mobydick
ISSN 1827-8817
10212
ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 12 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Fini apre il congresso di Fli: «Il Pdl è ostaggio della Lega. Gettiamo un seme per la primavera italiana»
Non se ne può più. Votiamo Napolitano al premier: «Le garanzie stanno nella Costituzione» Teso faccia a faccia tra il Capo dello Stato e il Cavaliere ma ormai è chiaro, il Paese soffoca nelle guerre istituzionali. Ci vorrebbe un governo di emergenza: ma è evidente che lo si può ottenere solo con le elezioni I MOTIVI PER ANDARE ALLE URNE MODERATI UNITI AL VOTO 1 I MOTIVI PER ANDARE ALLE URNE 2 Serve stabilità: La via giudiziaria La nuova manovra ma ormai non è risolutiva: non la può fare di stabile c’è meglio che Berlusconi solo lo scontro decida il popolo di Enrico Cisnetto
di Franco Insardà
di Riccardo Paradisi
Se c’è qualcosa che unisce maggioranza e opposizione, imprese e forze sociali, è la richiesta di stabilità. a pagina 3
C’è stato un momento in cui era possibile immaginare una via d’uscita all’impasse diversa dalle elezioni. a pagina 3
ra basta, la corda si è rotta. Il caos politico e il conflitto istituzionale hanno creato un tale cortocircuito (la definizione è presa a prestito dall’amico Stefano Folli) che a questo punto rende non solo inevitabile, ma opportuno, lo sbocco elettorale. Sia il presidente della Repubblica a decidere il come e il quando, ma si dica chiaramente, qui e ora, che – purtroppo – non resta altro da fare. Purtroppo, perché è fin troppo evidente che di tutto meno che di una campagna elettorale ha bisogno un paese in declino strutturale e per di più alle prese con la necessità di ulteriore interventi di risanamento della finanza pubblica – ce li chiederà l’Europa, già a marzo o aprile – con l’urgenza di sostenere un’uscita dalla recessione ancora fragile e comunque di tono minore rispetto a Eurolandia. segue a pagina 5
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Ferrara e Cicchitto paragonano il Cavaliere al leader socialista: è così?
Macché Craxi, al massimo Craxariello Ve lo immaginate il premier andare in Parlamento e dire (come Craxi ai tempi di Tangentopoli): «Ho fatto quello che fanno tutti»? Susciterebbe solo grandi risate. Ecco la differenza fra la tragedia di ieri e la farsa di oggi Giancristiano Desiderio • pagina 4
Il Faraone si rifugia a Sharm. Soddisfazione in tutto l’Occidente: «Giorno storico»
Mubarak cede, il potere ai militari Festa grande in piazza Tahrir. Finisce un impero lungo 30 anni
Via il raìs: ha ragione Obama? Secondo Michael Ledeen, la realpolitik impone a volte di aiutare anche i dittatori. Una transizione graduale sarebbe l’unico modo per ottenere, senza turbolenze, le riforme di cui il popolo ha bisogno
Osvaldo Baldacci risponde: ma non siete stati voi neocon a proporre a Bush la teoria della democrazia globale? Essere realisti va bene, ma a volte è più utile lottare in nome di valori superiori
alle pagine 28 e 29 seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
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di Luisa Arezzo n impero lungo trent’anni è finito in un caos di dichiarazioni e smentite. Finché ieri pomeriggio il vicepresidente Suleyamn ha confermato: «Mubarak si è dimesso e si è rifugiato a Sharm. I poteri passano all’esercito». A piazza Tahrir, teatro della protesta al Cairo per diciotto giorni, un milione di persone hanno urlato di gioia. Anche l’Occidente applaude: «Giorno storico», dicono gli Usa. a pagina 26
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
prima pagina
pagina 2 • 12 febbraio 2011
il fatto Un’altra giornata si tensioni tra le istituzioni. I pm: «Entro dieci giorni chiusa l’inchiesta su Minetti e Fede»
Il processo di Napolitano Più di un’ora di colloquio tra Berlusconi e il presidente. «Basta strappi sulla giustizia», aveva ammonito il Quirinale: «Le garanzie sono già nella Costituzione». Ma a Milano, sit-in del Pdl davanti al Palazzo di Giustizia di Errico Novi
ROMA. Il muro dove si va a sbattere? Eccolo, si materializza a Milano, molte ore prima dell’incontro tra Berlusconi e Napolitano, davanti al Palazzo di giustizia: circa 200 fan del Cavaliere attrezzati con cartelli e arringati dalla Santanchè che si fronteggiano con un gruppetto più sparuto di antiberlusconiani, guidati da Pietro Ricca. Peggio, in realtà, della profezia morettiana: non un manipolo di esagitati che inveisce contro i giudici ma due fazioni di italiani che si fronteggiano per strada. A Milano, per inciso, c’è la polizia a dividerli. A Roma c’è il presidente della Repubblica che cerca ancora una volta di ricondurre il premier nel recinto della misura istituzionale. «I limiti della Costituzione sono quelli», ricorda a un premier che lascia il vertice piuttosto irritato. Lui, al presidente della Repubblica, ritiene di dover spiegare cosa vuol dire «fare il premier con la giustizia a orologeria che ti insegue sempre». Cosa significhi «la richiesta di rito immediato presentata a consiglio dei ministri in corso». Ma appunto non ci sono scorciatoie, ribadisce il capo dello Stato. Prima ancora di farlo nel faccia a faccia pomeridiano, Napolitano si rivolge indirettamente a Berlusconi in mattinata, quando incontra il vicepresidente del Csm Michele Vietti accompagnato dagli altri componenti del comitato di presidenza. «L’aspro conflitto istituzionale in atto suscita preoccupazione» all’interno dell’organo di autogoverno, come si legge in una nota diffusa dal Quirinale. Di fronte a tali inquietudini, Napolitano ricorda con richiamo letterale quanto già affermato in occasione della Giornata dell’informazione:
«Nella Costituzione e nella legge possono trovarsi i riferimenti di principio e i canali normativi e procedurali per far valere sia le ragioni della legalità nel loro necessario rigore sia le garanzie del giusto processo». E allora, «fuori di questo grado», sembra ricordare ancora una volta Napolitano al presidente del Consiglio, «ci sono solo le tentazioni di conflitti istituzionali e di strappi mediatici che non possono condurre, per nessuno, a conclusioni di verità e giustizia».
Gli strappi mediatici al massimo possono accendere gli animi e trascinare i cittadini in una sorta di rissa potenziale permanente davanti al Palazzaccio di Milano. Il rischio, lo scivolamento da cui il Capo dello Stato vorrebbe mettere in guardia il Cavaliere, è anche questo.
«Getteremo un seme perché la primavera italiana possa diventare non solo una speranza ma una bella realtà»: così Gianfranco Fini ha aperto a Milano il congresso di Fli Quando Berlusconi afferma, come nell’intervista al Foglio, che suoi ultimi ed esclusivi giudici sono il Parlamento e il popolo, non si capisce bene cosa voglia evocare. Se si riferisse alle elezioni, in fondo non ci sarebbe nulla di irrimediabile. Anzi. Rispetto al rischio di veder esplodere la tensione nelle piazze, tra un messaggio bellicoso e un rinvio a giudizio, sarebbe di gran lunga preferibile il lavacro elettorale. Ma se invece il presidente del Consiglio parla del popolo come suo unico giudice nel senso che chiede ai suoi fan di mobilitarsi fisicamen-
te per rispondere con i picchetti alle azioni giudiziarie, il rischio per la democrazia diventa incalcolabile.
Preoccupato dalla pesantezza del quadro, il presidente della Repubblica ricorda dunque anche a voce, nell’incontro con Berlusconi e Letta, quali sono le tutele previste dalla Costituzione e come ogni «forzatura» e deviazione rispetto a quel perimetro non possa produrre alcunché di buono. È forse il colloquio più difficile tra capo del governo e capo dello Stato dall’inizio di questa legislatura. Confronto difficile per la tensione accumulata nelle ultime ore. Non è un caso se prima di salire al Quirinale, Berlusconi si trattenga in una dettagliata riunione preparatoria con Gianni Letta, unico mediatore in grado di introdurre il Cavaliere nel confronto istituzionale con il Colle. Proprio nel quadro di una strategia che deve passare dalla denuncia di «golpe morale» ad argomenti compatibili con le regole della Repubblica, Berlusconi concentra parte delle sue attenzioni alle ipotesi proposte dai suoi fedelissimi per gestire il difficile passaggio. Lo fa rivendo tra l’altro, con Letta, anche il guardasi-
l’editoriale 1 Non basta più fare appello alla stabilità
l’editoriale 2 Non basta più fare appello alla magistratura
Ormai di stabile Non solo i pm: qui c’è sempre è meglio che lo scontro decida il popolo di Franco Insardà
di Riccardo Paradisi
oltanto il fatto che Silvio Berlusconi guardi alle urne con terrore dovrebbe far riflettere… Se c’è qualcosa che unisce maggioranza e opposizione, imprese, forze sociali o semplici cittadini, è la richiesta di stabilità e governabilità. Che è a questo punto, con il Cavaliere che dice di aver fatto mettere in libertà Ruby per evitare un incidente diplomatico, soltanto le elezioni possono garantire. Le tensioni sul debito e mezza industria che resta al palo e non riesce ad agganciare la ripresa impongono scelte drastiche. Serve una maggioranza chiara e non ricattabile che abbia la forza di governare. E chi dice che il ricorso alle urne sarebbe un azzardo, nasconde che il vero salto nel buio è invece restare in questo limbo, in attesa che la speculazione ci metta in ginocchio come accaduto in Grecia e in Irlanda. Che a questo punto, responsabilmente, deve essere evitato.
è stato un momento in cui era ancora possibile immaginare una via d’uscita all’impasse della situazione politica italiana diversa da quelle delle elezioni anticipate. Una fase in cui parlare di governo di responsabilità nazionale, di grande intesa repubblicana o di grosse koalition poteva essere ritenuta una proposta razionale e percorribile e non una stravaganza o l’utopia irenista di qualche ingenuo. Ora è del tutto evidente che questa strada è diventata un’ipotesi del terzo tipo, l’occasione malamente perduta e sprecata di una soluzione politica e istituzionale allo schema del muro contro muro e alla deriva dello scontro istituzionale tra poteri dello stato, tra magistratura ed esecutivo politico.
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Per mesi è stato offerta a questa maggioranza rabberciata, tenuta in piedi grazie alla compravendita parlamentare, una strada per uscire dall’impasse politico e istituzionale. Sarebbe bastato che il premier facesse un passo indietro e la nascita di un governo di responsabilità avrebbe frenato la crisi di sistema nella quale stiamo sprofondando. Sarebbe stato sufficiente che la maggioranza, superando dei comprensibili disagi, avesse chiesto al suo leader un gesto di “generosità”per il bene del Paese. E che la Lega si fosse resa conto che il maggior ostacolo al federalismo è dato proprio da questa stabilizzazione dello scontro che blocca e travolge qualsiasi riforma. Così non è stato e la disponibilità a contribuire alla formazione di un governo di responsabilità nazionale è stata fatta passare come un tentativo per aggirare la volontà elettore. Perché accusando attraverso le sue televisioni e i suoi giornali le opposizioni di puntare soltanto alle poltrone, la maggioranza si è creata un altro alibi per arroccarsi contro il cambiamento e continuare a vivacchiare. Tutto questo senza aver in nessuna considerazione il bene comune, la stabilità e la governabilità. In quest’ultimo periodo si è passati dalla ricerca della stabilità alla stabilizzazione dello scontro politico e istituzionale che giorno dopo giorno coinvolge tutti i cittadini che da elettori vengono trasformati in ultras, pronti a scendere in piazza per manifestare contro o a favore di Berlusconi. In un referendum continuo, con sondaggi che si rincorrono e che vengono interpretati come fa più comodo per dimostrare le tesi più divergenti. A questo punto è arrivato il momento di prendere atto della situazione e del crescente scontro politico, uscire dagli equivoci e, con lo stesso senso di responsabilità con il quale si invitava il presidente del Consiglio e la sua maggioranza a varare un governo di responsabilità, chiedere agli elettori di decidere sul futuro del nostro Paese. Il tanto evocato “popolo sovrano” potrà finalmente decidere a chi affidare il suo futuro e quello dei propri figli. Ponendo fine all’infinito referendum e allo scontro ad oltranza che produce soltanto danni tra berlusconiani e antiberlusconiani. L’Italia ha bisogno, invece, di un governo responsabile che la renda competitiva e la faccia sperare nel futuro.
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C’
Esito a cui finalmente siamo giunti dopo aver percorso in accelerazione il piano inclinato che ha condotto il Paese alle contrapposte logiche senza più mediazione, al pensiero binario e chiodato impugnato da due eserciti irriducibili che hanno stabilito due verità apodittiche e inconciliabili che sembrano nutrirsi di quella sostanza piombosa che è la reciproca intransigenza. Secondo gli uni infatti il presidente del Consiglio sarebbe un perseguitato politico puro entrato nel mirino di settori deviati e ideologizzati della magistratura che da quindici anni tentano di spazzarlo via dalla scena politica per aprire la strada a quelle sinistre la cui marcia verso la conquista dello stato all’indomani di Tangentopoli era stata proprio sbarrata dalla provvidenziale di scena in campo del Cavaliere. Gli altri al contrario ritengono Berlusconi un autocrate immorale ed eversivo, un pericolo mortale – con il suo conflitto d’interessi e la sua condotta – per la democrazia italiana, un’anomalia di cui liberarsi per via giudiziaria prima ancora che per via politica, essendo la natura del Caimano proprio quella di delinquere e di destabilizzare scientificamente l’ordinamento costituzionale. Sono queste due concezioni speculari – agiografica l’una e demonizzante l’altra – che hanno permeato e avvelenato l’ultimo quindicennio della vicenda civile e politica italiana, che hanno impedito ogni percorso riformista malgrado. Uno schema contro il quale gli sforzi del pensiero moderato, presente in entrambi gli schieramenti, se non sono stati del tutto vani hanno però conseguito appunto l’unico risultato di ritardare l’abbrivio a cui ora invece si è fatalmente arrivati e su cui il Paese è arenato da mesi. Avvitato e paralizzato in uno scontro istituzionale furibondo che contrappone presidenza del Consiglio, governo e magistratura, presidenza della Camera e presidenza del Senato, parti sociali e Stato, imprenditori e sindacati, media e politica. Resta solo un passo verso l’ultimo atto, quello che davvero porterebbe sull’orlo della precipitazione sistemica, dello scontro di piazza, dell’urto permanente e impazzito delle forze in campo. Prima di questo esito c’è la situazione presente: quella stabilità dello scontro politico-istituzionale. Per questo prima che sia troppo tardi, l’unica via d’uscita, l’unica soluzione politica a questa crisi è il ricorso al voto, ad elezioni che allo scontro fornirebbero una cornice di regole e di procedure e dalle quali uscirebbe un nuovo equilibrio politico comunque migliore di quello attuale.
gilli Alfano. Molte delle opzioni scivolano verso il piano dell’inconsistenza pochi istanti dopo la loro evocazione: è così per la causa da intentare allo Stato – magari davanti alla Corte europea di Strasburgo – o per il già sepolto decreto intercettazioni, o ancora per la denuncia contro i pm milanesi di attacco alla Costituzione. Resta il processo breve: ma è talmente chiara l’impraticabilità della famosa (e decisiva) norma transitoria che già gli esperti di giustizia del Pdl ipotizzano di promuovere il ddl deprivandolo della contestata clausola.
Resta sul tappeto solo il progetto di ripristino dell’immunità parlamentare che dovrebbe riproporsi in una forma più vigorosa del vecchio articolo 68: in pratica una sospensione di qualsiasi procedimento a carico di deputati e senatori. Qui però subentra un’altra contraddizione: tra le tante ipotesi Berlusconi non si era mai affidato a quella del ritorno al ’93 per non apparire come paladino di un vecchio sistema, quel sistema che lui stesso ha contribuito ad archiviare. Adesso la velleità dell’innovazione pare definitivamente passata. Esattamente come quella di introdurre in Italia una rivoluzione liberale, o come il sogno di alleggerire la pressione fiscale. È il nuovo Berlusconi: decisamente rinunciatario e in ripiegamento rispetto alle ambizioni della sua prima fase. E anche questo aspetto problematico induce nel Cavaliere la tentazione di seguire una strada diversa, e innalzare il livello dello scontro. I passaggi dell’inchiesta milanese si avviano alla fase calda. Il gip Di Censo potrebbe pronunciarsi sulla richiesta di rinvio a giudizio immediato all’inizio della settimana prossima. Mentre la parte dell’indagine da cui è stata stralciata la posizione del premier, quella relativa alla Minetti, a Mora e a Fede, dovrebbe essere chiusa nel giro di una decina di giorni. «Non ne verrà fuori nulla», è sicura la Santanché, che interviene in mattinata al raduno davanti a Palazzo di giustizia insieme con Valentina Aprea. Con loro c’è anche Alberto Torreggiani, convinto che dietro la storia di Ruby «possa esserci anche una piccola parte di verità, ma in un mare di assurdità». Dall’altra parte c’è Piero Rocca alla testa di un drappello di circa 30 agitati, con slogan che vanno dal «buffone» al «fatti processare».
Duecento militanti del Pdl scendono in piazza. La Santanchè grida: «Silvio, siamo tutti con te, resisti!»
Sempre a Milano prende il via l’assemblea nazionale di Futuro e libertà. Esordio con ovazione per Gianfranco Fini, che sale sul palco per un breve saluto con queste parole: «Getteremo un seme perché la primavera italiana possa diventare non solo una speranza ma una bella realtà». Ancora: «Saremo animati da un’unica grande ambizione, rendere possibile una nuova stagione di protagonismo e patriottismo per l’Italia». E poi: «Saranno tre giorni intensi di dibattito, analisi e confronto come è giusto e doveroso che sia». Riferimento che pare assumere in modo non drammatizzante le tensioni registrate tra i colonnelli, in particolare a proposito della nomina di Adolfo Urso a coordinatore unico. La componente più dura del gruppo finiano spinge per una scelta che ricada su Italo Bocchino o, al limite, su un coordinamento a più voci. Non paiono complicazioni insormontabili, né sembrano esserlo le frasi di Granata su un’alleanza che potrebbe andare «anche oltre il terzo polo». Bocchino, che del falco Granata dovrebbe essere espressione, è il primo a precisare che «ci proponiamo in alternativa al centrosinistra». Lo stesso capogruppo di Fli osserva che «non ha senso parlare di candidato premier se non in campagna elettorale», mentre Andrea Ronchi si spinge in là arrivando a dire che «l’unica strada è una coalizione guidata da Fini, una grande lista civica nazionale». Più all’ordine del giorno paiono le alleanza per le Amministrative, in apparenza complicate dall’uscita di Berlusconi sull’Udc. In realtà , dopo Gasparri, anche Frattini e l’ex An Nania spiegano che nelle giunte in cui si lavora bene si andrà avanti. Il responsabile Enti locali dell’Udc Mario Libè fa lo stesso ragionamento, senza soffermarsi troppo sulle parole attribuite a Berlusconi. Solo Cosentino in Campania pretende l’uscita dei moderati dalla giunta Caldoro. Il quale però ben si guarda dall’assecondare l’anatema del coordinatore che tramò per candidarsi al suo posto.
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l’approfondimento
I berluscones, impegnati nella difesa del capo, sono ancora fermi alla contrapposizione della stagione di Tangentopoli
Al massimo, Craxariello
Cicchitto e Ferrara dicono che Berlusconi è come Craxi. Ma il leader socialista inchiodò il Parlamento dicendo: «Ho fatto quello che fanno tutti». Il Cavaliere, oggi, potrebbe fare lo stesso senza suscitare solo grandi risate? di Giancristiano Desiderio l presente come passato o il presente come il passato che non passa e si ripete. Berlusconi come Craxi. La fine della Seconda repubblica come la fine della Prima. Ieri i comunisti che, dopo il comunismo, passarono in modo naturale dal berlinguerismo alla scorciatoia giustizialista per la presa del Palazzo d’Inverno, oggi sempre i comunisti in veste di giacobini puritani che si muovono dietro l’avanguardia rivoluzionaria dei pubblici ministeri guidati dalla Boccassini. È la lettura che Fabrizio Cicchitto e Giuliano Ferrara hanno voluto dare del berlusconismo alla luce del craxismo: il primo con un intervista rilasciata al Corriere della Sera e il secondo facendo parlare sul suo giornale, Il Foglio, direttamente il presidente del Consiglio. Ma le cose stanno effettivamente così? Il paragone storico e politico regge o si tratta di un anacronismo estremo che risponde al bisogno di salvare il Capo più che a una equilibrata interpretazione dei fatti? In sin-
I
tesi, Berlusconi è davvero un nuovo Craxi e siamo ancora in una tragedia o non è piuttosto un Craxariello o un Craxino e noi ci troviamo nel bel mezzo di una farsa? Guardiamo i fatti.
La prima analogia riguarda i tempi e i modi: il 2011 come il 1993, l’uso politico della giustizia oggi come ieri. Fabrizio Cicchitto, che sul tema ha scritto anche un testo mondadoriano che reca proprio questo titolo L’uso politico della giustizia -, ritiene che «ci hanno provato in ogni modo, senza mai arrivare a lui. Prima il filone della corruzione, che però si è fermato a Previti. Poi il filone mafia e bombe, che si è fermato a Dell’Utri» e «ora tocca a un nuovo filone: la vita privata». Anche Giuliano Ferrara, dopo un primo momento di disorientamento in cui la linea difensiva e offensiva era fatta da Daniela Santanché, ha individuato nel “golpe morale” il punto su cui far leva per mostrare un po’ a tutti noi che non è Berlusconi a commettere reati o
a cacciarsi nei guai con le sue mani, ma sono i pubblici ministeri e i giacobini puritani del Palasharp a «travolgere i diritti della persona» e la «politica delle libertà civili» con «inchieste farsesche e degne della caccia spionistica alle “vite degli altri” che si faceva nella Germania comunista». Sembra quasi che Cicchitto e Ferrara siano ispirati dal liberalismo di J. Stuart Mill che distingue con rigore privato e pubblico perché «su se stesso, sulla sua mente e sul suo corpo,
L’attacco al «giacobinismo puritano» è solo una banalizzazione
l’individuo è sovrano». Sembra, perché in realtà qui le cose sono capovolte: non è il pubblico che entra o ingerisce nel privato - le vite degli altri - ma è il privato che entra o ingerisce nel pubblico. È la vita del capo del governo che ha invaso le istituzioni e non il contrario. E questo è vero anche dal punto di vista dell’avvocato dell’accusa che ipotizza anche se i pm dicono che le prove sono schiaccianti, ma questo è sempre da dimostrare - reati circostanziati quali concussione
e prostituzione minorile. Qui i puritani, i giacobini, i moralisti, i bacchettoni e tutti quelli che vogliono fare la morale agli altri piuttosto che farla a se stessi c’entrano davvero poco e se il capogruppo del Pdl e il direttore del Foglio ce li vogliono far entrare a forza lo possono fare solo perché la loro lettura dei fatti storici e politici è ferma davvero al 1993. Cicchitto e Ferrara con la loro interpretazione e con la difesa senza se e senza ma di Silvio Berlusconi paragonato a Craxi mostrano di credere ancora in un’Italia «divisa in due». Ma il tempo del manicheismo e del bipolarismo con la clava è da superare e non da riproporre.
La seconda analogia è quasi una cartina di tornasole. Se Berlusconi è come Craxi - e Cicchitto lo dice praticamente alla lettera - allora Berlusconi, come fece Craxi, dovrebbe poter pronunciare anche lui alla Camera uno storico discorso che per le verità dette non sarebbe contraddetto e sarebbe anche ricordato ai posteri
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La crisi economica non ci permette di far sopravvivere questa stagione di veleni
La nuova manovra (ad aprile) non la può fare questo premier
Caos politico e conflitto istituzionale sono in cortocircuito: adesso spetta al nuovo Polo trovare la linea comune dei moderati per andare alle urne di Enrico Cisnetto segue dalla prima Ma ancor meno ha bisogno di veder prolungata una già lunghissima stagione di veleni e conflitti come quella che stiamo vivendo ormai da quasi un anno. Che non accenna a diminuire, anzi che ogni giorno ci riserva nuovi episodi destinati a mortificare le speranze di cambiamento dei cittadini. E siccome all’orizzonte si profila il rischio che la prossima puntata dell’inguardabile telenovela riguardi direttamente l’economia – con il premier sempre più autistico nei (soliti) panni di chi si sente vittima delle macchinazioni altrui, e il ministro Tremonti sul banco degli accusati, buon ultimo dopo i tanti con cui Berlusconi ha rotto alleanze e relazioni personali, che per difendersi farà giustamente ricorso agli altri membri del club dell’euro, che a lui da tempo guardano come referente – sarà bene evitare che tutto ciò accada.
Detto questo, occorre lavorare perché il voto risolva e non aggravi il problema. Perché deve essere chiaro che se si dovesse andare alle urne domattina con l’attuale legge elettorale, l’esito più probabile sarebbe la Camera ad appannaggio del centro-destra e il Senato privo di una maggioranza definita. Il che potrebbe avere come conseguenza la definitiva chiusura della presenza in politica del Cavaliere, ma aprirebbe una fase convulsa, o meglio prolungherebbe l’attuale situazione di stallo. A meno che già prima di andare al voto o nel corso della campagna elettorale e subito dopo le forze moderate e quelle riformatrici dei diversi schieramenti siano state capaci di trovare non solo un dialogo – che è il minimo – ma una piattaforma comune. E qui la responsabilità maggiore deve avere il coraggio di assumerla il “Polo per l’Italia”. È la sua partita, il suo ruolo naturale. Ed è anche l’unico modo di dimostrare, nei fatti, che non di terzo soggetto del bipolarismo traballante si tratta – aggiuntivo e anche un po’straccione – ma di nuovo polo capace di aggregare tutte quelle forze che vogliono un sistema politico più coeso e condividente.
Ma quale può essere la tela da tessere? Di sicuro non quella, banale e per certi versi persino controproducente, del “fronte antiberlusconiano”. Anzi, semmai in quel fronte vanno cercate interlocuzioni, a cominciare dallo stesso Tremonti. Il quale ha bisogno di non dipendere esclusivamente da Bossi, e dunque dovrebbe avere tutto l’interesse ad aprire un dialogo
(cosa che peraltro ha già fatto con D’Alema). No, il passaggio che occorre fare è metodologico: partire dai contenuti. Il “Polo per l’Italia” esca dunque dalla generica affermazione di terzietà che finora l’ha caratterizzato, e prepari un programma di governo, coinvolgendo la società civile, intorno al quale raccogliere non solo il consenso alle elezioni ma l’interesse di altre forze e di altri interlocutori. Ma ci sono le condizioni per far fare questo salto di qua-
Il dialogo con Tremonti a questo punto diventa fondamentale per il futuro lità al nuovo polo? I dubbi non mancano. Da un lato ci sono i tormenti con cui si apre la convention fondativa del Fli, la cui unica buona idea alla vigilia è stata quella di togliere dal simbolo il nome di Fini. C’è ambiguità intorno al doppio ruolo del presidente della Camera – parlo di opportunità politica, sia chiaro – ci sono troppi esponenti con la valigia in mano che non si capisce se arrivano o se partono, non c’è chiarezza sulle scelte di fondo
come si evince dalla sortita di una persona seria come Campi.
Per dirne una, la più dirimente: il Fli è bipolarista o no? Io francamente non l’ho ancora capito, e dagli esponenti politici di quel fronte ottengo risposte le più diverse, a conferma di una mancanza di idee condivise. Il rischio che l’unico collante sia e resti l’avversione a Berlusconi è alto, e sarebbe un disastro che il Fli diventasse l’Idv dislocato a destra. Su questo, e anche su altro, Rutelli ha scritto parole condivisibili sul Corriere della Sera di giovedì. Ma se quelle “cinque riflessioni” rappresentano un buon punto di partenza, ben altra benzina bisogna mettere nel motore di ciò che erroneamente si continua a chiamare “terzo polo” (sbaglio che ha fatto lo stesso Corriere nel titolare Rutelli). A mettercene di più e di migliore qualità è lecito attendersi sia Casini, al quale le forze laiche delle diverse diaspore e della società civile debbono chiedere di far propria, ora e una volta per tutte, l’idea di fare del “Polo per l’Italia” un soggetto politico federativo, capace di cementare intorno ad un programma di governo – da cui vanno escluse le questioni di natura etica, che devono essere regolate esclusivamente in sede parlamentare, lasciando ai singoli di agire secondo le loro coscienze e convinzioni culturali – i moderati e i riformisti, laici non laicisti e cattolici non clericali. Un aggregazione di forze che erediti di fatto il voto e lo spazio politico che fu del centro-sinistra della Prima Repubblica, e che abbia come obiettivo il passaggio da un sistema politico ibrido come quello attuale – un maggioritario senza precedenti e senza uguali (chi prende un voto di più ha la maggioranza assoluta dei seggi) e un presidenzialismo strisciante di stampo populista – ad un sistema più maturo ed europeo. Cioè un sistema politico multipolare, figlio di una legge elettorale che abbini la rappresentanza (proporzionale) con la semplificazione (sbarramento e diritto di tribuna), e che a sua volta trovi la consacrazione in un quadro istituzionale conseguente e condiviso. Dico questo, che potrebbe sembrare ovvio per un’aggregazione di forze che si definiscono estranee ai due poli esistenti, perché pur avendo l’Udc fatto sostanzialmente proprio questo percorso, nel cammino verso questa strada s’intravedono non poche contraddizioni e non poche esitazioni. Contraddizioni ed esitazioni che vanno subito superate, perché il tempo è poco. Anzi è già bello che scaduto. (www.enricocisnetto.it)
come segno della riconosciuta sua statura politica. Bettino Craxi, infatti, parlando dal suo scranno di Montecitorio ai deputati e ai partiti, ai segretari politici ma anche alla stessa magistratura e all’intero Paese, disse che l’accusa che gli veniva mossa - la violazione della legge del finanziamento pubblico dei partiti era un’accusa che accomunava tutti i partiti e dicendo semplicemente la verità invitò uno o tutti dei presenti a smentirlo dimostrando il contrario. Tutti tacquero. Berlusconi, che secondo Cicchitto è Craxi solo che «Craxi fu abbandonato al suo destino» mentre «stavolta il gruppo dirigente del Pdl è unito», dovrebbe fare altrettanto. Solo che nel caso del Craxi del 2011 l’accusa è diversa: come farà allora Berlusconi a dire agli altri deputati e agli altri partiti «voi tutti sapete che quel che faccio io lo fate tutti voi»? Come si vede Berlusconi non è Craxi ma al massimo Craxariello. Il paragone tra ieri e oggi non regge: ieri era un dramma, oggi è una pochade. Il papà di tutti comunisti, Karl Marx, ripeteva la nota frase che più meno fa così: «Quando la storia si ripete, la seconda volta è sempre una farsa». Sarà stato anche comunista, ma non aveva sempre torto.
La terza analogia è quella più solida: la fine di un mondo ieri, la fine di un mondo oggi, la fine della Prima repubblica ieri, la fine della Seconda repubblica oggi. O, meglio, sarebbe un’analogia solida se la Seconda repubblica fosse venuta al mondo in tempo utile per consolidarsi e quindi anche per poi venir giù, ma tutti noi nutriamo il ragionevole sospetto che la Seconda repubblica non sia nata. Proprio Berlusconi ha confidato a Ferrara nella sua intervista: «Così distrussero, con il suo male ed il suo bene, la Prima Repubblica, così provano da molti anni a far fuori la nuova politica, quella delle libertà civili, del garantismo per tutti e dell’alternanza democratica di governo garantita dal sistema maggioritario di cui sono il padre politico effettivo». Ma questo “piccolo padre” ha omesso di dire che è molto simile a Crono che mangiava i suoi figli: se Berlusconi ha permesso la nascita del bipolarismo è anche vero che Berlusconi ne ha sistematicamente bloccato lo sviluppo perché ha avuto sempre paura della sua creatura. È stato un cattivo padre politico perché ha voluto far crescere il proprio figlio in cattività piuttosto che secondo natura. Berlusconi non è il padre politico della democrazia dell’alternanza ma del bipolarismo militarizzato e non è un caso che oggi due dei massimi ideologi berlusconiani, Cicchitto e Ferrara, rispolverino le idee contrapposte del giacobinismo e dell’anticomunismo. E pensare che si potrebbe uscire da questa brutta commedia senza abbandonare nessuno, ma semplicemente facendo funzionare le istituzioni repubblicane.
diario
pagina 6 • 12 febbraio 2011
Nave sequestrata, primo contatto
Fiat, Berlusconi vede Marchionne
ROMA. Un contatto radio è stato stabilito con il comandante della petroliera italiana ”Savina Caylyn”, sequestrata dai pirati nell’Oceano Indiano. Il comandante Giuseppe Lavadera ha detto che l’equipaggio sta bene. Sulla vicenda viene mantenuto uno stretto riserbo e non si sa con chi il comandante della motonave abbia parlato. A bordo ci sono 5 italiani (un marittimo di Gaeta, uno di Trieste e tre campani) e 17 indiani. La motonave è stata attaccata a colpi di mitra e lanciarazzi da parte di 5 persone su un barchino che sono poi riuscite a salire a bordo e a prenderne il controllo, facendo rotta verso le coste della Somalia. Sulle sue tracce c’è la fregata della Marina militare ”Zeffiro”.
Calderoli/Polverini, lite sul 17 marzo
ROMA. Questa mattina a Roma Silvio Berlusconi vede Sergio Marchionne e John Elkann per capire quale sarà il futuro degli stabilimenti italiani di Fiat. Con il premier il sottosegretario Gianni Letta, i ministri Paolo Romani, Maurizio Sacconi e Giulio Tremonti, i vertici degli enti locali piemontesi per sapere se è confermato il trasloco da Torino a Detroit della sede della futura società Fiat-Chrysler. Ieri Romani ha spiegato che «le operazioni di Fiat all’estero non devono preoccupare l’Italia in quanto è finito il periodo della delocalizzazione ed è iniziato un grande periodo di internazionalizzazione dove una grande multinazionale come la Fiat trova tanti riferimenti locali per aprire nuovi mercati».
ROMA. La maggioranza litiga sulla festa del 17 marzo che ormai si è trasformata nel paradigma di questo Paese ingessato da ricatti quasi infantili: se Renata Polverini ha dichiarato che nel Lazio il 17 marzo sarà festa per tutti, Roberto Calderoli ha risposto dicendo che la festività è incostituzionale, non si sa bene perché. Poi, non pago, ha aggiunto che non c’è copertura economica alla festività. I sindacati, per parte loro (senza la “firma” della Cgil) hanno invocato un 17 marzo al lavoro. Insomma, nei prossimi giorni la politica non saprà parlare d’altro e tutti si accapiglieranno sulla poverà Unità d’Italia. Come se l’Italia fosse il problama della politica e non piuttosto, questa politica il problema dell’Italia.
Il ministro alla stampa estera dice sì al nuovo corso europeo. Forse con un occhio all’avvicendamento alla Banca centrale
Tremonti fa pace con Berlino «Il patto franco-tedesco per noi va bene. Siamo per Draghi alla Bce» di Francesco Pacifico
ROMA.
Il primo obiettivo è tamponare una manovra correttiva che sembra imminente. L’altro, più strategico, è quello di rafforzare la candidatura del mai amato Mario Draghi alla guida della Bce. E in entrambi casi tenersi buoni i tedeschi, nostri primi pagatori e veri guardiani dell’euro, è cosa buona e giusta. Forse è per tutto questo che ieri Giulio Tremonti ha di nuovo sparigliato le carte e collocato Roma accanto a Berlino e Parigi in una battaglia che sta spaccando l’Europa. Infatti ecco il ministro dell’Economia fare un’inversione a Ue annunciare alla stampa straniera che «il patto franco tedesco per la concorrenza a noi va abbastanza bene: l’Italia ci guadagna».
L’Italia intanto potrebbe guadagnare un credito dalla cancelliera tedesca, che potrebbe spendere nella corsa alla successione di Jean-Claude Trichet alla guida della Bce. E non a caso ieri Tremonti, mai come in passato, ha specificato che «il governo italiano sostiene la candidatura di Draghi, crediamo che sia eccellente», anche perché «è il più alto profilo professionale possibile». E per certi aspetti il nome del nostro banchiere centrale è stato rafforzato dopo la decisione del premier tedesco di “licenziare” dalla Buba Axel Weber, reo di essersi messo di traverso dopo la decisione di far acquistare alla Bce bond dei Paesi più a rischio. Quella volta la Merkel fece fatica a far accettare la cosa ai suoi concittadini. Mentre va in direzione opposta il piano che insieme con Nicolas Sarkozy
Parlando di fronte alla stampa estera, ieri Giulio Tremonti ha affrontato molti temi di politica economica internazionale: dal patto franco-tedesco («Per noi va abbastanza bene, l’Italia ci guadagna») alla candidatura di Draghi alla Bce («È ottima, il governo la sostiene»)
presenterà al prossimo Consiglio europeo: un freno alle politiche economiche degli Stati membri, visto che prevede di abolire l’indicizzazione dei salari, aumentare l’età pensionabile, introdurre nelle Costituzioni nazionali limiti per l’indebitamento. Misure verso le quali la Francia si è affacciata nell’ultimo biennio e la Germania ha applicato già con i governi Schröder e che le hanno permesso – forte del pareggio di bilancio – di tagliare le tasse alle imprese e di garantire a esse fortissimi incentivi per l’innovazioni. Roma, dal canto suo, soffre degli stessi problemi che Berlino ha avuto il coraggio di affronta-
re nell’ultimo decennio: il combinato disposto tra scarsa produttività, bassi salari e altissima pressione fiscale. Va da sé che la scossa potrebbe arrivare soltanto da un massiccio taglio dalle tasse o da un profondo piano di liberalizzazioni. Ma sono misure che nessun governo ha la forza di prendere: vuoi perché non ci sono le condizioni finanziarie per ridurre imposte e balzelli, vuoi perché le lobby non permettono di aprire mercati protetti come quello dei carburanti. Lo stesso Tremonti è sempre rimasto freddo di fronte alle strette proposte dagli Stati membri con i conti pubblici in ordine. «Io ho il deficit pubbli-
co, ma tu quanto hai di deficit bancario», il suo slogan contro il cosiddetto club delle Triple A. Il concetto l’ha ripetuto anche ieri incontrando la stampa estera a Roma. «La criticità della crisi finanziaria europea è nelle banche più che nei debiti pubblici». E siccome è crisi bancaria serve un maggiore ruolo della vigilanza, che «deve avere un ruolo importante sia sui debiti pubblici sia sulle finanze private». A far cambiare atteggiamento al ministro è il timore che l’Europa possa chiederci un intervento più massiccio sulla riduzione del debito pubblico che, secondo nel Vecchio continente, viaggia verso il 118,9 per
cento del Pil. E qualche segnale potrebbe arrivare già al prossimo Consiglio d’Europa, convocato per trattare il tema dell’indebitamento. E poi c’è il peso del Sud, la necessità di responsabilizzare la sua classe dirigente. «Perché il problema che dobbiamo risolvere è quello del Meridione, visto che il Nord d’Italia è a sé la regione più ricca d’Europa». L’accordo stretto a ottobre sulla riforma della governance prevede che – al netto di una moratoria di due anni – i Paesi con passivo superiore al 60 per cento del Pil debbano portare il dato a questo livello in tempi brevi, rientrando di un ventesimo all’anno.
diario
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Ancora sbarchi dal Maghreb. Maroni: «Ora è emergenza»
Ennio Flaiano e l’eterna farsa all’italiana
ROMA. Mentre continuano gli sbarchi di clandestini in Sicilia provenienti dal Nord Africa, il ministro Maroni lancia l’allarme: «C’è il rischio di una vera e propria emergenza umanitaria, con l’arrivo di centinaia di persone sulle coste italiane in fuga dai paesi del Maghreb. La crisi di quei paesi – ha continuato il ministro dell’Interno - sta provocando una fuga di massa, in particolare dalla Tunisia verso l’Italia». E in merito agli ultimi frequenti sbarchi a Lampedusa, Maroni ha spiegato: «Ho già convocato per giovedì prossimo un Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza al quale ho invitato anche il ministero degli Esteri per decidere le misure più idonee e ho chiesto anche il coinvolgimento della Commissione Europea». Come al solito, secondo il ministro dell’Interno «gli strumenti necessari per risolvere la situazione
L’opposizione, qualche mese fa, parlò di una manovra correttiva per l’Italia da 40 miliardi euro, ipotesi questa smentita dal governo. Ma ieri il quotidiano il Foglio ha riportato i timori registrati in via XX settembre su un possibile intervento straordinario. È difficile calcolare l’entità della manovra visto che i Paesi non hanno ancora definito la tempistica degli interventi di rientro né fissato il riferimento numerico per comprendere quanto lontani si è dalla parità . Eppoi Tremonti vuole far entrare nel computo finale il peso del debito privato. Che in Italia è di fatto nullo. Ma che si vada verso una strada irta di incognite per il Belpaese l’ha fatto intendere, e chiaramente, Jean-Claude Trichet in un’intervista all’Espresso. Al Belpaese il presidente della Banca centrale europea ha mandato a dire che serve uno sforzo per un taglio della spesa un aumento della produttività e una maggiore efficienza fiscale. «Le misure varate dal governo per il 2010 ed il 2011», ha sottolineato Trichet, «vanno in questa direzione, ma è necessario accelerare questo processo di rientro del debito». Di conseguenza la domanda non è se – e forse neppure come – ma quando Bruxelles imporrà un rientro sulle politiche di debito. Allora dal Tesoro fanno sapere che, con con un debito pubblico da 1.843 miliardi, la proposta Merkel-Sarkozy è la misura meno invasiva per sistemare i conti. Sicuramente più leggera della patrimoniale proposta sotto forme diverse da Giuliano Amato, Walter Veltroni e Pellegrino Capaldo. Emblematici al riguarda i conti sulle diverse ipotesi fatte da Luca Ricolfi. «Capaldo», ha spiegato il sociologo in un’intervista al Riformista, «parla di un salasso di 900 miliardi ripartito su 18 milioni di famiglie (tutti i possessori di case), in media 50.000 euro a famiglia. Veltroni pensa a un salasso di “soli” 600 miliardi di euro, senza specificare quanto dovrebbe gravare sui 2.5 milioni di fami-
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non possono essere messi in campo solo dall’Italia». Ad aggravare l’emergenza, secondo Maroni, la situazione politica in Tunisia: «Il problema è che l’accordo bilaterale che abbiamo con la Tunisia che ha permesso finora di gestire in modo efficace l’immigrazione clandestina, non viene attuato da Tunisi per la situazione di crisi. C’è una incapacità - ha concluso Maroni - di fronteggiare la situazione da parte dell’autorità tunisina».
E intanto, come era previsto, Alex Weber lascia il vertice della Bundesbank
Dall’alto: Mario Draghi e Alex Weber, poi Angela Merkel e Nicolas Sarkozy. Nella pagina a fronte, Giulio Tremonti
glie che costituiscono il decimo più fortunato degli italiani: immaginando che sia solo un terzo, 80.000 euro a famiglia». Va da sé che si rischierebbe di chiedere un prelievo straordinario tra i 10 e i 15mila euro a ogni famiglia benestante, ben sapendo che le attuali Irpef sono per i ceti medi meno progressive di quanto possono sembrare. Invece prevedere di costituzionalizzare un taglio del debito vicino al 3 per cento annuo sul modello tedesco, vorrebbe dire manovre correttive intorno ai 15 miliardi come quelli che in medie i governi di diverso colore stanno facendo da circa un quinquennio. Così facendo si potrebbe arrivare a un pareggio di bilancio in un ventennio. E non ci sarebbero soluzioni alternative, visto che sono in pochi a ipotizzare una crescita così dirompente da aumentare il gettito e quindi da permettere l’abbassamento del livello di emissioni. Il problema è dove recuperare i fondi. Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni, ripete spesso che dopo anni di lacrime e sangue, «non resta che tagliare la carne viva». Senza contare le ripercussioni sulla domanda interna.
Ma al Tesoro ribattono che c’è ancora molto da fare sulla qualità della spesa pubblica. Intanto, attraverso opera di spending review, si può valutare il comportamento delle amministrazioni centrali senza ricorrere a tagli orizzontali che creano buchi anche su capitoli primari. E sono buchi che poi vanno ricoperti. Quindi c’è il capitolo del pubblico impiego, con gli stipendi degli statali che ammontano all’80 per cento della spesa per la burocrazia. Numeri tali che spingono il governo a superare il semplice turn over e studiare veri piani di incentivazioni all’esodo. Eppoi, accanto a un patrimonio pubblico che vale più del debito pubblico, ci sono sempre gli 80 miliardi di euro di servizio al debito, che calerebbero progressivamente insieme all’entità delle emissioni.
arà capitato anche a voi di dormire a teatro. È un’esperienza abbastanza comune che può essere anche un piacere. Luchino Visconti, però, ne fece materia di scandalo e critica e se la prese, a suo tempo, con i critici che durante gli spettacoli sonnecchiavano. Nella polemica intervenne anche Ennio Flaiano con una domanda che prendeva di petto la cosa: «È dunque tanto grave dormire a teatro?». La risposta la trovate nel volumetto Lo spettatore addormentato, edito da Adelphi, che offre una silloge delle recensioni teatrali di Flaiano che pur facendo l’elogio dello spettatore che prende sonno, fu vigile e lucido anche a teatro come pochi altri. I “pezzi”di critica teatrale di Flaiano, tratti da Oggi, dal quotidiano Italia e dall’Europeo, sono belli e micidiali e ci offrono sempre un talento in più per capire noi stessi, tanto ieri quanto oggi. Assistendo agli spettacoli di Rivista negli anni Sessanta, Flaiano osserva la società e nota che «l’uomo medio sente molto il ridicolo degli altri e pochissimo il ridicolo di se stesso» e aggiunge che «la mediocrità di un personaggio, purché largamente diffusa, suscita ammirazione». E quindi conclude con una di quelle sue battute folgoranti e diventate giustamente degli aforismi: Abbiamo sostituito la pubblicità alla morale”.
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L’idea di Flaiano è che a teatro si può anche dormire perché «chi una volta sola si è appisolato a un concerto o alla rappresentazione di un melodramma, o anche a un’opera drammatica, sa che nel momento del passaggio dallo stato di veglia al sonno, in questo punto detto la soglia, la rappresentazione o la melodia o il dialogo si liberano da ogni scoria, diventano liquidi, celestiali. I sensi fatti più acuti colgono ogni più lieve sfumatura dell’orchestra, del canto, della voce dell’attore, e li ricevono come un indimenticabile e personale messaggio… È in quegli istanti che abbiamo lo spettatore perfetto, unico, ideale». Può darsi sia così. E può darsi che quando rivide La presidentessa di Maurice Hennequin, Flaiano un po’ si appisolò e così, con il beneficio della visione trasognata, scrisse: «Oggi la pochade non ha più ragione di vivere: manca nel pubblico una leva, l’innocenza, sulla quale la sua allegra forza possa operare». Se era vero quarant’anni fa, figurarsi oggi. Tuttavia, qualche anno fa La presidentessa è ritornata nei teatri italiani con Sabrina Ferilli e, forse, è ancora rappresentata qua e là. Ancora un po’ diverte, forse perché si è persa l’innocenza, sì, ma anche un gusto più buono della commedia umana. La risata, come diceva Flaiano, è retrospettiva, «provocata dall’aspetto delle cose, non dalle cose stesse». Ma oggi, rispetto a ieri, per assistere alla pochade non occorre andare a dormire a teatro: lo si può fare dormendo sul divano di casa e tra il sonno e la veglia assistere allo spettacolo della politica nazionale che non si lascia facilmente distinguere dalla pornografia, dagli equivoci, dagli incontri, dalle maschere, dalle bugie private e pubbliche.
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È solo uno sfogo antiberlusconiano o un nuovo femminismo? Ne discutiamo con Paolozzi, Cambria, Muraro e non solo...
Quello che le donne non dicono Luci, ombre e contraddizioni dell’«armata rosa» che domani scenderà in tutte le piazze d’Italia di Gabriella Mecucci iamo al rush finale. Fervono i preparativi, il dibattito s’infiamma, gli slogan fanno discutere. Il ritorno delle donne in piazza avverrà domani. Che cosa rappresenterà questa manifestazione? Uno sfogo per quella parte di opinione pubblica che vuol manifestare contro Berlusconi? Oppure - come dicono le organizzatrici - la nascita di un nuovo femminismo? E quale? I critici radicali la interpretano come un’ondata di vetero moralismo, con aggiunta di un po’di salsa azionista; e/o come un uso strumentale delle donne in chiave antigovernativa.
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Insomma, dopo e dietro al corteo di domenica non ci sarebbe nulla, se non il solito comitato di liberazione, questa volta al femminile, dal Cavaliere. Una sorta di “parte sana” della metà del cielo che scende in piazza contro la “parte insana”, e cioè contro “le olgettine”, o quelle come loro, o quelle che vorrebbero essere come loro, o quelle che le difendono e magari le somigliano anche un po’. Ma - tanta è la confusione - che un collettivo di femministe lesbiche calabresi annuncia in rete che parteciperà alla manifestazione con lo striscione: “Giù le mani da Ruby”. Al netto dei comportamenti più paradossali, l’appuntamento di domenica ha
provocato intorno a sé un bel rumore: un primo obiettivo, dunque, lo ha centrato. Per il resto, di idee in campo non ne ha messe un granché. Da una parte si evoca una sorta di “scossa” salutare per la società italiana finita in ipnosi (un sonno berlusconiano che genera mostri, pare di capire) che le donne risveglieranno; dall’altra la difesa della dignità femminile e di quella maschile che ne è l’interfaccia. E, infine, la riproposizione di un nuovo femminismo che Le Monde ha definito con lo slogan “né puttane, né mamme”. Uno scimmiottamento perverso del vecchio: “Né puttane né madonne, finalmente solo donne”. Allora il femminismo voleva soppiantare i due stereotipi femminili più in voga, in nome della libertà e della soggettività femminile. E ora quel “né puttane né mamme” che significa? È forse contro la maternità? Contro la famiglia? O cosa? La spiegazione che ne dà Michela Marzano è inquietante: «Mamma o puttana, non è questa una scelta, ma una doppia trappola». Alla faccia di chi si batte contro l’“indifferentismo”, contro il fatto che la scelta delle ragazze di ven-
no, quelle che mettono sù famiglia, quelle che no.
ADELE CAMBRIA Non riesco ad accettare che la soggettività femminile possa condurre alla prostituzione. In nome della libertà finiranno tutte liberamente puttane, una gran bella soddisfazione
dere il proprio corpo non può essere messa sullo stesso piano di chi s’impegna e lavora. E perché allora può essere messa sullo stesso piano quella di chi vuol essere madre? «L’Italia non è un bordello», hanno già scritto alcuni gruppi sui loro striscioni. Questa è un’ovvietà. Le donne come gli uomini ci sono di tutti i tipi: e a fronte di un folto gruppo di escort, ci sono quelle che lavorano, quelle che studia-
Ma da dove viene questo nuovo movimento che non si vuole far «ghettizzare nei confini del femminismo storico»? Elisabetta Addis, una delle fondatrici del collettivo “Di nuovo”, sostiene: «Quando ci siamo riunite per la prima volta nel 2009, abbiamo preso coscienza che bisognava ricominciare tutto daccapo. La nostra intenzione era quella di dar vita ad una rete di associazioni femminili capaci di selezionare candidate per le elezioni, un disegno che è stato cortocircuitato dal Rubygate. Ci siamo dovute mobilitare prima del previsto. Le donne devono diventare il primo soggetto politico». Un intervento urgente, insomma, tutto legato allo scandalo delle escort di Arcore. E un disegno di lunga lena, che ripropone il problema del rapporto donne-potere, appena però enunciato. In passato si era andate molto oltre. Ma mentre crescono firme e adesioni al corteo del 13, si moltiplicano
anche le critiche del “femminismo storico”. Il sito www.donnealtri.it le ha registrate puntualmente. Letizia Paolozzi che ne è l’animatrice spiega: «In un mondo dove tutto è precario, dove al call center guadagni 800 euro al mese e il lavoro può sparire da un momento all’altro, si verifica un continuo scivolamento. C’è chi decide di usare il proprio corpo per far fronte alle necessità, o per guadagnare di più, o per aiutare la famiglia, o per fare carriera. Il confine della prostituzione diventa sempre più labile, almeno nel vissuto delle giovani, mentre i vecchi argini pedagogici rappresentati dalla scuola, dalla famiglia, dalla chiesa, dai partiti, non reggono più. Sono tutti crollati».
In questa situazione così ambigua, dividere quelle “per male” e quelle “per bene” con l’accetta diventa un’operazione squisitamente moralistica. Luisa Muraro, filosofa e femminista storica, esprime un’analoga preoccupazione: «Per cominciare - osserva - sono molto critica verso la separazione fra quelle che non si In queste pagine: uno scatto della manifestazione antigovernativa della scorsa settimana; la marocchina Ruby; il direttore del “Foglio” Giuliano Ferrara. A fianco, un’immagine di alcune delle illustri adesioni al femminile della manifestazione di domani
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prostituiscono e quelle che si prostituiscono, escluse da ogni considerazione. Io sono impegnata politicamente per la libertà femminile e lotto contro ciò che la ostacola: la ostacolano gli uomini che usano i loro tanti soldi per ridurre il corpo femminile a merce; ma le donne che vanno a questo mercato, io sostengo, hanno una soggettività che non mettono in vendita e perciò vanno prese in considerazione». Muraro teme poi la strumentalizzazione: «Ricorrere alle donne è un espediente di vecchio stampo, ricordo quando alle donne si assegnava un ruolo convenzionale, ora per la pace, ora per l’infanzia. Meglio questi ruoli comunque che quello che ci assegna questo appello, di truppe ausiliarie di una politica inefficace».
Ci sono però anche quelle, fra le femministe storiche, che, pur tra parecchi dubbi, si sentono vicine a chi manifesterà domani. È il caso di Emma Fattorini: «L’accusa di moralismo va presa sul serio. Ma così come prendere sul serio i danni del moralismo, consente di porci il problema
morale, altrettanto, prendere sul serio la libertà, ci permette di distinguerla dal libertinismo». Intangibile è la libertà di scegliere il bene dal male. È questa che ci fa essere uomini e donne. Ma qual è la scelta giusta? È giusto non domandarselo «in nome della libera e soggettiva scelta femminile»? Fattorini risponde con nettezza: «No, non sono d’accordo con questo indifferentismo. Non tutte le scelte sono uguali. E non tutte vanno bene». Da una sofferta adesione a quella più convinta di Adele Cambria. Lei non accetta che la soggettività femminile possa condurre alla prostituzione. Non le è mai piaciuto - pur essendo la quintessenza del laicismo - quel mettere sullo stesso piano “puttane e madonne”. Figurarsi il “né puttane né mamme”. E non si lascia sfuggire la battuta sapida: «In nome della libertà - dice - finiranno tutte liberamente puttane, una gran bella soddisfazione». «Indifferentismo - interviene Paolozzi - ma qui non si tratta di accettare i modelli femminili televisivi ma solo, di comprender-
LUISA MURARO Ricordo quando alle donne si dava un ruolo convenzionale, ora per la pace, ora per l’infanzia. Meglio questo che quello che ci assegna questo appello: truppe ausiliarie di una politica inefficace
li». E usando quasi le stesse parole di Fattorini, Paolozzi esprime un concetto molto diverso: «Nelle scelte femminili c’è una soggettività che non è per tutte uguali». Ed è sottinteso che lei non vuol ergersi a giudice. Sfumature importanti nel mondo del femminismo più raffinato e consapevole.
Ma c’è anche chi guarda al comportamento maschile. È il caso della storica Anna Bravo che ha rilanciato la palla nel campo degli uomini. Ha scritto: «Ragazze che si vendono, e fa rabbia; ma soprattutto attempati signori che solo grazie al denaro e al potere dispongono del loro corpo (o magari solo della loro attenzione) e le gratificano con regali comprati all’ingrosso. Eppure, mentre ci preoccupiamo della dignità femminile, nessun uomo ha sentito il bisogno di difendere quella del genere maschile. Certo, il modello Berlusconi è così povero e simbolicamente violento che per un uomo di buona volontà può essere difficile vederlo come una ferita inferta alla propria identità. Ma, cari, quel modello gira per il mondo, e vi rappresenta. Mi domando come mai la vergogna provata da tanti di voi riguarda l’essere italiani, e non l’essere uomini italiani». Bravo va ben oltre le responsabilità berlusconiane: «Neppure dallo svilimento delle donne è possibile chiamarsi fuori, che c’è una responsabilità sovra individuale - beninteso non come colpa general-generica o dannazione originaria, ma nel senso in
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cui l’intende Amery: come somma delle azioni e omissioni che hanno contribuito a fare (o a lasciar sopravvivere un clima in cui le parole delle donne non sono richieste, e se sì, si ascoltano con l’orecchio sinistro». E - aggiungiamo noi - come in questo caso - quando diventano utili perché immediatamente redditizie sul mercato politico. Dice Letizia Paolozzi: «Gli uomini che andranno al corteo dovranno
LETIZIA PAOLOZZI C’è chi decide di usare il proprio corpo per far fronte alle necessità, o guadagnare di più, o aiutare la famiglia, o fare carriera. Il confine della prostituzione diventa sempre più labile
pur darci qualche risposta sul grande tema sesso e potere. Dicano qualcosa su questo. E invece ci sono slogan come “Non ti darò la mia donna”,“Non mettete le mani su mia figlia”. Che strano, Berlusconi ha ottenuto il risultato che anche gli uomini di sinistra si sono riappropriati delle donne».Verso questo atteggiamento c’è un corale “No, grazie”. Ma torniamo al tema di fondo e diamo di nuovo la parola a Paolozzi: «Berlusconi seleziona le dirigenti politiche con questo metodo: ci metto quelle che mi piacciono. E gli altri cosa fanno? Prendono le più fedeli? Le più silenziose? Quelle che non disturbano il manovratore?». Coraggio “femministi” in corteo, rispondeteci. Se questo è un movimento vero e non semplicemen-
te un uso delle donne contro il capo del governo, non può non sollevare questi e altri interrogativi. E voi non potete non rispondere. Altrimenti è solo una manifestazione per chiedere la caduta del governo, naturalmente legittima, ma che c’entra col nuovo femminismo? Intanto prima del corteo si è già sviluppata un’altra mobilitazione, quella contro il «puritanesimo azionista» di Giuliano Ferrara. E ha preso le mosse persino una discussione sull’antifascismo torinese (i cui campioni, parola di Ezio Mauro, sarebbero Bobbio e Galante Garrone. Peccato che come antifascisti non fossero un granché: uno scriveva al duce, l’altro sparisce davanti ai nomi dei veri perseguitati). Insomma, c’è una grande confusione sotto il cielo italiano e ad aumentarla, è arrivato lo slogan con cui è stato convocato l’appuntamento del 13:“Se non ora quando?”. È il titolo di un libro di Primo Levi che racconta sotto forma di romanzo la tragedia degli ebrei nella seconda guerra mondiale.
Signore e signori manifestanti, vi pare che le due situazioni siano anche solo lontanamente assimilabili? Non credete che un po’ di senso della misura non guasterebbe? Il movimento che prenderà le mosse domani merita però, nonostante tutto, di essere guardato con attenzione. Ce la farà a mettere davvero in discussione una cultura di cui Berlusconi fa parte, ma non è certo l’artefice? E ci riuscirà, parlando di politica, senza fermarsi al moralismo più vieto che sia azionista o no? Forse le critiche che ha preso da parte di chi alle donne e alla loro soggettività ci tiene parecchio - se le ascolterà senza spocchia - potranno servirgli. E dunque: in bocca al lupo.
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Nell’attuale fase storica non si possono più fare troppe distinzioni basate sul “colore” politico delle formazioni in campo
Il bivio di Futuro e libertà
Il sentiero passa tra patto costituzionale e alternativa di governo nche alla luce dei tanti avvenimenti politicocostituzionali accaduti negli ultimi giorni, risulta sempre più evidente che siamo di fronte ad un problema che l’Udc aveva indicato da tempo: combinare la ricerca e l’intesa di un nuovo patto costituzionale con l’affermazione ripetuta di voler consentire agli elettori di scegliere soprattutto tra diverse alternative di governo, e non soltanto tra diverse identità di partito. Siamo infatti in presenza di proposte politicamente sostenute da un adeguato consenso elettorale sia nel senso di una diversa articolazione dello Stato italiano (passando dal centralismo al federalismo, e non solo a parole); definire una nuova articolazione del rapporto tra pubblico e privato (passando dal vecchio compromesso costituzionale che si può definire solidaristico-operaistico, ad un nuovo patto costituzionale solidaristico-liberistico); definire un nuovo equilibrio costituzionale tra autonomia della magistratura e sovranità popolare (si tratta di un equilibrio che la Costituzione originaria aveva individuato nell’istituto dell’autorizzazione a procedere per i membri del Parlamento; si deve dunque ricercare un equilibrio nuovo ma pur sempre un equilibrio).
A
Questa ricerca è stata svolta in parte dalla Commissione bicamerale presieduta all’epoca dall’onorevole D’Alema; ma, come si sa, quella Commissione non è riuscita a proporre un nuovo equilibrio co-
di combinare due esigenze entrambe necessarie per una nuova fase democratica italiana. Questa tensione tra esigenza di un nuovo patto costituzionale e legittimazione popolare all’attività di governo ha segnato il modo con il quale si è affermato in Italia un bipolarismo del tutto anomalo rispetto a quel che si può regi-
Il congresso fondativo dei “futuristi” è chiamato ad indicare il modo con cui si intende affrontare questo nodo politico-costituzionale stituzionale complessivo. Dal fallimento della Commissione D’Alema ad oggi, non si è infatti riusciti a combinare le proposte di governo basate sul consenso elettorale e un nuovo patto costituzionale, che richiede necessariamente l’intesa anche tra parti politiche che restano protagoniste di alternative di governo ma che non sono necessariamente alternative per quel che concerne il patto costituzionale. Siamo pertanto purtroppo di fronte alla constatazione della perdurante incapacità politica
definizione politico-programmatica di proposte di governo alternative tra di loro e sottoposte al giudizio e alla scelta degli elettori costituisce pertanto l’asse portante di una proposta complessiva capace di essere alternativa sia a chi ritiene che il voto popolare è comunque necessario per esercitare qualsiasi funzione pubblica (economica, amministrativa o magistratuale che si voglia), sia a chi ritiene che la lotta di classe debba continuare a caratterizzare i rapporti all’interno delle strutture produttive del Paese.
di Francesco D’Onofrio
strare in riferimento ad altri rilevanti modelli politici, che reggono complesse realtà economiche e sociali. In questa era, che è stata frequentemente definita di “nuova globalizzazione”, occorre infatti dimostrare con le proposte e con i comportamenti di voler tendere contemporaneamente ad un nuovo patto costituzionale per tutto quel che concerne un insieme di valori comuni non destinati ad essere oggetto di proposte alternative di governo: la combinazione tra un nuovo patto costituzionale e la
Il Colle su Alto Adige e 150 anni dell’Unità
«Durnwalder sbaglia» ROMA. Dura presa di posizione del Presidente della Repubblica contro il «disinteresse italiano» degli altoatesini preteso dal presidente della Provincia Autonoma di Bolzano oin occasione delle celebrazioni del 150° dell’Unità. Giorgio Napolitano ha inviato una lettera al Presidente della giunta altoatesina nella quale «ha espresso sorpresa e rammarico per le espressioni con le quali l’onorevole Durnwalder ha commentato la decisione di non aderire alle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia». «Il Capo dello Stato – ha spiegato l’ufficio stampa del Quirinale – ha rilevato che il Presidente della provincia di Bolzano non può parlare a nome di una pretesa “minoranza austriaca” dimenticando di rappresentare anche le popolazioni di lingua italiana e ladina, e soprattutto che la stessa popolazione di lingua tede-
sca è italiana e tale si sente nella sua larga maggioranza». Napolitano «ha espresso quindi la propria fiducia che l’intera popolazione della provincia di Bolzano possa riconoscersi pienamente nelle celebrazioni della nascita dello Stato italiano, nello spirito dei principi sanciti dagli articoli 5, 6 ed 11 della Costituzione repubblicana». Luis Durnwalder ha risposto con malagrazia a Napolitano ribadendo quanto aveva già detto: «Noi abbiamo un’altra storia. Siamo una minoranza austriaca che vive in Italia. Nel 1919 non abbiamo scelto liberamente lo Stato italiano ma siamo stati staccati dall’Austria a cui eravamo uniti da oltre mille anni. Da allora abbiamo sofferto moltissimo, molti dei nostri genitori hanno passato anni in carcere solo perché volevano parlare in tedesco e vivere la propria cultura».
Stiamo assistendo purtroppo a proposte che pongono in evidenza di volta in volta questo o quell’aspetto di un nuovo equilibrio costituzionale, senza mai affronttare il problema nel suo complesso: basti pensare a quel che il federalismo deve necessariamente finire con il comportare per l’intero sistema istituzionale del Paese; basti pensare ancora alle forme che ha finito con l’assumere lo scontro istituzionale tra funzione magistratuale da un lato e legittimazione popolare dall’altro; basti pensare infine alle recentissime proposte di modifica di alcuni fondamentali articoli della Costituzione repubblicana che si riferiscono all’iniziativa economica privata e alla sussidiarietà cosiddetta orizzontale. Anche il congresso fondativo di Futuro e libertà è chiamato pertanto ad indicare il modo con cui si intende affrontare questo nodo politico-costituzionale: quale che sia il contenuto della proposta di governo destinata ad essere sottoposta al giudizio degli elettori, occorre infatti che si dica in che modo si intende combinare l’affermata necessità di un nuovo patto costituzionale con le scelte che portano alla definizione di una proposta di governo. Il nuovo patto costituzionale è infatti destinato a durare al di là delle decisioni popolari concernenti le proposte alternative di governo, ed è per questa ragione che la partecipazione al dibattito sul nuovo patto costituzionale non può essere concepita in termini di destra, centro o sinistra. Un nuovo patto costituzionale deve infatti comprendere anche la piena legittimità costituzionale delle diverse alternative di governo, ed è in riferimento ad esse che si può continuare a parlare – se si vuole – di destra, centro e sinistra.
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
SCUSI, PARLA Idioma e costume
ITALIANO? di Pier Mario Fasanotti
itiamo il brano di una lettera che potrebbe essere stata scritta oggi: zione che oggi è più che mai attuale: «Per rimetter davvero in piedi la lingua «Lo Stato d’Italia divisa in frammenti, la pigrizia e l’ignoranza bisognerebbe prima in somma rimettere in piedi l’Italia, e gli itaL’allarme italiana, quasi generale hanno posta tanta distanza tra la lingua parliani». Queste due frasi sono ricordate da Pietro Trifone in Storia linè antico, a lata e la scritta, che questa può quasi dirsi lingua morguistica dell’Italia disunita (Il Mulino, 190 pagine, 16,00 euro). ta». In questi decenni è aumentata di molto la regola del Trifone, docente all’Università di Roma-due «Tor Vergata», lanciarlo fu già Manzoni. sentito dire, dell’approssimativo. Si parla e si scrive in ci ricorda che prima dell’unità d’Italia la nostra lingua Ma oggi l’impoverimento della modo sbagliato. Capita spesso di leggere lettere «è stata attribuzione pressoché esclusiva di una nostra lingua va sempre più diffondendosi. o mail di professionisti che incappano a ogni ristretta fascia di letterati e, più in generale, riga in errori grossolani. Alcune università si di persone colte; anche questi pochi privilegiaSegno di una malattia degenerativa della son date il compito (meritorio) di istituire corsi di ti dovevano del resto fare continuamente i conti, italiano per i neo-laureati o laureandi. Il brano poco so- vita pubblica? Quello che è certo è nell’uso corrente della lingua, con i vari idiomi locali, che in gioco non c’è solo dominatori indiscussi della comunicazione parlata, così nel pra riportato ci dice che il problema non è nuovo.Tanto è veSettentrione come nel Mezzogiorno». Oggi i «privilegiati» sono ro che a scrivere quella denuncia era Alessandro Manzoni, nel il lessico coloro che sanno che su «qui» non va l’accento, che «qual è» si scrive 1806 all’amico Claude Fauriel. Nel 1821 un altro grande della nostra senza apostrofo. letteratura, Giacomo Leopardi, riassumeva nello Zibaldone una preoccupa-
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Parola chiave Uno di Sergio Valzania White lies: rituali in stile anni 80 di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
L’umanesimo (ironico e indulgente) di Ludovico Ariosto di Francesco Napoli
Leningrado 1964: processo a Brodskij di Pasquale Di Palmo Il vero erede di Umberto D. di Anselma Dell’Olio
Il farsi dell’arte negli scatti di Mulas di Marco Vallora
scusi, parla
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Quei “gaglioffi” sul cammino di San Giacomo hi ha un minimo di curiosità può tuffarsi nell’inaudita ricchezza che sta dietro i modi di dire italiani. Inoltre: se li assommiamo tutti, ci troviamo di fronte all’unione linguistica d’Italia. Aiuta, e diverte, il libro dell’italianista Paola Sorge, Dizionario dei modi di dire della lingua italiana (Newton Compton Editori, 286 pagine, 9,90 euro). Partiamo dal presupposto che ognuno di noi spesso usa una parola o una frase senza conoscerne la derivazione o la storia. Qualche esempio. «Fare fiasco», lo sanno tutti, significa fallire. Già, ma che c’entra il fiasco? Alcuni sostengono che sia stato un comico del Seicento a scegliere come tema della sua rappresentazione teatrale un fiasco. E non ebbe alcun successo. Di qui il significato. Più complessa è l’origine di «a ufo», ossia vivere a spese degli altri. In ebraico efes significa gratuitamente. Ma c’è dell’altro: ufo potrebbe essere l’abbreviazione di Ab urbis fabricam, una scritta posta sui carri che trasportavano il materiale per la fabbrica di San Pietro (ma anche per il Duomo di Milano) che era esente dalle tasse. Sempre in tema di denaro, chi vuole spiegare la difficoltà di arrivare a fine mese dice «sbarcare il lunario». «Sbarcare» ha qui il significato di portare a termine, finire, mentre il «lunario» era il vecchio almanacco che riportava le fasi lunari di tutto l’anno. Per comprendere o fare certe cose si deve avere «sale in zucca». L’espressione ricorda quel tempo in cui le massaie conservavano il sale in zucche vuote essiccate. Ma potrebbe riferirsi anche al sale benedetto che viene posto sul capo del bambino durante il battesimo. L’opposto della prudenza e della perizia è «alla carlona», ossia agire in modo trascurato e frettoloso. Un tempo si diceva «fare le cose alla maniera di Re Carlone», con allusione a Carlomagno che era descritto nei poemi cavallereschi come uomo semplice e alla buona, e di poca precisione. A proposito di certi atteggiamenti conservatori o retrogradi, usiamo la parola «codino». La storia ci racconta che nel Settecento i reazionari furono gli ultimi ad abbandonare l’abitudine di avere sulla nuca la pic-
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Se la televisione negli anni Cinquanta e Sessanta ha contribuito grandemente alla diffusione dell’idioma italiano, oggi capita che lo stesso mezzo informativo sia fonte di errori, soprattutto quando qualcuno si mette in mente di rincorrere citazioni latine e lo fa sovente in modo ridicolo. Basta dare un’occhiata al programma Blob di Rai 3 per trovarsi dinanzi a un affresco di strafalcioni tristissimi. Significativa l’iniziativa della Rete (Corriere Tv), ogni lunedì alle 15, dove il giornalista Beppe Severgnini, In tre minuti una parola (titolo del programma), spiega con l’ausilio di cartoni animati il significato e l’origine di certi vocaboli. Chissà se Severgnini prenderà in considerazione le parole dialettali. Ce lo chiediamo visto che se una ventina d’anni fa pareva che il regionalismo fosse stato in qualche modo silenziato, oggi assistiamo a una contaminazione dialettale della lingua parlata. Contaminazione pari forse a quella generata dall’inglese. Osserva il professor Trifone che molti dizionari ormai accolgono sia anglicismi sia suoni dialettali. E, in base a un suo personale sondaggio, aggiunge che è innegabile il primato di Roma. Segue Napoli, poi Milano. Ce ne accorgiamo tutti, del resto. Anche nel vedere i «cinepanettoni» o alcuni serial televisivi. Al Nord un tempo era impensabile pronunciare parole come «pennichella» o «abbiocco», «cravattaro», «borgataro», «cazzaro», «pallonaro». Così come nel Centro e nel Meridione si ha oggi la quasi certezza di essere compresi se si dice «gnucco», «ruscare», «sbirulento», tutte parole di provenienza nordica.
Abbiamo poco sopra fatto cenno all’invasione dell’inglese. Lingua che, al pari dell’italiano, spesso è pronunciata in modo ridicolmente approssimativo. Curioso ricordare che negli anni Trenta il giornalista e scrittore Paolo Monelli (famoso il suo romanzo Le scarpe al sole) aveva sulla Gazzetta del Popolo di Torino una rubrica intitolata Una parola al giorno. Poi scrisse per l’editore Hoepli un polemico volumetto intitolato Barbaro dominio (ristampato nel 1942) in cui anno IV - numero 6 - pagina II
italiano?
cola treccia di capelli finti, il codino appunto. Se qualcuno impone al prossimo un accordo svantaggioso abbiamo «il patto leonino». L’espressione venne usata dal giudice romano Lucio Cassio Longino, il quale prendeva a modello di sopruso le favole in cui il leone fa il prepotente. Un approccio più narrativo ai misteri della lingua italiana ci è fornito dallo studioso Federico Roncoroni, autore del saggio in forma descrittiva intitolato Sillabario della memoria (Salani, 292 pagine, 15,00 euro). Una delle parole che purtroppo oggi sbuca sovente dalla cronaca politico-giudiziaria è «gaglioffo». Un modo più morbido per significare delinquente, furbastro, ingannatore. L’origine non è del tutto certa e a questo punto è affascinante percorrere diverse strade storiche. Qualcuno pensa che «gaglioffo» sia l’unione di «gagliardo» e «goffo». Altri insistono su un’origine spagnola. Con gallofa, all’inizio del XIV secolo, si indicava in Spagna il tozzo di pane che si dava ai devoti che s’incamminavano verso San Giacomo di Compostela. Gallofa deriva a sua volta dal latino Galli offa, cioè «il boccone del francese». Siccome la maggior parte dei pellegrini che si avviavano verso Compostela erano francesi, il termine galoffo stava a indicare mendicante, vagabondo. In prediche successive il termine s’accostò a «buono a nulla», «miserabile». Ma un riferimento al denaro lo si ritrova dalla voce gergale «gaglioffa» che significa tasca o borsa: la gajoffa dei dialetti lombardi. Siccome viviamo il tempo degli «strafalcioni», cioè erroracci linguistici, è curioso indagare sulla sua etimologia. Il verbo «strafalciare» significa «camminare a grandi passi, con le gambe divaricate»: per estensione si arriva a poca diligenza, (p.m.f.) a grossolanità.
se la prendeva con le parole straniere usate al posto di quelle italiane. Polemicamente risaliva a Machiavelli che voleva liberare l’Italia dalle oppressioni straniere: «A ognuno puzza questo barbaro dominio». «Esotismi» inutili e snob, scriveva Monelli. Per esempio non gli piaceva spider, preferendo la «due posti». E nemmeno tennis. Però sapeva bene che ci sarebbe stata una sollevazione generale se si fosse proposto l’antiquato «pallacorda». Monelli, sulla scia dell’irredentismo linguistico, accettava di buon grado alcune parole. Come bureau, a patto di non usarlo al posto di scrivania, banco, ufficio. Bureau come burocrazia? Perché no, diceva. Resa totale alla parola goal, anche se un plauso va al mitico Nicolò Carosio, il padre dei commentatori calcistici, che tuonava con il suo «reteee!». Se ci fate caso oggi si usa più rete che goal (o gol, come sbrigativamente si scrive sui giornali).
All’inizio degli anni Settanta fu Pier Paolo Pasolini a lanciare l’allarme sulla lingua italiana. Secondo lo scrittore-regista stava diffondendosi un eloquio scialbo, medio o mediocre, ma soprattutto di sapore tecnologico in omaggio alla realtà industriale di Torino e di Milano. Negli anni Cinquanta si era già posto il problema don Lorenzo Milani, priore di Barbiana e fondatore della scuola per classi non abbienti. Pensava, non a torto, che nelle scuole «borghesi» gli insegnanti si riducevano a essere strumento della classe dominante. I ricchi erano favoriti, i poveri bocciati. La lingua come fattore dominante. Nella rivoluzionaria scuola di Barbiana i poveri potevano riscattare la loro condizione adoperando una lingua nazionale semplice e funzionale, «diversa da quella inutilmente complessa e ricercata della tradizione letteraria, plurisecolare espressione della cultura aristocratica e borghese» (come ci ricordano Valeria Della Valle e Giuseppe Patota in L’italiano, Sperlin&Kupfer editori). A proposito di abusi linguistici e di potere, è da riportare qui il j’accuse di Gustavo Zagrebelsky, alto magistrato e docente di Diritto costituzionale, il quale in un libricino pubblicato dalla Einaudi (Sulla lin-
gua del tempo presente) riassume il degrado lessicale, e non solo: «L’uniformità della lingua, lo spostamento di parole da un contesto all’altro e la loro continua ripetizione sono il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto». Circa l’accennato «spostamento», Zagrebelsky cita la frase «scendere in politica». Un modo di dire mutuato da un registro anomalo, ossia quello religioso (descendi de coelis…), che indica l’idea salvatrice e la missione redentrice di chi, come Berlusconi, è convinto «di abbandonare la vita beata in cui stava prima lassù, scendendo a sacrificarsi per gli infelici che stanno quaggiù». Annotazione amara dell’autore: «C’è poco da ridere o anche solo da sorridere. È una cosa seria. È forma mentale perenne e universale, ricorrente nella storia delle irruzioni in politica di tutti i benefattori che si accollano compiti provvidenziali». Noi italiani conosciamo bene l’espressione «uomo della Provvidenza» (Mussolini).
Su questo registro insiste il giallista ed ex magistrato Gianrico Carofiglio (in La manomissione delle parole, Rizzoli), il quale spiega come l’impoverimento linguistico di oggi ricorda pericolosamente quanto avveniva nel Terzo Reich, i cui gerarchi volevano una lingua di «estrema povertà». La ragione è facilmente intuibile: «Perché si fonda su un sistema tirannico pervasivo; perché impone un unico modello di pensiero; perché nella sua limitatezza autoimposta poteva esprimere solo un lato della natura umana». Carofiglio scrive che la lingia «se può muoversi liberamente, è per natura ricca, perché si piega a esprimere, a dire tutte le esigenze, tutti i sentimenti umani: e dunque, come contravveleno, converrà ricordare che - non per pedanteria filologica, ma per autoconservazione - bisogna combattere l’impoverimento della lingua, la sciatteria dell’omologazione, la scomparsa delle parole». Insomma, se le parole «scompaiono» o appaiono in modo errato, è in gioco qualcosa di assai più importante della correttezza (e del piacere) lessicale.
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parola chiave
no, parola poderosa. A un primo sguardo persino arrogante e pretenziosa. Non ce ne sono altre capaci di rappresentare in modo altrettanto diretto e conciso l’idea della completezza e della prevalenza. Detto uno si è detto tutto. A fianco di lui si dubita che possa stare l’altro, se non in una condizione del tutto subalterna. In matematica uno è il signore, il riferimento per l’intero sistema. Tutti i numeri sono composti da lui e gli sono debitori dell’essenza con la quale si manifestano. È il concetto di uno che rende possibile la sequenza dei cardinali, i quali esistono solo per la sua certezza. Per grandi che siano, tutti sono composti solamente di uno. In filosofia l’uno è il sostegno di ogni sistema di pensiero forte, prossimo com’è a trasformarsi nell’unico, per un’assonanza che è difficile immaginare casuale, e a confondersi con l’essere di Parmenide. Se il mondo esiste, come ci sembra, non si capisce perché la sua forma non debba essere unitaria e perfetta, mentre il molteplice e il relativo rimangono relegati alla dimensione delle apparenze.
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Sembra che l’ uno , una volta posto non lasci spazio di pensiero per nient’altro, la sua solitudine diviene proposta, modello. Non sappiamo se si tratti della descrizione sofferente di ogni condizione umana, destinata a risolvere in se stessa i propri problemi di comprensione della realtà, di fede per dirla in un altro modo, o di una proposta di perfezione inattingibile, nella direzione del superuomo, per il quale non a caso Dio è morto. Il dogma cristiano del Dio uno e trino racconta di questa tensione umana, proiezione della natura misteriosa di Dio, di raggiungere la completezza di sé e nello stesso tempo di non perdere la propria, preziosa, dimensione sociale, la rete di rapporti interpersonali che contribuisce in larga parte a definirci. Dall’idea di uno deriva quella di eguaglianza politica. Se tutti sono uno, voto, cittadino, elettore, soggetto, persona che sia, ogni gerarchia viene cancellata, può esistere solo in quanto relativa e provvisoria, le differenze di lignaggio e persino di estrazione sociale devono essere cancellate. Rimosse, come recita l’articolo 3 della nostra Costituzione. La nostra democrazia si fonda sulla fiducia nell’esistenza di un uno insito e trascendente a ciascuno che ci rende uguali e titolari degli stessi diritti, a prezzo di un leggero sbiadirsi della nostra personalità sociale, da ricostruire in ogni occasione, che non consente alla storia di famiglia di stabilire le identità. Non è lecito porre la domanda delle società arcaiche, «Come nasce?», per ricevere informazioni sulla persona di cui si sta parlando. I numeri cardinali ci sono propri, nella loro continuità di uno che si sommano, mentre proviamo diffidenza per quelli ordinali. Non ci sentiamo a nostro agio di fronte alla parola primo e la sequenza che ne segue suscita una percezione di ordine gerarchico dal sapore sorpassato. Uno è però capace di sorprendere. Sfogliando voca-
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UNO Rappresenta l’idea della completezza e della prevalenza. In matematica è il riferimento per l’intero sistema, in politica assicura l’eguaglianza, in filosofia è il sostegno di ogni pensiero forte...
I paradossi di un monarca di Sergio Valzania
Il dogma cristiano del Dio uno e trino racconta la tensione umana, proiezione della natura misteriosa del Creatore, di raggiungere la completezza di sé e nello stesso tempo di non perdere la propria, preziosa, dimensione sociale, la rete di rapporti interpersonali che contribuisce in larga parte a definirci bolari si scopre la natura paradossale della parola, umile e proterva nello stesso tempo, che nella nostra lingua sembra divertirsi a sfuggire a quella che a un primo avviso sembra essere la sua natura costitutiva. Nelle nostre grammatiche uno gioca ruoli diversi. L’Hoepli lo censisce come aggettivo numerale cardinale, sostantivo maschile invariabile, arti-
colo indeterminato e pronome indefinito. In maniera più confusa, forse più consapevole delle difficoltà relative alla definizione della parola, lo Zingarelli arriva ad attribuirgli persino una doppia condizione aggettivale, isolando la formula ormai desueta dell’uno e l’altro seguito da sostantivo. La capacità dell’uno di evadere dalla complessa gabbia nella
quale si tenta di imprigionarlo si manifesta fin dalle forme più semplici. Secondo l’Hoepli «vidi un uomo che correva» è l’esempio più chiaro per spiegare la sua funzione di articolo indeterminato. Lo Zingarelli preferisce fornire al lettore la locuzione «un muro cinge il giardino». La linguistica contemporanea ci suggerisce una tecnica molto efficace per esplorare la funzione grammaticale, all’interno di una frase, dei termini che usiamo. Essa consiste nella sostituzione della parola sotto analisi con altre che una persona di lingua madre riconosce come equivalenti, non a livello di significato ma di ruolo linguistico. Se due parole diverse svolgono lo stesso compito all’interno di una frase si può dedurne con sufficiente grado di sicurezza che esse hanno lo stesso peso grammaticale. Al posto di un sostantivo va un sostantivo, di un verbo un verbo e così via. Nel nostro caso potremmo provare a dire «vidi due uomini che correvano» o «quattro mura cingono il giardino». Non abbiamo problemi a farlo. Sfogliando di nuovo il vocabolario, alle parole due e quattro dovrei trovare la stessa qualificazione grammaticale che in una zona diversa viene attribuita a uno. Invece scopro che in questo caso mi trovo di fronte a due aggettivi. Né due né quattro possono essere articoli, eppure ne hanno appena sostituito uno (che qui funge da pronome)!
L’obbiezione, molto debole, consiste nel dire che l’aggettivo uno è privo di plurale e la lingua si adatta come può, tappando a modo suo i buchi creati dalla storia. Una spiegazione nella quale si sentono molti scricchiolii. Il significato delle nostre locuzioni è infatti della stessa identica forza, la comunicazione individua con precisione il numero delle persone che vidi correre. Anche se avessi visto «alcuni uomini correre» il vocabolario mi avrebbe avvertito della sostituzione di un articolo con un aggettivo, in questo caso con una diminuzione dell’informazione trasportata. Quanti uomini correvano? Questa natura sfuggente di uno, in italiano e con sfumature diverse in altre lingue europee, mi sembra lo riscatti dalla prima impressione, troppo esclusiva e muscolare, che ci ha dato. Pur rimanendo un monarca assoluto presenta la natura scapestrata di quei sovrani che si aggirano travestiti nei mercati, per conoscere di prima mano le opinioni dei sudditi. Un po’ di trucco, il cappello calato, un’ampia sciarpa fanno sì che se qualcuno si domanda chi sia quella persona curiosa delle conversazioni di strada, che ascolta molto e non parla mai, subito si senta rispondere con un’alzata di spalle «Mah, è uno...». Nel senso di pronome indefinito e non di numero cardinale Uno, il Primo, il Re. La nostra lingua si rivela più astuta dei grammatici che la studiano e si diverte a far loro degli scherzi. Se è vero, come crediamo noi moderni, che il linguaggio costituisce la nostra visione del mondo dovremmo stupirci di trovarlo rigoroso, asettico e alla fine noioso.
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Pop
musica
AUGURI A VASCO che non invecchia mai di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi ammettevamo sottovoce, o trent’anni fa, che ci piacevano i Joy Division. Che ci piaceva da matti crogiolarci in quel buco nero del loro post-punk e farci ipnotizzare dal canto catatonico di Ian Curtis. Chissà se i ventenni di oggi lo vogliono ammettere: sì, ci piace un casino farci del male coi White Lies. I quali, due anni fa, sono sbucati fuori dal nulla con To Lose My Life (Perdere la mia vita), disco ultra pessimista per adolescenti depressi che dopo aver raggiunto il primo posto nella classifica inglese ha venduto quasi un milione di copie in tutto il mondo. Con versi del tipo: «Morire o perdere l’amore, questo è l’incubo da cui sto fuggendo. Dobbiamo crescere insieme e morire insieme». Evviva. Il tutto, incoraggiato da un sintetizzatore che flirtava con la chitarra elettrica ricordando i Joy Division (soprattutto) ma anche Echo & The Bunnymen e gli Ultravox. In poche parole, il dark e la new wave degli anni Ottanta riveduti e corretti da tre pischelli di Londra (Harry McVeigh, Charles Cave e Jack Brown) che si sono conosciuti fra i banchi di scuola, hanno iniziato a suonare come Fear of Flying (paura di volare: già promettevano bene) e poi hanno scelto White Lies perché «le bugie raccontate a fin di bene proteggono dalle verità sconvolgenti». Di nero vestiti, furbescamente pallidi, sguardo fisso verso il nulla, i tre dichiararono che «il nero è il colore che si addice di più alla nostra musica, e To Lose My Life esprime un profondo pessimismo che però è solo uno dei lati della nostra personalità». Oggi, il loro look non disdegna il bianco e il grigio e il loro umore tende al variabile, anche se «per noi è inevitabile dar voce a tutto quello che ci circonda, paure incluse», ha
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Jazz
zapping
h già. Vasco ha compiuto 59 anni. Un nuovo disco è in uscita e, a quanto ne dice la critica musicale della Stampa, la novità più grossa è l’assenza del cappellino. Eh già, Vasco non porta più il cappellino, non si difende più dal mondo, sembra di capire, parla di se stesso: «Io resto sempre in bilico/ Più o meno o su... per giù/ Più giù... più su... più giù... più su». Sono parole tratte dal nuovo singolo che è già in rete. Eh già è il titolo. Anche Pierluigi Bersani, quasi conterraneo, fa gli auguri al rocker con queste parole: «Inutile Vasco che tu insista a compiere gli anni, tanto non invecchierai mai». Bersani forse invecchierà, ha già un anno più di Vasco e qualche perfido se l’immagina già, nella natia Bettola, che esce presto nella fredda mattina appenninica, il cappello coperto di galaverna, sottobraccio la smilza Unità di Concita, e aspetta l’apertura della parafarmacia. Eh già. Ma Vasco no, è un classico specialmente per i critici, gli intellettuali, i politici. La sua spericolatezza che fece imbestialire illo tempore Nantas Salvalaggio è un tratto folkloristico. Il suo niccianesimo («ti piace essere come vuoi/ e rispondi solo a te») ha un tratto irresistibilmente simpa, ludico e libero. E poi come dimenticare il video su youTube in cui cantava in chiesa con la chitarra acustica? Una sorta di Peppone che da ragazzo faceva il chierichetto. Perfino i suoi sbotti libidici vagamente satireschi («prendi una mano señorita/ e mettila qua») vengono allegramente solfeggiati dai bambini delle scuole medie, fanno sorridere i genitori. E infine nell’epoca pop restano solo loro, i cantanti a fare da pantheon per questo o quel progetto politico. Meno male che Vasco c’è. Eh già.
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Triste è bello
(ma in stile anni 80) sentenziato Harry McVeigh a proposito di Ritual, il nuovo album prodotto da quell’Alan Moulder che di tormenti rock se ne intende: leggi Smashing Pumpkins, My Bloody Valentine, Nine Inch Nails. «La vita è questa», si è affrettato a precisare il cantante, «così come il mondo che gli ruota attorno». Ma se la teoria del «gli è tutto sbagliato, gli è tutto da rifare!», copyright Gino Bartali, poteva andar bene al loro debutto nichilista, ripetere a pappagallo la tiritera del pessimismo cosmico non avrebbe giovato a nessuno. Tant’è che i White Lies, oltre a prendere le debite distanze dal movimento dark («Solo ai cinquantenni che vengono ai nostri concerti ricordiamo quel genere di musica») non ci stanno più a far rima con Joy Division. Semmai con Coldplay, nel senso di triste è bello. In effetti, Ritual suona più gothic-
pop e meno disperato di To Lose My Life. E sebbene (il trio non si offenda) la martellante Bigger Than Us e la cantilenante Streetlights tirino ancora in ballo il gruppo di Ian Curtis, e Strangers più Bad Love risultino maestosamente scure, il resto è perfino incoraggiante. Is Love, infatti, parte come avrebbe voluto Jim Morrison per poi approdare a un technopop alla maniera dei Depeche Mode, Power & The Glory si muove in modo decisamente electro e stiloso, Turn The Bells si scopre tribale e percussiva, Come Down punta sull’interferenza elettronica ma poi abbraccia l’orecchiabilità melodica. E se anche Holy Ghost, in più d’un passaggio, ricorda ancora i Depeche Mode, l’avvolgente ed evocativa Peace & Quiet paga pegno ai Tears For Fears. Anni Ottanta, quindi. Spesso e volentieri. Il trio non si (ri)offenda, mica è un peccato. Appuntamento, per l’unico concerto italiano, il 12 marzo all’Estragon di Bologna. White Lies, Ritual, Fiction, 16,99 euro
La storia del blues in quaranta brani cco un disco, anzi un doppio cd che dovrebbe essere accolto con entusiasmo da tutti coloro che si interessano al blues nelle sue diverse forme. È una storia di questa musica in solo quaranta incisioni, ma sono sufficienti per avere un’idea completa dell’evoluzione del blues dagli anni Venti ai giorni nostri. Le quaranta incisioni sono così suddivise: le prime venti dedicate al blues classico o country blues, le altre al blues cosiddetto di Chicago o blues elettrico. Scorrendo i quattordici nomi degli interpreti scelti dai compilatori di questa raccolta, da Mississippi John Hurt a Freddie King, è l’intera storia del blues che scorre sotto i nostri occhi. Quando poi i cd vengono inseriti nel lettore non è solo la storia di questa musica che ascoltiamo, ma anche un mondo straordinario che appare attraverso le voci e i «racconti» di questi poeti dell’America nera. Quando Mississippi John Hurt (1893-1966) canta è il Sud rurale quello che viene raccontato. Le
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di Adriano Mazzoletti «storie» dei contadini raccontano di «debolezze» e di «malocchio», ma anche della famiglia, del lavoro nei campi, del rapporto con il padrone che voleva vedere aumentare il più possibile le loro famiglie, perché ogni figlio in più significava un paio di braccia in più. Mississippi John Hurt ne ebbe quattordici da sua moglie Jesse. Fu scoperto nel 1928, a trentacinque anni e i suoi blues iniziarono a circolare negli Stati Uniti del Sud nelle incisioni vendute solo nei quartieri neri. Più famosi di John Hurt, furono Blind Lemon Jefferson (1897-1929), Leadbelly (1889-1949), Big Bill Broonzy (1893-1958) e Robert Johnson (19121938), morto a ventisei anni. Ma la sua fu notorietà postuma. La celebrità giunse quando i Rolling Stones nel 1969 incisero Love in vain che Johnson aveva lasciato al mondo del blues in una incisione del 20 giugno 1937, un anno prima della sua scomparsa. Il successo degli
Stones stimolò ricercatori e studiosi. Furono scoperti episodi sconosciuti della sua vita trascorsa attraverso piccole taverne, bar, honky tonk, fra Arkansas, Tennessee, Missouri, Illinois,Texas, Kentucky, New York, New Jersey, Mississippi dove morì a Greenwood avvelenato da qualcuno. Gelosia o vendetta? Non lo si saprà mai. Spirò nell’ambulanza che lo stava trasportando all’ospedale. Una storia diversa fu quella di Huddie William Ledbetter, conosciuto nel mondo del blues come Leadbelly, nato nella Jeter Plantation fuori Mooringsport in Louisiana.Venne scoperto, nel 1933, dall’etnomusicologo Alan Lomax mentre era detenuto, con l’accusa di omicidio, nel Louisiana State Penitentiary di Angola. Lomax riuscì a fargli ottenere la grazia e da quel momento iniziò una lunga serie di incisioni per la Library of Congress di Washington. I suoi blues rappresentano l’anello di congiunzione
fra il blues primitivo di Blind Lemon Jefferson e quello più moderno e sofisticato di Josh White. Ma questi due dischi sono ricchi di innumerevoli altri momenti importanti come Sweet Home Chicago, altro blues di Robert Johnson del 1937, inno, quarantatré anni dopo, del film Blues Brothers dove cantava, insieme ad altri big, John Lee Hooker. Qui lo ascoltiamo nella versione originale.
History of the Blues, Acoustic to Electric, Retro Records, due cd
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arti Mostre
è uno strano pregiudizio, che tutti in parte condividiamo. Che se è essenziale vedere una mostra dal vivo, perché se no non ha senso scrivere, senza saggiare davvero la carne dell’opera, la «grana» della voce della pittura (e magari pure dell’installazione) con la fotografia sarebbe un po’tutto diverso - se solo uno ha a disposizione un buon catalogo o qualche soddisfacente risoluzione di scatti, e allora può tranquillamente starsene a casa, a tavolino, a scriverne. E invece no, questa ne è la controprova. Per esempio, abbiamo visto allestire, nei tristi giorni del funerale di Graziella Lonardi, la mostra di Ugo Mulas, a Napoli, con il sensibile curatore Giuliano Sergio e con la volitiva castellana di Villa Pignatelli, Denise Pagano, che ha ricevuto questa nobile e ingombrante eredità di trasformare la villa neoclassica, già sede di mostre storiche, in una viva «Casa della fotografia», soprattutto napoletana. Ricca di archivi, di documenti, voci, seminari, vitalità dell’intelligenza, qual era il sogno «caratteriale» della Lonardi, scomparsa troppo repentinamente, senza vedersi coagulare quell’antico suo sogno. E nemmeno il fiorire di questa prima, emozionante retrospettiva... è troppo funebre il termine, diciamo, assaggio, nell’archivio ancora fecondo di Mulas; che non a caso le è stata dedicata, anche perché incentrata su quella serie di immagini documentali, scattate durante la mostra romana di Vitalità del negativo, fortemente ideata dalla mecenate napoletana. E che difatti sorride ancora, dalla parete, vivissima e leggera, come una ninfa del contemporaneo, cosparsa dei brillantini morbidi del bianco pluribol dell’installazione di Fabio Mauri, lei che non portava gioielli, salvo che quel franco sorriso di aerea nobildonna senza titoli, salvo quello della disponibilità dell’intelligenza. Ecco, anche se uno già possiede il fastoso volume Johan & Levi dedicato agli inediti di Vita-
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Moda
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Opere in fieri
negli scatti di Mulas di Marco Vallora lità del negativo e può pascolarci dentro a piacere e se pure si era in gran parte assistito al frenetico allestimento della stessa in cantiere, rivedere la mostra ultimata e risolta con soluzioni eleganti e suggestive e una intelligente scelta degli interventi scritti del fotografo, dimostra ulteriormente come pure le rassegne di fotografia vadano vissute nel pathos della visita e della partecipazione viva. Che bel-
lo, per esempio, quell’esordio teatrale di Duchamp, il sigaro come un carboncino accademico ormai diventato inutile, che varca il sipario dell’arte passata, schiudendo una tenda fittizia, un po’ in stile Prologo dei Pagliacci, ricordate?: «Disturbo? Io sono il Prologo».Tutto parte di lì, da quel rifiuto del fare-arte, che tra pochi scatti ce lo mostrerà in un giardino americano, alla scacchiera da parco-an-
ziani, lo sguardo interrogativo, di un geniale pensionato del bello estetico. E davvero Mulas lo aveva intuito, senza tanti virgilio ingombranti intorno. «Quando nel ‘64 ho iniziato con Solomon il libro sui pittori americani fui io a insistere per inserire Duchamp, per una certa intuizione che alla base di quello che capitava in quegli anni in America, ci fosse lo zampino di Duchamp. (...) Il suo silenzio costituisce l’equivalente dell’opera… volevo portare Duchamp su un terreno il più possibile indefinito, senza tempo, dove fosse possibile visualizzare l’ambiguità di questo suo non-fare». Perfetto, e le sue immagini lo de-cantano proprio, quel non-tempo indefinito. Intanto vede nascere, proprio dal basso, come una falda acquifera, la Pop Art. Per esempio, alla factory di Warhol, dove scopre con curiosità da fotografo, il tempo immobile dei suoi film, ripensando i suoi rapporti con la pittura e il tempo. Film «come grandi fotografie proiettate, tanto non accadeva nulla, solo che a un certo momento la fotografia veniva come terremotata, in quella assoluta immobilità bastava un battito di ciglia o un deglutire, per dare un senso di movimento». Warhol «riesce sicuramente a mettere in crisi le mie idee sulla fotografia» e anche a fargli cambiare idea sull’arte, dirigendosi sempre più verso la fotografia concettuale e riflessiva di Verifiche, in mostra. Come in sintonia con certe poetiche parallele di Paolini, ormai Mulas fotografa la possibilità nuda, nascente, geometrica dell’arte. Forse suggestionato dal film di Namuth su Pollock, egli fotografa il farsi dell’opera: Rauschenberg che annusa la tela nuda, Lichtenberg che dialoga con un fumetto disegnato, Barnett Newmann che sfrutta il taglio del fotogramma per «firmare»fermare una sua opera all’opera. Opposto alla poetica di Cartier-Bresson, del cacciatore che fulmina l’attimo fuggente egli capisce che un «attimo qualunque può essere detto fotograficamente».
Ugo Mulas. Verifica dell’arte, Napoli, Villa Pignatelli, fino al 28 febbraio, Catalogo Johan & Levi
Dolce vita a Roma con Fernanda Gattinoni lizabeth Taylor non aveva il fisico per il pigiama palazzo. Né l’aveva Sophia Loren con il suo appariscente davanzale. Ma era perfetto per Elsa Martinelli, risposta italiana a Audrey Hepburn. Una che poteva mettere tutto. Severa e paziente nelle prove degli abiti, Audrey affrontava le sedute all’atelier Gattinoni con un thermos di spremuta d’arancia. Ingrid Bergman si faceva accompagnare dai figli: bambini belli e biondissimi che assistevano senza fiatare alle estenuanti prove di mamma (che comprava parecchio: 220 tra gonne, abiti, camicie, cappotti). L’atelier Gattinoni di via Toscana era un posto dove farsi consigliare e coccolare, un confessionale psicanalitico e anche qualcosa di più. Ava Gardner aggredì scompostamente Lucia Bosè, nel salottino prova. Le rovesciò una tazzina di caffé sul cappotto di cammello e fuggì lanciandole insulti impronunciabili per l’epoca. Il motivo era un uomo: Walter Chiari. Anni Cinquanta, anni sognanti di un altro secolo, quando il made in Italy era ancora un’idea, ma le firme c’erano già: Sorelle Fontana, Emilio Pucci, Irene Galitzine, Roberto Capucci, un giovanissimo Valentino. E naturalmente, Fernanda Gattinoni. Le sue creazioni (straordinari i costumi di Natasha-Audrey Hepburn in Guerra e Pace) sono in mostra a Roma fino al 10 marzo al Museo Boncompagni Ludovisi.Titolo dell’operazione nostalgia: Moda e stelle ai tempi della Hollywood sul Tevere. Quando lo star sy-
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di Roselina Salemi stem viveva a casa nostra: liti, amori, paparazzi e abiti da sposa con strati di pizzo, tulle e perle, donne come torte nuziali viventi e gonne cucite con scandaloso spreco di seta. Quando le signore snob (Ford, Rothschild, Agnelli, Crespi) che viaggiavano tra New York, Parigi, Montecarlo, Roma, Capri e Sankt Moritz, si conoscevano tutte, si scambiavano gli indirizzi degli ate-
lier e si copiavano i vestiti. Andavano molto gli abiti di chiffon drappeggiato alla Lana Turner, l’indecisa che chiedeva lo stesso modello in trenta colori e pretendeva che Fernanda Gattinoni, con tutto lo staff si trasferisse all’hotel Excelsior per le prove. La mostra si apre
con gli abiti del guardaroba privato e i costumi dei film Europa ‘51 (1952) e Fiore di Cactus (1969) realizzati per Ingrid Bergman, prosegue con Lana Turner, i deliziosi abiti della collezione Casanova (1958) appartenuti a Kim Novak e le petites robes noires di Anna Magnani. Vestiti molto simili, abbinati di solito a un cappottino di taffettà. Un aneddoto: erano le 23.30 del 31 dicembre 1959, Nannarella doveva partecipare al veglione organizzato a casa di Totò, ma aveva dormito tutto il giorno e non aveva ritirato l’abito già pronto per lei. L’atelier di via Toscana era ancora aperto (molte le ritardatarie) e quando l’indimenticabile attrice di Roma città aperta urlò sotto le finestre: A sinistra, l’atelier Gattinoni «A Fernà, il vestito!!!», negli anni 50. Sotto, Madame Gattinoni l’accolAudrey Hepburn se sorridendo e l’aiutò a cambiarsi per la festa. Naturalmente l’abito era nero. E se lo guardate bene, vi accorgerete che potrebbe andare benissimo al vostro prossimo party. Quando si dice lo stile.
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il paginone
«Parassita militante» No, solo poeta di Pasquale Di Palmo l processo, la prigione, l’esilio sono avvenuti così tanto tempo fa che li considero quasi parte di una mia precedente incarnazione. Io mi sono sempre considerato soltanto una persona che vive all’estero, in una sorta di prolungata vacanza che mi è stata regalata dall’imbecillità dei governanti russi. Le confermo che non mi piace né il termine esule né quello di dissidente. Prima di tutto perché è orribile etichettare un essere umano e la sua vicenda secondo categorie ideologiche o di appartenenza a una razza e a una nazione. Poi perché queste, come tutte le altre definizioni, finiscono per congelare le idee. Bloccando l’intelligenza e la comprensione dei concetti stessi. Quando si parla di esilio o di dissidenza, ad esempio, emerge un elemento melodrammatico che è falso e fastidioso. L’esilio è considerato a volte come ragione in sé sufficiente d’eroismo, mentre spesso si traduce in una vita più semplice e agiata».
«I
Queste parole, tratte da un’intervista del 1990 a Josif Brodskij, documentano il complesso rapporto che l’autore russo aveva nei confronti della sua vicenda «politica». Vessato a più riprese dalle autorità sovietiche, Brodskij venne infatti arrestato alla fine del 1963 e sottoposto a un processo-farsa con l’accusa di «parassitismo sociale» qualche mese dopo. Gli atti di questo processo, svoltosi nella città natale di Brodskij (San Pietroburgo, all’epoca chiamata Leningrado), trascritti in segreto dall’amica FridaVigdorova, si conclusero con la condanna a cinque anni di lavori forzati che il poeta trascorse solo in parte nella località di Archangel’sk. L’opinione pubblica internaanno IV - numero 6 - pagina VIII
zionale si mobilitò infatti per la liberazione di Brodskij, coinvolgendo, tra l’altro, intellettuali del calibro di Sartre e costrinse le autorità sovietiche a liberare il futuro autore di Fermata nel deserto dopo diciotto mesi. Due giovani studiosi emiliani, Cristiano Casalini e Luana Salvarani, pubblicano ora sotto il titolo Brodskij 1964. Un processo (Medusa, 98 pagine, 11,50 euro) la trascrizione degli atti di questa cause célèbre, intervallata dalle considerazioni che due fantomatici intellettuali si troverebbero a
fare nel 1989, poco prima della caduta del Muro di Berlino, ascoltando i nastri relativi alle deposizioni.
Concepito come una sorta di pièce teatrale (il sottotitolo del volumetto è Dramma didattico sulle trascrizioni originali delle udienze), il lavoro dei due studiosi ha il merito di presentare al lettore italiano un documento di fondamentale importanza sul piano storico e politico, soffermandosi su una vicenda che assume carattere di esemplarità
nel contesto culturale novecentesco tout court. La miopia e la malafede con le quali il poeta, insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1987, viene giudicato sono suffragate dalle deposizioni di alcuni testimoni, come quella di un certo Nicolaiev: «Non conosco personalmente Brodskij. Quello che ci tengo a dire è che da tre anni sono al corrente dell’influenza disastrosa che egli esercita sui suoi contemporanei. Sono padre di famiglia. So per esperienza quanto è duro avere
Sembra un pezzo di teatro dell’assurdo lo scambio di battute tra il futuro Nobel per la letteratura e il suo giudice. Del resto i curatori del volume l’hanno concepito come un “Dramma didattico”
un figlio come lui, che non lavora. Più di una volta, ho trovato da mio figlio delle poesie di Brodskij: un poema in quarantadue parti e diverse altre poesie. Ho sentito parlare di Brodskij a proposito del caso Umanski. Dimmi chi sono i tuoi amici... come dice il proverbio. Ho conosciuto personalmente Umanski. È un inveterato antisovietico. Ascoltando Brodskij, ho riconosciuto mio figlio. Anche lui si considera un genio. Come lui, si rifiuta di lavorare. Individui come Brodskij e Umanski hanno un’influenza disastrosa sui loro contemporanei. I genitori di Brodskij mi sconcertano. Visibilmente, essi cantano le sue lodi, all’unisono con lui. A giudicare dalla forma, è evidente che Brodskij sia capace di far versi. Ma i suoi versi non fanno altro che del male. Brodskij non è un semplice parassita. È un pa-
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Per lui il peggiore dei crimini era il supremo dei beni. E a causa di esso fu processato a Leningrado nel 1964 e condannato a cinque anni di lavori forzati che grazie alla mobilitazione dell’opinione pubblica internazionale si ridussero a 18 mesi. Ma Josif Brodskij non amava il termine dissidenza né quello di esilio, perché, diceva, «finiscono per congelare le idee». Adesso la trascrizione degli atti di quella celebre causa è pubblicata in un libro rassita militante. Con gente come lui, bisogna essere senza pietà». I due curatori mettono in luce come gli atti di questo processo si basino sostanzialmente sulla profonda dicotomia esistente tra il linguaggio burocratico esibito dagli organi del potere costituito e la disarmante caparbietà con la quale Brodskij rivendica il proprio ruolo di poeta in un mondo che non riconosce né abbisogna di poeti.
A meno che questi ultimi non siano disposti a fare il panegirico del regime. Giustamente Massimo Onofri, nella sua pregnante prefazione, sostiene che «Brodskij non s’aiuta difensivamente, ma aggrava la sua posizione, quando, di fronte all’accusa che quello di poeta non è un lavoro, continua a ripetere che il suo lavoro, appunto, è stato quello di comporre o tradurre versi». Onofri aggiunge: «Paradossalmente, Brodskij e i suoi carnefici la pensano allo stesso modo, potrebbero persino parlare lo stesso linguaggio: il nemico della rinnovata società socialista è proprio l’individuo. Il “distacco dal mondo” (e cioè una radicale asocialità), la “pornografia” (e dunque il carattere diseducativo, intimo e privatissimo della poesia di Brodskij), l’assenza d’amore per la patria e per il popolo (che, nei versi del poeta, sono amore per l’uomo in quanto tale, ben al di là della sua contingente anagrafe storica e sociale), insomma tutti gli addebiti che gli imputa il compagno Voievodin, cambiati di segno
e valore, potrebbero essere rivendicati con orgoglio come valori dall’individualista Brodskij». Il problema è che la poesia di Brodskij, come ha rilevato Pasolini in una sua recensione, «si fonda sull’idea dell’inutilizzabilità della poesia» e, come tale, non poteva che essere recepita dalle istituzioni sovietiche alla stregua di un’opera dal carattere asociale, ripiegata sull’intimismo e sulla pornografia anziché sull’engagement di majakovskijana memoria. Si assiste dunque a un processo in cui gli inter-
segno opposto. Se per i funzionari sovietici, l’inutilità sociale della poesia, il suo carattere irriducibilmente antipedagogico, è il peggiore dei crimini, per il poeta è il supremo dei beni», avverte ancora Onofri.
C’è uno scambio di battute esemplare tra Brodskij e il giudice, signora Savelieva, che testimonia la totale mancanza di umanità e comnei prensione confronti dell’imputato, disarmato dal fatto di non trovare appigli di genere nessun per districarsi da una situazione paradossale e, al tempo stesso, capace di mantenere un atteggiamento fiero, a tratti quasi sprezzante: «Il giudice: In generale, qual è la vostra specializzazione? Brodskij: Sono poeta, poetatraduttore. Il giudice: Chi ha stabilito che voi eravate un poeta? Chi vi ha classificato tra i poeti? Brodskij: Nessuno. E chi mi ha classificato nel genere umano? Il giudice: E avete studiato a questo fine? Brodskij: A quale fine? Il giudice: Per diventare poeta. Non avete tentato di fare studi superiori per prepararvi... per apprendere... Brodskij: Non pensavo che questo potesse essere appreso. Il giudice: Come diventate poeta, allora? Brodskij: Penso che... sia un dono di Dio...». Sembrano i dialoghi di una commedia del teatro dell’assurdo e non si può non ricordare, a tal propo-
efficienza che verso la metà dei Sessanta ce n’era in circolazione un numero sufficiente per organizzare un sindacato». Quel che non convince, nella pur meritoria operazione di riproporre in italiano gli atti del processo a Brodskij (ricordiamo che, nel 1964, apparve nella rivista Il borghese una versione pressoché integrale), è di accavallare gli stessi con le fumose elucubrazioni di due intellettuali nutriti di quella tipica cultura novecentesca che Brodskij in fondo osteggiava proprio in virtù della sua retorica (Lacan, Barthes, Foucault, Derrida), appellandosi a ben altri modelli, quasi esclusivamente di taglio poetico (in primis Auden, ma anche Frost, Lowell, l’Achmatova, la Cvetaeva, Kavafis, finanche il nostro Montale, peraltro quasi mai citati nel testo). Gli stessi curatori aggiungono, nella postfazione, che a loro «non interessava Brodskij come scrittore», bensì «il processo Brodskij per le domande che pone». Ebbene, ci sembra che, con le conversazioni proposte, rasentanti il birignao intellettuale tipico di un certo retroterra culturale, tali domande rimangano desolatamente senza risposta e che una vicenda quanto mai sintomatica come il processo a Brodskij corra il rischio di essere soltanto un pretesto per evidenziare la gratuità di due interlocutori che, sorsegdiscettano giando whisky,
«L’estetica è la madre dell’etica - disse Brodskij a Stoccolma nel 1987. Le categorie di “buono” e “cattivo” sono categorie estetiche che precedono le categorie del “bene” e del “male”» locutori si trovano nella condizione di parlare lo stesso linguaggio proprio in virtù della loro perfetta incapacità di rapportarsi al modello diametralmente opposto. «Da questo punto di vista, la posizione di Brodskij resta inconciliabile con quella dei suoi carnefici, e dunque non negoziabile, proprio perché è esattamente la stessa, seppure con un valore di
sito, la conversazione telefonica intercorsa trent’anni prima tra Pasternak e Stalin a proposito della detenzione di Mandel’stam, in cui il futuro autore del Dottor Zivago invitava, senza alcun esito, il despota georgiano a parlare «della vita e della morte». Brodskij stesso scrisse che «il regime, negli anni Trenta e Quaranta, sfornava vedove di scrittori con una tale
sull’horror vacui mentre il problema di fondo riguarda il fatto che il regime sovietico era «l’unico al mondo dove si uccide per una poesia», come aveva sentenziato Nadezda Mandel’stam. Non era meglio allora proporre, nudo e crudo, il resoconto degli atti senza appesantirlo con disquisizioni fuori registro? E non era preferibile tradurre tale resoconto direttamen-
te dal russo e non dalla versione francese, visto che i curatori sono «convinti [...] che una scrittura si rivela solo nel contatto profondo con la lingua in cui è stata pensata»? Si ha l’impressione che i propositi dei curatori si ripercuotano a mo’di boomerang sul loro stesso operato. E se condivisibile risulta l’intento di «evitare un commento classico, di tipo saggistico», più nebulosa appare la seguente asserzione alla luce dei lacerti dialogati dei due intellettuali: «il gergo della riflessione sociopolitica, soprattutto in Italia, ci pare così sfibrato dall’uso bulimico, approssimativo (e non di rado in malafede) della prassi giornalistico-accademica, che non usarlo, semplicemente, è buona norma igienica». D’accordo, ma un netto contrasto si avverte nell’economia del libro: da una parte la cronaca, i fatti realmente accaduti, anche se adulterati da uno scambio di battute degne di Beckett o Ionesco; dall’altra il commento fuori dalle righe di due rappresentanti dell’intellighenzia che adoperano il medesimo linguaggio «bulimico, approssimativo» che vorrebbero potenzialmente contrastare.
D’altronde non è un caso che Brodskij mettesse in luce come la questione del gusto fosse intimamente correlata a un canone di ordine etico, come nello rileva straordinario discorso tenuto in occasione del conferimento del Premio Nobel nel 1987: «Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. Giacché l’estetica è la madre dell’etica. Le categorie di “buono” e “cattivo” sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del “bene”e del “male”. In etica non “tutto è permesso” proprio perché non “tutto è permesso” in estetica, perché il numero dei colori nello spettro solare è limitato. [...] Come polizza di assicurazione morale, quanto meno, la letteratura dà molto più affidamento che non un sistema religioso o una dottrina filosofica. Poiché non ci sono leggi che possano proteggerci da noi stessi, nessun codice penale è in grado di prevenire i reati contro la letteratura; anche se possiamo condannare la materiale soppressione della letteratura - la persecuzione degli scrittori, gli abusi della censura, i roghi dei libri - siamo poi impotenti di fronte al delitto più grave: l’indifferenza verso i libri, il disprezzo per i libri, la non-lettura. Per questo delitto una persona paga con tutta la sua vita, e se il delitto è commesso da una nazione intera, essa lo paga con la sua storia».
Narrativa
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libri
Georges Simenon LA FUGA DEL SIGNOR MONDE Adelphi, 154 pagine, 17,00 euro
ome in molti romanzi di Simenon la vicenda prende l’avvio da una svolta emotiva, da un oscuro magma interiore che trova improvvisamente un canale di uscita. C’è un uomo che in pochi istanti decide di cambiare vita, trovando insopportabile e talvolta incomprensibile quella fino a quel giorno vissuta. Un atto brusco, del quale non si sorprende solo chi lo realizza, ossia Herbert Monde, 48 anni, ricco industriale. Si alza presto. Teme sempre di svegliare la seconda moglie dagli occhi neri. Si lava con cura, si guarda poi allo specchio «con un compiacimento venato di amarezza». A quell’ora i suoi capelli biondi e radi gli stanno ritti in testa dando al suo viso roseo un aspetto infantile. Fa colazione da solo, nell’angolo con le vetrate colorate che gli ricordano il padre e il nonno. Poi va in ditta, saluta il contabile poi il figlio effeminato. Infine sparisce. «In quel momento non si sentiva a suo agio da nessuna parte». Sale su una carrozza di terza classe, diretto a Marsiglia dopo aver scelto abiti dozzinali e aver messo una forte somma di denaro nella valigia. La fuga verso il mare. Si è tagliato i baffi. Solo un piccolo gesto: «Non ebbe incertezze, si potrebbe dire - scrive Simenon - che non ebbe bisogno di decidere, anzi che non ci fu niente da decidere». La casa appena lasciata la pensa come «inamovibile», lui desidera lanciarsi a capofitto «in quel fiume di vita che scorreva» attorno alle mura familiari. Gli piace l’anonimato. Accetta gli odori volgari, la promiscuità e la sciatteria d’un albergo. Norbert è sempre stato «un uomo incapace di osare», che teme di mettere in imbarazzo gli altri. Anni prima ha covato l’idea di un «altrove». Anche con la sua prima moglie, Thérèse, una «santarellina» che però collezionava foto e disegni pornografici e spesso si faceva portare dall’autista in locali sordidi. Una donna che diceva sempre al marito «a me piace quel che a te piace» e poi si raggomitolava in segreti indecenti. Per caso, nell’albergo di Marsiglia, soccorre Julie, una donna giovane, appariscente e poco fine, che tenta di avvelenarsi per una delusione amorosa. Superba e spietata è la descrizione che Simenon fa di lei, al ristorante: «Si era acchittata con cura come se non fosse mai successo niente, e si era truccata con cura, disegnandosi una strana bocca, più piccola di quella vera, attorno alla quale il rosa pallido
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groviglia in volute psicoanalitiche, predilige la descrizione: è qui che risiede la verità della vita, compreso l’inspiegabile.Talvolta si limita ad accennare ai moti dell’anima, ma lo fa con occhio da fotografo: «Lui si rivestì. Non era infelice. Quello squallore faceva parte della vita che aveva desiderato».Vuole far parte della gente comune. Da Marsiglia a Nizza. Sempre sul mare: «la battaglia è finita», bisogna lasciarsi trascinare senza rimpiangere nulla, evitare l’obbligo di spiegare il senso delle parole. Certo, dietro di lui c’è una vita complessa. Il genio di Simenon consiste nel conoscere perfettamente il passato di ogni personaggio. Ecco perché lo scrittore prima di iniziare un racconto s’annotava l’intero passato di ogni persona destinata poi a calare sulle sue pagine. A Nizza il signor Monde s’imbatte nella sua prima moglie, Thérèse dagli occhi viola, coinvolta in una vicenda poco chiara. È ormai morfinomane, lui l’aiuta senza far finta di dimenticare che non è cambiata, che si sente sempre al centro del mondo. È stata lei, lasciandolo, a farlo soffrire. Certo, si è rifatto una vita con un’altra moglie, «ma non era più riuscito a essere felice». Monde ha ormai compiuto il percorso da troppo tempo rimandato, è capace, «alla luce della luna», di vedere in modo diverso la vita, «come se avesse dei portentosi raggi X». Lascia Nizza per Parigi. L’uomo che da tre mesi tutti credevano morto riprende normalmente la sua vita. La moglie è impassibile: «Lui la guardava senza scomporsi, vedeva i suoi piccoli occhi neri diventare un po’meno duri, lasciar trapelare, forse per la prima volta, un certo smarrimento». Fino all’ultimo non capisce nulla: «Non sei cambiato». Risposta di monsieur Monde: «Sì, invece». È consapevole di essere di nuovo solo. Ma il viaggio, anzi la fuga, ha tracciato una metamorfosi, quasi animalesca: «Era sereno. Era dentro la vita, mutevole e fluido come la vita stessa». Lontano ormai dai fantasmi e dalle ombre del suo passato, va nella stanza con le vetrate colorate. Ormai «guardava la gente negli occhi con fredda serenità».
La metamorfosi di Monsieur
Riletture
Monde
Un uomo decide all’improvviso di cambiare vita. E Simenon ce lo racconta dal suo punto di vista privilegiato: quello della descrizione di Pier Mario Fasanotti delle labbra naturali veniva fuori come una sottoveste troppo lunga». Julie, frequentatrice di locali notturni e con ambizioni di ballerina, non è cattiva. È soltanto una qualsiasi. Il signor Monde ha svogliati rapporti intimi con lei. Passeggiano cupi e silenziosi «come ogni coppia». Gli chiede della scelta, Norbert si limita a rispondere «ero stufo». Simenon, come di consueto, non s’ag-
L’ermetismo (e altre assenze) spiegato da La Capria o ripreso in mano il Meridiano di Mondadori dedicato a Raffaele La Capria per rileggere dopo molti anni Ferito a morte del 1961 che vinse meritatamente, e dopo una battaglia letteraria, il Premio Strega. Il romanzo conserva tutta la sua freschezza, la sua originalità con personaggi assai vivi e coloriti, con vicende che prendono il lettore, e uno stile personalissimo che segnò la scrittura di La Capria, che ha da subito usato una straordinaria vocazione narrativa. Il libro, del resto, fu accolto con molto favore dai critici del tempo. Ma prima mi sono imbattuto nei frammenti di False partenze datati 1943. È una lettura che mi riguarda da vicino, perché gli scrittori formativi che la Capria indica sono stati più o meno gli stessi che hanno toccato il mio cuore e la mia fantasia. E questo vale anche per molte tematiche (come quelle sull’«assenza»). Non parallele invece le prime scelte politiche di La Capria, poi però accantonate per una posizione che si può definire liberale e che subito mi persuase. «Baudelaire era il lago da cui si partivano i due fiumi della poesia francese: Rimbaud in una direzione che arrivava fino ai surrealisti, Mallarmé in un’altra che arrivava a
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di Leone Piccioni Valéry». «Valéry credeva al dominio assoluto dell’intelligenza e infatti“la stupidità non è il mio forte”era il suo motto. Ammiravo la perfezione alessandrina di Valéry poeta, il professorale neoclassicismo di Eliot, l’aristocratico liberty di Rilke». Ma si aggiunge l’ammirazione per Garçia Lorca e la sua poesia. Tante altre scelte possono definirsi comuni come quella per Kafka e per Dostoevskij.Tra gli italiani l’importanza di Vittorini, di Moravia, di Pavese, traduttore di Moby Dick, legando certa nuova ricerca narrativa italiana a tipici prototipi americani come Saroyan, anche se poi un po’ ridimensionato. Per le scelte politiche La Capria fu toccato come molti suoi coetanei scrittori dalla dottrina di Marx. Sotto le armi, correndo molti pericoli, portava con sé il Manifesto del Partito Comunista. Ma sempre più la riflessione sul marxismo lo porta a rivedere quale situazione si sia determinata in Russia dove la teoria doveva sostituire la pratica, e si accorge «che diventava sempre meno probabile che il bruco si trasformasse in farfalla». E si tornano così a citare interventi assai
Sfogliando il Meridiano Mondadori, alcune riflessioni in margine a “False partenze”
coraggiosi e importanti dell’epoca diVittorini anche nei confronti della libertà in genere e della libertà culturale in senso stretto. C’è in Italia l’aumento di una presenza ermetica tra poeti e critici, anche se c’era - e tuttora c’è - qualche imprecisione: come se Ungaretti e Montale risultassero ermetici. Uno dei temi degli ermetici è quello di trovarsi in uno stato di «assenza». La Capria lo spiega assai bene: «Cos’è questa assenza? Ma è inutile e forse impossibile descriverla. È una sorta di rapimento o piuttosto una fuga, fuori dalla nuvola di parole e di concetti che sempre ci avvolge, e fuori da ogni ricostruibile immagine o pensiero. Somiglia - dice ancora La Capria - all’andare e venire dell’onda sulla spiaggia, all’allargarsi di cerchi d’acqua, al gioco delle nuvole difformi». Queste riflessioni La Capria le compie al cospetto di uno splendido panorama marino. Siamo in guerra, ci sono i bombardamenti ma la bellezza dello specchio d’acqua non sembra implicata: le bombe cadranno anche davanti a Posillipo, e alcuni amici, in una pagina memorabile (che tornerà anche in Ferito a morte), in barca, dentro una grotta, assistono al bombardamento. Erano tempi in cui molti «credevano che la letteratura fosse la chiave per capire chi eri e in che mondo vivevi», per virtù del pensiero e non del miraggio sociale.
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poesia
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L’umanesimo ironico di Ludovico Ariosto di Francesco Napoli hi è questo Ludovico Ariosto che alle gesta cavalleresche non crede eppure investe tutte le sue forze, le sue passioni, il suo desiderio di perfezione a rappresentare scontri di paladini e d’infedeli in un poema lavorato con cura minuziosa?» si chiede Italo Calvino. Ludovico Ariosto è l’Orlando Furioso. Un’identità perfetta, simbiotica. Il poeta, reggiano d’adozione e ferrarese di corte, ha dedicato gran parte della sua attività di scrittore alla composizione del capolavoro epico-cavalleresco. La redazione incomincia verso il 1505, viene pubblicato nel 1516 e nel 1532 vede la terza e definitiva stesura approvata dall’autore. Sia ben chiaro che, come spesso accade, le prime edizioni sono migliori dell’ultime, hanno un germe vivo e attivo d’originalità e slancio che nel tempo i condizionamenti culturali inevitabilmente abbassano.
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ri ai suoi tempi ancora ammirati (eroismo, onore e, soprattutto, amore) ma anche esaltare la varietà e la grandezza dell’azione umana attraverso i personaggi dell’opera. Ormai Ludovico Ariosto vive una dimensione del mondo cavalleresco distaccata perché la materia non esercita più alcuna influenza diretta. Anzi, proprio quella stessa esaltante materia che dai cicli carolingi e arturiani attraverso l’azione letteraria di Boiardo, ma anche di un Pulci, era a lui pervenuta viene dominata e sublimata secondo le nuove aspirazioni dell’epoca. E quando Ariosto si lascia andare nelle parti encomiastiche verso gli Estensi, lontani figli di quel Ruggiero eroico, o le pseudoprofezie a posteriori che celebrano i signori di Ferrara, lo fa senza alcuna piaggeria, con un senso dell’obbligo ma anche con quel po’ di presa in giro nascosta tra le righe, ed evidente se si pensa alla famosa prima satira nella quale al cardinale Ippolito d’Este chiede la dispensa dal seguirlo in una fredda Ungheria. E sul mondo di corte nelle Satire, sette in tutto, Ludovico Ariosto esercita al meglio la sua ironia.
cherà nei circoli letterari di corte. Come uomo politico, poi, non infierisce sui vinti quand’era governatore in Garfagnana, anche se non lo si vede mai opporsi alla volontà dei suoi superiori.
Di rilievo, poi, il conseguente rapporto di amore-odio verso la corte. Amore perché, anch’egli, in quanto intellettuale di origine nobiliare, faceva parte di quegli Ludovico ha poco più di trent’anni quando, al seambienti, e poi perché sperava di ottenere buoni uffiguito del padre, comandante delle guarnigioni estenci, incarichi e riconoscimenti letterari; di odio perché si prima a Reggio Emilia, poi a Rovigo e infine a Fersi sentiva strumentalizzato, non valorizzato come inrara Giudice dei dodici Savi, ha già appretellettuale ma solo come diplomatico; inolso i segreti della vita delle corti rinascitre non gli piacevano le corti che si commentali italiane. Ha scritto poco: qualche battevano tra loro, disposte persino ad alprova lirica in latino e ancor meno in vollearsi con lo straniero, senza tener conto gare. E la scelta della materia cavalleresca degli interessi di corte. Infine era consapeDegli uomini son varii li appetiti: come soggetto del suo lavoro poetico si rivole dei valori superficiali delle corti stesa chi piace la chierca, a chi la spada, vela anch’essa assai precoce: ne accenna se, anche se non riteneva di aver la forza infatti in un’elegia, De diversis amoribus, e sufficiente per opporvisi: infatti dirà d’aver a chi la patria, a chi li strani liti. tra le prime esercitazioni in volgare ecco scritto il Furioso per il divertimento dei SiChi vuole andare a torno, a torno vada: spuntare nelle sue carte l’inizio di una gnori. Ludovico Ariosto non pensò di scriObizzeide, poema cavalleresco. Sembra vere un poema che servisse a una causa vegga Inghelterra, Ongheria, Francia e Spagna; quasi che Ariosto abbia voluto aiutare i ideale o politica: sapeva benissimo che i a me piace abitar la mia contrada. suoi numerosi critici puntando penna ed suoi lettori non sarebbero stati capaci di energie inventive quasi esclusivamente sul recepirla. In un certo senso dava per scongenere cavalleresco. Il momento poi in cui tato che la classe dei cortigiani, pur ricca decise di comporre quella che lui stesso ha sul piano economico e potente su quello definito una «giunta» all’Orlando Innamopolitico, non aveva molto da dire su quello Ludovico Ariosto rato di Matteo Maria Boiardo è anche il ideale. Ma a colpire è un modernissimo in(Satire, III, vv. 52-57) momento in cui si può ritenere ormai chiateresse per ogni aspetto della vita degli uoramente già impostate nella sua mente tutmini. Rispetta e comprende i sentimenti te quelle risoluzioni che il cambiamento dell’uomo, che mette sempre al centro deldei gusti imponevano all’invenzione della sua produzione letteraria. Rifiuta gli atl’illustre predecessore. Stessi personaggi e teggiamenti da eroe e da moralista: piuttoantefatti, stesse parti in causa (l’esercito saraceno di Tre mi sembrano i punti essenziali della sua azione, sto guarda con ironia e indulgenza i difetti propri e alAgramante e quello cristiano di Carlo Magno) ma una a principiare da un concreto e realistico senso dell’esi- trui. Contesta gli aspetti deteriori della sua epoca: attidiversa prospettiva ideologica del mondo cavallere- stenza. Ariosto, si sa, si piega alle esigenze economi- vismo frenetico, culto della ricchezza e amore per il sco da cantare: non più paradigma attraente e pur che dei suoi familiari; cerca un compromesso coi «po- lusso, ambizioni sfrenate e sete di potere, mercato dellontano - donde la compiacenza dell’evocazione alter- tenti» (laici o ecclesiastici che siano) per avere non so- le cariche e corruzione a ogni livello. Questo nel XVI nata con la familiarità dell’ironia - ma finzione lette- lo di che vivere, ma anche per ottenere il riconosci- secolo: chissà cosa avrebbe scritto di questi tempi da raria pura e semplice con la quale sì celebrare i valo- mento del suo valore artistico, che in effetti si verifi- fine di Basso impero.
il club di calliope
LA NUDA REGOLA DI MILO DE ANGELIS in libreria
STANZE
di Loretto Rafanelli
Immagino talora l’ignoto che abitò queste stanze e l’ignoto che le abiterà. Mi sembra calcare le orme confuse di entrambi di entrambi scontrare le ombre dovermi intimidito scusandomi scostare. Alberto Vigevani (Da L’esistenza, Einaudi)
ncora una volta Milo De Angelis ci consegna un libro (Quell’andarsene nel buio dei cortili, Mondadori, 14,00 euro) riverso sulla soglia di una parola impronunciabile, in un marmoreo balbettio che delinea la tragicità di una presenza ancorata sul vuoto e una aperta lancinante ferita. Sono le macerie «dell’autunno sbilanciato», nella scarnificata essenzialità di un linguaggio, in una ferrea distaccata distanza. De Angelis esprime il rintocco di una nuda regola: l’esattezza della poesia e una misurata emozione (che forse però qui è più sentita: «Ma poi quell’ansia ostruita/ trovò le sue labbra»). La lettura delle poesie di De An-
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gelis richiede sempre un’attenzione particolare, perché sappiamo che dietro ogni curva c’è in agguato un segnale, un accenno, un dire muto, una parola che rimanda a una verticale visione, in uno squarcio definitivo, ultimo. La perentorietà della poesia di De Angelis si dà alla necessità di un ordine essenziale, come quello seguito dai piccoli eroi della Via Pal, che devono inchinarsi a un codice d’onore (e penso aYukio Mishima col suo inesorabile rifarsi a una eroica tradizione, e dove scorgo una certa vicinanza ), a una condotta di vita che non ammette appelli, né confusioni di ruoli. Che è poi tutto ciò di cui anche la poesia necessita.
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di Enrica Rosso oche note del suono triste di un bandoneòn ed è subito Argentina. Eduardo Pavlovsky, pluripremiato drammaturgo e regista contemporaneo, le cui radici affondano nella formazione psichiatrica, offre un materiale eccellente per indagare lo sconcerto delle sparizioni avvenute durante l’ultimo regime dittatoriale. Augusto Zucchi, innesta due dei suoi monologhi e mette a punto L’ora della mosca. Anni Novanta, ci troviamo presumibilmente a Buenos Aires: di fronte a noi un uomo che ha attirato nella sua casa, con l’inganno, una giovane donna che potrebbe essere sua figlia. Circa vent’anni prima, nel 1976, il generale Jorge Vileda aveva rovesciato il governo di Isabelita Peròn, seconda moglie di Juan Peròn. Il Paese è tuttora in ginocchio dopo che le «squadre della morte» agli ordini del dittatore, si sono accanite sull’opposizione eseguendo una serie impressionante di crimini che hanno fruttato all’Argentina il macabro primato dei Desparecidos: circa 30 mila anime. Tra di essi molti bambini strappati ai cadaveri venivano amorevolmente adottati dagli stessi militari che ne avevano barbaramente trucidato i genitori o dai medici che ne erano stati comunque formalmente complici. Solamente dopo la caduta del regime, in seguito alla pressione delle Madri coraggio di Plaza de Mayo, il governo si attiverà per rintracciare i ragazzini, aprirgli gli occhi e restituirli ai supertiti delle famiglie originali. «Perché dobbiamo restare indifferenti di fronte alla morte di una mosca?»… il dialogo (ma sarebbe più giusto parlare di monologo) è appena cominciato. L’uomo incalza la ragazza, da subito la mette all’angolo con educazione, con grazia, la costringe ad ascoltarlo sottendendo una ragnatela di intenzioni emotivamente toccanti, cerca di portarla dalla sua parte. Lei, interpretata da Giulia Greco, intuisce il tranello ma non trova la forza di sottrarsi, verosimilmente sta lottando anche lei con i suoi fantasmi. Augusto Zucchi è calibratissimo e raggelante nel suo bisogno
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Televisione
Televisione La resa dei conti sulle note di un bandoneòn MobyDICK
spettacoli DVD
MR. ZINNERMAN SECONDO MR. SCORSESE o amo troppo per farlo», aveva detto Scorsese di fronte alla proposta di girare un documentario su Bob Dylan. Ma per fortuna, il grande filmmaker non è stato di parola e ha vinto la paura. Il risultato è No direction home, complesso documentario che ripercorre la storia di mister Zimmerman e ci consegna un esemplare spaccato di storia americana. Gli esordi folk in Minnesota, l’armonica appesa al collo, Blowing’ in the wind in coppia con Joan Baez. Miti e malesseri di un’intera generazione scorrono in un’opera immersiva. Da vivere in apnea.
«L
PERSONAGGI
IL MOLLEGGIATO DIVENTA UN CARTOON d’amore, determinato a far valere le ragioni del cuore indipendentemente dalla loro intrinseca giustezza. Pochi, accurati, elementi scenici a opera dello scenografo Antonio Bernardo Fraddosio inscrivono nello spazio una seduta comoda, ma impercettibilmente precaria, pronta a cedere sotto il peso eccessivo della colpa e un fondale rugoso, inquietante, una materia viva, scomposta, a suggerire una stratificazione di emozioni, pronte a scoperchiare il danno, una fragilità messa a nudo solamente nel finale, ma che da subito si insinua nelle inceppature di ritmo che Augusto Zucchi oltre che autore dell’adattamento, regista e protagonista, inserisce ad arte nel flusso delle parole. Micro crepe immediatamente riparate, da cui far sgorgare fiumi di rabbia e angoscia,
di vita sprecata al fianco di una donna che lo fa sentire trasparente e inutile, «l’intensità della disperazione è l’unica cosa che mi fa sentire veramente vivo» nell’attesa spasmodica di realizzare l’incontro a cui assistiamo. Gli inserti musicali evocano un tempo e un luogo. Due parole per presentare lo spazio: Teatro Studio Keiros, una sessantina di posti, è da due anni un’isola, una «camera d’artista» in cui ri-trovarsi in un rapporto privilegiato con artisti - attori, cantanti, musicisti - che approfittano di uno spazio più intimo per offrire al pubblico il loro repertorio «da camera».
arà difficile renderne su carta i passi molleggiati e la parlantina fluviale, ma uno come lui lo si riconoscerebbe anche muto in un programma radiofonico. Adriano Celentano ritorna alla ribalta nei panni di Adrian, eroe di un cartoon animato prossimamente al via su Sky Uno. Ventisei puntate che si avvalgono dell’illustre collaborazione di Milo Manara, Vincenzo Cerami e del premio Oscar Nicola Piovani, per un progetto che mescolerà i brani più celebri del cantautore milanese a un plot fantascientifico che vedrà Adrian confrontarsi con le forze del male.
L’ora della mosca, Teatro Studio Keiros di Roma, info: www.teatrokeiros.it - tel. 06 44238026
di Francesco Lo Dico
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Superadolescenti ad alto grado di volgarità
programmi televisivi italiani per adolescenti sono rarissimi, e spesso piacciono più ai bambini che non ai diretti interessati. Più o meno la stessa cosa capita nell’editoria, che ha sottovalutato il pubblico dei young adults, i quali invece hanno risposte dal mercato americano e in parte anche europeo. Sul canale Fox è appena iniziata la serie Misfits (che significa disadattati o anche sballati). So per certo che sta riscontrando un notevole successo tra i giovani (sono padre di due adolescenti). Sceneggiati crudi, molto crudi. Il linguaggio è forte, nel senso che è quello che viene usato dai ragazzi, non solo quelli delle periferie più disgraziate. Misfits è un prodotto inglese che racconta di un gruppo di ragazzi che lavorano in un centro dei servizi sociali (tute arancione, stile Guantanamo) dopo essere stati arrestati
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per crimini minori, solitamente spaccio e consumo di droga. L’appeal del serial deve essere cercato nel fatto che agiscono in modo molto strano in quanto investiti da un temporale magnetico, che ha donato loro dei superpoteri. Curtis, atletico nero, promessa dello sport, è il protagonista. Si susseguono scene che paiono uguali in apparenza, in realtà diverse per la loro conclusione. Il nostro Curtis infatti sa, e lo dichiara, di poter cambiare la storia, di modificare il futuro. C’è una
zoomata sulle sue pupille e inizia così l’andirivieni nel tempo. Senza mai raggiungere, però, la tranquillità personale e collettiva. La telecamera ritrae i giovani nelle discoteche, e qui compare nella sua brutalità il degrado emotivo di una generazione. Gente che si «sballa» con la polvere bianca, spacciatori con coltello, poliziotti sempre a inseguire i colpevoli. «Esco un po’, sono fatta», dice una ragazza. Poi, a un coetaneo che le sta accanto: «Levati dalle palle». Altre frasi, come «mi sento una merda», descrivono un ambiente dove pare non esista speranza di un futuro migliore. La banlieue britannica fa orrore. La vicenda è stata filmata a Southmere Lake, nel quartiere londinese di Thamesmead, tra i sobborghi di Greenwich e Bexley. In Inghilterra
è già trasmessa la seconda stagione e visto il successo la casa produttrice ha messo in cantiere la terza. La serie ha vinto il premio Bafta del 2010. A parte il via vai nelle opportunità temporali grazie ai superpoteri (caratteristica in comune ad altri serial di oggi: Superman non muore mai!), Misfits ha una venatura gialla. Sempre per la misteriosa tempesta magnetica, il sorvegliante del centro rieducativo cade in un vortice di violenza. Alla fine diventa una minaccia e i ragazzi, per difendersi, si trovano costretti a sopprimerlo. Proprio per questa missione, ciascuno dei protagonisti scopre la natura dei superpoteri. Tutti diversi. Non manca il ragazzo venuto dal futuro. La serie, quindi, racchiude elementi di per sé non originalissimi, ma assemblati in una cornice estremamente moderna. La linea guida è la velocità. Che lo spettatore adulto fa un po’ fatica ad accettare. Come, francamente, è difficile digerire il fraseggio certamente attualissimo, ma ad alto grado di volgarità. (p.m.f.)
Cinema
MobyDICK
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di Anselma Dell’Olio
uesta settimana festeggiamo un’altra debuttante, dopo Laura Luchetti e il suo sguardo fresco in Febbre da fieno. Paola Randi, con Into Paradiso, regala una divertente e insolita opera prima che tocca temi (e non «tematiche») come precariato, immigrazione e camorra, che spesso annoiano per il trattamento prevedibile. Il suo tocco leggero e scanzonato glissa sui i toni «di denuncia» scontati, usati dai registi italiani per Temi Socialmente Importanti. È felice la scelta del protagonista Gianfelice Imparato (teatro con Roberto De Simone ed Eduardo De Filippo, cinema con Matteo Garrone e Paolo Sorrentino). Alfonso d’Onofrio è uno scienziato precario di mezz’età, licenziato all’inizio del film. Non resta che affidarsi a Santa Raccomandazione. Chiede aiuto a Vincenzo Cacace, politico ed ex compagno di scuola mai più visto da allora. Cacace è Peppe Servillo (fratello di Toni e cantante degli Avion Travel); più che un attore, una maschera scavata e ferrigna, il solito corrotto in combutta con il solito boss. Ad Alfonso, in cambio del favore, chiede di consegnare un cadeau a certe persone nel mandamento Paradiso, allegro e formicolante quartiere d’immigrati asiatici. Prima di poterlo consegnare ai picciotti, i medesimi sono coinvolti in un regolamento di conti di cui l’ignaro disoccupato è testimone. Inseguito dai sicari del boss, si rifugia sui tetti nella baracca di Gayan, ex campione di cricket srilanchese appena sbarcato a Napoli, convinto di trovare un ottimo lavoro e una vita di lusso: scopre che lo aspetta un posto di badante per un’anziana signora bisbetica, drogata di telenovele. Gayan decide di tornare in patria e accettare il posto di cronista tv prima snobbato, ma non ha i soldi per il biglietto (Saman Anthony, uno schianto di figliolo e attore promettente, è un credibile idolo della folla in pensione in cerca di una seconda chance all’altezza del proprio passato). Tornato nel sopraelevato abusivo del quartiere Paradiso, Gayan trova in casa un impaurito Alfonso con la faccia feroce, che gli punta addosso lo spacchettato «regalo». Parte una commedia di errori e ribaltoni, condita da riti sacri orientali (bella la scena dei palloni illuminati, galleggianti, che salgono misteriosamente in aria), tecniche yoga, incensi, minacce e insolite alleanze interrazziali. Ci sono siparietti animati, poco integrati nel racconto ma simpatici, e una colonna sonora a tono. La sceneggiatura ha qualche debolezza nella seconda parte, ma si arriva lo stesso in fondo, sorridenti e lieti per un film italiano fresco e originale. Da vedere.
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Tale era la simpatia e il successo di Pranzo di Ferragosto, debutto a 60 anni dell’attore e autore trasteverino Gianni Di Gregorio, che si temeva che Gianni e le donne non ne sarebbe stato all’altezza: invece porta bene «sfogare tardi», come si dice a Roma. Di Gregorio, per anni ape operosa del cinema e sceneggiatore ottimo (Gomorra), ha incontrato l’adulazione della folla in età avanzata. Serve, eccome, avere sull’anima e sul viso i segni dei «dardi di un’avversa fortuna». Fanno da corazza contro la sopravvalutazione di se stessi, e del suo contrario quando lo tsunami di osanna passa. Nell’opera secon-
Il vero erede di Umberto D.
da, l’autore è rimasto nel suo quartiere d’origine ma non con la madre, Donna Valeria (de Franciscis Bendoni - tutti hano i loro veri nomi), nobile decaduta dolcemente tiranna, ma sposato con Pallina (Elisabetta Piccolomini). Lei è distratta dal lavoro, mentre lui è un baby pensionato. La figlia Teresa (Di Gregorio) lascia che si trascini per casa il suo ragazzo Michelangelo (Ciminale), simpatico fannullone. La signora madre, come nel primo film, approfitta del buon carattere del figlio: sta male solo quando la badante ha il giorno libero. Gianni accorre, il «malore» è passato e lui è arruolato come maggiordomo per la comitiva di amiche riuni-
Di Gregorio, che dopo “Pranzo di Ferragosto” torna nelle sale con “Gianni e le donne”, non delude: mescolando refrain di De Sica e di Fellini, di Risi e Monicelli, è l’unico che incarna il cinema italiano d’antan. Da non perdere anche “Into Paradiso” e “Il truffacuori”
te per la partita di carte: catering di lusso, fragole e champagne. La madre non ne vuol sapere di alienare alcuna delle opere d’arte che affollano la villa con giardino. Il denaro scarseggia, ma lei prosegue con la sua «allegra finanza», ignorando le suppliche del figlio di vendere qualcosa. Alfonso (Santagata), avvocato e amico di Gianni, gli fa notare che uno degli anziani che bighellonano al bar in tuta da ginnastica, ha «una storia» con la bella tabaccaia, e in Gianni scatta la voglia di non essere più l’invisibile factotum-vittima di tutte: la vicina con il San Bernardo da portare a passeggio e la spesa da fare, la sexy badante (Kristina Cepraga) che la madre copre di regali costosi, la neodivorziata Gabriella (Sborgi) che mostra interesse per lui. Gianni si spara tutta la pensione per un bel vestito di lino chiaro e si lancia sulle prede, deciso a farsi apprezzare. C’è lo stesso tocco leggero con una punta crepuscolare del primo film, la stessa voglia di compiacere e la medesima capacità di sopportare con filosofia e buon umore il disappunto, le illusioni frantumate. In novanta minuti secchi, il regista dimostra di essere l’unico vero erede del cinema italiano d’una volta; mescola refrain di Umberto D. e La Città delle donne, con i pizzicati asciutti di Dino Risi e Mario Monicelli, e compone un accattivante canto Di Gregoriano tutto suo. Da vedere.
«Il truffacuori» è una commedia romantica francese dalla premessa irresistibile: un tipo affascinante si dedica a spaccare coppie mal assortite, a pagamento. Assoldato da famigliari preoccupati, Alex (Romain Duris) è valente seduttore di donne infelici. Suo cognato (François Damiens) pensa agli aspetti tecnici e sua sorella (Julie Ferrier) a tutto il resto. Fanno meticolose ricerche su gusti e predilezioni della cliente da sedurre. Ci sono solo due regole: mai dividere una coppia felice e mai portare a letto il bersaglio. Basta svelare alla cliente le prospettive migliori che l’aspettano lontano dal mascalzone di turno. L’inizio è folgorante. Senza rovinarvelo, perché è la parte più divertente del film, Alex finge di essere un medico senza frontiere che «per caso» dà un passaggio alle dune alla turista bidonata dal fidanzato, che preferisce poltrire in piscina a rimorchiare bellezze in bikini. È una delizia di sequenza con autentiche sorprese, scritta, recitata e diretta splendidamente. Poi si passa al ribaltone tipico del genere: il truffacuori che s’innamora della preda. Indebitato con uno strozzino che gli sguinzaglia un gorilla serbo alle calcagne, Alex accetta di violare la regola e separare una coppia felice. Juliette (Vanessa Paradis) è un’ereditiera che sposerà dopo dieci giorni a Montecarlo un ricco, innamorato fidanzato filantropo. Anni prima, la madre muore mentre Juliette è in giro a fare danni come groupie. Il padre è convinto che lei abbia scelto uno noioso per penitenza. Buona l’idea dell’amica ninfomane che ricompare dal passato (Helena Noguerra), ma non pienamente realizzata; meglio le scene di Alex che impara a ballare come Patrick Swayze in Dirty Dancing, il film più amato di Juliette. Il film (già comprato per un re-make americano) è un’occasione per studiare la compagna cantante dell’insostituibile Johnny Depp, graziosa e catatonica dall’inizio alla fine. Solo quando accenna a canticchiare una canzone alla radio, Paradis s’illumina di vita e fascino. Speriamo di vederla presto in un musical.
ai confini della realtà I misteri dell’universo
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MobyDICK
di Emilio Spedicato
n questa rubrica parliamo della caduta sulla terra di oggetti di piccola dimensione, chiamati comunemente meteoriti. In altre rubriche abbiamo parlato dell’esplosione nell’atmosfera di oggetti di dimensioni considerevoli, come quella della Tunguska o il Fetonte della tradizione greca, un probabile oggetto super Tunguska. Abbiamo anche parlato di impatti con oggetti di dimensioni addirittura marziane, come quello che la maggioranza degli astronomi pensa abbia portato alla formazione della luna. Qui consideriamo invece la caduta di oggetti di dimensioni piccole, sino a qualche tonnellata di peso o qualche metro di dimensioni. Che tali oggetti cadano era noto agli antichi e registrato nelle loro tradizioni e documenti, ivi compresa la Bibbia. In epoca illuminista si rifiutò l’affermazione biblica che oggetti potessero cadere dal cielo, aggiungendola ai vari argomenti sulla inattendibilità della Bibbia. Ma questo giudizio degli illuministi venne a cadere quando, il 26 aprile del 1803, vicino ad Aigle, nella Francia nordoccidentale, precipitarono non meno di tremila meteoriti, e l’astronomo Biot dichiarò che provenivano dallo spazio extraterrestre.
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Oggetti provenienti dallo spazio sono stati utilizzati e venerati da migliaia di anni. Qui citiamo quattro casi in cui un meteorite è divenuto oggetto di culto. Il più noto e importante è certamente quello dalla pietra nera, al Hajiar al Aswad, probabilmente un meteorite ferroso anche se per ragioni religiose non è mai stata fatta un’analisi scientifica. L’oggetto è sito alla Mecca, nella Kaaba, un tempio antichissimo, certamente esistente migliaia di anni prima di Maometto, e ora modernizzato per ammettere i milioni di visitatori che arrivano ogni anno con i pellegrinaggi aerei. Un’ipotesi corrente è che il meteorite provenga dal doppio cratere di Wabar, in Arabia meridionale presso il confine con l’Oman, formatosi verso il 4000 a.C. (o forse qualche secolo prima, e contemporaneo al cratere Burckle sul fondo dell’Oceano Indiano).Tuttavia una tradizione, raccolta in uno studio dell’iman di Francia Dalil Boubakeur, afferma che il tempio sarebbe stato fondato da Adamo, insieme a una struttura di culto a Gerusalemme (ricordiamo che Maometto fu incerto se si dovesse pregare rivolti verso la Mecca o verso Gerusalemme). In tal caso se si usa la cronologia interna biblica dovrebbe essere più antico di almeno un migliaio di anni. Lo storico persiano AlTabari racconta che quando si decise di rifare il tempio della Mecca, prima che Maometto partisse per la Medina iniziando la sua predicazione, la pietra nera faceva parte con altre pietre normali più piccole di un piccolo tumulo, su cui Abramo avrebbe dovuto sacrificare Ismaele. Fu posta su di un panno e spostata dai quattro mag-
Fuoco dal cielo giorenti della città che lo presero per gli angoli, su invito di Maometto. È poco noto che un tempio duale a quello della Mecca esisteva sino a verso il 1920 a sud della Mecca, in prossimità della regione montuosa dell’Asir, che lo storico cristiano libanese Kamal Salibi ritiene sia la biblica terra di Canaan.Tale tempio aveva come quello originario della Mecca 360 statue di divinità, ma la pietra sacra era
Roma all’epoca della guerra contro Annibale, dove, ritenuta uno dei fattori della vittoria, fu venerata per cinque secoli. Un’altra si trovava a Emesa in Siria e fu portata a Roma dallo stravagante imperatore Eliogabalo. Il meteorite più grande ora noto si trova a Hoba in Namibia, 66 tonnellate. Quello detto Allende di 30 tonnellate è caduto in Messico in vari frammenti. I meteoriti possono essere di
Che oggetti provengano dallo spazio era già noto in tempi remoti. Alcuni di essi sono venerati da migliaia di anni, come la Pietra Nera conservata alla Mecca. Molti collezionisti per questi reperti, specialmente se provengono da Marte e dalla Luna, pagano prezzi stratosferici bianca invece che nera. Rispettato da Maometto, fu fatto distruggere da Ibn Saud, il wahabita che prese il potere per decisione di Churchill al posto del re Hussein della dinastia hascemita, discendente da Maometto. Ibn Saud fece distruggere anche la tomba di Eva a Jeddah e quella di Maometto alla Medina... vedasi un libro di Doron Gold. Un’altra pietra meteoritica sacra, dalla curiosa forma conica, si trovava a Pergamo, nell’attuale Turchia occidentale. Fu portata a
diversi tipi. Quelli ferrosi contengono un ferro nativo molto pregiato che non arrugginisce, ed è stato usato in passato per coltelli e forse per il famoso pilastro di Nuova Dehli. Quelli rocciosi sono di molti tipi, alcuni provengono dalla crosta della Luna o di Marte o dai pianetini fra Marte e Giove, altri pare risalgano ai primi processi di condensazione della nebulosa che ha originato il sistema solare (prodotta a sua volta dall’esplosione di una precedente stella). La maggior parte
dei meteoriti cade sugli oceani o in zone forestali dove sono praticamente introvabili. Facile è la raccolta sui ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia, e anche nei deserti. In uno dei bellissimi libri di Saint-Exupéry, pioniere dei collegamenti postali per aereo fra Europa e America latina, si parla di come, avendo dovuto atterrare nel Sahara, fu sorpreso nel vedere dei meteoriti. Esistono persone e organizzazioni dedite alla ricerca dei meteoriti, parte dei quali sono poi dati per lo studio scientifico, parte sono venduti, a prezzi che raggiungono cento volte quello dell’oro i meteoriti marziani, e 10 mila euro al grammo quelli lunari.
Nel 1996 la Nasa trovò in Antartide un meteorite di origine marziana nel cui interno si osservarono al microscopio delle strutture filamentose, simili a quelle di microoganismi. Ci fu un ampio dibattito se si trattasse davvero di microorganismi, in questo modo avendo la prima prova dell’esistenza di vita su un altro pianeta, o se fossero particolari cristallizzazioni.Tre anni dopo di trovò un meteorite simile nel Sahara, scoprendo tuttavia presto che la sabbia del Sahara era ricca di mcroorgansmi viventi esattamente del tipo osservato sul meteorite. Un fenomeno quindi di contaminazione e un’ulteriore evidenza della ricchezza di tipi di forme viventi sul nostro pianeta, ancora da scoprire. In questo caso si trattava di microorganismi cinquanta volte più piccoli dei più piccoli noti sino ad allora.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g e di cronach
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L’incapacità dei Comuni di affrontare l’“emergenza” rom Ventisei anni fa la Regione Lazio approvava la legge “Norme in favore dei rom”. Una legge all’avanguardia che affrontava il problema dei rom con largo anticipo e che, se attuata, avrebbe probabilmente evitato i problemi dei quali oggi tutti parlano. La legge, tutt’ora valida, ha come finalità la valorizzazione della cultura e l’integrazione del popolo dei rom. Tra l’altro per i campi rom si stabiliva che: «Il campo di sosta deve essere dotato di recinzione, servizi igienici, illuminazione pubblica, impianti di allaccio di energia elettrica ad uso privato e area di giochi per bambini. L’unità sanitaria locale competente per territorio garantisce al campo di sosta la vigilanza igienica e l’assistenza sanitaria. I rom che intendono accedere al campo di sosta devono versare un contributo all’amministrazione comunale, con la quale concorrono congiuntamente nella gestione del campo di sosta». Si stabilivano, anche, i relativi finanziamenti ai comuni ospitanti i rom. Dopo 26 anni questi obiettivi non sono stati raggiunti perché nessuno li ha perseguiti. La tragedia di questi giorni conferma l’incapacità dei comuni, e in particolare di quello di Roma, di affrontare il problema nel corso di un quarto di secolo. Occorre iniziare a fare quello cui non si è dato inizio 26 anni fa.
Lettera firmata
Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza
ESSERE DONNA OGGI A seguito delle vicende nazionali di questi ultimi giorni e in merito alla figura femminile che si sta delineando, noi donne rappresentanti dei Circoli Liberal di Verona e Provincia abbiamo ritenuto opportuno far sentire anche la nostra voce. Non vorremmo che passasse il messaggio che la donna di oggi si fa strada facilmente solo per la sua avvenenza. La donna è ben altro! È immagine di vita, rigenerazione, protezione. Musa ispiratrice, custode del focolare domestico e motore propulsivo della famiglia. Può essere single, scelta molto spesso obbligata per motivi di lavoro, oppure pensionata costretta a far salti mortali per sbarcare il lunario. E infine c’è la giovane donna che investe in anni di duro studio per il proprio futuro, senza cedere ad allettanti scorciatoie. La donna da sempre ha dovuto lottare per ottenere ciò che per l’uomo è scontato e naturale. Deve trovare una sinergia tra la donna madre, dedita alla crescita dei figli e colonna portante della famiglia, e la donna lavoratrice, impegnata nei vari ambiti della vita sociale, economica, culturale, politica. In una società organizzata su rigidi criteri di “produttività”, ancora più di ieri la donna deve lottare per potersi affermare nel mondo lavorativo, senza rinunciare ad una vita di affetti. Ancora più di ieri la donna deve impiegare energia e costanza per
non rinunciare ai piaceri della vita senza venire mai meno ai suoi doveri. Deve crescere i figli con amore ed equilibrio per non essere una madre “assente”, non deve mancare agli avvenimenti importanti della loro vita. Deve preparare pranzi e cene. Deve essere una brava moglie capace di fare quadrare il bilancio per arrivare alla fine del mese. Deve però essere anche una grande lavoratrice, sempre vigile e attenta sul posto di lavoro e rispettare le scadenze. Ancora più di ieri la donna deve lavorare sodo per ottenere qualcosa in una società (quella italiana) dove la meritocrazia ha pochissimo spazio. Ma nonostante tutto la donna continua a crearsi la sua strada.
Mildred Camarra e Federica Chignola
La polemica dei giorni scorsi relativa alla “svendita”di alcuni alloggi popolari, a favore di alcuni affittuari nel comune di Pisa, credo sia un’ulteriore occasione utile, per provare a discutere in maniera approfondita sulle politiche abitative del futuro. Infatti, di fronte ad una crescente domanda di sostegno, se da una parte è giusto portare a termine i programmi e le politiche intraprese nel passato, tra cui anche la discussa vendita degli alloggi prevista per legge, occorre anche modificare in maniera incisiva
L’IMMAGINE
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Dolori addominali? No... Doglie BUMPTON. La 21enne Belinda Waite aveva accusato vari dolori addominali negli ultimi nove mesi, che i dottori avevano attribuito ad una forma di intestino irritabile. Altri sintomi, come le braccia e le gambe gonfie, erano stati spiegati come una forma di allergia. Questo finché la ragazza non si è recata in ospedale perché aveva dolori addominali particolarmente forti. E i medici dell’ospedale, con una certa facilità, hanno effettuato la loro diagnosi: la ragazza era infatti incinta, di nove mesi, e quei “dolori addominali” non erano altro che doglie. Tre ore dopo, la ragazza era in sala parto, per dare alla luce una bambina di poco più di 4 chili, in buona salute, nonostante il fatto che la Waite non abbia certo preso nessuna di quelle precauzioni normalmente consigliate alle future mamme. Belinda ha poi raccontato: «In effetti, avevo la sensazione che qualcosa si muovesse dentro di me, negli ultimi mesi. Ma non avevo mai preso in considerazione l’idea di essere incinta, e sembra che neppure i dottori lo abbiano immaginato». E ha aggiunto: «Certamente è uno shock enorme per me e il mio ragazzo, ma siamo molto felici».
SVENDITA DEGLI ALLOGGI E POLITICHE ABITATIVE
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LE VERITÀ NASCOSTE
Onde arcobaleno Dal marrone, al viola, al blu, non c’è una sola sfumatura che non sia rintracciabile nelle Terre dei sette colori (Isola di Mauritius). Formate da strati sovrapposti di materiale di origine vulcanica, queste dune parrebbero avere una caratteristica particolare: quando piove le polveri che le compongono sembrano mischiarsi, ma una volta asciutte tornano a distinguersi posizionandosi in ordine di sfumatura
una materia così delicata, per evitare sprechi e ingiustizie. La prima svolta dovrebbe essere di natura culturale: l’aiuto pubblico a persone e famiglie in difficoltà, in questo caso attraverso l’alloggio, non può essere considerato a vita. Deve essere invece configurato come un supporto temporaneo, la cui durata sarà da valutare caso per caso; sicuramente però dovranno essere evitati gli eccessi e gli squilibri che la logica assistenziale del sistema attuale si porta dietro. Avere accesso ad un alloggio pubblico infatti ha significato nel passato una sistemazione per anni, spesso tramandata di generazione. Ciò non è più tollerabile perché sempre più fasce di famiglie indigenti restano fuori dagli aiuti pubblici. È quindi giunto il momento di rivedere tutto il sistema, provando a dargli maggiore flessibilità, colpire coloro che in maniera indebita approfittano di diritti non dovuti ed evitare l’impoverimento di crescenti settori della popolazione. Per fare questo mi paiono errate le politiche tese alla costruzione di nuovi alloggi. Al di là degli effetti molto negativi sull’ambiente e sulla vivibilità delle nostre città, queste scelte non sembrano favorire infatti l’inversione di tendenza culturale che servirebbe. Per favorire quella giusta flessibilità sarebbe più appropriato utilizzare il sistema del sostegno agli affitti, immettendo in un mercato in qualche modo “calmierato” sia gli alloggi di proprietà pubblica, sia quelli privati, attraverso varie forme di incentivazione. A trarne beneficio sarebbero anche e soprattutto i giovani e le giovani coppie, sempre più frenati nel costruirsi un percorso di vita uscendo dal nucleo familiare di origine. Dal fallimento e l’ingiustizia di un sistema delle politiche abitative, fermo a regole vecchie di anni, la politica abbia il coraggio di fare scelte, anche impopolari, per dare vita ad una vera svolta in questa materia.
Carlo Lazzeroni - Pisa
cultura
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In libreria. Esce per Mondadori “U-boot - Storie uomini e di sommergibili”, saggio storico dedicato alle battaglie sottomarine firmato da Sergio Valzania
20mila storie sotto i mari I rapporti di forze, l’arretratezza tecnologica, l’impreparazione della Germania: la guerra degli abissi racconta tutto il conflitto di Sergio Valzania Il 15 febbraio, edito da Mondadori, sarà in libreria U-boot- Storie uomini e di sommergibili di Sergio Valzania. Per gentile concessione dell’editore e dell’autore, anticipiamo parte dell’introduzione e un brano tratto dal capitolo “Rullo di tamburo”.
di addestrarla in vista di una morte quasi certa. Otto su dieci degli uomini che si sono imbarcati su di un U-boot in partenza per un’azione di combattimento hanno perso la vita. Un U-boot su tre veniva affondato nel corso della sua prima missione. A partire dall’aprile 1943 la sconfitta tedesca nella
[...] La tragica avventura della Unterseewaffe, l’armata subacquea tedesca nella Seconda guerra mondiale, contiene in sé una sorta di sintesi dell’intero conflitto, o almeno permette di comprenderlo meglio di quanto avvenga analizzando altre vicende belliche. Perché rispetto a un evento di tali durata e dimensione non si può che avere un approccio parziale, oppure soggettivo, e mi riferisco qui alla gigantesca opera di Winston Churchill che, nella pretesa di dar conto di ogni avvenimento, offre piuttosto un forte punto di vista interpretativo. Analizzata da presso, la guerra degli U-boot racconta tutto il conflitto. Fornisce un indicatore preciso sui rapporti di forze, sull’arretratezza tecnologica tedesca e sull’imdella preparazione Germania alla guerra, condanna la dirigenza nazista per la sua incultura, la sua approssimazione, il suo disprezzo per tutti i valori faticosamente elaborati in Europa nel corso di secoli, alla cui formazione i tedeschi avevano pure contribuito in tanta parte. A salvarsi da un giudizio di condanna sono i singoli, o almeno molti di loro, in particolare i più giovani. Travolti dalla guerra e dal suo vuoto etico, si rifugiano nello spirito di sacrificio, nella disciplina, in un senso dell’onore interpretato a volte in modo assurdo.
Hardegen scrive sul diario: «Mentre ci allontaniamo la nave brulica di gente. Ci fanno dei segni, ci augurano un felice ritorno»
Dietro, o forse prima di tutto, rimane l’orrore di un paese che accetta di selezionare una parte della sua migliore gioventù e
di una tecnologia ogni giorno più obsoleta nell’attesa di mezzi più moderni di cui l’ottusità e la mancanza di capacità di previsione dei loro capi, politici e militari, li aveva privati. [...]
15 gennaio. Hardegen arriva con l’U-123 davanti al porto di NewYork, osserva la città attraverso le lenti del periscopio e rimane affascinato dalle luci dei grattacieli di Manhattan e di tutta la costa, dove non è stata emanata nessuna norma che imponga l’oscuramento; contro il chiarore della città e dei suoi dintorni si stagliano nitide le sagome delle navi passeggeri e dei mercantili in transito, molti dei quali navigano sia con le luci di posizione che con quelle di bordo accese, più preoccupati di una collisione che della presenza in zona di sommergibili tedeschi. Come Hardegen scopre in seguito, l’unica misura prudenziale messa in atto dalle navi passeggeri e da trasporto contro eventuali attacchi da parte degli U-boot consiste nel navigare quanto più possibile sotto costa, dove il fondale è particolarmente basso e si immagina i sommergibili non riescano a operare. In una missione di combattimento che dura solo pochi giorni
Battaglia dell’Atlantico apparve evidente, l’ammiraglio Dönitz stesso lo riconobbe richiamando i suoi U-boot e ammettendo che la guerra ai convogli che viaggiavano fra gli Stati Uniti e la Gran Bretagna avrebbe potuto essere ripresa solo in una fase successiva, nascosta in un futuro che per fortuna non si è realizzato. Per due anni i sommergibilisti tedeschi hanno continuato a combattere una guerra che non avrebbero mai potuto vincere, dotati
Nella foto grande, un sommergibile U-boot in dotazione all’esercito tedesco nel corso della Seconda guerra mondiale. A sinistra, la copertina di “U-Boot”, di Sergio Valzania. A destra, altre foto del periodo bellico l’U-123 consegue una notevole serie di successi. Già il 14 gennaio affonda il piroscafo panamense Norness e il 15 silura la petroliera inglese Coimbra. Il 19 Hardegen è rimasto con cinque soli siluri e decide di economizzare le munizioni, ma ne deve utilizzare due per affondare il Brazos, a causa del malfunzionamento del primo ordigno che è stato lanciato e che ha preso una falsa traiettoria mancando il bersaglio. Per essere sicuro di avere successo con un solo lancio contro ciascun obiettivo, nel corso dell’attacco successivo Hardegen si porta a 250 metri dalla City of Atlanta prima di far partire il siluro: i frammenti scagliati in aria dall’esplosione della testata quando colpisce la nave investono l’U123 mentre vira per evitare di speronare la nave, tanto gli è vicino. Quella notte il traffico mercantile lungo la costa statunitense è davvero intenso. Dopo la City of Atlanta le vedette dell’U-boot avvistano all’orizzonte al-
tre cinque navi, che sembrano quasi viaggiare in colonna.
La prima è una petroliera, che Hardegen stima essere di sole 2000 tonnellate, un bersaglio troppo piccolo perché valga la spesa di uno degli ultimi due siluri rimasti. Non per questo intende lasciarselo scappare e decide di attaccare con il cannone. Si immerge e si porta a circa 2000 metri di poppa dalla nave. Al momento di riemergere i cannonieri sono già pronti in torretta, balzano fuori, si precipitano al pezzo di prua e aprono il fuoco. Almeno sei proiettili centrano il bersaglio. Colpita nella sala macchine, la petroliera si ferma, mentre a bordo scoppiano degli incendi. Hardegen immagina che stia affondando, perciò ordina di cessare il fuoco e si allontana. Le navi che attraversano il tratto di mare in cui si trova il sommergibile sono così numerose che per il comandante tedesco è difficile decidere quale debba essere il prossimo bersaglio. Nel frattempo il radiotelegrafista dell’U-123 intercetta un messaggio della petroliera appena attaccata a cannonate dal quale risulta che si tratta della Malay, di oltre 8000 tonnellate, ben più grande di quanto Hardegen abbia stimato. La comunicazione è in chiaro: la petroliera segnala di essere in grave avaria e con alcuni incendi a bordo a causa di un attacco subito da parte di un sommergibile. Il Ciltvaira costituisce il nuovo bersaglio scelto da Hardegen e viene affondato da un siluro lanciato da 450 metri di distanza. L’U-123 dispone quindi
cultura
di un solo siluro quando viene intercettato un nuovo messaggio radio proveniente dalla Malay, che comunica di avere spento gli incendi scoppiati a bordo, di aver fatto ripartire le macchine e di considerarsi quindi in salvo. Una trasmissione del genere rappresenta una grave imprudenza nella zona in cui si muove un Uboot comandato da un ufficiale determinato come Hardegen, il quale decide che il suo ultimo siluro deve servirgli per dare il colpo di grazia alla petroliera. Trascurando qualsiasi altro bersaglio, l’U-123 si dedica alla ricerca della Malay, mentre la notte volge al termine. Poco prima dell’alba la trova e la attacca, centrandola in pieno con il suo ultimo siluro, proprio quando sta arrivando la luce del giorno che lo costringerà a immergersi e restare immobile sul fondo. Sul giornale di bordo Hardegen annota filosoficamente quel giorno: «È ciò che capita quando si segnala troppo presto la propria salvezza».
Finiti i siluri, l’U-123 è costretto a rientrare. Lo aspettano 2300 miglia di oceano e la prudenza consiglierebbe a un sommergibile privo della sua principale arma di attacco di evitare qualsiasi incontro in mare, dato che non gliene può venire che male. L’estetica di Hardegen è però quella del combattente a ogni costo. L’equilibrio psicologico richiesto a un comandante di sommergibile è una dote strana, comprende sì la prudenza, ma mescolata con la spavalderia e con una forte carica aggressiva. Gli alberi di una nave, probabilmente un mercantile,
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vengono avvistati all’orizzonte il 25 gennaio attraverso il periscopio dell’U-123. Hardegen decide di andare a vedere da vicino di cosa si tratti. Le rotte relative delle due unità sono tali da consentirgli di avvicinarsi in immersione. Sempre usando il periscopio il comandante dell’U-123 constata che la nave intercettata è un cargo stracarico di materiale bellico, il quale è stato dotato di un pezzo d’artiglieria per difendersi. Non essendo in grado di silurare il cargo per mancanza di ordigni da lanciare, l’atteggiamento normale per un sommergibile sarebbe di lasciarlo andare senza intervenire. In uno scontro a cannonate un U-boot è un bersaglio difficile da colpire, ma molto vulnerabile: se la sua camera di compressione viene danneggiata non può più immergersi e la superficie del mare appartiene agli inglesi. Le speranze di attraversare l’Atlantico e poi il Golfo di Biscaglia in emersione senza essere scoperto, attaccato e affondato sono quasi nulle. Hardegen non è tipo da fare questi ragionamenti, o comunque li pospone ad altri: ha davanti un mercantile nemico e l’unica decisione che si sente di prendere è attaccarlo. Rimanendo sott’acqua si porta di poppa al cargo, che è il Culebra, carico di aerei smontati, emerge e lo attacca con il cannone, come aveva fatto con la Malay. Ordina ai suoi artiglieri di sparare sul pezzo del mercantile, così da metterlo fuori uso, prima che su qualsiasi altro bersaglio. Occorrono sei colpi per centrarlo, mentre alte colonne d’acqua sollevate dal tiro nemico si alzano già attorno al sommergibile.
A quel punto la battaglia è finita e vinta. Hardegen dà all’equipaggio del Culebra il tempo per abbandonare la nave scendendo nelle scialuppe di salvataggio e poi fa sparare alcuni colpi di cannone sotto la linea di galleggiamento. Il cargo affonda rapidamente. Prima di allontanarsi, i tedeschi si occupano dei naufraghi per quanto è possibile. Viene distribuito loro del cibo e vengono consegnate anche delle cime per legare insieme le scialuppe e impedire che si disperdano nell’oceano. La missione dell’U-123 è ormai riuscita in pieno, ma Hardegen non vuole lasciarsi scappare nessuna opportunità per aumentare il proprio bottino. Due settimane dopo, ormai vicino alla costa francese, l’U-boot affronta un nuovo scontro d’artiglieria con la petroliera Pan Norway. Il combattimento dura così a lungo che si esauriscono le munizioni del pezzo principa-
le del sommergibile, quello da 105 mm, ma Hardegen ordina di continuare a sparare con quello da 37 mm e alla fine ottiene il sopravvento e affonda la petroliera. È notte fonda, sono circa le quattro del mattino e all’orizzonte si scorgono le luci di una nave, evidentemente neutrale, che sembra si stia allontanando dal luogo dello scontro anziché accorrere per aiutare i naufraghi. Hardegen la insegue e la costringe a tornare indietro per prendere a bordo i superstiti della Pan Norway. Sul diario di bordo quel giorno annota: «Mentre ci allontaniamo l’impavesata della nave brulica di gente. Ci fanno dei segni, ci augurano felice ritorno. Speriamo che arrivati a casa raccontino queste cose e aiutino a far cessare le orribili storie che circolano a proposito dei sommergibilisti tedeschi». È difficile credere che sia possibile fare la guerra con tanta determinazione e nello stesso tempo conservare una sensibilità così delicata. Nel corso dell’operazione Paukenschlag, Hardegen affondò dieci navi nemiche, per un totale di 60.000 tonnellate. Più di 100.000 vennero distrutte dai suoi colleghi, per la maggior parte dagli U-66, U-109 e U130; solo l’U-125 dovette accontentarsi di un unico successo. Nella zona di mare che era stata assegnata a questo sommergibile il tempo si mantenne pessimo per tutta la durata della missione e questo limitò le sue capacità offensive. La stagione dei successi tedeschi davanti alle coste americane, che venne battezzata dei «nuovi tempi felici», non durò a lungo. La marina degli Stati Uniti, la guardia costiera e l’aviazione si organizzarono, vennero convinti gli abitanti della zona litoranea ad accettare l’oscuramento per non aiutare l’individuazione delle navi da parte dei sommergibili e alla fine si decise di far navigare i mercantili in convoglio, sotto forte scorta. Dati anche i bassi fondali della regione, queste misure costrinsero gli U-boote a ritirarsi definitivamente da tutta l’area costiera statunitense e a cercare altre zone di caccia.
Prima che questo accadesse, Hardegen realizzò una seconda campagna nella zona, cogliendo un successo analogo a quella precedente. Poi fu trasferito alla scuola sommergibili in qualità di istruttore, e lì rimase fino alla fine della guerra. Quando essa ebbe termine, l’ufficiale lasciò la marina militare e si dedicò agli affari e alla politica, arrivando a occupare un seggio nel Parlamento di Brema, sua città natale.
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la crisi egiziana
Dopo 18 giorni di proteste il raìs vola a Sharm el Sheik e cede lo scettro tenuto per 30 anni. L’Onu: «Transizione sia ordinata»
Mubarak si è dimesso Il potere passa all’esercito. Tutta la città in festa. El Baradei: «È il giorno più bello» di Luisa Arezzo l raìs si è dimesso. Diciassette giorni dopo l’inizio delle proteste e solo poche ore dopo il suo ultimo discorso alla nazione nel quale gelando piazza Tahrir, confermava di restare al timone del Paese pur cedendo delle deleghe all’esercito - il faraone ha abbandonato il posto di comando. E ha ceduto lo scettro alle forze armate. «Il Paese è stato liberato, è il più bel giorno della mia vita» ha subito detto Mohammed El Baradei, l’ex capo dell’Aiea e Nobel per la Pace ai microfoni della Tv francese. Nulla in confronto al boato di felicità, agli abbracci, ai girotondi a cui abbiamo assistito in diretta televisiva, quando il vicepresidente Omar Suleiman ha annunciato: «Cittadini, in nome di Dio misericordioso, nella difficile situazione che l’Egitto sta attraversando, il presidente Hosni Mubarak ha deciso di dimettersi dal suo mandato e ha incaricato le forze armate di gestire gli affari del paese. Che Dio ci aiuti». Le centinaia di migliaia di manifestanti riuniti a piazza Tahrir al Cairo sono esplose di gioia: «Il popolo ha fatto cadere il regime!», scandiva una folla in delirio sulla piazza divenuta il simbolo del movimento di protesta scoppiato il 25 gennaio. In centinaia sono svenuti dall’emozione. Mentre Beirut - prima capitale mediorientale a reagire alla notizia - salutava la notizia con colpi di fucile e fuochi d’artificio, seguita poco dopo da Tunisi, Algeri e Gaza.
I
Che il punto di non ritorno fosse stato raggiunto si era capito fin dalle prime ore del mattino, quando Al Arabya, battendo sul tempo ogni altra emittente mondiale, annunciava che il raìs aveva lasciato la capitale alla volta di Sharm el Sheik, sul Mar Rosso. «Oggi a Sharm, domani a Jedda come Ben Ali», intonava la piazza, consapevole che la sua attesa stava per finire. Poco dopo a lasciare la poltrona era il neo segretario generale del Pnd (il partito nazionale democratico al potere, l’unico dell’Egitto) Hossam Badrawi, nominato da Mubarak appena
Carlo Jean: «Sono loro i veri vincitori del braccio di ferro»
«Ora, l’incognita dei militari» di Pierre Chiartano
ROMA. Dopo la sorpresa del «non mi dimetto» affermato in televisione giovedì sera, è arrivata la notizia: Hosni Mubarak ha gettato la spugna, accontentando la gente che protestava da giorni nelle piazze egiziane. E risolvendo non pochi problemi per la transizione del Paese arabo. Abbiamo chiesto al generale Carlo Jean, esperto di politica internazionale e già consigliere del presidente della Repubblica, ai tempi di Francesco Cossiga, un commento a caldo. «Era nella logica delle cose, dopo le dichiarazioni successive del consiglio supremo delle forze armate». I militari ancora una volta sono il dominus della situazione nella crisi egiziana, amati dalla gente e temuti dai politici. «Le forze armate non potevano perdere il favore della popolazione per difendere il presidente Mubarak. Sono loro ad avergli dato la spinta definitiva». Ricordiamo che anche la Casa Bianca aveva esercitato fortissime pressioni, affinché il rais abdicasse. Obama aveva minacciato di chiudere i cordoni della borsa: circa un miliardo di dollari in aiuti economici. E se il vecchio Faraone esce sconfitto, il regime è ancora in piedi. «Dal 1952 sono i militari a formare l’ossatura dello Stato, come succede in quasi tutti i Paesi arabi». Ora si avvierà la fase di transizione per arrivare alle nuove elezione l’estate prossima. «Secondo la Costituzione egiziana, in caso di vuoto istituzionale, il Consiglio supremo delle forze armate assume i poteri di governo. E ha l’obbligo di in-
dire delle elezioni entro sessanta giorni. Sarà un gruppo di generali, dodici o quindici, non ricordo con esattezza, che assumeranno i pieni poteri». In questi giorni di grande tensione gli uomini in divisa hanno partecipato ai tavoli negoziali, anche con i Fratelli musulmani. «L’esercito si muoverà con grande cautela nei confronti della Fratellanza musulmana. Non sappiamo ancora bene cosa siano, non sono solo islamisti arrabbiati, ci sono anche personaggi moderati. Guardiamo al partito islamico in Turchia, con il premier Erdogan, che esprime una visione politica dell’islam moderato. Bisognerà poi vedere anche che effettivo peso elettorale avranno dopo il ricorso alle urne. Non necessariamente sono destinati ad aver un successo elettorale». Dopo i militari però sono il gruppo politico meglio organizzato in Egitto.
«C’è anche il partito dell’ex presidente, il Partito democratico nazionale, che certamente conterà ancora. Anche se non ha passato certo un bel momento. Ha sicuramente appoggiato Mubarak, anche dopo la purga dei figli del presidente. Il vero contrasto è stato tra esercito e politici, nonché elite economiche che fanno parte del sistema di potere egiziano. Come era logico che dovesse capitare i militari hanno avuto la meglio». Davanti al Paese ora c’è una forte crisi economica e una struttura istituzionale da ricomporre. «È già difficile da capire il passato, non credo sia possibile prevedere ciò che succederà in futuro in Egitto».
una settimana fa. Ma la conferma della vittoria è arrivata solo poche ore dopo, quando un impassibile e tetro Suleiman, il vicepresidente nominato da Mubarak per gestire la transizione, ha annunciato le dimissioni del presidente. «Solo la Storia potrà giudicare il nostro presidente Mohammad Hosni Mubarak», è stato l’immediato commento della tv di Stato al messaggio. «Fino alla fine il nostro raìs si è dimostrato saggio e
sioni da Capo dello Stato, dovrebbe licenziare l’intero esecutivo e sospendere il Parlamento, guidando il Paese con l’ausilio della Corte Costituzionale, principale organo giudiziario.
E qui si comincia ad entrare nel regno delle ipotesi, che saranno chiarite solo dagli eventi dei prossimi giorni. A rigore di legge, in base all’articolo 84 della costituzione egiziana, se il presidente si dimette, i poteri
«Cittadini, in nome di Dio misericordioso, nella difficile situazione che l’Egitto sta attraversando, il presidente ha deciso di dimettersi dal suo mandato». Così Suleiman avvisa l’Egitto lungimirante nel fare la scelta migliore per la nostra cara patria» ha detto lo speaker. Una scelta che probabilmente era in calendario già dal giorno prima e che invece qualcuno ha cercato di evitare. Ovvio pensare a un colpo di reni dello stesso Mubarak, ma quel colpo deve essere stato avallato da qualcuno che pensava che ancora ci fossero dei margini di trattativa e che invece, nel giro di meno di 12 ore, ha dovuto fare marcia indietro. E se come sembra possibile, lo scontro si è consumato in seno ai vertici dell’esercito, presto se ne potrebbero vedere i risultati. Non a caso, sono molti gli analisti a leggere fra le righe di queste dimissioni un vero e proprio golpe. Al momento in cui andiamo in stampa, lo stato maggiore dell’esercito, al quale Hosni Mubarak ha trasmesso i poteri dopo le dimis-
vengono temporaneamente assunti dal presidente della Camera e il nuovo presidente deve essere eletto entro 60 giorni dalla data in cui la carica risulta vacante. Ma non è chiaro se quest’ultimo punto viene applicato anche quando, come in questo caso, il Consiglio superiore dell’esercito è stato incaricato di occuparsi degli affari del paese. La data delle elezioni, insomma, non è detto che sia vicina. Ma oggi la piazza egiziana non ha tempo per pensare a questo. Oggi è il momento della gioia, della vittoria e dell’orgoglio. «Sono felice di essere egiziano - ha detto Wael Ghonim, il manager di Google per il Medioriente diventato uno dei simboli della rivolta -. La mia missione è compiuta, l’Egitto diventerà uno stato democratico». Anche grazie a Facebook. Social network e blog
la crisi egiziana
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Per il giovane intellettuale ceco nel mondo arabo mancano i presupposti culturali alla democrazia
«Il 2011 come il 1989? Vi sbagliate di grosso» Le rivolte in Medioriente sono state paragonate alle sollevazioni anticomuniste in Europa. Ma è una forzatura di Jan Fingerland l confronto tra il 2011 e il “nostro”1989 non regge per tutta una serie di motivi, a cominciare dal fatto che la maggior parte degli abitanti dei paesi del blocco comunista avevano una discreta idea, sebbene deformata, di cosa fosse la democrazia. Quest’idea scaturiva dalla cultura all’origine stessa della democrazia, e le condizioni sociali e le organizzazioni informali facilitarono la transizione. Qual è invece la realtà del vicino medioriente? I regimi arabi moderni sono il risultato di colpi di stato militari. La maggior parte di essi hanno avuto luogo durante gli anni Cinquanta e Sessanta. Così come Lenin aveva inventato a suo tempo l’equazione soviet più elettrificazione = comunismo, le rivoluzioni dei colonnelli in Egitto, Siria, Iraq e Libano hanno proposto la variante nazionalismo più esercito = indipendenza. Accanto alle monarchie sopravvissute a quell’ondata di colpi di stato si installò un modello di regime che appariva come una risposta soddisfacente ai problemi dell’epoca. I nuovi stati costruirono delle barriere istituendo sistemi sanitari e scolastici, attuando nazionalizzazioni e ricevendo dal blocco sovietico un sostegno considerevole. Ma altri fattori hanno impedito che si installasse la democrazia. Il mondo arabo non ha conosciuto una realtà che la stessa Europa dell’est aveva sperimentato anche prima del 1989, almeno in una forma imperfetta. Penso alla società civile, al concetto di libertà individuale, alla tradizione del confronto aperto e senza pregiudizi e alla responsabilità personale. Un esempio eloquente: il nome di piazza Tahrir (liberazione, ndr.) al Cairo, teatro delle manifestazioni contro Mubarak, non si riferisce alla libertà civile ma al colpo di stato dei colonnelli del 1952. Il rimando è all’indipendenza nazionale collettiva e non all’autonomia individuale tanto cara ai cittadini dei paesi occidentali.
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sono state infatti le “armi” con cui l’opposizione egiziana ha lanciato la sfida all’ormai ex presidente egiziano e non si può non sottolineare come la rete abbia avuto un ruolo determinante nel catalizzare e tenere viva la protesta contro il raìs. A livello internazionale, il primo commento è arrivato (dopo i lunghi giorni di silenzio) dall’alto rappresentante della diplomazia Ue Catherine Ashton: «È stata ascoltata la voce del popolo egiziano. La Ue è pronta a sostenere il processo di transizione democratica del Paese verso libere e giuste elezioni». Felice la cancelliera Merkel, dal primo giorno delle manifestazioni al fianco dei manifestanti, che ha parlato di un «cambiamento storico», le stesse parole usate dal vicepresidente Usa Joe Biden, che ha auspicato anche una «transizione irreversibile». La vera preoccupazione di Ban Ki-moon che ha laconicamente detto: «Confido in una transizione ordinata». Domani si capirà se e come questa verrà avviata. Per ora, a piazza Tahrir si balla e si canta. Mentre i Fratelli musulmani rendono onore all’esercito.
Qui sopra, la protesta di Piazza Tahrir al Cairo riflessa negli occhiali di uno dei manifestanti. Sotto, Suleyman. A destra, la cadura del Muro di Berlino nel 1989
gliatamente le loro rivendicazioni utilizzano parole come “giustizia” (in opposizione alla corruzione e all’illegalità) o “dignità” (contro lo stato di polizia e le condizioni umilianti). Rispetto all’Occidente le società arabe si reggono più sulla sottomissione all’autorità. La volontà dello stato, l’opinione del più anziano o del rappresentante dell’autorità devono essere rispettate. Gli argomenti imbarazzanti non si trattano ad alta voce. Le divergenze d’opinione sono spesso considerate un problema. Perché la democrazia abbia una chance di riuscire è necessario prima sviluppare la cultura del dialogo e soprattutto lo spirito critico. Il Medioriente non è mai stato uno spazio di libertà, che si tratti di scelte di vita personali o di libertà d’espressione, ma di sicuro non è più un terreno fertile per l’assolutismo. Esiste un’idea chiara di cos’è un governo giusto e legale, limitato non solo dal diritto religioso ma anche dalle tradizioni, dalle figure autoritarie e da istituzioni radicate. Va ricordato però che l’Islam crede nell’uguaglianza fondamentale degli uomini, il che lo rende un veicolo adatto all’emergere della democrazia più del sistema indiano delle caste, per esempio.
Ma torniamo al presente. L’idea di una ripetizione dello “scenario tunisino”in Egitto si basa non soltanto su un’analogia sbagliata con l’Europa dell’est (la caduta della cortina di ferro) ma anche su similitudini ingannevoli tra i due regimi nordafricani. Il governo di Ben Ali ha significato la dittatura personale di una sola classe, la cui sorte è stata segnata nel momento in cui l’esercito si è schierato contro di essa. In Egitto uno sviluppo del genere non sarebbe possibile. La cacciata di Mubarak non cambierà il carattere di fondo del regime, definito dal ruolo predominante che i militari occupano in seno allo stato. Assisteremo all’emergere di una democrazia o di un regime fondamentalista? Nessuno può rispondere a questa domanda. Può essere interessante ricordare l’analisi proposta da Alexis de Tocqueville sull’avvento della democrazia nel mondo occidentale 180 anni fa.Tocqueville ha fatto notare che, se è vero che il governo delle masse presenta numerosi pericoli, opporsi a un processo così ineluttabile è in fin dei conti ancora più rischioso che assecondarlo cercando di regolarlo. Non è scritto da nessuna parte che la democrazia egiziana debba essere irreprensibile fin da subito. Anche noi cechi sappiamo bene che nessuna democrazia degna di questo nome nasce da un giorno all’altro.
Il nome di piazza Tahrir (liberazione), teatro delle manifestazioni, non si riferisce alla libertà civile ma al colpo di stato dei colonnelli nel 1952
È precisamente il nazionalismo arabo, paradossalmente ispirato al socialismo e al nazionalismo europeo, che è servito da ideologia per sostituire concetti tipicamente occidentali come il diritto a “coltivare la propria felicità”, cosa che è riuscito a fare per qualche tempo. Ha dato alle persone un sentimento d’identità e di condivisione di uno stesso obiettivo in nome del quale sono state disposte a sacrificare molte cose. I giovani uomini del Cairo (diversamente da quanto accade nella più laica Tunisia, in Egitto le donne sono meno visibili) pronunciano parole come “libertà”. Ma quando cercano di spiegare più detta-
la crisi egiziana
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PER IL NEOCON LEDEEN IL PRESIDENTE RISCHIA DI PERDERE CREDIBILITÀ
«Non si tradisce un alleato» di Michael Ledeen li Stati Uniti hanno avuto diverse alleanze con tiranni “amichevoli”, da Stalin a Papa Doc, da Mubarak a Pinochet, dallo scià alla famiglia reale saudita. Non è un rapporto facile. Se sei il presidente americano sai, o dovresti sapere, che è solo questione di tempo prima che il popolo americano - o almeno buona parte “dell’opinione pubblica” - si rivolti contro il tiranno e chieda di sostenere i suoi nemici interni, reali o immaginari che siano. Un presidente certamente cerca di evitare che ciò accada, ben consapevole che nel conseguente parapiglia politico si troverebbe macchiato dello stesso fango di cui sono imbrattati i tiranni. D’altro canto, se si “mollano” i tiranni, si mandano due messaggi molto pericolosi. Agli alleati, infatti, il messaggio che arriva è quello di avere un partner debole e inaffidabile, il che oltre a scoraggiare loro, scoraggia anche tutti i possibili amici e alleati che stanno cercando di capire cosa fare. Ai nemici, invece, arriva non solo un messaggio di debolezza, ma anche che si è pronti a scappare alla prima vera difficoltà. Infine, se il tiranno abbandonato dovesse restare in sella o vincere, la sua amicizia sarebbe preclusa per sempre. Davvero un bel guaio. Molti ritengono che l’America faccia sempre male a sostenere i dittatori. “Sempre” forse è troppo. Ha sbagliato a sostenere i Sovietici nella guerra contro l’Asse? Sarebbe stato meglio sacrificare migliaia di vite americane per evitare la macchia morale? Dobbiamo cestinare le tattiche in favore di una singola strategia?
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Come mi piace ricordare, siamo spesso costretti a scegliere tra vari mali e si tratta di una scelta legittima. Si tratta del modo in cui il mondo funziona in generale; è raro poter avere un’opzione che sia moralmente impeccabile e completamente attraente al tempo stesso. Inoltre, mentre i tiranni sono opposti al nostro Dna nazionale, dobbiamo riconoscere che esistono dittatori e dittatori. Alcuni si possono convincere a usare mezzi democratici, e queste opportunità aumentano se si fidano di noi e sono disponibili a collaborare. Un modo per passare dalla dittatura alla democrazia - questa è la nostra missione nazionale sta nel portare i tiranni “amichevoli” a liberalizzare le loro classi politiche. In società che erano considerate intrinsecamente, quasi geneticamente, autoritarie si sono raggiunte transizioni pacifiche.Tanto per elencarne due: Taiwan e la Spagna, entrambe democratizzate da cima a fondo. Ai tiranni ovviamente questo pro-
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cesso non piace affatto. Svuota il loro potere e potrebbe addirittura costargli il posto lavoro. Si preoccupano per conseguenze più cupe, quali subire processi per diversi atti criminali, dalla repressione alla corruzione. Questo è il motivo per cui Franco stese le basi per la democrazia, ma lasciò che fossero i successori a occuparsi della vera transizione. A Taiwan le cose andarono diversamente: il partito al governo creò un sistema capace di rimuovere dal potere il partito, forse solo provvisoriamente o forse per un lungo periodo. Ciò non avrebbe potuto verificarsi senza l’aiuto americano e forse (non ne ho la certezza, ma posso immaginarlo) senza promesse di un porto sicuro se le cose fossero andate male.
Avremmo dovuto insistere affinché lo scià liberalizzasse l’Iran. Sì, lo so, in parte lo ha fatto e so che l’Iran era - per ordini di magnitudine - la società più aperta e liberale del Medioriente musulmano. Ma ha interrotto il processo, provocando quindi l’insurrezione che ha prodotto la Rivoluzione Islamica. Avremmo dovuto insistere affinché Mubarak liberalizzasse l’Egitto, e ogni tanto qualche Presidente o Segretario di stato americano lo ha ripetuto, ma abbiamo fatto un passo indietro. E ora ci troviamo di fronte a una grave crisi senza alcuna “buona” soluzione. Cosa si fa? Credo che la risposta sia ovvia: l’America non deve abbandonare Mubarak, anche se sta andando a fondo. Possiamo continuare a parlare di riforme, ma cercare di istituire riforme nel bel mezzo di un’insurrezione è tanto folle quanto aumentare le tasse nel bel mezzo di una depressione. Dobbiamo dunque dire - soprattutto a noi stessi - che siamo con lui e che pur volendo un cambiamento profondo nel futuro, non lo abbandoneremo. Questa è la giusta via politica, anche se Mubarak dovesse affondare. Facendo così, gli Usa potranno dire ai suoi successori «Gli siamo rimasti fedeli perché è stato un buon alleato, e noi non abbandoniamo gli alleati onesti. Se sarete buoni alleati, saremo fedeli anche a voi, anche nei momenti più bui». Se invece ci tireremo indietro, allora sia gli altri alleati che i successori di Mubarak penseranno che l’America non è onesta e affidabile e che quindi è un errore soddisfare i desideri degli americani (ad esempio, la democrazia). Quindi, se la storia si scrive attraverso paradossi, ne abbiamo individuato uno nuovo: se si vuole davvero che a prevalere sia la democrazia, occorrerà qualche volta sostenere solidamente un dittatore. Certo, se in passato l’America avesse sempre perseguito la sua missione nazionale, oggi non si troverebbe in questa spiacevole situazione. Ma siamo qui, e se abbandoniamo la nave adesso, come sembra che stiamo facendo, con molta probabilità le cose peggioreranno ancora.
Se la Storia si scrive con i paradossi, ne abbiamo individuato uno nuovo: se si vuole la democrazia, qualche volta bisogna sostenere un dittatore
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Via il raís: ha ragione Obama?
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la crisi egiziana
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NON SI POSSONO RINNEGARE GLI IDEALI DELL’OCCIDENTE
«I valori non si negoziano» di Osvaldo Baldacci neocon hanno cambiato idea? C’è qualcosa che non torna nella loro posizione su Mubarak e quanto sta accadendo in Egitto. Improvvisamente folgorati dalla realpolitik vogliono offrire l’ultima stampella al regime del raiss egiziano. C’è qualcosa di ragionevole nella loro posizione, come espressa ad esempio qui a fianco da Michael Ledeen, ma ci sono alcuni punti che lasciano perplessi. Primo di tutti: proprio la realpolitik parte dai dati concreti, e il dato reale che il buon senso e l’esperienza mostrano a tutti è che non si reincollano i cocci rotti. E in Egitto i cocci sono rotti, già da qualche tempo, e senz’altro da quando i manifestanti - pacifici nonostante tutto - hanno invaso la piazza senza farsi spaventare e confondere da promesse e minacce, aggressioni e dichiarazioni confuse e contraddittorie. Per loro ormai Mubarak è un ex. Come non tenerne conto anche in nome della realpolitik? D’altro canto altri neocon, come Kagan, già da un anno avvisavano il governo statunitense del rischio collasso in Egitto. Nell’era di George Bush, i neocon sono stati protagonisti di una rivoluzione culturale e politica forse persino non ancora compresa in pieno. L’idea dell’esportazione della democrazia non solo per valori morali ma anche perché la libertà globale avrebbe fatto globalmente bene al mondo, e quindi anche alla sicurezza e persino all’economia occidentale, è un’idea che ha affascinato molti e che ha cambiato radicalmente anche la politica statunitense. Sarà forse il caso di ricordare che i repubblicani Usa storicamente hanno tendenze più isolazioniste, e infatti i neocon venivano quasi tutti da una esperienza democratica che proprio al momento dell’11 settembre hanno saputo e potuto innestare sul filone più idealista e valoriale dei repubblicani. Ne era nato un progetto di democrazia e libertà globali che molti hanno criticato a Bush, ma che molti altri hanno seguito con entusiasmo in nome di una visione di un futuro migliore. Una visione che probabilmente spingerà gli storici a guardare agli anni della presidenza Bush con un giudizio molto più positivo di quanto facciano i contemporanei. Una visione dai risvolti concreti che hanno dato anche dei risultati: non si ricorda mai abbastanza che in quegli anni ci sono effettivamente stati più progressi democratici in Medioriente che in tutta la millenaria storia di quella regione.
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glio, non a involversi. Anzi, forse l’errore della politica bushana è stata proprio quella di frenare. Perché in realtà le alternative ideologiche sono due (la libertà globale o la difesa degli interessi tramite dei baluardi a qualsiasi costo), ma le opzioni sono di più, si può cioè graduare la modalità di declinare queste alternative. È qui che il discorso neocon è sensato ma fuori tempo. E forse è qui che il processo di democrazia globale si è inceppato. Non mi sembra il caso di fare marcia indietro rispetto all’ideale di libertà per tutti gli esseri umani, mentre bisogna essere capaci di programmare questo cammino, conoscendone i costi e le difficoltà. Ecco, pare quasi che gli americani abbiano pensato di realizzare un ideale astratto senza comprendere che esso andava calato nella realtà.
In questo senso è verissimo che Paesi che non hanno mai conosciuto la democrazia non possano diventare democratici tutto insieme. La democrazia non è solo andare al voto. Anzi, la realpolitik dice che forse il voto libero è il risultato finale di un progressivo avanzamento dei diritti, della consapevolezza, della società, dell’istruzione. E che quando questi elementi sono consolidati, allora la democrazia, la libertà, il voto sono un bene oggettivo e universale, che fa bene a tutti anche quando dovesse dare risultati inattesi e forse persino sgraditi. L’importante è che il voto non possa mai sovvertire i diritti naturali, e questo è appunto il sistema che bisogna costruire. E questo è anche quanto è fallito negli ultimi anni: l’avanzare della democrazia e dei diritti si è fermato, e inevitabilmente le aspettative create hanno portato alla rivolta contro chi gestiva un potere ancora autoritario ma che doveva almeno essere funzionale alla crescita dei diritti, come Mubarak. Quando questi raiss si sono arroccati nel loro potere e non sono più stati al servizio dei progressi democratici, ecco la resa dei conti. Quello è stato l’errore da non ripetere: Mubarak e gli altri come lui avrebbero potuto mantenere ancora il potere e anche la benevolenza dell’Occidente, se avessero proseguito sul cammino della democratizzazione. Quando si sono fermati, non ci hanno più permesso di fermarci accanto a loro. Serve qualcuno che riprenda il percorso.
La destra Usa scelga: o era sbagliata la visione della libertà globale o è sbagliata la visione di conservarsi un tiranno amico quando il tempo è scaduto
Sono stati portati avanti dei diritti sociali, politici, civili che mai prima erano stati concessi. Non solo le democrazie totalmente inedite che si sono realizzate (con tutti i problemi del caso, ci mancherebbe altro) in Afghanistan e Iraq, non solo la riconquistata autonomia del Libano, ma decine di piccoli progressi che hanno investito persino le monarchie del Golfo. E che hanno gettato i semi per le rivendicazioni democratiche che stanno investendo l’area in queste settimane. È in quegli anni che ad esempio Mubarak è stato convinto ad accettare il multipartitismo e la possibilità di più candidati alle elezioni presidenziali. Allora adesso ci vengono a dire che era tutto sbagliato? Delle due l’una: o era sbagliata quella visione della libertà globale e della democrazia come soluzione, o è sbagliata la visione di oggi per cui è meglio conservarsi un tiranno amico, anche quando ormai sembra palesemente scaduto. È paradossale che i neocon sembrino oggi propendere per questa seconda soluzione, quando in realtà in questo campo la politica di Obama mostra evidenti segni di continuità proprio con quella di Bush… certo, Bush non fece tutto bene, e Obama oggi anche in politica internazionale sembra confuso e un po’ pasticcione, più incalzato dagli eventi che loro regista. Ma bisogna aiutarlo a fare me-
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il personaggio della settimana Sta per uscire in Italia “La mia vita a Wikileaks, lavorando al sito più pericoloso del mondo”
Nemo propheta in Rete Daniel Domscheit-Berg è l’ex portavoce (e amico) di Julian Assange: insieme hanno creato Wikileaks. In un libro, accusa “l’aria da santone” e i misfatti dell’uomo che conosce tutti i segreti del mondo di Maurizio Stefanini
ulian Assange ha 39 anni, ma una faccia da biondo slavato che gliene dà una decina di meno, ed è australiano. Daniel Domscheit-Berg ha 33 anni, ma ha una fronte spaziosa e una barba che gliene danno una decina di più, ed è tedesco. Assange divenne a 16 anni un hacker con il nome da battaglia latino di Mendax, e dice di aver definito per primo una specie di codice di autoregolamentazione dell’hacker “etico”: «Non danneggiare il sistema del computer in cui sei riuscito a entrare; non cambiare le informazioni di questi sistemi, eccetto che per coprire le tue tracce; e condividi l’informazione». Daniel Domscheit-Berg cominciò a trafficare coi computer a otto anni, e entrò poi nel Chaos Computer Club: un gruppo che si richiama anch’esso all’hackerismo “etico”, senza un codice esplicito ma con un’attività che risale addirittura al 1981, e con ben 4000 seguaci nel mondo di lingua tedesca. «Una comunità galattica di forme di vita, indipendenti da età, sesso, razza o orientamento sociale, che si dà da fare attraverso le frontiere per la libertà di informazione», ne è l’auto-definizione. Julian Assange dopo essersi sposato a diociott’anni, essere diventato padre, essersi separato, essere stato condannato per hacking in Australia e essere stato rilasciato per buona condotta, aver creato un programma open source, aver scritto un libro e aver studiato per tre anni fisica e matematica all’Università di Melbourne senza ottenere la laurea, nel dicembre del 2006 fonda il sito WikiLeaks.
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Da Leaks, “fuga di notizie”; e Wiki, presente anche nel nome della Wikipedia, e che significa in hawaiano “veloce”, forse da una provincia polinesiana dell’inglese quick. E come editor in chief di quell’organizzazione-sito volta alla divulgazione di documenti coperto da segreto, un anno dopo Julian Assange si reca all’annuale congresso del Chaos Computer Club. Daniel DomscheitBerg nel dicembre del 2007, epoca in cui lavora come specialista informatico per la multinazionale Eds, al congresso del Chaos Computer Club conosce Assange, è colpito dalle sue idee, inizia a collaborare con WikiLeaks. Finché all’ini-
zio del 2009 non decide di licenziarsi dalla Eds, per lavorare con WikiLeaks in pianta stabile, diventandone il numero due. Julian Assange il 28 novembre del 2010 ha lanciato l’operazione attraverso la quale i giornali spagnolo El País, francese Le Monde, tedesco Der Spiegel, inglese The Guardian e statunitense New York Times hanno iniziato a pubblicare 251.287 documenti diplomatici confidenziali di 274 ambasciate Usa per il mondo dal 28 dicembre del 1966 al 28 febbraio del 2010, che WikiLeaks ha appunto loro fornito: risposta a una serie di pressioni che lo stesso Assange dice essergli arrivate in rappresaglia alla sua opera di “smascheramento” degli Usa, e che sono andati da un tentativo di ritiro del passaporto da parte del governo australiano a una richiesta di estradizione dell’Interpol, a una doppia accusa per molestie sessiali in Svezia, fino al finale arresto nel Regno Unito.
Daniel Domscheit-Berg però già dall’ottobre del 2010 se ne era andato da Wikileaks sbattendo la porta, protestando “contro l’autoritarismo”di Assange; e proprio per mostrare il modo con cui secondo lui avrebbe invece dovuto essere fatto quel lavoro ha lanciato dal 26 gennaio 2011 il sito alternativo OpenLeaks. Julian Assange a fine 2010 annuncia una propria autobiografia, da cui conta di ricevere un milione e mezzo di dollari a titolo di diritti di autore, e che uscirà a aprile. «Non voglio scrivere questo libro, ma devo farlo», spiega. «Ho già speso 300.000 dollari per le spese legale e devo difendermi e mantenere WikiLeaks a galla». Ma Daniel DomscheitBerg ha invece già ora fatto uscire il libro con cui dà la sua versione della storia, proprio in concomitanza con il processo londinese sulla richiesta di estradizione in Svezia. Inside WikiLeaks: My Time with Julian Assange at the World’s Most Dangerous Website è il titolo. “Dentro WikiLeaks: il mio tempo con Julian Assange nel sito più pericoloso del mondo”. E il racconto è di questo tenore: «Da quando Julian ha cominciato a vivere con me a Wiesbaden il mio gatto ha iniziato a soffrire di psicosi. Julian lo assaliva di continuo, aprendo le dita a forchetta e prendendolo per la gola».
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«Deve essere stata una tragedia per il micio», aggiunge nella versione tedesca del libro, che uscirà in italiano per Marsilio mercoledì prossimo. Il tedesco rivela anche che Assange ha la mania per le ragazze di 22 anni, e che avrebbe l’idea di avere in ogni continente un figlio, ma senza doverlo curare lui personalmente: due “fissazioni”che forniscono anche un preciso retroscena alla storia delle due ragazze svedesi che lo hanno denunciato per un rapporto senza preservativo. Nella legge del loro Paese equiparato a una forma di stupro.
Non ci sono però solo i pettegolezzi di natura privata, sia pure indicativi di una mentalità. Daniel Domscheit-Berg, che come numero due di WikiLeaks si firmava con lo pseudonimo di Daniel Sch-
Furibonda la reazione del fondatore, che ha accusato l’ex numero 2 di aver sabotato i server e distrutto tutti i documenti
mitt, promette di svelare tutti gli altarini di Assange anche e soprattutto sul suo versante pubblico-politico: evoluzione del sito, tensioni interne, soprattutto la storia complessa dei finanziamenti. Come spiegò infatti tra luglio e agosto la Wau Holland Foundation, fondazione di hacker con sede a Berlino che era stata incaricata appunto di gestire le donazioni al sito, appena il 5% degli utili di WikiLeaks servivano all’epoca per il suo mantenimento: 500.000 euro ricevuti via PayPal e 240.000 via bonifici bancari, contro appena 30.000 euro che Assange e “Daniel Schmitt”, quest’ultimo con la funzione ufficiale di portavoce, avevano speso per viaggiare, pagare i server e affittare i siti. La stessa fonte diceva anche che il lavoro era volontario e non retribuito, anche se era in corso un dibattito se pagare qualche stipendio.
La Fondazione aveva però dato queste cifre dopo che WikiLeaks era stata accusata di scarsa trasparenza da un suo ex-collaboratore, e che si era parlato di un bilancio pari a un milione di dollari di entrate all’anno contro 200.000 dollari di uscite. D’altra parte nel 2009 WikiLeaks aveva avuto una prima grave crisi: quando Assange era emerso come leader, il sito aveva spostato l’obiettivo fondamentale delle proprie bordate da regimi autoritari e totalitari agli Stati Uniti, si erano avute le prime defezioni, ed erano cessati i finanziamenti di Associated Press, Los Angeles Times e federazione degli editori di giornali Usa. A dicembre del 2009 erano dunque rimasti in cassa solo 5000 euro, e quel punto il sito aveva chiuso fino al maggio, lanciando appunto una grande colletta. Obiettivo indicato:
200.000 dollari per un anno di attività con lavoratori non retribuito, 600.000 con lavoratori stipendiati. Registrata come una biblioteca in Australia, come una fondazione in Francia e come un giornale in Svezia, così come aveva dovuto affidarsi a una fondazione terza per gestire i soldi Wikileaks aveva dovuto ricorrere anche a organizzazioni terze per la loro raccolta.
A agosto, dunque, la britannica Moneybookers, spaventata per l’offensiva giudiziaria in provenienza dagli Usa, aveva chiuso il conto di WikiLeaks: inconveniente cui peraltro Assange aveva già ovviato, dotandosi quasi in contemporanea del sistema made in Sweden Flattr. Ma poi tutti i canali si erano bloccati, compreso PayPal. E c’era l’impegno che i giornali riceventi l’ultima valanga di informazioni non avrebbero invece pagato un soldo. Per questo Assange si era infine messo a scrivere la propria autobiografia. «Ciò che è stato reso pubblico finora a proposito di WikiLeaks è solo una piccola parte della verità, e come potrebbe essere altrimenti?», avverte però Daniel DomscheitBerg nel suo libro. «Dopotutto, nessuno sa cosa accadeva all’interno dell’organizzazione. Questa storia può essere raccontata solo da qualcuno che era lì». Il tedesco ha anche anticipato una parte dei contenuti del volume in una lunga intervista al Corriere della Sera. «WikiLeaks e Assange rischiano di diventare un fenomeno di cultura pop. WikiLeaks non funziona più. Non puoi più inviarci niente, non c’è nemmeno un server per la posta. Non è un sito morto, assolutamente, ma dove sta andando? È diventato un fatto politico che non dà alcuna
Mentre il processo di Londra va avanti Sembra non avere fine l’avventura giudiziaria di Julian Assange, fondatore del sito Wikileaks. Nel corso della seduta di ieri, il terzo giorno di seguito presso la Belmarsh Court, Geoffrey Robertson (avvocato del fondatore di Wikileaks) ha accusato il premier svedese Fredrik Reinfeldt. Secondo il legale, questi «ha creato un’atmosfera tossica e dipinto Julian Assange, come il nemico pubblico numero uno». A Londra si decide dell’estradizione in Svezia dell’ex hacker, accusato di stupro nei confronti di due donne. Per la difesa di Assange, le dichiarazioni di Reinfeldt e di altri politici svedesi hanno inquinato la situazione del 39enne australiano, compromettendo la possibilità che possa essere sottoposto a «un giusto processo», una volta estradato a Stoccolma. A produrre nuove prove a sostegno di questa tesi, Robertson ha chiesto un rinvio non appena è iniziata l’udienza. Ma il giudice Howard Riddle ha respinto l’istanza, affermando che «in casi come questi vi saranno sempre nuovi sviluppi». Riddle annuncerà dunque la sua decisione il 24 febbraio. Nella sua arringa, l’avvocato ha lanciato un duro affondo contro la magistratura svedese, affermando che se il suo cliente verrà estradato «sarà rinchiuso in prigione per mesi, visto che nel Paese non esiste la libertà su cauzione. E rischierà di essere processato in segreto».
sicurezza a chi lo usa. È un pallone senz’aria». Insomma, secondo lui Assange sta cercando solo di «farne un brand, un nome riconoscibile», a mo’ di one man show. D’altra parte quel personaggio «assolutamente intelligente, carismatico, simpatico, aperto» nella prima impressione, in tre anni rivelò il suo «terrore di perdere il controllo delle persone, che lo porta ad arrabbiarsi e minacciare. È arrivato a minacciare di distruggermi», rivela il tedesco. «Queste sue caratteristiche sono diventate sempre più evidenti. E insopportabili dall’inizio del 2010». Anche se la divergenza non sarebbe stata solo caratteriale. «Julian aveva e ha un’idea alla James Bond di WikiLeaks. Un’organizzazione sotterranea. Per l’insurrezione, diceva». Secondo Daniel Domscheit-Berg, «il contrario della trasparenza che pretende dal mondo. Io ho sempre sostenuto che le cose dovessero essere gestite diversamente. Fino al momento della rottura», dovuto appunto scandalo sessuale svedese. «Io gli consigliai di autosospendersi dall’organizzazione fino a quando tutto fosse risolto. In nome della trasparenza. Mi rispose di non sfidare la sua leadership». Un sorta di Bunga Bunga leninista in salsa Leaks, che fece insorgere il tedesco “anarchico vecchio stile, cresciuto sui testi di Kropotkin e Proudhon” A rispondergli è il nuovo portavoce che ha preso il suo posto: la giornalista islandese Kristinn Hrafnsson, una 48enne che si è messa a lavorare per Assange dopo aver perso il suo posto in tv a causa delle recenti ristrutturazioni provocate dalla crisi in Islanda. «Altro che mancanza di trasparenza!», ha detto. «È Daniel Domscheit-Berg che ha sabotato WikiLeaks prima di andarsene, rendendo i dati inaccessibili allo stesso Assange!». La guerra tra hacker continua.