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he di cronac
È facile essere coraggiosi a distanza di sicurezza Esòpo
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 18 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Non si ferma il contagio rivoluzionario in Africa e Medioriente.Altre quattro vittime negli scontri in Bahrein
L’Onda arriva da Gheddafi Dopo 40 anni di potere, la piazza sfida il Colonnello. Nel “giorno della collera” dieci morti tra Bengasi e Al Beida. E in Iran è giallo sulla sorte di Mousavi e Karroubi
Ocse: l’Italia è l’ultima ruota del carro G7 di Francesco Pacifico
DIETRO LA RIVOLUZIONE
di Luisa Arezzo
Noi siamo fermi al +0,1, l’Occidente va a +4
Il tramonto delle dittature ereditarie
ROMA. Se a Bengasi i morti sarebbero sei, a Teheran si teme per due vite dal grande valore simbolico: quelle di Mousavi e Karroubi di cui in Iran non si sa più niente. Nella contrapposizione tra queste due realtà c’è il senso della rivolta che sta infuocando mezzo mondo dall’Africa al Medioriente. Ieri, in Libia era stata proclamata la «giornata della collera» contro il regime di Gheddafi. Una collera che è costata sei vite a Bengasi e quattro al Al Beida.
di Enrico Singer
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La sfida tra laici e religiosi
Parla Stefano Silvestri
Solo l’esercito «Questa salverà l’Egitto è la rivoluzione dall’islamismo degli sms» ROMA. proprio mentre ieri al ministero dell’Economia si apriva il tavolo che – parola di Berlusconi – dovrebbe rimettere in moto il governo e l’Italia, dall’Ocse, l’organismo internazionale che analizza le economie dei paesi industrializzati, ci affidava l’ultima posizione nel G7: siamo il Paese che cresce meno e più lentamente. E non pare che la situazione possa cambiare rapidamente. Anche sul federalismo l’accordo è ancora lontanissimo: sempre ieri i governatori hanno chiesto 400 milioni per il trasporto pubblico locale. a pagina 10
È indispensabile spegnere subito la «miccia» iraniana
«È uno scontro tra vecchio potere e nuove generazioni»
Daniel Pipes • pagina 5
Antonio Picasso • pagina 4
Dopo le polemiche, Badassarri, Saia e Pontone pronti a lasciare Fli
Fini duro contro i fuggitivi
La crescita annunciata e mai realizzata
Questi dati bocciano il governo, non l’economia
«Se vanno via è per il potere finanziario del premier» di Riccardo Paradisi
ROMA. La crisi di Futuro e libertà ormai
di Carlo Lottieri
è al punto di precipitazione. Al Senato il gruppo del partito di Fini praticamente non esiste più. Dopo l’addio ormai dato per definitivo di Menardi, consumatosi nella serata di mercoledì, Fli sta per perdere altri tre componenti: Franco Pontone, l’ex tesoriere di An già in frizione con il presidente della Camera per la questione della casa di Montecarlo; l’economista Mario Baldassarri, che dichiara di essere in profonda riflessione e Maurizio Saia. Ma anche alla Camera ci sono esponenti Fli pronti a dire addio a Fini.
uella diffusa ieri dall’Ocse non è proprio una notizia. Si tratta semmai di una conferma, dato che oggi l’Italia cresce meno degli altri Paesi industrializzati, in una fase ancora segnata dalla crisi finanziaria del 2008, esattamente come succedeva in precedenza. Da più parti s’invita il governo a fare qualcosa e lo stesso governo, negli scorsi giorni, ha provato a giocare la carta del rilancio economico anche per spostare il dibattito politico lontano da giudici e festini a luci rosse.
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lla nostra gente non serve la democrazia. Servono pozzi per l’acqua, cibo e medicine». Il nocciolo della sua filosofia politica Gheddafi l’aveva spiegato così, parlando dal palco dell’assemblea dell’Unione africana poco più di un anno fa, quando ne era ancora presidente. In sala un brivido aveva attraversato la schiena dei rappresentanti del Sudafrica, del Senegal, della Nigeria e del Ghana: quei quattro Paesi (su 53) dove la lotta per arrivare a un sistema più aperto è costata molto in termini di tempo e di sangue, ma ha dato i suoi frutti migliori. In Occidente pochi avevano denunciato quella spregiudicata ammissione antidemocratica, i più avevano scherzato sul «folklore» del Colonnello. segue a pagina 2
I QUADERNI)
Mario Baldassarri, Maurizio Saia e Franco Pontone • ANNO XVI •
NUMERO
34 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
segue a pagina 6
19.30
l’analisi La ricchezza del sottosuolo non preserva il Colonnello dall’ira popolare, che vuole chiudere i conti con lui e la sua famiglia
La rivolta contro i figli
Come per Egitto e Tunisia, il problema della successione sta facendo esplodere la piazza libica: in ballo ci sono gli eredi Saif e Moutassem il fatto di Enrico Singer
segue dalla prima Al pari della sua inseparabile tenda beduina, delle quaranta amazzoni che lo proteggono giorno e notte o dei proclami per convertire l’Europa all’islam. Ma conviene partire proprio da quella frase per capire che cosa sta succedendo e, soprattutto, che cosa potrebbe succedere nelle prossime ore, adesso che trema anche il potere del raìs di Tripoli. Il contagio della rivolta che, in Tunisia e in Egitto, ha travolto uomini che sembravano invincibili e che sta investendo tutta la regione è innegabile e ha rivelato, prima di tutto alle popolazioni di quei Paesi, che i regimi che li governano si reggono sulla paura, oltre – e, forse, più – che sulla forza. Le immagini e gli slogan veicolati da internet e dalle tv hanno aperto ormai una breccia larga nel muro della paura e portato migliaia di persone nelle strade. Il successo della rivolta dipende, però, da come s’incastreranno le proteste con i punti deboli della “Grande Jamahiriya”che non sono gli stessi della Tunisia e dell’Egitto. Gheddafi si sentiva al sicuro perché i sette milioni di libici hanno il reddito pro-capite più alto della regione: 14mila dollari l’anno secondo le statistiche ufficiali che sono difficili da verificare, sì, ma che non hanno comunque paragone con quella manciata di dollari con i quali è costretta a vivere la metà degli 85 milioni di egiziani. O con i livelli di disoccupazione record dei gio-
La protesta si allarga in Bahrein. E gli Usa temono per la loro base
Ancora sangue e morti a Bengasi Molte vittime per la «giornata della collera» di Laura Giannone ine el Abidine Ben Ali, l’ex rais tunisino fuggito dopo 30 giorni di proteste alla volta di Jedda, in Arabia saudita, è in coma. «Ha avuto un attacco vascolare cerebrale due giorni fa ed è ricoverato in un ospedale saudita» ha confermato ieri un amico della famiglia. L’ex presidente non avrebbe dunque retto agli eventi e sarebbe rimasto vittima di un ictus. Nessuna reazione, al momento, dalla piazza di Tunisi, che aspetta una conferma veramente ufficiale. Il Medioriente, intanto, non accenna a placarsi: nelle ultime 24 ore ore in Libia, Barhain,Yemen, Iran e Algeria si sono registrati numerosi scontri tra manifestanti e autorità dell’esercito. Sono almeno 10 i morti negli scontri i Libia per la Giornata della collera contro il regime di Muammar Gheddafi, dove i manifestanti chiedono un cambio di regime. Secondo i siti dell’opposizione Al Youm e Al Manara, ci sono stati sei morti e Bengasi e almeno quattro nella vicina Al Beida, nell’est del Paese. Le notizie riportate dall’Agenzia France Presse (secondo Reuters i morti sarebbero otto) non possono però essere verificate in modo indipendente. L’invito a manifestare seguendo l’esempio delle rivolte popolari in Tunisia ed Egitto era stato lanciato con un tam tam via Internet, nel quinto anniversario della sanguinosa repressione del 2006 a Bengasi dopo l’assalto al consolato italiano. E a Bengasi, la seconda città libica, hanno manifestato tra gli altri gli avvocati che
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davanti a un tribunale hanno chiesto una nuova Costituzione. Ad Al Beida gli scontri sono scoppiati al termine dei funerali di due giovani uccisi nelle proteste di mercoledì. Il giornale Quryna, vicino al figlio di Gheddafi Seif alIslam, ha confermato solo due morti nella città orientale. In Bahrain un gruppo di manifestanti continua a chiedere le dimissioni del governo. Nella notte la polizia ha reagito sparando gas lacrimogeni e proiettili a pallettoni. Secondo un medico del posto ci sarebbero almeno tre morti e quasi 200 feriti.
«La brutale violenza che abbiamo visto oggi non dà nessuna possibilità per il governo a continuare», ha detto Mohamed Almizal, parlamentare anziano del gruppo musulmano a maggioranza sciita di Al-Wefaq. «È troppo tardi. Un governo che uccide il proprio popolo non è legittimo». Il dissenso in Bahrain, sede della quinta flotta della Marina degli Stati Uniti, segna la diffusione di disordini nel Golfo Persico, dove si produce la maggior parte del petrolio del Medio Oriente. Non a caso proprio ieri Hillary Clinton si è detta «estremamente preoccupata» per il dilagare del dissenso nell’area. Intanto, il NewYork Times rivela che Barack Obama avrebbe commissionato in agosto un rapporto segreto su possibili rivolte nel mondo arabo e che fosse stato messo in guardia proprio sull’Egitto. La domanda allora è: perché non si è mosso in tempo?
vani tunisini. Il petrolio e il gas sul quale galleggia lo “scatolone di sabbia”sembravano la migliore assicurazione della stabilità del suo potere. E la base concreta per realizzare la sua dottrina politica: lo strumento per costruire i pozzi per l’acqua – ne ha fatti scavare 13mila – e per dare cibo e medicine.
Anche aggirando l’embargo che l’Occidente aveva decretato ai tempi di Ronald Reagan e che era stato confermato quando Bush lo aveva messo in cima alla lista dei «Paesi canaglia». Una sicurezza diventata ancora più forte dopo che l’Europa e la stessa America lo hanno sdoganato in cambio della promessa di non spendere più i suoi petrodollari per dotarsi di armi di distruzione di massa o per finanziare il terrorismo e di risarcire le famiglie delle vittime della strage di Lockerbie. Anche il trattato di amicizia con l’Italia, firmato in pompa magna da Gheddafi e da Berlusconi, è stato un tassello dell’operazione-stabilità varata dal colonnello per rafforzarsi. Senza mai abbandonare, però, i tratti caratteristici del regime confermati anche nel discorso al congresso dell’Unione africana. Il sistema libico è «superiore alla democrazia parlamentare», disse in quell’occasione Muammar Gheddafi perché la sovranità – almeno sulla carta – è esercitata dai “comitati popolari”che furono istituiti nel 1977 per dare una parvenza di legittimità al regime autocratico uscito dal colpo di Stato militare del 1969 con il quale l’allora
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il retroscena
Dove sono Mousavi e Karroubi? Nessuno ha più loro notizie. Larijani, capo dell’autorità giudiziaria: «Sono dei traditori» di Luisa Arezzo iamo preoccupate, non riusciamo nemmeno a contattarli per telefono perché tutte le linee sono state interrotte dal governo». Con queste parole, Koukab, Zahra e Narghes - le tre figlie del leader riformista Mir Hossein Mousavi e Zahra Rahnvard (uno dei volti più importanti dell’Onda Verde) hanno lanciato l’allarme sulle sorti dei loro genitori. Il black out vale anche per l’altro leader dell’opposizione, il religioso progressista Mehdi Karroubi, ufficialmente agli arresti domiciliari ma senza alcuna conferma né da parte della sua famiglia né da parte dei suoi collaboratori. Il regime non scioglie i dubbi, anzi. Dopo aver dato l’ordine di impedire qualsiasi contatto fra i leader della protesta e i manifestanti antigovernativi, che venivano chiamati a raccolta da entrambi, ieri ha preso maggior corpo l’eventuale condanna di Mousavi e Karroubi.
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Se fino a 24 ore fa la richiesta di un’eventuale accusa per tradimento dopo la manifestazione del 14 febbraio era stata avanzata solo da alcuni parlamentari, che di fatto non hanno competenza effettiva nell’azione giudiziaria, di competenza della magistratura, ieri a scendere in campo è stato un carico da novanta: il capo dell’autorità giudiziaria iraniana, l’ayatollah Sadegh
giovanissimo colonnello – aveva 27 anni – rovesciò re Idris.
Il principale puntello del potere di Gheddafi, insomma, sono i miliardi in parte spesi, in parte promessi, per dare una casa a tutti e per modernizzare il Paese con altri tre aeroporti, dieci porti, diciotto zone industriali, scuole e ospedali, senza contare la nuova autostrada costiera – 1800 chilometri – che dovrà essere completata come risarcimento italiano dei danni di guerra concordato nel trattato di amicizia. Ma nelle fondamenta del suo regime Gheddafi ha messo anche una buona dose di islamismo da lui stesso pilotato, di panarabismo in salsa mediterranea – con il progetto di unire il Maghreb, che in arabo vuol dire ponente, al Mashrek, il levante – e di bellicosi proclami contro Israele. Una miscela che rende la sua Libia ben diversa dall’Egitto di Mubarak, già grande alleato di Wa-
Larijani. Accusandoli di «tradimento» e di essere sostenuti da «sionisti, Stati Uniti e Regno Unito», Larijani ha detto: «Il tradimento dei capi della rivolta è visibile a tutti. Questo gruppo di Kharavej (persone che si ribellano al potere religioso, ndr.) deve sapere che nonostante la bontà islamica noi non accettiamo che mettano in pericolo il regime». Per poi aggiungere, in un secondo momento: «Chiedo a tutti di permettere alla giustizia di agire nel rispetto della legge e nell’interesse del regime», annunciando poi che «I capi della rivolta devono sapere che non hanno nessun posto nel Paese. La gente lo sa». Purtroppo, negli ultimi giorni si sono moltiplicati gli appelli al regime per un processo rapido e una “punizione severa”contro l’ex premier e l’ex presidente del Parlamento. E proprio contro di questi, sempre ieri, alcuni siti internet collegati
ai gruppi di opposizione iraniani hanno inviato i cittadini a radunarsi domenica in una nuova manifestazione a Teheran e in altre città. La rivolta - come era prevedibile - continua. Karroubi, d’altronde, fino a che ha potuto parlare non ha mai cessato di invitare l’Onda a tornare in piazza, pur consapevole dei rischi: «Per il raggiungimento del mio scopo politico, cioè quello di riportare la libertà nel Paese e garantire l’affermazione dei valori originali della rivoluzione islamica, sono pronto ad affrontare tutto e non mi tirerò indietro».
L’ayatollah ha chiesto mano libera affinché «non venga messo in pericolo il regime» di Teheran
shington, o dalla Tunisia di Ben Ali. Una miscela che, nel suo disegno, dovrebbe metterlo al sicuro e che fa dire agli analisti della Farnesina, come ai bookmaker inglesi, che il regime di Tripoli è il più stabile di quelli investiti dall’onda delle proteste. Eppure i punti deboli ci sono. E, come per Hosni Mubarak o Abidine Ben Ali, sono annidati nelle incognite della successione: la fase più delicata di qualsiasi autocrazia. È vero che Muammar Gheddafi, pur essendo il più longevo raìs del mondo arabo (è in sella da 41 anni), non ha la stessa età di Mubarak o di Ben Ali. Ma è altrettanto vero che, dietro le quinte, la lotta per definire i futuri assetti di vertice è già cominciata. In corsa ci sono due dei sei figli del colonnello che crede di essere l’unico arbitro della gara, ma che dovrà fare i conti con gli altri poteri forti che si chiamano esercito, establish-
da tempo in prima linea nella difesa dell’Onda Verde. La nota turca, oltretutto, ha per Ahmadinejad un valore più che simbolico, essendo Erdogan e il suo governo uno dei suoi più importanti alleati (anche se nel lungo periodo entrerà in contrasto con Teheran per questioni di egemonia regionale). Lo zampino turco, oltretutto, ci sarebbe anche nel (momentaneo) stop delle due navi da guerra iraniane alla volta del canale di Suez. Istanbul, infatti, avrebbe appoggiato il veto dell’Egitto utile a a fermare nelle scorse ore l’ingresso nel Canale delle due fregate dirette in Siria per una missione che sarebbe dovuta essere la prima nelle acque del Mediterraneo dalla rivoluzione islamica del 1979.
Resta il fatto che procedere contro i due leader potrebbe far scoccare la scintilla di non ritorno per l’Iran. E questo Ahmadinejad lo sa.Tanto che al momento preferisce procedere con un unlteriore giro di vite sul popolo riformista: sono centinaia gli arresti di cui viene dato conto dai militanti via web, “solo” 400 secondo il regime. «E tutto questo al netto del fatto che sia Washington che Istanbul hanno chiesto al regime di rispettare il diritto alla libertà di parola e di assemblea e che il presidente turco Gul abbia chiesto esplicitamente di parlare ai dimostranti», commenta Michael Ledeen, mediorientalista neocon della Foundation for defense of democracies
ment e, adesso, anche piazza. I due possibili delfini sono Saif e Moutassem. Molto diversi tra loro. Il graduale passaggio da un’economia pianificata a un sistema, pur blando, di mercato, la decisione di trasferire quote dei profitti petroliferi ai Comitati popolari, la denuncia pubblica – attraverso i media che possiede – della corruzione e l’espressa volontà di dare voce a chi invoca la
già consigliere per la Sicurezza nazionale e interpreta una visione più conservatrice del regime anche se la sua vita privata è più conosciuta perché è stata al centro delle cronache per la recente crisi diplomatica con la Svizzera scatenata dal suo arresto a Ginevra per il maltrattamento dei suoi domestici marocchini seguito, a Natale, dalle botte a sua moglie – la modella ventinovenne Aline
Gheddafi si sentiva al sicuro perché i sette milioni di libici hanno il reddito pro-capite più alto della regione: 14mila dollari l’anno secondo le statistiche ufficiali modernizzazione del Paese hanno fatto di Saif – 38 anni e un dottorato alla London School of Echonomics – un personaggio popolare. Ma che incontra forti opposizioni nell’attuale vertice delle istituzioni preoccupato di perdere potere e affari. Moutassem, fratello maggiore di Saif, è
Skaf – all’hotel Claridge di Londra. Tra Saif e Moutassem sembra in atto una vera faida familiare che ha avuto il suo punto colminante quando Saif, più di un anno fa, riuscì quasi a convincere il padre a richiamare come capo del governo l’ormai anziano Abdessalam Jallud, il “maggio-
re”, uno degli ufficiali protagonisti della rivoluzione del 1969. Jallud era già stato al governo dal 1971 al ’77, diventando di fatto il numero due del regime, ma poi era stato progressivamente emarginato. Un ritorno contrastato e stoppato dall’attuale establishment, ma che dimostra le divisioni del regime che le proteste di piazza potrebbero adesso esasperare. Un’altra fragilità del regime sta nelle rivalità tra le diverse regioni del Paese. Non è un caso che le manifestazioni sono partite da Bengasi che è la seconda città della Libia, dopo Tripoli, ed è il capoluogo della Cirenaica dove è ancora forte la tradizione senussita: Idris al-Mahdi al-Senussi era il re che venne cacciato dalla rivoluzione del 1969. Anche le contrapposizioni tribali entrano nella miscela esplosiva che potrebbe far impazzire la miscela della normalizzazione sulla quale Gheddafi punta per mantenere il suo potere.
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l’approfondimento
Per il presidente dello Iai è ancora presto per parlare di cambiamenti definitivi in Africa e nel Medioriente
La rivoluzione degli sms «Non c’è solo lo scontro fra il popolo e i dittatori, ma anche quello tra giovani che puntano alla globalizzazione e vecchie strutture di potere. La crisi ha fatto il resto. Ma il vero pericolo è l’Iran». L’opinione di Stefano Silvestri di Antonio Picasso
ROMA. «Si tratta sicuramente di una serie di manifestazioni importanti. Tuttavia, è ancora presto per affermare se si tratti di un fenomeno rivoluzionario, dalle conseguenze di lungo periodo, oppure parziali». Stefano Silvestri, presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai), preferisce non sbilanciarsi nel delineare lo scenario che sta attraversando il Medioriente in questi primi mesi del 2011. «È una grande novità, questo è vero», dice ancora Silvestri. «Ma le ipotesi di sviluppo restano tutte da definire». Professore, partiamo dagli ultimi fatti di cronaca. Questa settimana sembra che sia il turno Bahrein, Libia e Iran. Ciascuno sta imboccando la propria rotta. Il regime iraniano, a differenza di quello tunisino oppure egiziano, sta dimostrando la propria compattezza. Come già aveva fatto nell’estate del 2009. A Teheran sussiste una struttura di potere che lega i decisori politici, gli Aya-
tollah e il governo, con i responsabili della sicurezza nazionale, Forze Armate, Pasdaran e Basiji. Si tratta di un elemento che al Cairo e a Tunisi è mancato fin dall’inizio. Mubarak è caduto per mano dell’esercito. Ben Ali è stato abbandonato dalla sua stessa struttura governativa. In Iran non credo che questo sia possibile. La Libia, a sua volta, presenta un assetto demografico-territoriale che impedisce la diffusione del moto rivoluzionario in tutto il Paese. Attualmente le proteste si stanno concentrando a Bengasi, nella Cirenaica.Vale a dire nella regione più abitata. La Tripolitania sta vivendo la rivolta solo in maniera marginale. Il resto della Libia è desertico e poco abitato. Quindi non penso che potrà essere influenzato dagli accadimenti sulla costa. Il Paese è soggetto a una disomogeneità che impedisce la presa di potere o semplicemente l’influenza dell’opposizione. Il caso del Bahrein è completamente diverso. Qui le
possibilità di un cambiamento solo molto più concrete. Sebbene non sia chiaro in che direzione. Certo, il fatto che si tratti di un Paese a maggioranza sciita, ma governato dai sunniti, fa pensare che gli equilibri sociali siano una potenziale fonte di attriti. E quindi di disordini. Come appunto sta avvenendo. Mentre lo Yemen? Sul governo di Sana’a pesa la responsabilità di aver condotto nel modo peggiore possibile la riunificazione tra le Yemen del
La gente è scesa in piazza non inneggiando all’Islam, ma alla modernità
Nord e quello del Sud vent’anni fa. A questo si aggiungono le instabilità che accomunano il Paese al resto del mondo arabo e mediorientale. Povertà, insicurezza e tensioni tribali. In termini generali, quali sono le caratteristiche questa grande ondata di rivolta? Io porrei l’accento su due elementi. Da una parte si tratta soprattutto di una rivoluzione sociale. Le manifestazioni, fin da quelle in Tunisia, sono nate in
seguito a un disagio esistenziale collettivo. Ben Ali e Mubarak non sono caduti solo perché erano due dittatori da troppi anni al potere. Ma soprattutto per la mancanza di apertura dei due Paesi nei confronti del mondo globalizzato. I loro governi erano fuori dagli schemi del mondo attuale. Questo mi porta a pensare che sia la tipologia di regime del mondo mediorientale a essere in crisi. Non le singole realtà nazionali. Il secondo punto risiede nella comunione della cultura araba. Si tratta di un veicolo di trasmissione delle idee che ha facilitato la diffusione della rivolta. Prendiamo la lingua. Il fatto che, dall’Algeria al Golfo persico, si parli un idioma molto simile, si leggano gli stessi giornali e si possa seguire programmi televisivi transnazionali ha permesso che la rivoluzione superasse facilmente i confini di ogni Paese. Siamo di fronte a un nuovo modello di panrabismo?
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L’incognita religiosa e l’influenza di Teheran pesano sulle piazze in rivolta
Al Cairo il rischio islamico c’è. Ma sarà l’esercito a batterlo Non possiamo dire come sia nata la rivoluzione in Medioriente, possiamo solo dire qual è la deriva da evitare per il futuro di Daniel Pipes nche se le cose in Egitto sono andate a finire come molti di noi speravano, le prospettive per il futuro del Paese restano oscure. La parte più emozionante di questa storia è finita, ora arrivano i problemi. Iniziamo con tre dati di fatto molto positivi. Hosni Mubarak, l’uomo forte dell’Egitto che sembrava sul punto di fomentare il disastro, per fortuna si è dimesso. Gli islamisti, quelli che spingerebbero l’Egitto verso l’Iran, hanno avuto un ruolo marginale nei recenti avvenimenti e rimangono lontani dal potere. E l’esercito, che governa il Paese, sia pure da dietro le quinte, fin dal 1952, è l’istituzione meglio attrezzata per adattare il governo alle richieste avanzare dai manifestanti. E ora vediamo i problemi. Lo stesso esercito rappresenta la grana minore. In carica da sessant’anni, ha rovinato il lavoro intrapreso. Ma sono i Fratelli musulmani a rappresentare il problema maggiore. Fondata nel 1928, questa preminente organizzazione islamista evita da molto tempo il confronto con il go-
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verno e si guarda bene dal rivelare l’ambizione di mettere a segno una vera e propria rivoluzione islamica in Egitto. Il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ha articolato questa speranza in tal senso, quando ha asserito che a causa degli sviluppi in Egitto «sta emergendo un nuovo Medioriente senza il regime sionista e l’ingerenza degli Usa». In un’amara valutazione, lo stesso Mubarak ha concentrato l’attenzione su questo pericolo: «Noi lo vediamo con la de-
C’è chi parla di un ritorno al patriottismo: proprio come è già successo in Tunisia mocrazia di cui gli Stati Uniti sono promotori in Iran e con Hamas a Gaza, e questo è il destino del Medioriente (…) estremismo e Islam radicale». Da parte sua, l’amministrazione americana è stata ingenua nel non esprimere tali preoccupazioni. Barack Obama ha minimizzato la minaccia dei Fratelli musulmani, definendoli nient’altro che «una fazione in Egitto», mentre il condirettore dell’intelligence nazionale, James Clapper, ha elogiato senza mezzi termini l’organizzazione come «un gruppo molto eterogeneo, in gran parte secolarista, che rifugge la violenza» e che persegue «un miglioramento dell’ordine politico in Egitto».
Questa assurdità mette in evidenza una politica Usa in preda al caos. Nel giugno 2009, durante una sedicente rivoluzione contro un regime ostile in Iran, l’amministrazione Obama non ha aperto bocca, sperando così di guadagnarsi la benevolenza di Teheran. Ma
con Mubarak, dittatore amico e sotto assalto, Washington ha adottato l’insofferente «Freedom Agenda» di George W. Bush e ha appoggiato l’opposizione. Obama incoraggia i manifestanti di strada, ma soltanto quando questi protestano anche contro i valori occidentali. Per aprire il sistema sarà necessaria una pressione americana, continua e graduale, che riconosca che il processo di democratizzazione implica un’ampia trasformazione della società che richiederà non mesi, ma anni.
Ma che ne sarà dell’Egitto se i Fratelli musulmani assumeranno il comando? Nelle ultime settimane, per le strade egiziane è accaduto qualcosa di straordinario, di imprevedibile e senza precedenti. Un movimento di massa acefalo ha galvanizzato un gran numero di comuni cittadini, come in Tunisia giorni prima. Non è stata rabbia contro gli stranieri, né contro le minoranze egiziane viste come capro espiatorio, e questo movimento non ha nemmeno appoggiato un’ideologia radicale: piuttosto, ha chiesto responsabilità, libertà e prosperità. Mi giungono voci dal Cairo che parlano di una svolta storica verso il patriottismo, l’inserimento, il secolarismo e la responsabilità personale. A conferma di ciò, si prendano in considerazione due sondaggi. Uno studio del 2008 condotto da Lisa Blaydes e Drew Linzer ha rilevato che il 60 per cento degli egiziani sposa le idee islamiste. Ma un Pechter Middle East Poll della scorsa settimana ha riscontrato che solo il 15 per cento degli abitanti del Cairo e di Alessandria «approva» i Fratelli musulmani e circa l’1 per cento dice di appoggiare un presidente egiziano che appartenga a questa organizzazione. Un altro parametro di questo cambiamento sismico consiste nel fatto che i Fratelli musulmani, in ritirata, hanno sminuito l’importanza delle proprie ambizioni politiche, con Yusuf al-Qaradawi che arriva a dichiarare che preservare la libertà degli egiziani è più importante dell’applicazione della legge islamica. La verità in tutta la sua complessità - è che per ora nessuno può dire davvero da dove questa rivoluzione sia nata, quale «mentalità» politica l’abbia generata né dove essa condurrà l’Egitto: quel che solo possiamo dire è che si tratta di una felice realtà «in divenire». Per questo la leadership militare ha la pesante responsabilità di portarla a compimento. Vanno tenuti d’occhio tre uomini in particolare: il vicepresidente Omar Suleiman; il ministro della Difesa Mohammed Hussein Tantawi e il capo di Stato Maggiore, Sami Hafez Enan. Vedremo presto se la leadership militare ha imparato dagli errori ed è maturata, e se si renderà conto che continuare a perseguire i propri interessi egoistici di certo condurrà a un’ulteriore rovina.
Credo di no. Il panrabismo di Nasser, negli anni Cinquanta e Sessanta, nasceva come l’espressione delle esigenze del Terzo mondo e dei Paesi non allineati. Quanto sta accadendo oggi, invece, è il prodotto più schietto della globalizzazione. È una rivoluzione on line e via sms, nata dalle nuove generazioni, che non si indentificano più con la classe dirigente che le governa. Bel Ali e Mubarak hanno pagato lo scotto del loro scollamento epocale dall’attualità. Oserei dire che si tratta di una rivoluzione obamiana. Tuttavia, come ci viene insegnato dalla maggior parte delle rivoluzioni passate, possono emergere elementi negativi e controproducenti agli equilibri internazionali. Cosa dobbiamo temere dal nuovo Medioriente? Al momento, tra tutti i Paesi che sono stati coinvolti nel fenomeno, il solo che si è davvero innovato è la Tunisia. In Egitto, il golpe di venerdì scorso si è limitato a estromettere il vecchio rais. Poi il resto dell’establishment non ha subito alcuna variazione. A Tunisi, invece, il cambio al vertice si è avuto. Le massime cariche delle istituzioni sono state sostituite. Non ci si è limitati alla detronizzazione del vecchio presidente. Questo però non porta a delineare un futuro di stabilità per il Paese nordafricano. Quanto è successo a Tunisi non è sufficiente per definire, già da adesso, uno scenario ottimistico. Detto ciò, io penso che le eventuali preoccupazioni si debbano concentrare sulla mancanza di una leadership, in seno alle singole opposizioni, che sia capace di raccogliere il messaggio trasmesso dalla società civile. Se il potere restasse nelle mani dei militari, oppure di una classe dirigente antiquata, non sarebbe cambiato nulla. I giovani scesi in piazza si sentirebbero strumentalizzati da coloro in cui hanno riposto finora le proprie speranze di apertura al mondo esterno. Questo provocherebbe una maggiore instabilità in tutta la regione, ma soprattutto il moltiplicarsi di casi di Stati falliti. Come giudica la paura della diffusione del fondamentalismo islamico? È un timore dai piedi di argilla. Osserviamo le richieste dei manifestanti. La gente è scesa in piazza non inneggiando all’Islam, bensì chiedendo modernità. Non si è scagliata né contro Israele né contro gli Stati Uniti. Per questo insisto a parlare di rivoluzione sociale e non meramente politica. I partiti islamici hanno affiancato i cortei solo in un secondo momento. Questo non esclude il pericolo. Tuttavia, ridimensiona sensibilmente la preoccupazione per cui il Medioriente sia destinato a cadere nelle mani di regimi teocratici.
diario
pagina 6 • 18 febbraio 2011
La crisi si sente anche in Vaticano
Economist vota Draghi alla Bce
CITTÀ DEL VATICANO. I bilanci finanziari del Vaticano mostrano un quadro complessivo che «pur in presenza di chiari segnali di ripresa, risente ancora delle incertezze del sistema economico globale, ma anche degli accresciuti costi di gestione». È quanto comunica la Santa Sede dopo i lavori, svoltisi martedì 15 e mercoledì 16, della riunione del Consiglio di cardinali sul Bilancio preventivo consolidato 2011 e sul Bilancio preventivo del Governatorato della Città del Vaticano sempre per l’anno in coso. «Ciò appare evidente - si legge nella nota ufficiale diramata - soprattutto per la Santa Sede, la cui insostituibile fonte di sovvenzionamento è costituita dalle libere offerte dei fedeli».
A Roma violentata una turista
LONDRA. Mario Draghi è «la persona migliore per il lavoro di presidente della Bce». Lo scrive il settimanale britannico The Economist spiuegando che c’e’ il rischio che per la poltrona di presidente della Bce si ripeta la storia già vista in recenti nomine europee di mesi e mesi di litigi senza una decisione. Questa volta però, «sia un rinvio sia una soluzione di compromesso sarebbero un disastro». I politici europei quindi dovrebbero «trovare la persona migliore per il posto. Non dovrebbe essere difficile: in una valutazione obiettiva di chi ha l’esperienza appropriata e il giusto temperamento per essere il banchiere centrale leader dell’Europa, un candidato si distingue: Mario Draghi».
ROMA. Nella Capitale è sempre allarme sicurezza: non più nelle zone periferiche della città, ma direttamente nel centro storico. Una turista americana di ventisette anni è stata violentata in una cabina elettrica a Villa Borghese, a un passo da Piazzale Flaminio, da un romeno ventinovenne senza fissa dimora. La ragazza è stata rimorchiata dal suo aguzzino in Piazza della Repubblica, ma la termine di una passeggiata il giovane ha spinto la vittima nella cabina e l’ha violentata. Dopo la violenza, la turista è riuscita a scappare raggiungendo la stazione metro di Piazzale Flaminio dove è stata aiutata e portata in Commissariato. Nel frattempo una pattuglia, avvisata, ha rintracciato e arrestato il violentatore.
Non si placano le polemiche dopo il congresso di Milano. Baldassarri, Saia e Pontone sono pronti a lasciare Fli
Fini attacca i «fuggitivi»
«Se tornano nel Pdl, è solo per il potere finanziario del premier» di Riccardo Paradisi
La crisi dentro al partito di Fini ieri è scoppiata definitivamente. Oltre all’addio di Pontone (che torna nel Pdl) e ai dubbi di Saia e Baldassarri, c’è molta inquietudine in due deputati di spicco di Fli: Adolfo Urso e Andrea Ronchi. Ma entrambi non sarebbero interessati a tornare nel Pdl, piuttosto a trovare uno spazio nel Gruppo misto
segue dalla prima Se però quasi tutti restano in silenzio, anche un po’ imbarazzati, il senatore Maurizio Saia che invece commenta, e duramente, il collasso di Fli: «Finché non si va al voto Futuro e libertà non esiste. Finchè non c’è questa prova sul territorio elettorale credo che la prima preoccupazione di chi governa il partito dovrebbe essere quella di tenere tutti i pezzi insieme».
Invece Fini ai dissidenti non invia nemmeno un sms per tentare la mediazione, anzi nel tardo pomeriggio consegna alle agenzie un editoriale che stamattina pubblica il Secolo d’Italia che suona come un feroce benservito al pezzo di classe dirigente che si sta staccando da lui. «Sappiamo che il nostro è un progetto ambizioso e quindi difficile. Ma soprattutto sappiamo che va spiegato agli elettori più che agli eletti: ne consegue che è nella società che Futuro e Liberta’dovrà sviluppare le sue iniziative. E solo quando si apriranno le urne, accada tra poche settimane o tra due anni, sapremo se avremo vinto la nostra battaglia». Fini nega che Fli possa virare a sinistra, parla genericamente d’un progetto di destra alternativa a quella berlusconiana, ma non lo spiega. In compenso è molto realista su quanto potrebbe avvenire nelle prossime ore: «Le polemiche e le divisioni esplose dopo l’Assemblea Costituente di Milano hanno creato sconcerto in quella parte di pubblica opinione che ci aveva seguito con attenzione e ovviamente fanno gioire i sostenitori del Presidente Berlusconi, che già immaginano di allargare la fragile
maggioranza di cui godono alla Camera. Ipotesi verosimile, vista l’aria che tira nel Palazzo e le tante armi seduttive di cui gode chi governa e dispone di un potere mediatico e finanziario che è prudente non avversare direttamente». Amareggiato, persino pessimista, ma determinato a proseguire sulla sua strada. Che dalla linea della fermezza non l’avrebbe fatto recedere il rischio di perdere uomini e gruppi del resto Fini lo aveva fatto capire molto chiaramente del resto già nei giorni scorsi, attraverso Italo Bocchino: «l’organigramma è quello stabilito. Se a qualcuno non aggrada libero di andarsene. Se si perde il gruppo al Senato non è poi un dramma». La repli-
ca di Saia è dello stesso tenore della polemica di Viespoli e degli altri senatori: «La rotta impressa dopo il congresso, al contrario di quanto sostiene Fini, non era affatto quella concordata a Milano, nel partito si sono sminuite le posizioni più moderate» Altro che fisiologica dialettica innescata da una corrente di minoranza dunque, come diceva ancora l’altro ieri Carmelo Briguglio, un altro dei falchi finiani usciti rafforzati dal congresso di Milano. A tenere alta ancora la bandiera finiana al senato è Giuseppe Valditara: «La scelta di Fini – dice il senatore – non è stata casuale e sono certo che saprà guidare il partito nel solco del centrodestra europeo, moderato e
democratico che il Pdl non è in grado di costruire». Anche se tra i senatori di An, ancora indecisi, c’è chi ricorda a Valditara che nemmeno mezza parola è stata detta dai vertici di Fli contro l’ipotesi di santa alleanza antiberlusconiana anche con la sinistra e oltre il terzo polo. Lo stesso Viespoli, molto provato da questi giorni di acuta tensione interna al partito, è in odore di addii. Chi lo conosce bene garantisce che avrebbe già preso la decisione finale ma che attenderebbe, anche per questioni di responsabilità e di stile. Alla tentazione di Viespoli di tornare nel Pdl concorrerebbe anche una circostanza minore ma importante. Ossia la probabile fuoriuscita dal Pdl
della beneventana Nunzia di Girolamo avversaria locale di Viespoli – già sindaco di Benevento – che consentirebbe all’attuale presidente dei senatori Fli un rentrè nel territorio da assoluto protagonista.A proposito di territorio e di voti. Quello che dentro Fli non si capisce è per quale motivo Fini non faccia davvero nulla per arginare l’emorragia di voti. InsommaViespoli è un uomo che sposta consensi notevoli, lo stesso Menardi, che è stato sindaco di Cuneo, controlla voti e consenso. «Fini non se lo pone il problema dei voti?» Ci si domanda tra i futuristi e tra gli oservatori, considerando anche che i sondaggi, soprattutto al nord, non sono affatto incoraggianti per Fli. E poi
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Milleproroghe: manine nei nostri portafogli
Affitti low-cost al Trivulzio, dove c’è Pdl c’è casa MILANO. Ex segretari di partito, onorevoli, ex assessori e consiglieri comunali, e ancora figli, parenti e amici al seguito. Fioccano i nomi dell’affittopoli lombarda che a lungo il presidente del Trivulzio, Emilio Trabucchi, aveva tenuto al riparo dell’anonimato. E dire che lo storico Pio Albergo nacque nel 1771 nell’intento di accogliere i poveri. Più di mille alloggi destinati a cittadini non proprio indigenti: dal consigliere comunale del Pdl Guido Manca, ex assessore alla Sicurezza del centrodestra e presidente di Metroweb (canone di 5015 euro annui per 70 metri quadrati), al nipote di Francesco Cossiga, Piero Testoni, parlamentare del Pdl eletto in Sardegna. (8.438 euro per un’abitazione di 83 metri quadrati). Un terzo appartamento è stato locato a un tal Alessandro Manca, che sembra essere però solo
va bene il partito leggero, la società civile, la priorità degli elettori sugli eletti: ma Fli non era il partito che si batteva anche contro l’antipolitica berlusconiana? Se al Senato Fli collassa alla Camera le cose non vanno troppo meglio. Anche qui le ferite inferte dalle decisioni di Fini sul corpo moderato del partito cominciano a fruttare conseguenze e reazioni. In volo verso il Pdl ci sarebbero già due deputati Fli. Uno è Luca Barbareschi, le cui evoluzioni, già da giorni, preludevano a un riapprodo nella vasta area berlusconiana, ma verso questi lidi starebbe navigando anche Scalìa, deputato siciliano compagno di immersioni di Gianfranco Fini negli azzurri fondali marini sicani.
La situazione è più complessa e più drammatica per Adolfo Urso e per Andrea Ronchi viceministro il primo e ministro il secondo che avevano rimesso nelle mani di Fini, a Bastia umbra i loro incarichi, investendo tutto nel progetto di Fini. Ecco, mentre per Ronchi si prevede un lungo periodo di smarrimento politico ed esistenziale – lo si dà per traumatizzato dal cinismo che Fini avrebbe avuto nei suoi confronti – Urso, dopo tre giorni di silenzio, avrebbe ricominciato a ragionare e parlare seppur discretamente. Si ipotizza per lui un iniziale approdo al gruppo misto anche se si parla di una telefonata che gli sarebbe stata fatta dal ministro per le attività produttive Romani. Il quale al colonnello finiano avrebbe detto testualmente così: «Tu lo sai Adolfo che il tuo posto da viceministro è sempre disponibile, quella è ancora la tua scrivania». Alla cortesia Urso avrebbe risposto prendendo tempo e lasciando la porta socchiusa: «Sto riflettendo, finalmente però la mia angoscia è finita. Oggi sono libero di decidere, di pensare e di fare». Segnalato come molto inquieto in Fli anche Roberto Rosso, ex Pdl irriducibile alla piega violentemente antiberlusconiana presa da Fini. Rosso, come riferiscono fonti parlamentari, dovrebbe avere contatti tra breve con Denis Verdini incaricato, tra gli altri, di lavorare per
g i u d i z il e t t e r ep r o t e s t es u g g e r i m e n t i
un omonimo del figlio di Guido. E c’è poi, in via Moscova 25 la casa di 128 metri quadrati affittata a Luciano Buonocore, cofondatore del Pdl e presidente del consiglio comunale di Peschiera Borromeo. E ancora, last but not least, Domenico Lo Jucco, ex di Publitalia, vicino a Dell’Utri e tra i fondatori di Forza Italia Il suo ultimo contratto scaduto nel 2009 prevedeva poco più di 10mila euro annui per 121 metri quadrati.
raggiungere quota 325 e ripianare le situazioni, soprattutto in commissione Bilancio e Affari costituzionali - certo è che qualcosa s’è rotto in profondità tra Fini e gran parte della sua classe dirigente storica.
E Romani chiama Urso: «Caro Adolfo, torna: al ministero c’è ancora pronto il tuo ufficio»
Dall’alto: Fini e i due senatori «dissidenti» Pontone e Baldassarri. Nella pagina a fianco, Andrea Ronchi
E forse questo divorzio Fini lo aveva messo in preventivo con la decisione di nominare capogruppo alla Camera un ex radicale laicista come Benedetto Della Vedova e vicepresidente del partito Italo Bocchino. Grande organizzatore quest’ultimo ma molto inviso all’interno del partito e ritenuto il suggeritore di certi avventurismi finiani. Fughe in avanti di cui cominciano a preoccuparsi anche a Bruxelles i deputati finiani europei. I quali, capitanati da Cristiana Muscardini hanno già avvisato Fini che in caso di mancata ricomposizione dei contrasti e degli equilibri interni al partito se ne vanno anche loro. Una situazione in ebolizzione su cui oggi la segreteria politica di Fli, convocata alle 13 di oggi a Roma, dovrà fare una riflessione. Certo è una strana segreteria. Politologi, urologi, avvocati, esperti di politiche ambientali, imprendtori, ma nemmeno un politico. L’ha voluta così Fini, spiegano i futuristi più didascalici, per dare un segno d’apertura verso la società civile. Anche se i più critici danno una versione più maliziosa, ossia che il leader futurista abbia voluto un organismo consultivo più che un esecutivo politico. In linea con un partito suprleggero e super personale pronto a volare secondo ciò che tattica detta.
Un hamburger di provvedimenti che mette le mani in tasca agli italiani, nonostante le dichiarazioni contrarie del presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Così potremmo definire il cosiddetto decreto Milleproroghe. Facciamo alcuni esempi. Si tassa di un euro il biglietto di ingresso ai cinema, ed è la prima mano in tasca; sono però esclusi quelli parrocchiali, il che significa un’alterata concorrenza tra sale cinematografiche alla faccia dello spirito liberale cui si richiama, a parole, questo governo. È previsto il condono per i manifesti abusivi dei partiti, il che vuol dire che le procedure messe in campo dalla polizia municipale, la copertura e la rimozione dei manifesti abusivi, con i relativi costi, non avranno ragione di essere. Dunque, i soldi pubblici, cioè dei contribuenti, spesi per combattere l’abusivismo elettorale sono stati spesi inutilmente.Viene, inoltre, consentito, ai comuni con più di un milione di abitanti, di aumentare gli assessori di 4 unità e ai consigli comunali di confermare i 60 consiglieri: soldi pubblici, cioè del contribuente, per mantenere in piedi e aumentare le spese“istituzionali”. Meno male che il presidente del Consiglio aveva dichiarato che non avrebbe messo le mani in tasca agli italiani. Queste mani che si intrufolano nel portafoglio degli italiani come le vogliamo chiamare? Manine, così da entrare meglio tra le pieghe del portafoglio?
Primo Mastrantoni
“CAROTA E BASTONE” Una cosa buona e una cattiva emerge dalla fiducia ottenuta dal governo per il cosiddetto decreto “Milleproroghe”: 1) il via libera alle norme per i terremotati dell’Abruzzo è senza dubbio l’apertura di una stanza ariosa per le speranze di una terra martoriata dagli eventi naturali; 2) l’aumento anche se esiguo di un euro per il biglietto del cinema non può risolvere i problemi della cultura e dello spettacolo, e soprattutto non a carico dei cittadini.
Br
L’IMMAGINE
Slalom estremo La solita puntatina in montagna del weekend non gli bastava più, così Andrew McLean di Park City (Utah), noto come il re dei ghiacci, si è inventato un passatempo più “elettrizzante”: sciare sugli iceberg FARE MEGLIO È POSSIBILE Sono d’accordo con il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, quando afferma «Che fare meglio è sempre possibile»; e lui c’è riuscito anche nel difficile settore dei conti della sanità. Ha economizzato lavorando su aspetti di spesa legati ad una migliore organizzazione aziendale, senza minimamente incidere sui servizi sanitari offerti a noi cittadini, che oggi abbiamo la prova di poter contare su una gestione della sanità più attenta ai costi, ma prima di tutto attenta alle nostre necessità di salute.
Fabio Ceschin - Treviso
L’IDEALISMO SENZA PRAGMATISMO È LETALE Secondo me il principio che se uno è un profugo va assolutamente accolto è sbagliatissimo. Questo è idealismo puro completamente staccato da qualsiasi pragmatismo. Ora l’invasione viene dalla Tunisia, domani dall’Algeria, e perché no dall’Egitto, dal Marocco, ecc. La conseguenza sarà l’uscita di molti Paesi confinati da Schengen con chiusura delle frontiere. Chiedo agli illuminati della sinistra: come potremo integrare quest’orda islamica? E questi accolti, fra non molti lustri, quando saranno la metà della popolazione residente, festeggeranno l’Unità d’Italia o saremo noi costretti a festeggiare l’anniversario di nascita di Maometto? Dio mi fulmini se voterò a sinistra!
Eddy
SCUOLA CON ARIA TOSSICA Da 19 giorni consecutivi circa 200 bambini respirano l’aria tossica registrata da una centralina Arpav situata nel giardino della loro scuola. Una media di 110 microgrammi al metro cubo d’aria al giorno di polveri sottili accompagnano studi e giochi all’aria aperta di una fascia di popolazione che risulta la più danneggiata dalle polveri sottili, che, con il respiro, trasportano all’interno dei polmoni le sostanze cancerogene contenute nelle polveri fini e ultrafini. Cosa aspetta il sindaco di Padova a dare risposte d’emergenza a una situazione d’emergenza sanitaria?
Maria Grazia Lucchiari - Padova
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a fede, il futuro della Chiesa, le attese delle persone, il rapporto con la società, la cultura e la politica, il pontificato di Benedetto XVI, la tradizione e il rinnovamento. E poi la liturgia, la vocazione e il ruolo dei sacerdoti, le loro fatiche e speranze quotidiane, i tanti, diversi rapporti umani e i momenti - anche ricercati - di solitudine e silenzio.Temi da specialisti, forse, ma liberal ha deciso di parlarne a partire dall’esperienza concreta, incontrando e mettendo a confronto due giovani preti italiani impegnati nel lavoro pastorale. Si tratta di Don Danilo Galliani, ligure, 36 anni, parroco di Laigueglia, provincia di Savona e diocesi di Albenga-Imperia, e di Don Marco Statzu, 31 enne, sardo, parroco di una cittadina del Medio Campidano dal pittoresco nome di Gonnosfanàdiga, nella diocesi di Ales-Terralba. Due tipi combattivi, a loro agio nel dibattito sui grandi temi della contemporaneità, che però non ammiccano a facili giovanilismi. Avvicinandoli, poi, si è subito colpiti dalla naturalezza con cui vivono lo stato sacerdotale: aspetto da ragazzi dei nostri tempi, viene da pensare che avrebbero potuto fare anche tutt’altro nella vita, e che la vocazione non deve essere stata né una fuga né un ripiego. Gli stereotipi da sagrestia non sembrano riguardarli, anche se entrambi sono fortemente “sacerdoti”, e non lo dissimulano. Per stile, accenti e sensibilità appaiono diversi, ma a ben guardare li si scopre uniti nella visione dell’essenziale, nelle ragioni profonde, nelle preoccupazioni per la fede e per la Chiesa. In altri tempi sarebbero stati probabilmente predestinati a importanti carriere gerarchiche: ne hanno le qualità, il profilo e l’importante bagaglio di studi romani.
L
E invece stanno in parrocchia, pastori con il dottorato, e anche questo è indicativo della qualità media del clero giovane di oggi, troppo spesso biasimato non solo per la poca virtù ma anche a causa della insufficiente preparazione. «La mia vocazione è nata in parrocchia, chierichetto fin da bambino, affascinato dal mio vecchio parroco, oggi novantenne. In famiglia preti e chiesa erano tenuti a distanza, ma io sono entrato in seminario a 15 anni. Ho stimato la passione di molti miei formatori, e ho sofferto l’incapacità di altri. Ogni esperienza mi è servita», dice Don Danilo. «Io ho scelto il seminario a 19 anni, dopo il liceo» racconta don Marco. «Sono cresciuto in una famiglia non particolarmente devota, ma ho avuto la fortuna di conoscere fin da piccolo sacerdoti in gamba, che mi hanno mostrato la bellezza di questa strada. Gli anni di preparazione sono stati intensi. Le prime parole che il mio Rettore mi disse furono: “Marco, ricorda che il prete è un homme mangé”(un “uomo consumato”, n.d.a.). Cerco di non dimenticarlo mai». Si coglie già in questi flash iniziali il peso degli incontri dell’infanzia e dell’adolescenza, ciò che illumina per tutti e due il “ruolo” del prete nei suoi aspetti irrinunciabili: «È vero, il mio parroco e i miei formatori, mi hanno fatto capire che il nostro ministero serve a rendere presente Cristo», si appassiona il ligure Galliani. «Il sacerdozio è l’amore di Gesù per indicare il Cielo anche ai più distratti. Di questo la gente ha bisogno, anche se sembra domandare altro. Si disperdono energie e preoccupazioni in mille iniziative ed esperimenti, invece poi ti rendi conto che le persone - anche le più “lontane” - si aspettano di trovare
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Don Marco e don Danilo hanno fatto studi teologici a Roma ma guidano piccole p
Confessione di du La fede, la Chiesa, la società e la politica: l’Italia di oggi vista dalle lenti di due giovani preti. Che rivendicano con orgoglio la propria scelta di Francesco Iacobini in noi profonda umanità, quella troppe volte dimenticata o tradita da relazioni superficiali e frettolose. E desiderano ascoltare il “punto di vista di Dio” sulla vita, sulla morte, sulla storia. Si fanno troppe chiacchiere e poco silenzio, invece: è la nostra Babele». «I singoli si aspettano tutti qualcosa di diverso da un prete - interviene don Marco - e spesso cose lontane da quel che io come prete debbo dare. Ma è vero che tutti più o meno cercano una guida, anche se talvolta è faticoso farsi guidare… Ecco perché riservo grande priorità all’incontro personale, per favorire appunto l’incontro personale con Dio. Questo mi pare fondamentale, per il resto non mi considero un grande animatore e non so giocare neppure a calcio...». Sia Don Marco che Don Danilo sono diventati parroci dopo anni di“tirocinio”a fianco di preti più anziani ed esperti. «A Gonnosfanàdiga
cerco il coinvolgimento attivo delle persone», dice don Marco. «Non sono cresciuto nei Movimenti ecclesiali, e sono impegnato a rispettare tutte le esperienze e a fare l’unità. Non nascondo, tra l’altro, di non amare quei Movimenti che si atteggiano a sette segrete o a club elitari. Per me al centro c’è la comunità nel suo insieme, a cui propongo di incontrare Gesù nell’Eucarestia, di partecipare
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Se siamo poveri, o almeno non attaccati ai soldi, e se alle parole cerchiamo di far corrispondere sempre più i fatti, allora siamo credibili davvero
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alla Liturgia della Parola, al canto, all’animazione del culto, alla catechesi e alla carità. In generale, direi che se siamo uniti nelle cose necessarie, siamo credibili. Se siamo poveri, o almeno non attaccati ai soldi, e se alle parole cerchiamo di far corrispondere sempre più i fatti, allora siamo credibili». «Non mi convincono molto certi slogan - afferma don Danilo - la Chiesa è sacramento di salvezza per tutti, Dio preferisce gli umili, ricchi o poveri che siano, e la retorica sulla povertà tende appunto, il più delle volte, a essere solo una retorica. Per la fede, l’Eucaristia è la sorgente di tutto, da lì si parte, e lì occorre condurre i fratelli. Anche nella mia Laigueglia c’è un livello “classico” del lavoro pastorale, in parrocchia, per i fedeli che sono rimasti. Ma oggi c’è pure l’impegno dell’evangelizzazione nuova, missionaria, che superi i confini dell’oratorio. Io sono cresciu-
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parrochie in Liguria e Sardegna. Con o senza talare, senza nascondere nulla di sè
ue sacerdoti to nell’Azione Cattolica (che non era certamente più quella di Pio XII, ma nemmeno ancora quella delle bandiere arcobaleno) e attualmente sono animatore diocesano dei Cursillos di Cristianità, per cui credo nella forza dei Movimenti, facendo ovviamente attenzione alle schegge impazzite. Cerco inoltre di sviluppare la catechesi, di proporre occasioni culturali, concerti, e l’impegno nella vicinanza ai bisognosi. E poi c’è la liturgia, alla quale riservo il massimo di amore, cura, attenzione, affinché sia chiaro che non celebriamo noi stessi, le nostre idee o le nostre vanità. La liturgia educa davvero».«Da me la liturgia è celebrata con attenzione all’armonia e alla bellezza - precisa don Marco - ma sempre con grande semplicità, che è un suo aspetto chiave. Non mi appassiona la disputa sui lefebvriani o sul rito tridentino, anche se Papa Benedetto deve guardare alla chiesa universale e si preoccupa giustamente di tutti. Però c’è anche di mezzo un Concilio, e noi dobbiamo sforzarci di applicarlo nei suoi intendimenti, che sono appunto semplicità, povertà, ritorno all’essenziale, profezia, e pure il tentativo di decentralizzare le funzioni del governo ecclesiastico, a partire dal ministero di Pietro. Io voglio bene al Papa, ma la Chiesa è troppo concentrata sul suo ufficio. Gesù aveva scelto dodici apostoli, non un Amministratore delega-
to».Don Danilo non condivide certa enfasi sul Concilio Vaticano II: «No, perché là dove è stato interpretato come discontinuità, rottura, rivoluzione, svolta radicale, ha provocato infinite distorsioni. Ecco perchè ammiro l’opera di Papa Benedetto per accrescere la comunione e riappacificare la Chiesa, dopo decenni di vendetta perpetrata contro il passato». Dalle loro parole si percepisce come questi due sacerdoti siano molto concen-
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Ammiro l’opera di papa Benedetto per accrescere la comunione e riappacificare la Chiesa, dopo decenni di vendetta perpetrata contro il passato
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trati sulla cura d’anime, mentre le preoccupazioni per la cosiddetta“animazione cristiana della società” li trovano più prudenti, se non freddi. Don Marco nega: «Non è vero, io penso che per il principio dell’Incarnazione il cristiano non è tale per sè stesso, ma per essere sale e luce del mondo. Se manca questo, non si è cristiani, è semplice. Però vedo
anche tante iniziative della Chiesa che mobilitano cospicue energie al vertice e poi faticano a comunicarsi alla base. Il mio tempo, allora, preferisco dedicarlo ai singoli miei parrocchiani, più che a ispirare chissà quali forme di impegno e presenza pubblica. Del resto, la politica mi pare in vera sofferenza: si parla tanto del contributo dei cattolici in essa, ma alla fine dove sta questo apporto, dove sono questi cattolici?».
«Oggi un prete deve preoccuparsi soprattutto del ritorno all’essenziale, cioè donare Cristo», chiosa Don Danilo. «Le condizioni per l’impegno culturale, sociale e anche politico dei cristiani torneranno forse quando saremo riusciti a reimpostare un’azione educativa su larga scala. Ci vorrà tempo, e penso che il mio compito, adesso, abbia a che fare soprattutto con i fondamenti della fede». Entrambi hanno un rapporto equilibrato con i superiori, col vescovo diocesano e con Roma, intesa come città del Papa e vertice della Chiesa Cattolica. «Sì, il vescovo è mio padre - afferma sereno Don Marco - e come con il proprio padre, anche con lui talvolta ci sono visioni differenti, ma sempre conciliabili. Mons. Giovanni Dettori mi ha affidato alcuni incarichi delicati (tra l’altro, la direzione dell’Ufficio Catechistico Diocesano, n.d.a.), e ciò significa che ripone fiducia in me, almeno quanta io ne ripongo in lui! Per quanto riguarda Roma, vi ho abitato quattro anni, ma in Vaticano ci sono andato cinque o sei volte in tutto, e non perché non ne avessi la possibilità». «A Roma ho trascorso cinque anni in un seminario internazionale - risponde don Danilo - vi ho frequentato le Università Pontificie… Quanta ricchezza spirituale e culturale! E poi Gesù è nato sotto Ce-
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sare Augusto, vissuto sotto l’imperatore Tiberio, morto sotto il governatore romano Ponzio Pilato. Pietro predicò e morì martire a Roma, come Paolo. Noi tutti, quindi, siamo cittadini romani, e Roma è un po’ un faro da cui non si può prescindere, perché educa soprattutto a capire la Chiesa nel suo mistero e nel suo insieme. Anche per questo nel mio vescovo, mons. Mario Oliveri, vedo riflessa la mia comunione con la Chiesa Universale, e in lui ho sempre avvertito paternità, sollecitudine, esempio». «A volte ci è indispensabile un po’ di silenzio, di solitudine, perché in mezzo a tante attività si rischia di perdere sé stessi, il rapporto con Dio e la preghiera. E anche il celibato, in fondo, cui molti guardano con stupore e incredulità, diventa possibile solo se Dio resta davvero al centro della vita, se questo Amore è più grande di tutto. Il celibato grida al mondo che questo Dio-Amore c’è e che è possibile, in ogni epoca, vivere totalmente di Lui e per Lui», dicono praticamente all’unisono. Della “generazione Wojtyla”, cui appartengono per anagrafe, Don Danilo e Don Marco non hanno gli entusiasmi da Giornata della Gioventù, ma conservano di sicuro l’approccio vigoroso, l’attitudine al parlar chiaro e il rifiuto delle facili classificazioni tra “destra” e “sinistra” ecclesiastica. «Cristo è “attraente” perché ci fa conoscere la Bellezza autentica, e perché attirandoci alla sua Croce ci attira a sé, al suo amore. A me pare che la più grande avventura sia questa», non dubita il ligure Galliani.
«La Chiesa non deve strizzare l’occhio al mondo, ma predicare Cristo, Cristo Crocifisso. Il nostro compito, che coincide con la nostra vita, sta tutto qui». «Sì, la franchezza è fondamentale, e il dialogo con il mondo sta in questo, non in una serie di convenevoli» interviene il sardo Statzu, che tra l’altro cura un blog (www.maioba.blogspot. com). «La nostra identità - conclude - è data anche da un “tu”, senza il quale io non posso dire “io”. Sono per un cristianesimo non moralistico, capace di parlare di risurrezione, riscatto, liberazione, salvezza dal male e dal peccato, oggi mascherati da cose apparentemente neutre. Detesto il moralismo, e una Chiesa dei “No”, perchè la nostra fede è promozione, esaltazione, elevazione, guarigione. Detesto anche il pour parler. Preferisco semmai il silenzio dei monasteri». La conversazione volge al termine, e questi due giovani uomini, sacerdoti per passione e chiamata, sono quasi stupiti di aver potuto parlare senza il solito fuoco di fila di domande sulla politica e sul sesto comandamento. Sorridono entrambi: Don Marco nei suoi abiti “civili”, unico segno di distinzione un quadratino bianco che chiude la camicia blu, l’aria sobria ma non certo sbracata; e Don Danilo, invece, nella sua lunga talare nera, una fila di bottoni e il colletto romano piuttosto alto, portati con naturalezza e senza esibizione. A incontrare e ascoltare preti così, viene da pensare che il Vaticano, forse, può tirare un sospiro di sollievo. La crisi c’è, gli scandali emersi hanno pesato e pesano, ma esistono anche energie reali, motivate e ben preparate alle sfide. Forse, oltre a preoccuparsi della statistica e delle cifre, occorre tornare a cercare le esperienze concrete, e dare la parola a chi ha vite autentiche da raccontare.
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grandangolo L’Ocse analizza i dati del Pil dei Paesi occidentali
L’Italia senza crescita è l’ultima ruota del carro G7 L’allarme dell’Organizzazione rischia di far cambiare i programmi a Tremonti e di accelerare le misure da prendere per rilanciare lo sviluppo. Ma a testare il nuovo corso del ministro ci sono anche le Regioni: chiedono di stanziare i 400 milioni di euro promessi per il trasporto pubblico locale. «Altrimenti salta il federalismo fiscale» di Francesco Pacifico
ROMA. Ieri si è aperto al ministero dell’Economia il tavolo che – parola di Berlusconi – dovrebbe rimettere in moto il governo e l’Italia. Una cabina di regia dove il convitato di pietra è stato, soprattutto, la debolezza dell’Italia, in una congiuntura mai come in passato difficile per le economie più sviluppate. Per non parlare delle pressioni delle governatori che, volendo testare il nuovo corso tremontiano, hanno chiesto di aprire il cordone della borsa e di concedere in tempi rapidi 400 milioni per il trasporto pubblico locale. Altrimenti sono pronti a far saltare la parte di federalismo fiscale, che dovrebbe riscrivere l’imponibile delle Regioni.
Lo scenario per il Belpaese si fa sempre più tetro. Confermando le stime già diffuse dall’Istat, l’Ocse ha confermato che l’Italia avanza come una lumaca in un quadrante occidentale che gode ancora di pessima salute e fa fatica ad agganciare la crescita. Nel quarto trimestre del 2010 il Pil dei Paesi maggiormente sviluppati ha registrato un tasso di sviluppo dello 0,4 per cento rispetto al +0,6% del trimestre precedente. E se gli Stati Uniti tirano l’area con un +0,8 per cento superiore al +0,6 del periodo precedente, l’Italia la zavorra con un tasso di espansione pari allo 0,1 per cento, peggiore del +0,3 del terzo trimestre. Come ha chiarito l’Istat, il dato è dovuto soprattutto al rallentamento del rimbal-
zo che ha penalizzato l’attività industriale, soltanto in parte assorbito dalle discrete performance dell’agricoltura e dei servizi. In ogni caso l’organizzazione di Parigi calcola per l’Italia un aumento del Pil in tutto l’arco del 2010 pari al +1,3 per cento. Cioè due decimali in più di quanto quantificato dall’Istat. Una magra consolazione, soprattutto se si confrontano come si sono mossi i nostri più diretti concorrenti. Forte delle commesse conquistate in Asia dai suoi colossi e dagli ingenti incentivi alle aziende la Germania chiude con un +0,4 per cento contro il +0,7 del trimestre
Vasco Errani chiede garanzie per evitare l’aumento delle tasse e boccia il Milleproroghe che lede i poteri delle autonomie precedente. Un dato che potrebbe anticipare una tendenza non positiva per un Paese che – stando a quanto dichiara la Cancelleria – nel 2011 crescerà prevalentemente con la domanda interna. La Francia invece conferma il +0,3 regi-
strato anche luglio e settembre. Ma lo fa soprattutto grazie ai consumi, spinti da incentivi che hanno fatto schizzare il deficit/Pil al 7 per cento. In Europa – ancora una volta debole con un generale +0,2 per cento, va segnata la caduta della Gran Bretagna, che dopo i rimbalzi degli scorsi mesi, segna un -0,5 per cento dovuto alle brutte condizioni climatiche che hanno avuto effetti negativi su costruzioni e servizi. In ogni caso l’Europa e tutte le economie mature devono correre ancora molto per tornare ai livelli precedenti alle crisi. Soffermandosi sull’Italia Giampaolo Galli, direttore generale di Confindustria, però consiglia di «non guardare ai dati trimestre per trimestre ma alle tendenze di medio termine che vengono in qualche modo confermate dai dati Ocse, che vedono un trend di crescita dell’Italia inferiore a quello di quasi tutti gli altri paesi Ocse». Di conseguenza, «le prospettive congiunturali per l’Italia risultano essere in lieve miglioramento». Questo miglioramento rischia di essere uno dei fattori determinanti nella tenuta del governo. E non pochi riflessii ci sono stati già ieri al tavolo economico presso il ministero del Tesoro, al quale partecipano tutti i ministri economici (Renato Brunetta, Altero Matteoli, Paolo Romani e Maurizio Sacconi). Ufficialmente Giulio Tremonti attende da loro idee e progetti per il piano della crescita che il titolare del Tesoro deve
presentare a Bruxelles entro il 15 aprile. In realtà la difficoltà con la quale sta reggendo il mondo delle imprese – nell’ultimo quadrimestre male l’industria, un po’ meglio agricoltura e servizi – spinge i suoi partecipanti ad accelare alcuni dossier che potrebbero quanto meno aumentare la fiducia delle aziende e dei consumatori. Ieri mattina in via XX settembre è stata fatta un po’ una ricognizione delle cose da fare e delle priorità. Quindi si è passati alle misure per rafforzare le misure prese da Renato Brunetta per riformare la pubblica amministrazione. E si scioglierà il dubbio se celebrare il 17 marzo il 150° anniversario dell’Unità d’Italia lavorando oppure chiudendo scuole, fabbriche e uffici. Soprattutto si darà una spinta alla corsa al nucleare. Ai colleghi Paolo Romani avrebbe illustrato il decreto legislativo che disciplinerà la localizzazione, la realizzazione e l’esercizio nel territorio nazionale delle centrali e dei depositi degli stoccaggi, oltre agli incentivi per le popolazioni interessate e per le campagne informative al pubblico. Per la prossima riunione del tavolo, fissata il 24 febbraio, è stato deciso di chiudere la parte che riguarda il piano delle infrastrutture, dando precedenza a quelle che riguardano il Sud, «vero problema nazionale» secondo Tremonti. Tra una settimana anche spazio alle norme per accelerare i lavori su infrastrutture prioritarie come la Salerno-
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Le radici della mancata crescita sono profonde e posano su problemi mai affrontati
Questi dati bocciano il governo, non l’economia di Carlo Lottieri uella diffusa ieri dall’Ocse non è proprio una notizia. Si tratta semmai di una conferma, dato che oggi l’Italia cresce meno degli altri Paesi industrializzati (nell’ultimo trimestre del 2010 è stata solo dell’0,1%), in una fase ancora segnata dalla crisi finanziaria del 2008, esattamente come succedeva in precedenza. Da più parti s’invita il governo a fare qualcosa e lo stesso governo, negli scorsi giorni, ha provato a giocare la carta del rilancio economico anche per spostare il dibattito politico lontano da giudici e festini a luci rosse. Il ministro Giulio Tremonti ha presentato un piano che, però, non ha convinto nessuno, perché sembra evadere troppe questioni urgenti: a partire dalla necessità di privatizzare e liberalizzare. Su un punto Tremonti ha certo ragione, quando sottolinea che per crescere l’Italia bisogna affrontare sul serio la questione meridionale. Per giunta, sembra che il ministro dell’Economia punti a ottenere il consenso europeo per fare del Sud un’area a ridotta tassazione, al fine di attirare investimenti da fuori e stimolare le energie locali. L’idea è giusta (nel libro scritto a quattro mani con Piercamillo Falasca si suggeriva proprio di fare del Meridione una “no tax area”, sostituendo gli aiuti statali con una generale detassazione degli utili delle imprese), ma ha bisogno di tempi lunghi per l’implementazione. E nel frattempo?
Q
Reggio Calabria e il Mose di Venezia. Matteoli, poi, ha già annunciato un pacchetto corposo che integri quanto fatto nel piano di rilancio del governo. E che velocizzi, tagliando cavilli e vincoli, i processi autorizzativi per le opere. Per il momento, quindi, si preferisce lavorare soprattutto nell’ambito della semplificazione. Un approccio che non piace invece ai governatori che invece prendono dal governo soldi veri, altrimenti sono pronti a mettersi di traverso sul decreto che regola la nuova fiscalità
Al via il tavolo per l’economia. Oggi il governo stabilisce dove sorgeranno le prossime centrali nucleari regionale in discussione nella Bicameralina dove il Pdl continua a non avere la maggioranza. In audizione davanti alla commissione guidata da Enrico La Loggia, Vasco Errani ha intimato al governo di rispettare i patti, che hanno portato gli enti a dare intesa piena al decreto in cambio di una riduzione dei tagli ai trasferimenti al fondo per il trasporto pubblico. «Abbiamo siglato un accordo a metà dicembre», ha spiegato il presidente della Conferenza delle Regioni, «che per noi è fondamentale anche per il rapporto con il decreto sul fisco regionale. Ma l’accordo non ha ancora avuto seguito da parte del governo. Non possiamo non sottolineare come questo elemento impatti negativamente sulla discussione». Senza soldi «l’intesa non c’è». Ai governatori spaventa anche il fatto che il governo – per ottenere dai sindaci
il via libera al federalismo municipale – abbia spostato in capo ai Comuni risorse per la perequazione che dovevano essere gestite in toto dalle Regioni. Per tutto questo Errani ha chiesto un approfondimento su temi come «la valutazione del peso complessivo delle tasse sui cittadini, la piena applicazione della legge 42 per la parte che riguarda i fondi perequativi, la questione dei Lea, i livelli essenziali di assistenza e dei Lep, i livelli essenziali delle prestazioni».
Ai governatori non è piaciuto neanche vedere che nel Milleproroghe, dopo aver risposto alle richieste di vari ministri e dei sindaci, il governo non ha disposto un centesimo a loro favore. Di conseguenza, o il governo emenda il testo alla Camera per inserire i fondi per il trasporto pubblico (ma è improbabile) oppure dovrà studiare un provvedimento ad hoc per sbloccare queste risorse. Non a caso Errani ha detto che il decreto è «caratterizzato da un impianto sostanzialmente a-federale». Ne è un esempio la scelta di girare 70 milioni dalla sanità al fondo per gli enti lirici e a quello per gli interventi dopo le le alluvioni in Veneto, Liguria e Toscana. Ma in questa logica il paradigma è la norma che stanzia le risorse per le calamità naturali. In commissione il presidente dell’Emilia Romagna ha segnalato che la possibilità di prevedere addizionali «attiva un altro sistema rispetto a quello previsto, nel senso che non si capisce se c’è o meno un trasferimento di risorse, anche alla luce del fatto che queste ultime finora sono state gestite dalla Protezione Civile». La parola passa a Giulio Tremonti. Per ora le Regioni si devono accontentare dell’ennesimo compromesso presentato da Roberto Calderoli. Il ministro, che non ha mai smesso i panni dello sherpa, ha messo sul piatto «l’istituzione del comitato permanente per il coordinamento di finanza pubblica». Un po’ poco per evitare aumenti generalizzati per i biglietti di treni e autobus.
Senza paure di subire strumentalizzazioni politiche, il governo dovrebbe lanciare una sua stagione di “lenzuolate”, che a costo zero liberino spazio per chi vuole lavorare. Le semplificazioni del ministro Roberto Calderoli hanno abolito, per lo più, norme in desuetudine. Qui invece si tratta di cancellare decine e decine di micro-imposte che costano quasi più di quanto non rendano, ostacolando ogni iniziativa economica. Bisogna superare gli ordini e gli albi, le limitazione negli orari di apertura delle attività, i restringimenti all’autonomia negoziale. Riscrivere l’art. 41 della Costituzione può essere utile, ma bisognerebbe subito impegnarsi anche su temi specifici. Oltre a liberalizzare, è necessario riconsegnare al mercato quella parte
dell’economia che resta sotto il controllo dello Stato. Dalle banche alle poste, dalle ferrovie all’energia, il nostro sistema produttivo resta troppo simile a quello che era negli anni Settanta e questo impedisce alle imprese di competere a livello internazionale. Per giunta, solo una progressiva uscita dello Stato da questi ambiti – con la conseguente riduzione dei dipendenti pubblici (qualcosa di simile allo smobilizzo di 500 mila dipendenti messo in cantiere da David Cameron) – può permettere una decisa riduzione della pressione fiscale.
È evidente: per crescere bisogna ridurre lo Stato (liberalizzare, privatizzare, ridurre le imposte) e questo comporta un deciso taglio degli artigli del ceto politico, insieme alla volontà di combattere con decisione il partito unico dello statalismo e delle burocrazie organizzate: quella parte rilevante d’Italia secondo la quale ridimensionare i finanziamenti al Fondo unico dello spettacolo – come ha fatto il ministro Bondi – significa attentare alla cultura e battersi contro i sussidi al Sud segnala un’attitudine razzista e antimeridionale. Purtroppo gli uomini oggi al governo tutto hanno in mente meno che lanciarsi in tale impresa. È un mix di insipienza, opportunismo di piccolo cabotaggio e attitudine a ragionare nel “breve termine”– magari confinando nel solito stellone italico – che li spinge a tirare a campare, lasciando che le Fs continuino a bloccare la strada ai competitori (si veda la vicenda di Arenaways), le fondazioni politicizzate continuino a gestire le maggiori banche, milioni di statali seguitino a lavorare poco e male, troppi soggetti privati siano protetti da regole liberticide – dai farmacisti ai notai – e si arricchiscano non grazie a profitti, ma a rendite ingiustificate. Poiché questa è l’Italia, non è ragionevole essere ottimisti, né si può ritenere che possa bastare – se mai avverrà – la cacciata del “sultano”. In un certo senso la mancata crescita dell’Italia segnalata dai dati dell’Ocse è la miglior fotografia dell’Italia odierna, anche di là di quello che fa (e soprattutto non fa) chi oggi ci governa.
quadrante
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Il Belgio? Da ieri è peggio dell’Iraq
Consigli da Doha: «morte ai talebani»
BRUXELLES. Senza un vero e proprio governo dalle ultime elezioni, ovvero da 249 giorni, dopo quello europeo ieri il Belgio ha eguagliato un discutibile record mondiale, detenuto sinora dall’Iraq. L’evento è stato celebrato con ironia da diverse associazioni con una serie di manifestazioni intitolate “rivoluzione delle patatine fritte” (i cartoccetti, intramontabile simbolo della “belgitudine” sono stati distribuiti gratuitamente). Organizzata da una trentina di associazioni studentesche fiamminghe e francofone le manifestazioni si sono tenute nelle principali sedi universitarie del paese. Ieri, re Alberto II ha prolungato sino al primo marzo l’ennesima missione esplorativa affidata a Didier Reynders.
DOHA. La modesta proposta degli Emirati Arabi Uniti per evitare il problema Guantanamo? «I prigionieri che prendete in Afghanistan non interrogateli, ammazzateli subito». Così Wikileaks citando i consigli del principe Mohamed Bin Zayed, ambasciatore degli Eau. «È più difficile mettersi nel cervello di Al Qaeda che in quello dei Taleban, ma chiunque va in giro armato di kalashnikov in Afghanistan non è in vacanza e dovrebbe essere trattato severamente. È un grande errore fare prigionieri, dargli cibi e cure mediche con la speranza di ottenere informazioni. Perché una volta liberato tornerà al suo villaggio e alla sua moschea, si nasconderà per un po’ e riapparirà in capo a cinque anni come un nuovo Bin Laden».
Paura per la salute di Steve Jobs STANFORD. Si moltiplicano le voci sull’aggravarsi delle condizioni di salute di Steve Jobs. Il tabloid National Enquirer ha pubblicato in prima pagina le fotografie, scattate l’8 febbraio, del fondatore di Apple che appare scheletrico mentre esce dal Centro oncologico di Stanford. Le immagini sono state vagliate da alcuni medici intervistati dal giornale che hanno sentenziato che gli resterebbero solo sei settimane di vita. Steve Jobs, che da sette anni sta combattendo contro un rara forma di cancro al pancreas e ha subito un trapianto di fegato nel 2009, ha lasciato il lavoro alla fine di gennaio, annunciando in una e-mail inviata ai dipendenti dell’azienda di volersi concentrare sulla sua salute.
Manovre per le presidenziali Usa del 2012: la Casa Bianca isola il generale Petraeus in Afghanistan e lo spinge a lasciare il comando Isaf
Obama “ruba” soldi al Pentagono Il ritiro delle forze di terra aiuta gli Usa a mantenere l’egemonia sui mari di Pierre Chiartano ello scacchiere americano le cose si sono rimesse in movimento.Tra tagli «lacrime e sangue» e una campagna per le presidenziali che agisce dietro le quinte, ecco mosse e contromosse di Obama dopo le elezioni di mid term. La Casa Bianca ha messo mano ai tagli - tanto voluti anche dai repubblicani - per potersi ripresentare in buone condizioni politiche alle presidenziali del 2012. Le sforbiciate al settore Difesa verranno diluite in cinque anni e riguarderanno soprattutto delle riduzioni per minori necessità, specie in Iraq. Il Pentagono avrà meno soldi, ma i tagli dovrebbero riguardare soprattutto gli incrementi previsti per nuovi pogrammi. Negli Usa, il tetto massimo d’indebitamento consentito al governo federale è stabilito per legge. E il Tesoro Usa, per voce del segretario di Stato, Timothy Geithner, stima che tale limite massimo, attualmente posto a 14.300 miliardi di dollari, verrà toccato tra il 31 marzo e il 16 aprile. Ma ci sono settori dove i militari spenderanno meno, per loro scelta. Il Pentagono ha ridotto di 45 miliardi di dollari il proprio budget grazie al previsto ritiro di tutte le truppe dall’Iraq alla fine del 2012. È la prima volta dal tragico attentato dell’11 settembre 2001 che i militari chiedono meno fondi per le operazioni belliche. Attualmente i soldati impegnati in missione sono 102mila, ma secondo le previsioni del Pentagono scenderanno a 98.250 nel 2012. Quest’anno il Pentagono ha chiesto 671 miliardi di dollari, 45,1 in meno rispetto al 2011. Tra i programmi finanziati una grossa fetta andrà all’acquisto di nuovi droni (gli aerei telecomandati privi di pilota) usati in tutti i teatri di guerra e il programma per un nuovo bombardiere a lungo raggio. I fondi per i conflitti, in particolare, sono passati da 162,9 miliardi a 117,8. «I tagli riflettono il programmato ritiro di tutte le truppe alla fine del 2012 e un modesto taglio nei finanziamenti per l’Afghanistan», ha spiegato il ministro delle Difesa, Robert Gates. A questi si aggiungono
N
I tagli di Obama investono anche il Pentagono che aveva già ridotto le richieste per il ritiro dall’Iraq. Tra risparmi e sforbiciate vere e proprie si dovrebbe arrivare intorno ai settanta miliardi dollari in meno per la Difesa. David Petraeus che sta per lasciare l’Afghanistan, potrebbe diventare il candidato repubblicano alle presidenziali del 2012
16 miliardi di tagli a programmi specifici, così la riduzione del budget dovrebbe oscillare intorno ai 70 miliardi di dollari.
Per gli Usa rimarrà fondamentale la presenza militare in Medioriente e Asia centrale anche se rimodulata, ma il campo dove non può fare passi indietro è quello degli Oceani. Non può assolutamente permettere che la Cina diventi una potenza marittima, pena l’immediata scomparsa di quella che ancora si può definire un’egemonia globale. Washington ha previsto di mantenere in mare ben 11 gruppi portaerei fino al 2050 e solo allora potrà prevedere di eliminarne uno. Per gli americani è fondamentale garantire le vie del libero commercio sui mari, del libero passaggio
degli approvvigionamenti per l’Occidente e tutto il mondo libero che, volente o nolente, gode di questa fortuna: la Us Navy che pattuglia e controlla il pianeta blu. Una forza che l’America utilizza su ogni tavolo negoziale, senza neanche doverne fare menzione. Il ritiro «ragionato» dal Medioriente o dall’Afghanistan, fa parte della dialettica politica, delle promesse elettorali, dei conti della spesa di fine mese. L’altra è invece il mutuo che Washington deve pagare se vuole rimanere potenza egemone. Anche l’uscita di scena dall’Afghanistan del generale David Petraeus, che Obama mandò a gestire le sorti della guerra dopo la “rimozione” di Stanley McChrystal, farebbe parte di un copione tutto politico. Il magic man dell’Iraq che ave-
va fondato il successo della gestione di quel marasma di violenza nella separazione fisica tra sciiti e sunniti, di cui fu impropriamente dato merito al surge, non è riuscito a fare il miracolo anche a Kabul. «Riconciliazione» era la nuova parola d’ordine del generale con ambizioni politiche. Ma come attuarla da quando Obama gli aveva creato il vuoto attorno? Prima con l’arrivo del sostituto dello scomparso Richard Holbrooke, Marc Grossman come inviato speciale dell Casa Bianca per Afpak (Afghanistan e Pakistan), poi con la nomina a Kabul del nuovo ambasciatore Karl Heikenberry, piuttosto critico nei confronti di Petraeus. Parliamo di uomini sostanzialmente allineati alle direttive della Casa Bianca e del dipartimento di
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Uganda al voto per le presidenziali Museveni: «Qui nessuna rivolta»
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
KAMPALA. Poco meno di 14 milioni di elettori sono chiamati oggi al voto in Uganda per eleggere il nuovo presidente.Yoweri Museveni, al potere dal 1986, è dato come favorito, ma gli analisti prevedono che il voto di questa settimana sarà il più difficile dei suoi 25 anni di governo. Hussein Kyanjo, uno degli otto sfidanti ed esponente della principale coalizione di opposizione, la Coalizione interpartitica, ha chiamato a presidiare le urne, per timore di nuovi brogli (conclamati dagli osservatori internazionali all’ultima tornata elettorale) un milione di osservatori. La tensione è dunque altissima, anche a fronte del clima di rivolta che si respira dal Nordafrica al Medioriente e al monito dato da Museveni in caso di proteste di piazza: «Se qualcuno contesterà i risultati del voto verrà arrestato, portato in prigione e quindi davanti alla corte». La sfida è dunque durissima. Anche perché chiunque vincerà le presi-
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
denziali sarà chiamato a gestire le riserve nazionali di 2,5 miliardi di barili di petrolio, scoperte solo di recente e capaci di trasformare le prospettive economiche del Paese africano. Il governo di Kampala ha fatto sapere di voler una propria raffineria, sollevando i dubbi di Tullow Oil, che oggi controlla tutte le riserve del Paese. Ma le due parti avrebbero siglato un accordo da 10 miliardi di dollari per la raffinazione di 200mila barili di greggio al giorno.
Da sinistra, Barack Obama, un combattente talebano e Robert Gates. In apertura, il generale Petraeus
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Stato di Hillary Clinton. Il rientro del generale negli Stati Uniti dunque rilancerà una sua possibile candidatura per le presidenziali del 2012. Definito da più parti come «il militare americano più competente dei nostri tempi», Petraeus viene considerato in grado di fare il salto della quaglia in politica che riuscì a Dwight Eisenhower, l’eroe della seconda guerra mondiale. La sua partenza, che è prevista entro la fine dell’anno, potrebbe essere anticipata. Un cambio al comando che cade in una fase piuttosto delicata, sia sul piano strategico, sia per ragioni di politica interna. Obama ha promesso all’America di cominciare a riportare a casa una parte delle truppe a luglio di quest’anno. Una decisione che è sempre stata oggetto di tensioni con il Pentagono e con i comandi Usa al fronte, convinti che non bisogna dare all’avversario alcuna informazione. C’è anche un gatta da pelare tra Washington e il Pakistan, dopo l’arresto di un americano che ha ucciso a bruciapelo due pachistani nel pieno centro di Lahore. Business as usual direbbero a Washington, ma questa volta con gli stravolgimenti in corso in Nord Africa e Medioriente, la posta in gioco è altissima.Tanto per alleggerire il carico di una presidenza, quella di Obama, che più complicata e difficile non poteva essere neanche immaginata. Comunque qualche cattiva notizia a causa dei nuovi tagli arriva anche in Europa. Il Pentagono stacca la spina al programma di difesa antimissile Meads (Medium extended air
Gli Usa staccano la spina anche al programma di difesa antimissile Meads, sviluppato con l’Italia e la Germania
defense system) sviluppato in collaborazione con l’Italia e la Germania.
A partire dal 2013 da Washington non arriverà più un dollaro per il nuovo vettore antimissile in corso di sviluppo per sostituire i Patriot e gli antiquati missili Nike Hercules in Italia. La Camera dei rappresentanti Usa, ieri, ha inoltre votato contro il progetto di un motore alternativo per il Jet da combattimento F-35, schierandosi dalla parte del Pentagono che aveva detto più volte di non averne bisogno. Contro il piano hanno votato anche metà delle nuove leve repubblicane (inclusi diversi nomi del Tea Party). La votazione consente di eliminare dal budget del Pentagono 450 milioni di dollari immediatamente e 3 miliardi di dollari in futuro. Il voto può essere considerata una vittoria per il presidente Obama e per il capo del Pentagono, Robert Gates. Però a guardare bene i conti, molti tagli – non solo quelli alla Difesa – porteranno alla perdita di migliaia di posti di lavoro. E il tasso di disoccupazione che era del 9,4 per cento a fine dicembre 2010, sta scendendo in maniera troppo lenta per consentire di guardare al futuro con ottimismo. Da sempre i presidenti sono stati rieletti perchè l’econonia tirava e la disoccupazione calava. Se Obama non riuscirà a invertire questa tendenza e stringendo troppo i cordoni della borsa soffocherà la ripresa, sarà dura conquistare un secondo mandato. Ma oggi l’attenzione è a Oriente e alle “piazze”africane e mediorientali.
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cultura
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Il dittatore aveva compreso perfettamente la potenza dei mezzi di comunicazione di massa per la creazione di una cultura nazional-popolare
Chi ci dà il Duce? Il Luce!
Immagine e propaganda di Mussolini attraverso i cinegiornali dell’Istituto, raccontate nel nuovo e documentatissimo volume di Enzo Antonio Cicchino di Anna Camaiti Hostert elcome home» dice comunemente l’officer della dogana guardando il passaporto di qualunque cittadino americano rientri da un viaggio internazionale. Sentirsi “a casa”fa sentire parte di una comunità che celebra l’inclusione, e poco ha a che vedere con quello che erroneamente viene scambiato come lo spirito nazionalista americano. «Where are you from?» ci si chiede appena ci si conosce anche tra persone nate negli States, con ciò intendendo il Paese di origine e coscienti del fatto che al di là degli indiani americani non c’è nessuno autoctono negli Usa. Una pervasiva cultura popolare ha cementato l’unità nazionale attraverso un uso e un consumo di massa dei media: dalla radio al cinema alla televisione. Essa è ormai patrimonio del mondo ed è anche il risultato del fatto che l’America, unica al mondo, nella sua dichiarazione di indipendenza contiene il pursuit of happiness (il diritto alla feli-
«W
cità). L’America è infine un luogo che vive sul riprodursi interno dei conflitti, stimolando quel senso di appartenenza-non appartenenza che è la caratteristica incontrovertibile dell’attaccamento di ogni suo cittadino al Paese. E alla sua bandiera.
Quasi che essa rappresenti il coagulo di tutte le razze e le etnie che la popolano in un continuo swinging tra le origini individuali e la comune adesione ai principi libertari della sua costituzione. E oltre a ciò il trionfo di un desiderio che si aggrappa a quel pezzo di stoffa per rintracciare un passato capace di colmare il senso di spiazzamento che attanaglia chiunque lascia le proprie radici per stabilirsi altrove. Questo Paese genera una sorta di meraviglia impaurita in chiunque vi si avvicini proprio perché agli stereotipi troppo semplicistici, malgrado l’Europa ne abbia creati parecchi e in alcuni casi continui fermamente a crederci. È pertanto per certi versi il Paese di tutti. Di contro viene
fatto di domandarsi cosa rende l’Italia così poco incline a costruire un’identità nazionale basata sull’orgoglio delle proprie tradizioni. La carenza del cemento di una cultura nazional-popolare vera e sentita e non semplicemente imposta, come ricordava Gramsci, rende impossibile raggiungere questo obiettivo, che resterebbe tuttavia inefficace senza la soluzione della cosiddetta “questione meridionale”. Oggi, a 150 anni da un’unità nazionale costruita sulle disfunzioni di un Nord che ha trattato il Sud più come terra di conquista che come altra metà di un Paese da unificare, in ciò non distinguendosi dalle tante potenze straniere che l’hanno invaso, conquistato e governato; e di un Sud che ormai vive rassegnato nell’arretratezza, nel sottosviluppo e nel proliferare del crimine organiz-
zato, non può certamente essere il separatismo della Lega a risolvere il problema. Tantomeno l’atteggiamento di forze politiche che se ne disinteressano. Alcuni esponenti di questa classe politica sono troppo presi dal loro utile particulare, altri troppo imbevuti di una falso internazionalismo vuoto e ormai poco produttivo, che oltretutto non aiuta comprendere i processi di globalizzazione in atto in tutto il mondo. E soprattutto il ruolo degli intellettuali è divenuto superfluo. Quando si dice agli americani che l’Italia, come nazione, è più giovane degli Stati Uniti, questi sorridono, credendo di essere presi in giro. Pochi di loro conoscono la nostra storia e pensano che l’unificazione e la creazione di uno Stato centrale siano millenari come la nostra cultura. È uscito tempo fa un
prezioso volume di Enzo Antonio Cicchino: Il Duce attraverso il Luce. Una confessione cinematografica. L’autore, un documentarista e autore per Raitre di numerosi programmi storici e che attualmente lavora per La Grande Storia, in questo volume di più di 800 pagine analizza con maestria attraverso un’analisi accurata dei materiali dell’Istituto Luce e soprattutto dei cinegiornali, «il sottotesto politico delle immagini». Così si evince che Mussolini aveva compreso perfettamente non solo la potenza delle immagini e dei mezzi di comunicazione di massa per la creazione di una cultura nazionalpopolare, ma anche che erano strumenti essenziali di diffusione e di propaganda. Avrebbero costituito il sostrato per la creazione di un’identità nazionale.
Pertanto, come scrive Cicchino, dei cinegiornali Luce è «importantissimo lo stile, i contenuti. Le informazioni che hanno violentato gli schermi del Ventennio sono frutto di sugge-
cultura rimenti meticolosi dello stesso Mussolini, il quale vuole che la folla dei circa 3000 comuni italiani provvisti di sale cinematografiche reagisca in un modo preciso. Queste immagini sono documenti in cui nulla è lasciato al caso. Prima di concedere il visto di censura, lui visiona i cinegiornali e i documentari accuratamente». Sebbene il libro centri la sua ottica più sui rapporti internazionali che su quelli interni, rappresenta tuttavia uno strumento prezioso per la comprensione della strategia mediatica di Mussolini nel processo di unificazione del Paese, che egli reputa ancora incompleto e viceversa necessario per una fascistizzazione della società civile. La difformità tra immagini e testo evidenzia «come al contrario delle parole dello speaker, le immagini nei cinegiornali non vengano quasi mai censurate: si lasciano quasi sempre ad esse tutti i loro contenuti polemici grotteschi, autoironici, assurdi... Benito propone agli italiani un ambiguo compromesso. Un testo visivo non censurato e un testo audio addomesticato secondo l’evenienza». Chi ha gli strumenti intellettuali per decodificare le immagini non subisce censura, il resto, cioè la maggioranza, è vittima della propaganda imposta per creare un senso comune diffuso e un
consenso popolare. Nasce così un nazionalismo che poggia sulla stirpe, la razza, il sangue e il territorio senza che sia svelato l’inganno su cui la costruzione di tale immaginario poggia.
«Questa politica della doppiezza, dell’ambigua disciplina della “non verità”- continua Cicchino - viene praticata per tutto il Ventennio, salvo rari casi di propaganda dichiaratamente intenzionale... Questo gioco sottile, questa debolezza nel far credere attraverso il Luce di condurre una fronda contro se stesso, se da un lato rende Mussolini simpatico, dall’altra crea
tamento della istruzione e all’elevazione della cultura generale». Ma questo richiede un ampliamento e un aumento delle sale cinematografiche che tuttavia non sono sufficienti. «Nasce così il Cinemobile, una complessa apparecchiatura costituita da schermo meccanico e cabina di proiezione che proietta i film in qualunque luogo, strada, paese, campagna, piazza della Penisola. Nel 1927 ne vengono equipaggiati 25», con l’intento di creare un’ evidente uniformità del patrimonio collettivo di immagini a cui far abbeverare le nuove generazioni. In questo sostanzioso volume
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tante fornisce informazioni inedite anche sul piano storiografico. Ad esempio sul 25 luglio 1943, data di sostituzione di Mussolini con Badoglio da parte del re, si pensava non ci fosse alcun documento dei Luce in materia. Cicchino invece scopre nel maggio 2010 presso l’Istituto Nazionale Audiovisivi (Ina) di Parigi la parte mancante del cinegiornale n.1, la cui nuova e risorta numerazione è la testimonianza dell’inversione di rotta politica. Nella sigla «sono scomparsi l’aquila, i fasci littori, i car-
svolgono per le vie di Roma inneggiando al sovrano e al maresciallo Badoglio. Un solo grido. Un solo pensiero. Una sola fede... L’Italia di tutti gli italiani. Tutto il popolo si stringe intorno al re soldato e al maresciallo Badoglio per servire l’Italia con dedizione assoluta». E da qui comincia una parabola che fa dei cinegiornali Luce un vero testimone di quei giorni: la rappresentazione dei bombardamenti a tappeto, la distruzione delle città, il dolore della gente che danno il la alla scintilla di quello che sarebbe poi divenuto lo spirito del neorealismo. Fino a giungere ai contatti con il Cln che hanno permesso di «salvaguardare il materiale foto-cinematografico contenuto negli archivi da possibili razzie naziste».
ri armati, le scene di guerra e altri soliti elementi graficamente elaborati. Il cinegiornale “n.1” si presenta meno pomposo». In esso l’appello all’unità nazionale poggia sulle origini risorgimentali e sulla casa Savoia. «L’alba del 26 luglio trova tutta l’Italia imbandierata. Trionfa il tricolore del Risorgimento e dell’unità della patria. Spontanee manifestazioni patriottiche si
I cinegiornali Luce costituiscono dunque un elemento di continuità, anche nei periodi di traumi storici, della cultura popolare e testimoniano la necessità di abbandonare doppiezze tattiche da parte della politica con l’intento di suscitare negli italiani,lontano da distruttive volontà di potenza, quello non sono mai riusciti ad avere: la fierezza della propria cultura.
Per l’autore, «Benito proponeva agli italiani un ambiguo compromesso. Un testo visivo non censurato e un testo audio addomesticato secondo l’evenienza» una grande confusione, i cui effetti saranno disastrosi. Sarebbe stato meglio che Benito non avesse giocato ambiguamente con l’informazione ed avesse tenuto il paese nell’alveo della democrazia». Ed è proprio la natura dei temi dei diversi film che vengono prodotti o acquistati dal Luce a confermare l’idea che intenzione di Mussolini sia quella di creare una cultura nazional-popolare che unifichi il Paese. I soggetti infatti sono «comunque destinati al comple-
Cicchino ci guida con grande maestria dissezionando i cinegiornali Luce in modo da far emergere la personalità di Mussolini, certe sue idiosincrasie e la sua intuizione nei confronti del potere delle immagini (la copertina che riproduce una gigantografia del Duce dietro la macchina da presa con sotto la scritta «la cinematografia è l’arma più forte» è davvero rivelatrice) ai fini della formazione di un’improcrastinabile unità nazionale. Ma ciò che è più impor-
ULTIMAPAGINA
Mentre sul festival di Sanremo si abbatte il ciclone-Benigni, l’unico veramente fuori parte è il presentatore
Se Morandi è più vecchio di di Errico Novi
ROMA. Una giustificazione c’è. Ed è questa. Siamo o non siamo uno sterminato strapaese? È o non è l’Italia il luogo, fisico e virtuale, del microconflitto e della lite di condominio? Lo è, ovvio. E allora: immaginate con che spirito sale sul palco dell’Ariston uno come Gianni Morandi. Sa che su quel teatro si rovescerà tutta l’energia negativa delle comari del Belpaese, pronte a sbeffeggiarlo a ogni monosillabo zoppo. E allora che fai? Ti metti al riparo con un metodo vecchio, peraltro poco padano, nemmeno appeninico – quale sarebbe la matrice geografica del Nostro: il metodo è il poverelliamientu. Voce calabrese che sta a indicare il mostrarsi dimesso, piuttosto male in arnese, al limite malvestito, tutto per allontanare il malocchio. Ecco, così Morandi ha scelto di affrontare l’inesorabile, temutissimo giudizio delle comari: si è vestito maluccio (o dà l’impressione di esserlo, nonostante gli sforzi di Ferragamo), esita, commette gaffes davvero inopportune.
no personaggi in maschera. Peggio di così non poteva. Poi un’altra perla: il conduttore nazionale legge prima la nota imposta dall’Agcom sull’inaffidabilità del televoto («non si può garantire che l’esito sia immune da manipolazioni, anche attraverso call center...»), poi se n’esce con un «questa è una bella pappardella, eh?!». Certo che è una pappardella, solo che l’abilità dei professionisti consiste proprio nell’assumere le pappardelle con spirito persuaso, così da renderle convincenti per gli spettatori. È l’abc delle telepromozioni, che dovrebbe valere ancor di più per cose serie come l’informazione a tutela dell’utenza. Lui maneggia il tutto con goffaggine infastidita. Da non crederci.
Funzionerà, alla fine? Lo diranno gli ascolti delle ultime tre puntate, quelli di ieri sera sono attesi per la mattinata. C’è stato, ed è innegabile, un piccolo calo rispetto alla prima uscita: fisiologico, dicono gli esperti, Però colpisce il raffronto con l’anno prima, quello della Clerici: ventimila spettatori in meno (10 milioni e 144, per la precisione) e oltre un punto di share perduto rispetto all’edizione 2010. La tecnica del poverelliamientu funziona fino a un certo punto. Anche perché questo Festival può contare su altre cose, altri punti di forza: a parte le due co-conduttrici, ci sono le Iene e soprattutto c’è qualche big che non si sarebbe mai aspettato nessuno. Su tutti, due pilastri della canzone d’autore come il magnetico Bat-
PIPPO BAUDO
C’è insomma del metodo nella versione non brillante di sé che l’eterno ragazzo offre al Festival. Pur di tenere lontani gli sguardi obliqui, è assai meno tonico rispetto a precedenti, trionfali programmi condotti sempre in Rai, quasi soccombe davanti a Luca e Paolo. Con la terza puntata di Sanremo, santificata da Benigni, si è voluta celebrare l’Unità d’Italia, ma già la sera prima Gianni non si era fatto sfuggire l’occasione per inciampare sulla ricorrenza: «Celebriamo i 150 anni della nostra Repubblica...». E come no: i Savoia era-
L’altra sera è arrivata anche la gaffe sulla storia: «...a centocinquant’anni dalla nascita della nostra Repubblica». A differenza delle sue vecchie trasmissioni, qui non sembra a proprio agio tiato e il commovente Vecchioni. Non a caso stavolta si sono incatenati in salotto anche un bel po’ di italiani – settentrionali, più colti – che di solito snobbano. Ciononostante rispetto alla prima serata c’è stato un po’ meno d’entusiasmo. Allora: non è che le mamme d’Italia sono un po’ troppo deluse? Cioè, l’eterno ragazzo Morandi non ha scelto forse di presentarsi con troppe rughe (virtuali) pur di resistere al flusso negativo dell’invidia e delle lingue biforcute? Ma, se potesse, lui risponderebbe che non poteva fare altrimenti. Che esporsi nel rito fondante dell’Italia nazionalpopolare è troppo rischioso per il figlio prediletto di tutte le mamme. Nemo profeta in patria, e Morandi è uno stra-italiano, dunque più vulnerabile alla maledizione. Non poteva che travestirsi da vecchietto un po’ svampito.