he di cronac
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A proposito di politica, ci sarebbe qualcosa da mangiare?
Antonio de Curtis
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 9 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
I pm «stralciano» la posizione del premier: sarà processato sia per concussione sia per prostituzione minorile
Lo scambio Ruby-Pontida La Lega 20 anni dopo: ora accetta la “via marocchina” al federalismo Oggi la procura di Milano chiederà il rito immediato per Berlusconi e nel Carroccio crescono i malumori per il baratto siglato da Bossi. Ma reggerà? Le Regioni sono sul piede di guerra... CHIMERE DI GOVERNO
di Marco Palombi
Il rimpasto del Cavaliere è solo virtuale di Osvaldo Baldacci iù rimpasto per tutti. Nonostante le tempeste di ogni tipo che stanno scuotendo i responsabili di governo e le istituzioni italiane, la maggioranza continua a ripetere che vuole andare avanti. Che è autosufficiente. E che presto verrà restaurato il governo claudicante. Un giorno si parla di rimpasto per rilanciare l’azione di governo, sostituendo alcuni ruoli per far lavorare meglio gli esponenti politici (e di pari passo si parla di rimpasto ai vertici del Pdl), un altro giorno invece si parla solo di riempire i posti vacanti. Comunque una dozzina. Si parla, appunto, ma non si fa nulla. a pagina 2
I dubbi “ideologici” del direttore di Farefuturo
ROMA. Il gran giorno è oggi: in
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Per i lumbàrd comincia il tempo dei bilanci
Vent’anni di illusioni. Tra luci e ombre, storia dei rivoluzionari invecchiati I “secessionisti” degli anni Ottanta non sono più giovani e continuano ad alzare la posta, ma senza ottenere nulla. L’Italia è rimasta immobile Maurizio Stefanini • pagina 4
mattinata la Procura di Milano depositerà la richiesta di giudizio immediato contro Silvio Berlusconi. A quanto pare, dopo un’ultima riunione, il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e i pm che si occupano direttamente dell’inchiesta hanno deciso di tentare di portare subito in aula il presidente del Consiglio sia per la concussione sia per la prostituzione minorile, stralciando la sua posizione da quella dei suoi coimputati Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti (accusati di sfruttamento della prostituzione): oggi dunque si dovrebbe sapere per filo e per segno che cosa le toghe milanesi hanno nei loro cassetti ma non hanno inviato alla Camera per l’autorizzazione a perquisire l’ufficio del “cassiere” del premier, Giuseppe Spinelli. Come non bastasse, il tribunale di Milano ha fissato per l’11 marzo la ripresa del processo Mills. a pagina 2
Caro Campi, il bipolarismo crepa
Le trattative con l’opposizione musulmana in Egitto allarmano Tel Aviv
La paura corre sul filo d’Israele Mentre il Cairo cerca ancora la strada per una transizione pacifica di Yossi Klein Halevi
Le «grandi manovre» dell’esercito
Vivere con l’incubo della guerra
ino a dieci anni fa, ogni governo di Israele ha lavorato, in tema di sicurezza, per evitare che ai confini del Paese si stabilizzassero basi terroristiche. Oggi quella dottrina è stata chiaramente sconfitta dai fatti. Nel maggio del 2000, il ritiro unilaterale di Isarele dal sud del Libano ha consentito ad Hezbollah di dominare il confine nord del Paese. Nell’agosto 2005, il ritiro da Gaza ha aperto il fianco sul fronte sud ad Hamas. a pagina 10
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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
di Stranamore utti si augurano che la transizione in Egitto avvenga in modo “tranquillo” e che le redini del potere finiscano in mano ad una coalizione moderata.Tutti si augurano che l’effetto contagio porti ad analoghi risultati in tutti i paesi della regione già coinvolti dal vento del cambiamento. Ma gli strateghi israeliani non possono accontentarsi di un augurio. a pagina 11
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
27 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
di Riccardo Paradisi
Sofia Ventura e Alessandro Campi verrebbe da chiedere qualche maggiore chiarimento rispetto al loro legittimo disagio per il riorientamento strategico e tattico di Futuro e libertà. In particolare – ché questo sembra essere il motivo della disparità di vedute e del maturato, parziale distacco tra i due professori e la formazione del presidente della Camera – verrebbe da chiedere se davvero sarebbe stato possibile per Fini mantenere da un lato l’antico radicamento nel bipolarismo come s’è andato materializzando in Italia negli ultimi quindici anni, dall’altro se davvero il presidente della Camera avrebbe potuto insistere dentro uno schema di “alleanza competitiva” con Berlusconi dopo che dal Pdl il cofondatore Fini è stato espulso.
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il fatto Dopo il patto di Arcore, si inasprisce il conflitto con la magistratura. E l’11 marzo riparte anche il processo Mills
Due reati per Berlusconi Il premier prepara la nuova guerra ai pm. Intanto Milano chiede il rito immediato sia per concussione sia per prostituzione minorile il commento di Marco Palombi
ROMA. Il gran giorno è oggi: in mattinata la Procura di Milano depositerà la richiesta di giudizio immediato contro Silvio Berlusconi. A quanto pare, dopo un’ultima riunione, il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati e i pm che si occupano direttamente dell’inchiesta hanno deciso di tentare di portare subito in aula il presidente del Consiglio sia per la concussione sia per la prostituzione minorile, stralciando la sua posizione da quella dei suoi coimputati Emilio Fede, Lele Mora e Nicole Minetti (accusati di sfruttamento della prostituzione): oggi dunque si dovrebbe sapere per filo e per segno che cosa le toghe milanesi hanno nei loro cassetti ma non hanno inviato alla Camera per l’autorizzazione a perquisire l’ufficio del“cassiere” del premier, Giuseppe Spinelli. In ogni caso, per il momento, resterà fuori dal procedimento contro il Cavaliere la seconda minorenne che partecipò alle feste di Arcore: la brasiliana Iris Berardi seccamente indicata come “prostituta” nelle carte dei magistrati che ha passato diverse notti a villa San Martino, in almeno una delle quali era ancora minorenne (quella tra il 12 e il 13 dicembre 2009, a poche ore dall’impatto tra la faccia del premier e la statuetta del Duomo lanciata da Massimo Tartaglia). Non confluisce nel fascicolo milanese - anche in questo caso bisogna specificare: per ora - quello aperto a Napoli su un giro di prostituzione e spaccio di soldi falsi che vede al centro la showgirl Sara Tommasi, un’altra delle frequentatrici della villa del premier.
Sin qui le questioni procedurali, ma oggi fattezze e prestazioni delle ospiti del presidente del Consiglio fanno solo da sfondo all’ennesimo patto commerciale tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi: come accadde, con tanto di firma di un documento segreto davanti a un notaio milanese, giusto undici anni fa (lo raccontò con candore Francesco Speroni), i due anziani leader si sono ritrovati lunedì sera proprio nella villa del bunga bunga per stringere un nuovo patto. La Lega ottiene il tetragono appoggio del Cavaliere sul prosieguo dell’iter dei decreti legislativi del federalismo fiscale e il presidente del Consiglio si mette in tasca il compatto voto dei parlamentari leghisti sul processo breve e la legge
Il “mistero buffo” dei dodici posti di governo, esche per i deputati fuoriusciti
Il rimpasto virtuale del Cavaliere dimezzato di Osvaldo Baldacci iù rimpasto per tutti. Nonostante le tempeste di ogni tipo che stanno scuotendo i responsabili di governo e le istituzioni italiane, la maggioranza continua a ripetere che vuole andare avanti. Che è autosufficiente. E che presto verrà restaurato il governo claudicante. Un giorno si parla di rimpasto per rilanciare l’azione di governo, sostituendo alcuni ruoli per far lavorare meglio gli esponenti politici (e di pari passo si parla di rimpasto ai vertici del Pdl), un altro giorno invece si parla solo di riempire i posti vacanti. Comunque una dozzina. Si parla, appunto, ma non si fa nulla. Ma non sarà che questo rimpasto serve solo a far parlare, a tenere tutti sulla corda, ma poi non si farà mai? È più di un sospetto. Berlusconi ha promesso troppo a troppi. Deve continuare a tenere legato a sé ogni singolo voto disponibile in Parlamento, ma non può permettersi di arrivare a nessuna resa dei conti. Non solo con l’opposizione, ma soprattutto con la sua maggioranza. Una maggioranza che si regge su un pugno di voti, piena di doppi incarichi e di parlamentari oggettivamente raccogliticci. Per cui guai a scontentare qualcuno. La campagna acquisti è stata fin qui faticosa: i tanti nuovi arrivi sbandierati ripetutamente almeno dallo scorso settembre sono ancora ridotti a una manciata di voti, che a stento consentono il minimo margine indispensabile. Margine non garantito nella normale amministrazione dell’aula, e tantomeno nelle commissioni. Ogni giorno quindi si può andare incontro a trappole e incidenti. Basti ricordare che il celebre gruppo di Iniziativa Responsabile conta 19 deputati più due prestiti dal Pdl, che non ci sono nuove aggiunte dall’opposizione e che anzi qualcuno già si è sfilato (eclatante il caso di Calogero Mannino, ma si potrebbe riesumare anche Nucara che a settembre aveva lanciato l’iniziativa e ora
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non ne vuole sapere). Considerando poi che il premier non sta certo passando un periodo tranquillo, e avendo avuto la dimostrazione che il suo appeal carismatico non è più quello di una volta, ecco allora che ogni deputato conta.
E se il principale argomento di convinzione sono i posti di governo (a cui molti dei deputati in questione hanno detto di essere sensibili), far vedere le carte può non essere la mossa giusta. Si può vincere col bluff, si può tirarlo per le lunghe, ma quando le carte sono in tavola si vede davvero quello che c’è. E il rischio è che per una decina di felici neosottosegretari, si scopre di avere altrettanti insoddisfatti che all’improvviso riscoprono la loro vocazione politica non del tutto allineata a un premier controverso. Senza dimenticare che appetiti e promesse sono stati solleticati anche dentro lo stesso Pdl, per i posti di governo, ma lo stesso discorso vale per i ruoli di vertice di un partito sempre sul punto di essere riformato: anche qui i presunti neocoordinatori si contano a mucchi. E analoghi coinvolgimenti al governo sono stati garantiti anche a formazioni e realtà esterne al parlamento. Troppe promesse. Certo c’è chi è capace di giocare a poker con dieci carte, e c’è chi si potrebbe accontentare di posti di sottogoverno, di enti, di altre prospettive. Ma il governo sa di correre sul filo del rasoio. Ecco, se il rimpasto non ci fosse, questo potrebbe essere una cosa buona per il Paese: hanno calcolato che con le poltrone vacanti stiamo risparmiando centomila euro al mese, e dal momento che ormai da un anno il governo non fa praticamente nulla e che comunque ai temi ricorrenti del federalismo ci pensa la Lega e a quelli della guerra con la giustizia ci pensano Alfano e gli avvocati del premier, allora tanto vale non ripristinare posti inutili e inattivi.
Berlusconi ha promesso troppo a troppi. E ora si trova in un brutto cul de sac tra Pdl ed esecutivo
per limitare l’uso delle intercettazioni. «La domanda che bisogna farsi – raccontava una fonte addentro alle cose leghiste qualche tempo fa – è la seguente: Bossi è davvero autonomo da Berlusconi come punta a far credere?». La risposta, secondo la nostra fonte, sarebbe no: il Cavaliere, all’inizio del millennio, salvò la Lega dal fallimento “finanziario” e da allora il senatur, per quanto strepiti, ha solo i margini di manovra che gli lascia il famoso patto segreto e niente di più. E così, grazie al voto dei formalmente integerrimi padani, il processo Parmalat, quello per il rogo alla Thyssen o quello per le scorribande dei furbetti del quartierino andranno al macero insieme, ovviamente, ai procedimenti in cui è imputato il presidente del Consiglio. Inoltre, per evitare che il Cavaliere si trovi in imbarazzo in futuro, si provvederà – sempre col concorso degli onorevoli del Carroccio – a rendere difficilissimo l’uso delle intercettazioni per le forze dell’ordine e del tutto impossibile la loro pubblicazione sui giornali. Il cerchio si chiude per il partito di “Roma ladrona”e il povero ministro dell’Interno Maroni, per dire, è passato in una settimana scarsa dal chiedere a Napolitano di sciogliere le Camere senza le dimissioni di Berlusconi (intervista al Corriere della Sera) ad uno stentato “andiamo avanti con ottimismo”. L’unica richiesta che la Lega fa al premier è quella di “riequilibrare le commissioni”, il che significa - né più né meno – comprare qualche altro deputato. Intendiamoci: pochi scommettono che si faccia ora quel che la coppia B&B non ha fatto in diciassette anni, ma almeno i due ci riprovano.
Oggi, non bastasse, si terrà pure il Consiglio dei ministri per dare la famosa «frustata al cavallo dell’economia» annunciata dal premier: il tutto si riduce, a partire dal 2012, ad una rimodulazione degli incentivi alle imprese - la metà dei quali sembrerebbe destinato alle Pmi attraverso dei voucher sul modello di quelli che si usano per le colf - e a una diversa gestione della deduzione Irap. In più, il governo potrebbe anche procedere all’inutile quanto difficile modifica dell’articolo 41 della Costituzione: quello secondo cui «l’iniziativa economica privata è libera» e «la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché possa essere indirizzata e
il retroscena In Bicamerale arriva il decreto su costi standard e fisco regionale
I governatori in campo contro il patto di Arcore Dopo la mediazione (per ora inutile) con i Comuni, la Lega non scioglie il nodo della spesa per la sanità di Francesco Pacifico
ROMA. Sul federalismo Raffaele Lombardo ha già minacciato di ricorrere alla Corte Costituzionale. E gli altri colleghi governatori non sono più teneri con l’esecutivo. Anche perché in queste ore si sta decidendo la ripartizione del fondo sanitario nazionale, tesoretto da 106,45 miliardi, che serve a finanziare quello che ormai rappresenta l’80 per cento dei bilanci regionali.
Alcune amiche del premier: dall’alto, Karima el Mahroug (in arte, Ruby), Iris Beraldi, Nicole Minetti e Sara Tommasi. A destra, Roberto Calderoli. Nella pagina a fianco, Silvio Berlusconi coordinata a fini sociali». In pratica «dalla frustata al cavallo alla carota al coniglio», come ironizzava ieri l’ex Fiom, oggi eurodeputato di Idv, Maurizio Zipponi.Tradotto: non solo Giulio Tremonti ha di nuovo messo un freno al desiderio di spesa a fini elettorali del suo premier, ma i teorici del ritorno di Silvio Berlusconi alla grande politica sotto l’egida del clintoniano “It’s the economy, stupid”sono stati immediatamente seppelliti sotto le necessità dirette e impellenti degli affari privati del capo del governo (l’11 marzo, per dire, ricomincia il processo Mills). Al centro della scena tornano insomma i problemi giudiziari del Cavaliere e le leggi che servono a risolverli, peraltro mettendo in una spiacevole situazione il presidente della Repubblica: Giorgio Napolitano aveva già fatto sapere a suo tempo che non avrebbe firmato una legge, quella sul processo breve, con una “norma transitoria”che finisce per cancellare decine di migliaia di processi in corso e ora provano rimettergliela sotto la penna.
Quanto al percorso parlamentare del ddl – sollecitato dal deputato “ghediniano”Enrico Costa – la decisione sulla sua calendarizzazione spetterà alla presidente della commissione Giustizia della Camera Giulia Bongiorno: se la sua scelta però non soddisferà la maggioranza, ha minacciato Costa, sarà la capigruppo a portare direttamente il provvedimento in Aula. Che anche in Parlamento, poi, non tiri aria di ritorno alla grande politica può testimoniarlo anche una piccola vicenda riguardante la commissione Infanzia. La presidente Alessandra Mussolini ieri ha fatto sapere che le opposizioni chiedevano un’audizione nientemeno che di Karima el-Marough, in arte RubyL: non era vero, Pd, Idv e Udc hanno solo chiesto di «conoscere la vicenda personale di Karima per capire come abbia potuto in condizioni di precarietà muoversi da una città all’altra, frequentando ambienti non consoni alla sua età» e «come funzionano le istituzioni italiane che devono prendersi cura dei minori».
Il governo non deve mettere soltanto una pezza al pasticcio fatto sul federalismo municipale (questa mattina Umberto Bossi salirà al Quirinale e proverà a ricucire lo strappo con Giorgio Napolitano). Perché in attesa di capire se, e con il precedente di Riccardo Villari, Mario Baldassarri sarà costretto fare un passo indietro per riequilibrare maggioranza e opposizione, in commissione Bicamerale arriva il decreto sulla fiscalità regionale e sui nuovi costi standard. Il testo è molto complesso e porta con sé una serie di nodi ancora aperti, non fosse altro l’approvazione dei nuovi livelli essenziali di assistenza e prestazioni, senza i quali è impossibile parlare di servizi di pubblica utilità, quindi di qualità della spesa. «Altrimenti non daremo certezza ai cittadini che esiste una reale responsabilità tra prelievo ed erogazione dei servizi», ha spiegato al Sole24Ore, il presidente della Conferenza,Vasco Errani. I governatori hanno dato il loro assenso al decreto con molte riserve, e soltanto dopo aver strappato a Giulio Tremonti 400 milioni per il trasporto pubblico locale a parziale risarcimento degli 8,5 miliardi di euro in minori trasferimenti, previsti dalla manovra di luglio. Soldi dei quali si è persa traccia.A ben guardare ci sono tutti i pressuposti per ripetere su questo testo quanto già visto sul decreto municipale. Anzi, una differenza non da poco c’è: che la volta scorsa il governo poteva contare sull’appoggio dei sindaci, adesso dovrà fare i conti con il fuoco di fila degli stessi governatori. I quali, intanto, aspettano dal Milleproroghe chiarimenti sui fondi per il trasporto pubblico e per la formazione, visto che le intese finora strette non sono riuscite ancora a sbloccare queste risorse. Al momento l’ultimo accordo raggiunto 48 ore fa ad Arcore – lo scambio tra federalismo e processo breve – sembra dare speranze soltanto a Roberto Maroni. Il ministro degli Interni non minaccia più le urne come una settimana fa, ma scandisce ai cronisti: «Vedo il federalismo più vicino». Parole alle quali l’assessore al Bilancio della regione
Sicilia, Gaetano Armao, replica: «Come si fa ad accettare una riforma che forse non porta risorse neppure al Nord e che al Sud aumenta il livello di centralismo». Al Carroccio, e sulla stessa linea, il governatore toscano, Enrico Rossi, manda a dire attraverso la sua bacheca di Facebook: «Coloro che dicono che col federalismo municipale si esce dalla crisi sono cretini e raccontano novelle. La Lega si è arrabbiata. Mi sa che ho ragione anche stavolta». Parole che hanno spinto a Firenze proprio il gruppo leghista a presentare due mozioni di censura e chiedere al presidente «un linguaggio più consono». Sulla carta le partite sono disgiunte, ma sono in molti a credere che il clima generale del Paese come l’approvazione del decreto su fiscalità e costi standard potrebbero trarre beneficio aiutati da un accordo in seno alla Conferenza delle Regioni sulla ripartizione del Fondo sanitario. Per l’anno in corso il monte risorse è pari a 106,45 miliardi, soltanto lo 0,5 per cento in più rispetto al 2010. In ogni caso lontano dal 2 per cento in più previsto per l’inflazione reale e dal +8 stimato per l’aumento dei costi sanitari. Guardando alla ripartizione decisa dal Tesoro, le uniche Regioni a guadagnarci sono Lombardia, Veneto e Lazio. Ad avvantaggiarle la scelta di considerare soltanto l’anzianità della popolazione, criterio che colpisce territori ricchi che pagano la mobilità interna (Liguria o Piemonte) o aree depresse come Calabria o Sardegna.
Gli enti del Sud si uniscono con Liguria e Marche per imporre a Lombardia e Veneto una differente modalità per la ripartizione delle risorse per la salute
Da settimane si fa pressione per considerare anche l’età della popolazione e aiutare le zone con famiglie più numerose. E ieri, proprio per superare l’attuale ripartizione, nove Regioni (Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia) con l’appoggio del Lazio hanno chiesto di introdurre anche un indice di deprivazione: aiutare – seguendo le indicazioni dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali – i cittadini con reddito inferiore, ma anche gravati dal pagamento dell’affitto o dalla presenza di inquinanti. La Lombardia e il Veneto si sono opposte alla cosa, chiedendo di mantenere la ripartizione dei fondi fatti dal Tesoro. E soltanto in tarda serata si è arrivati vicini a un compromesso, che dovrebbe prevedere un via libera di massima a un indice della deprivazione, senza però ricalcolare le quote di finanziamento per il 2011. «Sarebbe pericoloso», nota il calabrese Giuseppe Scopelliti, «non arrivare a una scelta unitaria».
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l’approfondimento
Nel febbraio del 1991 si fusero insieme cinque movimenti locali: nacque quello che ormai è uno dei partiti più vecchi del Paese
Vent’anni di illusioni
La Lega festeggia quattro lustri di vita: i “giovani rivoluzionari” degli anni Ottanta sono invecchiati continuando ad alzare la posta, ma senza ottenere nulla. Con Berlusconi l’Italia è rimasta immobile di Maurizio Stefanini n una delle ultime “Stanze” della sua lunghissima vita giornalistica, Indro Montanelli commentò l’«affollamento delle liste» alle elezioni per il Parlamento Padano del 26 ottobre 1997 con la battuta: «Prova inequivocabile che i “padani” sono italiani». Già. Sono passati vent’anni dal Congresso federale fondativo con cui nacque a Pieve Emanuele, provincia di Milano, la Lega Nord: dalla fusione tra Lega Lombarda, Liga Veneta e Alleanza Toscana, che esistevano già rispettivamente dal 1982, dal 1980 e dal 1985; Piemont Autonomista, che nasceva da una scissione pro-Bossi di un movimento già esistente a sua volta dal 1980; e Union Ligure e Lega Emiliano-Romagnola, formazioni invece paracadutate dopo il primo boom di Bossi.
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Ma si potrebbe considerare anche il 20 novembre 1989: data in cui davanti a un notaio bergamasco venne sottoscritto
l’Atto Costitutivo dell’alleanza tra i movimenti testé citati. O il febbraio del 1989, quando gli stessi movimenti avevano deciso di presentare una lista comune alle elezioni europee, che ottenne un significativo 1,83%. O il 14 giugno del 1987, alle elezioni politiche in cui per la prima volta Umberto Bossi venne eletto senatore. E il 26 giugno del 1983, quando entrò per la prima volta in Parlamento la Liga Veneta. O il 10 marzo 1982, data ufficiale di fondazione della Lega Lombarda, che peraltro allora si chiamava Lega Autonomista Lombarda. O il 16 ottobre 1980, quando fu creata a Padova la Liga Veneta. O il febbraio del 1979, quando il 38enne studente di Medicina fuori corso Umberto Bossi si mette per caso a parlare con un signore fermo davanti a un manifesto all’Università di Pavia. Che è poi Bruno Salvadori: esponente dell’Union Valdôtaine prematuramente scomparso, che cerca solo di montare una lista nazionale per far re-
cuperare al suo partito qualche resto alle prime elezioni europee a suffragio diretto, e che involontariamente contribuisce a instillare in Bossi il tarlo della politica, e a mettergli in testa la parola “federalismo”. Ma potremmo aggiungerci il 10 maggio del 1994, quando per la prima volta col governo Berlusconi I la Lega Nord entrò con propri ministri e sottosegretari nel governo di una nazione che affermava di non riconoscere. O l’11 giugno 2001,
Tra poltrone e incarichi pubblici: è stata una lunga «occupazione»
quando nel governo Berlusconi II Bossi divenne per la prima volta ministro: alle Riforme istituzionali e devoluzione. O magari l’8 maggio del 2008, quando Umberto Bossi è ridiventato ministro, delle Riforme per il Federalismo, nel Berlusconi III. Insomma, sono 32 anni che Bossi si agita; 31 che il leghismo è diventato movimento politico; 29 che esiste la
Lega Lombarda; 28 che il leghismo sta in Parlamento; 24 che sta in Parlamento Bossi; 22 che la Lega Nord esiste come sigla; 20 che la Lega Nord esiste come movimento. Diciassette anni fa la Lega Nord è andata per la prima volta al governo, e ci è rimasta in tutto per nove anni. Dieci anni fa è diventato per la prima volta ministro Umberto Bossi, e lo è rimasto in tutto per cinque anni.
I risultati? La Riforma del Titolo V della Costituzione fatta nel 2001: ma effettuata dal governo dell’Ulivo. La riforma costituzionale sulla devoluzione del 2005: ma poi cassata da un referendum. E tre decreti attuativi del federalismo fiscale, dei quali però quello su Roma Capitale e l’altro sul fabbisogno standard per comuni e province sono più per controbilanciare le richieste della Lega che per esaudirle. Insomma, per ora tutto il risultato di questa storia consiste nel federalismo demaniale. Da cui, peraltro, tut-
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La canottiera di Palazzo La canottiera è un topos della vita politica di Bossi comparso per la prima volta sul balcone di villa Certosa. In queste foto, alcune vecchie istantanee della ventennale parabola leghista, dalle origini degli anni Ottanta al primo sbarco nelle “odiate” istituzioni romane. Senza contare «l’incidente» di Bobo Maroni contestatore contestato dalle forze dell’ordine, prima che delle medesime forze dell’ordine diventasse capo in quanto ministro di riferimento. Insomma, in tutto questo tempo il Bossi e i suoi non sono cambiati poi molto. Salvo che non è riuscito loro nemmeno cambiare l’Italia. Per fortuna?
ta una serie di polemiche sull’«Italia in svendita». Il bilancio, effettivamente, potrebbe essere un po’ più consistente se davvero si riuscirà presto ad approvare gli altri cinque decreti: su fisco municipale, armonizzazione dei bilanci, fisco regionale, conti e politica di coesione e per l’utilizzo dei fondi comunitari. Innanzitutto, però, c’è il giallo sulla composizione della Bicameralina, che ancora rende il risultato incerto. E poi, già nello stesso Veneto c’è chi sta facendo i conti, e ha scoperto che col federalismo fiscale invece che pagare meno tasse c’è il rischio di pagarne di più. Che poi, è la scoperta dell’acqua calda.
Dagli Stati Uniti alla Svizzera, il vero federalismo consiste proprio nel fatto che siccome esistono due differenti livelli di governo, il cittadino paga le tasse due volte. Il vantaggio è che avendo in mano direttamente anche due leve di controllo elettorale, può manovrarle in modo da pagare effettivamente una somma complessivamente minore. Come accade appunto nei già citati Stati Uniti e in Svizzera. Ma la cosa più presumibile è che gli italiani, cioè anche i padani come osservava Montanelli, useranno il federalismo fiscale continuando a ragionare con la logica della centralizzazione: così come hanno d’altronde usato l’uninominale del Mattarellum con la logica del proporzionale, votando bovinamente i candidati paracaduti nel collegio invece di bocciarli, come accadrebbe in Inghilterra o negli Stati Uniti. Insomma, il bipolarismo è deragliato. E di tasse, se l’autore di queste righe si sarà sbagliato sarà il primo a esserne contento, ne pagheremo di più. Ma forse di tutto ciò la Lega non è neanche colpevole. Così come non è neanche colpevole di essere nata come movimento per la difesa un po’ becera delle culture locali e di contrapposizione ai troppi “terroni” negli impieghi pubblici, che d’altronde i “padani”spesso non vogliono fare. Essersi poi trasformata in movimento per l’indipendenza di una neo-inventata “Nazione Padana”. Aver poi accettato di fare una delle stampelle del nuovo centro-destra di Berlusconi. Aver poi accordato con il centro-sinistra il “ribaltone”, e aver pensato di trasformarsi nel nuovo centro nazionale del “Polo del Guerriero”. Essere tornata alla richiesta dell’Indipendenza, con tanto di ampolle del dio Po, referendum autogestiti con i risultati da consegnare all’Onu e elezioni di Parlamenti Padani. Essersi riadattata a fare la stampella di Berlusconi. E ora ridurre il tutto a un mix tra le messianiche speranze del federalismo fiscale, un po’ di becereume anti-risorgimentale e la faccia feroce con-
tro gli immigrati. «In Italia di progressivo c’è solo la paralisi», diceva amaramente Gaetano Salvemini. Effettivamente, nel nostro Paese le riforme o, nella maggior parte dei casi, non si riesce a farle; o, se e le poche volte che si fanno, prendono una direzione e un risultato del tutto inaspettati. È appunto questa esasperazione che ha portato al boom della Lega. Ma poiché, lo ripetiamo ancora con Montanelli, i leghisti sono anche loro italiani, non è che evitano il problema semplicemente col negare affannosamente di esserlo.
D’altra parte, il motivo principale perché in Italia le riforme le chiedono in tanti ma poi o non si fanno e si fanno male, è proprio che delle riforme si vogliono i vantaggi e non i costi. Perché comunque per ottenere questi vantaggi bisogna sempre pagare, dal momento che nessun pasto è mai gratis. Storicamente, ci sembra indiscutibile, il leghismo appartiene alla stessa tendenza di lotta per la riduzione del carico fiscale attraverso la riduzione del peso dello Stato cui sono appartenuti la rivoluzione that-
Meno tasse e più stato: sembra questo ormai lo slogan del Carroccio cheriana, quella reaganiana e, più di recente, i Tea Party. Con questa però importante differenza: che i leghisti vogliono pagare meno tasse senza ridurre il peso dello Stato, come hanno dimostrato a dismisura da una parte il modo in cui la Lega ha approfittato del potere per buttarsi nel modo più famelico su banche e posti di sottogoverno; dall’altra la richiesta affannosa di ministeri al Nord, e di quote etniche, e di barriere protettive. Insomma, l’illusione che l’eccesso di fiscalità non sia una tendenza inevitabile della espansione degli apparati pubblici, ma il semplice effetto dell’esistenza all’interno di un Paese di aree meno efficienti e meno produttive; e che dunque basti “sforbiciarle”, di diritto o anche solo di fatto, per avere in quattro e quattr’otto il miracolo di uno Stato più leggero semplicemente perché più piccolo come ambito geografico. Una tipica impossibile quadratura del cerchio, di quelle attorno a cui in Italia la politica è sempre rimasta avvitata. E una riprova in più che non solo i leghisti sono a loro volta italiani, ma che è la Lega la più perfetta Autobiografia della Nazione.
diario
pagina 6 • 9 febbraio 2011
Calderoli dice no al 17 marzo festivo
Disastro del Po, due indagati
Assessore e ultrà: leghista indagato
ROMA. La lotta ai fannulloni ha
MILANO. Ci sono due indagati
BERGAMO. Oltre cento ultrà in-
arruolato anche il ministro leghista Roberto Calderoli il quale ha colto l’occasione della prevista chiusura degli uffici il 17 marzo, giorno dei festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia, per mandare il solito messaggio leghista antiitaliano. «In un periodo di crisi come quello attuale - ha detto - meglio festeggiare lavorando piuttosto che stando a casa». Per Calderoli «la chiusura degli uffici pubblici porterebbe a danni per miliardi di euro»: quanti di preciso, Calderoli non lo ha ancora calcolato. A preoccuparlo, comunque, sarebbe anche le possibilità di ”ponte” che verrebbero a crearsi conseguentemente al giorno perso. Oggi in Consiglio dei ministri si discuterà anche di questo.
nell’inchiesta sui 2.600 tonnellate di idrocarburi finite prima nel Lambro e poi nel Po nella notte tra il 23 e il 24 febbraio scorso. Un disastro ambientale, per giorni in mondovisione, causato da uno sversamento nella Lombarda Petroli. Gli indagati sono Giuseppe e Rinaldo Tagliabue, 54 e 49 anni, proprietari della società. L’accusa: sottrazione all’accertamento o al pagamento dell’accisa sugli oli minerali. La raffineria si era trasformata in centro di stoccaggio: continuavano a entrare enormi quantità tenute in deposito per conto terzi. Ma si tratta di quantità alle quali non corrispondono documenti nei registri contabili e soprattutto nelle tasse versate.
dagati, fra i quali l’assessore regionale al Territorio, il leghista Daniele Belotti, e decine di perquisizioni e sequestri a Bergamo e provincia. È il bilancio di un’indagine della polizia relativa ad alcuni episodi di violenza che hanno avuto per protagonisti decine di tifosi dell’Atalanta fra settembre 2009 e agosto 2010. L’inchiesta si è conclusa con 35 perquisizioni e l’esecuzione di tre ordinanze emesse dal gip. Dopo un anno e mezzo di indagini, al leader della curva atalantina, Claudio Galimberti, 37 anni, detto «il Bocia», è stato imposto il divieto di dimora a Bergamo e provincia. L’assessore Belotti è ritenuto l’anello di congiunzione tra le istituzioni e la tifoseria.
L’attacco ieri mattina, a bordo 22 marinai (di cui 5 italiani). Si attende la richiesta di riscatto. La paura? Che sia venduta ai terroristi
È ancora incubo pirati
Una petroliera italiana sequestrata davanti alle coste somale di Antonio Picasso ell’Oceano indiano torna l’incubo dei pirati. Ammesso che fosse svanito. Ieri una petroliera italiana è caduta nelle mani di questi novelli corsari che, a bordo dei loro barchini, partono dalle coste della Somalia e prendono di mira tutti i navigli provenienti dal canale di Suez, oppure dall’Estremo oriente. La Savana Caylyn, una super giant di 105 mila tonnellate varata nel 2008 e di proprietà degli armatori Fratelli D’Amato di Napoli - era diretta nel porto di Pasir Gudang, in Malaysia. Composizione dell’equipaggio: ventidue marinai, di cui cinque italiani e il resto indiani. Al momento dell’arrembaggio, avvenuto nella prima mattinata di ieri, si trovava a 880 miglia dalla Somalia e a 500 dall’India. Il primo intervento in soccorso della petroliera è stato effettuato dalla fregata italiana Zeffiro, la quale sta tagliando le stesse acque perché impegnata nella missione antipirateria Atalanta-Euronavfor, per conto dell’Unione europea. Si prevede che la nave nostra connazionale raggiungerà il punto esatto dell’incidente solo tra 24 ore.
L’attacco dei pirati somali alla Savina Caylyn una petroliera lunga 266 metri, larga 46, con una stazza di 105 mila tonnellate e varata nel 2008 - è avvenuto intorno alle 6,57 ora italiana di ieri mattina, da parte di un barchino a bordo del quale sembra ci fossero cinque pirati. Sono stati esplosi vari colpi di mitra e razzi Rpg. La petroliera era diretta a Pasir Gudang, in Malaysia
N
La vastità dell’area colpita dal fenomeno impone una tempestività limitata. Le autorità militari italiane e il comando Ue stanno seguendo gli eventi. In particolare, sono in attesa della richiesta di riscatto. Nella serata di ieri, questa non era stata ancora presentata. Secondo il portavoce di Euronavfor, il comandante di stormo della Raf Paddy O’Kennedy, «la mancanza di un contatto, al momento, fa parte della normalità in queste situazioni di cri-
si». La situazione, quindi, resta ancora da definire. Il fatto che ieri, ad assalto avvenuto, la Savana Caylyn abbia ridotto la velocità suggerisce che i pirati siano riusciti a salire a bordo e a prendere il controllo della nave. La supposizione è confermata anche dalla nuova rotta assunta, chiaramente diretta verso le acque somale. Da sottolineare anche il luogo dell’avvenuto arrembaggio: in piene acque internazionali. Vale a dire dove le navi di pattuglia sarebbero potute intervenire senza sollevare casi di giurisprudenza internazionale. Tuttavia, i pirati si confermano più veloci nell’agire. La mancanza ancora di un riscatto, peraltro, potrebbe essere giustificata dal
fatto che la stiva della Savana è vuota. La nave era diretta in Malaysia per caricare greggio. Nel caso fosse stata assalita al ritorno, nelle mani dei pirati ora ci sarebbe sia una petroliera di grandi dimensioni insieme al suo carico di oro nero. Questo è il secondo caso di arrembaggio a una nave italiana nell’arco di due mesi. Il 14 dicembre, il mercantile Michele Bottiglieri è stato attaccato mentre si trovava in navigazione nel Golfo di Oman. Contro la nave è stato esploso anche un colpo d’arma da fuoco che ha danneggiato un’antenna satellitare. Per sfuggire all’assalto, la Bottiglieri ha messo in atto una serie di manovre evasive, procedendo a zig-zag. Ben
più famosa è stata la vicenda del rimorchiatore Bucaneer, anch’esso battente bandiera tricolore, sequestrato dai pirati somali nell’aprile del 2009.
In quella occasione, i sedici uomini dell’equipaggio, dei quali dieci italiani, cinque rumeni e un croato, erano stati tenuti in ostaggio per circa quattro mesi. Al momento della loro liberazione, il nostro governo aveva sottolineato che non era stato pagato alcun riscatto. Nel 2010, si è parlato poco della questione pirateria. Altre criticità hanno richiamato l’attenzione della comunità internazionale. Tuttavia, sulla base dei dati forniti dalla Camera di Commercio Internazionale, so-
no stati 56 gli atti di arrembaggio denunciati nel corso dell’anno appena concluso, durante il quale oltre 750 persone sono state sequestrate. Le cronache del 2009, però, appaiono ben più sconcertanti. Durante quei dodici mesi, sarebbero stati pagati tra gli 60 e gli 80 milioni di dollari, in termini di riscatti complessivi. Ancora nel 2008, il Consiglio di sicurezza dell’Onu era intervenuto con ben cinque risoluzioni volte a promuovere un’azione internazionale di sicurezza delle acque prospicienti la Somalia. Il Palazzo di vetro si era concentrato soprattutto sui disagi provocati al World food programme (Wfp), a causa degli arrembaggi contro le navi
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Chi difende il cittadino onesto?
Il lusso di Gianfranco Ferré passa a una società araba MILANO. Il gruppo Gianfranco Ferré sventolerà la bandiera degli Emirati. È stato raggiunto l’accordo per la cessione della maison fondata dall’architetto della moda a Paris Group di Dubai del magnate Abdulkader Sankari. La notizia è stata diffusa dai media degli Emirati. Paris Group investirà 100 milioni di euro per rilanciare il brand e riportarlo agli antichi splendori dopo la crisi degli ultimi anni. A causa di problemi finanziari, It holding, la società che possedeva Ferré, aveva chiesto l’amministrazione straordinaria e lo scorso giugno i commissari avevano pubblicato il bando per la cessione, ponendo chiari paletti agli offerenti sul mantenimento dei posti di lavoro e prezzo di partenza dell’offerta. Entro la fine del mese ci sarà la firma del contratto di vendita della storica maison fondata dall’architetto
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
Ferré davanti al notaio. Lo scorso ottobre il marchio Malo era stato venduto al gruppo Evante di Arezzo, mentre a gennaio Ittierre è stata ceduta ad Albisetti. L’operazione di Paris Group rientra in un’aggressiva strategia di espansione della società emiratina che possiede 250 boutiques nella regione. La società di Sankari vanta inoltre nel portafoglio la maison francese Ungaro e i diritti per la distribuzione in Medio Oriente dei brand Pierre Cardin e Balmain.
La crisi economica che ha colpito le famiglie italiane, le imprese ed i singoli contribuenti, ha prodotto l’inevitabile accumulo di un carico fiscale arretrato, che per lo Stato sono miliardi di euro. Nessuna differenza fra chi non ha potuto pagare per effetto di una grave crisi economico-finanziaria e chi non ha voluto pagare. Chi per ragioni di difficoltà non ha potuto pagare viene gravato dalle sanzioni applicate dagli enti impositori, oltre che dagli interessi di mora e dagli oneri di riscossione che nei fatti portano al raddoppio dell’entità del debito. Il sistema di riscossione di detti enti impositori costituisce un serio problema per milioni di cittadini e di imprese, rendendo difficoltoso, per i debitori, la regolarizzazione della propria posizione fiscale. È inutile usare il metodo della riscossione barbara quando milioni di cittadini non vengono messi nella condizione di onorare i debiti. Ancor più inutile se si pensa che una ricca percentuale del debito rientrato va a finire nelle casse dell’agenzia di riscossione. Continuare con l’attuazione di misure cautelari quali i pignoramenti, ipoteche e fermi amministrativi oltre ad essere disumano è controproducente per lo stesso erario.
Roberta L.
FEDERALISMO ALL’ITALIANA dirette in Corno d’Africa e cariche di derrate alimentari per la popolazione somala. Successivamente l’Ue aveva offerto la propria disponibilità per l’ingaggio di un contingente navale da impegnare in loco. Era l’inizio della missione Atalanta. L’operazione attualmente coinvolge 26 nazioni europee e dispone di un budget pari a 7,8 milioni di euro. In parallelo si sono mobilitate anche Cina, Giappone, India, Russia, Stati Uniti e tutti i governi che, per ragioni commerciali e strategiche, sono interessati a riportare la stabilità e la sicurezza nell’Oceano indiano e nel Mar Rosso meridionale.
In realtà, l’impegno congiunto non ha generato i risultati sperati. Spesso è stata criticata la politica individualista di ciascuna marina militare, dei governi e soprattutto degli armatori. Le spese assicurative, in caso di morte degli equipaggi rapiti oppure di perdita dei carichi trasportati, induce i privati a pagare il riscatto, senza che le istituzioni possano intervenire. In seno all’Ue, balza all’occhio negativamente il taglio di fondi, di 600mila euro, per il 2011. Bruxelles cerca di fare economia sulla sicurezza, senza rendersi conto però che è il commercio comunitario a farne le spese, rimettendoci in termini di rapporti con i mercati asiatici. A questo si aggiunge una serie di lacune giuridiche. L’ultimo intervento delle Nazioni Unite risale al 27 aprile 2009, quando il Consiglio di Sicurezza ha chiesto a tutti i Stati membri dell’Onu di criminalizzare la pirateria e adottare apposite leggi negli ordinamenti nazionali, per poter perseguire legalmente i pirati catturati a largo delle coste somale. Allo stato attuale però, salvo casi eccezionali, i pirati catturati vengono rilasciati dopo poco tempo.Tra le eccezioni, bisogna ricordare quella di Abduwali Muse: pirata somalo, poco più che ventenne, arrestato dalla Marina Usa e, nel maggio 2010, sottoposto a processo presso il Tribunale di New York. L’episodio aveva fatto sperare nella
Le spese assicurative, in caso di morte o di perdita dei carichi, inducono i privati a pagare il riscatto
Dall’alto: il presidente somalo Sheik Sharif Sheik Ahmed, Ignazio La Russa, un pirata africano e la nave Buccaneer
definizione di un precedente giuridico nazionale ma vincolante presso altre nazioni. Il dossier Muse, tuttavia, è ancora sui tavoli della giustizia Usa. Una vicenda simile si sta svolgendo, proprio in questi giorni, in India. Fatti isolati, questi, perché l’Onu non si è ancora espresso sulla pirateria in termini procedurali. In ambito occidentale, anche in Italia, le proposte avanzate mancano spesso di una conoscenza tecnica del fenomeno. Nel frattempo, si è tornati a parlare dell’eventualità di armare gli equipaggi dei mercantili, oppure di introdurvi un sistema di sicurezza privata. Iniziative, queste, che potrebbero funzionare unicamente sul breve periodo. Dotare un naviglio civile di un proprio arsenale significa esporlo a rischi di ammutinamento da parte del suo stesso equipaggio e soprattutto farne un preda ancora più interessante per i pirati, i quali ingaggerebbero gli assalti non solo per sequestrare carico e cargo, ma anche per recuperare nuove armi utili per la loro guerra sui mari.
Inoltre, non giova la totale assenza di un’autorità giudiziaria in Somalia. La maggior parte dei pirati che si sottrae alle autorità navali trova facile rifugio sulle coste del Corno d’Africa, dove sono assenti i controlli di polizia e sicurezza. In realtà, l’antidoto alla pirateria è proprio da ricercare sulla terraferma. Il Corno d’Africa è sempre più una polveriera globale. Soprattutto ora con loYemen in rivolta, il Sudan a rischio di guerra civile e Suez priva di controllo. L’inesistenza di un soggetto statuale a Mogadiscio rende la Somalia il territorio più fertile per l’attecchimento di fenomeni criminali di questa portata. Esattamente vent’anni fa, lo Stato somalo dichiarava fallimento. Da allora, la comunità internazionale non è stata capace, oppure non ha percepito l’urgenza di intervenire nella regione con un’azione risolutiva. La pirateria è lo scotto che si paga per questa enorme disattenzione.
Il federalismo è una dottrina politica favorevole alla federazione, che è il modo per legare Stati diversi retti da una Costituzione comune ma dove ognuno ha leggi proprie. La Lega lo auspica soprattutto perché vuole creare la deregulation, ovvero la canalizzazione mirata dei finanziamenti evitando sperperi e appropriazioni indebite, che essa addebita alla centralità dello Stato e alle sperequazioni del sud. Ma quello che stiamo per applicare è vero federalismo? Quello che nasce dalla necessità di creare sinergia tra differenze umane in territori ampi con varie criticità? Oppure stiamo confezionando un vestito su misura usando una stoffa ignota per trasformare un dissesto nell’“ognuno per sé e Dio per tutti”?
Gennaro Napoli
L’IMMAGINE
Che libro... pesante! Nell’era dell’e-book facilmente accessibile e privo di ingombro, quello che vedete è senz’altro un libro d’eccezione: alto 1,8 metri, largo quasi tre, pesa 120 chili. È un atlante fotografico dal titolo Earth
IL NOSTRO, GRANDE PROFESSOR BOLLEA Noi, che abbiamo avuto la fortuna di conoscere la sua originale e professionale passione, lo ricorderemo con quello sguardo birbone sempre rivolto al futuro, con la certezza del presente e l’enorme ricchezza del passato; con i capelli ribelli e bizzarri sopra le sue orecchie da Dumbo pronto ad acchiappiare ogni sussurro per condividere sogni, idee, cambiamenti, rapporti, confronti/scontri! Lui, il nostro Professore: eterno bambino, stupendo uomo, grande vecchio! Grazie di esserci stato sempre… per il mondo bambino, per quello adolescenziale e per tutti noi adulti, che hai aiutato a crescere, a metterci in gioco, ad amarci, tenendo ognuno per mano, se ce ne era bisogno! Tu e la tua onestà, contro ogni forma di ipocrisia; tu e il tuo bisogno di coerenza contro ogni incoerente formalismo; i fatti contro le parole, l’agire contro il promettere! Rimarrai per sempre vivo nei nostri cuori, nel nostro lavoro, nei nostri ricordi e nell’interminabile storia passata, presente e futura della tua creatura: la neuro psichiatria infantile.
Gli operatori della neuro psichiatria infantile
PACIFICAZIONE IMPOSSIBILE E ALLORA MEGLIO UNA TREGUA Le polemiche, non solo politiche ma anche sovente avente natura penale, non possono proseguire oltre un certo limite senza dar luogo non solo ad un’immagine negativa dell’Italia capace di portare danno per quanto riguarda il rapporto umano fra cittadini, ma anche per ciò che concerne le relazioni sociali e perfino l’economia. Credo che sia giunto il momento di dire “basta”a tanti argomenti meramente velleitari, improduttivi, distruttivi, e ai loro proclamatori, quando gli stessi provengono sia da destra quanto da sinistra. Occorre quantomeno, visto che la piena pacificazione è praticamente impossibile, almeno ad una tregua ragionata e capace di dare all’Italia un’immagine dignitosa.
Raffaele Costa
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il paginone
I professori di Fare Futuro contestano a Fini di non difendere più l’att Sofia Ventura e Alessandro Campi – impropriamente definiti gli ideologi di Gianfranco Fini (sono degli studiosi di scienza politica che hanno contribuito con delle idee alla formazione di un’ancora embrionale destra nuova) – verrebbe da chiedere qualche maggiore chiarimento rispetto al loro legittimo disagio per il riorientamento strategico e tattico di Futuro e libertà. In particolare – ché questo sembra essere il motivo della disparità di vedute e del maturato, parziale distacco tra i due professori e la formazione del presidente della Camera – verrebbe da chiedere se davvero sarebbe stato possibile per Fini mantenere da un lato l’antico radicamento nel bipolarismo come s’è andato materializzando in Italia negli ultimi quindi ci anni – bipolarismo in cui sembrano ostinatamente credere Sofia Ventura e, anche se con meno foga Alessandro Campi – dall’altro se davvero il presidente della Camera avrebbe potuto insistere dentro uno schema di ”alleanza competitiva” con Berlusconi dopo che dal Pdl Fini, dopo una lunga serie di strappi e distinguo, è stato definito incompatibile o, come dicono più brutalmente gli esponenti di Futuro e libertà, è stato espulso. È in questa domanda, a nostro avviso, che è contenuto non solo
A
Caro Campi, il bi
di Riccardo
il destino e il futuro di Fli ma anche e soprattutto l’esito della partita politica e sistemica che si sta giocando nel Paese, la cui impasse è in gran parte dovuta proprio alla paralisi d’un bipolarismo che in pratica, ossia nell’unica dimensione significativa per un sistema politico, non funziona, non assolve i compiti che s’era dato e che avrebbe dovuto essere nella sua natura assolvere.
Secondo il politologo, il partito della nazione dovrebbe puntare a raccogliere l’eredità del Pdl postberlusconiano Questo bipolarismo infatti non semplifica le forze in campo, non garantisce stabilità malgrado un premio di maggioranza altissimo, non taglia e anzi implementa e alimenta le ali estreme della rappresentanza regalando loro un potere di condizionamento inaudito, allarga la forbice geografica italiana, esasperando antagonismi e differenze tra nord e sud, contribuendo all’esplosione d’un separatismo sempre più acceso e politicamente organizzato, non consente intese costruttive per
Il prossimo congresso di Fli a Milano potrebbe fare chiarezza su linea e programmi l’interesse del Paese come è potuto avvenire in Germania e come in parte è avvenuto persino in paesi d’antica tradizione bipolare come la Gran Bretagna, costringe, per altro verso, a coalizioni la cui omogeneità è una simulazione da cartello elettorale. Insomma il bipolarismo italiano ha tradito il bipolarismo teorico che in fondo è quello della democrazia dell’alternanza, della collaborazione dei poteri, d’una comune idea di legalità, di principi generali condivisi. Ecco dunque che più che il presidio a questo bipolarismo è proprio la rottura delle sue ferree gabbie che può liberare le energie politiche del Paese consen-
tendo loro una più libera e plurale articolazione. Ed è in questa prospettiva che se la destra nuova di Fini intende davvero avviare la sua nuova navigazione dovrebbe, in coerenza con le scelte fin qui fatte, procedere.
«Grazie alla contorta legge elettorale che ci siamo dati – scriveva Alessandro Campi lo scorso agosto – molti sostengono che una larga vittoria alla Camera dell’alleanza tra Bossi e Berlusconi potrebbe essere vanificata al Senato proprio dal buon risultato di questa nuova formazione, che dovrebbe raccogliere Casini, Fini, Rutelli e magari, per so-
il paginone
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tuale schema politico e l’aver abbandonato il campo del centrodestra
ipolarismo crepa
o Paradisi
Le parole di Casini sull’identità cattolica non sono ”provocazioni” ma affermazioni di principio la scommessa sistemica. La scommessa cioè di chi non punta più niente su una declinazione di bipolarismo che ha fallito – costringendo alla coazione stanca dello schema destra-sinistra che risulta sempre di più un’astrazione politologica e che ha smesso d’afferrare la sostanza dei temi politici – puntando piuttosto sul suo superamento. Invece Ventura e Campi a questo superamento in avanti del bipolarismo sembrano non crederci.
prannumero, qualche transfuga trai cattolici inquieti del Pd. Se il problema è rovinare la festa al Cavaliere, impedirgli una vittoria totale e definitiva, metterlo nelle condizioni di non governare ancora una volta, il Terzo Polo potrebbe anche riuscire nel suo intento. Ma che valore politico – al di là dei numeri, che magari potrebbero anche essere interessanti: si stima dal 10 al 12 per cento dei consensi elettorali - avrebbe una simile realtà politica? Lasciamo stare i problemi di leadership – continua Campi nel suo ragionamento - che subito si creerebbero in questo nuovo partito, che di leader rischierebbe di averne troppi e dunque nessuno, ma quale programma lo sosterrebbe? Quale progetto oltre il desiderio di non restare schiacciati dal meccanismo bipolare che attualmente regola la politica italiana? Chi più crede in questa prospettiva - Casini - ha sostenuto ieri che ciò che dovrebbe nascere non è in realtà un Terzo polo, come tutti lo chiamano, e nemme-
no un Grande centro, che per definizione dovrebbe porsi in posizione mediana (e politicamente perdente, vista l’attuale legge elettorale) tra l’attuale centrodestra e l’attuale centrosinistra. Ma un nuovo soggetto politico rivolto al futuro: un’area di responsabilità politica, che dovrebbe proporsi agli elettori come il ”partito della nazione”».
E il punto infatti è proprio questo, qui sta, per chi se la vuole giocare davvero,
Fini dovrebbe dimettersi da presidente della Camera per non lasciare il partito in mano ai colonnelli
E lo dimostra il resto della riflessione che il direttore scientifico della fondazione Farefuturo svolgeva: «Se le parole hanno un senso, e se la politica non è solo gioco di interdizione o una banale sommatoria algebrica, ma anche visione e strategia, stiamo in realtà parlando, almeno come prospettiva e come intenzioni, di un secondo polo. Insomma, come peraltro sembrerebbero testimoniare le parabole politiche di Casini e Fini, di un nuovo, possibile centrodestra (ma allora cosa c’entrano Rutelli e Fioroni?). Un centrodestra senza Berlusconi, o dopo Berlusconi, che punterebbe a sostituire quello attuale e con il quale sarebbe, sin dalle prossime elezioni, in diretta competizione. In questa chiave, scommettendo sull’esaurirsi della parabola politica del Cavaliere e della sua creatura politica, il “partito della nazione” dovrebbe puntare a raccoglierne l’eredità quando quest’ultima andrà fatalmente dispersa». Una riflessione tutta ancora giocata appunto dentro il presente schema bipolare, che nella visione di Campi e Ventura sembra dover essere immodificabile, visione che contribuisce, assieme ad altri elementi, a divaricare le loro prospettive rispetto a quelle del partito di Fini. Altri elementi su cui invece Campi in particolare potrebbe avere delle ragioni oggettive quando per esempio dice che in Futuro e libertà «si è passati dalla critica a Berlusconi all’invettiva, e mentre sulla critica
lo abbiamo messo in difficoltà, con l’insulto sposiamo tesi su cui la sinistra perde da quindici anni. E per di più ci confondiamo in un coro che non ha voci autonome». Anche in questo per Campi si è passati in Fli da una fase di costruzione di un altro centrodestra – «moderato, non populista, incentrato su legalità e diritti» – a una nebulosa fatta di «aperture a sinistra in chiave tattica, di rautismo di ritorno». Contraddizioni che in effetti ancora esistono all’interno di Futuro e libertà e che il congresso di sabato prossimo a Milano dovrebbe contribuire se non a sciogliere almeno a rappresentare chiaramente. Assieme all’altra questione – che si diceva è la vera questione – della posizione sul bipolarismo e della sua necessità di essere riformato. È su questa indecisione del resto che dal suo punto di vista Sofia Ventura investe l’essenza della sua polemica nei confronti della formazione finiana: il non essere rimasta sul solco bipolarista e il non aver conteso l’egemonia e la leadership nell’attuale centrodestra a Sivio Berlusconi. Non solo, la politologa registra una certa smobilitazione di Fli anche su temi caratterizzanti come la laicità: «Il terzo polo – dichiarava ieri Ventura – è nato come esigenza tattica per difendersi da Berlusconi, ma in realtà è stato poi proprio questo che ha creato l’impasse attuale. Oggi, infatti – avverte la sociologa – ci troviamo a indentificare posizioni che non disturbino troppo gli alleati come Casini, mentre lo stesso Casini non si preoccupa minimamente di provocare Fli sui temi dei laicità»
Nella coazione del vecchio schema destrasinistra non torna la presenza di Rutelli nel nuovo polo della nazione Dove l’adesione a una visione culturale e politica sarebbe una ”provocazione” non si capisce bene ma è chiaro il disagio per una definizione d’identità che in Fli tarda ad arrivare. Una definizione che non arriverà dal congresso di Milano – come è immaginabile – ma su cui, come si diceva, i vertici di Futuro e libertà e lo stesso Fini potrebbero cominciare a lavorare cominciando col chiarire meglio alcune questioni. A partire proprio dalla posizione sul bipolarismo non come concezione astratta su cui appunto tutti si può essere più o meno d’accordo ma sulla sua declinazione politica nella realtà italiana. Su quelle che Alessandro Campi chiama le sirene del ”rautismo di ritorno”che in alcuni esponenti di Fli fanno vagheggiare alleanze fino alle latitudini dipietriste; sulla laicità e sulla sua modulazione nelle scelte politiche e sui fronti della bioetica. I congressi d’altra parte servono proprio a questo a definire orientamenti, rapporti di forza, identità e programmi.
mondo
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La crisi in Egitto rimette in discussione il piano di pace. Suleiman piace a Gerusalemme, ma i Fratelli Musulmani no
Dopo Mubarak, la paura La transizione al Cairo, piena di incognite sul futuro in Medioriente, spaventa Israele di Yossi Klein Halevi ino a dieci anni fa, ogni governo di Israele - destra o sinistra, non importa - ha lavorato, in tema di sicurezza, per evitare che ai confini del Paese si stabilizzassero basi terroristiche. Oggi quella dottrina è stata chiaramente sconfitta dai fatti. Nel maggio del 2000, il ritiro unilaterale di Isarele dal sud del Libano ha consentito ad Hezbollah di dominare il confine nord del Paese. Nell’agosto 2005, il ritiro (sempre unilaterale) da Gaza ha aperto il fianco sul fronte sud ad Hamas. Il risultato è evidente:
F
dalla minaccia demografica di una maggioranza palestinese fra le rive del Giordano e il mar Mediterraneo, che forzerebbe Israele a fare una scelta impossibile tra le sue due identità: quella ebraica e quella democratica. In più la solleverebbe dall’agonia di un’occupazione prolungata e mitigherebbe l’isolamento internazionale in cui sta cadendo.
Dall’altra parte, però, vedono nello stato palestinese una minaccia esistenziale per Israele. Uno stato palestinese instabile sulla West Bank po-
Nel maggio del 2000, il ritiro dal sud del Libano ha consentito ad Hezbollah di dominare il confine nord del Paese. Nell’agosto 2005, il ritiro da Gaza ha aperto il fianco ad Hamas due enclave controllate dagli islamisti hanno la possibilità di lanciare attacchi missilistici contro Israele. Mentre l’Iran, agendo di fatto per procura, soffia sul collo di Israele sempre più forte. E i politici israeliani si trovano a dover fare i conti con l’incubo di un Egitto nel prossimo futuro potenzialmente controllato dagli islamisti, che potrebbero salire al potere sia pacificamente sul modello dell’Akp turco di Erdogan, sia violentemente, sul modello della rivoluzione khomeinista. In entrambi i casi, tuttavia, la sostanza non cambia, perché nelle stanze che contano tornerebbe a far sentire la sua voce un movimento profondamente anti-semita determinato a ridurre a carta straccia il trattato di pace di Camp David.
Fino a questo momento, i Fratelli Musulmani si sono visti sbarrare la strada da Mubarak, ma se prendessero il controllo della situazione presto si troverebbero alleati con Hamas, i parenti dei Fratelli in seno alla Palestina. La maggioranza degli israeliani avverte lo stato palestinese con un profondo senso di ambivalenza. Da un lato lo percepiscono come una necessità: una Palestina indipendente solleverebbe il popolo ebraico
trebbe iniziare a combattere Hamas, così come fece Gaza guidata dall’Autorità Palestinese nel 2007. E Israele si troverebbe quindi a “condividere” Gerusalemme con un governo islamista che trasformerebbe la città in una zona di guerra. Ecco cosa teme Israele, anche se il movimento Fatah del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas riuscisse a rimanere al potere, bande di terroristi disertori (che Fatah non sarebbe né in grado né disposta a controllare) lancerebbero missili su Tel Aviv e Gerusalemme dalle colline della West Bank. Persino missili “primitivi” come quelli lanciati da Hamas contro il sud del Paese potrebbero, avendo come obiettivo il cuore di Israele, porre fine ad una normale vita nel paese. E se l’esercito israeliano allora invadesse nuovamente la Cisgiordania per rispondere agli attacchi, Israele si troverebbe ancora una volta denunciata dalla comunità internazionale come criminale di guerra e anche come aggressore nei confronti di un membro delle Nazioni Unite. In questo equilibrio fra necessità esistenziale e minaccia esistenziale, l’agitazione dell’Egitto non fa che aumentare l’ansia di Israele per uno stato palestinese. L’unico confine che Israele oggi è in grado di
controllare è quello con la Cisgiordania. Ecco spiegato perché, alla luce degli eventi in Egitto e Tunisia, gli israeliani saranno molto cauti prima di affidare quel confine ad Abbas. È prevedibile, oltretutto, che l’instabilità dell’Egitto rafforzerà le rivendicazioni israeliane di garanzie di sicurezza quali parti di un accordo sullo Stato palestinese. Queste richieste comprenderanno una Palestina demilitarizzata, il diritto di Israele di rispondere agli attacchi terroristici e una presenza militare israeliana lungo il Giordano. «Pensate se il Sinai non fosse demilitarizzato - mi ha detto un funzionario israeliano - a cosa assomiglierebbe oggi la nostra situazione strategica?». Nemmeno le garanzie statunitensi rassicurerebbero gli israeliani. Diversamente da quel che pensa la maggior parte dell’opinione pubblica occidentale, l’immediato abbandono del presidente Obama di Hosni Mubarak - l’alleato più vicino degli Stati Uniti nel mondo arabo - è citato dai commentatori israeliani sia a destra che a sinistra come un avviso a non fidarsi di questa amministrazione.
Oltretutto, sia la Casa Bianca che buona parte della comunità internazionale, si approccia alla questione medio-
nese dovesse in qualche modo risolversi, il mondo arabo continuerebbe a trovarsi nel vergognoso paradosso di essere una delle regioni più ricche al mondo, pur essendo una delle meno sviluppate. Inoltre, come rivelato da Wikileaks, i leader arabi sono molto più concentrati sulla prospettiva di un Iran nucleare che sulla conclusione dell’occupazione israeliana nella West Bank.
Il secondo presupposto - secondo cui gli insediamenti e Gerusalemme sono l’ostacolo principale ad un accordo - è stato smentito da una fuga di documenti provenienti dall’Autorità Palestinese e pubblicati da Al Jazeera e The Guardian. Questi documenti
Se gli islamisti prendessero il potere, nelle stanze che contano tornerebbe a far sentire la sua voce un movimento anti-semita determinato a cancellare il Trattato di pace di Camp David rientale avendo a mente due presupposti (entrambi rivelatisi erronei in questi giorni). Il primo è che la chiave per risolvere i problemi mediorientali sia risolvere il dilemma palestinese. Il secondo che per risolvere quest’ultimo sia necessario risolvere le questioni degli insediamenti in Cisgiordania e dello stato di Gerusalemme. Il primo presupposto è stato annullato nelle strade del Cairo. I manifestanti non stanno protestando per il destino della Palestina ma per l’Egitto. Anche se la questione palesti-
rivelano che sul futuro dei quartieri ebrei e arabi di Gerusalemme, i negoziatori israeliani e palestinesi erano ampiamente d’accordo. Nonostante le dichiarazioni dei media, un simile consenso non è affatto nuovo. Per quanto riguarda gli insediamenti, anche qui si è intravisto a lungo il profilo di un accordo che è stato confermato anche dal “Palestine Papers”. In verità, l’ostacolo principale rimane l’insistenza palestinese sul “diritto di rientro” - ovvero l’immigrazione di massa verso lo
stato ebreo dei discendenti dei rifugiati palestinesi. I documenti rivelano inoltre una maggiore comprensione della Palestina nei confronti dell’opposizione di Israele ad un “ritorno” di massa. Tuttavia la lacuna fra quanto avevano in mente i palestinesi sulla questione dei rifugiati e quanto l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert aveva intenzione di offrire, non era semplicemente vasta, ma insormontabile. Come rivela Olmert nelle sue memorie presto in uscita (e di cui un quotidiano israeliano ha pubblicato ampi stralci) egli si offrì di accogliere 5 mila discendenti dei rifugiati.
Tuttavia, come dimostrano i documenti, sembra che Abbas e i suoi negoziatori si aspettassero un’apertura a migliaia di rifugiati. Olmert inoltre si è rifiutato di assumersi la responsabilità (come gli veniva chiesto) di aver creato il problema dei rifugiati. D’altronde, non dimentichiamo che la guerra del 1948 fu lanciata dai paesi arabi. Ecco perché, alla fine, l’offerta di Olmert di ritirarsi da più del 99 per cento del territorio si è rivelata alla fine un passo falso. Con la pace in Egitto improvvisamente a rischio - una pace per cui Israele si è ritirato da un’enorme porzione di territorio - gli israeliani si chiedono se sia saggio continuare a rischiare con altri ritiri per accordi che potrebbero essere abrogati con un cambio di regime. E dunque al momento preferiscono stare a guardare.
mondo
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Il pericolo maggiore? Una combinazione delle forze armate di Egitto, Siria e Giordania
Tel Aviv si premunisce e punta tutto sull’esercito
Il governo israeliano pensa a rivoluzionare il suo sistema militare per fronteggiare lo scenario peggiore: una guerra contro i Paesi arabi di Stranamore utti si augurano che la transizione in Egitto avvenga in modo “tranquillo” e che le redini del potere finiscano in mano ad una coalizione moderata. Tutti si augurano che l’effetto contagio porti ad analoghi risultati in tutti i paesi della regione già coinvolti o che saranno presto interessati dal vento del cambiamento. Ma chi deve valutare gli scenari militari strategici non può permettersi di sperare e intanto restare a guardare. Israele sarà costretta a reagire subito, con la spiacevole necessità di rivoluzionare il suo sistema militare, di aumentare la spesa per la difesa, di considerare prioritarie minacce che sembravano appartenere al passato. A Tel Aviv si sta ragionando del ritorno del vecchio incubo, quello di un conflitto convenzionale ad alta intensità combattuto da una coalizione di paesi arabi. E questa volta il quadro sarebbe ancora più preoccupante che
T
in passato, perché Israele deve anche guardarsi dalla formidabile minaccia di Hezbollah con un Libano a rischio destabilizzazione senza dimenticare il pericolo interno rappresentato da Hamas, ben più temibile di quello della vecchia Olp. A questo si aggiunge un Iran che può intervenire indirettamente e direttamente in un eventuale guerra. Il pericolo maggiore è quello consueto: una combinazione delle forze armate di Egitto, Siria ed eventualmente Giordania. E non è una questione di paranoia. Israele sa benissimo che la “tenuta” delle forze armate egiziane è tutta da verificare, dal momento che sono costituite da 350mila uomini, dei quali ben 250mila coscritti, scelti con un sistema di leva selettiva e impegnati in una ferma che arriva a 36 mesi. I quadri ufficiali, molto importanti in forze armate dove i sottufficiali avevano un ruolo minore, sono stati accuratamente selezionati per evitare troppe infiltrazioni di elementi non fedeli, ma in molti saranno pronti ad adeguarsi al nuovo corso. Israele e gli Usa contano moltissimo sulla saldezza dei militari, che conoscono bene e con i quali hanno creato negli rapporti professionali e personali intensi e proficui. Ma non è il caso di farsi troppe illusioni.
Per Israele avere a che fare con un Egitto potenzialmente ostile ed al quale è stato restituito il Sinai, perdendo ogni “profondità” strategica difensiva, è un disastro. Specie se l’Egitto tornasse a legare con la Siria e pur ammettendo che la Giordania rimanga a lungo il miglior alleato degli Usa nella regione ancora a lungo. Come
Un conto è investire in difesa antimissile/antirazzo e aerei d’attacco a lungo raggio, altro è mantenere un esercito convenzionale consistente e ben addestrato. Ma bisognerà farlo
Il nuovo governo procederà,
A destra, milizie di Tsahal. Sopra, Barack Obama assieme a ”Bibi” Netanyahu e Abu Mazen. In apertura, la folla in piazza Tahrir
arma che va usata con la massima cautela, perché significherebbe dare per scontato che l’Egitto è perduto. La via del compromesso, una riduzione parziale degli aiuti, non sortirà effetti sostanziali.
un passo alla volta, a rinnovare sia i vertici sia la base del corpo ufficiali, per scongiurare “sorprese”, ovvero un colpo di stato, che pure resta una eventualità possibile nel breve termine. Gli Usa dovranno poi decidere se continuare ad assicurare al nuovo Egitto il livello di assistenza militare attuale: il che vuol dire aiuti per 1,8 miliardi di dollari all’anno, trasferimento di materiale militare in surplus, scambi di personale, esercitazioni congiunte, assistenza tecnica e forniture di ricambi. Un bel dilemma: se si chiudono i rubinetti la macchina militare egiziana si fermerà nel giro di un paio d’anni, ma politicamente questa è un
potrà, dovrà reagire Israele? Innanzitutto tornando a cambiare la struttura e la missione delle forze armate. In questi anni Tsahal si è adeguato alla realtà della minaccia, costituita da un lato da operazioni di controguerriglia su vasta scala, anche in ambiente urbano e dall’altro si è preparata a combattere una battaglia missilistica nei confronti dell’Iran e si è dotata di mezzi per la proiezione di potenza a lungo raggio, capaci di superare ogni difesa dei potenziali avversari. In particolare la conversione dal precedente assetto “pesante”, basato su forza motocorazzate, è stato accelerato dopo la prova poco felice contro Hezbollah e le operazioni contro Hamas. Il tutto è stato facilitato appunto dalla sicurezza della frontiera con l’Egitto, di quella con la Giordania e successivamente dalla presenza tanto bistratta, ma altrettanto gradita della forza Unifil in Libano. Israele in questi anni ha potuto condurre una parziale ristrutturazione delle Forze Armate, ridurre il peso della difesa sia in termini economici sia in termini di “militarizzazione”della società. Perché un conto è investire in difesa antimissile e antirazzo e aerei d’attacco a lungo raggio, altro è mantenere un esercito convenzionale consistente e ben addestrato. Ora tutti i presupposti della “pace fredda”di cui ha goduto vengono a cadere. E siccome ci vuole tempo per cambiare la struttura delle forze armate, Israele sarà costretta a compiere scelte prudenziali immediatamente. Scelte politicamente e economicamente non gradite alla sua popolazione. Né ai vicini.
quadrante
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Coree, riprendono i colloqui militari
Egitto: il mea culpa di Van Rompuy
Betlemme ? Tesoro dell’umanità
SEOUL. Si sono svolti ieri i collo-
BRUXELLES. Il primo a fare il
BETLEMME. Il Ministro del turi-
qui militari “tra i colonnelli dei due eserciti coreani”, in due differenti sessioni alla “Peace House”di Panmunjom: la prima è durata poco meno di un’ora, mentre della seconda non si sono avute notizie. Secondo Kim Min-seok, portavoce del ministero della Difesa sudcoreano, le delegazioni hanno avuto un primo contatto dopo mesi di forti tensioni con l’ultimo episodio del 23 novembre scorso, in cui l’artiglieria di Pyongyang ha bombardato l’isola di Yeonpyeong causando quattro vittime, di cui due civili. Il confronto “tra colonnelli”ha lo scopo di finalizzare gli elementi come luogo, data e agenda di discussione per i faccia a faccia di alto livello, possibilmente tra ministri.
mea culpa era stato il premier belga Yves Laterme. Ieri, è stata la volta di Hermann Van Rompuy, presidente della Ue, incalzato dai capigruppo del Parlamento Europeo: «Sulla crisi egiziana l’Europa ha parlato all’Egitto e al mondo arabo con troppe voci isolate, pur dando sostanzialmente il medesimo messaggio, che la transizione deve iniziare immediatamente». L’autocritica ha in realtà un doppio obiettivo: bacchettare le diplomazione europee per lo scarso spazio di manovra concesso alla responsabile per la politica estera dell’Ue, Catherine Ashton; ma anche bacchettare quest’ultima per il suo ruolo troppo spesso inadeguato e non imparziale.
smo palestinese ha presentato ieri la richiesta ufficiale perché la città di Betlemme entri a far parte del Patrimonio dell’umanità. A detta delle autorità palestinesi, l’inserimento della città nella lista Unesco sarebbe dovuto accadere diverso tempo fa, ma le tensioni tra israeliani e palestinesi hanno sempre frenato la questione. Ora c’è un anno di tempo prima che il comitato per il Patrimonio dell’umanità si riunisca e decida delle candidature, a luglio del 2012. Se Betlemme dovesse essere scelta, si stima un’impennata del turismo, visti gli oltre due milioni di pellegrini già attesi per il 2011. Il ministro ha dichiarato: «Siamo orgogliosi per aver presentato questa candidatura».
Per i russi le dichiarazioni di Umarov sono “tardive e controverse”. Ma il Cremlino deve mediare tra esigenze di sicurezza e politiche
La Cecenia rialza la testa
Gli indipendentisti rivendicano l’attentato all’aeroporto di Mosca di Pierre Chiartano la guerra della comunicazione in Russia: un capo terrorista parla e un giornalista occidentale viene cacciato. L’auotoproclamato Emiro del Caucaso, l’inafferrabile Doku Umarov, che ha rivendicato l’attentato kamikaze del 24 gennaio all’aeroporto moscovita di Domodedovo – con 36 vittime – non convince le autorità russe. Il leader islamista ceceno, nemico numero uno di Mosca dopo la morte del capo guerriglia Shamil Basaev, aveva dichiarato in un video pubblicato dal sito indipendentista Kavkazcenter.com di avere ordinato «l’operazione speciale» nello scalo moscovita e sostiene che il video è stato registrato il giorno stesso dell’attentato suicida. Ma le sue parole non sembrano convincere troppo. Primo, perché in altre occasioni la rivendicazione di un attentato era avvenuta entro il terzo giorno dall’evento, poi perché lo stesso premier Vladimir Putin aveva escluso ogni coinvolgimento del terrorismo ceceno. La dichiarazione del premier del Cremlino di per sé non fa fede, quando esplode una bomba in Russia non si può mai sapere chi l’ha messa. E il caso Litvinenko insegna. L’episodio indica comunque un cortocircuito informativo che il video dell’emiro avrebbe causato. E lo stesso Umarov potrebbe aver fatto una tale rivendicazione, perché costretto dalla necessità di avere maggiore visibilità rispetto al nuovo radicalismo islamico che dal Balcani sta avanzando verso il Caucaso. Insomma, maketing del terrore. E che ci sia in ballo qualcosa di grosso lo indica anche un altro evento: il corrispondente del Guardian da Mosca, Luke Harding, è stato espulso dalla Russia in quello che sembra essere il primo allontanamento forzato di un giornalista britannico dalla fine della Guerra Fredda. Harding aveva recentemente definito la Russia una «cleptocrazia autocratica», citando le dichiarazioni di alcuni diplomatici americani nei documenti diffusi da Wikileaks, e scritto che sotto la leadership di Vladimir Putin il Paese si era trasformato in
È
Le autorità russe sembrano sull’orlo di una crisi di nervi, licenziano agenti dei servizi, cacciano un giornalista inglese e incassano fra mille dubbi una rivendicazione cecena dell’attentato che aveva fatto 36 vittime nel più importante aeroporto di Mosca. Pista cecena che Putin aveva escluso in precedenza. E tutto nello stesso giorno
uno «stato mafioso». «Ci saranno altre operazioni di questo tipo in futuro», ha minacciato Umarov, 46 anni, il volto invecchiato da una folta barba scura, in tuta mimetica e capo coperto da uno zucchetto in lana. Il video, però, è stato pubblicato due settimane dopo l’attacco a Domodedovo. Un ritardo che lascia molti perplessi, come d’altronde suscita dubbi il ruolo di Umarov nella guerriglia (l’anno scorso annunciò le dimissioni, poi revocate) e nelle azioni terroristiche in territorio russo da lui rivendicate, come gli attentati alla metropolitana di Mosca un anno fa. «Io per l’ennesima volta dimostro al regime di Putin che possiamo compiere queste operazioni in qualsiasi posto e qualsiasi momento, dove vogliamo, quando vogliamo», ha af-
fermato Umarov, rivendicando il «diritto alla libertà, che ci è dato dall’Onnipotente». Intanto si notano segnali di nervosismo all’interno del Cremlino.
Il presidente russo Dmitri Medvedev ha licenziato di alcuni agenti del Servizio federale di sicurezza che si occupa anche di controspionaggio, Federal’naya sluzhba bezopasnosti Rossiyskoy Federatsii (Fsb, l’ex Kgb), ritenuti responsabili di inadempienze che avrebbero permesso ai terroristi di colpire l’aeroporto di Domodedovo. Intanto è stato reso noto ieri l’arresto di due «complici» del kamikaze. È chiaro che la rivendicazione dell’islamista ceceno possa creare qualche problema al governo di Mosca. «Il capo dell’Fsb ha pre-
sentato al presidente la lista degli agenti responsabili di errori nel loro lavoro e questi sono stati licenziati», ha dichiarato la portavoce di Medvedev, Natalia Tymakova, aggiungendo che altri simili provvedimenti potrebbero arrivare nei prossimi giorni. Poco dopo, l’Fsb ha precisato che sono stati sollevati dall’incarico due responsabili della sezione T (Lotta al terrorismo). Ricordiamo che l’attento era avvenuto in una delle strutte più sorvegliate e nell’area vip dello scalo che, in teoria, avrebbe dovuto essere la più sicura di tutta l’aerostazione. La decisione segnala una sorta d’inversione di marcia del Cremlino sulla vicenda: malgrado le diffuse critiche ai Servizi di intelligence circolate sui media russi dopo l’attentato, Medvedev
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Indonesia, attacco ai cristiani. Distrutte 3 chiese e un orfanotrofio GIAVA. Migliaia di musulmani inferociti hanno assaltato tre chiese, un orfanotrofio e un centro sanitario gestiti dai cristiani in Indonesia. L’attacco, avvenuto nell’isola di Giava, è stato scatenato dalla condanna a cinque anni di carcere, pena ritenuta troppo mite, di un giovane cristiano Antonius Bawengan, 58 anni - condannato a 5 anni di prigione per blasfemia nei confronti dell’islam. Per lui la folla chiedeva la pena di morte, ma non avendola ottenuta ha marciato compatta verso le chiese, incendiandone due e saccheggiando la terza. L’Indonesia, il più grande paese musulmano del mondo, è dotato di una costituzione laica. Purtuttavia, si stanno moltiplicando gli episodi di intolleranza religiosa e la richiesta di un’applicazione sempre più rigida delle leggi della shari’a. I dettagli dell’attacco sono stati raccontati da AsiaNews, l’agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere, che ha spiegato come la folla abbia pri-
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
ma attaccato la chiesa cattolica di san Pietro e Paolo nel boulevard Sudirman, il cui parroco, padre Saldhana, un missionario della Sacra Famiglia, è stato picchiato con violenza mentre cercava di proteggere il tabernacolo e l’Eucarestia dai profanatori. La folla ha poi attaccato anche una chiesa pentecostale e ha distrutto un orfanotrofio cattolico e un centro sanitario delle Suore della Provvidenza. Infine ha bruciato un’altra chiesa protestante.
Da sinistra il presidente russo Medvedev, una scena dall’attentato a Domodedovo e Luke Harding
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
non aveva rimproverato l’Fsb. Anzi, aveva avuto parole di elogio per gli agenti del servizio erede del Kgb. Qualche giorno fa c’era stato un collegamento italiano alla vicenda. Era stato arrestato Anvar Sharipov, 35 anni, daghestano, scambiato all’inizio per Ruslan Umarov (35) fratello proprio sedicente Emiro del Caucaso, ricercato numero uno in Russia. Sharipov era tra i ricercati per la strage del metrò di Mosca del 29 marzo scorso (40 vittime e 121 feriti). Umarov è stato un combattente della prima ora in Cecenia, nel nome dell’indipendenza della piccola repubblica caucasica. Ma tra la prima guerra (quella lanciata da Boris Eltsin nel 1994) e la seconda (che nel 1999 divenne il trampolino di lancio per la presidenza di Vladimir Putin) la guerriglia nel Nord caucaso si è a mano a mano radicalizzata. E lo stesso Umarov ha sposato la causa del jihad nel nome di un unico Emirato islamico nel Caucaso settentrionale. Questo «Emirato» punta a riunione le varie fazioni ribelli in un’unica entità, anche territoriale, senza distinguere più tra Cecenia, Inguscezia, Dagestan, Kabardino-Balkaria, Ossezia del Nord e Karachaevo-Circassia. Ma i movimenti che animano la ribellione caucasica, incrociando interessi locali con rivendicazioni islamiste, non è affatto omogeneo e vari analisti pensano che Umarov, rivendicando l’ultimo attentato a Mosca, stia solo tentando di rafforzare la sua autorevolezza,
Mistero sulla sorte dell’Emiro del Caucaso, sparito da mesi e riapparso in un video forse troppo contraddittorio messa in dubbio dalla vicenda delle dimissioni della scorsa estate.
Così una fonte dell’Fsb sottolinea che «sono al vaglio tutte le ipotesi», lasciando trapelare un certo scetticismo sull’attendibilità della rivendicazione. Mentre ufficialmente il Servizio di Sicurezza Federale afferma solo che «non si commentano le dichiarazioni dei terroristi». Liberal si era già occupato di questa figura di terrorista che sembra il prodotto di una sceneggiatura cinematografica alla Quentin Tarantino. Doku Umarov nasce nell’aprile del 1964 nel villaggio di Kharsenoi, limbo della provincia meridionale cecena di Shatoi Raion, in una famiglia che lui stesso ha definito «borghese, composta da membri della cosiddetta intellighentsia ». Quando
esplode la prima guerra fra la Russia e la Cecenia, nel 1994, si trova a Mosca: secondo le sue stesse parole, «era un dovere patriottico e morale tornare a casa, per combattere contro i russi». Umarov ha mescolato jihad coranico e la propaganda di stile ottomano con il desiderio di staccarsi da Mosca e l’orgoglio nazionalista che caratterizza le etnie dell’area caucasica. È un leader militare che dispone di uno sterminato esercito di invasati. E le due vedove nere che si sono fatte esplodere nei sotterranei della capitale russa, di cui una pare diciassettenne, lo dimostrano. Il carisma di Umarov nasce nel 1994: sopravvive alle rappresaglie moscovite e sparisce nel nulla per circa due anni. Da allora, la sua fama inizia ad aumentare in tutta l’area del Caucaso settentrionale, da cui riuscirà a far partire un reclutamento selvaggio che lo pone a capo di un imprecisato, ma sembra enorme, numero di militanti. Alla sua carriera militare si accompagna un’ascesa nel ripido sentiero della politica. Dopo la morte di Maskhadov, cui succede Abdul-Khakim Sadullayev, Umarov viene acclamato vice presidente e successore de facto. Alla morte del secondo presidente, sale al potere: il figlio di Maskhadov, Anzor, dichiara: «Per lui sono pronti a prendere le armi non soltanto i ceceni, ma anche gli uomini delle altre repubbliche del Caucaso». Le successive vicende gli daranno ragione.
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e fosse un uomo sarebbe un quarantenne brizzolato, non troppo robusto, slanciato e con le mani da pianista, affusolate ed eleganti. Portamento signorile e abiti raffinati, occhi di ghiaccio ma un sorriso aperto a rivelare una grazia adattabile ad ogni circostanza. Avrebbe il sangue blu, su questo c’è da giurarci, d’altronde lo chiamano principe e re nonostante non abbia sembianze antropomorfe. È il Riesling, vitigno elegante per eccellenza, sontuoso e aristocratico, nato nelle zone fredde della Germania ma oggi considerato vitigno internazionale, impiantato dalla Francia al Canada fino all’Italia. Da noi predilige climi freddi ma si adatta bene, forse per compiacenza, a far capolino anche nelle grandi città, in onore di serate e festival, a patto di essere protagonista o tutt’al più comprimario.
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Così anche quest’anno, per la seconda edizione del Roma Vino Excellence, festival gemello del Merano Wine Festival, organizzato da Ian D’Agata ed Helmut Köcher, si è puntualmente presentato nella capitale per il Secondo Simposio a lui dedicato. Forse proprio a causa delle preferenze poco celate del direttore il Riesling è stato protagonista anche di questa seconda edizione (nella prima a fargli da ancelle erano Cabernet Franc e Sangiovese), accompagnato stavolta da altri due vitigni internazionali come Merlot e Cabernet Sauvignon, responsabili in blend con il Cabernet Franc del famoso taglio bordolese e primi attori di altrettanti convegni. Il taglio della manifestazione, non del vino, è stato ancora una volta scientifico, finalizzato ad approfondire qualità dei vitigni e caratteristiche di uve e suoli differenti anziché dettato da una sequela di assaggi inconsapevoli suggeriti da criteri commerciali. Una radiografia del Riesling che da analisi del vitigno è diventata viaggio per il mondo, dai luoghi principe della Mosella fino al Canada dell’Ontario e delle cascate del Niagara, dell’Australia, del Lussemburgo e della California. Un percorso più apprezzabile forse dagli addetti ai lavori ma in grado di emozionare anche i semplici appassionati con assaggi di bottiglie di millesimi lontani che affondano le radici fino agli anni ’70. Ma cos’è che rende tanto speciale e blasonata quest’uva? Cos’ha in più di altre? A cosa deve il suo fascino? Forse è grazie a un’eleganza più immediatamente percepibile e coinvolgente rispetto a quella propria di altri vitigni altrettanto raffinati come il Pinot Nero, forse è la capacità di essere un “traduttore di terroir”, in grado di adattarsi a condizioni pedoclimatiche e suoli diversi riuscendo sempre (quasi)
A sinistra, la locandina della nuova edizione della rassegna capitolina “Roma Vino Excellence”, festival gemello del “Merano Wine Festival”, organizzato da Ian D’Agata ed Helmut Köcher (nella foto in basso). A destra, un grappolo proveniente dal vitigno Riesling
Nella Capitale, il Secondo Simposio dedicato al prestigioso vitigno Riesling
In Italia, tutti pazzi per il “grappolo d’oro” di Livia Belardelli a dare risultati di qualità. Rispetto al fratello Chardonnay ha poi la capacità di declinarsi in sontuose versioni secche ma anche, senza eccedere in dolcezze stucchevoli, in seducenti vini dolci. I climi freddi della Germania, la Mosella, la Saar,
si è diffuso in Europa, in Austria e Francia, oltre che da noi dove però non raggiunge gli stessi risultati. Il suo colore giallo verdolino ne tradisce la grande freschezza, quella spalla acida in grado di permettere grandi invecchiamenti oltre
Tornando invece ai secchi
L’incontro, avvenuto nell’ambito della rassegna “Roma Vino Excellence”, festival gemello del “Merano Wine Festival”, è stato organizzato da Ian D’Agata ed Helmut Köcher e ha indagato gli aspetti più scientifici di questa particolare uva il Ruwer, il Reno e la Nahe in particolare, rappresentano le sue origine anche se poi, montanaro camminatore, il Riesling
che di dar vita a vini dolci tedeschi dai nomi impronunciabili, i Trockenbeerenauslese, saggiamente accorciati nella più
fronte al loro prezzo all’apparenza troppo elevato è bene conoscerne la storia. Sono infatti ottenuti dalla vinificazione di grappoli ghiacciati colti acino per acino in maniera manuale a una temperatura attorno ai 9°, quasi sempre di notte. Una vendemmia suggestiva ma estrema, così distante dalla tiepida immagine settembrina, a cui segue una pressatura delle uve che vede come risultato poche gocce concentratissime per acino poiché la maggior parte dell’acqua resta intrappolata nella sua forma ghiacciata. Così non c’è da stupirsi se un buon eiswein arrivi a costare anche 50–60 euro, chiaramente per una bottiglia da 37,5cl! L’amaro acquisto riserverà però un dolce assaggio, fatto di note agrumate e frutta secca, miele e caramello, canditi e frutta esotica.
lineare sigla TBA. Forse la declinazione dolce di maggior fascino è quella degli Eiswein, i cosiddetti vini di ghiaccio. Di
trocken il gioco seduttivo diventa meno immediato, soprattutto andando a degustare vini invecchiati molti anni. Qui il Riesling evolve e si trasforma facendo emergere note particolarissime che anche un naso non troppo allenato sarà in grado di individuare con stupore, come quel sentore particolare, marchio di fabbrica di questo vitigno durante l’invecchiamento, che va sotto il nome di idrocarburo. Cherosene, benzina, quasi gomma bruciata, sensazione tipica della maturità di un vino che seduce prima attraverso la multidimensionalità del suo spettro olfattivo, fatto di sapidità e freschezza, di mela verde e fiori, di albicocca e pompelmo, di erbe aromatiche e spezie, per chiudere poi con sensazioni più colte e meno immediate, come un Battisti a cui segue De André.
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Dalla Germania un memorandum per il rinnovamento della Chiesa a firma di un gruppo di teologi, che chiede drastiche riforme
Esame di tedesco a Benedetto XVI di Luigi Accattoli rriva una nuova sfida per Papa Benedetto: un memorandum di 143 teologi tedeschi, austriaci e svizzeri che chiedono “profonde riforme” per l’uscita della Chiesa dalla “crisi senza uguale” che l’ha colpita con lo scandalo della pedofilia ma che già covava nel profondo e provocava una lenta erosione dell’appartenenza ecclesiale.
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Quel testo, pubblicato il 3 febbraio dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha avuto un’eco minima in Italia ma può risultare utile per comprendere gesti e parole del Papa nei prossimi mesi. Le riforme chieste dai firmatari – più democrazia e sinodalità, preti sposati e maggior ruolo alle donne nei “ministeri ecclesiali”,“non escludere”dalla comunità divorziati risposati e coppie omosessuali... – Benedetto non le farà, ma potrebbe fare qualcosa in ognuno dei sei campi che gli sono stati proposti e soprattutto potrebbe mettersi in gioco personalmente – una mossa della quale è maestro – con messaggi e “dialoghi” in vista della visita in Germania prevista per il 22-25 settembre. “Chiesa 2011: una svolta necessaria”è il titolo del documento e conviene dargli un’occhiata prima di chiederci che cosa potrebbe venirne. L’appello è «a un dialogo aperto sulle strutture di potere e di comunicazione, sulla forma del ministero ecclesiale e sulla partecipazione responsabile dei credenti, sulla morale e sulla sessualità». Si argomenta in premessa che «non si riuscirà ad attuare il rinnovamento delle
della partecipazione appare ragionevole: «I credenti devono poter partecipare alla scelta di importanti ‘rappresentanti ufficiali’ (vescovo, parroco). Quello che può essere deciso sul posto, lì deve essere deciso». Più duro è il rigo finale del secondo punto: «La Chiesa ha bisogno anche di preti sposati e di donne nei ministeri ecclesiali». Gli echi di stampa hanno titolato sull’uno o sull’altro di queste due ri-
Chiesa per il matrimonio e per il celibato è fuori discussione. Ma essa non impone di escludere le persone che vivono responsabilmente l’amore, la fedeltà e la cura reciproca in una unione omosessuale o come divorziati risposati».
«Un pretenzioso rigorismo morale non si confà alla Chiesa», è detto poi nel quinto punto e qui credo ci si possa intendere. Anche l’ultimo punto suona discorsivo: «La liturgia vive della partecipazione attiva di tutti i credenti. La celebrazione non deve irrigidirsi in tradizionalismo». Che Benedetto non sia un Papa riformatore lo sappiamo. «Si è messa una fidu-
I firmatari vorrebbero più democrazia e sinodalità, preti sposati e maggior ruolo per le donne. Ma chiedono anche di non escludere dalla comunità divorziati e coppie omosessuali strutture ecclesiali in un angosciato isolamento dalla società, ma solo con il coraggio dell’autocritica e con l’accoglienza di impulsi critici – anche dall’esterno». Papa Ratzinger ha mostrato di saper cogliere – proprio nel caso degli abusi – gli “impulsi” venuti dall’esterno. Ma stavolta la provocazione è dall’interno e dunque una reazione positiva potrebbe essere sia più facile sia più difficile.Vedremo. Il primo dei sei “ambiti” per i quali si chiede “un dialogo aperto” è denominato Strutture di partecipazione. Seguono questi altri titoli di altrettanti paragrafi: Comunità, Cultura del diritto, Libertà di coscienza, Riconciliazione, Celebrazione. Quanto viene detto a proposito
chieste: per la seconda non è nominato il sacerdozio, ma forse anche a esso si allude. Il diritto ecclesiale – si afferma al terzo punto – «merita questo nome solo se i credenti possono effettivamente far valere i loro diritti». Si chiede come “primo passo”in questa direzione la «creazione di una giurisdizione amministrativa ecclesiale». Non è chiaro di che si tratti, lo scopriremo con il dibattito che verrà, ma forse si allude a dei giurì per dirimere questioni che ora vengono lasciate alla discrezionalità del parroco o del vescovo. Per quarta viene un’affermazione tra le più impegnative, collegata al “rispetto” per “decisioni personali sulla propria vita”: «L’alta considerazione della
In apertura, alcuni diaconi in preghiera. Sotto, papa Ratzinger e la Sala stampa della Conferenza episcopale tedesca
cia forse eccessiva nelle strutture e nei programmi ecclesiali, nella distribuzione di poteri e di funzioni; ma che cosa accadrà se il sale diventa insipido?» ha detto l’11 maggio scorso a Lisbona. Non mi attendo dunque una risposta riformatrice. Ha autorizzato gli Ordinariati per gli anglicani che passano alla Chiesa cattolica – ne ha costituito uno il 15 gennaio – a chiedere alla Santa Sede, quando ne abbiano necessità, la possibilità, caso per caso, di ordinare uomini sposati. Si può prevedere l’estensione di questa possibilità all’intera Chiesa Cattolica, ma non di più. È però possibile che Benedetto non respinga il “dialogo aperto” che gli viene chiesto. Come riforme ormai mature – ovvero: che egli ritenga mature – non ne vedo oltre quella del celibato, nei limiti che dicevo. Ma su ognuna delle sei materie è possibile fare qualcosa da subito: lo spazio alle donne, le vertenze da sottrarre alla discrezionalità dei vescovi, consultazioni più ampie in vista delle nomine, un atteggiamento meno giudicante nei confronti di coppie omosessuali e risposate, con momenti di effettiva e visibile loro accoglienza… Tutto questo e altro può essere oggetto del confronto che si chiede. È una provocazione assai pungente e tale sarebbe stata per ogni Papa: già Paolo VI e Giovanni Paolo II ne ebbero di analoghe. Ma per Benedetto essa lo è due volte, provenendo dai teologi tedeschi (o meglio: di lingua tedesca) ed essendo egli teologo e tedesco.
Immagino che egli possa mettersi in gioco personalmente in risposta a questa interpellanza, come già fece con la lettera ai vescovi sul caso Williamson, con quella agli irlandesi per la pedofilia e con il libro intervista Luce del mondo su ogni questione. Benedetto è preparato per l’accoglienza di questa sfida. Viene dal mondo di questi “colleghi” che ora lo chiamano in causa. Ha condiviso in gioventù – tentando di moderarle – tutte quelle istanze, o quantomeno il loro spirito. Per essere aiutato nel far fronte a esse Paolo VI lo volle arcivescovo di Monaco e Giovanni Paolo II lo volle a Roma. Mettendosi in gioco su di esse egli non farà dunque che portare a compimento il lavoro di sempre.
ULTIMAPAGINA Al ristorante Pastificio di Roma undici scatti ricavati da cartoline
Baci postali, quando l’amore viaggiava di Francesco Lo Dico osse stato vivo a tempo debito, Catullo avrebbe costretto i fidanzatini di Peynet a cercarsi un lavoro vero. Non è difficile immaginare che le cartoline postali avrebbero trasformato i suoi carmina in un business colossale, lui in un milionario e l’esosa Lesbia in una moglie dalla fedeltà imperitura. Perfette a confondere le migliaia di baci, e ancora cento, promesse dal focoso veronese all’indirizzo dell’amante capricciosa, quei curiosi cartoncini che hanno contrabbandato l’amore clandestino alla dogana dell’altezzoso Novecento, avrebbero di certo raggiunto lo scopo. L’irritazione dei vecchi alteri, lo scongiuro del malocchio, e l’impennata dei matrimoni.
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Ai baci d’amore che molti consegnarono alla discrezione dei postini e alle fantasie dei destinatari nel secolo scorso, è dedicata la mostra che tre fotografi italiani come Ottavio Celestino, Ileana Florescu e Diego Mormorio presentano il giorno di San Valentino nei locali romani del Ristorante Pastificio San Lorenzo. In esposizione undici immagini realizzate a partire da altrettante cartoline illustrate dell’inizio del ’900 legate da un unico filo conduttore: «baci passionali, ardenti, pieni di amore e desiderio. Baci di innamorati». Le rielaborazioni artistiche proposte, nascono da un’originale mix di modernariato industriale e tecnologia à la pàge. Le fotografie originali da cui provengono le cartoline prescelte, sono state rieditate in toni accesi a partire dal bianco e nero che ne caratterizzava la foggia. Ma l’ormai abusato divertissement del fotoritocco, è stato qui superato attraverso l’associazione di ciascuna cartolina
zio del Novecento – spiega Diego Mormorio che patrocina la mostra di San Lorenzo insieme alla Florescu e a Celestino – la fotografia entrò in tutte le case, grazie anche a un nuovo mezzo di comunicazione di massa: la cartolina illustrata, la cui straordinaria importanza resta ancora non compresa da molti. Un connubio di grande successo. Che al contrario di quanto si potrebbe pensare fu segnato però da un esordio difficile che data al 1865. «In quell’anno – racconta Mormorio – durante il 5° Congresso postale che si tenne a Karlsruhe, Einrich von Stephan, direttore delle poste imperiali tedesche, prospettò la necessità di introdurre un biglietto di piccolo formato per brevi comunicazioni, con l’affrancatura già
SPEDITO
stampata. Lo scopo era quello di smaltire con maggiore praticità il crescente volume di corrispondenza. Ma, come spesso capita alle idee veramente rivoluzionarie, la proposta di Stephan venne inizialmente accolta con scetticismo e respinta dal Congresso postale».
Andò decisamente meglio quattro anni più tardi, quando Emanuele Herman, riuscì a convincere tutti della bontà dell’iniziativa. «In questo modo – prosegue il fotografo siciliano nato a Caracas – le poste dell’impero austroungarico il 1° ottobre 1869 poterono emettere la prima cartolina postale, con tariffa dimezzata rispetto alle normali lettere. Il successo dell’iniziativa fu tale che essa venne in breve tempo introdotta in altri stati europei: dapprima in Germania e in Inghilterra (1870), poi in Svizzera (1871), Francia e Belgio (1872) e successivamente in Italia (1874)». Di quali intenzioni fosse carico lo sbarco della cartolina nella Penisola, è facilmente intuibile dal suo battesimo in versione illustrata. La prima fu creata nel 1896 in occasione delle nozze del principe Savoia di Napoli (poi re Vittorio Emanuele III) con la principessa Elena di Montenegro. Ma oltre agli stemmi italo montenegrini, questa recava sul fronte molto di più: l’idea di confessare senza dire. Di sperare senza arrossire. Di amare da lontano, sognando di farlo molto
Il successo del prodotto fu tale che esso venne in breve tempo introdotto in tutti gli stati europei: dapprima in Germania e in Inghilterra (1870), poi in Francia e infine in Italia (1874) ad altrettanti scorci paesaggistici che ne rappresentano una sorta di correlativo oggettivo. Una fitta relazione quella tra cartolina illustrata e fotografia, che ha prodotto reciproci vantaggi. «Tra la fine dell’Ottocento e l’ini-
più da vicino. Dote di alto borghesi in vena di imagerie romantica, le cartoline al bacio fecero poi il classico percorso di ogni tecnologia che si rispetti. E approdarono così, ugualitarie e sempre solidali tra le mani di ogni ceto sociale.
Più uguali della livella e della fraternitè a targhe alterne, le cartoline inzepparono scrivanie e cassetti chiusi a chiave, anime tribolate e cuori non ancora rassegnati. Fu così che prima di Facebook e dell’instant messaging, i baci postali divennero l’apostrofo rosa tra alcune parole sempre sottintese : «quand’è che ti posso vedere?».