanno
dato un bel giro di vite alla libertà di espressione e ai canali internet e televisivi. Last but not least, hanno rinsaldato i ranghi militari e aumentato il controllo pubblico per evitare che la patata bollente finisca con l’ustionarli. A ben guardare, la lezione che hanno imparato da queste poche settimane, non è stata quella di dare “maggiore democrazia” ma di “essere più duri”. Nessun leader arabo sembra essere preso di sorpresa o dare segni di crollo imminente. E il successo delle manifestazioni egiziane non pregiudica che presto potrebbero essere soffocate con la forza (ieri lo abbiamo visto). E poi, ovviamente, c’è tutto il coté internazionale. Mentre la Tunisia, infatti, è un attore relativamente insignificante sullo scacchiere sia internazionale che mediorientale (non è praticamente coinvolto sui temi scottanti dell’area: processo di pace, Iran, Iraq e petrolio), altri “pezzi del domino” sono fondamentali e possono contare sul supporto - più o meno velato, ma comunque supporto - dei realisti.Tanto per fare un esempio: molti di questi regimi autoritari sono le fondamenta dell’ordine regionale che interessa
gli Stati Uniti. E fino ad oggi, infatti, al di là delle dichiarazioni a favore dei processi democratici, nessuna voce si è alzata per sconfessare questo o quel regime. Il motivo è presto detto: l’America non vuole soffiare sul fuoco e offrire linfa al popolo della protesta.Tuttavia, nessuno può essere certo sul futuro. Le immagini che arrivano dal Cairo non sono rassicuranti. Eppure Mubarak non è stato colto di sorpresa, anzi. Ma la Tunisia ha manifestatamene ispirato le folle a sollevarsi in tutta la regione e galvanizzato le speranze di migliaia di persone, pronte a scendere in piazza senza alcuna chiara ledership politica o religiosa. L’esempio tunisino ha offerto un sogno, quello di potercela fare. Al Jazeera e i nuovi media lo hanno amplificato e portato in tutte le case, ma è il popolo ad aver scelto di scendere in piazza.
Quello stesso popolo fino a ieri considerato fiero ma dalla voce flebile, addirittura debole. Quello stesso popolo che i governanti hanno continuato a vessare, frustrare e lasciare senza lavoro. Le proteste non sono dirette dall’opposizione, non sono organizzate da partiti politici e non sono protese a un’alternativa politica. Ecco
mondo
29 gennaio 2011 • pagina 27
Esplode la protesta nel Paese e il raís schiera l’esercito
La rabbia di un popolo il pugno di ferro di Mubarak La polizia spara sulla folla: molte vittime e decine di fermi. Arrestato El Baradei. Indetto il coprifuoco di Luisa Arezzo li oppositori del presidente Hosni Mubarak lo avevano denominato il Venerdì della Collera e i fatti hanno confermato che non si trattava soltanto di uno slogan: ieri, in tutto l’Egitto la rabbia popolare è esplosa come mai prima d’ora al grido di «Basta Mubarak». Ma il vecchio raiss non ci sta e come era prevedibile decide di schierare le unità militari per le strade, fermare e poi arrestare El Baradei - tornato in patria giovedì e subito assurto a ruolo di capo popolo - e usare il pugno di ferro. Contro i manifestanti - almeno 4 morti (10 secondo fonti locali), decine di feriti e oltre 400 arresti è il bilancio provvisorio degli scontri che ieri hanno messo a ferro e fuoco sia il Cairo che altre città del Paese, da Alessandria a Suez, tanto da far imporre il coprifuoco a tutto il paese e contro i giornalisti e tutti i mezzi di informazione.
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Che la giornata fosse destinata a segnare una svolta si era capito fin dalle prime ore del mattino. Telefonini fuori uso, servizi internet a singhiozzo e interruzione delle linee di telefonia fissa avevano ottenuto il risultato di surriscaldare gli animi ancor prima della preghiera del venerdì. Così come le migliaia di poliziotti schierati ovunque e in assetto antisommossa, le strade quasi deserte e la maggior parte dei negozi chiusi. Agenti anche davanti alla moschea (ma soprattutto dietro le finestre e sui tetti delle case di fronte) dove El Baradei era andato a pregare e dove è stato fermato all’uscita per impedirgli di partecipare ai cortei. Il silenzio - surreale secondo i testimoni - dura soltanto un’ora: da mezzogiorno all’una. Poi la gente comincia ad uscire dalle moschee e come previsto scoppia la rabbia e la protesta. Le manifestazioni si diffondono in diverse parti del Cairo e del paese, tutte le città sono completamente blindate, «Mubarak no, Mubarak no» gridano le persone scese in piazza. È un coro che dilaga. La gente assalta le telecamere, vuole parlare al mondo, inviare il suo messaggio anti regime. E a quel punto interviene la polizia, che impedisce di riprendere le immagini degli scontri. Diversi giornalsiti e operatori vengono fermati, le telecamere sono sequestrate, 4 reporter francesi della tv qatariota Al Jazeera vengono arrestati e rilasciati solo dopo l’imposizione del coprifuoco. Scatta il divieto di intervistare i manifestanti. Che vogliono dire una cosa sola: il regime deve finire, Mubarak (e suo figlio Gamal) se ne deve andare. Ma il regime si sente forte e sceglie il pugno di ferro. La polizia spara, prima i lacrimogeni poi i proiettili di gomma, infi-
ne i colpi d’arma da fuoco. Almeno due persone restano uccise al Cairo, una è una donna, falcidiata da una raffica nella centralissima piazza Tahrir. Ma la protesta continua, alcuni giornalisti dicono che la folla ha preso il controllo della città di Suez.
Pochi minuti dopo alla polizia si affianca l’esercito: Mubarak ha dato l’ordine ai militari di riprendere il controllo della situazione, ma passerranno alcune ore prima che la notizia divenga ufficiale. E il terzo manifestante resta ucciso nelle strade di Suez. Poi è la volta di Alessandria, dove muore una quarta persona. Infine la conta delle vittime diventa meno particolareggiata ma comunque inesorabile. La tv di stato egiziana annuncia il coprifuoco al Cairo, Alessandria e a Suez fra le 18 e le 7 del mattino, ora egiziana, un’ora in più rispetto all’Italia. Intanto dopo un’infinito rimpallo di notizie sulla sorte di El Baradei (fermato, no arrestato) arriva una conferma governativa: l’ex direttore dell’Aiea e premio Nobel per la pace è stato posto agli arresti domiciliari. Sua madre fa sapere che sta bene. I dimostranti a quel punto insorgono, cominciando a scagliare sassi e immondizia contro i poliziotti e a tempestare di pugni i manifesti con l’effigie del leader egiziano.
Black out di telefoni, internet e tv. Ma l’Egitto non piomba nel silenzio. Oscurata Al Jazeera, per il regime braccio mediatico della rivolta
«Abbasso Mubarak! Basta con la corruzione!», sono le grida che si susseguono da un angolo all’altro del Paese. Molti inveiscono anche contro il 47enne figlio del Rais, Gamal, suo delfino e successore designato. «Mubarak, l’aereo ti aspetta!», urlano altri, alludendo alla fuga precipitosa dalla Tunisia cui due settimane fa era stato costretto l’ex presidente Zine al-Abidine Ben Ali. Ayman Nour, uno dei principali dissidenti, già sfidante di Mubarak alle presidenziali del 2005, viene aggredito e preso a bastonate. Adesso è nel reparto di terapia intensiva dell’ospedale del Cairo. Piantonato a vista. Angela Merkel è l’unico leader europeo a intervenire a scontro ancora in corso: «L’Egitto soffre di una serie di carenze strutturali e sono necessarie riforme politiche, economiche e contro la povertà». Un commento cauto, ma almeno un commento in presa diretta. Così come quello di Hillary Clinton. Poi il coprifuoco entra in vigore, ma la gente non si ferma. Mubarak ha scelto la strada della repressione, ma non ha evitato il messaggio che molti egiziani volevano recapitargli: «vattene». «Devi lasciare il governo». O il paese. Magari su un aereo, come Ben Ali.
perché, anche se i regimi dovessero cedere, è troppo presto per dire che ci si stia avviando verso una transizione democratica.
Due osservazioni finali. La prima è che non dobbiamo avere paura che i fondamentalisti islamici si approprino della rivoluzione. Quantomeno non in Tunisia. Che è più allertata di tutti noi occidentali messi assieme su questa possibilità. Non dimentichiamoci, infatti, che il partito islamico tunisino al-Nahda è stato praticamente distrutto da Ben Ali. Altra questione è l’Egitto, dove i Fratelli musulmani hanno ancora un potere reale e possono assolutamente cavalcare la rivolta per trarne i maggiori benefici possibili. Due in testa: affossare i rapporti con Israele e gli Usa. E qui arriviamo alla seconda
la Casa Bianca ha preso una posizione molto efficace sull’Egitto: «Noi sosteniamo i diritti universali del popolo egiziano, inclusi i diritti di libertà d’espressione, associazione e assemblea. Il governo egiziano ha la grande opportunità di poter aprire alle aspirazioni del suo popolo e avviare una serie di riforme politiche e sociali in grado di migliorare le condizioni di vita dei suoi cittadini e far prosperare l’Egitto. Gli Stati Uniti sono pronti a lavorare con l’Egitto e il popolo egiziano nel raggiungimento delle loro aspirazioni».
Obama ha fatto bene in passato a non cedere alla tentazione di rilasciare vuote dichiarazioni sull’Egitto o la democrazia nel mondo arabo, dichiarazioni che lo avrebbero reso ipocrita e impotente. E l’Ammini-
I dittatori imparano l’uno dall’altro, non solo dal passato. Il summit arabo della scorsa settimana lo ha dimostrato. Ogni leader regionale è in stato d’allerta, deciso a non ripetere gli errori di Ben Ali osservazione: Barack Obama in questo primo stralcio di 2011 si è mosso benissimo. Ha avuto assolutamente ragione a resistere alla tentazione di riconoscere o supportare la primavera dei gelsomini in Tunisia. Ha avuto assolutamente ragione a non affibbiare il marchio “riconosciuto dagli Usa” a qualcosa che non lo era affatto. Anche perché io sospetto fortemente che ci sia più di una mano che abbia lavorato dietro le quinte della caduta di Ben Ali. Il dipartimento di Stato e la Casa Bianca hanno diffuso una serie di comunicati a favore del popolo tunisino e lo stesso Obama ne ha fatto cenno nel suo discorso sullo Stato dell’Unione. Di più:
strazione ha fatto bene a focalizzarsi - come ho suggerito più volte - non sulla democrazia ma sulla società civile, sul diritto alle libertà (di parola, trasparenza, economia, assemblea). Ma adesso la situazione sta mutando, le potenzialità che si arrivi a un cambiamento ci sono tutte ed è giunta l’ora per l’Amministrazione di fare la differenza. A dispetto di tutti i critici che hanno sempre affossato la spinta democratica di Obama, la Casa Bianca in queste settimane ha di fatto sostenuto e monitorato le proteste nel mondo arabo. E forse sarebbe il caso che non venisse lasciata sola. Sarebbe il caso che qualche altra voce si facesse sentire.
quadrante
pagina 28 • 29 gennaio 2011
Nelson Mandela torna a casa
Kabul, kamikaze nel mercato straniero
JOHANNESBURG. Mandela torna a casa. Dopo aver tenuto per 36 ore il Sudafrica (e non solo) col fiato sospeso a causa di un ricovero d’urgenza per problemi respiratori, l’ex presidente sudafricano ieri è stato dimesso per essere curato a domicilio. A far temere il peggio erano state le lacrime della sua ex moglie, Winnie Mandela, che dopo esserlo andata a trovare in ospedale era uscita assieme alla loro figlia piangendo. Mandela, 92 anni, «soffre di malattie comuni per le persone della sua età, per le quali è stato prescritto un regime di cure - ha precisato il primario del nosocomio -. Certo, non avrà completa autonomia, ma sta bene». Mandela si è ritirato dalla vita politica nel 2001.
KABUL. Almeno otto persone, tra le quali tre stranieri, hanno perso la vita e altre sei sono rimaste ferite in un attentato suicida a un supermercato di Kabul frequentato da cittadini stranieri nel quartiere delle ambasciate. Il bilancio delle vittime è stato fornito dal capo della polizia, Mohammed Ayub Salangi. La responsabilità dell’attacco è stata rivendicata dai talebani che hanno esplicitato l’intenzione di colpire gli stranieri e, in particolare, gli addetti della società di vigilanza Usa Xe, la ex Blackwater. Emergency, nella cui struttura sanitaria sono stati portati i feriti, ha reso noto che prima di farsi esplodere l’attentatore ha sparato all’impazzata contro i clienti.
I belgi scappano in Lussemburgo? BRUXELLES. In fuga dalla crisi economica ma anche da quella politica. Così in Belgio centinaia di cittadini hanno già presentato la richiesta per ottenere anche il passaporto del vicino Lussemburgo. Le cronache locali parlano di migliaia di belgi, quasi tutti nel sud-est del Paese, che hanno letteralmente preso d’assalto gli uffici comunali per richiedere l’estratto di nascita. L’unico requisito richiesto dalla nuova legge lussemburghese sulla cittadinanza, varata nel 2009, è quello di provare la propria discendenza da cittadini del Granducato. Una cosa molto diffusa nel sud del Belgio, soprattutto nella provincia del Lussemburgo belga. Il fuggi fuggi è provocato dall’incertezza sul futuro - politico e geografico - del Paese.
In migliaia hanno invaso con fiori e candele la capitale. Edi Rama, sindaco di Tirana e leader dell’opposizione, aveva garantito una manifestazione pacifica
In silenzio contro Berisha
Gli albanesi in piazza per ricordare i morti degli ultimi scontri di Pierre Chiartano iornata tesa a Tirana, con ventimila persone che hanno invaso silenziosamente la capitale. Il partito socialista di Edi Rama, sindaco della capitale albanese e leader dell’opposizione, aveva assicurato che non ci sarebbero stati disordini «salvo infiltrati» alla manifestazione prevista per ieri alle 14.00 nella capitale. E così è cominciata la manifestazione. In migliaia erano arrivati in piazza Skanderbeg per ricordare le tre vittime di venerdì scorso quando, durante un corteo, sempre dell’opposizione socialista, furono raggiunte da colpi di arma da fuoco nei pressi della presidenza del Consiglio. Le immagini dell’episodio cruento avevano fatto il giro del mondo. La situazione è apparsa tranquilla e quasi irreale, in un silenzio totale, non si vedevano bandiere, ma solo candele e fiori. Dopo pochi minuti il corteo si è mosso per dirigersi verso la presidenza del Consiglio che, così come la presidenza della Repubblica, era presidiato dai reparti speciali della Polizia (Renea) mentre non si notavano militari della Guardia repubblicana ritenuta responsabile della morte dei tre manifestanti. Anche l’ambasciata americana è rimasta chiusa tutto il giorno. Ieri mattina il premier Berisha aveva ribadito le accuse di tentativo di golpe nei confronti dei socialisti di Rama.
Il governo di Berisha da un lato incassa il plauso della World Bank e la buona classifica per le libertà economiche della Heritage Foundation, dall’altra è sotto accusa per la corruzione dilagante e l’economia che vede ridurre esportazioni, rimesse dall’estero e investimenti. Con i prezzi in netta salita
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Ormai è scontro aperto tra il premier, che aveva organizzato una contromanifestazione per oggi, poi annullata e il sindaco della capitale. Rama è noto per aver trasformato il centro di Tirana in un luogo quasi gradevole, con edifici colorati, senza più quelle enormi buche caratteristica di molte strade albanesi e con un fiume che attraversa il centro cittadino - una fogna a cielo aperto - le cui sponde il sindaco ha cercato di ingentilire con alberi e giardini. L’Albania è infatti un Paese di contraddizioni. Un aeroporto dedicato a Madre Teresa di Calcutta, modernissimo, una superstrada verso la capitale costellata di zone indu-
striali e commerciali. E un Paese rurale arretrato e medievale, diviso dalla linea di Costantino, un confine immaginario tra zona a prevalenza cristiana e area a maggior presenza musulmana. Tirana è una città cosmopolita, il resto del Paese ha ancora bisogno di buone strade e servizi base. Ci sono tante banche, molte in odore di riciclaggio, tanti affari, ma un modo di gestirli a dir poco discutibile. Si guarda alla Germania e agli Usa, ma ci si muove come in un suk mediorientale dell’economia. Rama per anni è stato alfiere della lotta alla corruzione e Berisha lo ritiene l’istigatore del rifiuto della Ue nel 2009, all’ingresso dell’Albania nella Comunità europea. Un no avvenuto sull’onda di sospetti brogli elet-
torali nelle elezioni vinte da Berisha. Ma gli albanesi oggi non fanno più tante distinzioni di partiti, rispetto alla corruzione, ammesso che sia solo quello il discrimine.
Il palazzo è preso di mira per una crisi che ora morde, nonostante i numeri dell’economia abbiano soddisfatto la Banca mondiale. Nei giorni scorsi, infatti, il premier albanese aveva incontrato il direttore della Banca mondiale Ngosi Okonjo-Iweala, scelta da Robert Zoellick. In vent’anni di attività in Albania la Bm ha sviluppato progetti, per un ammontare complessivo di circa 1,5 miliardi di dollari. Il governo di Berisha ha ridotto le tasse sui profitti dal 20 al 10 per
cento (per frenare la fuga di capitali), sui redditi personali dal 23 al 10 e sui contributi pensionistici dal 32 al 15 per cento. Tanti numeri che evidentemente, in tempi di crisi, vogliono dire ben poco, soprattutto se i prezzi dei generi alimentari schizzano verso l’alto. Per giunta il governo di Tirana aveva incassato anche il bollino blu della buona amministrazione. La Banca mondiale ha infatti evidenziato come l´Albania sia stata tra i Paesi che hanno meglio affrontato l’impatto della crisi globale, raggiungendo una crescita del 3 per cento nel 2010 - in precedenza aveva raggiunto pil da 6 per cento - sottolineando però la necessità di migliorare la propria competitività. Insomma, la situazione in Al-
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Amaro record per la Turchia: prima a violare i diritti umani in Europa
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
ISTANBUL. La Turchia è il paese dove i dirtti umani vengono violati più di ogni altro in Europa. In un rapporto annuale che monitora il loro mancato rispetto in Europa, ancora una volta il Paese della Mezzaluna è il peggiore, seguito dalla Russia. I dati statistici riguardanti le violazioni della Convenzione europea dei diritti umani, firmata da 47 paesi, vedono la Turchia ancora agli stessi livelli del 2009, con una percentuale del 18,55% su tutte le violazioni riscontrate dal Tribunale, seguita dalla Russia con il 14,48% e Romania con il 9,54%. La violazione più frequente della Turchia è quella dell’articolo 6 della Convenzione che riguarda il diritto a un giusto processo (42 casi di violazione) e le lunghe procedure (83 casi). Segue poi l’inosservanza dell’articolo 5, riguardante la libertà e la sicurezza. Si tratta in gran parte di casi istituiti negli anni Novanta nei confronti di militanti del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kur-
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
distan, che dal 1984 lotta per la creazione di uno stato indipendente curdo. Ankara cede a Mosca il primato dei procedimenti pendenti. La Russia ha il 28,9% dei reclami in sospeso, la Turchia si piazza al secondo posto, con 139.650 pratiche, ossia il 10,9%. Terza, sempre la Romania, con l’8,6%. L’unica buona notizia per la Turchia è che il paese della Mezzaluna è quello che detiene meno ricorsi alla Corte per abitanti, con 0.8 ricorsi ogni 10mila persone.
Foto grande, manifestanti depongono candele. Qui sotto da sinistra, Edi Rama, Sali Berisha e Robert Zoellick
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
bania è piuttosto complessa, da un lato, la politica economica ha regolato i conti della crisi, ma la gente è scesa in piazza comunque. Girano meno soldi, perché le esportazioni sono in calo, ci sono meno rimesse dall’estero e i capitali hanno cominciato a fare le valigie.
È chiaro dunque che tra certi numeri e realtà ci sia un conflitto. Stando ai dati dell’indice annuale della libertà economica, pubblicata dalla Heritage Foundation, l’Albania avrebbe visto un miglioramento come 53esimo Paese per libertà economica con 66 punti, il 2,3 per cento in più rispetto al 2009. Ma dice anche che il diritto di proprietà è scarsa-
Il corteo è passato da piazza Skanderbeg alla presidenza del Consiglio presidiata dai reparti speciali della Polizia mente garantito e la burocrazia un peso morto. Ma non svela che in un Paese appena sopra la soglia di povertà, anche una piccola crisi morde sul quotidiano, tocca la sopravvivenza. Tutti speravano che non si sarebbe ripetuto quanto accaduto venerdì scorso, quando 20mila persone si erano scontrate con la polizia e tre manifestanti erano stati uccisi dai miliziani della guardia repubblicana.
La stessa polizia ieri aveva messo le mani avanti: «Basandoci sulle informazioni in nostro possesso, nonostante le misure da noi previste, lo svolgimento della manifestazione rappresenta un pericolo per la sicurezza nazionale e l’ordine pubblico, per la tutela dei diritti e le libertà dell’uomo». Un cattivo segnale da parte governativa che invece si è tradot-
to in una presenza visibile, ma discreta delle forze dell’ordine. Fortissime le pressioni internazionali, Stati Uniti in testa, avevano sollecitato il vertice dei socialisti a vigilare sulla manifestazione. Il premier ha ceduto alle pressioni diplomatiche, annullando la contromanifestazione di oggi. Rama non ha voluto e potuto, rinunciare al suo appuntamento di piazza, ma ha dovuto garantire che avrebbe fatto il possibile per evitare incidenti e violenze. La mobilitazione è partita da piazza Scanderbeg lungo il viale Littorio di memoria fascista, oggi Boulevard Deshmoret e Kombit (viale degli Eroi e della Nazione) che taglia in due la città, si è poi fermata nel punto dove sono morti i tre manifestanti.
Anche se il clima resta teso, è per prima l’opposizione a sperare che si evitino nuovi disordini, per non dare occasione al governo dell’incontrollabile Berisha di reagire in un momento di forte difficoltà politica interna e di isolamento internazionale. «Corteo silenzioso e pieno di fiori per ricordare i nostri morti, le vittime di una brutale repressione», precisava Edi Rama. Il timore era quello dell’infiltrazione di provocatori intenzionati a forzare la mano. In gioco la stabilità e la tenuta democratica dell’intera Albania, in profonda crisi economica e sociale, e l’appuntamento elettorale per le elezioni amministrative del maggio prossimo.
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il personaggio della settimana Vita e scoop dell’uomo che, dal giornalino di Oxford, è arrivato a guidare un gigante dell’informazione
Il giornalista che ha ammutolito la Regina
Nata come la “voce dell’Impero”, la Bbc affronta i primi tagli drastici al palinsesto nella sua storia centenaria fra i media. La mannaia la cala Mark Thompson di Maurizio Stefanini ggi «sarà un giorno doloroso per la Bbc e per le milioni di persone al mondo che apprezzano il World Service. Questa mattina, noi annunciamo una serie di tagli che sono stati resi necessari dal Programma di Revisione della Spesa che è stato deciso lo scorso autunno. Faremo del nostro meglio per minimizzarne le conseguenze, ma queste avranno inevitabilmente un impatto significativo sulle audiences cui eravamo abituati e incideranno su servizi importanti, così come su quelli dei nostri colleghi che lavoravano su essi». Il titolo si sforza di essere incoraggiante: Il World Service può sopravvivere a questi tagli. Ma il tono di quel che segue, in questo articolo che è uscito mercoledì su The Telegraph, è da campana a morto, per una Bbc che nei prossimi cinque anni dovrà licenziare 650 dei suoi 2400 dipendenti, oltre a chiudere cinque dei suoi canali radiofonici esteri in lingua. E la campana a morto suona pure stonata per il particolare che Mark John Thompson, il 54enne londinese con laurea a Oxford che dal 2004 è direttore generale della Bbc, ha firmato il ferale annuncio restando comunque il dipendente pubblico più pagato di tutto il Regno Unito: uno stipendio che è la bazzecola di 834.000 sterline all’anno, quasi un milione di euro. Magari per fare economia adesso toglieranno qualche cosa anche a lui: ma il fatto che non abbia pensato di ricordarlo nell’articolo induce piuttosto a dubitarne. Oltretutto, Thompson è pure uno che adesso si presta a far calare la mannaia Bbc, sulla dopo che
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in passato l’aveva lasciata per andare con la concorrenza privata di Channel Four: come da noi uno che passasse dalla Rai a Mediaset, e tornasse poi in Rai apposta per licenziare i colleghi che sono sempre rimasti fedeli all’azienda.
Lui la sua carriera giornalistica la aveva iniziata da direttore di Isis: la rivista studentesca che, nata nel 1892, è la decana tra quelle di Oxford (visto che la rivale Cherwell non esce che dal 1920). Peraltro, dopo aver ospitato nelle sue pagine le firme dei giovani Harold Acton, Hilaire Belloc, Michael Foot, Graham Greene, Terry Jones e Velyn Waugh prima che diventassero famosi, nel 1998 anche Isis era entrata in grave dissesto finanziario, e si salvò solo perché comprata da Cherwell. Come se da noi il Corriere della Sera fosse preso dal gruppo di Repubblica o da quello della Stampa… Thompson già non c’era più, e tra le brume del Tamigi sono forse di moda i fantasmi, ma non le storie di jettatori care a latitudini più mediterranee. Resta comunque la lezione su come anche i pezzi di storia britannica, come Bbc o Iris, nel Paese di Margaret Thatcher non possano invocare alcuna immunità, di fronte alle spietate leggi del mercato. Come si è detto, comunque, nel frattempo Thompson era entrato in Bbc, dove per una ventina anni si era aggirato tra alcuni dei più significati programmi dell’emittente. Nel 1981, a 24 anni, al programma per consumatori Watchdog. Nel 1983, a Breakfast Time. Nel 1985, Output Director di Newsnight. E nel 1988, a trent’anni appena compiuti, è direttore: delle Nine O’Clock News. Nel 1990 è poi direttore di Panorama. Nel 1992 capo dei Features. Nel 1994 capo di Factual Programmes. Nel 1996 Controller di Bbc 2. Nel 1999 Direttore delle Emissioni Nazionali e Regionali. E nel 2000 direttore della televisione della Bbc. Ma nel marzo del 2002, appunto, accetta l’offerta di diventare chief executive di Channel 4. Poiché ci rimarrà solo due anni, è forte il sospetto che sia stata una semplice mossa tattica, per valorizzare ancora di
più il suo peso contrattuale. Nel frattempo, esplode il caso David Kelly: lo scienziato esperto di biotecnologie e genetica, impiegato del Ministero della Difesa britannico ed ex-ispettore dell’Onu in Iraq, che in un’intervista al giornalista della Bbc Andrew Gilligan spara sul dossier sulle armi di distruzione di massa di Saddam che il governo Blair ha presentato per giustificare l’intervento militare.Gillian riferisce la cosa nella popolare trasmissione radiofonica Today programe; la stampa si scatena; una Commissione d’inchiesta presieduta da Lord Hutton sente Kelly; Kelly si suicida; la Commissione Hutton scagiona il Governo e rimprovera la Bbc di non aver controllato la veridicità delle notizie diffuse; il sindacato dei giornalisti grida alla «minaccia all’indipendenza giornalistica in questo Paese»; il 29 gennaio del 2004 Gregory Dyke, direttore della Bbc dal 2000, dà le dimissioni. Il 20 aprile Thompson, che nel frattempo si è segnalato per aver riportato Channel Four in attivo, assicura alla stampa che non ha la benché minima intenzione di tornare alla Bbc, e che le indiscrezioni in proposito sono tutte invenzioni. E il 21 maggio è nominato direttore della Bbc al posto di Dyke.
Già il giorno stesso del suo insediamento, il 24 giugno, si segnala per un primo drastico taglio: riduzione del comitato esecutivo da 16 a nove membri. Nel 2007 presenta poi un rapporto in cui segnala che la Bbc si è resa responsabile di varie mancanze all’etica professionale, e lo traduce in un duro discorso interno ai dipendenti. «Non è accettabile che il pubblico sia deluso dalla Bbc. Io non ho mai deluso il pubblico, non avrei mai voluto trovarmi in una situazione del genere, e credo che lo stesso valga per la stragrande maggioranza di voi». Nuova sfuriata nell’ottobre del 2008, per un popolare show in cui due presentatori hanno lasciato un messaggio osceno sulla segreteria telefonica dell’attore Andrew Sachs. Thompson interrompe addirittura le vacanze per rientrare a sospendere per tre mesi senza stipendio
29 gennaio 2011 • pagina 31
Jonathan Ross: il più pagato presentatore di tutta la Bbc. Né manca di prendere decisioni controverse anche dal punto di vista ideologico. Nel gennaio del 2005, ad esempio, 55.000 proteste arrivano quando Bbc2 manda in onda Jerry Springer: The Opera. Un musical di successo su un talk-show il cui presentatore è ucciso in diretta e si ritrova a riorganizzare lo stesso spettacolo al Purgatorio e all’Inferno, con toni giudicati da molti “blasfemi” e “irrispettosi dei valori giudaico-cristiani”. Fervente cattolico frequentatore di una chiesa
c’è qualcuno che Thompson evidente considera più importante la libertà di espressione nei confronti del suo cattolicesimo che non nei confronti dell’ebraismo di sua moglie. Ma nell’ottobre del 2009 ridiventa pluralista all’estremo, quando concede di accedere agli schermi all’estrema destra del British National Party. «Il Bnp ha ormai il livello di appoggio popolare per il quale si è ammessi in tv», spiega. «Non spetta alla Bbc fare censure politiche, ma semmai al Parlamento». Qualcuno però ritiene che peggio ancora delle sue linee
Il broadcasting è pagato da Londra e il suo budget rientra nella legge finanziaria. I tagli di Cameron non hanno avuto alcun occhio di riguardo dove si celebra ancora la messa in latino, accusato di tradimento della fede che ha ereditato da una madre irlandese, Thompson è scagionato dalla High Court, secondo cui la libertà di espressione è altrettanto importante dei valori cristiani. E qualcuno osserva che comunque ha studiato dai gesuiti, che devono avergli appunto insegnato il disinvolto pragmatismo tipico della Compagnia. Nel gennaio del 2009, però, rifiuta di mandare in onda un appello a favore degli abitanti di Gaza che taccia di essere filo-Hamas e anti-israeliano. E qui
politiche, in fondo abbastanza equilibrate nello scontentare ora a destra o ora a sinistra, sia la sua latitanza nel produrre programmi «che inspirino i telespettatori a visitare gallerie, musei o teatri», secondo l’accusa dell’ex-direttore artistico del National Theatre, Sir Richard Eyre. Insomma, “una catastrofe”, specie considerando la storica reputazione della Bbc come realizzatrice di documentari di altissima qualità. Quelli stesso che gran parte dei programmi di approfondimento italiani alla Superquark hanno poi sempre cannibalizzato: anche se per lo meno gli An-
gela padre e figlio hanno poi imparato a realizzarne di altrettanto significativi. E, già ricordato, naturalmente gli hanno poi rimproverato lo stipendio.
Specialmente ora che sta tagliando quelli altrui. Chi lo vuole difendere ribatte che comunque di tutti quei soldi non sembra farsene niente. Maniaco del lavoro, l’unico suo lusso è la casa di Oxford dove appena può corre a giocare con i suoi tre bambini ed a cucinare pasta fatta in casa per la moglie Jane: un’ebrea americana, si è detta, esperta di Mary Shelley. Sembra però che quando passa le vacanze presso la famiglia di lei, nel Maine, si sobbarchi anche la spesa di prendersi lezioni di volo. Ma il volo, per risparmiare il 16% corrispondente ai tagli, in questo momento, lo prendono anche un quarto dei dipendenti e i già citati cinque servizi: albanese, macedone, portoghese per l’Africa, serbo e inglese per i Caraibi. Oddio: ne restano ancora 27, più quello generale in inglese, che comunque le notizie principali sui Caraibi continuerà a darle. Resta pure un canale in portoghese, che a questo punto integrerà il focus oggi centrato su Brasile e Portogallo. E restano quelli in spagnolo, francese, cinese, arabo, russo, ucraino, turco, azero, kirghizo, uzbeko, farsi, pashto, hindi, urdu, bengali, nepali, tamil, singalese, indonesiano, vietnamita, birmano, swahili, haussa, kinyarwanda, kirundi, somalo. Insomma, il grosso dell’Impero c’è ancora. Vanno via due doppioni, e tre eccentricità balcaniche in effetti rimaste isolate. Partita nel 1932 come Bbc Empire Service di un Impero che si estendeva ancora su un quarto del globo, decana delle radio “mondiali” in un’epoca in cui Cnn o AlJazeera erano ancora di là da venire, famosa durante la Seconda Guerra Mondiale per quelle trasmissioni all’Europa occupata introdotte dal rullo del tamburo di Francis Drake, la Bbc resta tuttora la numero uno, con 118 milioni di utenti tra i quali le soppressioni annunciate non potranno avere che un impatto minimo, anche se la rinuncia a un servizio
Una Radio per le colonie Partita nel 1932 come Bbc Empire Service di un Impero che si estendeva ancora su un quarto del globo, decana delle radio “mondiali”in un’epoca in cui Cnn o Al-Jazeera erano ancora di là da venire, famosa durante la Seconda Guerra Mondiale per quelle trasmissioni all’Europa occupata introdotte dal rullo del tamburo di Francis Drake, la Bbc resta tuttora la numero uno, con 118 milioni di utenti tra i quali le soppressioni annunciate non potranno avere che un impatto minimo, anche se la rinuncia a un servizio ad hoc per i vecchi avamposti caraibici ha comunque un sottinteso psicologico pesante. Stime di fonti indipendenti valutavano infatti che gli utenti in inglese fossero passati dai 39 milioni del 2004 ai 44 del 2006 (parliamo sempre del servizio internazionale); quelli in farsi da 20,4 a 22; quelli in hindi da 16,1 a 21 milioni; quelli in arabo da 12,4 a 16; quelli in urdu da 10,4 a 12.Tra Africa e Medio Oriente il totale è di 66 milioni di ascoltatori, di cui 18,7 in inglese. Certo, nel 1999 sono già state tagliate le trasmissioni in tedesco, olandese, finlandese, francese per l’Europa, ebraico, italiano, giapponese e malese: tutti idiomi i cui utenti dispongono ormai di emittenti di livello elevato, e che se sentono la Bbc è solo per praticare l’inglese. Il migliore disponibile al mondo, ovviamente.
ad hoc per i vecchi avamposti caraibici ha comunque un sottinteso psicologico pesante. Stime di fonti indipendenti valutavano infatti che gli utenti in inglese fossero passati dai 39 milioni del 2004 ai 44 del 2006 (parliamo sempre del servizio internazionale); quelli in farsi da 20,4 a 22; quelli in hindi da 16,1 a 21 milioni; quelli in arabo da 12,4 a 16; quelli in urdu da 10,4 a 12.Tra Africa e Medio Oriente il totale è di 66 milioni di ascoltatori, di cui 18,7 in inglese. Certo, nel 1999 sono già state tagliate le trasmissioni in tedesco, olandese, finlandese, francese per l’Europa, ebraico, italiano, giapponese e malese: tutti idiomi i cui utenti dispongono ormai di emittenti di livello elevato, e che se sentono la Bbc è solo per praticare l’inglese.
Nel 2005 erano stati pure tagliati i programmi in bulgaro, croato, ceco, greco, ungherese, kazako e polacco; nel 2006 quelli in slovacco, sloveno e thai; nel 2008 quello in romeno. Ma va detto che queste risorse sono state in parte utilizzate per finanziare i nuovi canali tv in arabo e persiano usciti nel 2007. E questa è una storia interessante. Già un servizio tv in arabo era infatti partito nel 1994 in partnership con l’Arabia Saudita, ma la continua censura del governo di Riyadh aveva deciso a sospendere l’esperimento dopo appena due anni. I giornalisti licenziati erano stati così assunti nel 1996 dalla nuova emittente in arabo Al-Jazeera, finanziata dall’Emiro del Qatar. Al-Jazeera era assurta all’attenzione mondiale nel 2001, dopo i fatti dell’11 settembre. E nel 2003 si era permessa a sua volta di andare a fare concorrenza alla Bbc in inglese. Insomma, probabilmente c’è la convinzione che in albanese e macedone il rischio non esiste.
ULTIMAPAGINA Il colosso asiatico adesso vuole sdoganare il settore enologico
Se anche in Cina ora fanno di Livia Belardelli ra qualche anno berremo tutti Dragon’s eye, autoctono vitigno cinese. O magari diventeremo il paese del tè. L’ipotetico divulgatore di siffatte affermazioni di certo deve aver alzato un po’ il gomito e probabilmente non con un esile e astringente vino cinese ma con un bel rosso piemontese, morbido e ricco di alcol. La “Cina del vino”non è una minaccia ma un’opportunità. Cabernet Sauvignon di Shanxi, Merlot di Shandong, Bordeaux di Hebei non faranno concorrenza a Chianti e Barbera nonostante sia senz’altro vero che la popolazione con gli occhi a mandorla non si accontenti più di tè, birra e alcol di riso ma abbia puntato lo sguardo anche sul mondo enologico. È già da qualche anno che ha fiutato l’affare e, così com’è stato per il settore tessile e l’abbigliamento, vuole sdoganare e “democratizzare” una bevanda finora relegata alla sfera del lusso, status symbol di una minoranza che strapaga i vini esteri per sfoggiarli a sontuose cene.
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C’è però un problema. Si chiama terroir, si chiama natura. Come noi italiani non riusciamo a fare bollicine paragonabili (di bottiglie eccellenti ne abbiamo comunque molte!) o quantomeno con analoghe caratteristiche a quelle nate nella Champagne, su un suolo dalla composizione inimitabile, ricco di gesso e fossili marini, loro non sono in grado di riprodurre le stesse condizioni pedoclimatiche necessarie per una produzione di grande qualità. Ci sono terre e terre, climi diversi e condizioni che variano a ogni latitudine, e la combinazione naturale di questi fattori ha creato zone più o meno vocate. È chiaro che un paese come la Cina, con un’estensione di circa 9,62 milioni di km quadrati, disponga di una grande varietà climatica che va dagli altipiani freddi del TibetQinghai fino alla zona orientale, soggetta al monsone estivo ed essa stessa decisamente diversificata, ma nessuna zona sembra essere
La maggior parte dei vini arriva dalla regione dello Shandong. Intorno alla città costiera di Yantai le cantine si moltiplicano e oggi la zona è considerata come la Bordeaux cinese davvero ideale per la coltivazione della vite. La maggior parte della produzione di vino cinese arriva dalla zona di Yantai-Penglai, dalla regione dello Shandong. Intorno alla città costiera di Yantai le cantine si moltiplicano a vista d’occhio e oggi la zona viene considerata dai locali come la Bordeaux cinese nonostante il clima caldo e umido renda necessario un uso smodato di pesticidi per salvare le piante e il “bordeaux cinese”sia spesso troppo marcatamente erbaceo e di qualità tutt’altro che interessante. I numeri parlano di un aumento della produzione del vino che entro la metà del prossimo
CIN CIN decennio porterà dai 72 ai 128 milioni di casse l’anno. La Cina, lo dimostrano i tre colossi enologici del paese - Zhangyu, Dynasty e Great Wall - è sicuramente una potenziale superpotenza nel settore della viticultura e se l’avanzata nel mondo enologico è fuor di dubbio ciò è vero a livello quantitativo, non certo qualitativo. L’Occidente oggi esige una qualità sempre più alta anche nelle fasce base della produzione d’azienda, il consumatore medio è sempre più orientato alla qualità e alla tradizione. Beve meno e beve meglio. Quest’evoluzione del gusto sarà per i cinesi una barriera all’entrata difficilmente sormontabile per accedere al mercato. Forse sapranno assorbire il gap temporale meglio di quanto abbiamo fatto noi con la Francia dello Champagne, sulla quale scontiamo 300 anni di esperienza in meno, ma il clima e il terreno da cui nasce il nostro vino non può essere riprodotto “made in China”.
Il coup de foudre per il vino da parte della popolazione cinese deve essere semmai un’opportunità per l’Occidente. Una gallina dalle uova d’oro che, ancora una volta, i francesi hanno scoperto prima di noi e già sfruttano da tempo. L’apertura al vino di una terra così popolosa non può che invogliare all’export. E
l’esportazione del vino italiano nel paese del tè è cresciuta soltanto nell’ultimo anno del 216,3% in volumi e del 102% in valore.
La vera battaglia che rischiamo di perdere è dunque in casa loro, non certo in casa nostra dove il vino cinese non può avere seguito. E non va combattuta nemmeno contro i cinesi stessi ma contro i cugini d’Oltralpe che hanno già invaso il mercato di Pechino e Shangai con grandi Château bordolesi, Champagne e vini di Borgogna, chicche strapagate dai nuovi degustatori con gli occhi a mandorla che investono somme importanti facendo lievitare i prezzi anche in Europa. Se si decide di cavalcare l’onda è necessario penetrare in maniera efficace una terra ricca di futuri wine-lovers, puntare sull’export e sulla conquista di un mercato potenzialmente infinito e in forte espansione. E il discorso Cina vale ugualmente per l’India, altro ampio bacino di potenziali bevitori che sempre più abbandonano il whisky per il vino rosso, frequentano ristoranti di cucina italiana e, almeno per ora, non hanno velleità da enologi. Tornando alla patria di Confucio, possiamo-dobbiamo davvero aver paura di un paese in cui non esiste un termine per tradurre la parola vino?