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Un uomo tirava a sorte tutte le

decisioni. Non gli capitò maggior male che a quelli che riflettono Paul Valéry

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 17 FEBBRAIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I regimi di Medioriente e Africa settentrionale tremano sotto la spinta dei giovani e delle nuove tecnologie

La rivoluzione incompresa Le proteste dilagano in Libia, Iran e Bahrein. Due morti a Bengasi Nessuno l’aveva previsto e nessuno sa come finirà. Ma il contagio della ribellione si diffonde a macchia d’olio. Obama l’ha capito, l’Europa invece balbetta “rinunciando” al Mediterraneo di Antonio Picasso

Ma cosa sta succedendo davvero? Tre ipotesi a confronto

a rivolta è sbarcata in Libia con un giorno di anticipo. Era fissata ad oggi la “giornata della collera”contro il regime di Muhammar Gheddafi. Tuttavia, con l’accelerare delle tensioni nel resto del Medioriente, l’opposizione libica ha deciso di ridurre i tempi. Già nella notte fra martedì e mercoledì, Bengasi è stata teatro di scontri. Prima ancora, il colonnello aveva promesso una sua partecipazione alla marcia di protesta. Come a dire: il leader che contesta il suo governo. Poi le autorità tripoline si sono comportate diversamente. Sulla scia di quelle del Cairo. Il bollettino parziale della giornata libica si ferma a qualche decina di feriti.

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Karim Mezran

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Olivier Roy

Marc Almond

Per la prima volta sta nascendo la “piazza araba”

Ora cercano l’integrazione con l’Occidente

No, è solo la ciclica rivolta contro il potere

di Pierre Chiartano

di Nicola Accardo

di Mark Almond

Sorpresa è la parola che meglio caratterizza la reazione dell’Occidente nei confronti delle piazze arabe, sempre dileggiate come inefficaci, caotiche e che tendono alla violenza. a pagina 11

«Sono ottimista e contento, perché è da 20 anni che ripeto che l’islam verrà integrato nella democrazia. Questo è solo il primo passo». Parla Olivier Roy, editorialista per Le Monde. a pagina 12

Le rivoluzioni possono essere brevi e sanguinose, o lente e pacifiche. Ognuna è diversa dall’altra, anche se con caratteristiche ricorrenti, come quelle a cui abbiamo assistito in Egitto. a pagina 13

a pagina 10

«Resterò fino al 2013» e continua a dare la colpa dei ritardi tutta solo a Fini

Il caldo aprile di Berlusconi Annunciate le misure per la crescita nello stesso mese del processo di Francesco Pacifico

Il Patto di Rcs affida tutti i poteri al presidente. Che presto potrebbe cambiare

ROMA. La chiamata alle armi contro i magistrati e i disfattisti, Silvio Berlusconi, ha deciso che abbia il volto e la voce di Giulio Tremonti. Con il ministro che – cosa impensabile anche solo una settimana fa – scandisce davanti ai giornalisti che il governo, dopo «aver tenuto a posto i conti pubblici», ora può «ragionare sulla crescita, possiamo guardare al lato dello sviluppo economico con un maggiore respiro».Tradotto, si possono, pur con estrema moderazione, aprire i cordoni della borsa. Soprattutto in vista del vertice europeo di aprile (guarda caso in coincidenza con il processo sul caso Ruby) sull’economia. Il rilancio del governo parte da una gestione più collegiale dell’economia, con il Cavaliere che lega la tenuta della sua maggioranza a riequilibrio tra gli attori principali. segue a pagina 2

Il «Corriere» e l’intrigo di via Solferino

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

33 •

di Franco Insardà

ROMA. Il contestatore Diego Della Valle deve mettere un freno alle sue esternazioni. Gli ”arzilli vecchietti” Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi devono accettare un presidente con più poteri soprattutto sul Corriere della Sera. La guerra che dovrebbe riscrivere gli equilibri in Rcs è ancora lontana da una sua conclusione. Di conseguenza la riunione del Patto di ieri – tenutasi, a sottolineare la preda, proprio in WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

via Solferino – è finita con un armistizio, che però potrebbe aprire importanti novità nella governance interna. E i pretendenti alla poltrona del notaio Piergaetano Marchetti – in primis Luca Cordero di Montezemolo – guardano con molto interesse alla cosa. Il patron della Tod’s voleva lo scontro, e il ragioniere di Marino non si è certo tirato indietro. segue a pagina 4

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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prima pagina

il fatto Conferenza stampa con Tremonti che per il piano per l’Europa sarà «affiancato dagli altri ministri». E Bossi: «Senza numeri, cade da solo»

Un altro pesce d’aprile

Il premier è ottimista sul processo Ruby e continua a promettere misure sull’economia: «Tra due mesi, avremo un progetto di rilancio» il decreto di Francesco Pacifico

segue dalla prima Tremonti resta sempre il primus inter pares, ma rispetto al passato – già questa mattina ci sarà la prima seduta – acconsente alla nascita di un tavolo al quale parteciperanno anche i suoi colleghi e che dovrà fare le riforme da presentare entro aprile all’Ecofin. Più soldi per tutti e meno problemi per il premier, questo il messaggio. E poco importa se ha un sapore molto elettorale mostrare pieno affiatamento tra il presidente del Consiglio e l’uomo (Tremonti) che in Italia tiene ben stretti i cordoni della borsa.

In ogni caso Berlusconi ostenta tranquillità e respinge l’ipotesi del voto anticipato. Il futuro sarà all’insegna del fare – «Non avremo più un freno come la componente statalista rappresentata da Fini e da suoi» – e della stabilità con una maggioranza, «che contiamo in pochi giorni di portare alla Camera a 325 deputati». «No, non sono affatto preoccupato», dice alla stampa mentre la procura di Milano ha appena consegnato ai suoi legali gli atti relativi al Rubygate. Il Pd ha iniziato a spedire a 4 milioni di famiglie italiane i prestampati per raccogliere le firme che «lo spingeranno alle dimissioni». E Umberto Bossi fa sapere che senza numeri, il premier «cade da solo». È così convinto di rilanciare il suo governo che quando gli si nomina aprile, il pensiero va al piano nazionale di rilancio da presentare a Bruxelles, non certo al processo con rito immediato nel quale è imputato per prostituzione minorile e concussioni e che inizierà proprio in quel mese. In questa logica eccolo far spostare dal ministero del Tesoro a Palazzo Chigi la firma per prorogare di sei mesi la moratoria ai mutui delle famiglie e delle piccole e medie imprese. Prima fa sfilare in conferenza stampa le parti economiche (Emma Marcegaglia di Confindustria, Giuseppe Mussari dell’Abi e Giorgio Guerrini di Rete imprese Italia), per capire che l’unica camera di compensazione ancora in funzione in Italia è il governo. Quindi inizia lo show con Tremonti per spiegare che il Paese è stabile perché ha i conti in ordine e fatto una serie di riforme fondamentali per il rilancio.

Il maxiemendamento passa al Senato. Ora il provvedimento andrà alla Camera

Tra alluvioni e quote latte, sì al «milleproroghe» ROMA. Il maxiemendamento del governo al decreto Milleproroghe, quello che di fatto costituisce l’ossatura di spesa dello Stato, ha ottenuto la fiducia al Senato. Il provvedimento, che scade il 27 febbraio, passa ora all’esame della Camera per l’ok definitivo. Capitolo per capitolo, vediamo alcuni degli interventi principali previsti dal provvedimento. CASE FANTASMA. Slitta al 30 aprile 2011 il termine per l’emersione delle cosiddette case fantasma prevista dalla manovra dell’estate scorsa. CONSOB. Entro il prossimo 31 luglio la Consob procederà alla riorganizzazione dei propri servizi. Non è contemplato la spostamento della sede a Milano. QUOTE LATTE. Slitta al 30 giugno 2011 il termine per pagare le multe per lo sforamento delle quote latte in scadenza il 31 dicembre 2010 in base ai piani di rateizzazione. FONDI PER ALLUVIONI. Per far fronte allo stato di emergenza dovuto alle alluvioni sono stati stanziati 100 milioni di euro per ciascuno degli anni 2011 e 2012, così ripartiti anno per anno: 45 milioni alla Liguria, 30 al Veneto, 20 alla Campania e 5 milioni alla provincia di Messina. TASSA SUL CINEMA. Si verserà un euro di tassa sul prezzo del biglietto per l’accesso alle sale cinematografiche, escluse le proiezioni in comunità religiose o ecclesiali. La tassa sarà applicata dal primo luglio 2011 al 31 dicembre 2013 per finanziare le agevolazioni fiscali alla produzione cinematografica. EDITORIA E TV LOCALI. In arrivo 30 milioni di euro per il fondo di sostegno all’editoria e 15 milioni di euro per le radio e le tv locali. Il taglio alle risorse previsto nel testo originario viene solo in parte ridotto. Con i nuovi stanziamenti il fondo a sostegno dell’editoria arriva a 166 miliar-

di di euro, compresi gli 86 milioni di residui dell’anno scorso. POSTE. Poste Italiane spa potrà acquistare partecipazioni, anche di controllo, nel capitale delle banche ma solo al fine di entrare nel capitale della Banca del Sud. Previsto anche lo scorporo di Bancoposta dalla società. EMERGENZA RIFIUTI. Le Regioni in cui è stato dichiarato lo stato d’emergenza per i rifiuti possono deliberare aumenti dei tributi, delle addizionali e dell’imposta regionale sulla benzina. La Campania potrà aumentare l’addizionale dell’accisa sull’energia elettrica. ABRUZZO. Maggior tempo per versamenti e adempimenti fiscali. Sospese le rate in scadenza tra il primo gennaio e il 31 ottobre 2011. Istituita inoltre il 6 aprile, la Giornata della memoria per le vittime non solo del terremoto in Abruzzo ma più in generale delle calamità naturali che hanno colpito l’Italia. CINQUE PER MILLE. Stanziate le risorse necessarie per finanziarie il 5 per mille. Si tratta di 300 milioni che si aggiungono aggiungere ai 100 milioni già stanziati nella legge di stabilità. Una quota, fino al tetto di 100 milioni di euro, sarà destinata ai malati di Sla. PRECARI SCUOLA. Congelate fino al 2012 le graduatorie ad esaurimento degli insegnanti precari. Viene inoltre stabilito che i supplenti chiamati dalle scuole potranno provenire solo dalla provincia in cui ha sede l’istituto stesso. Una norma che aggira la bocciatura del «regolamento Gemini» per bloccare la regolarizzazione dei precari, da parte della Cassazione. FECONDAZIONE ASSISTITA. I centri per la procreazione medicalmente assistita (noti con la sigla Pma) dovranno inviare i dati richiesti al ministero della Salute il quale a propria volta li inoltrerà, nell’ambito delle rispettive competenze, all’Istituto Superiore di Sanità e al Centro nazionale trapianti.

La Campania, per l’emergenza rifiuti, potrà aumentare le tasse locali sull’energia

Soprattutto i due si vantano di «aver mantenuto la pace sociale, stanziato il fondo per le Pmi, fatto la riforma della cassa integrazione, tenuto stabile la disoccupazione, varato il Tremonti ter, detassato del 10 per cento gli straordinari, e fatto la migliore riforma delle pensioni in Europa». Pier Luigi Bersani chiede alla Lega di staccare la spina. «Altrimenti, se tiene in vita il miliardario, non lo fa per il federalismo». Dall’Udc Mauro Libé parla di «ennesimo spot all’insegna dello scaricabarile». Infatti, se l’Italia cresce dell’1,1 per cento, la colpa – avverte Berlusconi – è soprattutto «del sistema ereditato dal passato che ci ha portato il debito pubblico più elevato d’Europa» e che «ci fa spendere cinque punti di Pil in servizio al debito». Con questi problemi non bisogna lamentarsi se ci sono «minori fondi per gli investimenti nelle infrastrutture, frenate anche dagli ecologisti di sinistra». Al riguardo Berlusconi sveste i panni di premier per indossare quelli di semplice cittadino per esprimere tutta la sua rabbia perché «l’altro giorno da casa mia all’aeroporto ci ho messo un’ora e quaranta. Ma purtroppo non si possono cambiare le cose in un giorno». E non manca di esprimere la sua frustrazione perché da uomo del fare, qui a Roma la situazione è più statica, «è peggiore di quanto si pensi».

Tremonti, invece, prova a sfuggire alla retorica. Rivendica il merito di aver indirizzato la riforma del patto di stabilità verso un impianto più punitivo verso l’Italia. Perché facendo valere criteri come stabilità del nostro debito e bassi passivi bancari si eviterà anche una tragedia annunciata come la richiesta di una manovra correttiva a inizio anno. Quindi risponde a chi critica il +1,1 per cento di Pil del 2010 che, «certo bisogna crescere di più», ma a differenza nostra Paesi come la Francia e la Germania, non soltanto l’Irlanda e la Spagna, «negli ultimi dieci anni sono stato drogati dalla finanza e ora stanno scendendo. Avranno una drastica riduzione del loro tenore di vita e saranno i benvenuti nelle fabbriche da cui l’Italia non è mai uscita». Il ministro, quindi, mette in guardia dai miraggi come la crescita tedesca, che già nel 2011 non be-


il sondaggio Dopo lo scandalo, a picco la fiducia nel capo del governo

Ma ora Berlusconi perde i voti cattolici

Presentata una ricerca Swg: «Il caso Ruby ha fatto sposare le intenzioni degli indecisi ”praticanti”» di Errico Novi

ROMA. Angosciato? Macché. Sereno come non mai. Nella conferenza stampa convocata insieme con Giulio Tremonti per presentare la strategia economica dell’esecutivo, il presidente del Consiglio sembra tenere a un obiettivo ben preciso: manifestare equilibrio e tranquillità. Farlo proprio attraverso la scelta di parlare d’altro. Di tutto ma non del processo e della vicenda giudiziaria che incombe più pesante di un macigno sul governo e sulla legislatura. «Non sono per niente preoccupato». Del caso Ruby non parla «per amor di patria». Il resto fila liscio, anche l’allargamento della maggioranza «che presto arriverà a 325 deputati, in modo da fare tutte le principali riforme». Così saranno contenti anche i leghisti «che hanno dichiarato la loro vicinanza e la loro volontà di continuare: mai stati così coesi». Che Umberto Bossi sia in realtà assai meno entusiasta ci può anche stare: laconico come solo lui sa essere, il Senatùr risponde a stretto giro che «se il governo ha i numeri si va avanti, se non ci fossero cade da solo». Ci sta anche che la luminosa fiducia di Berlusconi non sconti i dati processuali, comprese le frasi di Ruby raccolte nei verbali d’interrogatorio, quelle in cui la giovane svela la versione di comodo suggeritale dal premier: «Dirai a tutti che sei la nipote di Mubarak, così potrai giustificare le risorse che ti metterò a disposizione».

Il ministro Tremonti ieri ha tenuto una conferenza stampa con il premier Berlusconi e Emma Marcegaglia per parlare delle prossime intenzioni del governo in economia neficerà più di quel combinato disposto tra grandi commesse e aiuti alle imprese. Analisi perfetta, come del resto la lista di provvedimenti fatta con il premier, peccato che entrambi si dimentichino di parlare della crescita della disoccupazione giovanile e dei precari – categorie sulle quali è stata scaricata la crisi – o omettano che la crescita di Francia e Germania è stata drogata anche dagli incentivi ai consumi negati da noi per rispettare i vincoli europei.

In questo clima, allora guai a fare domande sul Rubygate. Un inviato di “Anno Zero” chiede se il premier si dimetterà. Tremonti fa una smorfia di stizza, ma il Cavaliere – sfoggiando il suo miglior sorriso replica che «per amor di patria io di questo non parlo. Posso dire soltanto che non sono per niente preoccupato». Va peggio a un cronista della Reuters, che gli chiede se le sue vicende giudiziarie possano rallentare la corsa di Draghi alla Bce. Altro sorriso amaro, altra stoccata: ««Lei non è compos sui...».

Parafrasando il motto, è difficile dire se il governo riuscirà a reggere. O se mostrare i muscoli servirà per dimostrare al Paese che esiste ancora un esecutivo. Quel che è certo che riprendono il loro allure i ministri a dir poco sconvolti dal rinvio a giudizio del premier.

Il titolare delle Infrastrutture, Altero Matteoli, spiega: «Siamo coesi e determinati, con la guida di Berlusconi, ad andare avanti per completare il programma e per aiutare al massimo la crescita del Paese. Già oggi apre un tavolo importante tra ministri per individuare e decidere provvedimenti che si muovano nella direzione di semplificare le procedure per velocizzare gli investimenti, a partire dalle infrastrutture». Renato Brunetta sottolinea che «nessuno, in buona fede, può credere che vi sia qualche cosa di normale in quel che sta accadendo. In tutto questo non c’è nulla di normale, e neanche di innocente». Quindi avverte che «i nemici dell’Italia ancora una volta saranno sconfitti».

Tutto fa parte del gioco, tutto entra in questa rappresentazione alternativa. È però destinato a sfuggire al controllo del Cavaliere un altro dato, forse più allarmante: la fiducia dei cattolici comincia a venire meno. Lo dice un sondaggio della Swg, commissionato dai cristiano sociali di Mimmo Lucà. A pesare è lo sconcerto, il dissenso, anche l’indignazione che secondo l’istituto di ricerca triestino monta tra i praticanti. E se frana la popolarità, Berlusconi vede definitivamente compromessa l’uscita d’emergenza elettorale. L’allarme dunque arriva con la presentazione dello studio, nel pomeriggio, e assume le sembianze di quella fetta di elettori la cui identità cattolica è più nettamente marcata: all’interno del segmento, quasi il 60 per cento (tra il 59 e il 57 per l’esattezza) prova «disgusto, indignazione, disagio» per le notizie che riguardano il premier. Si tratta di oltre la metà dei praticanti.

campione osservato da Swg. Le oscillazioni d’altronde sono particolarmente significative perché si registrano in quell’ambita area dei «non collocati» Cioè di chi non si rassegna ad essere iscritto stabilmente in un campo, o che dichiara di sentirsi «di centro». È quell’elettorato contendibile che in genere risulta decisivo alle elezioni. Una quota di questi cattolici che frequentano, sempre stimata sul 60 per cento, considera negativo il comportamento di Berlusconi soprattutto per un motivo: perché compromette «l’immagine dell’Italia all’estero». Inoltre, per il 55 per cento degli intervistati, «la figura del presidente del Consiglio non consente a Berlusconi di considerarsi totalmente libero nel privato». È il riflesso di una tesi sostenuta anche dagli opinionisti più misurati: chi ricopre ruoli così importanti in un sistema democratico deve sottostare a parametri diversi.

Altro quesito, spiega Maurizio Pessato, riguarda l’adesione alle posizioni assunte dalla Chiesa: «Il 70 per cento dice di averle seguite, più o meno attentamente». Molti, sempre il 60 per cento, estendono d’altronde il giudizio negativo all’intera classe politica. C’è però un 25 per cento dei cattolici praticanti che è particolarmente severo verso Berlusconi. E allora come va presa l’affermazione del guardasigilli Angelino Alfano, secondo il quale non si registrerebbe invece alcuno smottamento o perdita di fiducia tra i cattolici? «Le notizie dei giornali degli ultimi 16 giorni non cambieranno 16 anni di rapporti tra Vaticano e centrodestra», secondo il ministro della Giustizia, che ne ha parlato di recente anche alla presentazione del libro di Massimo Franco C’era una volta un Vaticano. «Chi pensa che gli ultimi quindici giorni orientino il voto cattolico credo si sbagli, i valori di questo governo restano saldi, come testimoniato dal caso Englaro e da altre battaglie passate», era stata l’analisi dell’emergente che alcuni retroscena indicano tra i favoriti alla successione del premier. «Bagnasco e la Cei hanno dato giudizi severi ma non credo abbiano fatto sconti a nessuno. Dobbiamo stare attenti a confondere le dichiarazioni e i tempi della Chiesa con quelli della politica perché è un esercizio vano cercare di collegare la Chiesa a questioni correnti». E se però, come sostiene l’Swg, il giudizio negativo su Berlusconi si diffonde nella maggioranza dei praticanti, e questi si sentono in sintonia con la Chiesa, c’è da pensare che la tesi sostenuta dal governo non sia destinata a reggere a lungo.

Il presidente del Consiglio dice di non essere in ansia per il processo e rilancia il patto con Bossi. Ma il consenso vacilla nell’area più incerta

Il margine di errore? C’è ma non basta ad attenuare le preoccupazioni del Cavaliere: si aggira intorno al 3,7 per cento. Resta quindi il segnale molto negativo. Che nel dettaglio, riporta un cambio di giudizio da positivo a negativo per un 17 per cento del


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l’approfondimento

Il Patto di sindacato che governa il «Corriere della Sera» assegna grandi poteri al presidente. Che forse sta per cambiare...

Intrigo a via Solferino

La crisi del berlusconismo coincide con quella di un’èra della grande finanza: nei “salotti buoni” ormai si sta combattendo una battaglia durissima (non solo tra Della Valle e Geronzi). La ricompensa saranno Rcs e Generali di Franco Insardà segue dalla prima I partecipanti raccontano di un direttivo a dir poco infuocato. È stato necessario l’intervento di Giovanni Bazoli che ha sottolineato il danno che possono provocare le polemiche pubbliche facendo un successivo richiamo alla coesione di tutti i soci nel difendere la società e la sua continuità.

Potrebbe essere questa la chiave di lettura del comunicato diffuso alla fine della riunione nel quale i soci del patto di sindacato di Rcs, all’unanimità, si sono impegnati per la residua durata degli accordi a «concentrare esclusivamente negli organi sociali ed occorrendo, per quanto di competenza, nella direzione del patto tutte le decisioni, valutazioni, discussioni attorno a Rcs». È stato espresso anche l’impegno a «sostenere - si legge ancora nel comunicato con la piena fiducia più volte ribadita, l’attuale direttore del Corriere e della sua indipendenza, anche attraverso la figura di garanzia del presidente della so-

cietà, tramite istituzionale dei rapporti con la direzione». Una blindatura di Ferruccio De Bortoli, anche se all’interno del patto c’è chi gradirebbe Mario Calabresi, attuale direttore della Stampa di Torino. Nessuno spazio sembra quindi rimanere per un eventuale modifica all’attuale assetto del sindacato di blocco prima della scadenza del settembre 2013, come l’eventuale ingresso dell’azionista Giuseppe Rotelli che possiede l’11% circa di Rcs e come l’eventuale uscita dei Ligresti come qualcuno ha ipotizzato di recente. Ora sarà la redazione del Corriere della Sera per dare il consenso attraverso un referendum al progetto di multimedialità proposto dal direttore e venerdì è in programma l’assemblea dei giornalisti del quotidiano.

Ma nel gotha finanziario le acque sono ancora molto agitate da quello che può essere considerato un vero e proprio conflitto generazionale tra i settantenni Geronzi e Bazoli e gli “emergenti” Della Valle, Montezemolo

e Passera. Il timore di questi ultimi è di rimanere al palo ancora per anni, mentre gli “arzilli vecchietti” sono gli stessi che quando Enrico Cuccia aveva 75 anni si lamentavano che era ancora alla guida di Mediobanca. Ma l’accusa che viene mossa, soprattutto al ragioniere di Marino, è quella di «comandare con i soldi degli altri».

Ma il presidente di Generali, aspetta di capire bene le reali intenzioni dei suoi avversari e intervistato per la prima volta dal

Cesare Geronzi: «Potremmo investire di più nelle banche italiane»

Financial Times, ha disegnato per la compagnia triestina un ruolo di protagonista del sistema finanziario italiano che potrebbe «prendere in considerazione di investire di più nelle banche italiane», nel caso queste dovessero aumentare il capitale per essere in regola con i requisiti di Basilea3. Oltre alla possibilità di entrare anche in alcuni progetti infrastrutturali del governo. Sulla richiesta di Diego Della Valle di cedere alcune delle partecipazioni del gruppo, tra cui

la quota del 3,7% che la compagnia ha in Rcs MediaGroup Geronzi ha dichiarato che «non prenderà in considerazione proposte ”piovute dal cielo”». Ma il campo di battaglia del prossimo scontro tra Geronzi e Della Valle si sposterà nella riunione del consiglio di amministrazione di Generali del 27 febbraio prossimo.

La vicenda non va letta, però, soltanto sotto il profilo finanziario, ma anche per i suoi risvolti politici. Il “berlusconiano” Cesare Geronzi ha un filo diretto con Gianni Letta e ha firmato un patto di non belligeranza con Giulio Tremonti, con il quale ha un buon feeling Giovanni Bazoli, orfano di Romano Prodi. Sul versante opposto Della Valle e Montezemolo non hanno mai nascosto le loro critiche al berlusconismo, mentre Corrado Passera, defilato rispetto a Bazoli, dopo la caduta di Alessandro Profumo, punta a diventare il numero uno del sistema bancario italiano ed è


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Al di là della politica, c’è un altro scontro in atto per il controllo delle risorse

La guerra delle banche in crisi (aspettando la patrimoniale)

Dall’esposizione debitoria altissima ai manager strapagati: gli istituti sperano di salvarsi con la «tassa speciale». Ma qualcuno non è d’accordo di Gianfranco Polillo ome avverrà la transizione italiana? In un mondo sempre più inquieto, che si agita soprattutto sulle sponde del Mediterraneo con immediati riflessi sulla situazione sociale italiana (i nuovi potenti flussi d’immigrazione) non è facile fare previsioni. L’unica cosa certa è che è già iniziata la fase del nuovo posizionamento. Non alludiamo, ovviamente, alla politica. Siamo, in questo caso, nel campo della normale fisiologia. Sono le forze sociali più dinamiche a cercare nuovi sbocchi e precostituire quelle posizioni che consentiranno loro di svolgere un ruolo adeguato in difesa dei propri interessi. Problema non solo italiano. La grande crisi internazionale doveva essere anche un momento catartico. Doveva far piazza pulita del moral hazard. Indurre i grandi manager delle multinazionali del credito – i principali responsabili della crisi – a un gesto di pentimento e di contrizione. Rinunciare a qualcosa per mostrare una solidarietà effettiva nei confronto di coloro che, a causa loro, avevano perso il posto di lavoro ed ora vagano nell’incertezza. Decisione necessaria, oltre che giusta e buona. Ma così non è stato.

C

A Wall Street i bonus per i grandi del credito raggiungeranno la cifra record di 135 miliardi di dollari. Cifra, la cui entità rischia di sfuggire al senso comune. Ma per avere un’idea, basti pensare ch’essa corrisponde allo stipendio di un anno di lavoro di più di 1 milione di persone. Se fosse ripartita – discorso astratto, ma necessario – ridurrebbe del 10 per

cento – i disoccupati sono 15 milioni circa – coloro che da oltre sei mesi sono in cerca di lavoro. «Numeri inaccettabili», come ha detto Obama, parlando del tasso di disoccupazione. Per la gente normale: non certo per Lloyd Blankfein, Ceo di Goldman Sachs (13,2 milioni di dollari di bonus) o per Brian Moynihan, della Bank of America (10 milioni). Per non parlare, infine del Paperone dei Paperoni, a secolo James Dimon, di JP Morgan, che por-

Da noi hanno fatto clamore le ”liquidazioni” milionarie di Profumo e Carlo Puri Negri terà a casa 17,5 milioni di dollari. Che fine hanno fatto, allora, le raccomandazioni, le pressioni del Financial Stability Board? Per ora hanno prodotto un topolino: una spalmatura di quelle cifre in cinque anni e il pagamento parziale in azioni. Domani si vedrà.

L’America – si sa – è il paese degli eccessi. Questa è, al tempo stesso, la sua forza e la sua debolezza. Ma che succede in un’economia sociale di mercato, quale dovrebbe essere quella italiana? Più o meno la stessa cosa. Nei prossimi giorni, quando le società quotate in borsa pubblicheranno i loro bilanci, potremo essere più precisi. Alcune anticipazioni fanno tuttavia intravedere il trionfo dello status quo. Nessun taglio. Nessuna riduzione: a differenza di quanto è avvenuto per i dirigenti pubblici i cui emolumenti sono stati ridotti, a seconda dei casi, del 5 o del 10 per cento. I riflettori, per il momento, sono puntati soprattutto sulle liquidazioni milionarie a partire da Alessandro Profumo, che ha chiuso la sua carriera in Unicredit, con un bonus di 40 milioni, di cui 2 in beneficenza. Più o meno la stessa cifra accumulata da Matteo Arpe, all’indomani della sua fuoriuscita da Capitalia. È andata meno bene per Carlo Puri Negri, vice presidente di Pirelli Re. Ha ottenuto solo 14 milioni, nonostante le perdite registrate dalla società, cui sommare,

tuttavia la sua normale retribuzione. Per un totale di 15,27 milioni. E poi dicono che l’immobiliare è in crisi! Aspettiamo, quindi, con ansia la pubblicazione dei dati di bilancio, anche se non ci facciamo grandi illusioni. Colà sono indicate solo alcune alte retribuzioni – quelle apicali – per i dirigenti «con funzioni strategiche» invece si precisa solo il totale complessivo – comunque cifre ad otto zeri – da ripartire poi tra un pugno di uomini. Se questi sono gli interessi da difendere, si può comprendere come, in questa fase di transizione, si cerchi di presidiare le proprie posizioni. Cosa non facile. La crisi non è stata superata. Le risorse pubbliche sono drasticamente diminuite. C’è maggiore attenzione sociale ai temi della disuguaglianza, sempre più spesso legati a quelli della semplice sopravvivenza. Ed ecco allora il braccio di ferro. Da un lato uomini come Giuseppe Vegas, neo presidente della Consob, e Mario Draghi che spingono per una maggiore trasparenza. Alle società quotate in borsa e alle banche non si possono imporre più di tanto politiche retributive. Si può, però, chiedere loro di fornire le informazioni sensibili necessarie su argomenti così delicati. Dall’altro chi, nelle banche stesse, si preoccupa di disegnare scenari in cui sia possibile difendere quel che finora è stato.

L’occasione più recente è stata offerta dalla proposta di istituire un’imposta patrimoniale sui ceti più abbienti. Come si ricorderà essa fu avanzata da Giuliano Amato e Pellegrino Capaldo, avallata da Walter Veltroni, ma respinta da quasi tutto il gruppo dirigente del Pd. La motivazione data era l’abbattimento immediato del debito pubblico italiano. Problema reale per giustificare una proposta irrealistica. Ma perché l’avallo almeno di una parte del sistema bancario? La risposta è relativamente semplice. Molti istituti bancari sono in sofferenza, per crediti inesigibili o incagliati. Questo ancora non appare pienamente nei bilanci, grazie ad operazioni di maquillage che, seppur perfettamente legittimi, non garantiscano quella trasparenza – lo abbiamo appena detto - necessaria. C’è poi la spada di Damocle di Basilea tre, come lo stesso Amato, messo alle strette dalle critiche al suo intervento, ha candidamente ammesso. Con i nuovi requisiti patrimoniali, molte aziende dovranno essere ricapitalizzate. Dove trovare i soldi? Se si creano dei margini nel bilancio dello Stato, grazie alla “botta secca” della patrimoniale, in un qualche possibile intervento si può sperare. Gli altri Paesi – Stati Uniti, Irlanda, Inghilterra e così via – l’hanno fatto. Ma le grandi retribuzioni dei manager non sono diminuite.

quindi molto attento a giocarsi la partita delle alleanze. Il tentativo di Della Valle di “fare le scarpe” a Geronzi continua e dalla sua avrebbe anche Giuseppe Rotelli, l’industriale ospedaliero che, pur avendo un sostanzioso pacchetto azionario di Rcs, è fuori dal patto ed è da poco entrato nel consiglio di amministrazione. In questa partita potrebbe essere determinante il banchiere bresciano Giovanni Bazoli, al momento alleato di Geronzi, che da pragmatico guarderebbe di buon occhio le ultime mosse del patron di Tod’s. Dal comunicato ieri emergerebbe uno stop abbastanza evidente all’ipotesi che si era ventilata di un tentativo di scioglimento del patto prima della data fissata (2014). Opzione questa che consentirebbe a Della Valle e ai suoi alleati di pesare di più nell’assetto societario oggi di fatto ingessato. Gli aumenti di capitale in Rcs, un’azienda che non distribuisce dividendi, non è vista di buon occhio dai soci e dalle banche. L’unico gruppo forte che, in questo momento, non è molto interessato a nessuna delle vicende di via Solferino è la Fiat. Dalle dichiarazioni di Sergio Marchionne risulta evidente quali sono le intenzioni del Lingotto rispetto alle vicende italiane, compreso il Corriere della Sera, anche perché il gruppo non va bene. .

La Rcs Mediagroup, società editrice, tra l’altro, del Corriere della Sera, ha una struttura piuttosto parcellizzata, ma con il 63,54% delle azioni in mano al patto di sindacato. Il primo azionista singolo è Giuseppe Rotelli, cui fa capo l’11% circa del capitale. Fuori dal patto sono anche la Edizione srl della famiglia Benetton, con il 5,1% del capitale, e il 5,14% in mano indirettamente alla Si.To Financie’re, una società anonima facente capo al gruppo Lamaro, della famiglia Toti. Nel patto di sindacato, invece, sono presenti Mediobanca, che detiene il 14,209% del capitale (il 13,699% è conferito al patto); Fiat con il 10,497% (10,291% nel patto); l’Italmobiliare dei Pesenti con il 7,747% (7,419% nel patto); la Dorint Holding di Diego Della Valle al 5,499% (5,403% nel patto), Fonsai con il 5,461% (5,257% nel patto); Pirelli con il 5,239%; Intesa SanPaolo con il 5,065% (4,927% nel patto), Assicurazioni Generali con il 3,957% (3,713% nel patto); la Sinpar dei Lucchini con il 2,06% (2,038% nel patto). Il patto comprende poi la Merloni Invest di Francesco Merloni con il 2,09% (2,00% nel patto); la Mittel presieduta da Giovanni Bazoli con l’1,282%, la Eridano Finanziaria (Er.Fin) di Roberto Bertazzoni, l’industriale delle cucine Smeg, con l’1,228% ed, infine, la Edison, che detiene l’1,045% del capitale. Intanto nella giornata di ieri il titolo Rcs MediaGroup ha marciato speditamente in Piazza Affari, arrivando quasi a toccare il 4%, per chiudere al 2,92.


diario

pagina 6 • 17 febbraio 2011

Frattini: «Piano per il Mediterraneo»

Medvedev a Roma per vendere gas

C’è la crisi, viaggi in calo (-12,4%)

ROMA. Un nuovo patto per il

ROMA. «La firma di tre docu-

MILANO. La crisi lascia a casa

Mediterraneo che sia «embrione di un vero e proprio Piano Marshall» europeo per i Paesi della sponda Sud: è questa l’ambiziosa (forse troppo?) proposta che domenica prossimi il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini farà ai suoi colleghi europei alla riunione programmata dei capi delle diplomazie dei 27 paesi dell’Unione. «Sto preparando un documento strategico per domenica che prefigura un nuovo Patto per il Mediterraneo su stabilità, sicurezza e prosperita», ha spiegato il titolare della Farnesina parlando al Senato degli ultimi sbarchi di clandestini a Lampedusa. «L’Unione per il Mediterraneo è fallita, ma l’Europa non si può sottrarre», ha concluso il ministro.

menti nella sfera della sicurezza, dell’energia e della finanza, rappresenta un passo importante nella direttrice di un rafforzamento della cooperazione fra la Russia e l’Italia». È questa la dichiarazione ufficiale del presidente russo Dmitri Medvedev, da ieri a Roma, dove ha incontrato sia il premier sia il presidente della Repubblica Napolitano. Ma è chiaro che al centro dei colloqui con Berlusconi si è parlato soprattutto di energia. «Vogliamo sviluppare i legami nel commercio dell’energia nucleare e del gas», ha ribadito il presidente russo nella conferenza stampa finale. Quanto alla sicurezza, è stato firmato un accordo per il transito militare da e per l’Afghanistan».

gli italiani. L’andamento del turismo è l’ennesimo segnale di un Paese in crisi profonda, la cui fine non sembra dietro l’angolo. La fotografia dei viaggiatori italiani nel 2010, diffusa dall’Istat vigilia dell’inaugurazione della Bit (Borsa internazionale del Turismo, Milano da oggi a domenica) è un’immagine fortemente sottoesposta, molti scuri e pochi chiari. Nel 2010 i viaggi con pernottamento effettuati dai residenti in italia sono stati 99 milioni e 997 mila, per un totale di 626 milioni e 947 mila notti. Rispetto al 2009 c’è forte diminuzione del numero di viaggi (-12,4%) e del numero di pernottamenti (-7,8%). Diminuiscono anche le vacanze brevi (-18,7%), ultimo balurado anticrisi.

Dopo le polemiche per la nomina di Bocchino, rottura in due tempi: prima il parlamentare vota il milleproroghe con il Pdl, poi lascia

Fli, scoppia il caso Menardi

Il senatore si dimette dal gruppo finiano, che ora rischia di scomparire di Riccardo Paradisi

«Il gruppo Fli al Senato è formalmente in vita, ma non so ancora per quanto»: con queste parole il senatore di Futuro e Libertà Giuseppe Menardi ha chiosato la sua decisione di votare (con la maggioranza) il decreto «milleproroghe». E con salomonica ambiguità ha spiegato che la sua «è stata una decisione personale, ma tutta politica»

on rientra e anzi si complica la crisi interna a Futuro e libertà. E l’epicentro del terremoto che sta divaricando la faglia tra cosiddeti falchi e colombe del partito è di nuovo il Senato. L’occasione – a meno di dodici ore delle dimissioni poi rientrate del capogruppo Viespoli presentate contro l’organigramma del partito deciso da Fini – è il voto sul Milleproroghe dove i senatori Fli si dividono e la maggior parte non segue le indicazioni di voto del capogruppo Pasquale Viespoli, che aveva annunciato un no al provvedimento. Uno di questi, Menardi, nel tardo pomeriggio comunicherà le dimissioni dalla delegazione finiana del Senato.

N

A votare contro la fiducia sull’approvazione del Milleproroghe, oltre allo stesso Viespoli – che ha argomentato il no criticando la«ricerca continua della conta parlamentare, e chiedendo una grande proposta politicoistituzionale per indicare al Paese una prospettiva – sono stati solo Mario Baldassarri, Maurizio Saia e Giuseppe Valditara. Non hanno partecipato alle votazioni, invece, Maria Ida Germontani, Egidio Digilio, Candido De Angelis, Barbara Contini e Giuseppe Menardi, l’unico a dichiarare il suo no in aula. Ci sono i distinguo: Barbara Contini sembra sia stata impedita dal voto da una caduta, Candido De Angelis aveva la febbre. Egidio Digilio affida all’Adnkronos la sua giustificazione: «Non ho votato perché non ho partecipato alla votazione. Non ho partecipato alla votazione perché non ero in aula... Ci fossi stato, avrei votato contro. Non c’è nessuna strate-

gia, sia chiaro, nessuna titubanza. Sono e rimango nel Fli». Maria Ida Germontani spiega invece il suo voto favorevole al Milleproroghe col fatto che non poteva, proprio lei, esprimersi contro un provvedimento che, nel merito, accoglie una sua vecchia battaglia sulla tassazione dei fondi.

Ognuno insomma ha la sua motivazione, a parlare chiaramente invece e a dire come stanno le cose, al di là d’ogni prudenza e diplomazia, è Giuseppe Menardi: «Fli ha dieci senatori, il numero minimo per la formazione del gruppo. Il suo scioglimento è questione di giorni, forse di ore. Di certo non saranno tempi biblici». Con la

sua fuoriuscita il timer è partito. E questa situazione spiega anche perché Viespoli abbia passato la mattina nel suo ufficio a parlare con i senatori, cercando di contenere gli istinti di rivolta che serpeggiano nel gruppo, sia per l’organigramma uscito dal congresso di Milano, ritenuto punitivo per i moderati, sia per la linea strategica del partito orientata sull’asse Bocchino, Briguglio, Granata che avrebbe già messo nel conto l’ipotesi di grande alleanza con la sinistra. Se Fini, come spiegava ieri Benedetto della Vedova, è determinato a non cambiare né assetti di potere interni da lui decisi né linea politica dovrebbe mettere in conto anche il ri-

schio, ancora remoto vista la situazione politica difficile per Berlusconi, d’un implosione del gruppo a Palazzo Madama. Esattamente come prefigura il senatore Menardi e come, tra le righe, fa capire anche Maria Ida Germontani: «Certamente qualcuno dei miei colleghi ha voluto esplicitamente differenziarsi dal gruppo, nonostante tutta la fatica che abbiamo fatto ieri per tenere insieme tutte le posizioni... Ma sul perché dovreste chiedere a loro».

E loro, alcuni di loro, danno questa spiegazione: «Dopo le dimissioni rientrate di Viespoli si è voluto dare un nuovo messaggio a Fini, perché linea e organi-

gramma stabilità in accordo al congresso non sono quelli che poi sono stati decisi ad insaputa di gran parte del gruppo dirigente del partito». Un disagio che si è moltiplicato di fronte alla disponibilità comunicata da Nichi Vendola di siglare un patto d’intesa elettorale con Fini, il tempo necessario per fare due o tre leggi indispensabili per andare a votare: «Di fronte all’epilogo del berlusconismo non ci si può sottrarre alla responsabilità di traghettare il Paese verso le elezioni con una coalizione allargata guidata da Rosy Bindi». È rapido il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Altero Matteoli, ex colonnello finiano a insinuare un cuneo nella feri-


17 febbraio 2011 • pagina 7

Il bambino deve avere un padre e una madre

Tre vigili di Milano indagati: facevano sparire le multe MILANO. Farsi «togliere» le multe è un classico dell’Italia furba e maneggiona di sempre. Sicché non sorprende più di tanto l’indagine scattata da Milano su un giro di presunte truffe grazie alle quali le multe si perdevo tra i computer del sistema informatizzato della Polizia municipale. Ieri mattina, tre vigili urbani di Milano, due agenti e un commissario aggiunto, si sono visti recapitare avvisi di garanzia per reati che variano dalla corruzione all’abuso d’ufficio, dalla truffa al falso ideologico. A seguito di una rete di perquisizioni nelle case e negli uffici dei funzionari, sono stati sequestrati computer, qualche cd e qualche agenda, chiavette usb e, almeno in un caso, anche soldi in contanti per quattromila euro. Scatoloni di materiale che nelle prossime ore dovrà essere analizzato con attenzione e valutato alla luce

g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i

degli elementi che l’accusa, coordinata dal sostituto procuratore Grazia Colacicco, ha raccolto in mesi di indagini seguite da vicino anche da Tullio Mastrangelo, il comandante della polizia municipale di Milano. Nei guai sono finiti l’agente Damiano Borchielli, il funzionario comunale Giulio Bergamasco e il commissario Danilo Lorini. Tutti, in pratica, facevano sparire dal sistema centrale le tracce delle multe, naturalmente dietro lauti compensi.

I casi eccezionali, già oggi previsti dalla legge, che consentono l’adozione di minori da parte di adulti single devono restare, appunto, delle eccezioni, e non diventare un improprio grimaldello per reclamare un allargamento delle maglie della legislazione. In Italia, c’è una grande abbondanza di coppie che hanno intrapreso la via dell’adozione. Molte di più di quante siano le concrete possibilità di completare le procedure di adozione di un bambino, in Italia o all’estero. Con l’adozione si vuole restituire una genitorialità piena, con un papà e una mamma, a bambini già duramente provati dalla vita e che hanno il diritto di crescere ed essere educati in una famiglia. Il diritto del bambino deve essere messo al primo posto rispetto al desiderio degli aspiranti genitori. I bisogni di un bambino senza famiglia esigono le migliori condizioni possibili. Alla società spetta di garantire queste condizioni e certamente la presenza stabile di un padre e di una madre è fattore fondamentale per il futuro benessere di quel bambino. In situazioni particolari – in quei casi speciali che già la nostra legislazione ammette – si può riconoscere l’adozione di single, ma queste situazioni sono e devono rimanere “speciali”. Il diritto generale deve puntare a dare al minore un padre e una madre che si curino di lui.

Francesco Belletti

ADOZIONI SINGLE ta: «Bisogna dar atto a Vendola di parlar chiaro, sconcerta invece il silenzio di Fli. È sconcertante come coloro che provengono da Alleanza nazionale possano condividere un’alleanza da presentare agli elettori con la sinistra estrema, all’indomani di un congresso che ha riconfermato la collocazione di Fli nel centrodestra. Il silenzio di Fli sarebbe davvero singolare ed incredibile».

Ecco, se ai senatori di Futuro e libertà – quelli che più s’erano spellati le mani per applaudire il discorso di Adolfo Urso che prometteva ”Mai con la sinistra” – era indigesta l’ipotesi d’una grande alleanza con il Pd, ordita dalla strategia di Massimo D’Alema figurarsi cosa possa significare per loro l’eventuale abbraccio tattico con Vendola. Ma anche questa svolta, apparentemente clamorosa non dovrebbe destare più di tanta meraviglia. Carmelo Briguglio spiegava l’altro giorno al programma di Radio2 Un Giorno da Pecora quale fosse la classifica dell’intransigenza antiberlusconiana dentro Fli: «Fini è un superfalco, lui vola ad un’altra altezza rispetto a noi» dice addirittura Briguglio. «Secondo me Fini è un superfalco segreto». Vuole dire che sotto sotto è un falco mentre fuori è colomba? «Fuori ha l’abito istituzionale, è un superfalco mascherato». Ma Fini è più falco anche di Italo Bocchino? «È più intransigente quando si trova davanti a questione istituzionali». Chi è più falco tra lei e Bocchino? «Io sono più falco di Bocchino». E quale potrebbe essere la classifica dei più falchi di Fli? «Primo Granata, secondo Briguglio, terzo Bocchino». E quella delle colombe? «Primo Viespoli, secondo Ronchi, terzo Urso». Che sono esattamente il gruppo vincente e quello sconfitto usciti dal congresso di Milano. Intanto prosegue anche il lavoro dei pontieri del Pdl, attentissimi a cosa sta accadendo tra le file finiane di Palazzo Madama. Berlusconi, da parte sua garantisce che in pochi giorni la maggioranza ala Camera arriverà a 325 deputati si pensa di pescare addirittura nell’area veltroniana

ma anche al Senato si spera di allargare l’area di governo. Le parole del capogruppo Pdl a palazzo Madama Maurizio Gasparri vanno in questa direzione: «Giudico molto positivo l’esito del voto di fiducia oggi al Senato con uno scarto di ventidue voti a favore della maggioranza e quattro astenuti. Peraltro un numero significativo di senatori che aveva votato recentemente contro il governo non ha partecipato alle votazioni. E non per motivi casuali, poiché quei senatori erano presenti in Aula e non hanno intenzionalmente voluto esprimere un giudizio ostile al governo. I fatti sono questi e dimostrano che il governo in tutte le occasioni di verifica parlamentare accresce la propria area di consenso ed opera su temi concreti».

Per Briguglio si tratta del ”fisiologico disagio” d’una minoranza interna

Dall’alto, Pasquale Viespoli, Carmelo Briguglio, Giuseppe Menardi e Urso. Nella pagina a fronte, Fini e Bocchino

Cerca di sdrammatizzare invece Carmelo Briguglio che parla di fisiologica insoddisfazione d’una minoranza interna berlusconiana «Il Congresso di Futuro e Libertà ha votato all’unanimità una linea politica espressa dal dibattito ed esplicitata dall’intervento di Fini. Solo dopo il Congresso, una minoranza pone dubbi di linea politica mista a qualche umana insoddisfazione sull’organigramma». Dal Senato però si risponde a Briguglio che dal congresso era appunto uscita una linea e un’organigramma diverso da quello siglato ufficialmente. «Cose che nei partiti politici sono all’ordine del giorno – replica Briguglio – Io spero che ci sia una ricomposizione e lavoriamo tutti in questa direzione unitaria, ma se non ci fosse non ci sarebbe nessun dramma: Fli sarebbe governato da una maggioranza che si riconosce in Fini, con una piccola minoranza interna filo-berlusconiana, il che è fisiologico per una formazione politica animata da principi di democrazia interna, anche se potrebbe capitare che qualcuno ammaliato dallo shopping parlamentare salti sul carro dello sconfitto scambiandolo per quello del vincitore. In politica può accadere anche questo....». Come dire: se non vi sta bene quella è la porta. Solo che in questo caso, come ricordava Menardi, rischia di saltare il gruppo al Senato.

È chiaro che un bambino ha bisogno di due genitori, ma ricordiamoci che l’adozione è un atto di carità e non un concepimento. Quindi nella nostra attuale società, dove i singoli genitori devono badare da soli o quasi al proprio figlio, non si può condannare che il bisogno di paternità e maternità, svilito e ridotto dalle leggi dei tribunali, venga colmato da un atto di amore come l’adozione da parte dei single.

Bruno Russo

L’IMMAGINE

Parata sacra Siamo a Tondo, nelle Filippine, e l’uomo che vedete partecipa al festival di Lakbayaw, una sfilata danzante per le strade in onore del Santo Niño (una statua del Bambino Gesù venerata nel paese)

PREVENZIONE APPROSSIMATIVA Ci vantiamo ingiustamente, secondo me, di essere il primo Paese in Europa ad avere introdotto in tutte le regioni la campagna di prevenzione e vaccinazione per le ragazze contro l’Hpv, il virus che è la causa del tumore al collo dell’utero, una delle principali malattie sessualmente trasmissibili. In effetti la vaccinazione è stata introdotta ma sappiamo che la prevenzione per essere efficace deve essere omogenea e caratterizzata da regole rigide. Invece le statistiche ci dicono che la maggioranza delle famiglie è male informata sull’importanza di questo vaccino e quindi reticente a vaccinare ragazze talvolta giovanissime. Le fasce d’età coinvolte dal protocollo sono quattro: 12, 15, 18 e 25 anni. La maggior parte delle regioni vaccina gratuitamente solo le dodicenni, e solo la Basilicata copre tutte le fasce d’età . Le dosi di vaccino da somministare sono tre ma sappiamo che solo il 50% delle ragazze si è completamente ed adeguatamente vaccinata. Manca l’omogeneità: è presto quindi per vantarci!

Alessandro Bovicelli

TEST ANTIDROGA NELLE SCUOLE L’emergenza droga non può più essere affrontata con il buonismo delle “spallucce”o con il rinvio “ai fatti privati”che diventano pubblici quando il dolore prende il sopravvento. Le istituzioni debbono scendere in campo con messaggi chiari e decisi. L’introduzione dei test antidroga nelle scuole serve a diffondere l’idea che drogarsi fa male e non si deve: senza se e senza ma!

Sandra Monacelli

MENTALITÀ SESSISTA E STEREOTIPATA La mercificazione delle donne in tutti gli ambiti, quello privato, lavorativo, istituzionale, mediatico e nel dibattito politico ideologico che scopre e copre le donne a suo piacimento… non è una semplice prerogativa del “Berlusconismo”, ma è un fare diffuso, fa parte di una mentalità sessista e stereotipata che, ahimè, non ha fazioni.

Sara Mago


il paginone

pagina 8 • 17 febbraio 2011

a crisi politica che viviamo da anni e in modo particolare in questi ultimi tempi è, anzitutto e nella sua quintessenza, una crisi culturale. È una questione fondamentale, importantissima e urgentissima, che purtroppo non è ancora stata intesa in maniera adeguata. Pertanto, senza una presa di posizione forte e nuova nei confronti del problema “cultura”, non solo si bloccheranno ulteriormente le attività che rispondono a tali esigenze – le arti spettacolari in primo luogo, ma con esse tutte le altre discipline artistiche – ma la stessa politica italiana (ma anche europea) rimarrà prigioniera di questa sua mancanza di humus, di autentiche radici, di fondamentale riserva di educazione civica che da sempre è alla base della nostra democrazia. Ne sia prova lampante il fatto che nella Costituzione Europea non siano state

L

Il Belpaese non pensa più all’essere, ma soltanto all’apparire; e questo modo di andar che perché sono riusciti a “rappresentarsi a teatro”. E come diceva poeticamente Pasolini «l’uomo si è accorto della realtà solo quando è riuscito a rappresentarla».

Quindi nell’idea di tutte le arti (perché quel luogo teatrale contiene, ancora oggi, il principio di tutte le arti, anche di quelle contemporanee che si possono creare nel cinema, nella televisione, o attraverso altri mezzi che ancora non abbiamo inventato) è racchiuso il principio che sta alla base della nostra educazione civica, come del vivere civile, quindi della politica. Ma tutto questo sembra sfuggire sempre di più all’Europa che ha puntato tutto solo ed esclusivamente sulla moneta unica, divenendo in tal modo Eurolandia, terra dell’Euro, e meno che mai Unione Europea. Se si volesse pensare davvero a questa bisognerebbe non solo – come diceva il grande Giorgio Strehler – «cominciare a impararcela qualche lingua straniera», ma soprattutto renderci conto che l’Europa del XXI secolo si presenta agli occhi del resto del mondo in una situazione completamente diversa da quella del XX: in questi ultimi 100 anni l’Europa ha perduto la maggior parte delle prerogative di ciò che veniva chiamato eurocentrismo: il controllo politico-militare del mondo, che per tanti secoli aveva comunque detenuto, oggi stabilmente nelle mani dell’Occidente americano; il controllo politico-economico, che oggi è sempre più nelle mani dell’Occidente americano ma anche dell’Oriente cinese in nuova espansione; il controllo scientifico, anche per l’emigrazione continua di tutti i nostri più grandi ingegni nell’ambito di quasi tutti i settori scientifici.

Il legame fra res publica e letteratura inizia ad Atene, quando viene rappresentata per la prima volta l’Orestea: la democrazia riesce a imporsi perché riesce a rappresentarsi riconosciute le radici cristiane del Vecchio Continente: una miopia (a dir poco) che rappresenta un grossolano errore culturale e politico, non certo religioso: come si fa a non riconoscere il riferimento dialettico alla cristianità, positivo o negativo che possa risultare, della gran parte di ciò che ci hanno trasmesso la letteratura, le arti plastiche, visive, musicali e teatrali europee? Significa ignorare Dante come Shakespeare, Michelangelo e Giuseppe Verdi, Dostoevskij come Manzoni, Calderon e Victor Hugo, Cervantes; significa fingere di non aver mai visto il Duomo di Milano come le cattedrali di Chartres, di Burgos di Winchester… In breve tutte il grande retaggio della cultura e dell’arte di 20 secoli in Europa, quasi tutti i più grandi spiriti del passato europeo, a volte anche tormentati dal cristianesimo: come Leopardi e Nietzsche, Ibsen, Strindberg Marx e Freud, ma pur sempre consapevoli di questo fondamentale riferimento.

E tuttavia il rapporto fra politica e cultura non risale certo al cristianesimo; tutto è cominciato nell’Atene del V secolo a. C., quando per la prima volta venne rappresentata l’Orestea di Eschilo, l’unica grande trilogia che rimane del teatro antico: la politica “nacque” in quell’ambito, come ha scritto anche il politologo Ekkehart Krippendorff, i valori della democrazia si sono imposti an-

Ciò che rimane, non solo come retaggio schiacciante, ma soprattutto come possibilità di investimento quindi di autentica difesa strategica, sono le possibilità artistiche, filosofiche e culturali che ancora oggi l’Europa si pregia di poter rappresentare. E che tuttavia si stanno sempre più estinguendo a causa di una fondamentale e storica disattenzione e soprattutto disconoscimento politico nei loro confronti. La politica guarda soltanto all’economia, e addirittura si illude di potersi infischiare dei beni culturali (e qui l’Italia, si sa, giocherebbe davvero la parte del leone) sostenendo che «non si possa vivere di pane e cultura», come specificato qualche tempo fa

Si vis politica, para cultura di Franco Ricordi

La crisi istituzionale di questi ultimi anni deriva senza alcun dubbio da una crisi culturale senza precedenti per l’Italia. La classe dirigente deve riscoprire subito il patrimonio comune, o rischia di essere travolta da feste, gossip e bunga-bunga


il paginone

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re avanti gli si ritorce contro senza appello alcuno. L’unica speranza è rialzare la testa tanti casi non ha saputo fare di meglio che seguire le derive spettacolari (tanto odiate) e care a quello che si definisce, in maniera alquanto superficiale, berlusconismo.Tutta colpa sua, naturalmente, Berlusconi ha ucciso la cultura! Non ci si vuole capacitare invece che il problema viene da molto più lontano, ed è squisitamente politico: e che senza un ritrovato riferimento culturale non solo non si potrà perseguire una necessaria inversione di tendenza in quei settori, ma la politica stessa non troverà più il suo fondamento che bene o male, nel dopoguerra, era stato indicato dalle necessità di una ricostruzione – anche con l’apporto della Chiesa, che aveva come controparte il Pci – e che veniva prima di ogni altra esigenza.

Ma superata la situazione della prima necessità, l’Italia non è stata più in grado di rendersi conto come le sue basi culturali siano in realtà le sue sole prerogative e possibilità politiche. E che oggi possono essere intraviste soltanto attraverso una ricognizione più generale del problema cultura: alla notizia del crollo della “Casa dei gladiatori” a Pompei, qualche mese fa, qualcuno già parlò di una metafora dell’Italia che sta crollando. E forse non è del tutto catastrofica l’intuizione: il ministro Bondi declinò immediatamente le sue responsabilità, tuttadal ministro Tremonti. Di fatto, secondo alcuni, il nostro Ministero dei Beni e della Attività culturali è ormai gestito direttamente da quello dell’economia. Siamo pertanto convinti che l’Europa non potrà sopravvivere a sé stessa, senza una adeguata politica-culturale; che peraltro dovrà essere intesa come politica tout court, non certo come impegno per una “aggiunta”, ma come fondamentale radice e realtà di fatto.

Tuttavia proprio qui nasce la tragedia: ed è la tragedia della nostra partitocrazia, non solo in Italia, ma certo in particolare nel nostro paese dove è nato e vissuto anzitutto il più grande partito comunista dell’Occidente. Dal dopoguerra ad oggi la cultura, lo sanno anche i bambini, è stata un affaire della sinistra, laddove tante energie e tanti soldi sono stati spesi a suo favore, ma per un intenzionale ritorno di immagine e investimento di quella sola parte politica. Tuttavia caduto il muro di Berlino, anche la sinistra ha cessato di investire sulla cultura, ed è rimasto soltanto il guscio vuoto di quel sistema di potere, che in

la cultura disconosciuta comincia a vendicarsi. E ci sta crollando addosso, forse sospinta da una implacabile nemesi storica. Ma non soltanto per quello che riguarda il suo precipuo artistico e di attività di coloro che ad essa hanno dedicato la propria vita professionale. No. Ci sta crollando addosso la consapevolezza del nostro paese, proprio la stessa “cultura dell’Italia”, quel “bel Paese ove il sì suona” che davvero ci appare sempre più, seppure nella sua unità da un secolo e mezzo, nella maniera in cui scriveva Dante: «Ahi serva Italia di dolore ostello/ nave senza nocchiere in gran tempesta/ non donna di provincie ma bordello»!

Il caos mediatico e di gossip che ha accompagnato e accompagna il momento politico è un segnale ben preciso dell’intuizione geniale del nostro Sommo Poeta. L’Italia rischia di apparire, anche nella sua immagine all’estero, come una sorta di bordellone mediatico, degno erede della denuncia che potremmo considerare quasi ontologica dell’Alighieri. E quello che sta per accadere in conseguenza al caso Ruby è purtroppo la sua implacabile sanzione: chi di escort ferisce di escort perisce! Ma questo avviene proprio perché il paese si preoccupa anzitutto di “apparire”, non di essere. Il Paese non c’è, ma pensa in ogni maniera alla sua immagine, al suo apparire. E anche tale ambito gli si ritorce contro: non soltanto per colpa di Berlusconi e dei suoi festini, ma alla stessa maniera di tutti coloro che utilizzano ed esasperano tali strumenti per attaccare a suon di gossip l’esecutivo. E il fatto che un governo possa cadere in questi frangenti non può certo rallegrare nessuno. Pertanto, di fronte ad un basso grado della dimensione culturale italiana, che è al fondamento delle sue possibilità politiche, possiamo augurarci soltanto una autentica riabilitazione politico-culturale.

Il rischio è che l’Europa, che ha rifiutato ogni terreno culturale comune, diventi “Eurolandia”, una terra unita semplicemente dalla valuta comune e da molto poco altro via siamo certi che l’incuria e il mancato investimento nei confronti dei nostri beni culturali non potranno essere addossati soltanto a questo governo, e si tratta invece della carenza fondamentale della politica italiana negli ultimi 20 anni. Destra, sinistra e centro sono tenuti ad imboccare una via totalmente diversa, affatto nuova, e politicamente necessaria a tutti. A prescindere dalle responsabilità del Ministero per i Beni e le Attività culturali, c’è ormai un punto di non ritorno nella concezione stessa della politica che di fatto non è riuscita nemmeno a celebrare in maniera adeguata i 150 anni dell’unità d’Italia, nell’attesa per il prossimo 17 marzo sulla cui festività si sono create ulteriori divisioni: e

Una rivoluzione che non gioverà a nessuno in particolare, ma che sarà invece a beneficio di tutti. Senza tale presa di posizione, forte e assolutamente estesa a tutti gli ambiti politici dalla destra estrema alla sinistra estrema, passando magari per un centro forse più moderato, consapevole e responsabile, l’Italia non verrà fuori da questa crisi politica che si estende, ovviamente, anche a livello europeo. E senza questa ritrovata e rinnovata identità culturale anche l’Europa rischierà di diventare presto quello che Metternich diceva dell’Italia: una espressione geografica.


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la rivoluzione incompresa

La sfida tra i manifestanti e i regimi si allarga anche attraverso internet e le fonti di informazione

L’Onda investe Tripoli La protesta esplode anche in Libia: si parla di due morti a Bengasi Ma le opposizioni scendono in piazza pure in Iran, Bahrein e Yemen nanziere di origine ungherese, aveva imbastito simili speculazioni per via privata. Washington ci si è resi conto della potenza di internet, se supportato dagli adeguati investimenti. Del resto, è meglio agevolare il processo di democratizzazione di tutto il Medioriente, invece che imputarsi a sostenere regimi vetusti. L’alternativa è trovarsi di fronte nuove realtà con cui sarebbe molto più complesso il dialogo.Vedi i Fratelli musulmani. Vedi anche l’esempio dell’Iran dopo il 1979. Il mancato sostegno delle anime laiche della rivoluzione potrebbe agevolare l’ascesa di soggetti che si richiamano al vecchio Khomeini, oppure che sposano una linea politico-religiosa impermeabile al confronto con l’Occidente.

di Antonio Picasso a rivolta è sbarcata in Libia con un giorno di anticipo. Era fissata ad oggi la “giornata della collera” contro il regime di Muhammar Gheddafi. Tuttavia, con l’accelerare delle tensioni nel resto del Medioriente, l’opposizione libica ha deciso di ridurre i tempi. Già nella notte fra martedì e mercoledì, Bengasi è stata teatro di scontri. Prima ancora, il colonnello aveva promesso una sua partecipazione alla marcia di protesta. Come a dire: il leader che contesta il suo governo. Poi le autorità tripoline si sono comportate diversamente. Sulla scia di quelle del Cairo. Il bollettino parziale della giornata libica si ferma a qualche decina di feriti. La cronaca è la fotocopia dei fatti accaduti nei Paesi vicini. I manifestanti hanno fatto ricorso a pietre e spranghe per rispondere ai gas lacrimogeni e ai manganelli dei poliziotti. In controtendenza, però, va segnalato il rilascio di 110 attivisti iscritti a gruppi islamici dissidenti e, fino a ieri, detenuti nelle carceri del Paese.

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La mossa è cautelativa. Gheddafi prevede di decomprimere la tensione, concedendo maggiore spazio di manovra alle opposizioni, rispetto alla linea dura adottata da Bel Alì e Mubarak e che si è rivelata controproducente. D’altro canto, l’iniziativa fa parte di un progetto di più ampio respiro, intrapreso già da due anni e che vede promotori la Fondazione Gheddafi insieme alla Lega libica dei diritti umani. Le istituzioni parlano di riabilitazione dei dissidenti che rinunciano alla violenza. Tripoli, prima di qualunque altro regime mediorientale, aveva previsto l’escalation. Dando libertà alle opposizioni e favorendo le emigrazioni di massa, Gheddafi spera di conservare ancora il potere. Il dubbio è al prezzo di cosa gli avversari del colonnello sono tornati a piede libero? Nel frattempo, la protesta è giunta anche in Iraq. In realtà, Baghdad è interessata da scioperi e manifestazioni già da due settimane. Tuttavia, si è dovuto attendere la morte di tre persone, negli scontri di ieri, affinché se ne potesse parlare. Corruzioni, mal governo e insi-

Egitto e Tunisia sembrano invece in stand-by, come paralizzati in attesa di una svolta politica ora che la rivolta si è conclusa con successo curezza fatto parte della vita quotidiana del Paese. Con l’esplosione delle contestazioni oltreconfine, soprattutto a Teheran, anche la popolazione irachena ha preteso esprimere il proprio disagio. Dove la situazione resta confusa è in Bahrein. In seguito ai disordini, sembra che il governo stia cercando una mediazione con le rappresentanze dell’opposizione sciita. Ma si tratta di una previsione tutt’altro che certa. La dissidenza ha presentato la richiesta di orientare il Paese verso una monarchia costituzionale. Finora, si tratta

dell’unico programma, presentato da un gruppo di manifestanti – tra tutti i Paesi attraversati dalla rivoluzione – che abbia una tangibile road map di cambiamento. Tuttavia, pare che l’emiro, Hamad bin Isa Al Khalifa, abbia chiesto aiuto alla monarchia saudita per sedare le rivolte. In questo caso, conoscendo la rigidità di Riyadh, non si può escludere un’operazione repressiva in senso contrario agli atteggiamenti di moderazione manifestati dal governo. Si aspetta, quindi, la grande adunata popolare di sabato. È lo stand by, invece, a caratterizzare l’Egitto e l’Iran. I due Paesi che destano le maggiori preoccupazioni per gli osservatori occidentali. Dal Cairo è arrivata la smentita dell’ennesima ipotesi di morte di Mubarak. Si sa, invece, che l’ex raìs è stato raggiunto da moglie e figli nel suo esilio di Sharm. A Teheran il funerale di uno delle due vittime durante le manifestazioni di lunedì si è trasformato in un nuovo episodio di scontri. Washington, dal canto suo, sta

finalmente assumendo una posizione di concreto sostegno verso le diverse anime della rivolta. Prima il Dipartimento di Stato, poi la stessa Casa Bianca, hanno confermato l’avvio di una campagna di finanziamento dell’opposizione attiva sul web. L’Amministrazione Obama, la prima cyber-administration, punta a combattere la censura di cui sono stati vittima Facebook e Twitter in Egitto e, un anno e mezzo fa, in Iran. Il progetto, per un valore di 30 milioni di dollari, potrebbe essere adattarsi contro qualsiasi regime. Prevedibile quindi la reazione negativa di Cina, Russia o altri regimi autoritari. Gli Usa hanno capito di poter intervenire nel fenomeno, senza subire le accuse di ingerenza nei problemi domestici dei singoli Paesi. La creazione di un fondo a sostegno delle rivoluzioni e della dissidenza non è una novità. Durante la guerra fredda, Washington si era mossa proprio lungo questi canali per appoggiare gli amici attivi oltre la cortina di ferro. George Soros, il fi-

Titubante è invece l’Europa, dove la sola voce di governo che si è fatta sentire è quel del Cancelliere tedesco, Angela Merkel. «Il modo in cui il governo iraniano cerca di reprimere con la violenza il diritto alla libertà di espressione è totalmente inaccettabile», ha dichiarato. Dall’Italia, le ha fatto eco il ministero degli Esteri, Franco Frattini, il quale ha chiesto a Teheran di riconoscere alla società civile «il diritto di manifestare senza che vi siano repressioni». Troppa diplomazia, quella del responsabile della Farnesina. In questo momento di crisi, la politixa internazionale richiede dichiarazioni più schiette. Come ha fatto Pierferdinando Casini. «Esprimiamo la solidarietà a Mussavi e a Karrubi, già ospite della Camera dei deputati, e a tutti quelli che sono impegnati in una battaglia di democrazia in Iran. Non li lasceremo soli», ha detto il leader dell’Udc, durante la seduta a Montecitorio ieri. Le sue parole sono state sottolineate da un applauso dell’assemblea. Quella di Casini è la sola posizione esplicita assunta in sede nazionale nei confronti di quel che sta accadendo non solo in Iran, ma anche dall’altra parte del Mediterraneo. Come per gli Usa, o forse in misura maggiore, l’Italia ha un immediato bisogno di appoggiare le nuove realtà che si stanno succedendo in Medioriente. Per ragioni di sicurezza e per gli interessi economici nazionali, appare più produttivo prendere posizione “con” invece che “contro”.


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Nessuno l’aveva previsto e nessuno sa come andrà a finire: tre esperti provano a spiegare le radici delle rivolte

Cosa sta succedendo?

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KARIM MEZRAN, ANALISTA INTERNAZIONALE

È nata la “piazza araba” Quelle che stanno scuotendo il Maghreb e il Mashrek sono rivolte con esiti rivoluzionari anche per l’Occidente

a sorpresa è la parola che meglio caratterizza la reazione dell’Occidente nei confronti delle piazze arabe, sempre dileggiate come inefficaci, caotiche e che tendono alla violenza.Vittime dell’eterno pendolo tra servitù e licenza, tipico delle società arretrate. Quindi poco adatte a comprendere il significato di democrazia. Abbiamo chiesto a Karim Mezran, direttore del Centro studi americani di Roma, grande esperto di Medioriente – è appena uscito un suo libro sui Fratelli musulmani – il perché di tanto stupore. La posizione di Mezaran è un perfetto bilanciamento tra real politik «non sono rivoluzioni, i regimi sono ancora in piedi» e una forte speranza per il futuro «ora esiste una piazza islamica di cui i governanti dovranno tenere conto».

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«La sorpresa principale è stata per tutti. Non solo per la comunità d’analisti e politologi. Per troppo tempo si era affermato che quei Paesi, pur avendo molta povertà, disoccupazione e ingiustizie sociali, fossero regimi stabili. Per anni si è presa in giro la“piazza araba”giudicata incapace di determinare alcunché. Non è ancora ben chiaro perché la svolta sia avvenuta oggi e non prima. È sovrastimato il ruolo dei social network. Sicuramente hanno avuto una funzione importante. Più che il potere aggregativo, il web ha svolto un ruolo determinante nella crescita culturale di una fetta importante della popolazione giovanile. Negli ultimi 5 o 6 anni molti hanno letto, visto e sentito idee, opinioni e una realtà che non era quella preconfezionata dalla censura dei regimi. Ragazzi che non appartenevano

di Pierre Chiartano alla militanza musulmana e non avevano partiti politici di riferimento.Tramite i social network interagivano con altre comunità più libere, specie in Occidente. Hanno imparato nuove idee e metodi per propugnarle. Quando gli eventi li hanno resi protagonisti, hanno immediatamente utilizzato questi nuovi strumenti. È stato sicuramente un processo determinante». Una serie di circostanze potrebbe aver aiutato. Oltre alla maggior coscienza civile, anche la comparsa sulla scena internazionale e mediorientale di un nuovo protagonista: la Turchia di Erdogan. Cioè l’immagine di una democrazia islamica ricca e molto libera rispetto agli standard mediorientali e nordafricani. «Sì, ma era presente già da qualche anno. Però la più grande sorpresa di questi movimenti di piazza è che non abbiano camminato sotto la bandiera islamica. Sono state spontanee, fortemente caratterizzate da un classe media laica, dai disoccupati e dalle fasce povere della popolazione. La coda islamica viene da una loro legittimazione ex post, dal nuovo approccio moderato del partito islamico. La Turchia è un modello, soprattutto per tranquillizzare l’Occidente: c’è un’esperienza islamica moderata, cresciuta gradualmente e che si è bene integrata nel sistema politico». È stata una rivolta atipica, più civile – assalti ai giornalisti e morti a parte – che religiosa «lo si percepiva stando nelle strade». Più controllata che anarchica. C’è da ricordare anche che parte della violenza è stata causata da una fuga di massa che ha svuotato tutte le carceri egiziane in un solo week end. L’Egitto rispetto all’Algeria, la Tunisia e a

molti Paesi arabi è diverso. Grazie a Napoleone ha visto per primo svilupparsi una stampa e ha avuto un parlamento prima ancora dell’Italia unitaria. È sempre stato due passi avanti rispetto agli altri protagonisti regionali anche per eventi ”rivoluzionari”. «È vero e fondamentale. Sono rivolte – non rivoluzioni – perché non hanno cambiato il sistema politico. I regimi sono rimasti intatti, probabilmente cambieranno in futuro. Ma hanno avuto due conseguenze rivoluzionarie. La prima, è che non si può più affermare che gli arabi siano passivi. Le popolazioni arabe sono finalmente scese in campo, per cui da oggi tutti i politici della regio-

Gli Usa hanno inviato un messaggio nuovo, non propriamente contro le autocrazie, ma contro quelle che governano male. Un fatto che avrà conseguenze in tutta la regione

ne dovranno tenerne conto. Ogni scelta politica potrebbe ora scatenare una reazione della popolazione. Il secondo aspetto rivoluzionario riguarda invece gli americani. Per la prima volta hanno lanciato un messaggio chiaro. È vero che rimane valido il vecchio adagio he is a son of a bitch, but is our son of a bitch, ma se non governi bene e la popolazione si rivolta, non ti sostengo più. Un messaggio non propriamente contro le autocrazie, ma contro quelle che governano male. Con conseguenze in tutti Paesi della regione, che ora cercano di avviare politiche di

riforme». Ma la sorpresa per l’ondata di rivolte, in Occidente è figlia anche di una serie di luoghi comuni. «Il primo è sicuramente la pregiudiziale anti-islamica. È l’idea che sia meglio il carro armato del dittatore di turno, piuttosto che gli islamisti, percepiti come falangi macedoni pronte a imporre la shariia, a proclamare il califfato e il jihad contro l’Occidente. Poi c’è la convinzione dell’incapacità degli arabi di auto-gestirsi, di sapersi moderare senza estremismi. Il perfetto equilibrio dell’opinione pubblica e l’assenza dei Fratelli musulmani nelle strade sono state una bella lezione per chi soffiava sul fuoco della paura». Ma i Fratelli musulmani che ruolo hanno avuto e avranno? «Il ruolo resta da chiarire. Probabilmente verranno legalizzati e incorporati nel sistema politico. Sarà una vera benedizione, perché porterà alla luce tutte le contraddizioni interne alla Fratellanza, le differenze generazionali, di comportamenti e di metodo. Fino ad ora un pregiudizio li ha fatti apparire come monolitici, proni al terrorismo e con uno scopo preciso. Non è così». Le responsabilità politiche e di governo tenderanno a moderare l’approccio generale, come è già successo anche per Hezbollah nel Sud del Libano, dove l’impegno quotidiano per garantire i servizi essenziali e un lavoro a una popolazione stremata dalla guerra del 2006, ha abbassato il volume dei proclami e alzato quello del pragmatismo. «Già qualche anno fa erano emerse delle grandi contraddizioni interne al movimento. Hezbollah gode di una maggiore disciplina interna visto che è anche un’organizzazione militare, mentre la Fratellanza è prettamente un’organizzazione politica. Ma il paragone regge bene». Il rapporto con i militari egiziani invece «per ora è pessimo» e si dovrà lavorare parecchio.


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OLIVIER ROY, ESPERTO DI ISLAM

«Cercano la parità con l’Occidente»

ono ottimista e contento, perché è da 20 anni che ripeto che l’islam verrà integrato nella democrazia. Questo è solo il primo passo». Non nasconde il proprio orgoglio Olivier Roy, editorialista per Le Monde e islamologo dell’Istituto Universitario europeo di Firenze. Per l’Egitto e gli altri Paesi musulmani protagonisti delle rivolte c’è l’orizzonte del “modello turco”, dove democrazia, valori conservatori e liberalismo economico si sposano tra loro, con buona pace dell’Occidente. «Perché l’Europa non è riuscita a prevedere le mutazioni? Semplice, le nuovi generazioni hanno fatto saltare l’equazione tra islamismo e Paesi arabi». Le rivolte sono scoppiate solo ora e tutte nello stesso momento. Cos’è successo? Le tensioni, le cause strutturali del malcontento, esistono da vent’anni. Oggi hanno giocato un ruolo decisivo diversi elementi: innanzitutto il fenomeno generazionale, con da una parte dei regimi vecchi biologicamente e dall’altra la presenza di giovani che superano la metà della popolazione, molto più individualisti e soprattutto istruiti. Quindi i media, perché senza internet e al Jazeera non si sarebbe prodotto questo effetto valanga. Era naturale che tutto cominciasse dalla Tunisia, l’anello debole della catena, dove la famiglia Ben Alì aveva fatto man bassa delle ricchezze nazionali senza la protezione di un esercito. Quelle immagini hanno dato agli egiziani la voglia di sentirsi, anche loro, protagonisti della storia. La nuova generazione ha la maturità sufficiente per portare a termine la transizione democratica? Sì, sono maturi, perché sono allergici a qualsiasi tipo di demagogia, che sia populista o nazionalista. La loro capacità di resistere è una novità nel mondo arabo. Non hanno invece alcun tipo di organizzazione e di rappresentanza politica, sono quindi costretti a delegare la transizione demo-

«S

di Nicola Accardo cratica ai reduci dei vecchi regimi, in Egitto come in Tunisia. Questi traghettatori di vecchia generazione non hanno una logica democratica ma una cultura politica di tipo autoritario: per questo sono convinto che nei prossimi mesi scoppieranno nuove tensioni. Né l’Europa né gli Stati Uniti erano pronti a una rivoluzione di questo tipo. L’Occidente non sa leggere i mutamenti geopolitici? Malgrado tutta una serie di analisi e rapporti molto validi, nessuno è riuscito a prevederla. Il motivo è semplice: l’Occidente è totalmente ipnotizzato dalla questione dell’islam, sia riguardo ai temi dell’immigrazione che del Medioriente. La complessa equazione dei Paesi mediorientali è finora stata risolta con la questione islamica e

L’equazione dei Paesi mediorientali è finora stata risolta con la questione islamica. Per questo l’Occidente ha preferito i regimi laici

l’Occidente ha sempre preferito dei regimi autoritari pro-Occidente, come quello di Mubarak, ai regimi autoritari islamici, come quello iraniano. Non sono stati compresi i cambiamenti dei musulmani, compresi i credenti, e soprattutto il fatto che i giovani abbiano una visione della religione completamente diversa dai loro genitori. Le proteste hanno contagiato perfino lo Yemen e il Bahrein. Fino a dove possono arrivare? Il fenomeno si ripeterà ovunque ci siano rappresentanti di questa nuova generazione. I giovani manifesteranno dappertutto. Ma ogni paese ha una struttura generazionale diversa: nello Yemen potranno fare ben poco contro le tribù conservatrici; in Bahrein la sommossa vede oppo-

ste la maggioranza sciita alla minoranza sunnita che è al potere; in Algeria, invece, l’ostacolo dei giovani è la stanchezza di un popolo provato dalla guerra civile, che ha fatto centinaia di migliaia di morti. Il modello turco può essere l’esempio democratico da seguire per gli Stati che hanno rovesciato il potere? Sì, se intendiamo quello dell’Akp, il partito del premier Erdogan, in grado di coniugare democrazia, valori conservatori e liberalismo economico: è un modello che interessa molto il Medioriente ed è accettato dagli Occidentali. La chiave è un esercito filo-occidentale che sorveglia il potere, e la stessa cosa penso che potrebbe verificarsi in Egitto. Con delle differenze: i Fratelli Musulmani, che parteciperanno alla costruzione democratica, non hanno certamente lo stesso livello di laicità dell’Akp e i valori dell’islam in Egitto saranno molto più forti. A rivoluzione ultimata, quali conseguenze subirà Israele? L’equilibrio geostrategico non sarà modificato, perché l’Egitto rispetterà il Trattato di pace. Ma, se l’islam verrà integrato nel meccanismo democratico, Israele avrà difficoltà a definirsi ancora il baluardo dell’Occidente in Medioriente contro la minaccia islamica. A lungo termine, quest’onda democratica rafforzerà anche i palestinesi. Il risultato finale sarà l’isolamento politico di Israele e tanto imbarazzo, unito a un sentimento di paura.


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

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MARK ALMOND, DOCENTE DI OXFORD

«È solo la ciclica rivolta contro il potere» di Mark Almond

e rivoluzioni possono essere brevi e sanguinose, o lente e pacifiche. Ognuna è diversa dall’altra, anche se con caratteristiche ricorrenti, come quelle a cui abbiamo assistito in Egitto. A suo tempo Trostky notò che se la povertà era la causa delle rivoluzioni, ci sarebbero state rivoluzioni in continuazione perché la maggior parte della popolazione mondiale era povera. È vero. Ecco perché quello che serve per trasformare il malcontento di un milione di persone in una folla oceanica che occupa le strade è una scintilla in grado di alimentare il loro fuoco. Le morti violente sono state il catalizzatore più comune per radicalizzare il malcontento nelle rivoluzioni degli ultimi trent’anni. A volte la scintilla è terribile, come quando centinaia di persone furono date alle fiamme in un cinema iraniano nel 1978, atto di cui venne incolpata la polizia segreta dello scià. A volte la scintilla scaturisce dal disperato atto di suicidio di un singolo manifestante come il fruttivendolo Mohammed Bouazizi in Tunisia che, nel dicembre 2010, calamitò l’immaginazione di un intero paese. Ma anche voci di atti brutali, come quelle secondo cui la polizia segreta comunista aveva aggredito a morte due studenti a Praga nel novembre del 1989, possono accendere l’animo di un popolo già profondamente disilluso dal sistema. Notizie secondo cui Milosevic aveva fatto “sparire” il suo predecessore, Ivan Stamolic, nelle settimane precedenti le elezioni presidenziali jugoslave del 2000 contribuirono a cristallizzare il rifiuto del serbi nei confronti del suo regime.

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nanmen e manifestare contro la corruzione e dittatura del Partito. Tuttavia, benché la crisi cinese sia servita come modello per le future proteste e occupazioni di piazze centrali e strategiche, è stata anche uno dei più ovvi fallimenti del “People Power”. Diversamente dai precedenti dittatori, Deng Xiaoping dimostrò energia e abilità nel rispondere all’attacco dei manifestanti. Il suo regime rese più ricchi un miliardo di contadini cinesi, che infatti divennero i soldati spediti a sparare contro le folle.

Le proteste contro la rielezione di Suharto in Indonesia nel marzo 1998, culminò nell’uccisione di quattro studenti a maggio, che provocò una serie di manifestazioni più grandi e più violente che fecero più di mille vittime. Solo trent’anni prima Suharto poteva uccide-

sparato alle folle. In Romania, nel dicembre 1989, Ceausescu visse fino a vedere il generale cui aveva ordinato di attaccare i manifestanti, diventare giudice contro di lui nel processo per la sua esecuzione nel giorno di Natale. Le pressioni esterne svolgono un ruolo fondamentale nel completamento di un cambiamento di regime. Nel 1989 il rifiuto da parte del leader sovietico, Mikhail Gorbachev di usare l’Armata Rossa per sostenere i comunisti dell’Europa dell’est ad affrontare le proteste nelle strade, portò i generali locali a realizzare che la forza non era l’unica opzione. Gli Stati Uniti sollecitatorono ripetutamente i loro alleati autoritari a scendere a compromessi e, una volta intrapreso questo percorso scivoloso, a dimettersi.

La longevità di un regime e in special modo l’anzianità di un governante possono dar luogo a un’incapacità fatale di reagire velocemente agli eventi. Le rivoluzioni sono eventi da 24 ore, hanno bisogno di vigore e perspicacia sia da parte dei manifestanti che dei dittatori. Un leader anziano inflessibile e per di più anche malato certamente contribuisce alla crisi. Dallo scià persiano, malato di cancro, fino Honecker malato terminale in Germania dell’Est, a Suharto in Indonesia, decenni al potere hanno incoraggiato una sclerosi politica che ha reso impossibile attuare manovre politiche agili.

Quello che serve per trasformare il malcontento di un milione di persone in una folla oceanica che occupa le strade è una scintilla in grado di alimentare il fuoco della rabbia

C’è poi il modello cinese. La morte sebbene in questo caso non violenta - svolse un ruolo fondamentale anche in Cina nell’aprile 1989, quando alcuni studenti di Pechino dirottarono i funerali di stato dell’ex leader comunista, Hu Yaobang, per occupare piazza Tie-

re centinaia di migliaia di persone nell’impunità. Ma la corruzione e la crisi economica asiatica aveva fatto implodere il sostegno per il suo regime. Dopo 32 anni al potere, la sua famiglia e i suoi amici erano troppo ricchi, mentre troppi ex sostenitori diventavano sempre più poveri, condizione che condividevano con la gente comune. La verità è che ciò che fa crollare un regime è la rivolta non solo del popolo o di parte di esso, ma soprattutto la rivolta degli stessi membri dell’apparato. Fino a quando la polizia, l’esercito e gli ufficiali ritengono che hanno più da perdere con una rivoluzione che difendendo il regime, allora anche le proteste di massa possono venire attaccate e schiacciate. Ricordate piazza Tienanmen. Ma se i membri interni e l’esercito cominciano a domandarsi quanto sia saggio sostenere un regime, allora il sistema implode velocemente.

Il leader della Tunisia Ben Ali decise di fuggire quando i suoi generali gli dissero che non avrebbero

Come ci ricorda l’Egitto, le rivoluzioni sono fatte dai giovani. Nelle rivoluzioni sono rare le uscite di scena piacevoli, ma l’offerta di un ritiro sicuro può velocizzare e facilitare il cambiamento. Nel 2003, in Georgia, Shevardnadze fu accusato da alcuni di essere come Ceausescu, ma venne lasciato in pace nella sua villa dopo che si dimise. I generali di Suharto assicurarono che si era ritirato per morire in pace un decennio dopo, mentre suo figlio “Tommy” venne fatto prigioniero. Spesso nel popolo c’è fame di punire i governatori caduti. Anche i loro successori pensano che una punizione contro il vecchio leader possa essere un’utile distrazione dai problemi sociali e economici, che certamente non spariscono con il cambio di regime. E che non spariranno nemmeno in Egitto e in tutta l’area interessanta dagli scontri.

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cultura

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Dal prossimo 22 febbraio, al Palazzo del Quirinale, la grande esposizione «Viaggio fra i capolavori della letteratura italiana, Francesco De Sanctis e l’Unità»

L’Italia è un romanzo La tradizione letteraria da Dante a Leopardi e Manzoni La Capitale celebra la nostra unificazione culturale di Gabriella Mecucci ivisa, soggetta a potenze straniere, tormentata da lotte intestine: l’Italia arriva all’unità politicostatuale molto tardi. La Francia raggiunge l’obiettivo due secoli prima, con Luigi XIV. E la Gran Bretagna più o meno nello stesso periodo: al nucleo forte Inghiterra più Scozia (1707) si aggiunge poi, nel 1801, l’Irlanda. Solo la Germania - fra i grandi Paesi europei - si unifica a Ottocento inoltrato, addirittura 10 anni dopo di noi, e attraverso un cammino aspro e difficile come il nostro. Ma se lo Stato italiano unitario è nato 150 anni fa, l’unificazione culturale è avvenuta molto prima: la si ritrova nella medesima religione, che non cessa mai di essere per tutti quella cattolica, e nella grande e antica “tradizione letteraria”. Una tradizione che va da Dante sino a Leopardi e Manzoni, tanto per citare i due estremi più grandi. Che dura cioè sette secoli.

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Storia della letteratura italiana col proposito di dimostrare quanto l’ideale unitario dovesse proprio a questa che costituiva il fulcro dell’idea di nazione: tormentato da disgregazioni e lotte di fazione, il nostro Paese trovava nella “tradizione letteraria” uno stimolo alla condivisione dei valori.

Se così stanno le cose, nel centocinquantesimno dell’Unità d’Italia, non poteva passare sotto silenzio l’imponente moto di unificazione culturale che ha prodotto opere straordinarie e forgiato “lo spirito”di un popolo. Il Quirinale, dunque,

stituire la grandezza e insieme il dramma dell’Italia. L’aver una così grande e antica “identità culturale unitaria”e una così recente “unità e politica statuale” ha rappresentato infatti per il nostro Paese una lacerazione profonda e dolorosa, all’origine forse di alcuni fra le più importanti distorsioni nazionali. Il nostro essere eternamente divisi in modo radicale fra Guelfi e Ghibellini, ma anche l’essere condannati a stare comunque insieme perchè troppe cose ci unificano. Passeggeremo dunque - a partire dal 22 febbraio - per la Sala delle bandiere del Quirinale, dentro apposite teche potremo ammirare la storia della nostra cultura. Vedremo il manoscritto del Purgatorio, quella parte della Commedia dove Dante più che altrove volle raccontare le contese fra le fazioni, gli omicidi politici: i fatti drammatici prodotti dalle

Per la prima volta in mostra tutti insieme i manoscritti originali dei più importanti protagonisti della cultura: dalla Divina Commedia ai Promessi Sposi

A Metternich che parlava provocatoriamente del nostro Paese come di «un’espressione geografica» e non come di una nazione a pieno titolo, Giosuè Carducci contrappose la definizione di «espressione letteraria» e di «espressione poetica». Nel corso di ben settecento anni e passa quella straordinaria tradizione ha potuto essere idealizzata come fattore unificante delle molteplici varianti regionali o municipali. E non a caso Francesco De Sanctis, scrisse la sua

ospiterà - a partire dal 22 febbraio - una mostra dal titolo Viaggio fra i capolavori della letteratura italiana, Francesco De Sanctis e l’Unità d’Italia. Per la prima volta saranno esposti in una stessa sede i manoscritti originali dei più importanti protagonisti della nostra storia letteraria: dalla Divina Commedia di Dante al Decamerone di Boccaccio, dall’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto Gerusalemme alla Conquistata di Torquato Tasso, dall’Infinito di Giacomo Leopordi, all’Inno alla nave delle muse di Ugo Foscolo, dagli Sposi Promessi di Alessandro Manzoni. La mostra è nata da un’idea di Francesco De Sanctis junior (presidente dell’omonima Fondazione) ed è stata curata da Giorgio Ficara. Il manoscritto della Storia della letteratura italiana di De Sanctis senior ne sarà il filo conduttore. Il catalogo di Skira propone alcune riletture dei nostri classici fatte da grandi critici e scrittori di oggi. Qualche esempio: Dante presentato da George Steiner, Boccacio da nadia Fusini, Machiavelli da Gianni Vattimo, Ariosto da Raffaele la Capria, Guicciardini da Massimo Onofri, Tasso da Jean Starobinski, Pariuni da Alberto Arbasino, Alfieri da Alfonso Berardinelli, Foscolo da Dacia Maraini, Manzoni da Ernesto Ferrero, Leopardi da Massimo Cacciari e diversi altri. Un impegno di grande portata e qualità, dunque, per re-

Anche un convegno sulla lingua futura ROMA. Due giorni di riflessioni culturali sull’Unità d’Italia sono previsti, lunedì e martedì prossimo, al Quirinale con la collaborazione della Fondazione De Sanctis e dell’Istituto della Enciclopedia Treccani. Lunedì, si terrà un convegno dedicato al tema «La lingua italiana fattore portante dell’identità nazionale»: sono previsti gli interventi di Umberto Eco, Tullio De Mauro, Vittorio Sermonti, Luca Serianni e altri, mentre la conclusione è riservata al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. A intervallare gli interventi ci saranno letture di Ottavia Piccolo, Fabrizio Gifuni, Toni Servillo, Umberto Orsini e Pamela Villoresi, accompagnati da brani musicali. Martedì, invece, aprirà la mostra, Viaggio tra i capolavori della letteratura italiana, Francesco De Sanctis e l’Unità d’Italia di cui parliamo qui accanto. Filo conduttore della mostra sarà il manoscritto autografo della Storia della Letteratura Italiana di Francesco De Sanctis, con il quale si intende valorizzare e rivitalizzare il pensiero desanctisiano, ma anche rendere omaggio alla lingua e alla letteratura italiana e più in generale alle radici culturali del nostro Paese alle quali De Sanctis si riferisce proprio negli anni in cui si costituiva l’Unità d’Italia.

Qui sopra, l’allegoria dell’Italia e un’immagine di Francesco De Sanctis. A sinistra, Giuseppe Garibaldi. Nella pagina a fianco, uno scatto del trattato originale “Del principe e delle lettere” di Vittorio Alfieri


cultura nel cuore delle solitudini, eterna compagnia di Francesco Petrarca. In un bel saggio su Torquato Tasso, Jean Starobinski ci aiuterà a scoprire quanto Rousseau sia debitore nel suo grande progetto di opera lirica alla Gerusalemme liberata. E poi arriva il canto del genio armonioso di Ariosto - spiegato mirabilmente da Raffaele La Capria - che sovrastava con la sua poesia le lotte sanguinose del Cinquecento. Mentre gli italiani erano l’un contro l’altro armati, Ludovico sognava «le donne, i cavalier, l’arme, gli amori, le cortesie, le audaci imprese». Una straordinaria perfezione compositiva la sua che portò De Sanctis a metterlo sullo stesso piano dell’Alighieri: «Posti l’uno e l’altro fra due secoli - scrisse il grande critico -, preannunziati da astri minori, furono le sintesi in cui si compì e si chiuse il tempo loro. In Dante finisce il Medio Evo; in Ludovico finisce il Rinascimento».

“La società Gestamp Bonassisi Solar S.r.l., con sede legale in Roma Via Lima n.48, comunica che la Regione Puglia, con determinazione del Dirigente Servizio Energia, Reti e Infrastrutture materiali per lo Sviluppo nº 248 del 16 Novembre 2010, ha rilasciato nei confronti della Gestamp Bonassisi Solar S.r.l. Autorizzazione Unica alla costruzione ed esercizio di un impianto di produzione di energia elettrica da fonte solare (fotovoltaica) di potenza pari a 5,987 MW, delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili, da realizzarsi in Comune di Foggia. La Determinazione dirigenziale è stata pubblicata in via integrale sul Bollettino Ufficiale della Regione Puglia n. 180 del 02.12.2010”.

nostre divisioni. Eppure, quel racconto fatto di sangue e scontri, pochi sanno che, poco dopo la morte dell’Alighieri, venne salvato e riprodotto grazie ad “una catena” di italiani-non italiani. Un copista marchigiano, infatti, trascrisse l’opera di un autore fiorentino per un giuresconsulto pavese che ricopriva un’alta magistratura a Genova. Intorno alla Commedia un’opera volta a persuadere gli uomini alla concordia civile - si univano così forse diverse, intellettuali e professionali, che le consentirono di diffondersi con una rapidità e un’ampiezza inusitate all’epoca.

Passeggiando per il Quirinale leggeremo sui manoscritti la piacevolezza di vivere e di raccontare di Boccaccio («Questo è un libro - scrive Nadia Fusini nel catalogo - rivolto a procurare diletto ai lettori più comuni»), ma anche l’indagine

Gianni Vattimo ci svela da par suo Nicolò Machiavelli, “il segretario fiorentino” profondamente immerso nella politica attiva, concreta e, al tempo stesso, grandissimo pensatore politico. Non è un caso che uno degli uomini di governo europei più colti e raffinati del ‘900, Mitterrand, fosse soprannominato “Le Florentin”, con chiara allusione all’autore del Principe. Da Machiavelli a Guicciardini per scoprire con Massimo Onofri un altro pezzo della nostra identità. Quella che non è impregnata di passione civile, ma che guarda al “particulare”. Quella parte condannata De Sanctis perché intrisa di “fiacchezza morale”. Eppure Guicciardini tanto poco amato in epoca risorgimentale, comprende con straordinario anticipo quanto sia importante «la scienza dell’animo umano». E che dire dell’ormai dimenticato Alfieri (pubblichiamo il breve saggio di Alfonso Berardinelli)? Il suo stile da “uomo libero” e dai “sentimemti sublimi” è ormai schiacciato e sommerso dalla volgarità dell’oggi. Non fanno più parte i suoi versi dell’identità italiana? Dimenticato perché superato? Ma la poesia non scompare per sempre, è come un fiume carsico, può riaffiorare. «Poesia civile, filosofica, logica e politica quella di Ugo Foscolo»: così la definisce Dacia Maraini. La scrittrice tenta un discutibile ma affascinante paragone con Pasolini: una ricucitura lunga quasi due secoli. E il sublime Leopardi (ne scrive Massimo Cacciari) che osserva con sguardo disperato la condizione del nostro paese, ma non dimentica mai la pietas verso l’Italia Infine c’è Manzoni (di Ernesto Ferreo), grandissimo conoscitore dell’animo umano e fantastico raccontatore delle donne e degli uomini italiani. Qualità straordinarie e troppo a lungo misconosciute. Scrittore cristiano per eccellenza e anche per questo forse accantonato. Eppure sarà tempo di riscoprirlo come uno fra i grandi romanzieri europei. La mostra del Quirinale sarà dunque un modo per ripensare alla cultura italiana, a quella solida catena che ci tiene uniti, aldilà delle fragilità del sistema e degli attacchi esterni e interni. Un enorme patrimonio letterario (c’è poi quello artistico, paesaggistico...) che è costitutivo della nazione. Anche se non ce lo meritiamo, è nostro. È italiano.

17 febbraio 2011 • pagina 15

In lui ardevano furore di libertà e smania di solitudine

Vittorio Alfieri, il primo vero “romantico” di Alfonso Berardinelli urore di libertà, smania di solitudine, stravaganze autodifensive contro le tirannie e la corruzione sociale.Vittorio Alfieri è questo. È il primo personaggio caratterialmente “romantico” della letteratura italiana, pur essendosi formato sugli illuministi. I suoi possibili, rari lettori li voleva simili a lui: malinconici riflessivi che non aspirano a cariche pubbliche, non invidiano prestigio e potere, non si fanno fuorviare da vizi e piaceri e cercano nei libri «un breve compenso alle miserie umane». Uno scrittore così forse esige troppo dai lettori. In effetti i suoi desideri si sono realizzati. Alfieri è poco letto. Le tragedie non vengono messe in scena, sono inadatte (come direbbe Giacomo Debenedetti) all’“acustica moderna” del teatro. L’anarchico aristocratico che Alfieri era, l’uomo libero e solo, veniva ispirato da due muse misantropiche: Superbia e Ira. È stato lui la vivente e statuaria incarnazione settecentesca (preromantica, prerisorgimentale) della Libertà come dèmone sdegnoso.

F

Nella nostra letteratura è lui il tirannicida morale, l’eroe plutarchiano. Nei suoi versi ferrigni e lampeggianti come spade si sente l’eco di un’azione eroica che aspetta al di là della scrittura. Nell’epoca della decadenza dell’aristocrazia, incalzata dalla vitalità economica, culturale e politica della borghesia in ascesa, l’aristocratico Alfieri si concentra a ritrovare l’essenza della condizione nobiliare: come eroe letterario, egli è il cavaliere che non si piega, prigioniero della sua vocazione astratta, antisociale, che disprezza sia la condizione cortigiana che il lavoro produttivo, sia il rispetto servile delle gerarchie che l’etica laboriosa dei ceti commerciali. Da questo ideale morale non poteva che nascere una scrittura spezzata e sprezzante, angolosa e lacerata, le cui risorse energetiche sono l’impeto e l’ossessione. Lo stile dell’uomo libero e di sentimenti sublimi, in tempi di monarchie assolute, non può essere uno stile socievole e piacevole. La tensione tragica in un tale scrittore era fatale. Nel suo trattato Del principe e delle lettere, scritto fra il 1778 e il 1786, mette sotto accusa il mecenatismo e ogni rapporto di protezione e dipendenza fra il Principe e lo Scrittore. La sua contrapposizione fra autori protetti e autori liberi è netta. Da un lato Alfieri colloca Orazio,Virgilio, Ovidio, Ariosto,Tasso, Racine “e molti altri moderni”(tra cui naturalmente Metastasio). Dall’altro gli “scrittori del vero”, i portavoce della verità: Demostene, Sofocle, Lucrezio, Tacito, Dante, Milton, Montesquieu, Locke, Hume. Così Alfieri inventa in Italia lo scrittore come oppositore. È lui, secondo De Sanctis, «l’uomo nuovo che si pone in atto di sfida in mezzo ai contemporanei».



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