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Quando i leader maledicono la guerra, l’ordine di mobilitazione è già firmato Bertolt Brecht

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 2 FEBBRAIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Google aggira la censura del regime sulla Rete.Anche il grande chimico Ahmed Zewail torna in Patria per sostenere la rivolta

Il generale El Baradei Più di un milione in piazza al Cairo. Con l’appoggio delle forze armate il premio Nobel lancia un ultimatum a Mubarak: «Via entro venerdì». Per l’Onu i morti sono trecento I POSSIBILI SCENARI

Non basta dire “fuori tempo massimo”

Ma l’esercito è “laico”. Gli islamisti non vinceranno

Così ci sarebbe piaciuto che Bersani avesse risposto a Berlusconi entile presidente del Consiglio, è evidente a tutti, anche ai bambini superiori ai cinque anni, che la lettera pubblicata a sua firma dal Corriere della Sera, è solo un tardivo e assai poco credibile tentativo di uscire dal vergognoso angolo in cui lei si è cacciato con il “caso Ruby”. E mi permetta di osservare come ella dimostri uno spiccato senso del cinismo (con la enne non con la vu) usando, a tal fine strumentalmente, il tema della crescita economica dell’Italia, tema che finora non ha minimamente voluto affrontare. In ogni caso, visto che l’esigenza di un “grande piano per lo sviluppo” è davvero urgente per il nostro Paese, prendo sul serio la sua proposta facendo volutamente finta di non vedere che si tratta solo di una tardiva e disperata mossa tattica. In fondo, non è mai troppo tardi….

di Daniel Pipes

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ome era prevedibile, il tanto atteso momento di crisi dell’Egitto è arrivato, le ribellioni popolari stanno scuotendo i governi di tutto il Medioriente e l’Iran si trova come mai prima di ora al centro dello scacchiere regionale. a pagina 4

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Il governo dimentica il nostro ruolo nell’area

di Luisa Arezzo

La lezione del Nordafrica

militari egiziani hanno decisamente sposato le ragioni della rivolta e perciò El Baradei si è preso la responsabilità di lanciare un ultimatum a Mubarak: «Ha tempo fino a venerdì per abbandonare il Paese». Anche ieri, al Cairo c’è stata una imponente manifestazione: più di un milione di persone sono scese in piazza. a pagina 2

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La crisi egiziana parla anche della nostra disastrata politica estera che non ricorda come il peso internazionale del Paese da sempre sia legato al Mediterraneo Francesco D’Onofrio • pagina 5

Irap, Sud, casa: il governo vorrebbe fare quel che non ha mai fatto

Il Cavaliere corre ai ripari Ora vuole rilanciare l’economia. Federalismo a rischio La “battaglia morale” doveva iniziare prima

di Francesco Pacifico

La Carta tedesca contro il debito

Patrimoniale? No, costituzionale

i nuovo le donne in piazza. Una manifestazione, quella del 13, per rivendicare la propria dignità contro il degrado dell’immagine femminile. È in atto una campagna martellante per preparare questo appuntamento .Dopo i decenni delle iperboli del femminismo militante, e in piena epoca “velinista”non sarebbe una brutta idea riprendere a discutere su che cosa sono oggi le donne.

ROMA. Lo hanno chiamato «scatto di reni». Si potrebbe anche chiamarlo «dissimulazione»: parlar d’altro. Comunque sia, Berlusconi si è messo in testa di fare in un giorno (venerdì in consiglio dei ministri) tutto quello che non ha fatto in due anni: dal piano Sud alla riforma dell’Irap. Non è chiaro se Tremonti sia d’accordo. Ma il vero rischio è che venerdì il cdm si riunisca in assenza di maggioranza: il vero banco di prova è il federalismo che si vota domani. E in commissione maggioranza e opposizione sono pari.

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Tutte le donne in piazza. Volentieri. Ma c’è qualcosa che non torna... di Gabriella Mecucci

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

22 •

WWW.LIBERAL.IT

di Gianfranco Polillo l sasso della “patrimoniale” gettato nello stagno, seppure in momenti diversi, da Giuliano Amato e Pellegrino Capaldo non è stato senza conseguenze. Ha permesso a Silvio Berlusconi di uscire dall’angolo, a luci rosse, in cui i recenti avvenimenti l’avevano cacciato e di riconquistare il centro del ring. Nessuna “botta secca”per abbattere il debito, ha detto il premier.

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


prima pagina

pagina 2 • 2 febbraio 2011

il fatto La crisi egiziana sembra arrivata a una svolta: ieri oltre un milione di persone hanno manifestato pacificamente al Cairo

Ultimatum a Mubarak

Ormai l’esercito ha scelto le ragioni della piazza e dell’opposizione. Così El Baradei minaccia: «Il presidente lasci il Paese entro venerdì» la polemica di Luisa Arezzo

ultimatum a Hosny Mubarak è arrivato dal milione di egiziani (due secondo gli organizzatori) scesi in piazza in tutto il Paese. E da Mohammed El Baradei, che senza giri di parole ha gridato dalle colonne del britannico The Independent e dagli schermi della Cnn il suo preavviso all’ottantaduenne raiss egiziano: via dalle stanze del potere entro venerdì. Un “licenziamento” che nel primo pomeriggio di ieri sembrava poter essere recapitato in diretta quando la grande marcia si è spostata minacciosa verso il palazzo presidenziale - circondato da barricate di filo spinato e dall’esercito - e che poi invece è rientrato. Tanto da far supporre che ormai si sia davvero giunti alla resa dei conti, ovvero alla mediazione finale su come fare uscire Mubarak di scena a testa alta. Accerchiato dall’opposizione e criticato, se non scaricato, dalla comunità internazionale (ieri anche Israele ha “gettato la spugna”: Netanyahu ha infatti chiesto alla comunità internazionale di «esigere» da qualsiasi governo il rispetto del Trattato di Pace con Israele), il presidente egiziano si è affidato ai generali, in procinto di abbandonarlo al suo destino e sta giocando le ultime carte a sua disposizione per trattare una resa onorevole. «Possiamo concedere a Mubarak i nove mesi fino alla fine del suo mandato, purché non si ricandidi alle elezioni e avvii da oggi stesso un vero cambiamento», ha detto Hosam Mikawi, presidente del Tribunale del Cairo, intervistato ieri da Ilsussidiario.net mentre manifestava a piazza Tahrir. Ma questa strada, data fino a ieri mattina per percorribile da molti osservatori, è probabilmente già naufragata.

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E il raiss potrebbe essere costretto ad andarsene prima lasciando il posto ad Omar Suleiman, neo vicepresidente, ex capo dei servizi segreti, uomo chiave degli equilibri mediorientali e interlocutore apprezzato di Usa e Israele ma anche figura controversa per il presunto ruolo nelle extraordinary renditions, i rapimenti segreti condotti dagli Usa nella guerra contro Al Qaeda. «Il Paese offre a Mubarak un salvacondotto» - ha detto ieri l’ex capo dell’Aiea El Baradei mentre partecipava al corteo, riferendosi al fatto che non sarà perse-

Soltanto gli Stati Uniti, soprattutto per ragioni economiche, si occupano della crisi

Ancora una volta, l’Europa è solo un fantasma politico di Luca Volontè u ogni giornale del globo campeggia in prima pagina la foto delle manifestazioni in Egitto, solo qualche giorno fa c’erano gli scatti delle manifestazioni ad Algeri, malesseri si registrano a Tunisi, in Giordania. In Libano due settimane orsono, mentre il premier Hariri si trovava tra Washington e Parigi, gli hezbollah hanno deciso di lasciare il governo di unità nazionale, la mediazione seguita che ha visto la Turchia promotrice, non ha portato i frutti sperati e addirittura l’Arabia Saudita ha preso atto della impossibilità di pervenire ad una soluzione concordata. Cosa sta accadendo nel Medioriente?Certamente siamo di fronte ad un fenomeno imprevedibile e, per parte dei dimostranti, straordinariamente pacifico. Si protesta contro la corruzione, soprattutto contro la mancanza di libertà e di diritti, di cui sono privati quei popoli dalla ondata di de-colonizzazione del secolo scorso. Una decolonizzazione che non ha portato alla elezione di governi democratici, piuttosto di esecutivi autoritari nei quali i primi ministri, di fatto, si comportavano come veri e propri tiranni. Certamente gli aumenti dei prezzi di beni di consumo alimentari sono stati la scintilla che ha fatto esplodere una polveriera carica, ma anche l’immigrazione di ritorno di coloro che hanno vissuto per anni in Occidente hanno contribuito enormemente alla esplosione della protesta.

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nare i fenomeni verso un approdo democratico. Paradossalmente ed incredibilemente, questa pavida inedia europea si rivolge a Paesi dai quali milioni di immigrati sono partiti per rinforzare sviluppo e lavoro delle nostre società. L’Italia, molto più della Spagna, della Grecia e della Francia, dovrebbe farsi avanti. Non possiamo perdere questa occasione: come ogni treno della storia, ciò che sta avvenendo può aprire una grande opportunità per il nostro Paese. Ricordiamolo: parliamo dell’Italia, paese geograficamente al centro del Mediterraneo. L’Italia, oltre a poter essere legittimamente considerata la capofila europea, potrebbe contare sugli ottimi rapporti con il colosso turco, sempre più protagonista meritato della regione Mediorientale. Cosa stiamo aspettando? Gli Usa, invece, sono in prima fila, in primissima fila nelle soluzioni che potrebbero succedersi nelle prossime settimane. Perché? Sicuramente l’interesse geopolitico del Canale di Suez e del Mediterraneo sono tornati cruciali (noi stiamo chiudendo Gioia Tauro). I maligni assicurano che ci sia dell’altro: gli Usa sono, a causa delle errate politiche di Obama, tecnicamente in ‘default’, i fondamentali rimangono deboli e la disoccupazione diminuisce molto meno del previsto. Cina ed emergenti potrebbero vendere dollari e comprare titoli di Stato in euro, ma da sempre un guerra e una instabilità internazionale spingono i mercati a indirizzarsi verso beni rifugio, tra cui il dollaro… proprio tra il 2012 e 2014 scade un valore di titoli americani pari al Pil Usa attuale… Ancoriamoci ai fatti, gli Usa sono unici attori protagonisti, sia sull’asse Tunisia-Egitto sia nel Sudan del Sud. In una parola, si conferma il declino politico del nostro continente, stiamo raschiando il barile. A quando un dibattito in Parlamento sull’Egitto del dopo Mubarak?

L’Italia almeno potrebbe organizzare un dibattito sul Mediterraneo in Parlamento

L’Europa sta guardando a questa nuova spinta democratica mediterranea con molto distacco, direi con indifferenza bislacca. Gli Stati Uniti, ad oggi, appaiono gli unici protagonisti attivi nella situazione, soprattutto in Egitto ma non solo laggiù. L’Europa dunque, al di là delle parole di circostanza della resposabile degli Esteri, Catherine Ashton, non è in grado di formulare una proposta, una pressione politica, né tantomeno di aiutare a gover-

guito penalmente. «Stiamo per voltare pagina, possiamo perdonare il passato», ha spiegato il premio Nobel, mentre dal vertice dei principali gruppi della frammentata opposizione veniva resa nota la loro road map dopo l’abbandono del raiss: scioglimento del Parlamento, formazione di un governo di unità nazionale, poi il voto, la riforma della Costituzione e nuove elezioni presidenziali. Un percorso che però non sembra tenere nel dovuto conto il potere militare. Che seppur schierato con il popolo (tanto da garantire il pacifico svolgimento della marcia) non ha certo intenzione di farsi da parte. Anzi.

E questo anche a dispetto della singolar tenzone presidenziale che sembra profilarsi all’orizzonte: quella fra due premi Nobel. Con Mohammed El Baradei (Nobel per la pace) da un lato e Ahmed Hassan Zewail (Nobel per la Chimica) dall’altro. Pronto a rientrare in Egitto (era atteso per ieri) e ad impegnarsi in un comitato per le riforme costituzionali. Nato vicino ad Alessandria nel 1946, lo studioso (naturalizzato americano) è stato insignito del Nobel nel 1999 per le sue ricerche nel campo dei laser ultrarapidi impiegati per lo studio di reazioni chimiche. E certo il suo ritorno ha colto un po’ tutti di sorpresa. Anche se non gli americani, che forse potrebbero aver fatto pressioni in proposito. A dispetto delle distensive parole dell’Amministrazione Usa, infatti, non è certo un mistero che quest’ultima non sia una fan di El Baradei, anzi. D’altronde, nel corso dei dodici anni trascorsi alla guida dell’Agenzia Atomica, il direttore generale el Baradei non è stato sempre efficace nell’adempimento del suo compito, cioè impedire la proliferazione necleare. A parte la sua determinata opposizione alla guerra in Iraq - che per altro non fu mai scalfita dal record di Saddam Hussein in tema di inganni agli ispettori dell’Aiea - ci fu l’imbarazzante caso della Libia nel 2003. Il dittatore libico, si sa, aveva un programma nucleare molto avanzato, ma convinto da un misto di minacce e offerte da americani e inglesi decise di liberarsene. Eppoi ci sono i tre dossier aperti di Iran, Nord Corea e Siria, che El Baradei ha lasciato (aperti) al suo successore, il giapponese Yukiya Amano. Sull’Iran in particolare, el Baradei, negli ultimi anni della


la testimonianza Parla l’esponente Pdl nella Commissione Esteri

«Immigrati e petrolio: ecco le due incognite» «L’Italia è un Paese di frontiera con l’Egitto. Presto dovremo accorgercene», dice Margherita Boniver di Riccardo Paradisi embro della commissione affari Esteri, già sottosegretario alla Farnesina, esperta di questioni del nordafrica Margherita Boniver riflette con liberal su prospettive e rischi della crisi egiziana e dell’onda d’instabilità che sta attraversando il Maghreb. Lo fa con preoccupazione ma sforzandosi di non cedere al catastrofismo. «Voglio dare una lettura che non sia apocalittica, non escludendo un esito evolutivo della crisi. Detto questo, anche ammettendo che l’attuale instabilità porti a un nuovo ordine più democratico, più laico e più liberale nelle regioni interessate all’instabilità, non si possono chiudere gli occhi di fronte alla realtà. La prima conseguenza di questa crisi sarà sicuramente uno shock petrolifero. Del resto i segnali sono inequivocabili: il prezzo del petrolio s’è già impennato a cento dollari al barile e non è ragionevole ipotizzare un abbassamento del suo costo visti i chiari di luna. Insomma non è escluso che potremmo trovarci – in un momento di già abnormi difficoltà finanziarie – in una situazione simile a quella del ’72 con l’austerity e le domeniche a piedi».

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Ancora un’immagine della rivolta di questi giorni al Cairo. A destra, Margherita Boniver, parlamentare del Pdl. Nella pagina a fianco, la responsabile esteri della Ue, Catherine Ashton sua direzione, si è spesso comportato più come se il suo compito fosse impedire una nuova guerra nel Golfo Persico piuttosto che impedire all’Iran di violare i solenni impegni contratti della Repubblica Islamica secondo il Trattato di Non Proliferazione. Insomma, i motivi di frizione con gli Stati Uniti sono stati tantissimi.

E sempre in tema di Nobel, ieri alla piazza del Cairo si è aggiunta la voce della carismatica leader dell’opposizione birmana Aung San Suu Kyi (Nobel per la pace, per l’appunto) che dai microfoni della Bbc ha fatto arrivare il suo messaggio di solidarietà: «Noi siamo tutti con i manifestanti egiziani che chiedono che il presidente Hosni Mubarak se ne vada - ha detto la Signora di Rangoon perché tutti coloro nel mondo che vogliono la libertà si sentono in sintonia con le altre persone che lottano per la libertà. Ma adesso è necessario che manteniate i nervi saldi, che non perdiate la speranza e che continuiate a lottare».

Su quest’ultimo punto la piazza ha dimostrato di non avere esitazioni, davvero difficile che possa tornare indietro. Il tam tam del popolo internet non si ferma, nonostante la censura sula Rete disposta dalle autorità. Tanto che Google Usa si è prodigata per consentirgli di aggirarlo: il gigante informatico ha infatti messo a disposizione alcuni numeri internazionali, tra cui uno con prefisso italiano, per registrare un messaggio audio e renderlo immediatamente disponibile su Twitter. Composto il numero, una segreteria telefonica ha consentito di “postare” l’audio sul social network con la parola in codice “egypt”. Intanto, arrivano altre stime sul bilancio di morti e feriti dall’inizio delle proteste. l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Navi Pillay ha parlato di trecento morti, chiarendo comunque che il bilancio è ricavato da «rapporti non confermati». Purtroppo, le sue stime potrebbero non essere lontane dal vero.

Questi i primi effetti in Italia e in Europa dove la crisi economico finanziaria sta impoverendo i ceti medi. In Egitto la situazione è semplicemente esplosiva. «Qui la crisi mondiale, attraverso la speculazione, ha generato l’impennata dei prezzi dei beni di prima necessità del trenta per cento. Un innesco a miccia corta per la rivolta che puntualmente è venuta come era inevitabile che fosse considerando che l’Egitto è un paese dove si vive mediamente con due dollari al giorno». Realisticamente dunque va messo in conto un periodo lungo di turbolenza «perché è ovvio che qualsiasi cosa accada in Egitto, in Tunisia, in Algeria, in Sudan – anche a voler essere molto ottimisti – è pacifico che il ciclo economico negativo non si invertirà presto». Ed essendo questi per noi Paesi strategici l’Italia farebbe bene a rendersene conto. «Questo senza prendere neppure in considerazione l’ipotesi – dice la Boniver, come a scongiurare uno scenario terrificante – che l’Egitto si svegli come l’Iran del ’79, con una teocrazia fondamentalista al potere». L’onorevole Boniver non ha prevenzioni nei confronti di una figura a suo modo autorevole come El Baradei ma certo non sottovaluta il rischio che questo profilo di intellettuale-politico possa essere il cavallo di Troia dei fratelli musulmani che hanno già fatto un sospetto endorsement nei suoi confronti.

Mentre Mubarak è stato messo alla porta dagli Stati Uniti». Ma dopo aver dato il ben servito a Mubarak gli Usa punteranno su El Baradei? Boniver non ha molti dubbi a proposito: «anche leggendo tra le righe dei giornali americani, valutando le osservazioni degli analisti Usa non sembra poterci essere un’ipotesi diversa anche se l’affidarsi a El Baradei non è vissuto come una procedura così serena e automatica. Vedono bene anche loro i rischi delle variabili della piazza, delle strumentalizzazioni possibili».

La posizione di Israele come è noto è meno sfumata: appoggio a Mubarak come male minore. «Voglio pensare positivo continua Boniver – l’opzione più auspicabile è che l’Egitto, un paese ricco di tradizioni culturali e di una storia complessa, non finisca sotto il tallone d’una assurda sharia, d’una tirannia fondamentalista. Va anche rilevato con soddisfazione e motivo di speranza che le piazze non bruciano bandiere a stelle e strisce e stelle di davide. Sarebbe però da irresponsabili non tenere conto delle mille variabili che sono presenti in questa situazione: riuscirà Mubarak a riprendere il controllo? Se ci dovesse essere un passaggio di consegne la transizione sarà ordinata? Che forza reale hanno di condizionare il flusso degli eventi gli islamisti?». Il prossimo futuro dell’Egitto insomma è aperto a tutte le direzioni mentre i riflessi sul nostro Paese – primo partner commerciale dell’Egitto - sono abbastanza prevedibili. E sono tanto per cambiare preoccupanti. «A Pantelleria e Lampedusa, cominciano ad esserci segnali precisi di nuovi arrivi. Siamo al punto di partenza per gli accordi di riammissione, che stanno ancora funzionando, ma che cosa succederebbe se la situazione nel nord Africa dovesse ulteriormente complicarsi? In un ipotesi pessimista potrebbero esserci grandi flussi che per paura, per fame o per persecuzioni potrebbero venire in Europa. Se saltano le reti di comando poi è ancora peggio. Non ci sarebbero più flussi irregolari e ci troveremmo di fronte a uno scenario nero». Un altro aspetto che colpisce di questa crisi è che ha colto di sprovvista tutti. «Non solo noi europei e gli americani ma anche la la Lega araba è rimasta stupita per il propagarsi di queste rivoluzioni a catena». Per quanto riguarda il silenzio di cui è accusato il governo Boniver spiega trattarsi di prudenza: «Non è questione di non essere attivi ma di muoversi con la massima prudenza. Ora si tratta di guardare gli interessi degli italiani in Egitto e dei nostri imprenditori»

Il prezzo del greggio è già ora a cento dollari al barile e non è ragionevole ipotizzare un abbassamento del suo costo


l’approfondimento

pagina 4 • 2 febbraio 2011

È dal 1979 che l’Iran tenta di diffondere l’insurrezione islamista. Prima con Khomeini, oggi con Khamenei. Ma senza successo

Il Cairo non è Teheran

L’esercito non sta dalla parte dei fondamentalisti: per questo il lavorio di Ahmadinejad per dar vita a un nuovo «Medioriente islamico» cadrà nel vuoto. La novità, stavolta, è che chi va in piazza non ha ideologie di Daniel Pipes ome era prevedibile, il tanto atteso momento di crisi dell’Egitto è arrivato, le ribellioni popolari stanno scuotendo i governi di tutto il Medioriente e l’Iran si trova come mai prima di ora al centro dello scacchiere regionale. I suoi governanti islamisti intravedono, infatti, la possibilità, in questo caos, di dominare l’area mediorientale. Ma le rivoluzioni sono difficili da mettere a segno e sono convinto sia che i fondamentalisti non riusciranno a effettuare un ampio sfondamento del Medioriente sia che Teheran non emergerà mai come il giocatore chiave di questa contesa. Ovviamente, dietro questa mia conclusione ci sono molte riflessioni. Di seguito le principali.

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L a pr i m a r ig ua r d a l’eco della rivoluzione iraniana. Salendo al

potere nel 1979, l’Ayatollah Khomeini ha cercato di diffondere l’insurrezione islamista in altri Paesi, ma il suo disegno non è riuscito quasi da nessuna parte. Anzi: sono dovuti passare ben trent’anni prima che l’autoimmolazione di un venditore ambulante in una sconosciuta località tunisina innescasse la conflagrazione a cui aspirava Khomeini e che le autorità iraniane ancora cercano. La seconda riflessione concerne la cosiddetta guerra fredda

I militari non intendono ”sdoganare” i Fratelli musulmani

mediorientale. Il Medioriente si divide da anni in due grandi blocchi impegnati in una guerra fredda regionale al fine di far crescere la propria influenza. Il Blocco della Resistenza guidato dagli iraniani che include la Turchia, la Siria, Gaza e il Qatar. E il Blocco dello Status quo che comprende il Marocco, l’Algeria, la Tunisia, l’Egitto, la Cisgiordania, la Giordania, lo Yemen e gli emirati del Golfo Persico. Da notare che il Libano in questi giorni si sta spo-

stando dal Blocco dello Status quo a quello della Resistenza e che questo diffuso malcontento ha luogo solo in seno al Blocco dello Status quo.Terza considerazione: la peculiare situazione di Israele. I leader israeliani hanno scelto la strada del silenzio e non aprono bocca e la loro quasi irrilevanza sta a sottolineare la centralità iraniana. Se Israele ha molto da temere dai vantaggi di Teheran, questi allo stesso tempo evidenziano il fatto che lo Stato ebraico è un’isola di stabilità e che rappresenta l’unico alleato affidabile dell’Occidente in Medioriente. La quarta riflessione sottolinea la mancanza di ideologia. Le teorie che coniano slogan e quelle cospirative che dominano i discorsi mediorientali sono ampiamente assenti dalle folle radunate all’esterno dei palazzi governativi per chiedere di porre fine alla sta-

gnazione, all’arbitrarietà, alla corruzione, alla tirannia e alle torture. Quinto punto: Esercito contro moschee. I recenti avvenimenti confermano che due poteri, le forze armate e gli islamisti, dominano una ventina di Paesi mediorientali: l’esercito controlla il popolo grazie alla forza e gli islamisti offrono una visione. Le eccezioni esistono: una sinistra vivace in Turchia, fazioni etniche in Libano e in Iraq, la democrazia in Israele, il controllo islamista in Iran. Ma lo schema sopra descritto è ampiamente la norma. La sesta riflessione riguarda l’Iraq, che è il paese più instabile della regione e purtuttavia non è teatro di alcuna manifestazioni di protesta. Il motivo è presto detto: la sua popolazione non deve far fronte a un’autocrazia vecchia di decenni.

Settima analisi: è possibile un golpe militare? Gli islamisti desiderano bissare il loro successo in Iran sfruttando il


2 febbraio 2011 • pagina 5

La crisi egiziana (come quella di Tunisi) parla anche di noi e della nostra politica estera

Povera Italia. Sta dimenticando le sue radici nel Mediterraneo

La storia insegna che il ruolo internazionale del Paese è legato alla centralità del “Mare Nostrum”. Ma questo governo l’ha scordato di Francesco D’Onofrio na adeguata riflessione storica consente di rilevare le due straordinarie novità che, anche se in tempi diversi tra di loro, stanno finendo con il porre l’Italia tutta in un contesto geopolitico per un verso nuovo (le direttrici di fondo del nuovo protagonismo asiatico), e per altro verso antico (la naturale appartenenza dell’Italia al contesto europeo). L’incontro di Todi ha infatti finito con il porre in evidenza che la straordinaria novità del nuovo polo per l’Italia consiste proprio nel suo proporsi quale guida di governo del nostro Paese nel contesto della nuova geopolitica che colloca l’Italia appunto in modo nuovo tra Europa e Mediterraneo. Occorre infatti saper guardare con una adeguata analisi storica al contesto europeo nel quale l’Italia del secondo dopoguerra finì con lo scegliere il processo di integrazione europea dopo la sconfitta militare che aveva concluso la grave illusione nazionalistica del fascismo.

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L’Europa (allora occidentale perché ad Est vi era l’Unione Sovietica) rappresentava infatti anche una rigorosa scelta democratica perché finiva con il collocare l’Italia di quel periodo in un contesto europeo al quale avevano partecipato in modo determinante (anche se sostanzialmente coloniale) le diverse parti d’Italia che a metà dell’Ottocento erano confluite nel comune Regno d’Italia. L’Europa rappresentava pertanto sostanzialmente la democrazia che aveva concorso a sconfiggere la proposta totalitaria dell’Italia fascista non meno che della Germania nazista. Scelta democratica fu pertanto quella posta a fondamento della stessa scelta europeistica di Alcide De Gasperi. Nel medesimo arco di tempo stava maturando il faticosissimo processo di decolonizzazione dell’Africa del Nord: dal Marocco all’Egitto si stava infatti concludendo una lunga stagione coloniale che soprattutto gli inglesi e i francesi avevano condotto anche in riferimento al Nord Africa. Fu in quel periodo (durato quasi un ventennio successivo alla seconda guerra

mondiale) che la scelta anti-colonizzatrice promossa dagli Stati Uniti finì con il saldare la scelta europeistica dell’Italia con la politica estera nordafricana degli Stati Uniti: una comune radice democratica finiva con il dare una comune prospettiva ad Alleanza Atlantica da un lato ed europeismo dall’altro.

Il processo di colonizzazione del Nord Africa ha finito con il convivere da un lato con un parallelo processo di demo-

La globalizzazione rende quest’area fondamentale nei nuovi rapporti tra Asia, Africa ed Europa cratizzazione di tre rilevanti Stati europei: Grecia, Spagna e Portogallo, e dall’altro con il disgelo del sovietismo della Jugoslavia e dell’eccentrico comunismo cinese dell’Albania. Questi complessivi processi politico-istituzionali che si sono andati consolidando negli ultimi venti anni, non hanno purtroppo trovato adeguata attenzione proprio da parte dell’Italia, forse perché il peso del mediterraneismo mussoliniano ha impedito troppo a lungo una adeguata

iniziativa italiana riferita a quel che stava accadendo proprio intorno a noi. Le stesse vicende che si stanno svolgendo in Albania, in Tunisia e in Egitto, proprio in questi giorni, vedono purtroppo una insufficiente partecipazione italiana alle iniziative che i maggiori Paesi europei stanno assumendo in riferimenti a queste parti del Mediterraneo. Occorreva pertanto che la nuova situazione geopolitica del Mediterraneo trovasse in nuovi protagonisti mondiali un punto di forza non legato alla prevalente cultura mitteleuropea, che sembra talvolta guidare la politica estera tedesca, o alla perdurante egemonia mondiale della politica estera statunitense. Questa, a sua volta, da qualche tempo ha cominciato a guardare al Pacifico molto più che all’Atlantico.

È in questo contesto che da qualche anno l’emersione soprattutto dell’India e della Cina nel panorama geopolitico mondiale fa del Mediterraneo un’area a sua volta dotata di una nuova centralità: nuova, perché non più legata a velleitarie pretese egemoniche del fascismo italiano in questa area; centralità, perché il nuovo equilibrio mondiale - proprio della globalizzazione in atto - fa del Mediterraneo un’area fondamentale per i nuovi rapporti tra Asia, Africa ed Europa. Si tratta dunque della necessità di attrezzare il governo del nostro Paese di una adeguata cultura del nuovo rapporto tra Europa e Mediterraneo: si tratta di una grande sfida politica, prima ancora che economica, ed è di conseguenza che l’Italia ha bisogno di una classe dirigente all’altezza di questa sfida. La critica che l’Udc aveva ripetutamente fatto al finto bipolarismo Pd-Pdl aveva infatti posto in evidenza la necessità di passare da una esperienza di cartelli elettorali ad una proposta di patti politici: il nuovo rapporto tra Europa e Mediterraneo rende sempre più evidente che i cartelli elettorali possono essere forse utili per vincere le elezioni, ma che essi non sono idonei per governare l’Italia nel nuovo contesto del rapporto tra Europa e Mediterraneo. Anche su questo punto, dunque, l’incontro di Todi è andato oltre il pur importante coordinamento parlamentare dei partiti che fanno parte del nuovo polo.

malcontento popolare per assumere il potere. L’esperienza della Tunisia ci induce a un attento esame dello schema che potrebbe essere reiterato ovunque. La leadership militare tunisina ha concluso che il suo uomo forte, Zine El Abidine Ben Ali, era diventato troppo difficile da accontentare - specie con l’ostentata corruzione della famiglia di sua moglie - per poter conservare il potere, così lo ha rimosso e, per sicurezza, ha spiccato un mandato di cattura internazionale per lui e la sua famiglia. Fatto questo, quasi l’intera vecchia guardia è ancora lì al suo posto, con il capo di Stato Maggiore Rachid Ammar a rimpiazzare Ben Ali come intermediario del Paese. La vecchia guardia spera che ritoccare il sistema, garantendo più diritti civili e politici, le garantirà di conservare il potere. Se questa mossa avrà successo la manifesta rivoluzione di metà gennaio finirà per essere un vero e proprio colpo di stato.

Questo scenario potrebbe ripetersi ovunque, specie in Egitto, dove l’esercito domina il governo dal 1952 e intende mantenere il potere contro il Fratelli musulmani al bando dal 1954. La nomina di Omar Suleiman, l’uomo forte di Hosni Mubarak, pone fine alle pretese dinastiche della famiglia Mubarak e solleva la prospettiva che Mubarak rassegni le dimissioni a favore di un governo militare diretto. Più in generale, scommetto sul modello del tipo “più continuità che cambiamenti” che è emerso finora in Tunisia. Un governo oppressivo si mitigherà un po’ in Egitto e ovunque, ma i militari continueranno ad essere gli intermediari fondamentali. Ottava considerazione: la politica americana. Il governo Usa ha un ruolo fondamentale nell’aiutare il Medioriente a transitare dalla tirannia alla partecipazione politica senza che gli islamisti assumano il controllo del processo rivoluzionario. Nel 2003, George W. Bush ha avuto l’idea giusta di chiedere che venisse avviato un processo di democratizzazione, ma ha rovinato questo tentativo chiedendo dei risultati immediati. Barack Obama ha inizialmente ripreso la vecchia politica fallita del comportarsi bene con i tiranni, ma ora si è schierato con gli islamisti contro Mubarak. Obama dovrebbe emulare Bush, facendo però un lavoro migliore, vale a dire comprendere che la democratizzazione è un processo a lungo termine che richiede la necessità di instillare delle idee intuitive riguardo alle elezioni, alla libertà di parola e alla supremazia della legge.


la crisi politica

pagina 6 • 2 febbraio 2011

Perché non basta dire «fuori tempo massimo»

Così ci sarebbe piaciuto che Bersani rispondesse a Berlusconi entile presidente del Consiglio, è evidente a tutti, anche ai bambini superiori ai cinque anni, che la lettera pubblicata a sua firma dal Corriere della Sera, è solo un tardivo e assai poco credibile tentativo di uscire dal vergognoso angolo in cui lei si è cacciato con il “caso Ruby”. E mi permetta di osservare come ella dimostri uno spiccato senso del cinismo (con la enne non con la vu) usando, a tal fine strumentalmente, il tema della crescita economica dell’Italia, tema che finora non ha minimamente voluto affrontare. In ogni caso, visto che l’esigenza di un “grande piano per lo sviluppo” è davvero urgente per il nostro Paese, prendo sul serio la sua proposta facendo volutamente finta di non vedere che si tratta solo di una tardiva e disperata mossa tattica. In fondo, non è mai troppo tardi….

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Le ricordo innanzitutto che lei non ha, nelle Camere, una maggioranza in grado di governare alcuna grande riforma, tanto meno di carattere costituzionale. Dunque lei, per non urlare al vento, ha bisogno dell’opposizione. Ma ella non può pretendere di coinvolgerci solo “a chiacchiere”. Di fronte a scelte così importanti, la parola dialogo è del tutto insufficiente. Noi potremmo (e aggiungo dovremmo) partecipare responsabilmente a ogni progetto utile al futuro del Paese solo se effettivamente coinvolti, fin dall’inizio e fino in fondo, nelle scelte da compiere e nella loro gestione operativa. Il che vuol dire una sola cosa: un nuovo governo di responsabilità nazionale. Dunque, se lei davvero volesse operare per il bene della nostra Italia e aprire una fase proficua di cooperazione tra maggioranza e opposizione, dovrebbe andare al Quirinale, dimettersi, e indicare al presidente Napolitano e a tutte le forze politiche riformiste, la via di una inedita stagione di collaborazione. Con il che, come lei capisce, torniamo al punto di partenza: a ciò che lei ha rifiutato testardamente di accettare fino all’esplosione dell’indecente “caso Ruby”. Ha lei oggi la forza di accettare ciò che fino a ieri ha negato? Lo dimostri.

Per controfirmare provvedimenti così importanti l’opposizione deve poter collaborare alle scelte

Avvertendola che, in ogni caso, per ragioni di decoro internazionale e nazionale del Paese, ma anche per il fatto che le svolte politiche richiedono mutamenti simbolici (non ci sono nel governo degli Stati “uomini per tutte le stagioni”) non è lei ora la persona più affidabile per presiedere un esecutivo di così grande impegno. In conclusione: dimostri lei di credere davvero a ciò che ha scritto: e faccia un passo indietro.

Domani il voto in Commissione: maggioranza e opposizione sarebbero pari

Il governo rischia di scivolare sul federalismo

Il Cavaliere in un giorno cerca di fare quello che non ha fatto in due anni: Sud, case e Irap di Francesco Pacifico

ROMA.

Nei palazzi della politica l’atmosfera è da resa dei conti. Venerdì Silvio Berlusconi vuole lanciare una ventata di liberalizzazioni e aggiornare la Costituzione per venire incontro alle imprese. Peccato che già domani potrebbe ritrovarsi senza maggioranza, con la Lega che è pronta a far saltare il tavolo qualora non passasse in Commissione bicamerale sul federalismo il testo sulla nuova fiscalità municipale. Questa mattina Roberto Calderoli presenterà un nuovo emendamento per convincere le opposizioni. In questa logica ha visto Antonio Di Pietro, che però ha ribadito il no dell’Idv. «Votiamo a favore soltanto se la Lega scarica il premier». Così – con l’altoatesina Thaler ancora incerta – si va verso un pareggio che equivale a un no. Perché indipendentemente dalle posizioni di Roberto Calderoli e Rober-

to Maroni – dialogante l’uno, ultimativo l’altro – il Carroccio sa bene che a livello elettorale può spendersi sia l’approvazione del federalismo sia il suo affossamento da parte di un Terzo polo troppo centralista e di alleati poco coraggiosi.

Invece il Cavaliere ha bisogno che il testo passi, e non soltanto perché un ritorno alle urne è a oggi dall’esito troppo incerto. Così deve legare il suo futuro politico a quello del governo, e questo vuol dire riforme. Siano il processo breve oppure i due articoli da aggiungere all’articolo 41 della Costituzione (è lecito tutto quello che non è vietato dalla legge e la necessità di indirizzare l’attività economica a fini sociali», il rilancio del Piano casa, riforma dei servizi pubblici locali e dell’Irap e il piano di defiscalizzazione per il Sud, che sono attesi al

consiglio dei ministri di venerdì. In questa logica i migliori sondaggi sull’appeal del governo li ha forniti l’Istat con gli ultimi dati sulla disoccupazione. Dai quali svetta quella giovanile, ormai in crescita galoppante, al 29 per cento. Se più in generale, a dicembre, il livello di disoccupazione in Italia è rimasto stabile all’8,6 per cento, quasi un punto e mezzo inferiore rispetto alla media europea, non si arresta l’emergenza nella fascia di popolazione tra i 15 e 24 anni. A riprova che è a pagare il conto della crisi è stata questa generazione, priva di welfare in uscita come la cassa integrazione e con una formazione sempre più lontana dalla domanda del mercato. Con il picco del 29 per cento (+0,1 punti percentuali su novembre e +2,4 rispetto a un anno prima) si tocca il record storico. E la percentuale si traduce in 2,146 milioni di giovani


la crisi politica

Qui accanto, i ministri Tremonti e Brunetta: sulla gestione della politica economica del governo continuano ad essereci opinioni diverse tra i due. A destra, Linda Lanzillotta: il nuovo Polo resta contrario al decreto sul federalismo municipale sul quale domani si voterà in Commissione. Si teme un pareggio

usciti dal mercato del lavoro. Frenano invece gli inattivi, categoria dietro alla quale spesso si nascondono i lavoratori in nero. A dicembre sono saliti dello 0,1 per cento sia a livello congiunturale sia a livello tendenziale, toccando quota 14,905 milioni di persone. E si registrerebbe anche un lieve miglioramento sull’occupazione femminile , visto che i tecnici dell’Istat hanno fatto notare che «i livelli di occupazione delle donne si riportano a quelli di fine 2008», quando la crisi non aveva mostrato la sua faccia peggiore, con i relativi impatti sul mondo del lavoro. Il governo va avanti nella sua strategia tutta incentrata sul contratto di apprendistato e sulle risorse (poche in verità) da destinare all’orientamento universitario. E Maurizio Sacconi nota che«nella rilevazione mensile dell’Istat il mercato del lavoro si conferma stabile in un contesto europeo altrettanto stabile». Il che in teoria è vero – a dicembre si registrano 11mila disoccupati in meno – se non fosse che si amplia il delta dei giovani, neolaureati o precari non confermati, costretti a stare a casa a non fare nulla. I sindacati, però, non nascondono i loro timori e chiedono misure straordinarie. Susanna Camusso propone «un piano per il lavoro per affrontare i dati drammatici e disastrosi sull’occupazione che investono soprattutto i giovani e le donne del nostro Paese». Dalla Cisl il numero due Giorgio Santini suggerisce al governo di convocare le parti perché i dati Istat «confermano il livello preoccupante della disoccupazione, stabile all’8,6 per cento, nonostante il leggero miglioramento della crescita economica avvenuto nel corso del 2010». È questa la prima emergenza del Paese. E non si può affrontare con leggerezza una sfida elettorale con la crisi che fa sentire i suoi effetti soprattutto sul versante dell’occupa-

zione. Senza contare che la riforma dell’articolo 41 della Costituzione, la riforma dell’Irap e il piano di defiscalizzazione che ha al centro soprattutto i giovani del Sud, potrebbe anche servire per distrarre l’opinione pubblica dal Rubygate. Alla fine di un vertice politico che si è tenuto a Palazzo Grazioli tra Berlusconi e i maggiorenti del Pdl, non a caso il capogruppo del Pdl alla Camera, Fabrizio Cicchitto, ha sottolineato che il premier «ha sostanzialmente ribadito la decisione di portare a termine la legislatura e a farlo affrontando nell’immediato i problemi che riguardano il quadro economico-sociale. Credo che nel prossimo Consiglio dei ministri verrà affrontato un progetto di riforma dell’articolo 41 della Costituzione per accentuare la libertà economica. Ma sono stati anche esaminati i provvedimenti per la riforma complessiva della giustizia». Ma ogni buon proposito potrebbe crollare domani quando si voterà, in Bicamerale, sul federalismo municipale. Al momento è parità, 15 a 15, tra gli schieramenti, con il ministro Roberto Calderoli che non è ancora riuscito a convincere Pd e Terzo polo a non bocciare il testo. Massimo Corsaro, vicecapogruppo del Pdl alla Camera, ha detto in un’intervista al Sussidiario.net che «se anche la Commissione dovesse votare contro, da un punto di vista strettamente tecnico, il federalismo potrebbe passare comunque». Quindi ha svelato che «il testo che viene posto in votazione giovedì può essere riproposto tale e quale dal governo in Consiglio dei ministri per la sua approvazione definitiva». Un stratagemma che non è sufficiente per le opposizioni. «Perché in caso di pareggio», nota l’udc Gian Luca Galletti, «il dato politico è che manca la maggioranza». Ieri mattina il ministro Calderoli si è presentato alla commissione presieduta da Enrico La Loggia con un carico di modifiche al testo già concordato con i comuni. «Sono state accolte anche le proposte del senatore Mario Baldassarri, abbiamo chiarito anche che non ci sarà un aumento delle tasse per i cittadini», sottolinea dal Pdl Beatrice Lorenzin. «Ma rispetto agli emendamenti dell’opposizione», ribatte dal Pd il senatore Marco Stradiotto, «ci sono soltanto cambiamenti procedurali».

Il titolare della Semplificazione avrebbe promesso di studiare soluzioni ai nodi ancora aperti (addizionale Irpef e aggancio all’Iva, invarianza fiscale, autonomia), quindi avrebbe garantito un blocco alle tariffe con un provvedimento ad hoc. Poco per Pd e Terzo Polo. Sono in molti a scommettere su una pareggio, anche se La Loggia starebbe provando a portare avanti un’ulteriore mediazione, con la promessa di rinviare la decisione e accorpare il testo dei municipi a quello delle Regioni, visto i punti in comune. Il governo però può anche confidare sul fatto che molti deputati e amministratori del Nord del Pd vedono la bocciatura del decreto come il definitivo stop all’introduzione del federalismo fiscale. Un boomerang sopra il Rubicone.

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Galletti e Lanzillotta commentano il finto rilancio del premier

«Adesso basta illusioni, pensiamo alle famiglie» «Aiuti anche per le imprese»: il Terzo Polo boccia le misure proposte dal presidente di Franco Insardà

ROMA. Tra propaganda e realtà le proposte di Silvio Berlusconi lasciano perplessi gli esponenti del Terzo Polo. Per Gian Luca Galletti, vicecapogruppo alla Camera dell’Udc «i problemi dell’Italia li conosciamo tutti, non c’è bisogno di annunci propagandistici, ma di fare le cose. Il tempo delle buone intenzioni è finito, è necessario passare alle azioni che devono andare nella direzione che abbiamo sempre annunciato: sostegno alle famiglie e alle imprese». Anche Linda Lanzillotta, di Alleanza per l’Italia è sulla stessa lunghezza d’onda e ritiene la modifica dell’articolo 41 della Costituzione un «mero un manifesto ideologico che difficilmente potrà mai produrre effetti. Affermare, infatti, che tutto ciò che non è previsto dalle leggi sia consentito crea nel nostro sistema giuridico e amministrativo e nelle relazioni tra cittadini, imprese e pubbliche amministrazioni una situazione di incertezza che rischia di paralizzare le attività economiche, piuttosto che agevolarle. Il problema vero è quello di far funzionare le amministrazioni pubbliche in tempi coerenti con le attività economiche. L’agenda di governo sulle cose da fare è abbastanza chiara, così come hanno fatto gi altri governi europei. Bisogna agire subito su fisco, famiglia e liberalizzazioni, senza fare troppe cerimonie, come gli Stati generali dell’economia, per distrarre l’attenzione da quello che monopolizza l’opinione pubblica».

massimo, si è introdotta una sorta di forma di disincentivo fiscale. È evidente che siamo favorevoli alla defiscalizzazione, all’introduzione di bonus per i neoassunti, ai crediti di imposta per i nuovi occupati, soprattutto giovani e donne. Ricordo che è stata istituita la Banca del Sud, ma, forse, mi sono sfuggiti i passaggi successivi».

Linda Lanzillotta concorda anche con il suo collega terzopolista Mario Baldassari quando denuncia il mancato utilizzo per il Sud dei fondi Fas: «Ha perfettamente ragione, quelle risorse sono state svuotate, mentre il Mezzogiorno ha bisogno di fisco, infrastrutture, di legalità e del funzionamento della giustizia. Occorre una azione di sistema, ma questo governo non si è occupato di nulla e le Regioni sono a dei livelli di inefficienza incredibili. E, altra cosa fondamentale, per contrastare la criminalità è necessario dare puntualità ai pagamenti della pubblica amministrazione, altrimenti le piccole e medie imprese impegnate nel settore pubblico sono costrette a scivolare gradualmente verso l’usura. Prima dei progetti mirabolanti bisogna intervenire sulle cose possibili: eliminazione delle addizionali Irap, pagamenti puntuali, efficienza delle amministrazioni, restituzione dei fondi Fas e poi ben vengano le agevolazioni fiscali. Altrimenti il rischio è che i disincentivi siano troppi rispetto agli incentivi». Mentre sulle liberalizzazioni Linda Lanzillotta, ricordando che «abbiamo bisogno di misure immediate – aggiunge – e se il premier vuole dare corso alle liberalizzazioni non ha che da accettare la proposta del Terzo Polo di discutere immediatamente il progetto di legge, che abbiamo presentato da un paio di mesi, e che, in sostanza, traduce le indicazioni dell’Autorità per la concorrenza, con la relativa legge annuale, e interviene in tutti i settori principali dei servizi: dal trasporto, alle assicurazioni, alle banche, all’energia fino ai servizi pubblici locali. Per i tutti i settori c’è un pacchetto di misure che, se il presidente Berlusconi è favorevole, possono essere calendarizzate subito e approvate rapidamente. Si tratta di misure che l’Autorità per la concorrenza ha inviato al governo e al Parlamento, ma che l’esecutivo ha messo in un cassetto. Siamo felici che il presidente Berlusconi si svegli, dopo due anni e mezzo di governo, e dica che bisogna fare le liberalizzazioni».

Lanzillotta: «Per le liberalizzazioni, va ascoltata la proposta che abbiamo presentato»

Sulla tanto patrimoniale ritorna, invece, Galletti che, fresco di riunione della Bicamerale per il federalismo fiscale sottolinea come la tassa di scopo sulle opere pubbliche, contenuta nel decreto legislativo per il federalismo municipale «è una patrimoniale mascherata. Si tratta di una misura che non va sottovalutata, perchè le opere pubbliche, fatte perlopiù dai Comuni, non saranno più a carico della fiscalità generale, ma ricadranno sui cittadini che rischiano di doverle pagare a parte, attraverso una tassa ad hoc». Insomma quella della tassa di scopo per Galletti «è un provvedimento fatto male che aumenterà le tasse sui cittadini in modo indiscriminato». A proposito di tasse l’ex ministro degli Affari regionali fa notare come per il Mezzogiorno «attraverso il meccanismo delle addizionali regionali e locali per i piani di risanamento sanitario è stata varata una vera e propria fiscalità di svantaggio. Occorrerebbe prima di tutto agire sull’Irap, perché in questi due anni, con le addizionali al


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la crisi politica

Se il buco nel bilancio resta intorno al 3%, secondo le regole di Maastricht, il te l sasso della “patrimoniale” gettato nello stagno, seppure in momenti diversi, da Giuliano Amato e Pellegrino Capaldo non è stato senza conseguenze. Ha permesso a Silvio Berlusconi di uscire dall’angolo, a luci rosse, in cui i recenti avvenimenti l’avevano cacciato e di riconquistare il centro del ring. Nessuna “botta secca” per abbattere il debito – ha scritto nella lettera inviata al Corriere della Sera – ma disponibilità a discutere in tema di liberalizzazioni e politiche per la crescita. Parole che non hanno incantato Pierluigi Bersani, a cui la missiva era rivolta, da sempre sostenitore della necessità di rompere alcune delle incrostazioni corporative che frenano la società italiana. «Fuori tempo massimo» ha replicato a muso duro Letta, il giovane, in un crescendo che ha come probabile sbocco le elezioni anticipate.Vedremo domani cosa succederà in “bicameralina”. Se il federalismo andrà avanti, quell’evento sarà, almeno per il momento scongiurato. Ma se sarà pollice verso, ogni tattica si dimostrerà inadeguata e il ritorno al popolo sovrano diverrà pressoché inevitabile. E c’è già chi azzarda una possibile data: quella di metà maggio. Il mese della dea romana Maia, che, nella cultura cristiana, è dedicato alla Madonna.

I

Al di là dei tatticismi e delle manovre pre-elettorali, dove ciascuno cerca il suo posizionamento, il problema posto da Amato e Capaldo è reale. Anche se le soluzioni ipotizzate non hanno trovato un’audience favorevole. Sia a destra che a sinistra, l’ipotesi di una patrimoniale non convince. Non appartiene agli strumenti di politica economica tipici della tradizione italiana. Si pensi solo alla fine ingloriosa dell’Ici – un semplice bar-

La tassa sui beni proposta da Amato e Capaldo è un’arma a doppio taglio che non consente un risanamento reale dei conti dello Stato lume – e si avrà contezza di quanto poteva risultare ostica una simile proposta. Ma vediamo i dettagli. Dice Amato: «Se è vero che il debito pubblico è la strozza più soffocante sul collo dei nostri giovani, sarebbe responsabilità delle nostre generazioni che quel debito l’hanno creato non lasciarlo in eredità ai giovani, almeno non in questa devastante misura. Il debito è di 30mila euro a italiano; liberarci di un terzo di esso già lo riconduce a dimensioni governabili, sotto l’80%, quindi fuori dalla zona rischio; significherebbe pagare 10mila euro a italiano. Ma siccome gli italiani non sono tutti uguali, potremo mettere la riduzione a carico di un terzo degli italiani. A quel punto sarebbero 30 milaeuro per un terzo degli italiani, magari in due anni. Secondo me è sopportabile». Diagnosi che lascia perplessi, se solo si considera che sarebbe un carico aggiuntivo su una pressione fiscale che è già alla vetta delle classifiche europee ed

Patrimoniale? No La riforma della Carta tedesca per frenare il debito pubblico è l’esempio giusto da seguire di Gianfranco Polillo occidentali. Su come realizzare questo disegno, Amato non fornisce indicazioni. Da qui l’accusa che circola all’interno dello stesso schieramento d’opposizione. È stata solo un’auto-candidatura. Si riparla del dopo-Berlusconi ed ecco rispuntare il Dottor Sottile. Una strizzatina d’occhio ai mercati nella speranza di un endorsement, che forzi la mano ad un «centro-sinistra – sono sempre le sue parole – che è ancora alla ricerca di un’anima». Auguri, quindi. Pellegrino Capaldo ha cercato, invece, di dare sostanza tecnica a questa pulsione. Come articolare il prelievo? La ripartizione potrebbe avvenire «in base al valore corrente del patrimonio immobiliare, dando rilievo all’epoca in cui i beni sono entrati nella disponibilità dell’attuale titolare. Un esempio. Secondo dati attendibili, il debito pubblico è pari grosso modo al 25% del patrimonio immobiliare italiano espresso in valori correnti. Ne deriva che per dimezzare il debito pubblico occorrerebbe che su ogni immobile venisse trasferito mediamente un debito pari al 12,5% del suo valore corrente». Dove quel

12,5% è il valore medio di un prelievo che dovrebbe oscillare, a secondo dei casi «tra il 5 ed il 20% del valore corrente dei singoli cespiti». Ma attenzione – precisa sempre Capaldo – «questa non è un’imposta patrimoniale. Ma sulle plusvalenze immobiliari. Il contribuente può pagare subito, ottenendo anche un congruo sconto; può pagare nell’arco di 3-4 anni senza sconto e senza interessi; può pagare a scadenza indeterminata, magari quando l’immobile sarà venduto: in tal caso il debito sarà assistito da ipoteca sull’immobile e sarà oneroso a un tasso grosso modo pari a quello dei mutui fondiari». Una sorta di percorso di guerra, come si vede.

Ma che male ha fatto quel cittadino che ha comprato una casa per se e per la propria famiglia? Quali peccati deve scontare? Si trattasse, poi, di un’eccezione. Ma non dimentichiamo che questa scelta – a differenza di altri Paesi, come la Germania – è stata condivisa dall’80 per cento della popolazione italiana. Silvio Berlusconi ha avuto, quindi, buon gioco nel respingere la proposta al mittente, costringendo tutta l’opposizione a prenderne le relative distanze. Ma il problema del debito italiano rimane. È un macigno con cui fare i conti. E allora “che fare”? La prima considerazione è che bisogna evitare soluzioni del tipo “fai da te”. Il problema – sta qui la novità – non è solo italiano. Se ne discute in Giappone (204 per cento del Pil) e un recente abbassamento del rating. Negli Usa (100 per cento del Pil) è stato al centro del discorso di Obama sulla stato dell’Unione. In Europa, si cercano – e in parte sono state trovate – soluzioni da condividere. Secondo un recente studio della Commissione europea, se non si interverrà, nel 2020 sarà l’intera Europa a ballare sulla tolda del Titanic. Per la Grecia e l’Irlanda si prevede una soglia vicina al 180 per cento del Pil. Per l’Inghilterra il 120 per cento, subito seguita dalla Francia e dal Belgio con una cifra solo leggermente inferiore: 100 per cento. E l’Italia? Le stesse previsioni

indicano un progressivo, anche se troppo leggero, contenimento. Si passerebbe, infatti, dall’attuale 118 per cento al 100 per cento. Solo la Germania – il che spiega la determinazione di Angela Merkel nel rifiutare ogni sconto – sarebbe in zona di sicurezza, con un rapporto prossimo al 60 per cento del Pil.

Questi dati richiedono una spiegazione. La crisi – lo abbiamo scritto più volte – non ha colpito allo stesso modo i diversi Paesi. Il salvataggio del sistema bancario del mondo anglosassone, con le sue appendici in Francia, Spagna e Portogallo per non parlare dell’Irlanda, ha richiesto il massiccio intervento dello Stato. Così il debito privato – ma ancora non abbiamo raschiato il fondo del barile – si è trasformato in debito pubblico, a carico del contribuente. Ed i valori sono schizzati verso l’alto. L’Irlanda, solo per citare un caso, prima del


la crisi politica

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empo di riduzione del debito tenderà all’infinito. Dobbiamo intervenire subito

o, Costituzionale il tasso di crescita aumenta rispetto al passato, anche i tempi di rientro dal debito diminuiscono in modo corrispondente. Gli inconvenienti derivano dall’andamento dei tassi d’interesse, fin troppo contenuti a partire dagli inizi degli anni ’90. Se aumentano, cresce lo sforzo fiscale per mantenere il pareggio di bilancio. Un rischio? Certamente.

Ma un rischio permanente, anche nell’eventualità di ricorrere a manovre di carattere straordinario, come la “patrimoniale”. Non è un caso che sia questa la proposta di Angela Merkel. In Germania una modifica di carattere costituzionale ha stabilito che, nei prossimi anni, il deficit di bilancio non potrà superare lo 0,35 per cento del Pil. Un suggerimento che dovrebbe essere accolto da un Paese, come il nostro, che ha

Servono funzioni di controllo rispetto a quel consociativismo che ha unito maggioranza ed opposizione nell’assalto alla diligenza grande tracollo era un Paese virtuoso. Nel 2006 il suo debito era pari ad appena il 25 per cento del Pil. Sarà pari al 96,2 per cento nel 2011. Un’accelerazione micidiale. In Italia è accaduto l’opposto. Il debito, nonostante la crisi, ma grazie soprattutto alla tenuta rigorosa dei conti pubblici, è rimasto costante. Il che spiega le diversità che si riscontrano, sui mercati, nell’andamento degli spread: vale a dire il premio per il rischio che spinge verso l’alto l’asticella degli interessi. Possiamo continuare così, come se niente fosse? La risposta è data dal grafico che pubblichiamo. Se il deficit di bilancio resta intorno al 3%, secondo le attuali regole di Maastricht, il tempo di riduzione del debito tende ad infinito. Soluzione inaccettabile, che nel lungo periodo pagheremo con una forte crescita della spesa per interessi. Ma se raggiungiamo il pareggio di bilancio, la prospettiva cambia rapidamente. In

venti anni, con un tasso di crescita dell’economia pari a quella riscontrata negli anni precedenti, raggiungeremmo il 60 per cento. Nessun dramma, quindi; solo una coerenza di comportamenti – il bilancio a pareggio per l’intero periodo – da perseguire con determinazione.

Quali i vantaggi e gli svantaggi? Il primo sarebbe l’immediata riduzione della spesa per interessi.Verrebbe, infatti, meno lo spread con i bund tedeschi. Un risparmio potenziale di circa 20 miliardi di euro, da poter utilizzare per ridurre la pressione fiscale o per altri obiettivi. Quindi un segnale potente nei confronti della società italiana: basta con gli sprechi pubblici, l’assistenzialismo, il lassismo mascherato da politiche di stampo keynesiano. Lo sviluppo è soprattutto il prodotto della logica di mercato e della responsabilità che è sottesa al suo modo di funzionare. Se l’esperimento riesce e

un debito pubblico pari al doppio di quello tedesco. Questi sono, quindi, i termini del dibattito reale. Da un lato proposte estemporanee su basi esclusivamente nazionali, dall’altro un’impostazione che coerente con quanto sta avvenendo, seppure in nodo non univoco, negli altri Paesi occidentali: dagli Stati Uniti alla Germania. Sullo fondo una divaricazione di carattere politico programmatico. Ridotto all’essenziale, l’interrogativo è sempre lo stesso. È lo Stato che fa sviluppo o è un mercato, ovviamente, regolato? Chi propende per la prima impostazione, chiede un prelievo eccezionale a carico del contribuente, per consentire alla Pubblica amministrazione margini di manovra, meno ampi del passato, ma comunque consistenti. Chi punta al bilancio a pareggio, dall’esperienza della destra storica italiana fino ai giorni nostri, vede invece nel mercato il motore dello sviluppo.

Mentre compito dello Stato è quello di controllare che questa macchina potente non debordi, com’è avvenuto nel corso di questa crisi, nell’eterogenesi dei fini. Questo restringe forse i confini della politica? No, ne cambia i connotati. Pone al centro dei suoi interessi la libertà del singolo. Impone vincoli all’operare della pubblica amministrazione: uno soprattutto quello di bilancio. Esalta le funzioni di controllo, rispetto ad un consociativismo che, negli anni passati, ha unito maggioranza ed opposizione nell’assalto alla diligenza. Tanto a pagare erano altri: quelle generazioni future che non votavano e che, quindi, potevano essere scelte come vittime sacrificali. Questi sono, quindi, i termini di una questione molto più complessa di quanto a prima vista potesse apparire. Se si pensava a qualche espediente per movimentare un periodo, forse, pre-elettorale, le conseguenze saranno, invece, ben più durature. All’attuale maggioranza è stato offerto un salvagente. Ha consentito al premier di rindossare gli abiti del liberalismo, contro uno statalismo della sinistra duro a morire. Non siamo in grado di valutare quale sarà l’impatto sulla pubblica opinione. Ma è facile pre-

vedere verso quali preferenze si muoverà il popolo dei tartassati. Da un lato abbiamo, infatti, una visione rassicurante, che trova sponda nell’esperienza degli altri Paesi occidentali. Certo giungere al pareggio di bilancio, nel giro di un paio d’anni, non sarà facile.

Richiederà comunque riforme importanti nel modo d’essere ed operare della pubblica amministrazione. Ma sul piano quantitativo si tratta solo di continuare lungo la strada tracciata negli ultimi due anni, con una manovra che ha, più o meno, la stessa entità. Sul fronte opposto, invece, si è pensato ad uno strumento – l’imposta patrimoniale – che non ha mai avuto diritto di cittadinanza nella storia più recente dell’Italia. Fu proposta nell’immediato dopoguerra dal PCI: contro la linea di Pella e di Einaudi. Allora camuffata da un’ipotesi di “cambio della moneta”, che mirava appunto a colpire, incidendo sul patrimonio accumulato, quelli che erano considerati “profitti di guerra”. Una proposta che non fu accolta nemmeno dalla CGIL di Di Vittorio. Da allora cadde nel dimenticatoio, prima che qualcuno – non solo Amato e Capaldo, ma anche Carlo De Benedetti – la rilanciassero, non si sa con quale fortuna.


diario

pagina 10 • 2 febbraio 2011

Burqa vietato a Sesto San Giovanni

Una società su tre dichiara solo debiti

MILANO. Il Consiglio comunale di Sesto San Giovanni, che ha una maggioranza di centrosinistra, ha approvato quasi all’unanimità una mozione presentata dalla Lega Nord contro l’utilizzo del burqa nei luoghi pubblici. Nel documento, che è stato emendato, si legge che «il burqa e altre forme simili di vestiario, che coprono integralmente il viso delle persone (...) costituiscono, secondo la nostra cultura, una forma di integralismo oppressivo della figura femminile e di costrizione della libertà individuale». L’assemblea, dunque, impegna il sindaco ad adottare «a far rispettare, a qualsiasi persona presente sul territorio comunale le nostre leggi vigenti in tema di sicurezza e di dignità della donna».

ROMA. Forse è un segno della

Corea, reattore segreto nel Nord

crisi, ma forse è un segno della furbizia di certe categorie di italiani che riescono sempre ad aggirare i vincoli del fisco, pensando che le tasse non contribuiscano al bene comune. Comunque, solo il 60% delle società di capitali, nel 2008, ha dichiarato in positivo un reddito fiscale (nel 2007 erano il 61%), mentre addirittura il 35% ha dichiarato in negativo una perdita fiscale: in pratica, una società su tre è in debito e non si spiega come possa sopravvivere… Questo dato emerge dall’analisi del reddito d’impresa sulla base delle dichiarazioni Ires (imposta sui redditi delle società) presentate dalle aziende nel 2009 dalle quali emerge una forte concentrazione del reddito al Centro e al Nord.

SEOUL. I colloqui militari tra le due Coree sono stati anticipati all’8 febbraio prossimo. La notizia arriva però insieme a quella che l’Onu denuncia la presenza di un impianto nucleare segreto nel Nord. L’agenzia di stampa sudcoreana Yeonap riporta che ieri mattina Pyongyang ha inviato una nota al ministero della Difesa del Sud proponendo di spostare la data dell’incontro, in precedenza fissato per l’11. Quello dell’8 sarà il primo tentativo di dialogo tra i due Paesi, dopo mesi di tensioni esplose il 23 novembre scorso, quando il Nord ha bombardato un’isola sudcoreana. Nel frattempo, un rapporto Onu denuncia l’esistenza di un impianto nucleare segreto nel Nord, nella struttura di Yongbyon.

Consiglio di guerra a Palazzo Grazioli. Un comunicato annuncia: «Tutti in piazza!», Bonaiuti smentisce. Montecarlo: inchiesta su Frattini

La ribollita del Cavaliere

Il Pdl prima litiga sul corteo anti-toghe, poi rilancia il processo breve di Errico Novi

ROMA. Come definirle? Perdite di controllo? Di sicuro dalla Procura di Roma e da Palazzo Grazioli arrivano due secche sconfessioni dell’invito all’equilibrio tra i poteri rivolto da Napolitano. Di prima mattina i carabinieri, su ordine della magistratura, fanno irruzione a casa di Anna Maria Greco, cronista del Giornale, per l’articolo sugli amori privati della Boccassini. A metà giornata, poi, il premier dà ordine a Daniela Santanché e Michela Brambilla di approntare un piano di mobilitazioni per difenderlo contro le aggressioni giudiziarie. Ordine mezzo smentito da Paolo Bonaiuti e, ancora dopo qualche minuto, mezzo riconfermato dai coordinatori del Pdl. Al Quirinale s’era acceso l’allarme rosso soprattutto per la ventilata minaccia del Cavaliere di usare la piazza contro le inchieste. Scongiurato la prima volta, l’insano proposito riaffiora dunque nel verticefiume di Palazzo Grazioli, come un impulso malamente tenuto a bada.Tutto poi si riduce a un incarico“di partito”per la pasionaria Santanché: «In qualità di sottosegretario all’Attuazione del programma potrà predisporre un piano d’iniziative per illustrare ai cittadini le realizzazioni del governo Berlusconi. Nulla a che vedere quindi con le vicende giudiziarie che vedono coinvolto il presidente». E nemmeno questo è vero. Perché inevitabilmente seppure ci si limitasse ai gazebo informativi, è prevedibile che gli attrezzi della propaganda sarebbero pieni di riferimenti alla magistratura politicizzata. Nulla di vietato, certo non è in vista l’adunata oceanica di berlusco-

Una nota Pdl ha annunciato nel pomeriggio un «piano di iniziative e mobilitazioni a sostegno del governo e a difesa del premier dalle aggressioni mediaticogiudiziarie, affidato da Silvio Berlusconi a Daniela Santanchè e a Michela Vittoria Brambilla». Ma poi è arrivata la smentita di Bonaiuti: «La notizia è frutto di un equivoco»

niani pronti a marciare contro la Boccassini evocata a un certo punto la settimana scorsa. Si capisce, questo sì, che il Cavaliere è furioso. E che a lui l’adunata sarebbe piaciuta, e molto. E che l’intenzione di schierare le due amazzoni del governo c’era tutta, altro che equivoco, come lo definisce il primo comunicato di smentita siglato Bonaiuti. Il punto è che Berlusconi viene te-

nuto a freno, almeno nei suoi slanci più rabbiosi, dai vertici del partito e del governo. Da Gianni Letta, innanzitutto, ufficiale di collegamento con il Quirinale. Nella riunione di Palazzo Grazioli ci si trova comunque concordi su un punto: la legislatura non si ferma, al voto anticipato si farà ricorso solo se costretti. E casomai, si ritorna con il coltello tra i denti in Parla-

mento, dove già oggi la commissione Giustizia di Montecitorio potrebbe ricalendarizzare il processo breve, oltre a mettere in agenda il ddl Vitali sulle “ingiuste intercettazioni”dei pm. A confermarlo è lo stesso guardasigilli Alfano.

Se permane insomma una volontà di scontro a stento contenuta, sul fronte berlusconiano,

dal lato della magistratura inquirente non sono da meno. Intanto viene confermata la notizia dell’iscizione di Frattini a registro degli indagati per le nuove carte sulla casa di Montecarlo: il fascicolo sarà trasmesso nelle prossime ore, per competenza, al Tribunale dei ministri. Ma il caso più discutibile è un altro: dopo l’articolo di Anna Maria Greco su una vecchia vicenda che riguarda la Boccassini e la relazione con un esponente di Lotta Continua, arriva una furibonda reazione, davvero da stato di polizia, dell’ordine giudiziario. Nell’abitazione della giornalista requisiscono persino il pc del figlio. Avrebbero potuto limitarsi all’inchiesta sull’unico indagato di tutta la storia, il componente laico del Csm Matteo Brigandì, già parlamentare leghista. Brigandì è iscritto al registro della Procura di Roma per abuso d’ufficio. Sul suo ufficio a Palazzo dei Marescialli, nella notte tra lunedì e martedì, i militari dell’Arma appongono i sigilli. L’accusa: l’ex deputato lumbàrd avrebbe passato al Giornale le informazioni sulla Boccassini contenute in un vecchio fascicolo del Csm. L’istruttoria risale com’è noto a quasi trent’anni fa, epoca in cui sulle indagini interne della magistratura vigeva il segreto. D’altronde indagini del genere oggi sarebbero pubbliche. Certo, il procedimento disciplinare sulla Boccassini, relativo a effusioni erotiche consumate proprio negli uffici della Procura, venne archiviato, e dunque fu accantonata qualunque ipotesi di sanzione a carico della pm. Ma sul Giornale diretto da Alessandro Sallusti non era stata com-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Morte di Elisa, fermato un giovane: aveva il bancomat della vittima ROMA. Elisa Bendetti, la ragazza trovata priva di vita sabato sera nei pressi di Perugia, sembra non avere pace. Ieri le forze dell’ordine hanno fermato un ragazzo di 28 anni, amico di Elisa e con precedenti penali, che tentava di prelevare a Firenze con il bancomat, per altro già bloccato dal sistema bancario, della ragazza. Sono anche emersi nuovi particolari dalle telefonate tra Elisa e i carabinieri del 112. La ragazza di Città di Castello, 25 anni, una volta finita impantanata nella boscaglia di Civitella Benazzone con la propria auto, durante la chiamata al personale del 112 ha raccontato «sono in mezzo ai rovi» e di essersi messa in cammino seguendo alcune luci per cercare di uscire dal bosco. La ragazza avrebbe attraversato il bosco e avrebbe provato a guadare il piccolo torrente della zona. Elisa Benedetti non avrebbe fatto cenno al fatto di essere inseguita nei boschi.Una ricostruzione che è compatibile

piuta null’altro che una ricostruzione dei fatti, seppur condita da una titolazione vivace.

Brigandì rischia la sospensione del Csm. Interpellato fugacemente dai cronisti, lui afferma di non avere nulla da dire. Molte critiche invece all’iniziativa dei magistrati contro la Greco e il Giornale arrivano non solo dal Pdl, ma anche dall’opposizione. C’è un giudizio netto della Federazione della Stampa («le perquisizioni continuano a non piacerci») ma parole molto severe vengono pronunciate, tra l’altro, dal responsabile comunicazione del Pd Paolo Gentiloni: l’irruzione dei carabinieri, dice, «è incomprensibile e ingiustificata. La campagna del Giornale contro Ilda Boccassini ha raggiunto toni disgustosi, ma questo non giustifica metodi sbagliati che rischiano di limitare un valore irrinunciabile qual è la libertà di informazione». Alessandro Sallusti ha più di un buon motivo per dichiarare che «la casta dei magistrati mostra per l’ennesima volta il suo volto più violento e illiberale. La perquisizione a casa della collega Anna Maria Greco non solo è un atto intimidatorio ma una vera e propria aggressione alla persona e alla libertà di stampa». Ha una certa efficacia proprio a volerne citare uno, il commento di un senatore campano del Pdl, Cosimo Izzo: «Mentre dalle pagine dei giornali di sinistra è consentito di rovesciare vagonate di fango su Berlusconi in spregio a qualsiasi segreto istruttorio, il Giornale viene violato per aver scritto di una vicenda vecchia e datata». C’è poco da controbiettare. E anzi, la scivolata degli inquirenti porge forse un inatteso assist proprio al Cavaliere: ora ha qualche argomento in più per sostenere la sua solita tesi, e cioè che da parte della magistratura esiste un’ostilità personale nei suoi confronti. Farà una gran fatica d’altronde il premier a spiegare l’incredibile contrordine pomeridiano sulla manifestazione anti pm: la versione iniziale infatti proviene non da spifferi incontrollati di Palazzo Grazioli ma dall’ufficio stampa

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

con l’ipotesi di un decesso avvenuto per il freddo dopo che la ragazza sarebbe scivolata nel torrente. I motivi che avrebbero spinto Elisa Benedetti a recarsi in quella zona impervia non trovano alcuna spiegazione ufficiale. Il luogo - secondo alcuni abitanti di Civitella Benazzone - è frequentato da coppiette e anche da spacciatori. L’autopsia del corpo è prevista per il prossimo mercoledì.

Intanto i pm indagano il laico del Csm Brigandì e fanno perquisire il “Giornale” per un articolo sulla Boccassini

del Pdl: Berlusconi, spiegano, ha incaricato Santanché e Brambilla di «predisporre un piano di iniziative e mobilitazioni a sostegno dell’attività di governo e a difesa del premier dalle aggressioni mediatico-giudiziarie», iniziative da svolgersi «su tutto il territorio nazionale». Non solo, perché la chiamata alle armi non ammetterà diserzioni: verranno coinvolte, annunciano ancora dall’ufficio stampa del partito, «tutte le componenti della società civile e tutte le strutture del Pdl, centrali e periferiche».

Dall’alto: Alfano, la pm di Milano Ilda Boccassini, Cicchitto e Verdini. Nella pagina a fianco, Berlusconi

merito, anzi di questo non si è parlato neanche per un minuto nel corso del vertice del Pdl». Il sottosegretario alla Presidenza svolge l’ingrato compito di cucire la solita pezza, ma viene di fatto ri-contraddetto quasi in tempo reale da un terzo comunicato, stavolta a firma dei tre coordinatori di via dell’Umiltà: se ne è parlato eccome, ammettono, nel senso che loro stessi, i triumviri, «hanno proposto al presidente Berlusconi di inserire nell’organigramma Daniela Santanché», che appunto dovrà predisporre un piano per illustrare le realizzazioni dell’esecutivo. Balletto pari solo a quello di Luca Bar-

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118

Bonaiuti parla poco dopo di «banale equivoco». Dice che «non c’è nessuna decisione in bareschi, dato per tutta la giornata prima in uscita da Fli verso il gruppo di Moffa, poi – lo dice lui stesso dopo un faccia faccia con Fini – addirittura «dimissionario dalla carica di deputato». Ma il balletto sulla mobilitazione del Pdl attesta che l’agitazione in via del Plebiscito è sempre fortissima. E che ora, piazze o non piazze, minaccia di trovare nuovamente sfogo in Palamento, a colpi di processo breve.

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Il vescovo di Rumbek Cesare Mazzolari spiega la sfida storica per la Chiesa e per l’Africa aperta dal referendum popolare

Pastorale sudanese America, ong, star e cattolici pronti a sostenere l’indipendenza dell’enclave cristiana in Africa di Pierre Chiartano a strada verso l’indipendenza del Sud Sudan è spianata. E alla costruzione della nuova identità nazionale, la cultura cristiana darà un contributo importante. Restano invece le incertezze sul destino dei cristiani rimasti sotto il governo di Khartum, sperando che si chiuda il capitolo «disumano» di una lunghissima guerra. Ci sarà bisogno di tempo per i risultati ufficiali del referendum popolare, ma sul cui esito ci sono pochi dubbi. È il coronamento politico di un progetto al cui buon esito hanno concorso molti elementi, non da ultimo il fatto che la parte meridionale del Paese sia abitata da una delle ultime enclave cristiane dell’Africa. L’aiuto dell’America e delle tante personalità scese in campo a favore del referendum non mettono certo in ombra il lavoro intenso e costante delle Chiese cristiane e di quella cattolica in particolare, nel raggiungimento di una tappa storica. Un modello di autodeterminazione esportabile in tutta l’Africa, che crea un precedente. Si fonda sulla sintesi tra cultura africana locale e modelli cristiani di società, spesso visti come inconciliabili. Monsignor Cesare Mazzolari vescovo di “frontiera” nella diocesi sudanese di Rumbek ne ha parlato con liberal, tratteggiando una realtà spesso sconosciuta in Europa e in Occidente: l’Africa può essere protagonista della propria storia. Arrivato come amministratore apostolico a Rumbek nel 1990 – poi vescovo dal 1999 – è un comboniano ordinato prete nel 1962,

L

a San Diego in California. È un uomo di Chiesa che coniuga al meglio il concetto di evangelizzazione con ciò che gli esperti chiamerebbero nation building, ma la Chiesa, più sommessamente, vuol definire crescita sociale, cooperazione, sviluppo educativo. La nota che emerge immediata dalle prime parole del vescovo è che il referendum non sia una semplice costruzione mediatica, condita dalle facce di George Clooney o Matt Damon, ma una vera festa per il popolo del Sudan meridionale.

«I cristiani, soprattutto a Sud, sono felicissimi. Sono in un momento di giubilo. Abbiamo pregato intensamente dal 21 settem-

Khartum, soprattutto nei confronti della popolazione meridionale. Anche i cristiani del nord sono contenti, però hanno paura non sanno cosa succedrà alla Chiesa nel Nord in caso di indipendenza del Sud».

È molto probabile – spiega il presule – che con l’imposizione drastica che ha promesso Omar Bashir dopo il risultato delle urne, ci sarà anche una grande limitazione di libertà religiosa. Anche il personale della Chiesa avrà delle limitazioni poste dal governo fonda-

Il presule italiano: «Anche i cristiani del Nord esultano però hanno paura. Non sanno cosa succederà loro, cosa farà Omar al Bashir ai fedeli e alla Chiesa quando ci sarà l’indipendenza del Sud» bre, che è la giornata della Pace dell’Unicef, fino al primo dell’anno che è la giornata della Pace per la Chiesa». L’obiettivo era un referendum senza tensioni o violenze. «Dobbiamo ringraziare sia i cristiani del Sud che tutti quelli nel mondo che si sono voluti unire a noi in questa preghiera lunga 101 giorni per un peaceful referendum. Cristiani che hanno capito che Dio ascolta le preghiere. Dopo 22 anni di guerra. Dall’indipendenza dal governo coloniale inglese nel 1956, il popolo ha sofferto per l’oppressione da parte del governo di

mentalista islamico di Karthoum». Il vescovo comboniano teme «un’espulsione totale dei cristiani dal Nord». Una situazione che ora non è ancora ben chiara sul futuro della Chiesa che verrà. Salva Kiir e l’intervento massiccio di Usa, Hollywood e tanti nomi noti della politica ha solo acceso i fari dell’attenzione internazionale, spenti i quali i sudsudanesi forse dovranno cavarsela da soli. Mazzolari è ottimista su questo punto. «Non penso. «Questo evento storico è l’inizio di una nuova solidarietà. Sono convin-

to che le 110 personalità della Chiesa, del mondo politico e dello spettacolo che sono venute da noi hanno messo radici molto profonde nel Sudan. La fondazione dell’ex presidente Usa, Jimmy Carter ha fatto un gran lavoro durante tutta la preparazione del referendum».

E oltre alla buona volontà c’è anche la sostanza. «È importante anche il legame finanziario tra l’America e il Sud Sudan, che sono certo sia una condizione permanente. Quando in novembre la Conferenza episcopale del Sudan si è riunita per la seconda volta nel 2010 proprio per il voto, avevamo con noi la conferenza di tutta l’Africa del Sud e del Corno d’Africa. Il cardinale Wilfrid Napier del Sud Africa è stato con noi i primi di gennaio, per

far capire come tutta Chiesa fosse coinvolta». Sappiamo cosa voglia dire essere cristiani in Europa, in Italia, ma ad esempio per un dinka cosa vuol dire essere cristiano o cattolico in Sudan? «Per il dinka vuol dire avere un’istruzione abbastanza superficiale, una conoscenza limitata e una capacità di partecipare a celebrazione liturgiche che lo appaga con la nuova conoscenza e con l’aspetto sociale di trovarsi con gli altri. La formazione cristiana quella profonda, sta arrivando e anticipo che il processo d’indipendenza del popolo del Sud è un’opportunità immensa per la Chiesa e il cristianesimo per mettere radici profonde nel cuore della cultura dinka e nilotica che è ancora animista e segue le religioni tradizionali. Il cristianesimo ha portato educaFedeli cristiani sudanesi prima di una funzione in chiesa. La minoranza cattolica del Paese sta lottando per ottenere l’indipendenza della parte meridionale. In alto, George Clooney a colloquio con Obama e, a sinistra, Cesare Mazzolari. Nella pagina a fianco, un sacerdote


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pezzo di terra senza il parere degli executive chief, né costruire una scuola. Il movimento ecumenico ha portato nel suo abbraccio i capi per avvicinare i giovani che a causa della guerra hanno sofferto tanto. Famiglie straziate dalla morte di un padre, di un fratello. Senza affetti familiari e col seme dell’odio coltivato da tanti anni di guerra. L’identità personale viene così asserita dalla prepotenza e dalla violenza. È una società cui è mancata la figura del padre e della madre. La Chiesa ha anche questo compito di restaurare la figura guida dell’anziano che ha come diretta conseguenza l’assenza di rispetto per qualsiasi autorità e legge. Anche la Chiesa sta lavorando sia a livello ecumenico che sul piano sociale. A Rumbek abbiamo creato il consiglio degli anziani proprio per ricreare l’immagine di autorità nella famiglia, nella comunità e nel governo per costruire una società che funzioni con ordine».

Il modello che si sta sperimentando nel Sudan meridionale è una novità che molti sperano sia anche esportabile in altre aree critiche del Continente.

ziché giudicare stiamo facendo una ricerca sulla poligamia che non deve essere vista come un oltraggio alla moralità, ma va interpretata come una parte della loro cultura, che per noi è solo più difficile comprendere. Ma cambierà con l’educazione e con l’integrazione internazionale. Serviranno anni, ma in questo processo di modernizzazione la donna sarà la protagonista più importante per cambiare l’approccio alla poligamia. Come cristiani vediamo che ci sono momenti di contrasto, come nel caso della cultura della vendetta, ma allo stesso tempo tra i dinka c’è il rito della riconciliazione che è molto toccante. Anche per noi cristiani è un rito commovente. Quando una donna cristiana partecipa a questi riti, balla, canta perché fa parte della sua cultura. Se noi sapessimo importare questi contenuti e fossimo in grado di comunicare il senso della riconciliazione cristiana saremmo già a un buon punto. Loro riconoscono un Dio solo, come noi e chiamano antenati i santi. A fine anno ringraziano Dio e propiziano le benedizioni per la pioggia. L’antenato è

Secondo il vescovo comboniano «a Rumbek si lavora in maniera fantastica con le altre confessioni protestanti per ristabilire la struttura sociale devastata dalla guerra continua» zione, assistenza medica, aiuto umanitario, di liberazione e d’evangelizzazione che è ancora a un livello d’istruzione, ma che viene assorbita bene. I giovani sono quelli che meglio si predispongono agli ideali cristiani, più della popolazione adulta, spesso ancora coinvolta nella poligamia che non li avvicina ai precetti cristiani. I giovani costituiscono più del 60 per cento della popolazione africana e anche di quella sudanese». Mazzolari è convinto che il processo la nuova identità legata all’indipendenza non potrà fare a meno del valore aggiunto della cultura cristiana. Occorre capire quando tale processo potrà produrre dei cambiamenti anche nella sociale. struttura «Nella costruzione della struttura sociale la Chiesa avrà un ruolo fondamentale. Il primo sarà quello di soddisfare il bisogno imprescindibile a un processo di nascita di un nuovo Stato che è quello dell’integrazione. Fino ad oggi la popolazione è stata divisa dalle preferenze dei militari, dalle divisioni politiche e governative. Siamo un popolo che deve unirsi».

Mazzolari “l’africano” parla in prima persona, tanto è coinvolto e sente come giusto il processo

di liberazione. «Serve chiudere il vecchio capitolo della storia col perdono, per aprine uno tutto nuovo». I valori del Vangelo guideranno il lavoro comune. «La Chiesa con scuole, le associazioni e una radio diocesana ha preparato la gente per il voto e senz’altro vorrà svolgere il compito evangelico di estendere il perdono. Chiudere finalmente

un capitolo disumano di una guerra che ha diviso. Il Paese ha oggi bisogno d’integrazione e vedrà nella Chiesa un mediatore forte, una voce costante e un richiamo continuo al valore del perdono, per creare una società basata sulla solidarietà». La comunità cristiana in Sud Sudan è composta di cattolici e protestanti, e sembra che si sia sviluppata un ottima forma di collaborazione interconfessionale. «Lo

spirito ecumenico, ma anche l’attualità di condividere i valori del Vangelo tra cattolici e protestanti è molto felice. È stata la sorgente di un grande cammino. Nella nostra diocesi di Rumbek (http://www.dioceseofrumbek.or g) abbiamo un ottimo rapporto con gli episcopaliani del Sudan che è la Chiesa più grande dopo quella cattolica. Il Sudan era una

colonia britannica ed era gelosa nel vedere nel Sud oltre l’anglicana c’era la Chiesa cattolica. Oggi ci saranno almeno una quindicina di confessioni di diversa denominazione. A Rumbek si lavora in maniera fantastica, ma nelle nostre riunioni comuni portiamo anche i capi tribù che sono una realtà fondamentale. C’è un governatore, ma la vera autorità è quella dei capi tribù. Non si può dare via un

«Innanzitutto l’autodeterminazione è esportabile – risponde il vescovo in prima linea – penso che questo respiro d’identità e libertà, in qualsiasi modo lo chiamino, è un valore che anche il resto dell’Africa vorrebbe fare proprio. E parliamo di un’identità tipicamente e genuinamente africana. Senza più governi oppressivi o influenze coloniali o schiavistiche. C’è uno schiavismo strisciante e forse meno evidente, ma più subdolo, che è quello del debito estero. Soprattutto quando un popolo ha ereditato questo debito senza volerlo. Così emerge l’identità dinka che vuole godere dei diritti umani ed essere rispettata. Tutti valori che devono essere esportati». Ricordiamo che il popolo dinka è la componente etnica più numerosa al sud. In tutto il Paese sono circa un milione e mezzo. Coltivano prevalentemente miglio nelle zone vicino al Nilo e allevano bestiame, sono di notevole statura e parlano una lingua di ceppo nilotico. Ma quali potrebbero essere i punti di contatto tra cultura cattolica, fede e la cultura dinka, domandiamo, e la risposta rimanda l’immagine di una Chiesa rinnovata nel dialogo culturale e religioso. «An-

dunque un intercessore con l’unico Dio. Una volta durante una messa abbiano dato la parola ai bein-diz i cosiddetti “portatori delle lance”che hanno sgozzato una capra, le hanno tolto il cuore e il sangue, l’hanno purificata e hanno usato quel sangue per aspergere la gente. E dopo hanno dichiarato che i loro ospiti liturgici (i preti cristiani, ndr) erano già entrati in contatto con Dio. Per me è stata una grande rivelazione. Il favore di Dio lo ricavano dalle espressioni degli animali e di altri eventi che interpretano. I punti di contatto con la fede cristiana sono molti. Dal Dio unico agli intercessori, con una legge morale molto forte, prima della guerra. Oggi le cose sono diverse».

Regalare delle Bibbie ai dinka è come fargli dono di un capo di bestiame, la cosa più preziosa per quella popolazione. Con queste convergenze, l’intercessione, il perdono, la preghiera, il ringraziamento, Dio fondamento della vita, ci si può unire». Su tutto ciò della loro tradizione che non è consono alla nostra morale, sorride Mazzolari, il tempo e l’educazione, fa intendere il presule, saranno buoni alleati per il cambiamento. «Senza capovolgimenti» sottolinea, perché la cultura tradizionale va rispettata. Il resto è nelle mani di Dio. Come disse un ”portatore di lance” nel ricevere il regalo la Bibbia: «Non sono capace di leggere, ma so che in questo libro ci sono i comandamenti di Dio».


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In basso il direttore di Avvenire Marco Tarquinio. A sinistra il Segretario di Stato vaticano Bertone. In basso il presidente della Cei Bagnasco e, a destra, l’arcivescovo Tettamanzi

ono del parere che gli uomini di Chiesa abbiano detto abbastanza su Berlusconi e le sue feste e che - per il momento - non debbano dire di più. Almeno fino alla conclusione dell’inchiesta della magistratura. Se emergeranno responsabilità penali, sarà forse necessario che le guide della comunità cattolica tirino le somme, ma per ora è sufficiente quella specie di esorcismo collettivo nei confronti del “libertinismo”di Arcore che si è svolto lungo le ultime due settimane: da quando cioè - il 14 gennaio - abbiamo saputo dell’inchiesta a carico del premier per prostituzione minorile e concussione.

S

Quell’esorcismo, per stare alla sola ufficialità, ha avuto una partenza forte il 18 gennaio con un editoriale di Avvenire firmato dal direttore Tarquinio e intitolato “Chiarezza necessaria”. Poi hanno parlato via via personaggi più importanti ma senza dire in sostanza di più, se non nel senso di una conferma episcopale e vaticana di quanto già affermato con voce laica dal quotidiano dei vescovi. Ma certo non si può dire che sia poco aver ascoltato in rapida successione le parole convergenti dei cardinali Bertone, Bagnasco e Tettamanzi, insieme a quella del segretario della Cei Crociata. È stato Avvenire - dicevo - a lanciare la prima acqua benedetta verso Berlusconi e lo ha fatto a quattro giorni di distanza dall’esplosione del nuovo “caso”: avendo dunque avuto il tempo necessario per consultarsi. Le sue parole suonarono infatti come una presa di posizione ufficialissima e parvero a tutti assai nette: «Anche solo l’idea che un uomo che siede al vertice delle istituzioni dello Stato sia implicato in storie di prostituzione e, peggio ancora, di prostituzione minorile ferisce e sconvolge». Tre giorni dopo è toccato al cardinal Bertone, segretario di Stato vaticano, dire una parola tanto sobria

La Chiesa ha già detto tutto quello che doveva. Adesso, la palla passi ai magistrati

Il degrado morale? Ora attendere, prego... di Luigi Accattoli pesano sulla società italiana». Il 24 gennaio la parola passa al cardinal Bagnasco, presidente dei vescovi: accenna ai «poteri che si tendono tranelli» - e dunque chiama in causa anche i magistrati - ma soprattutto rivolge un monito a «fare chiarezza» nelle «sedi adeguate», che tutti intendono benissimo a chi sia rivolto. L’antifo-

fatto per primo in altra occasione, il settembre scorso, al primo affacciarsi del caso Ruby - è per lui che si rifà all’articolo 54 della Costituzione, che richiama a «misura, sobrietà, disciplina e onore» chiunque assuma un «mandato politico». Conviene memorizzare l’espressione “disastro antropologico”, che sarà ripresa il 28 gennaio dal vescovo Crociata, segretario della Cei: «Chi ha maggiori responsabilità deve esprimere mag-

Sulla grave crisi istituzionale e politica, da “Avvenire” a Bagnasco passando per Bertone e Crociata, tutte le guide della comunità cattolica italiana si sono espresse chiaramente quanto esplicita, affermando di «condividere» l’avvertenza del Presidente della Repubblica sul «turbamento» del Paese per quanto divulgato dai giornali sulle serate di Arcore e richiamando tutti coloro che svolgono una funzione “pubblica” alla «consapevolezza di una grande responsabilità soprattutto di fronte alle famiglie, alle nuove generazioni, alla domanda di esemplarità e ai problemi che

na è chiara anche nel passaggio in cui Bagnasco punta il dito su «una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé» e conclude che per quella via si realizza un «disastro antropologico a danno soprattutto di chi è in formazione». Il cardinale non nomina Berlusconi ma - come aveva già

giore impegno per risultare esemplare nel suo comportamento e nella sua vita anche quale modello per le giovani generazioni»; perché «siamo di fronte a un disastro antropologico: fermiamoci in tempo prima che degeneri ancora di più». Infine il cardinale Tettamanzi, sabato 29, incontrando i giornalisti a Milano, parla così: «Nessuno chiede di tacere fatti e indagini che riguardano quanti sono chiamati a guidare il Paese e dai quali tutti attendono esemplarità, nel pubblico e nel privato. Ma, mi domando: giornali e tv contribuiscono davvero a costruire e a promuovere la pubblica opinione quando si lasciano contagiare dal clima avvelenato e violento causato da una politica che dimentica o sottovaluta i bisogni reali e concreti delle persone? I problemi veri del nostro Paese non sono certo quanto da mesi leggiamo nelle cronache politiche». È una forte accusa ai media per il modo in cui raccontano gli “scandali”, ma è anche un monito a chi “guida” il Paese, perché si mostri esemplare “nel pubblico e nel privato”.

Com’era da aspettarsi c’è stata battaglia interpretativa sulle parole di Avvenire e dei vertici ecclesiastici: c’è chi ha parlato di “schiaffo” e chi ha concluso che “la spallata non c’è stata”. Io dico che non ci doveva essere: sono tra coloro che sperano in un minore interventismo degli uomini di Chiesa in politica e dunque ritengo che la segnalazione del disagio e della preoccupazione per i comportamenti privati del premier siano il giusto segnale. Ma non è stata una parola troppo “pacata”- tant’è che nessuno nomina il premier, tranne Avvenire per una così grande indignazione, che arriva a evocare un «disastro antropologico»? La risposta giusta l’ha data Crociata: «Non c’è contrapposizione tra l’indignazione e la pacatezza. La pacatezza riguarda il modo in cui affrontare i problemi che indignano». www.luigiaccattoli.it


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C’è qualcosa che non torna nell’organizzazione della manifestazione delle donne antiberlusconiane indetta per il 13 febbraio

Luci e ombre dell’«armata rosa» di Gabriella Mecucci Berlusconi. Il premier è sicuramente uno straordinario “propagatore” della mitologia sessual-consumistica, ma non ne è la causa. O almeno, non ne è la causa prima. Il modello della ventenne piena di “ritocchini”, bella e disposta a tutto pur di sbarcare in televisione o nel mondo dello spettacolo parte ben prima della “discesa in campo”. Ed è maturato per canali fra loro diversi e talora insospettabili. È paradossale, ma non si può fare a meno di notare che il riappropriarsi del proprio corpo è degenerato verso una cura maniacale di questo per riuscire a venderlo al prezzo più alto. Si tratta di un caso emblematico dell’eterogenesi dei fini. Se il problema era - e per un certo periodo lo è stato - togliere la donna dal silenzio del focolare domestico e farla diventare protagonista, adesso c’è da stare allegri, non si parla d’altro che di donne. E dalle loro labbra pende la sorte del governo. Pezzo dopo pezzo, trasmissio-

i nuovo le donne in piazza, e dopo tanto tempo. Una manifestazione, quella del 13, per rivendicare la propria dignità contro il degrado dell’immagine femminile. È in atto una campagna martellante per preparare questo appuntamento: su Repubblica, su l’Unità, su Facebook. Dopo i decenni delle iperboli del femminismo militante, e in piena epoca “velinista” non sarebbe una brutta idea riprendere a discutere su che cosa sono oggi le donne, su che cosa vogliono. Silenzi e conformismi si possono rompere anche andando in piazza. Perché no?

D

Occorre però guardarsi da parecchi rischi. Il primo che corre la manifestazione è quello di essere utilizzata, in altri tempi si sarebbe detto “strumentalizzata”, in chiave politicista e propagandistica. E del resto il momento in cui è stata indetta non lascia adito a dubbi. Solo oggi infatti si ripropone con forza il dibattito sul ruolo della donna, oggi che la mobilitazione serve a mettere alle strette Silvio Berlusconi. Sia chiaro, il comportamento del premier, le Minetti, i bunga bunga con contorno di Mora e di Fede sono indigeribili. Ma sarebbe poco credibile un movimento che si qualificasse come “la parte sana” dell’“altra metà del cielo”, nato per fare le bucce alla “parte insana”. Sarebbe un triste scimmiottamento della “parte sana” del Paese, cioè il Pci e i suoi parenti stretti che si contrapponevano prima alla Dc, poi al Psi e infine al berlusconismo anni Novanta. Se qualcuno avesse intenzione di sceneggiare una roba del genere in una “piazza rosa”, dimostrerebbe davvero una povertà culturale notevole e una scarsissima comprensione di ciò che in realtà sta accadendo. Dover assistere al corteo di migliaia di donne che, con cartelli, slogan, megafoni e striscioni sostengono la loro diversità da alcune “zoccole”di centrodestra, sarebbe politicamente, moralmente e anche esteticamente insopportabile. Lo spettacolo di donne che se la prendono con altre donne per i loro “facili costumi” è nella storia molto frequente. E ha raggiunto punte altissime di ridicolo: basti pensare che quella santa signora di Paolina Bonaparte accusava Giuseppina Beauharnais, mo-

Primo: lo sdegno lo si doveva tirar fuori prima. Secondo: non bisogna strumentalizzare la mobilitazione in chiave politicista e propagandistica glie creola del fratello Napoleone, di avere dozzine di amanti.

Schivato il pericolo dell’insulto, occorre subito dopo evitarne un altro: quello di dare tutta la colpa del degrado dell’immagine femminile a Silvio In alto, un’immagine di due suffragette. Qui sopra, uno scatto dell’ex igienista dentale di Silvio Berlusconi, Nicole Minetti. A fianco, la statua di Paolina Bonaparte realizzata dal Canova

ne televisiva dopo trasmissione televisiva (di Mediaset ma anche della Rai), settimanale scandalistico dopo settimanale scandalistico, sito dopo sito, è stata restituita un’idea della donna in cui la libertà si avvicinava alla volgarità, il successo alla capacità di farsi largo a spallate. Si è formata così una folla di ragazze e di signore vocianti, vistose, onnipresenti e onniparlanti. Chi ha criticato tutto questo? Francamente pochi e chi ha provato a farlo è

stato accusato di essere arretrato, codino, moralista. Di voler ripristinare il “comune senso del pudore” stile anni Cinquanta. Mentre montava lo schema botulin-mediatico, a sinistra prendeva corpo una sorta di “misoginia paritaria” in base alla quale, pur di arrivare alla quota del trenta o del quaranta o del cinquanta per cento, si infilavano nelle liste o nelle direzioni dei partiti zie, figlie, sorelle, suocere, amanti. Tutto fuorché un’autentica e seria selezione meritocratica. A destra, ciascuna iniziava la sua corsa solitaria che ha portato in alcuni momenti anche frutti positivi, ma poi... Quello che è accaduto è sotto gli occhi di tutti. E le donne? Tramontato il femminismo, parola oggi quasi impronunciabile, marginalizzato il ruolo del cattolicesimo bollato come repressivo, finito il mito di “angelo del focolare” e di “angelo del ciclostile”, cosa hanno fatto le donne? Dal punto di vista culturale la riflessione è andata avanti, ma in circoli sempre più ristretti. Per il resto il modello mediatico propagandato ha preso piede nella società e ha contagiato l’universo femminile e quello maschile.

In mezzo a tutto questo è spuntato il Berlusconi politico. Il suo avvento all’inizio ha portato innovazioni interessanti sul piano del rapporto fra donne e potere. Poi è esplosa una sorta di dongiovannismo ribaltato. Don Giovanni corteggiava e conquistava ragazze e signore senza giovarsi mai né del danaro né del potere. Anzi, trovandosi spesso contro il potere. La manifestazione del 13 sarà solo contro di lui o rappresenterà un modo per tornare a riflettere da parte delle donne sul loro ruolo, sulla loro immagine, sulla loro differenza? Se si limiterà all’antiberlusconismo avrà il fiato corto. La controprova della sua riuscita e delle sue intenzioni sarà “a lento rilascio”. Solo molto dopo infatti ci accorgeremo se le promotrici volevano limitarsi ad una spallata al premier, o invece puntavano a diventare la “mente critica” di una presunta modernità al femminile. Se daranno vita ad un movimento capace di vigilare, di denunciare, di comprendere a fondo un modello di cui Berlusconi è portatore ma non artefice, allora sarà nato qualcosa di nuovo e di utile. D’accordo, vediamoci in piazza, ma senza barare.


ULTIMAPAGINA Da Olga Herrero Castillo alla giovanissima Marisol Vallés Garcia: sono tante a lottare contro i narcos

Messico, patria delle donne di Benedetta Buttiglione Salazar n un mondo come il nostro, in cui l’essere femminile viene così svilito dalle ultime cronache dei giornali sulle varie orgie ed Olgettine vale forse la pena riflettere sul fatto che dall’altra parte dell’oceano ci sono donne con un coraggio ed un valore inimmaginabili e, forse, invidiabili. Accade in Messico, in un paese martoriato dalla guerra che il presidente Calderon ha dichiarato al narcotraffico e che sta insanguinando la vita quotidiana della popolazione civile, inerme ed innocente. Una guerra che spaventa, e a ragione, molti uomini, ma che nonostante la sua violenza ed i suoi colpi indiscriminati non ha piegato del tutto gli uomini e le donne che amano il proprio paese e che sono pronti a tutto pur di difenderlo. I messicani sono un popolo strano per noi occidentali, per noi italiani oserei dire. I messicani amano la loro terra più di se stessi e sono pronti a sacrificarsi per il proprio paese come se fosse davvero un parente prossimo, direi proprio come se fosse un padre o una madre. Ecco, si potrebbe dire che i messicani hanno verso la propria patria un amore filiale, tenero e forse commovente per noi, ma tenace, fedele e responsabile per loro. Mexico lindo y querido, già solo questa definizione che ricorre spesso, se non sempre, quando i messicani si riferiscono alla propria patria dovrebbe spiegare il tipo di relazione che inter-

I

CORAGGIOSE commissaria di polizia a Samalayuca, un paesino vicino a Ciudad Juarez, città tristemente famosa per le migliaia di crimini commessi contro le donne.

A Ciudad Juarez tutta la gente ha paura, ci sono stati troppi morti. Ma la volontà è quella di trasformare il terrore in sicurezza per poter far crescere i figli corre tra i cittadini ed il paese. E non sono solo gli uomini, ma anche le donne, anzi, forse ancora più le donne, le mamme, che riescono ad unire all’amore filiale, l’amore materno che è proprio di una donna, sia essa già madre o no. Non deve stupire quindi, anche se a prima vista lascia davvero sbigottiti, che nei luoghi caldi della guerra al narcos, nei temibili stati di Chihuahua e Michoacan, ben quattro donne, casalinghe o studentesse, si siano offerte di assumersi incarichi pericolosi che nessun uomo ha voluto ricoprire. Veronica Rios Ontiveros è una casalinga di 34 anni con quattro figli e un marito ed ha accettato di candidarsi ad un posto che nessun uomo ha voluto, cioè quello di

ha paura, tutti abbiamo paura, però trasformeremo questa paura in sicurezza», afferma coraggiosamente. A Praxedis nessun uomo ha voluto occupare il suo posto, troppo annichiliti per il terrore: infatti l’ultimo capo di polizia è stato trovato decapitato, il corpo gettato da una parte, la testa da un’altra. Alla fine Marisol si è fatta avanti ed ha accettato l’incarico, anche lei per il suo bambino e per il suo paese, questo Mexico lindo y querido.

Se le chiedi perché ha accettato un incarico così pericoloso ti risponde con una semplicità disarmante: lo fa perché fino adesso la polizia è stata corrotta e non ha compiuto in maniera adeguata il lavoro che le corrispondeva. E allora lo fa per i suoi figli, perché possano vivere un futuro migliore. Poi c’è Olga Herrero Castil- Al momento in cui scriviamo questo articolo queste tre donne coraggiose lo, capo della polizia di Villa sono ancora vive. Purtroppo Luz, anche questo paesino non possiamo dire lo stesso nei pressi di Ciudad Juarez. di Hermila Garcia Quinones, Prima di candidarsi ed eslaureata in Legge ed Inforsere eletta in quanto candimatica, che a 38 anni fu la dato unico, Olga era una caprima donna in assoluto ad salinga di 43 anni, madre di essere nominata capo della cinque figli, stanca delle polizia municipale in Messiondate di violenza che inco, nel municipio di Meoqui. sanguinano il suo paese. Hermila è stata crivellata di Ma queste donne sono escolpi lo scorso 29 novembre seri soprannaturali che non 2010, soli 50 giorni dopo aver hanno paura? «Certo che assunto il comando. E poi ce ho paura - ha riconosciuto ne sono altre di giovani doncandidamente Olga - però ne coraggiose, la maggior poi mi faccio coraggio e la parte ventenni che si arruopaura passa. Lavorerò per lano nella polizia nel Valle di la mia famiglia e per il mio Juarez e che girano armate popolo». Chapeau. A queste per le strade a volto scoperdue si aggiunge Marisol to, con la consapevolezza di Vallés Garcia, una giovane poter essere uccise da un di 20 anni appena, studenmomento all’altro, ma con la tessa di Criminologia, spogrinta e la determinazione di sata e madre di un bimbo di chi vuol dire basta alla vio11 mesi, da novembre scorlenza, al sangue che scorre a so a capo del commissariafiumi per le strade, alla pauto di polizia della cittadina ra che attanaglia i cuori deldi Praxedis, a est di Ciudad Dall’alto: Hermila G. la gente innocente. Juarez. «Qui tutta la gente Quinones e Marisol Garcia. A sinistra: Olga H. Castillo e Veronica Rios Ontiveros


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