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L’Italia è un Paese molto bello, perché è popolato da uomini bizzarri e da eroi Mario Tobino
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 10 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La vera urgenza del governo resta il federalismo: incontro cordiale del Senatùr al Colle.Alle Camere la prossima settimana
Zero riforme, tante minacce I Pm: «Prove evidenti». Il premier: «Uno schifo, querelo lo Stato» La “frustata per la crescita” partorisce solo spot (senza risorse). L’unica frusta, al solito, è contro i giudici. Bossi lo segue ma aggiunge: «Anche Silvio ha le sue colpe». Poi incontra Napolitano LA MELINA DEL GOVERNO
di Francesco Pacifico
Cresce solo l’incertezza (e lo scontro)
ROMA. La fase B del governo è
di Franco Insardà a chiamata alle armi rischia di ridursi in un canto del cigno. Anche Berlusconi ha dovuto ammettere che il tanto osannato piano per la crescita non sposterà di un decimale il Pil del Paese. Certo, se l’economia mondiale torna a correre, ripartono anche gli ordinativi dall’estero per l’Italia. E allora sì che il tentativo di liberalizzare l’economia potrà portare questi frutti. Perciò, se la stesse misure approvate ieri – riforma degli incentivi, disincentivi per limitare il numero di benzinai – fossero state approvate un anno fa, oggi le cosa sarebbero diverse. a pagina 2
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Retroscena: l’Europa punisce l’Italia degli scandali
Ruby affossa anche Draghi. E la Bce si allontana La Merkel punta su Weber ma Sarkozy dice no. La soluzione «di mediazione» doveva essere il governatore di Bankitalia, ma... Enrico Singer • pagina 4
come la fase A: promesse e minacce. Promesse in ambito economico, minacce alla magistratura. Nel senso che il consiglio dei ministri che doveva rilanciare il governo ha prodotto solo proposte vaghe (incentivi e riforme della Costituzione) e soprattutto a costo zero. La crescita economica meritava di più. Più concrete le minacce ai giudici di Milano che proprio ieri hanno depositato la richiesta di processo immediato a Berlusconi con prove che loro stessi definiscono «evidenti». Scontata la condanna del premier ai giudici eversivi (ormai è una cantilena), più surreale l’annuncio finale: «Farò causa allo Stato». Nel caso, si chiedono in molti, andrà in tribunale oppure farà valere il legittimo impedimento anche come testimone d’accusa? L’unico fronte ancora veramente aperto, comunque, è il federalismo. a pagina 2
Effetto domino nel Nord Africa
Le polemiche sul bio-testamento
Libia in piazza, ora trema Gheddafi
Siamo uomini o vegetali?
di Antonio Picasso
di Paola Binetti
Si abbassa il rating del Sol Levante
L’Fmi affonda Tokio: debito insostenibile di Gianfranco Polillo a Libia è la prossima a saltare? La notizia non è confermata, eppure sembra che il tam-tam di contestazione sia giunto anche a Tripoli. Ieri al-Sharq al-Awsat (il quotidiano in lingua araba pubblicato a Londra)prospettava l’eventualità di una intifada da prospettarsi anche nella capitale libica. E il Colonnello trema per la prospettiva.
nsostenibili. Questo il giudizio duro e lapidario del Fmi sul debito pubblico giapponese. «Il livello del debito e il deficit di bilancio sono insostenibili nel medio termine e il governo deve agire con un piano di misure di contenimento». È l’avvertimento del vice direttore generale del Fondo monetario internazionale, Naoyuki Shinohara, che ha parlato a Tokyo.
è un gruppo di 2000 pazienti che versano in stato vegetativo, ognuno da un tempo più o meno lungo, ma tutti insieme aspettano che il nostro Sistema Sanitario Nazionale si accorga di loro in un modo più completo e rispondente alla loro dignità di persone. Lo chiedono le loro famiglie, che si sono raccolte in almeno 35 associazioni diverse.
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
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IN REDAZIONE ALLE ORE
Uno slogan indecente
Care amiche del 13, non seguite Le Monde di Gabriella Mecucci é puttane né mamme: il quotidiano francese Le Monde titola così ieri la sua terza pagina, dove racconta il “nuovo femminismo” italiano. Il giornale prende spunto da una battuta di Michela Marzano: «Mamma o puttana, non è una scelta, ma una duplice trappola», per sintetizzare con quel titolo il nucleo forte della manifestazione di domenica. Le Monde racconta la mobilitazione come «una fiammata di sdegno» per il «degrado dell’immagine della donna»: una subcultura di cui Berlusconi è il prodotto, non l’artefice. In Italia - osserva Francesca Comencini al quotidiano francese – in passato c’era stato «il movimento femminista più forte d’Europa», ma le sue protagoniste ad un certo punto hanno creduto che «la partita fosse terminata». Le «vecchie» sono «tornate a casa» e solo dopo molti anni cominciano a spuntare «le nuove». Le «vecchie» avevano come slogan: “Né puttane né madonne, finalmente solo donne”. A qualcuno non piaceva già allora, ma aveva una sua efficacia contro gli stereotipi maschilisti e a favore della soggettività femminile. Se le “nuove” daranno retta al titolo di Le Monde (e alle battute della Marzano), la manifestazione del 13 diventerà indifendibile. “Né puttane né mamme” è un no alla maternità? Un no alla famiglia? Attente ragazze, così vi affossate con le vostre mani.
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19.30
il commento
prima pagina
Tante chiacchiere e i soliti illusionismi contabili
pagina 2 • 10 febbraio 2011
Ancora una volta bugie, sesso e false riforme di Franco Insardà a chiamata alle armi rischia di ridursi in un canto del cigno. Anche Silvio Berlusconi ha dovuto ammettere che il tanto osannato piano per la crescita – perché fatto a costo zero come imposto da Tremonti – non sposterà di un decimale il Pil del Paese. Certo, se l’economia mondiale torna a correre, ripartono anche gli ordinativi dall’estero per l’Italia. E allora sì che il tentativo di liberalizzare l’economia potrà portare questi frutti. Di conseguenza se la stesse misure approvate ieri – dalla riforma degli incentivi ai disincentivi per limitare il numero di benzinai sul territorio – fossero state approvate un anno fa, oggi le cosa sarebbero diverse. Lo sa anche Berlusconi, che, pur dichiarando che gli italiani sono ricchi, ha ammesso che si sarebbero potute adottare prima, ma ancora una volta si è giustificato dietro il paravento della crisi che, chissà perché, gli altri Paesi hanno affrontato meglio, con più massicce iniezioni di denaro. L’ha detto anche Emma Marcegaglia sospendendo il giudizio sul piano crescita per carità di patria, mentre le riforme, quelle vere, rimangono congelate in un libro dei sogni, che prende sempre più la forma del programma elettorale del Pdl. Misure che vengono riproposte soltanto – e maldestramente – per tentare di distrarre l’attenzione dalle inchieste delle procure di Milano e di Napoli. Vicende che non pochi malumori e disagi stanno creando in molti esponenti del Pdl, disorientati dalle notizie che quotidianamente giungono sul premier. Molti fanno quadrato, ma altri non nascondono il loro imbarazzo, anche se il loro silenzio diventa sempre più assordante.
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Dal governo del fare si è passati a un governo delle chiacchere che pensa a vivacchiare. Soprattutto scaricando tutte le colpe sugli avversari. Anche ieri, non lesinando strali e accenni polemici, il premier ha attaccato a testa bassa i magistrati e i transfughi di Futuro e Libertà che avrebbero distolto, lui e la sua maggioranza, da un’azione di governo più efficace. Arrivando addirittura ad annunciare di voler intentare causa contro lo Stato per le inchieste dei magistrati nei suoi confronti. In quest’ottica – quella del marketing politico – cosa c’è di meglio che convocare la stampa e mostrare i muscoli e un governo fedele al suo capo? Così, ieri, accanto a lui, Berlusconi ha voluto nella conferenza stampa conclusiva per illustrare il piano per la crescita, ben sette ministri, oltre a Umberto Bossi presente in prima fila in sala. E c’era anche Giulio Tremonti. Lo stesso con il quale Berlusconi ha spesso avuto da ridire per una rigidità estrema nel gestire le risorse. Nemico anche lui al punto da attribuirgli indirettamente la colpa di aver frenato sulle riforme con i suoi no. Al Senatur, unico alleato rimastogli fedele, nella conferenza stampa di ieri, il Cavaliere ha voluto riservare il regalo finale: la fiducia sul federalismo municipale. Quel decreto sul quale la maggioranza ha rischiato di naufragare, dopo aver tentato un vero e proprio colpo di mano stoppato dal presidente della Repubblica. Una manifestazione di gratitudine interessata nei confronti della Lega, ma che non depone certo bene per una riforma che nei suoi principi generali era stata osteggiata soltanto dall’Udc e che oggi, invece, con le forzature impresse dalla maggioranza rischia di trasformarsi in un nuovo boomerang per il governo. Certe riforme come quella sul federalismo, sul quale il Carroccio ha puntato tutto, per avere successo dovrebbero ottenere un consenso quanto più ampio possibile, mentre la strada imboccata dal governo Berlusconi anche su questo tema porta esattamente in direzione opposta.
il fatto L’incubo del caso Ruby trasforma in un flop il Consiglio dei ministri del rilancio
Frustate virtuali e scontri veri
Il «ritorno alla politica» si limita all’annuncio di provvedimenti generici del tutto privi di risorse economiche: riforma degli incentivi e revisione costituzionale «in senso liberista» di Francesco Pacifico
ROMA. Un impeto di vitalismo e il Cavaliere minaccia anche di portare in Tribunale lo Stato. Perché siccome nessuno «pagherà per questo schifo (le inchieste di Milano, ndr), alla fine pagherà lo Stato visto che intenterò una causa di risarcimento allo Stato per atti che hanno finalità eversive». Proprio ieri i Pm hanno chiesto il processo immediato e il gip si è riservato di decidere entro lunedì.
La testa è sempre a Milano, dove la Procura ha chiesto il rito immediato per concussione e induzione alla prostituzione e lavora con i colleghi napoletani per capire se c’è lo zampino della camorra in questa storiaccia. Ma ieri a Roma, con un Consiglio dei ministri lungo quasi due ore, Silvio Berlusconi ha provato a rimettere in marcia un governo in letargo da mesi. Ecco quindi un piano per la crescita che con un colpo di bacchetta – ma a costo zero – dovrebbe rilanciare il piano casa, riscrivere le regole per l’erogazione degli incentivi, rendere la Costituzione più liberale, riaprire il capitolo delle liberalizzazioni, imporre l’agenda del piano Sud, ridurre il deficit delle cause civili pendenti. E visto il nuovo corso non manca la decisione di porre la fiducia alla Camera sul federalismo municipale, frenato una settimana fa in Bicamerale. Guarda caso a poche ore dalla salita al Colle di Bossi per sanare lo strappo apertosi con Napolitano. I progetti messi in cantiere sono davvero tanti. Eppure sul loro esito il primo a non avere dubbi è lo stesso Silvio Berlusconi. Quando i giornalisti gli chiedono quale impatto avranno le misure sul Pil nell’anno in corso, ecco il premier scandire «Dai nostri calcoli la crescita
sarà del 1,5 per cento, ma non è detto che le cose andranno meglio». Cioè ha rilanciato le stime fatte ufficialmente qualche mesa fa da Tremonti e poi smentite dai maggiori organismi internazionali. Per la cronaca Emma Marcegaglia ha notato che «il nostro centro studi di Confindustria prevede un Pil all’1 per cento. Ci potrebbe essere un leggero miglioramento grazie alle esportazioni, ma non si può arrivare all’1,5». Quindi il piano per la crescita diventa un mezzo per dimostrare al mondo che il governo più chiacchierato d’Europa è in piedi.
Il premier ha promesso che «è partita la nuova fase del lavoro di governo, tesa al rilancio per la crescita dell’economia». Anche perchè non ci sono più i finiani che «finora ci hanno rallentato». Quindi l’esecutivo si muove con la stessa forza di quando, nel 2008, si era ritrovato a Montecitorio con un centinaio di parlamentari in più rispetto all’opposizione. E non a caso il premier ieri ha voluto che in conferenza stampa fossero accanto a lui ben otto ministri – e tutti da Tremonti ad Alfano, a dire che quello di ieri era stato «il Consiglio dei ministri più produttivo» – e Bossi seduto in prima fila tra i giornalisti a dire che «si può lavorare». Pier Luigi Bersani ha parlato di «operazione di distrazione» dalle inchieste di Milano. Perché «per dare una scossa all’economia», dice il leader del Pd che di lenzuolate se ne intende, «serve qualcosa che metta mano all’economia reale: una manovra economica, una fiscale e un certo numero di riforme per la crescita». Mauro Libè, parlamentare e responsabile enti locali dell’Udc, ha chiesto a Berlusconi di scusarsi con le fa-
il retroscena
Federalismo, intesa Lega-Napolitano «Incontro cordiale» tra Bossi e il Quirinale. La prossima settimana Calderoli alle Camere di Errico Novi
ROMA. Possono dare tutte le rassicurazioni che vogliono, ma l’affanno affiora visibilmente. Bossi e Berlusconi si passano il testimone nella disperata rincorsa verso un clima più fiducioso per le truppe della maggioranza. C’è poco da fare. Non basta nemmeno l’ultima trovata, che il presidente del Consiglio annuncia in conferenza stampa tra uno «schifo» e una «vergogna». «Apporremo la fiducia sul federalismo». Mossa a sorpresa, tanto più che finora il passaggio alla Camera sul fisco municipale giustamente preteso da Napoletano è sempre stato derubricato da leghisti e pidiellini a «mera formalità procedurale». Ancora in mattinata il governatore padano del Piemonte Roberto Cota parla quasi con sussiego infastidito di «diatriba procedurale». Invece in Consiglio dei ministri si decide per l’atto di forza. Sulla relazione con cui il governo presenterà a Montecitorio il decreto per le tasse dei comuni ci sarà dunque la conta. «Ma non al Senato», precisa poi Berlusconi, «dimostreremo comunque che abbiamo tutti i numeri per andare avanti». Della scelta Bossi parla a Napolitano nel previsto incontro di metà pomeriggio al Quirinale, definito «cordiale» dal Senatùr. Il presidente della Repubblica viene inevitabilmente sollecitato anche sull’altra questione «procedurale» che angustia i lumbàrd: i numeri nelle commissioni. In realtà non c’è molto altro da fare se non attendere che si compia il negoziato tra i presidenti delle Camere e il numero uno della ”bicameralina”, Enrico La Loggia. Negoziato attivato in modo ufficiale
con la lettera che parte dal gruppo Iniziativa responsabile e con cui si reclama appunto un posto nell’organismo parlamentare, oltre che in altre commissioni. È Napolitano però ad avere qualche perplessità innanzitutto sulla scelta di procedere con la fiducia su una riforma chiave qual è il federalismo. Sul punto d’altronde la maggioranza
Bossi vacilla: «Entro marzo la riforma andrà in porto». Ma poi minaccia: «Altrimenti al voto». Tensione con i governatori non intende approfondire granché: non si tratta tanto di mettere al sicuro il provvedimento sui comuni, quanto di compensare l’impressione generale di debolezza offerta dalla coalizione.
Da una parte c’è Berlusconi incalzato senza tregua dalla Procura di Milano. Il capo dell’ufficio inquirente Edmondo Bruti Liberati rivendica con decisione «la competenza» dei suoi sostituti sul caso Ruby. Determinazione che inquieta molto il premier e i suoi, alleviati nel loro travaglio solo dalla richiesta di archiviazione sul caso Montecarlo per il ministro Frattini, avanzata dalla Procura di Roma. È questo generale scoramento a suggerire il colpo di reni di Palazzo Chigi sul pacchetto economia. Dall’altra parte però c’è anche la fatica della Lega di fronte a un federalismo praticamente bocciato due volte: prima con il nulla di
miglie italiane. Perchè, ha notato il centrista, il premier «ha chiaramente perso il contatto con la realtà e un’altra buona occasione per tacere. Il Paese sta vivendo un periodo di crisi profondissima, aggravata dall’immobilismo di questo governo. Chiunque si illudeva che qualcosa potesse cambiare, che la maggioranza potesse svegliarsi da questa situazione di torpore, ora, di fronte a un premier che chiaramente non conosce il suo Paese, non può che aprire gli occhi».
C’è anche questo nel tentativo estremo di rimettere in moto il suo governo. Se davanti ai giornalisti Berlusconi ha spiegato che «queste misure potevano essere prese prima, ma non lo abbiamo potuto fare perchè c’era da fronteggiare la crisi», nel segreto del Consiglio dei ministri ha richiamato i suoi a fare gruppo contro l’azione eversiva dei giudici. Ai giornalisti, infatti, ha spiegato che ha chiamato alla questura di Milano, chiedendo la liberazione della marocchina Ruby, per «evitare un incidente diplomatico». Mentre con i suoi ministri avrebbe detto senza mezzi termini che «la struttura dell’inchiesta è finalizzata non per cercare la verità giudiziaria, non per condannarmi, ma per far cadere il governo ora». Un senso di accerchiamento che spinge Palazzo Chigi a fare muro contro le solite toghe. E se Tremonti viene messo con Raffaele Bonanni (Cisl) e Luigi Angeletti su un treno da Roma per Reggio Calabria – oggi i tre risaliranno in pullman – per dimostrare che «su oltre 400mila chilometri della Salerno Reggio 360mila sono cantierizzati», ecco il premier chiedere ai parlamentari del Popolo delle Libertà di appog-
fatto nella commissione bicamerale e poi con lo stop di Napolitano. A questo secondo impasse dovrebbe rispondere appunto la sfida della fiducia. Ma si capisce bene come l’argomento sia debole.
Anche perché la superfice delle forzature muscolari non corrisponde al sottotraccia delle trattative di Roberto Calderoli. Il ministro alla Semplificazione, che accompagna Bossi nel colloquio pomeridiano al Colle, continua a cercare una mediazione con i governatori, interlocutori prioritari del prossimo e assai più delicato decreto attuativo, quello su regioni e spesa sanitaria. C’è un testo pieno di incognite, a cominciare dalla definizione dei livelli essenziali di assistenza: sull’ipotesi contenuta nella versione approntata da Tremonti e Calderoli c’è un consenso pieno di riserve da parte dei presidenti di regione. Ma la partita si intreccia con quella del riparto dei fondi per la sanità relativi al 2001, con Lombardia e Veneto che fronteggiano gran parte delle regioni meridionali, unite a Liguria e Marche: questo secondo schieramento prova a far valere parametri finora sottostimati dal governo, a cominciare dall’età degli assistiti. Formigoni e Zaia dissentono ma sono pronti a cedere qualcosa sulla nuova proposta, imperniata attorno al meccanismo delle “deprivazioni”. «Basta che le si introduca con forme soddisfacenti», dice il lombardo Colozzi, l’assessore che coordina i responsabili del Bilancio in Conferenza delle regioni. Rispetto al decreto sul fisco municipale insomma la situazione è
giare un durissimo pacchetto di contromisure, a cominciare dalla richiesta di sollevare il conflitto di attribuzione alla Consulta. Misura da prendere nell’Ufficio di presidenza di Montecitorio, dove, anche per la presenza di Gianfranco Fini, il Pdl non ha la maggioranza. «Non si illudano i magistrati», avrebbe anche aggiunto il Cavaliere in Consiglio dei ministri, «perché ho la pelle dura». e, parlando con alcuni suoi parlamentari, avrebbe chiarito che dopo di lui, le toghe «continueranno a insistere sulle altre persone coinvolte». Fatto sta che nei Palazzi della politica sono in molti a temere un’implosione della maggioranza, soprattutto se
persino più intricata. Con i comuni almeno c’era l’intesa costruita da Calderoli con l’Anci, con i presidenti di regione è tutto più difficile anche per l’incrocio con il nodo del fondo sanitario 2011. E di fronte a tante difficoltà, che fa l’esecutivo? Sfida tutti con la fiducia che, nel passaggio un po’ criptico concesso dal premier sul tema, parrebbe destinata a riproporsi, d’ora in poi, su tutti i decreti attuativi. Strada davvero impervia: Napolitano non manca di ricordare a Bossi che una riforma come quella del federalismo fiscale «non può che essere condivisa». Oltre alle legittime preoccupazioni del presidente, c’è il rischio di referendum abrogativo: la legge delega è di rango ordinario e nulla potrebbe impedire una raccolta di firme per sottoporre la riforma a consultazione popolare. Scenario più probabile se la maggioranza litiga con il Pd, che era stato invece collaborativo fino al passaggio precedente, quello su Roma capitale. Il Colle, dice Bossi, «farà da sponda». E poi «entro marzo la portiamo a casa», aggiunge riferendosi alla riforma. Ma poi non esclude l’esito catastrofico: «Se non ce la facciamo meglio il voto». È il solito pendolo. A marzo in realtà c’è di sicuro, al momento, solo il dubbio sul 17, festa dell’unità contestata dallo stesso Bossi. Su questo la tensione con il Colle si taglia a fette, altro che sponda.
al di sopra dei 20 milioni». L’ex editore televisivo ha poi annunciato che saranno eliminate un centinaio di leggi che rallentano la loro erogazione. «E faremo ordine anche sulle 1.400 leggi a livello regionale». Perché l’obiettivo è rendere «più flessibile lo strumento, semplificando le procedure e riducendo i tempi». In quest’ottica va anche letta la riforma dell’articolo 41 della Costituzione. Quello che amplia la libertà d’impresa, con la previsione che viene «permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge». Oppure quella dell’articolo 97 sulla pubblica amministrazione, che come ha spiegato il ministro Renato Brunetta, «costituzionalizzerà la capacità e il merito».
La testa del premier resta sempre a Milano: i pm hanno chiesto il processo immediato e il Gip ha già detto che darà una risposta entro lunedì prossimo verranno coinvolti nell’inchiesta altri esponenti dell’esecutivo. Questi i rumors che girano per Roma e che, seppure fossero destituiti, ben rappresentano i timori di chi governa il Paese. Per arginare tutto il governo da un lato minaccia che «la responsabilità dei giudici ci deve essere e noi la faremo», dall’altro deve affidarsi alle misure del piano per la competitività, alle accelerazioni al piano casa e al piano Sud. Sul primo versante centrale è la riforma degli incentivi. Il ministro dello Sviluppo, Paolo Romani, ha spiegato che saranno «di tre categorie: quelli automatici tipo voucher; quelli erogati in base a progetti su bandi di gara e, infine, quelli legati a procedure negoziali per gli investimenti
Raffaele Fitto, invece, ha fatto mettere nero su bianco la tempistica del piano per il Sud. Il ministro agli Affari regionali ha previsto che entro febbraio si concluderà la discussione in sede europea, mentre entro il mese successivo saranno approvate le delibere Cipe per l’assegnazione dei fondi, per concludere tutto il percorso ad aprile «definendo il meccanismo su chi deve fare e che cosa». Altero Matteoli e Roberto Calderoli invece promettono di alleggerire la burocrazia per aumentare la cubatura delle proprie abitazioni, come previsto dal piano casa. Al riguardo Silvio Berlusconi si è scagliato contro le Regioni che «chiedono sempre fondi ma che non li sanno spendere». E così rallentano le riforme. Perché l’Italia non dovrà essere più «il Paese dove per aprire un albergo ci vogliono cento permessi. con le nostre misure basterà una certificazione ex post».
pagina 4 • 10 febbraio 2011
l’approfondimento
Retroscena di un disastro annunciato a Bruxelles, quando Berlusconi ha detto: «Altro che Egitto, da noi siamo alla catastrofe...»
Ruby affossa Draghi
A ottobre l’Europa nominerà il nuovo presidente della Bce: la Merkel punta sul tedesco Weber ma Sarkozy non lo vuole. La soluzione poteva essere il governatore di Bankitalia, ma i festini di Arcore lo hanno espulso dai candidati di Enrico Singer fficialmente Germania e Francia dicono che è troppo presto per aprire la corsa alla successione di Jean-Claude Trichet. «Siamo ancora nel cuore della crisi e mancano otto mesi alla fine del suo mandato», ha dichiarato il ministro francese degli Affari europei, Laurent Wauquiez, lasciando capire che Parigi non vuole trasformare l’attuale presidente della Banca centrale europea in un’anatra zoppa da qui al 31 ottobre prossimo quando dovrà passare la mano. Anche il potente ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schauble, sostiene pubblicamente che «non c’è ancora alcuna necessità di mettere all’ordine del giorno la successione di Trichet perché è interesse di tutti che l’azione della Bce non sia intralciata». Ma negli incontri riservati dell’ultimo vertice europeo a Bruxelles, venerdì scorso, il tema più discusso dagli sherpa dei capi di Stato e di governo è stato proprio il dopo-Trichet. E da questo sondaggio informale,
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in cui tutti i Paesi hanno espresso le loro posizioni e i loro candidati, è emerso un quadro che si può riassumere così. Angela Merkel insiste per portare a tutti i costi sulla poltronissima dell’Eurotower l’attuale numero uno della Bundesbank, Axel Weber. Nicolas Sarkozy continua ad opporsi perché non perdona al falco di Berlino le critiche rivolte al francese Trichet sulla gestione della crisi finanziaria. Il governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, sulla carta resta il più forte candidato alternativo che potrebbe approfittare dello scontro franco-tedesco, ma le sue azioni sono in discesa.
Non, certo, per il suo profilo – che è indiscutibile e superiore a quello degli altri possibili concorrenti – quanto per la debolezza dell’Italia che, anche agli occhi dei partner di Eurolandia, è ormai troppo ripiegata sui problemi interni. Soprattutto sugli scandali che coinvolgono Silvio Berlusconi. L’ultimo colpo, a quanto racconta uno
dei funzionari presenti alla discussione, lo ha involontariamente assestato proprio il presidente del Consiglio che, durante il pranzo dei leader, ha detto: «Qui ci si sta occupando dell’Egitto, ma c’è un altro Paese sull’orlo della catastrofe: l’Italia, dove i giudici vogliono processarmi». Voleva essere l’ennesimo attacco alla «Repubblica giudiziaria». Ha avuto l’effetto di un boomerang rinforzando la posizione della Merkel che, quando sente parlare di Italia e di candidati ita-
Un accordo “segreto” fra Berlino e Parigi prevedeva una staffetta
liani, alza gli occhi al cielo e sospira. Ma andiamo per ordine. Alla fine di ottobre scade il mandato di otto anni - che non è rinnovabile - di Trichet. Per statuto, i leader dell’Unione europea devono selezionare un nuovo presidente fra «personalità di riconosciuta esperienza in campo monetario e bancario» e tutti gli analisti ritengono molto probabile che la scelta cadrà su uno dei banchieri centrali che fanno già parte del Consiglio dei governatori, il board della Bce. Il grande favo-
rito, si sa, è Axel Weber per una ragione, in fondo, molto semplice: la «staffetta» tra Francia e Germania sancita alla nascita della Bce. Il problema è che Weber, 54 anni, è un “falco” e si è messo contro diversi governi europei criticando apertamente la decisione della Bce di acquistare i bond governativi dei Paesi più in difficoltà per contrastare la crisi del debito sovrano. Non solo. In più di un’occasione Axel Weber si è schierato contro le scelte economiche di Nicolas Sarkozy e, secondo fonti diplomatiche francesi, il capo dell’Eliseo se l’è legata al dito.
Proprio dalle difficoltà di Weber, già nei mesi scorsi, era nata l’impennata delle azioni di Mario Draghi. Ex direttore generale del Tesoro con esperienza al Fondo monetario internazionale e nel settore privato, il governatore della Banca d’Italia, che ha 63 anni, oltre a fare parte del board della Bce, è presidente del Financial stability board, strategico organismo in-
caricato di coordinare le nuove regole finanziarie internazionali. Draghi è considerato un “centrista” all’interno del Consiglio dei governatori della Bce e questo, nei confronti del “falco”Axel Weber è un altro punto a suo favore agli occhi di un ampio fronte di Paesi. I tedeschi, per contrastarlo, utilizzano formalmente un argomento legato ai complessi equilibri del potere europeo: il 16 febbraio dell’anno scorso è stata scelta per la vicepresidenza della Bce un’altra personalità dell’Europa meridionale: il portoghese Vitor Constancio, che, per di più, è una delle “colombe” del board. Secondo le regole non scritte – ma sempre rispettate – di una specie di manuale Cencelli europeo, ci deve essere un’equa ripartizione delle cariche della Ue tra esponenti dei Paesi grandi e piccoli, del Nord e del Sud ed anche tra le diverse famiglie politiche. Nel caso della poltronissima della presidenza della Bce – anche se la concordata staffetta tra un francese e un tedesco dovesse fallire per il “no” di Sarkozy – tutto questo intreccio di condizioni potrebbe essere usato per stoppare Mario Draghi e potrebbe favorire altri candidati alternativi. L’ulteriore novità emersa in margine del Consiglio europeo di venerdì scorso è l’elenco dei nomi dei possibili outsider che, finora, erano rimasti nell’ombra. Si tratta di cinque governatori di Banche centrali di altrettanti Paesi di Eurolandia e di due personalità di primo piano del mondo economico-finanziario che non fanno parte, però, dell’attuale board della Bce. I cinque governatori sono Yves Mersch (Lussemburgo), Guy Quaden (Belgio), Ewald Nowotny (Austria), Erkki Liikanen (Finlandia) e Nout Wellink (Olanda). I due “esterni” sono Philippe Maystadt, belga, oggi presidente della Bei, la Banca europea degli investimenti, e il tedesco Klaus Regling, capo dell’European Financial Stability Facility, ed ex alto funzionario della Commissione europea.
Tutti hanno qualche carta in mano, ma anche molti limiti. Yves Mersch, 61 anni, è il veterano del Consiglio dei governatori della Bce. Guida la piccola Banca centrale del Lussemburgo dal 1998. È considerato un “falco” nella lotta all’inflazione ed è molto vicino alle posizioni tedesche: per questo potrebbe emergere come un candidato di compromesso gradito a Berlino nel caso in cui fallisse davvero la candidatura di Axel Weber. Il Lussemburgo, tuttavia, ha già un posto di prestigio nella Ue dato che il suo primo ministro, Jean-Claude Juncker, è il presidente dell’Eurogruppo e questo, per il già citato “Cencelli europeo” potrebbe sbarrargli la strada. Il belga Guy Quaden, 65 anni, è un autorevole membro moderato del Consiglio dei go-
La «paralisi» del 1999 Il destino della Bce è nelle mani di Angela Merkel e Nicolas Sarkozy: è dalla mediazione (ma sarebbe meglio dire dal braccio di ferro) fra i due che uscirà il nome del prossimo presidente, in carica dal prossimo ottobre. Quando, nel 1999, fu creata la Banca centrale europea si accese subito lo scontro tra i due Paesi più forti di Eurolandia - Francia e Germania, appunto - per conquistarne la presidenza. E, come sempre accade in questi casi, si finì con un compromesso: il primo capo della Bce fu l’olandese Wim Duisenberg. Ma Parigi e Berlino strinsero allora un patto nemmeno tanto segreto: dopo Duisenberg ci sarebbe stata una staffetta: prima un francese, poi un tedesco. Duisenberg si dimise in anticipo, dopo quattro anni, e così, nel 2003, con la nomina di Jean-Claude Trichet, fu rispettata una parte di quel patto. Adesso Berlino pretende che il bastone del comando dell’euro passi ad Axel Weber. Se non fosse che Weber si è fatto molti nemici, negli ultimi tempi; e fra costoro uno è particolarmente importanre, in questa partita: Nicolas Sarkozy. Figurarsi che il governatore della Bundesbank ha attaccato direttamente le scelte ecnomiche del governo francese... Ancora una volta, come nel 1999, potrebbe essere una figura terza a guadagnare dalla paralisi franco-tedesca: ecco perché malgrado tutto c’è chi fa il tifo per Draghi.
vernatori della Bce. Come per Mersch, le sue probabilità di farcela potrebbero risentire negativamente del fatto che il Belgio, con Hermann Van Rompuy, ha già ottenuto la carica-chiave di presidente del Consiglio europeo. Potrebbe, inoltre, essere considerato troppo anziano per cominciare a 66 anni un mandato di otto anni. L’austriaco Ewald Nowotny, anche lui 66 anni, ha assunto un ruolo di primo piano nella difesa della politica della
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Bce contro le critiche tedesche e per questo è gradito alla Francia. Ma oltre all’età, il suo passato socialista potrebbe rivelarsi un problema insuperabile agli occhi di Angela Merkel. Il finlandese Erkki Liikanen, 60 anni, è un ex commissario della Ue e un moderato in politica monetaria. La sua affiliazione socialdemocratica e il fatto che la Finlandia ha già ottenuto una posizione di rilievo con il nuovo commissario europeo gli Affari economici e monetari, Olli Rehn, potrebbero giocare contro di lui. Arnout – “Nout” – Wellink, 67 anni, attualmente presidente della Banca centrale olandese, è considerato un candidato jolly che potrebbe accontentare tanto Parigi che Berlino rinnovando il compromesso che fu raggiunto sul nome del suo compatriota Wim Duisenberg, ma l’età non lo aiuta.
Più giovani sono i due candidati “esterni” all’attuale formazione della Bce. Il tedesco Klaus Regling, 61 anni, è stato direttore generale degli Affari economici e monetari della Commissione europea. Segue una linea ortodossa sulla politica monetaria e sulla disciplina fiscale. Non ha esperienza di banchiere centrale, ma ha lavorato anche al Fondo monetario internazionale e al ministero delle Finanze di Berlino prima di diventare uno dei più influenti funzionari dell’esecutivo di Bruxelles. Ma la sua carta migliore, nel caso in cui Axel Weber non dovesse passare, è proprio la sua nazionalità tedesca: la “staffetta” col francese Trichet sarebbe comunque rispettata. C’è chi dice che proprio questo cambio di cavallo è l’obiettivo
massimo che Nicolas Sarkozy potrà ottenere. Il belga Philippe Maystadt, 62 anni, ha dalla sua la lunga esperienza come presidente (dal 2000) della Banca europea degli investimenti ed è stato ministro delle Finanze del suo Paese per un decennio, fino al 1998, partecipando alla creazione dell’euro. Non ha, però, esperienza come banchiere centrale e – al pari di Guy Quaden – potrebbe essere penalizzato dal ruolo che già svolge il belga Van Rompuy nell’Unione. Dal confronto di tutti questi nuovi nomi con quello di Mario Draghi, appare evidente che il governatore di Bankitalia non avrebbe concorrenti nella corsa alla successione di Jean-Claude Trichet se potesse contare sul sostegno di un governo autorevole e rispettato in Europa. Ma così non è, almeno a quanto filtra dagli ambienti informati di Bruxelles. Senza contare che – al di là di tutte le voci e le manovre – la possibilità che, alla
Altri candidati di mediazione sono iI tedesco Klaus Regling e l’olandese Arnout Wellink fine, sarà Axel Weber a spuntarla rimane la più forte. Lui, del resto, si comporta come se fosse già a capo dell’Eurotower di Francoforte. Appena due giorni fa, in un discorso a Tallin – la capitale dell’Estonia – ha detto che deve essere «prima di tutto e innanzitutto» responsabilità dei governi nazionali consolidare i bilanci dei loro Paesi attraverso riforme strutturali senza rovesciare sulla Bce «compiti che non le spettano». Gli è favorevole anche il risultato di un sondaggio realizzato dal Financial Times online tra il 5 e l’11 gennaio su un campione di 5.253 persone in Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Italia. L’indagine rivela che il 26 per cento dei francesi e degli spagnoli
vuole un tedesco a Francoforte: una percentuale superiore a quella dei candidati delle rispettive nazionalità. Fra gli italiani, appena il 26 per cento preferisce un italiano, contro il 25 per cento di coloro che preferiscono un tedesco. Negli altri Paesi c’è scarso appoggio per un candidato italiano: una situazione che «mette in evidenza la difficile sfida di immagine che dovrà essere affrontata da Mario Draghi» che anche il Financial Times definisce comunque «il principale sfidante di Weber alla presidenza della Bce».
Anche il tedesco Die Zeit, che cita «autorevoli fonti monetarie in Francia e Germania», sostiene che nei confronti di Draghi ci sarebbero “riserve” in alcuni Stati dell’Europa del Nord. Il settimanale scrive che il governatore di Bankitalia è «universalmente riconosciuto per le sue qualità, ma non sarebbe proponibile che la guida della Bce, che ha come suo primo e assoluto mandato la garanzia della stabilità dei prezzi contro l’inflazione, venga affidata a un esponente dei Paesi deboli del Sud dell’Eurozona». Nell’offensiva pro-Weber è sceso in campo anche il quotidiano Bild che ha pubblicato una lunga analisi – molto informata e condita dai pareri dei più influenti economisti tedeschi – che sintetizza bene la strategia di Angela Merkel costretta a barcamenarsi tra il sostegno agli sforzi della Ue per aiutare i Paesi in crisi e l’ascolto dell’opinione pubblica tedesca che è contraria a spendere soldi per gli altri. «Se Angela potrà dimostrare che lo fa per l’Europa e se riuscirà a far sedere Axel Weber sulla poltrona di Trichet, almeno potrà dire: non vi preoccupate per l’inflazione perché Axel è lì proprio per questo». La battaglia, insomma, si annuncia molto aspra e tutte le mosse vengono scrutate per ricavarne delle indicazioni. Anche la recentissima (è del 18 gennaio scorso) creazione dell’European Systemic Risk Board, il comitato istituito dall’Unione europea per la supervisione della stabilità del sistema finanziario, si è conclusa con un pareggio perché il governatore della Banca d’Italia è stato incluso nel Comitato direttivo del Esrb assieme al presidente della Bundesbank e ai governatori della Banca centrale di Cipro, Athanasios Orphanides, e della Polonia, Marek Belka. Il direttivo, che è presieduto per ora da Trichet, resterà in carica tre anni. Giulio Tremonti ha detto che questo «non aumenta, né riduce le possibilità che hanno i due candidati forti alla guida della Bce». Ma l’ultima gaffe di Berlusconi a Bruxelles non c’era ancora stata.
diario
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Caso Montecarlo: Frattini scagionato
Smog: sei città sono fuorilegge
ROMA. La Procura di Roma ha avanzato al tribunale dei ministri la richiesta di archiviazione per il ministro degli esteri Franco Frattini, indagato per abuso d’ufficio in relazione ai documenti giunti alla Farnesina da Santa Lucia a proposito della proprietà della casa di Montecarlo ereditata da An nel 1998. A determinare la richiesta di archiviazione è stata la documentazione inviata dallo stesso ministro degli esteri. Da questi atti si evince, per la procura, che non sussiste alcuna forma di interferenza, come invece ipotizzato nella denuncia che la scorsa settimana ha dato origine al procedimento contro il ministro degli Esteri, tra «l’iniziativa del ministro e l’attività giudiziaria».
Dalla Corte nuovo stop alla Gelmini
MILANO. Nelle città italiane tira proprio una brutta aria. Sono passati poco più di 40 giorni dall’inizio dell’anno e già due città, Brescia e Milano, hanno oltrepassato il limite consentito dei 35 giorni di superamento dei livelli di Pm10, considerati dalla normativa i limite estremo per proteggere la salute dei cittadini. Ma le due città lombarde non sono sole, perché sulla soglia del limite (con 35 giorni) ci sono anche Frosinone e Monza, mentre altre 4 città Lucca, Bergamo, Torino e Mantova (con 32, 31, 29 e 28 giorni di superamento) si apprestano a essere presto fuorilegge ed è probabile che scaleranno velocemente la classifica anche Napoli, Lecco, Como e Asti (con 27 giorni).
ROMA. La Consulta boccia un’altra delle «grandi riforme» della ministro Gelmini, evidentemente compilate troppo in fretta e senza riguardo alle norme più elementari: «Nell’aggiornamento delle graduatorie a esaurimento disposto dalle norme vigenti, il personale docente ha diritto al trasferimento e all’inserimento a pettine secondo il proprio punteggio (merito) e non secondo l’anzianità di iscrizione in graduatoria» ha stabilito la Corte Costituzionale dichiarando illegittimo l’articolo 1 (comma 4 ter) del dl 134 del 2009 perché viola l’articolo 3 della Costituzione. In pratica, l’inserimento dei precari della scuola è stato regola male: ora oltre 15.000 ricorrenti possono reclamare il ruolo.
Dopo la tragedia di Roma, tutti se la prendono con il Campidoglio. E il governo non vuole dare altri fondi per gli sgomberi
Romanzo Viminale
Alemanno chiede un incontro a Maroni. Ma il ministro lo scarica di Riccardo Paradisi
«Il soldi per l’emergenza Rom o me li dà Maroni o me faccio dare da Berlusconi», ha detto Alemanno annunciando per le 18 di ieri un incontro con il ministro. Ma dal Viminale hanno risposto: «Non è giunta alcuna richiesta in questo senso. L’unico appuntamento del ministro è quello della prossima settimana con i commissari all’emergenza nomadi»
lima sempre più teso tra il ministro dell’Interno Maroni e il sindaco di Roma Alemanno. Uno strappo cominciato con la richiesta di nuovi fondi al ministero dell’Interno per l’emergenza nomadi della Capitale contenuta nella lettera inviata martedì dal prefetto Giuseppe Pecoraro e dallo stesso sindaco sindaco. Fondi che Maroni non sembra avere nessuna intenzione di stanziare: «Non vedo il motivo per raddoppiare i fondi per il piano dei campi nomadi del Lazio. Non ci sono condizioni per lo stanziamento di un ulteriore contributo di 30 milioni per il piano campi nomadi. Ho letto con sorpresa e con dispiacere perché mi è arrivata tramite agenzie, invece di riceverla direttamente di questa richiesta di ulteriori 30 milioni. Va bene tutto - ha aggiunto il ministro - ma voglio capire cosa significa».
C
Già, perché secondo il ministro, il Lazio che ha già avuto 20 milioni per il piano nazionale non avrebbe diritto ad altri. Considerato anche che il piano è stato aggiornato e non è mai venuta fuori la necessità di raddoppiare i fondi. «Verificheremo se bisogna raddoppiarli. La prossima settimana ci sarà una riunione con le cinque regioni coinvolte nel piano e valuteremo se le esigenze del Lazio sono motivate. Oggi non mi sembra». Alemanno insiste, ha fretta, e si capisce anche perché. Dopo il rogo di Roma, dove hanno perso la vita quattro bambini rom, «Il governo deve capire protesta». In via di principio un pia-
no nazionale sui nomadi è stato fatto – ammette Alemanno – «ora però è necessaria un’andatura diversa, un passo diverso per quanto riguarda le 2.400 persone che vivono nelle baracche in campi non tollerati. Dobbiamo poter lavorare con un meccanismo da Protezione Civile, come se ci fosse stato un terremoto o un’alluvione. Sollecito a questo il Ministero dell’Interno». Alemanno cerca un incontro con Maroni. Tenta di placcarlo fissando unilateralmente un appuntamento con lui. «So che il ministro Maroni ha già convocato una riunione con
tutti i commissari per l’emergenza nomadi e io vorrei parlargli con chiarezza prima di questo incontro, per spiegargli quali sono le nostre necessità anche perché si poteva rispondere che i fondi non ci sono adesso, ma non si può rispondere improvvidamente ”che non si danno”, ”non lo so”, ”non capisco”, ”non vedo”, ”non intendo”. Spero che oggi riusciremo a chiarirci. I fondi ci servono per sbloccare ciò che è già finanziato».
A mediare per l’incontro il sottosegretario agli Interni Alfredo Mantovano che garanti-
sce essere in corso un confronto costruttivo. Alemanno conferma: «Ne ho già parlato con il sottosegretario Mantovano Il piano nomadi ’’inizialmente era dimensionato solo per chiudere i campi tollerati e per questo i soldi ci sono. Il problema nuovo è quello dello sgombero dei micro-campi che è documentato. Il prefetto fa parte della struttura del ministero dell’Interno, quindi non sarebbe una polemica con me ma interna alle loro strutture. Spero che oggi il ministro comprenda la situazione perché altrimenti, come ho già detto, dovremo de-
nunciare con forza il fatto che non abbiamo le risorse, i poteri, gli strumenti per poter raggiungere i nostri obiettivi». Tanto più che le aree per le tendopoli sarebbero già state individuate dal Campidoglio sicché dalla prossima settimana sarebbe in teoria possibile cominciare a sgomberare i micro-campi abusivi. «Per il momento stiamo agendo in autonomia – precisa il sindaco – poi chiaramente servirà anche l’aiuto della protezione civile nazionale».
Passa qualche ora e arriva finalmente arriva la risposta
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Autostrade italiane: Nord e Sud a confronto
Bossi contro la festa d’Italia: il 17 marzo «si deve lavorare!» ROMA. Umberto Bossi, sentendosi garante della verità della Patria (di quale Patria, se quella italiana di cui è legittimo ministro o della fantasiosa Padania non è chiaro) prova a mettere una parola tombale sulla celebrazione dei 150 anni dell’Unità d’Italia. Intanto, ci illumina il Bossi, «la festa sarà percepita in modo diverso e diversa intensità a seconda dei luoghi». E va bene. Ma è sul tema clou del dibattito di questi giorni (fare vacanza o no, il 17 marzo?) il leader della Lega è risoluto: «Si deve lavorare!». Che i suoi colleghi di maggioranza di governo avessero deciso altrimenti, al Bossi non importa alcunché. Lui è sulla strada tracciata dal collega padano Roberto Calderoli e, prima ancora, dalla presidente di Confindustria Marcegaglia, entrambi convinti che la chiusura degli uffici il 17 marzo per festeggiare l’Ita-
lia comporti un costo insostenibile in tempi di crisi. Della faccenda, stando alle gole profonde di palazzo Chigi, sarebbe stata discussa anche in consiglio dei Ministri, ieri. Col Bossi e il Calderoli osteggiati dai soli La Russa e Meloni che si sono dati il compito ingrato – di questi tempi – di difendere la vacanza degli italiani. Ma, del resto, furono proprio i leghisti, con la loro schietta saggezza, a inventare lo slogan «Andate a lavorare!». Rivolto ai politici, però.
del ministro dell’Interno ai ripetuti inviti per un incontro da parte di Alemanno: «Il ministro dell’Interno, Roberto Maroni non ha per oggi alcun incontro in agenda con il sindaco di Roma sulla questione rom. Non è giunta alcuna richiesta in questo senso e, dunque, l’unico appuntamento fissato per il ministro e’ quello della prossima settimana con i commissari all’emergenza nomadi». Imbarazzante per Alemanno. Talmente che dal Viminale arriva una correzione di tiro diplomatica. La sostanza del rifiuto è immodificata ma suaviter in modo: «Certo che lo incontrerò, ci mancherebbe. Non so quando».
La frizione Alemanno-Maroni trasforma la pioggia di polemiche che già incombeva sul sindaco di Roma in un’alluvione: «Un fenomeno come quello della presenza di rom e sinti deve essere governato con la capacità di esprimere un sistema di diritti e doveri valido per chiunque voglia venire a vivere nel nostro Paese. Lo scontro Maroni-Alemanno di queste
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
Il Campidoglio vorrebbe una soluzione (e risorse) dalla Protezione Civile
La mamma dei bimbi normadi morti a Roma. In alto, Tremonti e Mantovano. Nella pagina a fianco, Alemanno e Maroni
ultime ore dà invece l’idea di un centrodestra italiano in conflitto con se stesso e incapace di mantenere promesse come quelle con cui Alemanno, due anni fa, imbastì gran parte della propria campagna elettorale» dice Emanuele Fiano, presidente forum Sicurezza del Partito Democratico. «Bugie su bugie. Balle su Balle. Alemanno ne spara così tante che, alla fine, anche il Ministro Maroni è costretto a prendere le distanze – accusa il segretario del Pd Roma, Marco Miccoli. «Il sindaco Alemanno ha dichiarato che Maroni non ha capito quello che lui ha scritto, perché, dice Alemanno, il piano nomadi inizialmente era dimensionato solo per chiudere i campi tollerati e per questo i soldi ci sono. Il problema nuovo è quello dello sgombero dei microcampi che è documentato. Lo afferma tralasciando il fatto che, ancora una volta, il sindaco dà la colpa ad altri».
Il Piano Nomadi del Comune di Roma sarebbe stato presentato infatti secondo l’opposizione da Alemanno il 31 luglio 2009 alla presenza di Maroni. «Il Piano, disse il sindaco il 31 luglio 2009 aveva come obiettivo: 13 villaggi autorizzati, a fronte degli oltre 100 campi nomadi oggi esistenti tra insediamenti abusivi, campi cosiddetti tollerati e villaggi autorizzati. Nello specifico ribadì il sindaco che era prevista: la chiusura di oltre 80 campi abusivi e di 9 tollerati». Insomma, i soldi stanziati servivano anche per i campi abusivi. Sicché per l’opposizione avrebbe ragione proprio e Maroni a chiedere che i fondi già stanziati e i poteri già conferiti siano utilizzati in maniera corretta: e quindi anche per i campi abusivi». All’incidente diplomatico che espone il fianco alle frecce dell’opposizione Alemanno tenta di mettere un’altra pezza. «L’incontro con Maroni è già fissato ma, essendo riservato, ne daremo riscontro solo dopo». Intanto quello che si riscontra è uno strappo. Ricomponibile? Vedremo.
È stato allegato ad un settimanale a tiratura nazionale un fascicoletto dal titolo: “Lavori in corso. Il piano di potenziamento della rete autostradale - Autostrade per l’Italia”.Tra i lavori ultimati sono indicati le quarte corsie della Modena-Bologna, della Milano-Gallarate, della Milano est-Bergamo, oltre numerose terze corsie,tutte - tanto per cambiare - al Nord. Fra quelle in corso di approvazione, ben quattro sono per la quarta corsia. Dallo schizzo illustrativo l’intervento della società termina a Napoli e a Taranto. L’importo dei lavori è indicato complessivamente in 24.640 miliardi di euro per 1087,1 chilometri. Non vi sono i dati relativi alle autostrade meridionali forse perché di competenza di altri enti o società. La differenza fra la rete autostradale del Nord e quella del Sud è sotto gli occhi di tutti. Da noi la quarta corsia la possiamo solo sognare.Anche da ciò si ricava il divario esistente che, col federalismo fiscale, si vuole accrescere.
Luigi Celebre - Milazzo
TOCCATECI TUTTO... MA NON LE NOSTRE CASE Le tasse sono necessarie e la lotta all’evasione è una delle priorità del governo ma, per favore, lasciate stare le case: costano troppo sudore e troppa fatica, e soprattutto tanti soldi. Dall’Ici alla tassa della spazzatura, passando per i costi onerosi di mantenimento e del condominio, acqua, luce e gas; diamo tutto al suo esistere. Poi arriva una contingenza, un problema economico, e subito la casa diventa la garanzia, la minaccia, l’oggetto del contendere familiare, la rivalsa delle banche.
Bruna Rosso
L’IMMAGINE
Liberi di correre In Mongolia i cavalli vengono lasciati in libertà, risparmiati dai carichi gravosi e trattati con ogni riguardo, in quanto diretti discendenti dei veloci destrieri che consentirono a Gengis Khan di costruire un vasto impero PRIMO SCHIERAMENTO E NON TERZO POLO Il Terzo Polo - ovvero l’unione fra finiani, centristi e laici- mi ha convinto da subito. Finalmente un’alternativa alla conservazione di destra e sinistra. Finalmente un’alternativa capace di contrastare il berlusconismo, ormai sempre più paludoso, e attaccato alle istanze conservatrici e stataliste di Tremonti e della Lega Nord. Penso che sia improprio definirlo il “Terzo Polo”. In realtà dovrebbe semplicemente rappresentare il primo o il secondo schieramento politico italiano.
Luciano Riva
FECONDAZIONE ETEROLOGA E LEGGE 40 La legge 40 del 19 febbraio 2004, che disciplina la procreazione medicalmente assistita, approvata dal Parlamento italiano e confermata dall’astensionismo popolare al referendum dell’anno successivo, vieta espressamente la fecondazione eterologa, e precisamente all’articolo 4. Recentemente il Tribunale di Milano ha impugnato tale divieto chiedendo alla Corte costituzionale di eliminare la proibizione contenuta nella norma stessa. Dopo gli interventi dei Tribunali di Firenze e Catania stiamo assistendo a una sorta di continuo accanimento giudiziario che sta cercando di smontare pezzo per pezzo la legge 40. Fecondazione eterologa vuol dire che il padre biologico è un donatore esterno alla coppia. Ma mi domando: quanti papà deve avere un bambino? Avere due padri è nell’interesse del figlio? È nell’interesse del figlio avere una sorta di“famiglia allargata”: papà, mamma e il“donatore”? Il“donatore” entrerà in questo modo a far parte integrante di una sorta di nuovo e creativo “diritto di famiglia”? Gli italiani nel 2005 dissero “no” a questo far west procreatico e io stesso partecipai attivamente alla mobilitazione promossa dall’associazione Scienza e Vita a difesa della legge 40/04. Il “donatore”, come avviene nella fecondazione eterologa, altera profondamente la natura dei rapporti padremadre-figlio. Altera i rapporti di coppia: è proprio ininfluente che la propria moglie venga fecondata e ingravidata da un altro uomo? Altera i rapporti figlio e genitori: è proprio ininfluente, per un figlio, che il proprio padre legale non sia il padre biologico, e il proprio padre biologico dov’è? E tutto questo volutamente scelto e coscientemente programmato a priori. I nostri figli hanno forse diritto a un mondo come questo, o non piuttosto a un mondo migliore?
Glauco Santi
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è un gruppo di 2000 pazienti che versano in stato vegetativo, ognuno da un tempo più o meno lungo, ma tutti insieme aspettano che il nostro Sistema Sanitario Nazionale si accorga di loro in un modo più completo e rispondente alla loro dignità di persone. Lo chiedono le loro famiglie, che si sono raccolte in almeno 35 associazioni diverse, mettendo in evidenza quanto sia fondamentale il piano di una assistenza che duri lungo tutto l’arco della giornata e quindi come l’accompagnamento familiare vada supportato anche da una rete di solidarietà e di servizi qualificati. Ma, cosa davvero sorprendente, lo chiedono con intensità e vivacità anche quanti di loro si risvegliano da questa condizione e mostrano come in realtà di trovassero in un stato di minima coscienza, in cui percepivano assai più di quanto non apparisse. A questi malati, o per meglio dire a questi disabili gravi, e alle loro famiglie è stata dedicata ieri la prima Giornata sugli Stati vegetativi, con l’obiettivo di promuovere la ricerca in questo campo ancora molto misterioso per la scienza e di migliorare l’assistenza, nelle diverse forme in cui può risultare utile per loro.
C’
Eppure l’istituzione di questa giornata - oltre agli innumerevoli consensi che ha suscitato - ha fatto scandalo, perché il nove febbraio è impresso nella memoria e nella coscienza di tutto il Paese, come il giorno in cui due anni fa moriva Eluana Englaro. Per alcuni una liberazione, per altri una condanna; per alcuni un momento in cui si riaffermava la libertà individuale spinta fino alla morte, chiesta ed ottenuta per mano di altri; per altri il fallimento di una medicina incapace di esprimere una autentica alleanza con il malato, ma succube di una magistratura intrusiva e poco attenta ai suoi stessi pronunciamenti precedenti. Per alcuni una lunga storia di molestie burocratiche ed istituzionali, per altri una storia di carità e di solidarietà, ricco di umana pietà e di autentica misericordia. La sua storia, ancora oggi, resta una storia divisiva, davanti alla quale il Paese torna a spaccarsi per una scelta di valori e di ideali diversi, ma anche per un pregiudizio ideologico che punta a contrapporre vita e libertà. C’è da par-
La condizione di stato vegetativo resta purtroppo gravata da un tasso di errore diagnostico ancora molto elevato, anche in centri altamente qualificati te di alcuni la tendenza a declinare il principio di autodeterminazione in modo assoluto ed esclusivo, senza cercare il giusto piano della mediazione umana e culturale, che considera la libertà un attributo della vita, forse il più bello e il più degno, ma pur sempre una prerogativa di chi vive e cerca di dare un senso e un significato alla sua esistenza. Eppure la polemica sull’istituzione della giornata poteva essere evitata, se si fosse tenuto conto che era stata promossa in risposta ad una richiesta che veniva dalle associazioni dei malati in stato vegetativo, con la volontà di enfatizzare il dovere delle istituzioni pubbliche di
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A due anni dalla morte di Eluana Englaro, l’Italia celebra la prima Giornata nazion
proteggere, in collaborazione con le famiglie, le persone che vivono in una condizione di estrema fragilità. Una giornata chiesta da genitori di ragazzi in condizioni analoghe a quella di Eluana, ma determinati a procedere in modo diverso nell’assistenza dei propri figli, anche grazie ad un maggiore e migliore sostegno da parte delle Istituzioni.
Poteva essere un modo positivo per ricordare ciò che era accaduto due anni fa. Ma in molti ambienti è prevalsa la reazione stizzita di chi si è sentito offeso da un richiamo alla composizione degli animi, evidentemente non volendo fare di Eluana l’immagine positiva di una lotta condivisa per la ricerca e l’assistenza di pazienti che come lei hanno percorso un itinerario lungo e complesso, anche se poi si chiede e si auspica una diversa conclusione. Eppure a ben guardare questa reazione negativa, spesso aggressiva e incapace di esprimere un gesto di vera pietas per le famiglie dei 2000 pazienti tuttora in stato vegetativo, è riconducibile sempre alle stesse persone, agli stessi gruppi politici e culturali, in una ossessiva coazione a ripetere che sembra moltiplicare quelle che in realtà sono solo voci isolate. D’altra parte non a caso fortunatamente Eluana è una, mentre gli altri sono oltre 2000 e se per lei qualcuno ha scelto la soluzione della morte anticipata, per loro gli stessi familiari chiedono di non scherzare con la loro vita e pretendono un rispetto per la loro dignità e per le loro scelte. Ieri, in questa giornata così particolare, a Roma molti uomini di
Siamo uomini o vegetali? Una nuova alleanza fra medici e pazienti, più chiarezza legale e soprattutto il ritorno alla sfera umana nella considerazione di chi soffre. Sono gli ingredienti necessari per questa battaglia di Paola Binetti
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nale sugli stati vegetativi. In attesa del dibattito parlamentare sul biotestamento
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primi passaggi sono correttamente gestiti la percentuale di pazienti che esce dallo stato di coma è molto elevata, ma se nonostante l’eccellenza delle prime cure ricevute, in molti pazienti lo stato di coma cronicizza, richiede nuovi modi e nuovi modelli di assistenza. È emersa la necessità di creare un sistema in rete per cui le unità di accoglienza riservate ai pazienti in stato vegetativo rappresentano l’interfaccia stabile tra la dimensione domestica in cui il paziente potrà trascorrere lunghi e perfino lunghissimi periodi con l’assistenza ordinaria necessaria e i centri necessari per gestire alcuni periodi della vita del paziente, compresi i momenti in cui dovessero emergere eventuali patologie.
Ma la cosa più importante del convegno di ieri è stato il riferimento alla qualità della assistenza che sul piano interpersonale deve essere capace di rispondere ai bisogni di comunicazione di questo pazienti, che per quanto utilizzino canali misteriosi e inusuali, sussistono in modo sempre più evidente. Il bisogno di comunicazione dei pazienti e delle loro famiglie è un elemento essenziale dell’intero progetto di cura e di assistenza. Fatti recenti ci dicono come in situazioni che si protraggono a lungo nel tempo la stanchezza e una sorta di sindrome da stress, possono sporadicamente indurre a chiedere di mettere fine allo stato di coma. Si tratta in realtà di una ulteriore richiesta di aiuto e di accompagnamento che traduce lo smarrimento davanti alla mancanza di segni visibili di miglioramento delle condizioni del paziente. L’apparente insuccesso può indurre a considerare inutili le proprie fatiche, e a riversare la propria frustrazione sulle istituzioni, che appaiono ostili anche perche gli investimenti sembrano davvero improduttivi. scienza si sono alternati al Centro Congressi di via Alibert per ragionare insieme su cosa si può fare per andare oltre una diagnosi che appare fin troppo generica e assai poco illuminante rispetto a ciò che accade nella mente e nel cuore di queste persone. Se lo scienziato sa ancora troppo poco, le famiglie e le associazioni di malati sanno invece molto di più e le loro testimonianze sono state al tempo stesso commoventi e coinvolgenti, non solo sul piano umano, ma anche sul piano scientifico e politico.
Infatti quando alcuni di questi pazienti si risvegliano, i loro racconti sono sempre densi di emozioni e di informazioni e costituiscono una lezione a cui non è facile abituarsi e in cui invece è fin troppo drammatico rendersi conto delle nostre lacune scientifiche e delle nostre carenze umane. Il punto è come tradurre i buoni propositi in iniziative concrete e non limitarsi a pure affermazioni di principio e dal momento che la giornata degli stati vegetativi si ripeterà ogni 9 febbraio ci piacerebbe che al prossimo appuntamento ci fossero fatti e non belle parole. Per esempio ci piacerebbe che fossero state approvate e adeguatamente finanziate le due proposte di legge, una sulle “Nuove forme di assistenza integrata per pazienti in stato di coma vegetativo”, a prima firma Binetti, e l’altra “Istituzione di speciali unità di accoglienza permanente per l’assistenza dei pazienti cerebrolesi cronici”a prima fir-
ma Di Virgilio. Ci piacerebbe che i bambini cerebrolesi che versano in stato vegetativo avessero trovato una risposta di cura oltre che di assistenza di gran lunga più soddisfacente per la loro condizione, destinata a protrarsi a lungo nel tempo. Ci piacerebbe che le loro famiglie non dovessero sentirsi stritolate dal progressivo contrarsi delle risorse economiche, destinate alle politiche sociali e diventate ormai francamente irrilevanti. Attualmente sul piano nazionale dobbiamo registrare che c’è insufficiente programmazione di unità dedicate e carenza di posti letto; disomogeneità delle linee guida per l’assistenza ai pazienti in
stato vegetativo; eterogeneità nella collocazione dei pazienti, al termine della fase di degenza ospedaliera; mancanza di un censimento certo e verificabile nel tempo sul loro numero. Nel convegno che si è svolto ieri è emerso con chiarezza che la condizione di stato vegetativo resta purtroppo gravata da un tasso di errore diagnostico anco-
Ci sono 2000 persone che versano in queste condizioni, ognuna da un tempo più o meno lungo, ma tutte aspettano che il Sistema sanitario si accorga di loro ra molto elevato, anche in centri altamente qualificati. D’altra parte la correttezza e la tempestività della diagnosi è fondamentale perché il paziente possa usufruire dei livelli assistenziali adeguati alla sua condizione.
La condizione di stato vegetativo, almeno nelle fasi iniziali, richiede una rapida ed intensa presa in carico sia per quanto riguarda la gestione clinica che per quanto riguarda la valutazione dello stato di coscienza. Da un lato, infatti, costituisce un criterio di giustizia fornire a ogni paziente le migliori cure per tutto il tempo necessario, ma dall’altro l’appropriatezza degli interventi è indispensabile per dare ad ogni paziente ciò di cui ha realmente bisogno. Se questi
È il momento di rilanciare l’alleanza con questi pazienti e con i loro familiari, il momento di non lasciarli soli, rafforzando il lavoro di rete nelle associazioni e implementando i servizi diretti al paziente e alla famiglia. A tutto ciò serve una giornata che per altro quest’anno anticipa di poche settimane il dibattito in aula sul disegno di legge sul Testamento biologico, come probabilmente sarà sempre chiamato, nonostante il suo vero nome sia: “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”. Un ddl che ha cercato in tutte le sue fasi cruciali di non perdere mai di vista il rapporto medico paziente, come luogo privilegiato in cui l’etica della cura raggiunge il suo livello più alto e disinteressato. E la giornata di oggi è stata a modo suo un anticipo delle principali tensioni e contraddizioni che emergeranno nei prossimi giorni, a meno che non si riesca a restituire alle parole e agli atteggiamenti il loro pieno valore. Per esempio riconoscendo al lavoro delle Suore Misericordine di Lecco la dignità di un servizio alla persona improntato al massimo disinteresse, ad una profonda pietas e un grado di competenza professionale che conferma nei fatti come nell’amore anche le verità scientifiche ritrovano il loro senso pieno. Per cui a loro oggi deve giungere un grazie convinto e motivato non solo da parte di tanti pazienti in stato vegetativo, ma da tutti noi che intendiamo ispirarci alla loro discrezione piena umiltà e di calore umano.
mondo
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Dopo le rivolte in Algeria, Egitto e Tunisia, proclamata per il 17 febbraio la manifestazione anti-Colonnello
Libia, è l’ora della rabbia? Indetta via web la Giornata della collera. Gheddafi fa arrestare il promotore di Antonio Picasso a Libia è la prossima a saltare? La notizia non è confermata, eppure sembra che il tam-tam di contestazione sia giunto anche a Tripoli. Ieri, al-Sharq al-Awsat, il quotidiano in lingua araba pubblicato a Londra, prospettava l’eventualità di un’intifada da prospettarsi anche nella capitale libica. In realtà, si tratta ancora di una voce di corridoio. Tuttavia, monitorando i social network più usati, Facebook e Twitter - veri protagonisti di questa rivoluzione dei gelsomini - si può assistere a un incalzante crescendo. Una sorta di chiamata alle armi attraverso la blogosfera. Sull’esempio delle proteste in Egitto. Le opposizioni on line stanno già parlando di “giornata della collera”, in programma per il
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17 febbraio, quando Tripoli dovrebbe essere attraversata da un imponente corteo di protesta contro il regime. Il condizionale è d’obbligo. Non è scontato che l’iniziativa sia effettivamente in programma. E non è nemmeno detto che le autorità la permettano. Ecco il motivo per cui la stampa araba ha preferito mantenere un certo riserbo. A parte al-Sharq al-Awsat, gli altri osservatori della regione hanno evitato di diffondere notizie non confermate. Da alJazeera al più approfondito Arab News, tutti hanno scelto di seguire l’andamento della questione egiziana, invece che incrementare il livello di tensione. Quest’ultimo, d’altra parte, appare già elevato anche a Tripoli. Quel che sorprende è che il coinvolgimento della Li-
Jamal al-Hajji, lo scrittore e attivista che ha lanciato la mobilitazione, è stato arrestato dalle autorità con l’accusa di aver investito una persona con la propria auto. L’intellettuale nega
bia non sia avvenuto prima. Tenuto conto che le proteste sono cominciate in Algeria. Hanno avuto un iniziale epicentro in Tunisia. Successivamente si sono dirette verso Egitto, Giordania e Yemen. Al domino mancava la Libia. Ancora all’inizio di gennaio, il colonnello Muhammar Gheddafi si era cautelato abrogando i dazi sui generi alimentari, con la speranza di circoscrivere il malcontento. Evidentemente la mossa non è bastata. Sempre ieri, il rais libico ha espresso la sua personale preoccupazione appunto per la manifestazione in programma la prossima settimana. Segno, questo, che un’iniziativa di piazza è comunque prevista. Inoltre, negli ultimi tre giorni, il rais ha convocato molti giornalisti, per avere un quadro dei sentimenti collettivi. Pare che si sia rivolto anche ad alcuni attivisti politici, quei pochi ancora in circolazione nel Paese, al fine di tentare un’azione di dissuasione e preventiva al corteo. Nel frattempo, è stato arrestato lo scrittore Jamal al-Hajji, noto per il suo impegno contro il colonnello. In questi anni, al-Hajji ha firmato una serie di articoli, pubblicati all’estero, sul mancato rispetto dei diritti umani in Libia.
La denuncia viene da Amnesty International che, in un comunicato, precisa come l’uomo sarebbe stato formalmente fermato il primo febbraio scorso con l’accusa di aver investito una persona con la propria auto. Circostanza che lo scrittore nega. «Ci sono due motivi in particolare per cui crediamo che l’incidente sia stato solo un pretesto», ha detto Malcolm Smart dell’Ong: «I testimoni hanno riferito che l’uomo che ha presentato la denuncia non sembrava essere stato investito, inoltre al-Hajji è stato arrestato da uomini in borghese dell’Isa, l’agenzia interna di sicurezza che in genere si occupa di reati politici».
«Le autorità libiche devono chiarire lo status legale di alHajji, e lo devono rilasciare immediatamente se il motivo della detenzione è legato al pacifico esercizio del diritto alla libertà di espressione», si legge ancora nel testo di Amnesty. Il cinismo suggerisce che, se le Ong vogliono davvero svegliare l’opinione pubblica libica dal torpore in cui è piombata da decenni, devono calcolare se valga di più avere al-Hajji libero, oppure in carcere. Gheddafi teme la piazza quindi. Quella piazza di cui si era servito nel lontano 1969 per accaparrarsi il potere. Anche allora attraverso strumenti rivoluzionari. E sempre la medesima piazza della quale ha fatto più volte sfoggio, in qualità di cartina tornasole, per dimostrare ilo consenso unanime nutrito verso il suo regime. Improvvisamente però, seguendo un canovaccio ormai usuale al mondo nordafricano, l’opinione pubblica libica sta voltando le spalle al suo colonnello decotto. Contestualmente, per quanto riguarda la drammatica situazione egiziana, Gheddafi ha commentato: «È sbagliato prendersela con Mubarak. È un pover’uomo che non ha nemmeno i soldi per i suoi vestiti e noi l’abbiamo aiutato più volte. Quello che sta
In apertura, il colonnello Gheddafi, preoccupato per la manifestazione del 17. Nella pagina a fianco, il canale di Suez
accadendo al Cairo è opera dei servizi segreti israeliani». Si tralascino i commenti patetici del colonnello verso il faraone. Nel momento di maggiore crisi per i due Paesi, emerge un’invidia del tutto personale fra i due. D’altra parte, non si sa se una riflessione simile nasca da una visione superficiale dello scenario mediorientale, tale per cui tutto quel che accade di negativo a discapito dei regimi in loco dev’essere imputabile a Israele. Oppure se Gheddafi sia vittima di una proiezione esclusivistica delle rivolte in corso.
Vale a dire: quel che sta accadendo altrove non può toccare la Libia, perché a Tripoli c’è un governo stabile e osannato dalla popolazione. Se la città dovesse celebrare la sua giornata della collera, per la Libia si aprirebbero tre strade. C’è l’opzione tunisina, che prevede una cacciata nottetempo del rais.
mondo
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Se verranno aperte nuove rotte, il Mare Nostrum diventerà un lago di provincia
La protesta può cambiare volto al Mediterraneo Quanto può essere interessante un mercato di Paesi in crisi economica e instabilità politica e sociale? di Osvaldo Baldacci e giornate della collera continuano a fare proseliti e destano preoccupazioni fra i regimi mediorientali. E dalla situazione generale è tutto il Mediterraneo a correre seri rischi, con la prospettiva di vedersi ridurre a un lago periferico e instabile. Con le coste tunisine ed egiziane già destabilizzate, ora è la Libia ad avere paura, mentre si segnalano crescenti scricchiolii in Algeria, da dove tutto era partito. Fibrillazione quindi in Libia, ma anche in Algeria: Jean François Debargue, segretario generale di Caritas Algeria, ha spiegato che il 12 febbraio ci sarà una manifestazione popolare ad Algeri e “molti pensano che una rivolta popolare anche in Algeria potrebbe partire da lì”. Al giorno di protesta hanno già aderito fra gli altri diverse associazioni femminili e Amazigh Kateb, noto cantante e figlio di uno dei più importanti scrittori algerini, Kateb Yacine, che ha pubblicato un appello. Qualche problema anche in Marocco, che però sembra più stabile, mentre nel Levante le preoccupazioni in Giordania si affiancano alle tensioni crescenti in Libano e alla cronica crisi israelianopalestinese il cui processo di pace sembra arenato. L’Iraq già instabile si appresta a vedere ondate di proteste sociali, e a sud si organizzano movimenti di protesta nei principati arabi, mentre è noto come sia lo Yemen un altro dei Paesi più toccati dalla crisi economica e sociale e di conseguenza dalle manifestazioni di piazza di queste settimane.
L
Seguite dai suoi più fedeli assistenti e soprattutto tenendo sottobraccio la borsa con i soldi. È una scena squallida. Ma i precedenti li abbiamo già avuti. In proporzione, se la moglie di Ben Ali è fuggita con un tonnellata e mezza di oro, chissà la famiglia Gheddafi - la quale si vanta di azioni caritatevoli in
zionaria, ma precaria. La Libia potrebbe essere destinata a una simile impasse. Nel frattempo, l’intera area resta in bilico fra un futuro di democrazia e la deriva fondamentalista. La via turca, quella iraniana e i tentativi di al-Qaeda di accaparrarsi la paternità della rivoluzione dei gelsomini
La data è stata scelta in ricordo delle vittime dell’Intifada scoppiata a Bengasi nel 2006, quando la rivolta contro la pubblicazione delle vignette su Maometto degenerarono in proteste anti-regime appoggio a Mubarak - con quali ricchezze potrebbe abbandonare Tripoli. Altrettanto plausibile è il rischio che la capitale libica si trasformi, come Il Cairo, in un fronte di scontri cittadini, di cui non si prevedono ancora le evoluzioni. Il colonnello può sfoderare le stesse capacità di resistenza e di attaccamento al potere che, in questi giorni, sta mostrando Mubarak. Questo significherebbe attendersi il terso Paese del Nordafrica afflitto da drammatici casi di violenza. In ultima istanza, alla Libia potrebbe spettare un destino simile a quello dell’Algeria. Vale a dire, dopo i primi segnali di deflagrazione, il regime tornerebbe ad avere il controllo delle piazze. Se l’esempio di Gheddafi è Abdellaziz Bouteflika, tuttavia, va detto che nemmeno quest’ultimo può sostenere di aver retto all’impeto della folla. Anzi, la salute dell’Algeria è sta-
sono tre ipotesi di cui non si può ancora definire quale sarà la più probabile.
L’Egitto, in particolare, rappresenta il punto di riferimento per tutti. Sia per i manifestanti dei singoli Paesi, sia per i governi che ancora non hanno pagato il prezzo delle rivolte. E’ il caso della Libia appunto. Del resto, è l’intera comunità internazionale a tenere gli osservatori con il fiato sospeso. La caduta di Mubarak, soft o irruente che sia, cambierà gli scenari di tutto il Medioriente. Lo stesso si potrebbe dire di Gheddafi. Ma parlare del suo destino, come di un satrapo in fuga, è ancora prematuro. Resta solo una certezza: la regione non sarà più quella di appena due mesi fa. Spaventa quindi che il mondo occidentale non stia predendo una posizione in merito, con l’obiettivo di approcciarsi al nuovo Medioriente.
nale, ci troviamo la difficile situazione sudanese, con un regime ostile al nord e una freschissima secessione al sud, poi un altro regime ostile come quello eritreo, per arrivare alla situazione somala, un’instabilità permanente che non offre nessuna garanzia. E visto che parliamo di mare, forse è il caso di ricordare i danni giganteschi (e di nuovo crescenti) che la pirateria somala sta arrecando alle rotte commerciali nel Golfo di Aden. Golfo sulla cui altra sponda troviamo lo Yemen, sulla cui situazione critica si è già detto, mentre se andiamo ancora a est troviamo l’Iran con la sua questione nucleare, e poi il Pakistan, sempre sull’orlo della guerra civile.
Questo percorso a ritroso dai nostri porti all’Asia dovrebbe farci capire come il contesto geopolitico sia quanto meno molto pericoloso per il traffico marittimo, con conseguenze dirette sulla vita di tutti noi. Nell’immediato un aumento dei rischi per le navi vuol dire aumento dei costi. Ma alla lunga il pericolo è molto più grave. Qualcosa che fa tornare alla mente la svolta epocale - e per noi drammatica - della scoperta dell’America. Esistono altre vie per portare merci da Oriente a Occidente? E soprattutto esistono altri mercati interessanti? Purtroppo la risposta in entrambi i casi è sì. Quanto può essere interessante un mercato mediterraneo fatto di Paesi in crisi economica e instabilità politica e sociale? Non è difficile rispondere. Allora l’unico mercato trainante potrebbe essere quello europeo, segnatamente nord-europeo, e il Mediterraneo avrebbe almeno il vantaggio di essere il punto di passaggio. Ma se passare costa così caro, chi dice che ad esempio le merci dalla Cina non possano fare un altro percorso?
Esistono altre vie per portare merci da Oriente a Occidente? E soprattutto esistono altri mercati interessanti? Purtroppo sì
E lo Yemen ci porta a una riflessione geopolitica più ampia, che dovrebbe spingere l’Italia a prendere coscienza di quanto sia grande la parte di interesse nazionale in gioco in questi giorni. Se infatti ci focalizziamo sul Mediterraneo (ricordando i disordini che continuano in Grecia, e le crisi economiche in Spagna e Italia) vediamo come tutte le sponde vivano un momento di crisi davvero profondo e intenso. Una crisi che però rischia di essere ulteriormente e pesantemente aggravata da ciò che sta intorno al Mediterraneo. Se allarghiamo la visuale ci rendiamo infatti conto che l’Egitto è importante di per sé, ma è per noi decisivo anche e soprattutto per il Canale di Suez, attraverso cui transita gran parte del commercio mondiale, ovviamente tutto quello destinato all’Europa. Petrolio dal Golfo, merci dalla Cina e dintorni, materie prime dall’Africa. E se seguiamo le rotte che conducono fino al Ca-
Senza arrivare al punto di ricordare che lo scioglimento dei Poli aprirà nuove rotte vantaggiose, già oggi si può vedere un’alternativa attraverso il Pacifico (già fulcro degli interessi sino-americani che già stanno marginalizzando l’Europa) verso il Canale di Panama, in modo da toccare i mercati nord - e sud-americani per poi proseguire verso gli hub portuali del Marocco e soprattutto di Londra e Rotterdam. Riducendo il Mediterraneo a un lago di provincia. Forse l’Italia dovrebbe fare qualcosa per riportare lo sviluppo nel Mare Nostrum, prima che sia troppo tardi.
quadrante
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Pakistan, si dimette tutto il governo
Cina, schizza il prezzo del denaro
Oman, i pirati attaccano ancora
ISLAMABAD. Il governo federale del Pakistan si è dimesso ieri in blocco per consentire al primo ministro Yusuf Raza Gilani di dare vita a un nuovo gabinetto che conti un organico più ridotto, e permetta così un taglio proporzionale della relativa spesa pubblica. Gilani ha così ceduto alle pressioni delle forze di opposizione, che da tempo reclamavano un forte ridimensionamento dell’esecutivo; anche se da più parti la sua iniziativa è stata subito liquidata come una mera mossa tattica di facciata. «In quest’epoca di crisi economica occorre un gabinetto più ristretto», ha sottolineato nel dare l’annuncio Farahnaz Isphahani, portavoce del Partito Popolare del Pakistan guidato da Gilani ed “ereditato”da Benazir Bhutto.
PECHINO. Lo yuan sfiora il cam-
MUSQAT. All’indomani del se-
bio record sul dollaro da 17 anni, dopo che la centrale Banca di Cina (Boc) ha aumentato i tassi di interesse bancario per la terza volta in 4 mesi. Pechino cerca di contenere la rapida inflazione, ma sempre più esperti ritengono insufficiente il solo aumento del costo del denaro e indicano che occorre apprezzare la valuta cinese. Alla Borsa di Shanghai ieri lo yuan è stato scambiato a 6,5824 per dollaro, poco più del record di 6,5808 del 21 gennaio, massimo livello da quando alla fine del 1993 Pechino ha unificato il tasso di scambio ufficiale e quello “di mercato”. In un anno lo yuan si è apprezzato del 3,84% sul dollaro, ma tutti lo ritengono ancora molto sottostimato.
questro in pieno Oceano Indiano della petroliera italiana “Savina Caylin”, i pirati somali si sono impadroniti di un’altra nave mercantile, una preda ancora più ambita: si tratta infatti della super-petroliera greca “Irene Sl”, abbordata dai predoni al largo delle coste del sultanato dell’Oman, quindi a una distanza maggiore dal Corno d’Africa rispetto all’isola yemenita di Soqotra, dove era stata attaccata la “Savina Caylin”. L’arrembaggio è stato confermato dall’armatore, la compagnia greca Enesel con sede al Pireo. La nave era salpata dal Kuwait con destinazione Golfo del Messico. A bordo si trovano 25 uomini di equipaggio e 270.265 tonnellate di greggio. Un boccone ghiotto.
Il crollo del Sol Levante - fino a oggi terza economia mondiale - coinvolge non soltanto l’area asiatica ma tutto l’Occidente
L’insostenibile pesantezza del debito L’Fmi bacchetta il Giappone, che “vanta” conti pubblici in profondo rosso di Gianfranco Polillo
Il crollo ha origini lontane, sin da quando (erano gli anni ’70) l’Impero produceva a basso costo prodotti elettronici che invasero il mondo. Messe in cantina le riforme per “non cambiare la squadra che vince”, il governo deve oggi fare i conti con un debito pubblico pari al 204 per cento del Pil e con una natalità a tasso zero
nsostenibili. Questo il giudizio duro e lapidario del Fmi sul debito pubblico giapponese. «Il livello del debito e il deficit di bilancio sono insostenibili nel medio termine e il governo deve agire con un piano di misure di contenimento». È l’avvertimento del vice direttore generale del Fondo monetario internazionale, Naoyuki Shinohara, che ha parlato a una conferenza a Tokyo. Shinohara - secondo quanto riferisce Bloomberg - ha sottolineato che «se persisterà la situazione attuale del bilancio, si verificheranno di sicuro dei problemi» auspicando che nel Paese si raggiunga «al più presto un accordo su un piano di consolidamento del bilancio». L’esponente del Fmi ha anche avvertito che le banche giapponesi devono rafforzare ulteriormente il patrimonio e gli accantonamenti ricorrendo principalmente ad aumenti di capitale, per centrare gli standard internazionali. È il secondo avvertimento. Mentre il premier giapponese Naoto Kan stava mettendo piede sull’aereo che lo avrebbe portato al vertice di Davos, di qualche giorno fa, la prima brutta notizia aveva contribuito a rovinargli un viaggio: di per sé lungo e massacrante.
I
Il rating sul debito del Paese (204 per cento del Pil) scendeva, per Standard & Poor’s, da AA a AA-: un piccolo colpo che il nuovo responsabile economico (Kaoru Yosano) aveva accettato con filosofia, forte del fatto che i relativi titoli, per circa il 90 per cento, sono nella mani sicure dei residenti. Oggi Moody’s corregge, seppure parzialmente, il tiro. Non ci saranno azioni sul rating sovrano del Giappone ma una conferma della precedente valutazione di ’Aa2’ con prospettive stabili. Come ha detto il vice presidente senior di Moody’s, Thomas Byrne, ricordando che uno degli aspetti di forza del Giappone sta nel fatto la maggior parte del debito è detenuto da investitori giapponesi, cosicché il grado di affidabilità creditizia è paragonabile a quello dei Paesi che vantano rating
più alti. Byrne ha tuttavia sottolineato che qualora il governo di Tokyo non riesca a migliorare la situazione di bilancio del Paese, potrebbero aumentare i rischi di un downgrade del rating. Pur edulcorando la formula, le preoccupazioni sulla tenuta del debito degli Stati sovrani continua a serpeggiare. Questo spiega perché, anche in Europa e negli Stati Uniti, si guardi con grande apprensione a quanto può ancora succedere. Barack Obama, nel suo abile discorso sulla Stato dell’Unione si è dimostrato essere un grande navigatore. È riuscito ad accontentare tutti: i repubblicani che reclamano meno Stato e meno tasse, e i democratici più inclini ad atteggiamenti compassionevoli a carico
delle pubbliche finanze. Ma se la situazione dovesse precipitare non sarà certo l’abilità dialettica a ritardare scelte dolorose. In Europa si aspettano le idi di marzo, quando si riunirà il plenum dei Capi di stato. Finora è stato solo un chiacchiericcio. Ma sotto la cenere cova il fuoco alimentato dall’intransigenza di Angela Merkel, alla testa di un gruppetto di Paesi virtuosi (poco debito, ma anche poco peso specifico) e il sostegno della Francia che deve farsi perdonare più di un peccato, visto che - secondo le previsioni della Commissione europea il suo debito pubblico, in assenza di correttivi, nel 2020 sarà pari al 100 per cento del Pil. Pari e patta con quello italiano; ma con una differenza di non poco
conto. Mentre quello italiano sembra essere destinato, seppur di poco, a scendere; quello francese cresce a ritmi preoccupanti. Un fantasma che turba i sonni dell’inquilino dell’Eliseo. Finora i mercati l’hanno risparmiato, attribuendogli uno spread ben più basso di quello italiano. Ma del “diman” com’è noto “non c’è certezza”. Ecco allora l’ansia con cui si guarda al lontano Oriente. Se traballa il Giappone che sarà della vecchia e cara Europa? Angela Merkel non vuole rischiare e batte il pugno sul tavolo: rigore, rigore, rigore. Anche a costo di strangolare quel barlume di ripresa che s’intravede all’orizzonte. Un dato, tuttavia, sconcerta. Com’è potuto accadere? Alla fine degli anni ’70, il Giappone era sulla
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Usa, bocciata per 7 voti la proroga del Patrioct Act di Bush WASHINGTON. La Camera dei rappresentanti Usa ha bloccato un progetto di proroga a breve termine del Patriot Act, la legislazione antiterrorista varata dall’amministrazione di George W. Bush dopo gli attentati dell’11 settembre. La legge, fortemente controversa a causa dei poteri eccezionali dati alle forze di sicurezza, scade a fine febbraio e la Casa Bianca voleva prorogarla fino al 2013. La Camera aveva invece presentato un progetto di proroga più breve, fino a dicembre di quest’anno, ma neppure questo è riuscito a passare, bocciato per appena 7 voti, con 277 a favore e 148 contrari - il voto era a maggioranza qualificata dei due terzi. Ora il dibattito (che si sposterà al Senato dove i membri del Gop sono in minoranza) si annuncia complesso e difficile. In gioco ci sono tre misure cruciali per la sicurezza: la “sorveglianza mobile” delle comunicazioni dei sospetti con l’uso di linee telefoniche multiple, il principio del
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
“lupo solitario”, che consente indagini su persone che sembrino condurre attività di terrorismo da sole, e il potere degli inquirenti di accedere a “tutti i dati tangibili” relativi un sospetto, ad esempio la posta elettronica. Il segretario alla Giustizia Eric Holder e il direttore dei servizi Eric Clapper lo scorso 28 gennaio avevano scritto ai parlamentari chiedendo di rinnovare le tre misure e sconsigliando proroghe e a breve termine.
Da sinistra il ministro delle Finanze Kaieda, il presidente dell’Fmi StraussKhan, e il premier nipponico Kan
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
cresta dell’onda. La sua economia cresceva a ritmi vertiginosi. Un miracolo che sconcertava e preoccupava al punto che un grande storico dell’economia, Charles Kindleberger, ne aveva pronosticato il trionfo. Sull’altra sponda del Pacifico, gli Usa erano abulici. Colpiti da un’inflazione che ne sfibrava le membra, sembravano aver gettato la spugna per rassegnarsi all’inevitabile declino. A favore del suo diretto concorrente giocavano troppi fattori: un forte attivo della bilancia dei pagamenti, che si traduceva in un risparmio diffuso; una finanza aggressiva, continuamente a caccia di assets da acquistare sui mercati internazionali; un mercato interno fin troppo chiuso che rifiutava di acquistare qualsiasi cosa che non fosse “made in Japan”. E poi la conquista del Far East. Investimenti diretti nella grande periferia indocinese, dove produrre gli stessi prodotti - soprattutto elettronici a prezzo e qualità inferiore, ma capace di invadere il resto del mondo.
Fu poi la volta delle automobili. Settore in cui l’Occidente vantava una tradizione e una superiorità tecnologica che sembrava non potesse mai tramontare. I giapponesi sono stati abili nell’imparare. Ma poi non si sono fermati. Acquisite le fondamentali basi tecnologiche hanno rivoltato, come un guanto, la vecchia organizzazione fordista. Non più catene di montaggio rigide ed ingombranti.
Nel prossimo triennio il saldo attivo della bilancia dei pagamenti sarà ancora superiore al 3,6 per cento del Pil nipponico Inarrestabili anche durante le cattive congiunture, quando i piazzali di Mirafiore - tanto per fare un esempio - si riempivano di automobili invendute. Ma la segmentazione del processo produttivo in tante isole autonome, fondate sulla più diretta partecipazione degli operai al processo produttivo. Quindi le tecniche del just in time. Un sincronismo che consentiva di produrre, in tempo reale, secondo le esigenze del mercato: senza inutili immobilizzi di scorte e di capitale; senza sprechi di materiale. Ed ecco allora quel miracolo industriale che, nonostante, il downgrade del rating sul debito non si è arrestato. Nel prossimo triennio (stime Ue) il saldo attivo della bilancia dei pagamenti, nonostante la forza dello yen, sarà ancora superiore al 3,6 per cento del Pil. Ed allora dov’è la crisi?
Come a volte capita, i peggiori nemici del giapponesi sono stati i giapponesi stessi. Negli anni del grande boom, le riforme sono state messe in frigorifero.
L’eccesso di risparmio, derivante dal surplus della bilancia dei pagamenti e da consumi contenuti da una tradizione secolare, si è riversato sugli immobili. I prezzi delle abitazioni sono schizzati verso l’alto, spiazzando qualsiasi altro tipo d’investimento. Chi voleva guadagnare facilmente acquistava una casa per poi rivenderla, subito dopo, a un prezzo superiore. Il sasso che determina la valanga. La grande “bolla speculativa” scoppiò agli inizi degli anni ’90, determinando il crollo di quel castello di carta che, nel frattempo, si era edificato. Da allora il Giappone non si è più ripreso, nonostante il forte intervento dello Stato. Per combattere il male oscuro della deflazione non è servito dilatare il deficit di bilancio, nella speranza di sostenere la domanda interna. Né ha potuto una politica monetaria: fatta d’interessi talmente bassi da risultare negativi. I più furbi s’indebitavano in yen per acquistare titoli di Stato americani e quindi lucrare sulla differenza dei tassi d’interesse. Intanto il debito pubblico aumentava, mentre l’invecchiamento della popolazione rendeva vana ogni possibile terapia. Oggi siamo a un giro di boa. Riguarda il Giappone, ma in prospettiva coinvolge tutto l’Occidente.
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cultura
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Qualche riflessione in margine a una mostra sul Pci che sorvola sul confronto tra il partito e la Chiesa, a partire dal celebre messaggio al vescovo di Ivrea nel 1977
La “Lettera” dimenticata Al Pd il dialogo con i cattolici non interessa più: su questa strada, anche l’eredità di Enrico Berlinguer è stata cancellata di Giovanni Gennari i recente i vescovi italiani hanno parlato di «catastrofe antropologica». La catastrofe o, meglio, come vedremo,“le”catastrofi riguardano il modo di vedere il mondo e la vita. Nel caso dell’ultimo intervento si trattava direttamente – ben al di là di persone e comportamenti individuali – di ciò che talora è chiamato “berlusconismo”, a indicare una visione del tutto incompatibile con una visione cristiana e cattolica. Ebbene: come proverò a chiarire, mi pare che oggi la cosa valga anche per l’attuale opposizione.
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La mia vita mi ha portato ad essere vicino a tanti cattolici impegnati con la Sinistra. Ho stimato e sono stato vicino, fin dagli anni Settanta, a molti cattolici militanti nell’allora Pci, che tenevano con chiarezza fedele alla realtà della loro fede e insieme cercavano di cambiare l’atteggiamento della politica verso Chiesa e fede. Tra essi in primo piano Franco Rodano, cattolico di totale ortodossia, pensatore politico e fondatore dei “Cattolici comunisti” negli anni Quaranta. Vicino a lui era Antonio Tatò, segretario particolare di Enrico Berlinguer. Essi furono all’origine teorica e politica del tentativo del Compromesso Storico proposto da Enrico Berlinguer, pensato negli anni Settanta per un incontro tra “il meglio” della tradizione operaia italiana e “il meglio”del cattolicesimo democratico. Fu centrale in questo tentativo la “Lettera”di Berlinguer a monsignor Bettazzi vescovo di Ivrea (1977) con la dichiarazione impegnativa – del tutto nuova rispetto a Gramsci e Togliatti – del superamento dell’ateismo filosofico e dell’antireligione, che allora portò anche al cambiamento esplicito degli Statuti del Pci, in vista di «un partito e uno Stato non teista, non ateista, non antiteista»: fu cancellato
l’obbligo dell’accettazione della visione filosofica ed atea del marxleninismo.
Quella “Lettera” io la vidi personalmente nascere a poco a poco, riga per riga, sul tavolo del segretario di Enrico Berlinguer. Allora, nelle liste dei candidati ed eletti di quel Pci entrarono come indipendenti cattolici autentici come Mario Gozzini e Piero Pratesi, con possibilità di dialogo e orientamento alla pari degli altri eletti e militanti, e lasciarono il segno personale anche in leggi dello Stato di grande peso: penso alla legge sulle carceri, ma anche alla 194, che non fu affermazione di principio per un diritto d’aborto, ma dichiaratamente anche «per la tutela della maternità» e per la prevenzione della decisione abortiva. Poi si sa: tra il dire e il fare c’è stato in mezzo il mare dell’ideologia laicista da una parte, ma anche di resistenze da parte detta
univocamente “cattolica”. Tutto ciò purtroppo ha impedito, fino ad oggi, di mettere in opera condivisa la parte della legge davvero preventiva…
Ebbene: tra i militanti di quel Pci, in quegli anni tra il 1975 e il 1984, accadde un fatto di cui so-
no stato a lungo testimone: moltissimi ripresero la pratica cristiana, la frequenza ai sacramenti con immediata Confessione e Comunione, e ci fu grande possibilità di andare a parlare di Gesù e della Sua Chiesa a grandi folle di militanti. Tra i tanti miei ricordi un’assemblea a San Polo d’Enza,
presso Reggio Emilia, in cui lo stesso Tatò volle che parlassi di Cristo e del Vangelo a migliaia di persone nella grande piazza gremita. Un altro, molto toccante, fu nei pressi del Monte Amiata, a Montelaterone: invitato da amici romani andai lì a passare alcuni giorni, e al mat-
tino della domenica il parroco si trovò, quasi spaventato – me lo disse quando prima della Messa dette un’occhiata dalla porta della sagrestia – «la chiesa piena di comunisti!». Ricordo anche bellissimi incontri in Veneto, per esempio a Riese Pio X, dove la Dc aveva allora il 90% dei voti. Dicevo alla gente che se si votava Dc perché ci si sentiva più tutelati e più vicini ai programmi di quel partito era giusto così, ma se si votava Dc solo perché si era credenti e cattolici, allora occorreva un chiarimento di dottrina sociale cristiana. Nota simpatica: il parroco del posto per disturbare il “comizio”, che tale non era, fece suonare le campane… E i ricordi potrebbero moltiplicarsi: a Torino un incontro nello stesso giorno in cui ci fu l’incendio del cinema Statuto, con la presenza di Piero Fassino e Giampaolo Pansa... Sempre nella primavera di quel 1978 la rivista Donne e politica, delle donne dell’Udi, mi chiese un saggio su «Donna e Messaggio Cristiano», che poi fu discusso in tantissimi incontri… A Botteghe Oscure i portieri che facevano l’esame del sangue a tutti quelli che entravano, a me davano un cenno del capo per farmi salire senz’altro al piano del Segretario. Ero lì per lavorare in positivo: questa almeno la mia intenzione, con qualche frutto, allora.Tra l’altro capitava, al mattino, un giovanotto che portava la mazzetta dei giornali a Tonino Tatò: si chiamava Walter Veltroni…
Accolto con entusiasmo da tanta povera gente della base, quel cambiamento culturale di grande rilievo – fino allora da Marx a Gramsci e allo stesso Togliatti la religione era considerata qualcosa da combattere, magari dialogando per cono-
Franco Rodano, Mario Gozzini e Piero Pratesi: tutti esclusi dalla celebrazione in stile “mausoleo” scerla, ma sempre per poi superarla, come insegna Togliatti nel suo ultimo scritto, il Memoriale di Yalta – fece sì, certo anche con altre realtà, che fino alla morte di Berlinguer quel Pci ebbe il massimo di consensi elettorali e giunse a sfiorare sul piano nazionale i consensi della Dc. Sappiamo che poi quel tentativo, detto appunto Compromesso Storico, fallì, prima con l’uccisione di Aldo Moro, poi con la morte dello stesso Berlinguer. Ecco il punto. Da allora sul tema dei rapporti con la realtà di cattolici e Chiesa il Pci prima, poi Pds e Ds e ora il Pd hanno fatto solo passi indietro: pur con qualche tentativo di ripresa poi fallito. E così si è tornati ad una vera contrapposizione ideale e culturale di principio al patrimonio cristiano e cattolico. Vero che oggi, fi-
cultura
10 febbraio 2011 • pagina 15
Qui accanto, una visione d’insieme della mostra sulla storia del Pci, ospitata a Roma dalla Casa dell’Architettura. La mostra ora si è trasferita a Livorno. Sopra, Enrico Berlinguer e Aldo Moro: artefici dell’incontro storico tra movimento operaio e cattolicesimo sociale negli anni Settanta. Sotto, una storica sezione del PC d’I. Nella pagina a fronte, Palmiro Togliatti e una tessera comunista del 1947
nita la Dc, e cambiate molte cose non solo in Italia, ma anche nella Chiesa, con due pontificati di portata mondiale, cattolici dichiarati sono nel Pd anche in apparenti posizioni di vertice, ma la realtà quotidiana ci dice purtroppo che quando si tratta di punti in cui la coscienza cristiana e cattolica ha le sue imprescindibili esigenze la loro posizione – se dichiarata, e ciò non accade sempre – è marginale di fronte a quella che il Partito come tale, tutti i suoi giornali e i suoi veri leader affermano come unitaria e in fin dei conti d’obbligo.
Cosa di questi tempi: i cosiddetti “principi non negoziabili” affermati nella dottrina della Chiesa cattolica sono sempre visti come prepotenza e interferenza, violazioni di una “laicità” curiosamente intesa come comunque opposta a ciò che affermano quei principi. «Non teista, non antiteista, non antiteista»? No, purtroppo: in tema di vita nascente e morente, famiglia, matrimonio ecc. non si vuole solo l’eventuale superamento doveroso di limiti ai diritti delle persone, ma si preten-
de che sia vera “famiglia”anche qualsiasi scelta di convivenza, etero o omo, con tutti i diritti e nessun dovere pubblico del matrimonio, e che la vera e propria eutanasia diventi legge dello Stato. E questa – cosa proprio di questi giorni – si propone che sia la posizione ufficiale e “unica” del Pd. La Chiesa e i cattolici che osano manifestare opinioni diverse sono accusati di interferenze e pretese imposizioni di valori. Non basta: poiché finora non si riesce ad ottenere che il Parlamento esaudisca queste pretese, cattolici e Chiesa si accusano come tali: dovrebbero solo tacere… E ciò accade nelle trasmissioni in tv, in tutti i giornali e su tutti i punti caldi della discussione culturale ed etica.
Una visione esagerata, la mia? Purtroppo no. Per me l’ultima prova provata è molto recente. Ecco: a Roma è appena terminata una grande Mostra, ora itinerante in altre città, attualmente a Livorno, che ripercorre la storia del Pci e delle sue successive modificazioni nella sua storia quasi centenaria. Non discuto qui l’aspetto da mausoleo
rosso funerario, tipo culto della salma di Lenin rievocato da tutta l’ambientazione, ma il 25 gennaio scorso c’era un dibattito su «Pci e Questione cattolica». Con Marisa Rodano – vedova di Franco Rodano, che sul tema avrebbe avuto davvero qualcosa di importante da dire – c’erano Emanuele Macaluso, Carlo Baccetti, Pierluigi Castagnetti e l’amico teologo Don Giuseppe Ruggieri. Ero presente tra il pubblico, circa un centinaio di persone, con molti anziani. Ebbene: si è parlato tanto di Gramsci e Togliatti, quasi niente di Berlinguer e sulla sua proposta di dialogo e apertura a Chiesa e fede, e alla fine Macaluso ha concluso con assoluta chiarezza - dal suo punto di vista - ribadendo ciò che egli personalmente ha sempre pensato, cioè che tra cattolici e autentica sinistra non è possibile vera convivenza politica alla pari. Don Ruggieri dal canto proprio ha ricordato i dialoghi tra Togliatti, Dossetti, poi prete, Lercaro e Don Giuseppe De Luca. E Berlinguer e la “Lettera” a Bettazzi e la sua vera apertura alla presenza alla pari anche di credenti? Niente, salvo alcuni accenni finali di Castagnetti, subito neutralizzati in conclusione proprio dalla sentenza di Macaluso. Avevo chiesto di poter dire qualcosa. Niente! Vietato a tutti ogni intervento non preventivato.
Dal mio piccolo e personale punto di vista vuol dire che la catastrofe antropologica lamentata dai nostri vescovi è doppia: riguarda sì il berlusconismo – per me ovviamente – ma anche l’attuale sinistra, come si constata ogni giorno di più. Ho letto negli ultimi giorni anche la delusione di Andrea Riccardi, che conosce storia della Chiesa e della politica, non certo un clericale che ha paura del dialogo…Ha proprio ragione la Cei a chiedere l’avvento di nuove generazioni di laici cattolici impegnati anche nella politica, forma eccellente di servizio al bene comune, come insegnò Paolo VI e Giovanni Paolo II ebbe a ripetere tra l’altro in una sua celebre visita in Sardegna. È la realtà attuale che le chiede. Se non ora e subito, quando?
ULTIMAPAGINA Amaro record per Bruxelles, da 210 giorni senza governo. La più lunga crisi politica nella storia della Ue
Il Belgio alla ricerca di un di Martha Nunziata elle ultime settimane, in Belgio, la parola più usata è stata shame, vergogna. Vocabolo forte, fortissimo, soprattutto quando, come in questo caso, il suo utilizzo va di pari passo con le riflessioni sulla vita politica del paese. Sono passati otto mesi, infatti, da quando, dopo le ultime elezioni, il Belgio è sprofondato in una crisi politica senza eguali, senza precedenti e, a quanto sembra, anche senza soluzioni. Persino la seconda manifestazione di piazza più frequentata nella storia del Belgio (la più grande resta quella del 1996, quando 300mila persone sfilarono, completamente vestite di bianco, per manifestare contro il pedofilo Marc Dutroux, il “mostro di Marcinelle”), che il 24 gennaio aveva portato in piazza 50mila cittadini a protestare per la paralisi politica che da 210 giorni blocca il paese, non ha sortito alcun effetto. A giugno le urne premiarono con la maggioranza il partito indipendentista fiammingo, ma le divisioni culturali di un intero sistema (quella tra fiamminghi e valloni è solo la più nota) non hanno, ad oggi, ancora consentito la formazione di un governo. Troppe le parti in causa (i partiti coinvolti nel “girotondo”, come gli analisti, più per disperazione che per divertimento, hanno cominciato a definirlo sono sette), per trovare un accordo in tempi brevi. Tutta colpa delle scissioni.
N
PREMIER
La frontiera linguistica, fissata nel 1963 tra le Fiandre e la Vallonia, più che la divisione in due di un paese, è uno spartiacque tra due paesi distinti: è diversa e fonte di continui con- dell’impasse, visto che il re aspetta il suo raptrasti la lingua, sono diversi i giornali e le tele- porto per il 16 febbraio. Il futuro del Paese, invisioni, diverse le economie, con le ricche tanto, è a un passaggio cruciale, anche da punFiandre sempre più insofferenti, soprattutto to di vista sociale. Dall’inizio dell’anno, infatti, negli ultimi tempi, dei cospicui trasferimenti con l’acuirsi della crisi politica, si sta verifidi denaro alla Vallonia. E sono distinti anche i cando un fenomeno senza precedenti: gli uffisistemi dei partiti: a nord si votano gli espo- ci comunali, soprattutto al sud, sono invasi da nenti fiamminghi, a sud quelli valloni. Almeno fino a otto mesi fa. Una situazione paradossale, per il paese che ospita la capitale dell’Unione europea (sempre più preoccupata, tra l’altro, della mancata soluzione della crisi). Un’impasse che sta mettendo in seria difficoltà anuna vera e propria valanga che lo stesso sovrano, Alberto di richieste per ottenere la II, che ha incaricato Didier cittadinanza del vicino Reynders di verificare la possiLussemburgo. bilità della creazione di un eseLe domande già presentate cutivo. Reynders è il settimo dalla fine del 2010 sono politico, in ordine di tempo, ad centinaia. Un boom senza aver ricevuto l’incarico, dopo precedenti. Ma potrebbero Bart De Wever, Elio Di Rupo, presto diventare migliaia, Danny Pieters e André come sottolinea la stampa Flahaut, di nuovo De Wever, e belga, i cittadini interessati Johan Vande la Notte. ad avviare le pratiche. Del Reynders non è esponente di resto, il requisito richiesto nessuno dei sette partiti, è un dalla nuova legge sulla citliberale, e questo, secondo altadinanza, in vigore nel cuni osservatori, potrebbe alteGranducato di Lussemburrare gli equilibri e portare un go dal 2009, è uno solo: propo’ di sano scompiglio al tavolo vare di avere una discendelle negoziazioni. Ha però podenza lussemburghese. E chi giorni per verificare «l’esiun antenato nel Granducastenza di una volontà politica» to, nel sud-est del Belgio, è tra i sette partiti protagonisti cosa molto diffusa, vista la Sopra, Alberto II, re del Belgio e Didier Reynders. In alto, un quadro di Magritte
massiccia immigrazione dal Lussemburgo avvenuta nel XIX secolo.
Una crisi politica, quella di Bruxelles, che rischia di investire anche i programmi economici dell’intera Unione Europea, con ripercussioni impossibili da immaginare. Se n’è occupato, recentemente, anche l’Economist. «Il mondo non presta molta attenzione al Belgio - ha scritto il settimanale britannico - Potrebbe tuttavia doversene interessare un po’. Con una crisi che si perpetua, la scissione del Belgio sembra meno impensabile adesso rispetto a prima. Ed i suoi effetti si farebbero sentire molto al di la’ del mondo immaginario di Tintin e degli uomini con il cappello di Magritte». L’Economist, poi, azzarda anche un parallelo tra «la lenta dissoluzione» del Belgio, «il più europeo dei Paesi, e la progressiva (e accidentata) integrazione dell’Unione Europea. Le divisioni belghe fanno da contraltare alle divisioni nell’Ue tra un nord frugale e germanico ed un sud latino dipendente dai sussidi». Ma esiste davvero il rischio scissione del Belgio? È il momento di negoziare un divorzio? «Meglio di no, sarebbe una scelta pericolosa», come ha sottolineato Bart de Wever, il leader del partito nazionalista fiammingo, N-Va, in un’intervista al quotidiano belga La Libre Belgique. «Si perderebbe la prosperità - ha detto de Wever, se ci si lanciasse in un’avventura che nessuno sa come finirebbe».
Dalle elezioni del 13 giugno sette persone hanno ricevuto dal re l’ingrato compito di provare a sbloccare l’impasse politica nel Paese. Ora ci prova Reynders