10219
mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 19 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Rutelli annuncia: «Dopo quello parlamentare, entro una settimana nascerà il coordinamento politico di tutti i moderati»
La Santa Alleanza non c’è più Il netto no di Casini all‘«union sacrée» contro Berlusconi rilancia la sfida del Terzo Polo per andare oltre la palude della Seconda Repubblica. La sinistra è delusa, il Pdl spiazzato... CONCORRENZA TRA MODERATI
CONTRO QUESTO BIPOLARISMO
La sola vera via per battere il Cavaliere
Deve scendere in campo anche la società civile
di Rocco Buttiglione
di Enrico Cisnetto
che serve una grande alleanza che vada da Fini a Vendola passando per l’Udc, il Pd e al partito di Di Pietro? Serve a vincere e a chiudere in Italia la fase del berlusconismo? È lecito dubitarne. E in questa fase è importante capire perché. a pagina 2
e questo è il bipolarismo, no grazie. In questa fase di crepuscolo del berlusconismo ci viene quotidianamente proposta una versione del bipolarismo da cui intendiamo rifuggire con tutte le nostre forze: l’insopportabile a dicotomia giustizialisti-innocentisti. a pagina 4
A
Calderoli: «È una follia incostituzionale»
Governo spaccato sulla festa dell’unità d’Italia Finalmente l’esecutivo vara la festività del 17 marzo. Ma il Carroccio sbatte la porta. Alfano ripropone l’ennesima riforma della giustizia. Ma il premier vuole l’immunità
S
Parlano Cacciari, De Giovanni e Pasquino
Ieri la prima riunione della segreteria
«Caro Bersani, ha ragione il leader dell’Udc»
E se la diaspora di Fli aiutasse a eliminare le ambiguità?
Fini e Bocchino chiedono a Urso I tre osservatori di sinistra: di restare dentro al partito «Questa volta, battere il Cavaliere per guidare la minoranza interna non basta per governare» Errico Novi • pagina 2
Francesco Pacifico • pagina 8
Riccardo Paradisi • pagina 5
La Lega divide, Benigni unisce
Al Beida sarebbe in mano agli insorti
Il vertice di Parigi dedicato alle regole
Memorabile Roberto stucchevole Umberto
Ora anche la polizia contesta Gheddafi
G20, i grandi sfidano le «banche ombra»
di Giancristiano Desiderio
di Pierre Chiartano
di Gianfranco Polillo
er l’Italia si può morire, per il Pil no. Per l’Italia si può morire, come è accaduto per unirla, difenderla e far vivere gli italiani in pace, liberi e nel benessere. Ma per il prodotto interno lordo, per quanto sia importante e determinante per la creazione del benessere, non si può di certo morire. Roberto Calderoli, dunque, per criticare la scelta del suo stesso governo di riconoscere al 17 marzo la dignità di festa nazionale ha sbagliato argomento: si è nascosto dietro al dito dei costi, ma avrebbe fatto meglio a manifestare in tutta sincerità la sua antipatia per l’idea patriottica dell’Italia una e indivisibile. Perché la questione è proprio questa.
a rivolta in Libia potrebbe essere a una svolta: secondo il portavoce del gruppo «Libyan Human Rights Solidarity» la città di Al Beida, la terza del Paese, sarebbe ormai nelle mani degli insorti dopo che la polizia locale si è schierata dalla loro parte. La situazione, insomma, non è chiara, ma il regime di Gheddafi sembra sempre più in difficoltà. a pagina 26
P
L
a pagina 8 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
I QUADERNI)
pertura da brivido al vertice finanziario dei Paesi del G20, a Parigi, con i ministri delle finanze e i Governatori delle principali banche centrali delle maggiori potenze economiche e un’agenda fitta – forse troppo – di punti all’ordine del giorno. Brivido e giallo per un misterioso prelievo d’urgenza da 16 miliardi di euro agli sportelli della Bce. a pagina 28
• ANNO XVI •
NUMERO
35 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
A
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’editoriale
prima pagina
Rompere il bipolarismo con il Polo nuovo
L’unica via per battere il Cavaliere di Rocco Buttiglione che serve una grande alleanza che vada da Fini a Vendola passando per l’Udc, il Pd ed il partito di Di Pietro? Serve a vincere e a chiudere in Italia la fase del berlusconismo? È lecito dubitarne. Molti elettori di centro e di destra civile sono pronti a votare una alternativa a Berlusconi che abbia una impronta chiaramente moderata ed europea. Essi vedrebbero con terrore la prospettiva di un passaggio dal populismo berlusconiano alla ingovernabilità di una coalizione divisa su tutto tranne che sulla volontà di cacciare Berlusconi dal governo. E non ci voterebbero.
A
Sappiamo tutti quanta fatica e quanto impegno ci è costato convincere un vasto elettorato moderato a separarsi idealmente da Berlusconi. Il Polo Nuovo, l’obiettivo per il quale abbiamo lavorato e che appariva come una utopia, adesso è una realtà. Vale da un punto di vista elettorale un terzo più della somma dei partiti che lo hanno costituito. È una realtà che esiste nel Paese più di quanto esista nel palazzo e noi dobbiamo stare attenti far crescere questa realtà senza forzare i tempi della sua maturazione. Riassumendo: non è affatto sicuro che la grande ammucchiata avrebbe una maggioranza nelle urne. È possibile che molti elettori di centro si sentirebbero costretti a votare per Berlusconi «turandosi il naso». Ed è anche possibile che molti elettori di sinistra non voterebbero per non trovarsi insieme con quello che continuano a considerare «il nemico di classe». E se per caso riuscissimo ad avere una maggioranza riusciremmo poi a governare bene il paese? In tutti noi aleggia il ricordo del fallimento del governo Prodi dovuto alla incoerenza della formula politica che lo sosteneva. Come funzionerebbe invece un governo fra il Polo Nuovo ed il Partito Democratico, senza Vendola e senza Di Pietro? Probabilmente queste forze insieme governerebbero bene, se riuscissero a vincere le elezioni. Purtroppo non riuscirebbero a vincerle.Troppo forte sarebbe l’emorragia di voti dalla sinistra moderata verso la sinistra estrema. In ogni caso, nulla galvanizzerebbe le residue forze berlusconiane tanto come la possibilità di fare una bella campagna elettorale contro i comunisti. Per l’opposizione sarebbe un suicidio fare a Berlusconi questo favore. Che succede invece se cambia lo schema di gioco e se alle elezioni si presentano tre poli invece di due? Tutti i sondaggi attribuiscono al Polo Nuovo una forza che va dal 14 al 20%. Noi speriamo di uscire dalla competizione elettorale come forza maggioritaria ma limitiamoci adesso a ragionare sui sondaggi. Sulla loro base Berlusconi non potrebbe usare nella campagna elettorale lo slogan del voto inutile. È chiaro infatti che nel prossimo Parlamento il Polo Nuovo andrà a governare perché non ci sarà alcuna maggioranza senza la nostra decisiva partecipazione. Il voto per il Polo Nuovo è un voto utile per governare. Già da adesso è chiaro che i nostri voti non sarebbero disponibili per un altro governo Berlusconi ed è quindi chiaro che Berlusconi non potrebbe essere ancora una volta il successore di se stesso. Il voto al Polo Nuovo è un voto utile per porre fine al berlusconismo. Questo spiega l’acredine di Berlusconi contro il Polo Nuovo. È da lì che viene per lui la vera minaccia. Gli elettori che non lo abbandonerebbero per passare al centrosinistra possono abbandonarlo per passare con noi. Dopo le elezioni saremo in grado di imporre un governo di responsabilità e di pacificazione nazionale, coinvolgendo sia il Pdl sia il Pd. Con esso potrà iniziare veramente una stagione di riforme istituzionali mirate al bene di tutti e non al vantaggio di una sola parte politica.
l’inchiesta Un editoriale di Sartori ripropone la super-coalizione già bocciata dal leader centrista
«Ha ragione Casini»
Cacciari, De Giovanni e Pasquino: tre osservatori di sinistra d’accordo con il leader Udc contro la «santa alleanza». «Battere Berlusconi non significa governare» di Errico Novi
ROMA. Vacilla. Come mai era avvenuto in questi dicias-
una democrazia moderna: «I dati di fatto ci dimostrasette anni. Il bipolarismo mostra la corda. O meglio, mo- no che quelle fondate sullo schema bipolare funzionastra la corda quella sua particolare incarnazione, tutta no decisamente meglio delle democrazie con un sisteitaliana, liquidata da Michele Salvati come «bipolarismo ma politico multipolare. Due partiti», sostiene Pasquidello strepito» in un commento sul Corriere della Sera di no, «sono meglio di un centro che eventualmente si indue giorni fa. Ecco, proprio il fatto che un sincero fauto- terpone in modo confuso. Il punto è che in Italia tutte re dello schema dell’alternanza pronunci sentenze così e due le opzioni hanno dato scarsi risultati». Non è spietate dà il segno di un panorama cambiato. Eppure dunque una questione di legge elettorale, o quanto un impulso resiste. È un residuo di ostinazione che, in meno non soltanto. «Premesso che in rari momenti qualche osservatore, si accorda alla necessità di supera- qualcosa di buono si è visto, per esempio con Prodi re il berlusconismo. È l’impostazione dell’editoriale del quando nel ’96 ha battuto un centrodestra diviso, qui Corriere di ieri, firmato da Giovanni Sartori e tutto co- davvero non manca solo il sistema di voto adeguato. struito per dimostrare la necessità della Santa alleanza Qui latita anche la necessaria determinazione dei politici. I quali temono pacontro il Cavaliere. Non c’è da sorBIAGIO DE GIOVANNI recchio una architettura prendersi d’altronde, perché come istituzionale che assicuri dice Gianfranco Pasquino «Berlufunzionalità al bipolarisconi produce bipolarismo: finisce smo. Sono loro a non vosempre che c’è lui da una parte e tutlere quella svolta, stanno ti gli altri contro». Ma è un gioco a molto meglio così». perdere: lo riconosce lo stesso professore di Scienza politica dell’uniSta meglio così Berluversità di Bologna e con lui tanti altri. Da analisti e politologi ad esposconi, per esempio, infierinenti politici pure storicamente sce il politologo bologneschierati per il modello a due forze. se, «che piuttosto si è confezionato nel 2005 una Lo stesso Pasquino è uno con le legge capace di farlo peridee molto chiare su quale sarebbe dere pochissimo l’anno in astratto la via più funzionale per dopo e di farlo vincere
Impraticabile: costruire un Cln contro il Cavaliere sarebbe solo un equivoco politico
prima pagina Rutelli: tra una settimana il “vertice” del nuovo Polo
19 febbraio 2011 • pagina 3
Franceschini: «Alleanza più vasta possibile per le riforme»
ROMA. «Penso che la settimana prossima costituiremo il coordinamento politico del nuovo Polo» che affiancherà «quello parlamentare che è già in atto». È questa la strategia politica dei moderati nell’immediato, secondo il leader di Api, Francesco Rutelli. Nonostante il travaglio interno a Fli, Rutelli ha ribadito che «la prospettiva del nuovo polo è solidissima perché è solida l’analisi critica da cui partiamo». E il punto di partenza è «la crisi del bipolarismo». Un bipolarismo che si è ormai trasformato, da un lato «in uno scontro selvaggio» con «la Lega che spadroneggia e il Pdl che arraffa parlamentari per cercare di superare la crisi»; e dall’altro nel caos a sinistra dove «c’è chi pensa che la soluzione giudiziaria sia in grado di risolvere la sua crisi e le alleanze». Dunque bisogna andare avanti, ha proseguito Rutelli, «con la linea del nuovo polo. In queste ore c’è stato un contatto continuo con Casini e Fini e non sarà un deputato in più o in meno a mutare questo scenario politico». Alla domanda su chi sarà il candidato-premier, il leader Api ha spiegato che «se si votasse tra un mese il tema sarebbe urgente, ma visto che non è probabile che questo accada, c’è tutto il tempo per consolidare il terzo polo con il coordinamento politico, e quando si avvicineranno le elezioni indicheremo il candidato-premier».
ROMA. La Santa alleanza continua a far discutere anche allìinterno del Pd, già abbastanza scosso dalla provocazione di Nichi vendola che aveva candidato a ruolo di candidata premier di quel cartello elettorale Rosy Bindi. «L’importante è far cadere Berlusconi, dobbiamo concentrarci su quello», ha commentato per esempio il capogruppo del Pd alla Camera Dario Franceschini, in un colloquio con il quotidiano Europa. «La strada maestra sarebbero le elezioni, ma ne riparleremo solo dopo aver raggiunto l’obiettivo principale: porre fine al berlusconismo. È questo che la gente ci chiede». Quanto, appunto, alla proposta di Vendola, secondo Franceschini «il messaggio importante contenuto nelle sue dichiarazioni è che anche lui ha preso coscienza della necessita’ di un’alleanza costituente. Io lo dissi il 23 agosto e per quell’intervista mi presi pure le parolacce. Ora invece sono tutti d’accordo, non solo nel nostro partito. Dopo la fine di Berlusconi ci ritroveremo cumuli di macerie; la ricostruzione economica e dei valori non potrà essere condotta solo da una parte, ma è bene che se ne occupino insieme anche forze che poi torneranno ad essere avversarie, per dar vita ad un bipolarismo migliore di quello che vediamo oggi». In pratica: Santa Alleanza sì, ma a tempo determinato. E possibilmente più vasta possibile.
tanto nel 2008. E nello stesso centrosinistra prevale sem- cose di cui si parla nell’editoriale del Corriere, la legge della rappresentanza che resterebbe dalla parte di Berpre il ricatto dei partiti minori su quello più grande, al- elettorale e quella sul conflitto d’interessi, sapendo che ci lusconi, ed è evidente come anche questo sia impossimeno quasi sempre. Se questa classe politica fosse in si dividerebbe su tutto il resto poco dopo. Non sta in pie- bile», chiosa De Giovanni. grado e volesse farlo, troverebbe subito la via utile nel di».Viene meno lo schema bipolare a cui ci si aggrappa modello francese, in quel doppio turno che assicura bi- anche in Fli? Ancora nella formazione di Fini le perples- Non la prende bene il Pd, o almeno quella parte del polarismo e alternanza». In sità“filosofiche”rispetto ala crea- Pd che cominciava ad affezionarsi all’idea di una suGIANFRANCO PASQUINO chi si professa assertore dello zione di un nuovo polo sembra- per-coalizione con tutte le forze intruppate contro il schema bipolare manca il cono agire in modo decisivo nella Cavaliere. A deludere le aspettative democratiche ovraggio, né può essere una sodiaspora in corso. Ma sul fatto viamente non è tanto la scarsa popolarità riscossa dalluzione quella proposta da che dalle difficoltà del sistema si l’union sacrée tra i commentatori, ma le parole nette di Sartori, dice Pasquino: «Una possa far discendere una boccia- Pier Ferdinando Casini. E quando il leader dell’Udc, olgrande alleanza? Quando la si tura del bipolarismo, De Giovan- tre a ricordare che il nuovo polo «ha un orizzonte dini tiene a fare delle precisazioni: verso» da quello di Bersani, D’Alema e Latorre, precifa, viene fuori sempre una co«Capisco che quanto avviene sa anche che «noi spingeremo per un governo di unità sa pasticciata, non si fanno sembra certificare il fallimento nazionale dopo il voto», cioè per un’alleanza sì larga, sì certo le grandi riforme. Lo del modello bipolare. Ma a costo concepita per fare riforme anche impopolari, ma certo schema Sartori, a mio giudidi sconcertare i miei amici del non chiusa a qualcuno, smentisce proprio l’idea di un zio, non funziona. Sì, certo, può consentire di battere Bercentrosinistra, credo che uno dei riassetto istituzionale condotto con il centrodestra conlusconi, e poi? Ogni passaggio problemi stia nella provocazione tumace. «Costringeremo chi vince a sedersi al tavolo», metterebbe questa ipotetica avanzata da Peppino Calderisi, in è la scommessa spiazzante di Casini. Spiazzante e decoalizione in difficoltà. Non si un altro articolo pubblicato oggi ludente per il Pd, per quei democratici come Latorre potrebbe fare né la legge eletdal Corriere: c’è un solo polo, nel che definiscono «velleitaria» l’ambizione del nuovo potorale, né una legge sul testamento biologico e neppure senso che il polo di opposizione è diviso in quattro o cin- lo. Ma spiazzante anche per il Pdl, che probabilmente ci sarebbe accordo sul federalismo, tema che provoca que parti. C’è insomma il problema dell’alternativa. Di cominciava persino a sperarci, in un progetto di Santa divisioni nel centrosinistra già ora.Vorrei ricordare che fronte a un Berlusconi che pur tra mille cialtronerie ha alleanza contro il Cavaliere. Quale migliore argomendi tale ingovernabilità l’Unione di Prodi è stata l’esem- almeno evocato, in questi anni, un’idea di modernizza- to da campagna elettorale? Quale pretesto sarebbe più zione del Paese, dall’altra parte si vedono forze che paio- efficace per richiamare ancora una volta all’obbedienpio più deprimente». no incarnare solo la conservazione». za militante quegli elettori moderati del Pdl che, altriPerché andare a sbattere ancora una volta? Che sia menti, si asterrebbero dal voto? evidente il destino di un’operazione come quella propo- È così, dice De Giovanni, «che svanisce la qualità alsta da D’Alema e rilanciata ora da Sartori lo dice anche trove riconosciuta del bipolarismo: fare in modo che È chiaro, dice Cacciari, cosa debbano fare oggi le opun altro commentatore ascritto istitutivamente al cam- chi vota sappia anche quale governo sta indicando. Da posizioni: «E dico “le”perché in questo Sartori ha ragiopo della sinistra ma altrettanto apprezzato ne, esiste una pluralità di opposizioni: bene, per la sua autonomia come Biagio De Giobasterebbe assecondare la realtà, nel senso vanni. «È una via completamente errata. Diche tutte queste forze dovrebbero essere rei impossibile prima ancora che errata». compatte semplicemente nel chiedere le eleL’ex europarlamentare del Pci approfitta di zioni anticipate, presentarsi ciascuno con la categorie filosofiche oltre che politologiche. propria strategia agli elettori e impedire così «Impossibile, irrealizzabile. Il motivo è semla vittoria di Berlusconi al Senato. A quel plice: qui si immagina non di mettersi insieme per un noi lo schema bipolare è sghembo per due motivi: per punto il capo dello Stato darebbe l’incarico a qualcuno governo di transizione ma di allearsi tutti contro Berlu- il paradosso evocato nella battuta di Calderisi, appun- capace di mettere insieme una maggioranza più ampia. sconi in una sorta di Cln. L’equivoco è lampante, perché to, e perché c’è la guerra. Non è affatto detto che il bi- Poiché questo qualcuno non potrebbe mai essere Berlunessuno dei potenziali partecipanti sarebbe davvero di- polarismo debba essere guerresco, anzi è vero il con- sconi, Bossi e Tremonti avrebbero finalmente la possibisposto ad aderirivi se non per affermare l’esatto contra- trario: il riconoscimento reciproco è una condizione in- lità di liberarsi del Cavaliere. È semplice».Vero, semplirio di quanto sosterrebbero altri soggetti della coalizio- dispensabile. Senza, il bipolarice e potenzialmente efficace, MASSIMO CACCIARI ne». Ulteriore esito paradossale dell’union sacrée, dice il smo fallisce nella guerra di tutti mentre con la Santa alleanza, aggiunge il filosofo, «cioè se filosofo napoletano, sarebbe «enfatizzare a dismisura il contro tutti». E poi c’è l’altra si finge di voler governare fenomeno Berlusconi, conferirgli una dimensione pla- contraddizione contenuta nella con Fini, Casini eVendola, cianetaria, assoluta. Passerebbe il messaggio che per scon- tesi di Sartori, il quale sollecita il scuno costretto a turarsi il nafiggere il Cavaliere si deve mettere insieme tutto e il con- fronte unico delle opposizioni so, be’, è probabile che tutti trario di tutto. Io invece resto convinto che Berlusconi anche in funzione delle riforme, perdano voti. Molto meglio se possa essere battuto solo politicamente. E quella che an- a cominciare da quella elettoraognuno rappresenta se stesle. Non si è sempre detto che le cora viene proposta è piuttosto la via dell’antipolitica». so, se i cattolici chiedono agli riforme devono essere condiviNon a caso, sostiene De Giovanni, «il partito di Fini se, che bisogna farle tutti insieelettori cattolici di avere più forza e così via. Ognuno facsi sfalda non appena qualche suo esponente prefigura me? «Così invece si presume cia il suo mestiere, e chi non un’alleanza con la sinistra». Non si tratta di stabilire se che le possa realizzare da solo ha mai fatto politica non si avvincerebbe oppure no, «con tutto il rispetto per un gran- questo eventuale Cln, in caso di venturi in astrusità politologide scienziato della politica come Sartori, mi chiedo come vittoria. Si ipotizza di tenere che senza prospettiva». si potrebbe mai fare campagna per il voto sulle due o tre fuori magari quel 40 per cento
Una grande alleanza? Quando la si fa, viene fuori sempre una cosa pasticciata
Che senso ha proporre un cartello delle opposizioni che faccia le riforme escludendo il 40 per cento degli elettori? Si otterrebbe solo di trascinare alle urne i delusi del Pdl
Le opposizioni devono essere coese solo su un punto: chiedere il voto. Poi vadano separate
pagina 4 • 19 febbraio 2011
l’approfondimento
Le elezioni anticipate non indicano soltanto una rottura con la maggioranza, ma con una stagione politica ormai conclusa
La Terza Società
Chi non è con Berlusconi è contro di lui? E chi non è con le procure è contro la giustizia? Sono sempre di più i cittadini stanchi di fare il “tifo” in questo bipolarismo della clava. E che cercano una nuova rappresentanza politica di Enrico Cisnetto e questo è il bipolarismo, no grazie. Proprio mente anche un uomo dalle incrollabili speranze come Michele Salvati giunge alla conclusione – per lui amara, per noi tardiva – che il tanto decantato sistema bipolare su cui si è incardinata la Seconda Repubblica “non funziona”, in questa fase di crepuscolo del berlusconismo ci viene quotidianamente proposta una versione del bipolarismo da cui intendiamo rifuggire con tutte le nostre forze. Sto parlando dell’insopportabile a dicotomia giustizialisti-innocentisti. Secondo Giuliano Ferrara, che del poliedrico Berlusconi è la versione migliore, oggi (come ieri, peraltro) gli italiani si dividono tra coloro che partecipano, sostengono o comunque legittimano il circo mediatico-giudiziario che vuole far fuori con mezzi non politici il Cavaliere, e coloro che avversano questa deriva di natura giustizialista e moralista. Tertium non datur. Già, e tutti quelli che pur credendo fonda-
S
ta la denuncia del tentativo persecutorio nei confronti di Berlusconi – o comunque esistente una più in generale tendenza di una parte della magistratura ad usare mezzi che hanno finito con mortificare il diritto – non per questo intendono mandare automaticamente assolto il premier, sia sotto il profilo politico che (se del caso) giudiziario? Costoro non esistono? O debbono per forza sentirsi dire che fanno il “gioco di Berlusconi”o il “gioco dei giudici comunisti” a seconda da quale delle fazioni arriva la scomunica? Ed è contemplata la possibilità di sostenere che è dai tempi di Tangentopoli che il Paese attende la riforma della giustizia – per tutti i cittadini, naturalmente, non quella ad hoc – ma che la maggiore responsabilità di questo eterno ritardo è proprio di chi, come il premier, la invoca e non la realizza?Oppure dobbiamo per forza credere che al nono anno di governo (a partire dal 1994) il centro-destra nel momento più difficile di tutta
la sua esistenza ha finalmente tirato fuori il coniglio dal cilindro perché ieri il consiglio dei ministri ha approvato una relazione del ministro Alfano?
Insomma, ma chi l’ha detto che si debba per forza essere o berlusconiani o anti-berlusconiani?! Ce l’ha prescritto il medico? In realtà, molti indizi inducono a pensare che una parte ormai largamente maggioritaria del Paese, comprensiva di molti che in passato si sono lasciati prendere la mano dal
Il Paese non può uscire dal berlusconismo passando solo per i processi
meccanismo delle tifoserie, che si sia stancata o si stia stancando di questa assurda dicotomia. Gente che capisce come i magistrati adusi alle intercettazioni a go-go, agli arresti spettacolari, all’abuso della carcerazione preventiva, al «butto la chiave finché non mi dici quello che voglio sentirmi dire», a passare le carte ai giornali, siano una minoranza e che dunque non si giustifichi (oltre a non convenire) una campagna di delegittimazione, ma che non per questo non servano interventi correttivi e punitivi. E nello stesso tempo, gente che capisce come il combinato disposto tra il non governare – si evocano le riforme ma non si fanno, e quando si fanno non si attuano – il comportarsi in modo non consono al proprio ruolo istituzionale, il confondere il pubblico e il privato portando in parlamento e al governo persone scelte solo sulla base dei propri rapporti interpersonali (di qualunque genere siano) e, infine, il pretendere di essere al di sopra
della legge facendosi scudo dei comportamenti scorretti di taluni magistrati, che l’insieme di tutto questo, dicevo, sia più che sufficiente per emettere un verdetto – politico – di condanna sia per chi così si comporta sia per quelle opposizioni che non sono capaci di rappresentare un’alternativa se non battendo la strada dello sputtanamento mediatico e della gogna giudiziaria.
Sì, questa posizione “terza” non solo esiste, ma ha anche una potenzialità di consenso enorme. Ha “soltanto”(le virgolette sono d’obbligo, visto che si tratta di scalare una montagna impervia) bisogno di essere rappresentata agli occhi degli elettori in modo forte, convincete, credibile. E qui, però, che rischia di cascare l’asino. Perché, come ho scritto più volte su questo giornale assumendomi lo sgradevole compito di coscienza critica del “terzismo”, finora non si è ancora visto un disegno organico di costruzione di una forza rifor-
19 febbraio 2011 • pagina 5
Ora è chiaro per i finiani che l’approdo strategico deve essere il nuovo polo della nazione
La diaspora di Fli può aiutare a eliminare le ambiguità Anche la grande intesa con la sinistra fino a Vendola è ormai un’ipotesi impossibile dopo le parole di Casini. Servirebbe solo a rafforzare questo bipolarismo di Riccardo Paradisi a politica – diceva Pietro Nenni – non si fa né coi sentimenti né coi risentimenti. È una formula che potrebbe essere molto utile ad attori e osservatori interessati alle convulsioni di Futuro e libertà, utile soprattutto per guadagnare uno sguardo che invece che dal buco della serratura, come è ormai inveterata abitudine e vizio, provi a guardare la scena italiana attraverso le griglie, se non della politologia, almeno del ragionamento politico, della posta in gioco strategica della partita in corso. Da questo punto di vista – e potrebbe apparire paradossale quello che si sta per dire – quanto sta accadendo dentro Futuro e libertà non sarebbe necessariamente un male per gli uomini rimasti insieme a Fini. Non sarebbe un male se questo servisse a definire meglio la road map di lungo periodo del presidente della Camera e dei suoi, se quanto è accaduto e continuerà ad accadere nei prossimi giorni, servisse cioè a chiarire la loro prospettiva strategica, asciugando quei margini di equivoco e di ambiguità a cui l’ondivago e in parte necessitato atteggiamento dei finiani ha finora dato adito.
sta in gioco. Chi non se la sente di puntare su questo piatto, perchè si tratta di puntarci tutto e non qualcosa, è perché è convinto che da questo bivio indotto dal bipolarismo chiodato non si possa uscire. Si tratta di un’argomentazione legittima, magari politicamente poco coraggiosa, ma alla quale non è necessario aggiungere o far precedere quella del tradimento. Categoria tutto sommato impolitica di cui peraltro i finiani sono stati a lungo fatti bersaglio e che sa-
I punti sui quali la strategia finiana è rimasta non dichiarata e non esplicitata sono noti. Il primo punto d’ambiguità è stato sicuramente il lasciare socchiusa non solo la porta all’ipotesi dalemiana della grande alleanza tra centro e sinistra ma persino a quella vendolian-latorriana di un improbabile Cln di liberazione nazionale che dovrebbe appunto andare da Gianfranco Fini a Nchi Vendola passando per l’Italia dei Valori di Di Pietro, per il Pd di Bersani e l’Udc di Pier Ferdinando Casini. All’operazione Babele mancherebbero solo i grillini cinque stelle del comico Beppe Grillo. Il secondo punto d’ambiguità finiana è stata la perdurante apertura di credito, anche dopo la rottura con l’area di centrodestra e l’avvio della navigazione verso uno spazio nuovo della politica italiana, all’ormai consunto schema bipolare, riproponendo la formula della concorrenza a destra nei confronti di Pdl e Lega. Chi ha deciso di andare da Futuro e libertà o chi sta meditando di farlo in queste ore – al netto dell’esito dei colloqui di mediazione che stanno avvenendo tra Fini, Urso e altri dirigenti per negoziare una possibile minoranza interna – lo ha fatto perché non crede a questa prospettiva e a questa ipotesi di nuovo scenario, non crede insomma a una scommessa politica sistemica, non se la sente di imbastirvi sopra una sfida. Un conto infatti è prendere atto del fallimento del bipolarismo un altro è decidere di immaginare e realizzare un percorso di fuoriuscita da esso, rinunciando alla rendita di posizione di cui gode chi continua a darlo per vivo. Resta il fatto che è questa e non altra la po-
rebbe bene non rivolgere a chi ha deciso di non proseguire oltre nel percorso cominciato a Mirabello. Più debole di questa spiegazione è però quella avanzata dalla maggior parte dei dissidenti di Fli che attribuiscono le cause della loro diaspora di ritorno verso il Pdl o il gruppo di responsabilità alla nomina di Italo Bocchino a coordinatore del partito e di Benedetto della Vedova alla presidenza del gruppo alla Camera.
L
A Urso l’offerta di Fini e Bocchino di restare e organizzare una minoranza interna
Affermare infatti che l’innesco dell’implosione di tutto un settore di Fli sia l’organigramma uscito dal congresso di Milano significa addurre una motivazione modesta alle proprie scelte politiche. Non solo perchè gli organigrammi nei partiti si possono modificare con i congressi e l’apertura del confronto interno ma soprattutto perché chi aveva deciso di superare i confini delle attuali terre note e aride della politica italiana avrebbe dovuto mettere in conto periodi d’assestamento, difficoltà, fisiologici sbandamenti. Insomma avrebbe dovuto preventivare se non una marcia nel deserto comunque una navigazione faticosa. È mancata evidentemente la fiducia nell’obiettivo strategico di costruire un nuovo polo della nazione di cultura moderata che abbia come riferimento il Partito popolare europeo
e come mèta strategica il superamento di questo bipolarismo, il superamento cioè dell’attuale guerra civile ideologica italiana per gettare le basi di un governo di transizione e di responsabilità nazionale necessario a riscrivere le regole della democrazia italiana.
A smarrire l’equipaggio di Fli – come si diceva – ha probabilmente contribuito anche il tatticismo dei vertici di quel partito, un certo antiberlusconismo militante che ha preso la mano ad alcuni esponendo di Fli, l’aprirsi a quei sentimenti e soprattutto risentimenti che Nenni raccomandava tener lontani dal pensare e dall’agire politico. Tuttavia quanto è avvenuto può appunto aiutare Fli a chiarire la linea e mettere a fuoco l’unico approdo strategico possibile di Fli che dopo le parole si Casini, contrarie a ogni ipotesi di grande e innaturale alleanza tra i moderati e la sinistra, sembra oggi ancora più chiaro.
matrice moderna, con salde radici cattoliche e laiche capace di farle convivere in un programma di governo basato su un solido pragmatismo di stampo liberale ma non liberista. O meglio, si sono sentite ripetute infinite volte le intenzioni di procedere in questa direzione, ma senza che mai il progetto decollasse davvero.
Ma c’è di più. Nella drammatica contingenza politica e istituzionale in cui viviamo si assiste a null’altro che alla reiterata richiesta a Berlusconi di dimettersi, ben sapendo che il premier – a torto o a ragione – non lo farà mai. D’altra parte, siccome la lotta politica democratica non prevede il suicidio altrui, il compito di battere Berlusconi – e nello stesso di dare un’alternativa all’elettorato non massimalista e non giustizialista che vota o ha votato a sinistra – spetta proprio a chi si chiama fuori dalla maledetta dicotomia “berlusconismo-antiberlusconismo”. E allora? Allora occorre che chi intende proporsi come il “nuovo polo” della politica italiana, alternativo ai due ormai fradici pali su cui si è retto bipolarismo all’italiana, faccia – ora e subito – un salto di qualità nel modo con cui si propone al Paese. E per farlo c’è un solo mezzo: rivolgersi agli italiani e chiedere che siano loro stessi a pretendere le elezioni. Ma, attenzione, non contro Berlusconi, o sulla scia di una sua eventuale condanna penale (Ruby o Mills che sia), ma contro il nostro fallimentare sistema politico e i suoi protagonisti. Naturalmente evitando la retorica dell’anti-politica, già fin diffusa, ma invece offrendo una chiara proposta radicalmente alternativa. Lo spazio c’è, visto che i sondaggi ci dicono, unanimemente, che quasi la metà degli italiani prova un’irrefrenabile repulsione verso la politica (molto più ragionata di quanto non si pensi) fino al punto di non voler più andare a votare. Bisogna però essere credibili nel lanciare un messaggio del genere, e questa credibilità la può dare solo un gruppo di personalità molto qualificate della società civile cui chiedere il sacrificio di un impegno in prima persona. E occorre farlo subito, prima che si celebri il processo a Berlusconi. Perché deve essere chiaro fin d’ora che il nostro ordinamento non sarebbe in grado di gestire la situazione di un premier che fosse (non glielo auguro) condannato per concussione alla pena accessoria della decadenza temporanea dai pubblici uffici, se non soltanto attraverso le immediate dimissioni dello stesso (cosa che è assolutamente improbabile). Ed è meglio neppure immaginare cosa potrebbe succedere in quella disgraziata circostanza. (www.enricocisnetto.it)
diario
pagina 6 • 19 febbraio 2011
Al bando sei sostanze chimiche
Parentopoli, 5 indagati all’Ama
Bar e alberghi, la metà è in nero
BRUXELLES. Sei sostanze chimi-
ROMA. L’amministratore dele-
ROMA. Il sommerso in Italia va-
che dannose per la salute e per l’ambiente - presenti in vernici, detergenti, tessuti, copertine di libri e interni delle automobili - sono state messe al bando dalla Commissione europea e dovranno essere ritirate dal mercato nel giro di tre-cinque anni nei 27 Stati membri (a meno che non sia stata concessa un’autorizzazione per un uso specifico). Le sostanze nel mirino di Bruxelles (musk xylene, MDA, HBCDD, DEHP, BBP, DBP) sono cancerogene, tossiche per la riproduzione o persistono nell’ambiente e si accumulano negli organismi viventi. La decisione avrà un impatto su diversi settori: dalla cosmetica all’edilizia e all’industria dell’auto, fino al tessile e al cuoio.
gato dell’Ama Franco Panzironi e altre quattro persone sono indagate dalla Procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sulle assunzioni ritenute irregolari nell’inchiesta cosiddetta «parentopoli». Il reato ipotizzato dal procuratore aggiunto Alberto Caperna e dal pubblico ministero Corrado Fasanelli è abuso d’ufficio. La Procura di Roma, nell’ambito dell’indagine, ha disposto anche una serie di perquisizioni, a partire proprio dall’abitazione del numero uno dell’azienda che si occupa della pulizia e dell’igiene cittadina Secondo quanto emerso in questa vicenda, circa 850 persone sarebbero state assunte dall’Ama senza concorso: tra queste ci sarebbero almeno 400 autisti.
le tra un minimo del 16,1% e un massimo del 17,8% dell’economia. Ma non per tutte le categorie. Il record spetta al settore «alberghi e pubblici esercizi», per i quali si aggira attorno al 56,8%, che supera anche il nero dei servizi domestici di colf e badanti che si ferma al 52,9%. Testa a testa, invece, tra l’agricoltura (31,1% di sommerso) e il commercio (che e’ al 21,7%). Sono questi gli ultimi dati forniti agli esperti che lavorano nella commissione per la riforma fiscale che si occupa di «economia non osservata e flussi finanziari». Le elaborazioni, fatte dall’Istat su dati 2005, sono le più aggiornate e entrano nel dettaglio rispetto ai dati del sommerso diffusi lo scorso luglio.
Il Pio Albergo Trivulzio ritorna nell’occhio del ciclone dopo venti anni dall’inchiesta che segnò l’inizio di Mani Pulite
Milano, affittopoli bipartisan
Coinvolti politici, il direttore sportivo del Milan, il funzionario che indaga su Ruby di Franco Insardà
ROMA. Corsi e ricorsi storici. Dal Pio Albergo Trivulzio potrebbe ripartire un nuovo ciclone che rischia di travolgere la politica milanese prima e quella nazionale poi. Quello tra la Baggina e Mani Pulite sembra essere un binomio indissolubile nella storia recente. Il nome dell’istituto milanese e quello di Mario Chiesa riaffiorano prepotentemente facendo fare alla memoria un salto all’indietro fino al 1992 quando, con l’arresto del presidente del Pio Albergo Trivulzio, iniziò Tangentopoli. Allora le indagini ricostruirono anche che parte del patrimonio immobiliare del Pio Albergo Trivulzio era utilizzato a prezzo di favore da politici e esponenti della classe dirigente. Oggi la storia sembra ripetersi con appartamenti e immobili di pregio concessi in affitto a prezzi low cost. Si tratta di un patrimonio immobiliare frutto di lasciti e donazioni secolari a favore di bisognosi, assegnato in locazione a canoni favorevoli a politici, magistrati e amici o parenti di persone influenti. E, visto che parliamo di Milano, c’è qualcosa che riguarda indirettamente anche l’immancabile Ruby nazionale.
Nell’elenco figura il capogruppo del Pdl in consiglio Giulio Gallera, il nipote di Francesco Cossiga, Piero Testoni, parlamentare del Pdl che paga 8.500 euro per 83 metri quadrati e Guido Manca, consigliere comunale Pdl ed ex dirigente del Pat. In corso di Porta Romana dal 2002 al 2009 ha vissuto Domenico Lo Jucco, ex uomo Publitalia, amico e stretto collaboratore di Marcello Dell’Utri tanto da essere stato tra i fon-
Il patrimonio immobiliare del Pio Albergo Trivulzio, composto da 1.359 appartamenti, fa incassare circa 7,3 milioni di euro l’anno di affitti. Un reddito inferiore a 6.500 euro l’anno ad alloggio, se si esclude il liceo Manzoni, che rende 400mila euro
datori di Forza Italia, partito di cui divenne tesoriere. Ha fatto molto discutere anche il nome della compagna del candidato del centrosinistra Giuliano Pisapia, la giornalista di Repubblica Cinzia Sasso. E Pisapia sul suo blog ha dato la sua versione della vicenda: «C’è stato un vortice di telefonate anonime, nel puro stile della macchina del fango. Il fatto è semplice: la mia compagna abita da molti anni, da prima che noi ci conoscessimo, in un appartamento di proprietà di un ente pubblico. Lei non è candidata a niente, è un privato cittadino, è semplicemente una donna che lavora. Paga il regolare affitto che è’ previsto. Non è un reato,
abitare in una casa di proprietà di un ente pubblico. Mentre certo è un problema l’incapacità degli enti che dispongono di un patrimonio immobiliare di gestire al meglio le proprie disponibilità».
Ai primi nomi circolati in questi giorni si aggiungono quelli del direttore generale del Milan Ariedo Braida, del dirigente della Sezione criminalità organizzata della Squadra mobile di Milano, impegnata nell’inchiesta sul caso Ruby, Maria José Falcicchia e la conduttrice e attrice televisiva, Amaral Gaia Bermani. Nella lista c’è anche un Cordero di Montezemolo, preceduto dall’iniziale D.
a indicare il nome. Si tratta della persona che dal 29 giugno 2010 occupa un appartamento di 43 metri quadri in piazza Mirabello 1, con un canone annuo di 9.100 euro più 1.800 euro di spese. A Braida, invece, è intestato il contratto di locazione per un appartamento di di 84 metri quadrati, in piazza Carmine 1, per 17.300 euro l’anno più 1.244 di spese. La dottoressa Falcicchia ha in affitto una casa di 75 metri quadrati vicinissima alla Questura, con un canone di 11.262 euro più 980 di spese. Alla Bermani il contratto scade il prossimo 28 febbraio per il suo appartamento di 72 mq in via Bramante con un affitto di poco più di 750 eu-
ro al mese.Tra gli altri nomi c’è anche quello di Martino Pillitteri, figlio dell’ex sindaco Paolo e cugino dell’attuale assessore ai servizi civici del Comune.
Sulla regolarità delle procedure è intervenuta il sindaco di Milano Letizia Moratti annunciando di voler chiedere notizie sui criteri di assegnazione. Mentre Roberto Formigoni, presidente della Lombardia, ha dichiarato: «Guardiamo dentro l’elenco e vediamo se ci sono degli abusi, se ci sono persone che occupano in maniera non legittima o privilegiata degli appartamenti. Dopodiché bisognerà certamente intervenire, ma non diamo giudizi imme-
diario
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Cinzia-gate: Flavio Delbono condannato a Bologna
Saviano, Vasco e la lentezza di Caserta
BOLOGNA. C’è anche chi si sottopone al giudizio della magistratura ne accetta le conseguenze: l’ex sindaco di Bologna, Flavio Delbono ha patteggiato una condanna ad un anno, sette mesi e 10 giorni nel primo filone d’inchiesta del cosiddetto Cinzia-Gate, per l’uso illecito - secondo l’accusa - di denaro pubblico riguardante una decina di viaggi fatti quando era vicepresidente della Regione Emilia-Romagna. In questo primo filone d’inchiesta, Delbono rispondeva di truffa aggravata, peculato, intralcio alla giustizia e induzione a rendere false dichiarazioni ai magistrati - va bene. In questa tranche, il pm Morena Plazzi ha riunito le accuse a Delbono per i viaggi fatti a spese della Regione Emilia-Romagna con la sua ex compagna Cinzia Cracchi (al tempo in cui era vicepresidente di viale Aldo Moro) e le pressioni
fatte su di lei per convincerla a non dire tutto in Procura dopo l’apertura del caso giudiziario. Ora, la pena inferiore ai tre anni esclude la certezza, per Delbono, di essere automaticamente interdetto dai pubblici uffici (come avrebbe comportato una condanna sopra i tre anni per peculato). La decisione sul suo futuro in Ateneo spetta però ai vertici dell’Alma Mater, che potrebbero propendere ugualmente per il suo allontanamento.
diati». La lista degli inquilini delle case del Pio Albergo Trivulzio, dopo settimane di polemiche, campagne e stampa e invocazioni di diritto alla privacy è arrivata nella tarda serata di giovedì in una busta sigillata al presidente del consiglio comunale di Milano, Manfredi Palmeri di Futuro e libertà. Il plico è stato aperto alle 16 di ieri durante la riunione, a porte chiuse, della commissione Casa presieduta dal consigliere Barbara Ciabò, anche lei di Futuro e libertà. È finito così il braccio di ferro tra il Pio Albergo Trivulzio e la Commissione Casa e Demanio di Palazzo Marino.
generale, di un appartamento al civico 3 della via che collega piazza San Babila al Duomo, tutti con una metratura compresa tra i 53 e i 77 metri quadri è di 2.587 euro annui circa, 215 al mese. In un’altra zona del centro, piazza del Carmine, a Brera, lo scenario non cambia: 317 euro per 68 metri quadri, sempre spese incluse. E ancora: via Moscova, civico 25 (69 appartamenti in tutto, il cui canone più alto di circa 3mila euro al mese, è corrisposto da un ristorante), qui per 184 euro al mese c’è chi ha affittato 51 mq, chi ne spende 158 per 43 mq, e chi 175 per 42 mq.
L’istituto, dopo essere stato
Una delle cose che salta subito all’occhio, scorrendo le cifre sono i canoni d’affitto che, secondo la consigliere comunale del Pd, Carmela Rozza presentano «dubbi seri di trasparenza nella definizione dei canoni d’affitto». La consigliera Pd insiste: «Il Trivulzio non fa una graduatoria, non stabilisce criteri di priorità. È il cda che ha la libertà di decidere se la affittano a uno o all’altro. Insomma, non c’è nessuna trasparenza nei criteri di assegnazione e questo favorisce, come al solito gli amici degli amici». I casi denunciati dalla Rozza riguardano tutto il patrimonio immobiliare del comune di Milano, compresa la Galleria Vittorio Emanuele e la zona del Duomo: «Esiste una strategia suicida da parte dell’amministrazione comunale che avrebbe allo studio di una commissione interassessorile un progetto per cambiare la gestione degli spazi in Galleria, affidandola a esterni». Dietro tutto questo ci sarebbe tutta una operazione di rincari per costringere molti a lasciare i locali e di affitti decennali con canoni bassissimi. Ma l’affittopoli milanese, dopo il Pio Albergo Trivulzio, potrebbe interessare anche la Fondazione Policlinico, che aderendo all’operazione trasparenza sulle proprietà immobiliari degli enti pubblici, ha messo online l’elenco delle proprietà aggiornato al 21 gennaio 2011.
costretto a mostrare il costo degli affitti, aveva fatto resistenza sui nominativi in nome della riservatezza, sperando in una sentenza favorevole del Garante della privacy. Ma, dopo la risposta negativa dell’Authority, che ha ribadito la necessità di trasparenza e la minaccia di un esposto in procura da parte del consigliere del Pd Carmela Rozza, ha dovuto cedere. L’assegnazione degli immobili spetta a un comitato ristretto di nomina politica, mentre la supervisione è del presidente del Trivulzio, il chirurgo Emilio Trabucchi, in quota Pdl. Si tratta di 1.359 appartamenti a Milano e fuori città, tra stabili interamente di proprietà e unità in condomini. Sono 925 nel capoluogo lombardo, molti nel centro, e 211 in Lombardia, ma anche fuori regione, ai quali bisogna sommare altre 173 unità immobiliari a Milano, distribuiti in 81 condomini e 23 unità fuori, in 5 condomini. E dagli elenchi arrivati alla commissione Casa e Demanio si evince, infatti, un canone di locazione di settantacinque euro al mese, spese comprese, per un appartamento di 58 mq in Corso Vittorio Emanuele, in pieno centro a Milano. E nella stessa via si conta almeno un altro caso clamoroso: 85 euro al mese per un appartamento di 56 mq (il contratto in questione, attivo dal 1998 risulta scaduto nel 2006); la media, in
19 febbraio 2011 • pagina 7
La Moratti vuole chiarezza, Formigoni è prudente e Pisapia parla di «macchina del fango»
Nelle foto, dall’alto, Letizia Moratti, Giuliano Pisapia, Roberto Formigoni e Manfredi Palmeri
ltre venti anni fa ci fu al Palamaggiò uno storico concerto rock e Vasco Rossi pronunciò la non altrettanto storica frase: «Ah, Caserta, Caserta». Furono le sue uniche parole sulla città sulla quale evidentemente non c’era molto altro da dire. Oggi le cose sono molto cambiate. Uno dei maggiori scrittori italiani, Francesco Piccolo, è casertano e la stessa città di Caserta è al centro di libri e romanzi: La città distratta di Antonio Pascale, ma anche Di dove sei di Marilena Lucente che racconta «la città intorno alla Reggia» dove «nulla è come sembra». Poi, naturalmente, «il libro italiano più importante degli ultimi dieci anni» secondo la definizione che ne diede il New York Times: Gomorra di Roberto Saviano. Eppure, proprio i casertani più illustri e conosciuti, da Saviano a Piccolo, dai Servillo a Fausto Mesolella, non sono poi così “riconosciuti” da Caserta, tanto che Mesolella da Sanremo canta «Caserta cor ‘ngrato». Ce n’è quanto basta per dire, riprendendo il concerto del Blasco e il tormentone di un altro celebre rockettaro, che ci sono almeno due città: la Caserta rock e la Caserta lenta.
O
La prima, la Caserta rock, è la Caserta del pensiero. La seconda, la Caserta lenta, è la Caserta dell’azione. La prima è molto più ricca e viva e varia di quanto non si creda: oltre ai “soliti noti”, conosciuti anche al di là di Terra di Lavoro, c’è poi chi in questa terra ci lavora e si fa largo con idee e attività di valore: Luigi Iannone (saggista), Gianluigi Guarino (giornalista), Adele Vairo (preside), Nadia Verdile (professoressa), Roberto Battaglia (imprenditore) e poi quella Rosaria Capacchione che non necessita di definizione. A questo pensiero rock non corrisponde, purtroppo, un’azione sostenuta da ritmo perché la politica è lenta e la musica, indipendentemente dai musicanti, è sempre la stessa. A maggio si voterà per avere nuovo consiglio comunale e altro sindaco, ma tutto va avanti lentamente quasi ci fosse uno scollamento tra la quotidianità dei casertani illustri e non e la quotidianità della giostra politica. Sarà anche questo il motivo del mancato “riconoscimento” di cui Saviano si è lamentato con Francesco Piccolo? Diciamo la verità: lo sfogo di Saviano con l’altro ex liceale del Diaz, l’autore di Momenti di trascurabile felicità, è solo un momento di trascurabile infelicità. Si può capire Saviano: è famoso nel mondo, ma vuole che gli sia dato ciò che gli spetta soprattutto a casa sua e «nella scuola che ci ha formati». In fondo, Gomorra che cosa vuole e cosa spera se non che le cose cambino? Tuttavia, se il riconoscimento non c’è non è solo perché nessuno è profeta in patria, ma perché a Caserta, che è terra di transito, il riconoscimento ha un valore privato ma non un senso pubblico. Ci può essere riconoscenza, ma non riconoscimento. Per dirla con Mesolella: «Caserta mostra disinteresse». Appunto, alla Caserta rock risponde la Caserta lenta, al pensiero non segue l’azione.
politica
pagina 8 • 19 febbraio 2011
Ancora polemiche sull’Unità. Mentre il commento di Benigni all’Inno di Mameli ha fatto un grande record di ascolti: 18 milioni
La Lega guasta la festa
Dopo settimane di dubbi, il governo vara il decreto sul 17 marzo. Ma il Carroccio vota no e Calderoli commenta: «È tutta una follia» di Andrea Ottieri
ROMA. Abbiamo la maggioranza più ubiqua d’Italia, ora è ufficiale. E spesso la Lega è in disaccordo con se stessa. La notizia del giorno è questa: dopo settimane di polemiche, di sì, no, non so, forse…, il Consiglio dei ministri ieri ha varato il decreto legge che istituisce la celebrazione per il 150° dell’Unità d’Italia e ha stabilito definitivamente che il 17 marzo (appunto in coincidenza con il giorno in cui nel 1861 venne proclamata la nascita del Regno d’Italia) sarà festa nazionale. Ma, colpo di scena, il Carroccio ha deto sì ma anche no: Bossi e Calderoli hanno votato contro, mentre Maroni - per unanime considerazione il più diplomatico della pattuglia - era assente. In un luogo normale, un partito che vota no a un provvedimento tanto importante del governo di cui fa parte, contestualmente avrebbe dovuto dare le dimissioni dall’esecutivo. E invece no. La Lega ha una soluzione per tutto: l’importante è governare a Roma e fare opposizione in Brianza. Sicché, finito il Consiglio dei ministri Calderoli è uscito, ha aspettato che microfoni e block-notes si aprissero davanti a lui e poi ha specificato: «Questo provvedimento è privo di copertura e viene adottato in un Paese che ha il primo debito pubblico europeo e il terzo a livello mondiale e in più in un momento di crisi. Perciò è una follia». Peccato che a portare questo Paese ad avere «il primo debito pubblico europeo e il terzo a livello mondiale» sia stato anche il suo governo.
Tant’è. Proprio all’indomani del clamoroso successo del Benigni unificatore al Festival di Sanremo (la sua esegesi dell’Inno di Mameli è stata vista da 18 milioni di spettatori e sei televisori ogni dieci accesi l’altra sera nel nostro Paese erano sintonizzati su di lui), la Lega rilancia la propria estraneità a un’idea unitaria dell’Italia. E gli ex-An del Pdl che sulla celebrazione dell’Unità d’Italia avevano fondato la loro più netta identità all’interno della compagine di governo - hanno dovuto fare buon viso a catti-
Ancora una volta, i leghisti dimostrano la loro incapacità di rispettare il Paese che governano
Un Roberto memorabile per dimenticare Umberto di Giancristiano Desiderio er l’Italia si può morire, per il Pil no. Per l’Italia si può morire, come è accaduto per unirla, difenderla e far vivere gli italiani in pace, liberi e nel benessere. Ma per il prodotto interno lordo, per quanto sia importante e determinante per la creazione del benessere, non si può di certo morire. Roberto Calderoli, dunque, per criticare la scelta del suo stesso governo di riconoscere al 17 marzo la dignità di festa nazionale ha sbagliato argomento: si è nascosto dietro al dito della produttività e dei costi, ma avrebbe fatto meglio a manifestare in tutta sincerità la sua antipatia per l’idea patriottica dell’Italia una e indivisibile. Perché la questione è questa e non altra: la Lega nutre nella sua pancia elettorale sentimenti anti-italiani e i suoi rappresentanti di governo, che nutrono la concretissima ambizione di una riforma della forma di Stato in senso federalista, non sono in grado di superare il provinciale spirito di fazione con una cultura italiana del senso storico e morale della patria. Roberto Maroni, il leghista oggi forse più autorevole e perfettamente inserito nel cuore delle istituzioni, dovrebbe esserne consapevole: un federalismo nascente non da una cultura italiana, bensì da un sentimento anti-italiano è debole e non annuncia nulla di buono per la stessa “questione settentrionale”. Tuttavia, anche Maroni, il ministro dell’Interno, si è astenuto sul decreto del suo governo per la festa nazionale del 17 marzo.
P
Il decreto del governo Berlusconi è una brutta storia che festeggia una bella storia. Roberto Benigni l’altra sera ha mostrato a tutti come si può essere italiani prima di tutto manifestando riconoscenza e riconoscimento a quanti sono venuti prima di noi e ci hanno permesso di essere noi. Spesso il comico fiorentino, ricordando i “padri della patria” e leggendo e commentando i versi dell’Inno di Mameli, ha usato questa espressione: «fatto memorabile», «giornata memorabile», «azione memorabile». Possiamo dire la stessa cosa della sua esibizione patriottica dal palco dell’Ariston: memorabile. Sentir dire a Benigni, allo stesso tempo con leggerezza e autorevolezza, che il dialetto è importante,
ma per scrivere la Critica della ragion pura di Kant o l’Estetica di Croce c’è bisogno di una lingua e che la nostra lingua è quella che nasce con il comune padre Dante, ma che solo nell’età del Risorgimento si riesce a dare uno Stato nazionale al «volgo disperso che nome non ha», come recita l’ultima verso del coro dell’Adelchi; ecco, sentir dire questo persino citando la povera Ruby Rubacuori ci fa superare e rivalutare anche il Festival sanremese. Serata memorabile, Umberto. Mentre non si dirà altrettanto del Consiglio dei ministri di ieri: giornata da dimenticare. Nel senso che non merita il ricordo. L’anomalia di quel decreto non sta nei costi ma nei tempi: il governo avrebbe dovuto decidere da un pezzo, almeno un anno fa e invece ci si è ricordati della patria e della nazione, del Risorgimento e della storia morale dell’Italia soltanto un mese prima. Signori del governo, ma se non ci fosse stato Benigni, quando gli italiani avrebbero ascoltato parlare il loro sentimento di patria che nonostante tutto gli abita il cuore e li rende migliori del loro scetticismo?
Silvio Berlusconi è indaffarato a trovare parlamentari per ingrossare le fila della sua maggioranza senz’anima. Non riusciamo a essere cinici con il presidente del Consiglio perché nutriamo per la sua persona una simpatia umana pre-politica. Tuttavia, non possiamo nascondere a noi stessi che vorremmo un altro capo del governo per festeggiare il senso dell’esistenza dell’Italia una e indivisibile. Ci sono momenti in cui un governo, che per definizione è una parte, deve sapersi spogliare della natura partitica per almeno provare a essere quanto più fedele possibile alla patria comune o, come si usava dire un tempo, a una certa idea di Italia. Oggi invece sappiamo che per quanto il presidente del Consiglio si sforzerà di essere se stesso e di mostrarsi come un riassunto nazionale, le sue parole saranno in contraddizione con il suo governo che è diviso nientemeno che sull’Italia. Cosa significa? Non ci saranno particolari effetti negativi, ma di una cosa possiamo essere certi: non ci saranno neanche fatti positivi. A quanti hanno fatto dei 150 anni di Unità un argomento da Pil si dovrà dire che il primo ingrediente di una buona economia è la fiducia. Ciò che questo governo, al di là delle fazioni, non sa suscitare negli italiani e che un comico con il riso e il pianto ha espresso con pietà e amore.
vo gioco. L’ingrato compito di commentare la questione in conferenza stampa, per esempio, è toccato a La Russa (per inciso, l’altra sera visibilmente commosso di fronte alla bella performance patriottica di Benigni). «Se pur in modo garbato, i ministri della Lega hanno espresso una diversità di opinione», ha detto La Russa. Che poi ha precisato come la questione della copertura finanziaria (il motivo addotto da Calderoli) sia stata di fatto superata con il trasferimento «degli effetti economici e degli istituti
Dopo il cdm, è toccato a La Russa «perdonare» i colleghi padani: «Oggi, da loro è arrivata solo una critica garbata» giuridici e contrattuali dalla festa del 4 novembre al 17 marzo». E ha chiarito che «questo varrà solo per il 2011».
Ma se la maggioranza, per ovvie ragioni, cerca di minimizzare la spaccatura al proprio interno, l’opposizione non perde l’occasione per picchiare duro. «È una vergogna avere un governo che riesce a spaccarsi su cose di questo genere»: questo il commento del segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. «È un calcio agli stinchi del Paese una testimonaizna in più che in questo momento non abbiamo un presidente del Consiglio in grado di dare una rotta». Sullo stesso tenore le dichiarazioni del portavoce dell’Idv, Leoluca Orlando: «Le celebrazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia sono state calpestate e svilite da
politica
19 febbraio 2011 • pagina 9
Il ministro Angelino Alfano, nel corso del Consiglio dei ministri di ieri ha presentato un rapporto sulla giustizia che è stato approvato dall’esecutivo. Nella pagina a fianco, Bossi insieme a Calderoli e Roberto Benigni venerdì a Sanremo
Intercettazioni e immunità, nuovo blitz Per l’ennesima volta Alfano annuncia la riforma della giustizia. Ma sono altri gli obiettivi del Cavaliere di Francesco Pacifico
ROMA. L’unica concessione è a Giorgio Napolitano. Non con un decreto – che il Colle ha già fatto sapere di non voler controfirmare – ma con un disegno di legge Silvio Berlusconi si appresta a presentare l’ennesima stretta sulle intercettazioni. E già entro la prossima settimana potrebbe essere depositato un testo alle Camere. Ieri il Cavaliere ha dimostrato che, dopo l’economia, il rilancio del suo governo passa anche per un capitolo esplosivo come la giustizia. E l’annessa guerra contro la magistratura. Non a caso Pier Ferdinando Casini ha parlato di «provvedimenti che servono solo Berlusconi e ai suoi processi», mentre l’Anm chiede «di porre fine a queste aggressioni». Così in Consiglio dei ministri ha stretto le file e dato il via a una riforma «basata su elementi di civiltà». Che spazi dalla separazione delle carriere dei magistrati, alla loro responsabilità civile e al doppio Csm, fino al ripristino dell’immunità parlamentare, facendo proprio una proposta di Peppino Calderoli per riscrivere l’articolo 68 della Costituzione. Queste misure il centrodestra le annuncia dal 1994. Però richiedono tempo, vanno approvate in doppia lettura. Mentre l’esecutivo – se non sarà travolto dal processo per direttissima che il 6 aprile si aprirà contro il premier – ha 3 anni prima del voto. Quindi serve mandare prima un segnale netto a quella che a Palazzo Chigi viene considerata la vera opposizione. Tra Bossi e Calderoli che si sono questo governo, apparso sempre più in difficoltà di fronte ai diktat leghisti. Il Cdm di oggi ha reso evidenti le spaccature dell’esecutivo, che ormai sta in piedi solo per onor di poltrona». D’altra parte è palese e singolare che il governo mostri un Paese diviso proprio nel celebrare un Paese unito. Ad uni-
messi di traverso sulla festa del 17 marzo, Paolo Romani che ha dovuto riscrivere i criteri per scegliere le future centrali nucleari e farsi autorizzare l’emissione del francobollo per Giovanni Paolo II Santo, in una mattinata tanto convulsa Silvio Berlusconi ha annunciato di voler chiudere presto la pratica intercettazioni. Da cestinare il testo oggi in commissione Giustizia e affievolito su input di Gianfranco Fini. Adesso il presidente della Camera è all’opposizione e il Cavaliere ha intenzione di presentare un disegno di legge molto simile alla prima versione, quello che aveva l’obiettivo esplicito di bloccare sia l’autorizzazione all’ascolto sia la diffusione dei brogliacci sui giornali. Tre saranno i capisaldi del disegno di legge: obbligo di autorizzare il ricorso alle intercettazioni soltanto per i reati con pena superiore ai 10 anni (in primis per casi di terrorismo e mafia); forti sanzioni disciplinari a magistrati, avvocati e cancellieri che diffondono le notizie (non dovrebbe essere più previsto l’arresto per i giornalisti); accorpamento delle centrali per ridurre una spesa che oggi è pari a 280 milioni di euro. Martedì il ministro Angelino Alfano e i colleghi coinvolti dalla riforma, funzionari del governo che si occupano della materia e alcuni giuristi si daranno appuntamento per il comitato ristretto tecnico. Mercoledì è in pro-
re, comunque, giovedì sera ci aveva pensato Roberto Benigni, al quale è arrivato un plauso generale. Intanto, il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha telefonato giovedì sera stessa a Roberto Benigni, complimentandosi «per la passione e la competenza con cui ha spiegato, dal palco
gramma la consulta giuridica del Pdl. Giovedì, invece, la Commissione giustizia del Senato non ha nulla in programma.Tanto che c’è chi azzarda che in queste 72 ore il Popolo delle Libertà punti a scrivere e a depositare gli articolati. Ieri, mentre Angelino Alfano leggeva la relazione tecnica sulla riforma, si è visto interrompere dal premier, che ha intimato ai suoi di mettere insieme e in fretta tutte le bozze sulla giustizia congelate per gli scontri con i finiani e con il Quirinale. Pare che abbia fatto un accenno anche alla possibilità di portarle fuori sacco nello stesso Consiglio dei ministri. A quanto pare dovrà pazientare ancora qualche giorno. Alfano ha fatto sapere di aver bisogno di un paio di settimane per portare in Consiglio dei ministri i disegni di legge che riguardano tutte quelli parti della riforma che toccano la Costituzione e necessitano di doppia lettura. L’unico escamatoge finora trovato per velocizzare i tempi l’ha suggerito l’ex sottosegretario Luigi Vitali e riguarda le intercettazioni da approvare con legge ordinaria: spezzettare il provvedimento in più testo da presentare in parte alla Camera in parte al Senato per ottimizzare il calendario. Il Cavaliere è convinto che ci siano gli spazi per approvare altre misure sulla giustizia a tempo record. E poco importa che i lavori parlamentari o gli
Microspie solo per i reati più gravi e sanzioni disciplinari per le toghe che danno alla stampa i brogliacci
dell’Ariston di Sanremo, le parole ed il senso profondo dell’Inno Nazionale». Ma anche il quotidiano della Santa Sede, l’Osservatore Romano ha promosso a pieni voti la performance di Benigni. «Fatta la tara del tono retorico, che pure era necessario utilizzare per sintetizzare 150 anni di storia in
umori del centrodestra dicano il contrario. Non potendo più controllare la maggioranza nelle commissioni Bilancio e Affari costituzionali della Camera, sul Milleproroghe il Pdl è stato costretto a bocciare la scelta del relatore per far decadere i tanti emendamenti presentati dalle opposizioni e blindare il testo che è arrivato dal Senato. Per non parlare della caccia ai deputati per arrivare a quota 325 a Montecitorio: nonostante i passi avanti fatte in queste settimane, l’obiettivo non è stato ancora raggiunto. È per tuto questo che continua a girare una voce – difficilmente credibile – secondo la quale il Popolo delle Libertà sarebbe pronto a inserire nel pacchetto antiterrorismo un emendamento per portare da diciassette a sedici l’età in cui scatta il reato di abuso della prostituzione minorile, equiparandola ai rapporti consenzienti con minorenni. Va da sé che, in base al concetto di favor reo, anche il processo che vede Silvio Berlusconi indagato per aver fatto sesso con la diciassettenne Ruby salterebbe.
Se questa è un’ipotesi, le certezze sono la separazione completa delle carriere tra giudicanti e inquirenti, la creazione di un doppio Csm, l’introduzione di norme disciplinari più stringenti contro i magistrati (si parla di un organismo ad hoc, ma anche di maggiori poteri per il Guardasigilli), oltre al tentativo di reintrodurre l’immunità per i parlamentari. Ma per fare tutto questo a Berlusconi non basterà chiedere ai suoi ministri «di fare presto».
mezz’ora, con il suo commento all’Inno di Mameli – ha spiegato Marcello Filotei, il critico del giornale vaticano - Benigni ha dimostrato che esiste ancora un popolo italiano capace di emozionarsi se i valori comuni sono presentati in maniera convincente». Benigni «ha usato la retorica e anche le armi
ironiche di cui dispone per accattivarsi la simpatia del pubblico, utilizzando poi la credibilità acquisita per commuovere in senso etimologico, cioè per muovere insieme verso qualcosa che unisce». Per l’appunto, c’è voluto un comico (un grande comico) per tenere unito ciò che il governo ha diviso.
politica
pagina 10 • 19 febbraio 2011
La cerimonia per l’anniversario del Concordato s’è tenuta normalmente, ma con una certa rigidità formale nel protocollo
Grande freddo in Vaticano
Dopo il no alla visita privata con Bertone, Berlusconi si reca alla Santa Sede di Marco Palombi
ROMA. Erano le 16.20 ieri quando è cominciata la più imbarazzante cerimonia tra le 82 che hanno celebrato i Patti lateranensi (e poi anche la revisione del Concordato) tra lo Stato italiano e la Chiesa di Roma. Scenario: la nostra ambasciata presso la Santa Sede. Presenti: il premier Berlusconi, il suo tutore Gianni Letta, i ministri Tremonti, Frattini e Alfano e il sottosegretario Bonaiuti. Per la controparte, accompagnati da una nutrita delegazione ecclesiastica, il segretario di Stato Bertone e il presidente della Conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco. Come anticipato, non c’è stato alcun incontro privato col primo ministro del Papa per il presidente del Consiglio: in Vaticano temevano troppo - e con qualche ragione - che un appuntamento di questo genere sarebbe stato presentato da palazzo Chigi come un’assoluzione della Chiesa per “il peccatore” Berlusconi. E così la cerimonia s’è tenuta normalmente, ma con una certa rigidità formale nel protocollo assente in occasioni analoghe: tale era l’attesa e la tensione, anche tra i poveri cronisti, che un innocuo scambio di frasi tra Bagnasco e il Cavaliere è divenuto un flash d’agenzia, una stretta di mano tra lo stes-
blico: «Si moltiplicano notizie che riferiscono di comportamenti contrari al pubblico decoro e si esibiscono squarci - veri o presunti - di stili non compatibili con la sobrietà e la correttezza, mentre qualcuno si chiede a che cosa sia dovuta l’ingente mole di strumenti di indagine», mise a verbale il segretario di Stato barcamenandosi tra il cerchio e la botte. Stessi concetti espressi dai due emissari inviati dallo stesso Bertone a Gianni Letta all’indomani di queste parole: critiche al comportamento personale del premier, ma tenuta nei rapporti politico-diplomatici.
non è un fatto che possa passare inosservato in Vaticano.
Il fatto è, come ha dimostrato un recente sondaggio promosso dai cristiano sociali del Pd, che la cosiddetta base cattolica non apprezza la disinvoltura morale del premier e non le basta a dimenticare il richiamo alla fallibilità dell’umano o magari quello alla privacy di moda tra chi crede nella funzione politica della Chiesa e assai meno in quella spirituale. La stampa cattolica aveva già provveduto a chiari-
Era presente, ma solo nella seconda parte delle celebrazioni, anche Gianfranco Fini insieme al collega Schifani e al capo dello Stato so Berlusconi e Fini - presente nella seconda parte delle celebrazioni insieme al collega Schifani e al capo dello Stato un fatto di cui dare conto con qualche rilievo. Riassumendo, la curia romana non ha voluto in alcun modo mettere in crisi i rapporti diplomatici tra Italia e Santa Sede, né le affinità “politiche” ancora possibili in questa legislatura, ma non è disposta all’endorsement per il premier come è accaduto in passato: la pochade scollacciata di cui Silvio Berlusconi è protagonista coram populo
re l’imbarazzo di quel mondo: sia Avvenire - con inconsueta nettezza («se fossi una donna domenica 13 febbraio sarei in piazza per dignità e senso morale», ha scritto il direttore Tarquinio) - sia Famiglia Cristiana hanno risposto all’appello di una parte consistente della comunità dei fedeli che chiedeva di non restare in silenzio di fronte a ciò che non è accettabile. Persino Tarcisio Bertone, qualche settimana fa, ha dovuto accennare al bunga bunga presidenziale e relativo processo in un discorso pub-
Nati nel ’29, sono stati rinnovati nel 1984
Cosa sono i Patti Sotto il nome “Patti Lateranensi” si celano gli accordi di mutuo riconoscimento tra il Regno d’Italia e la Santa Sede sottoscritti l’11 febbraio 1929 nel palazzo di San Giovanni in Laterano. Furono negoziati tra il cardinale Segretario di Stato Pietro Gasparri per conto della Santa Sede e Benito Mussolini, capo del Fascismo, come primo ministro italiano. I Patti Lateranensi constavano di tre distinti documenti: il Trattato che riconosceva l’indipendenza e la sovranità della Santa Sede e fondava lo Stato della Città del Vaticano; con diversi allegati, fra cui, importante, la Convenzione Finanziaria; e il Concordato che definiva le relazioni civili e religiose in Italia tra la Chiesa ed il Governo (prima d’allora, cioè dalla nascita del Regno d’Italia, sintetizzate nel motto: «libera Chiesa in libero Stato»). La “Conven-
zione Finanziaria” regolava le questioni sorte dopo le spoliazioni degli enti ecclesiastici a causa delle leggi eversive. È stata poi prevista l’esenzione, al nuovo Stato denominato “Città del Vaticano”, dalle tasse e dai dazi sulle merci importate ed il risarcimento di «1 miliardo e 750 milioni di lire e di ulteriori titoli di Stato consolidate al 5 per cento» per i danni finanziari subiti dallo Stato pontificio in seguito alla fine del potere temporale. Nel 1948 i Patti furono riconosciuti costituzionalmente nell’articolo 7, con la conseguenza che lo Stato non può denunciarli unilateralmente senza aver prima modificato la Costituzione. Gli accordi sono stati rinnovati (rimanendo sostanzialmente immutati) nel 1984: a firmare furono Bettino Craxi per l’Italia e Agostino Casaroli per lo Stato vaticano.
Il Vaticano, infatti, quando si tratti di discutere di rapporti coi governi è effettuale quanto si conviene ad una istituzione religiosa che convive col secolo e nel secolo da un paio di millenni. La cosiddetta “agenda per la vita”, per dire, annunciata (molte volte e invano, a dir la verità) da Berlusconi non può che trovare l’assenso della Chiesa: le leggi sulla bioetica a partire da quella sul testamento biologico, il sostegno alle scuole paritarie, un piano fiscale che aiuti le famiglie con figli sono, per così dire, storicamente nel programma della Chiesa e, se la legislatura continua, non c’è motivo di non ricordarlo al governo in carica. Anche un peccatore - è stato scritto recentemente - può farsi promotore di interventi legislativi consoni alla dottrina, anche un fervente cattolico può fare il contrario. Questo è il pensiero della Chiesa, questo è il sottotesto del rapporto imbarazzante che Bagnasco e Bertone continuano a coltivare con l’inquilino di palazzo Chigi. Ufficialmente però nulla di tutto questo: al centro dei colloqui di ieri, lasciano trapelare da ambienti della Santa Sede, ci sarebbero state le violenze ai cristiani e la situazione in Medioriente e Nordafrica. Poco credibile, in verità. Comunque, alla fine, Silvio Berlusconi era felice: «Com’è andata? Benissimo, come sempre».
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Anselma Dell’Olio elodramma straziami-ma-di-artesaziami, thriller mistificatorio, horror psicologico kitsch, psicodramma sessuale isterico, frullato freak di La mosca, Eva contro Eva e Scarpette rosse, poltiglia stregonesca, scaltra guilty pleasure al cubo, opera d’arte sublime: si è scritto e detto di tutto su Il cigno nero, coinvolgente film di Darren Aronofsky (The Wrestler, Requiem for a Dream, L’albero della vita, l’unico tonfo) ed è tutto vero. Il cigno nero ha aperto la Mostra di Venezia nel settembre scorso, fischiato dalla stampa italiana, non da quella internazionale. Succede che noi critici fighetti ci facciamo ingannare da un eccesso di snobismo sofistico. Persino chi tra noi preferisce la fetta di torta alla fetta di vita ha pensato che Aronofsky era scivolato sul Grand Guignol e i clichè più triti: la concorrenza ferrigna tra primedonne, la stage mother che soffoca la figlia con le sue ambizioni frustrate, la ballerina tecnicamente impeccabile e repressa (il cigno bianco) che deve liberare la bestia oscura (il cigno nero) in lei, il coreografo mefistofelico, tiranno e seduttore, la tortura sado-masochista obbligatoria per partorire l’eccellenza, l’eros che libera la farfalla dal crisalide, blablabla. A prima vista ci siamo detti no, stavolta il regista, Leone d’oro per The Wrestler, un gran film che ha rilanciato la carriera di Mickey Rourke, ha toppato. Restava un tarlo; Aronofsky non è un qualsiasi mestierante. Ci sono cineasti i cui fallimenti sono spesso più interessanti dei successi da box office dei mestieranti. Nina Sayers (Natalie Portman) è da quattro anni in una compagnia di danza classica modellata sul New York City Ballet (con la stessa sede, Lincoln Center). Thomas Leroy (Vincent Cassel) è il direttore artistico autocratico, esigente, adorato e temuto, come il leggendario George Balanchine. S’inizia con le ballerine riunite nell’allenamento quotidiano davanti agli specchi (realtà quotidiana e metafora di narcisismo e sdoppiamento).
M
Il balletto di Tchaikovsky secondo Darren Aronofsky
L’OSSESSIONE DEL CIGNO
Acclamato e vituperato, “Black Swan” del regista di “The Wrestler” è un’altra stupenda pagina di cinema. Non un “girly movie” per vecchie ragazze nostalgiche, ma un altro capitolo del suo trattato in forma di film sulla follia. Da non perdere
Parola chiave Voce di Maurizio Ciampa John Cale classico e rocker di Stefano Bianchi
Memoriette
Picassate alla siciliana di Leone Piccioni
Oui, je suis Josephine Bonaparte di Gabriella Mecucci Javier Marías si racconta di Pier Mario Fasanotti
Carracci & Co. nel Genus Bononiae di Marco Vallora
l’ossessione del
pagina 12 • 19 febbraio 2011
La maîtresse de ballet dà un colpetto alla spalla di numerose ballerine. Alla fine annuncia: «Tutte le ragazze non toccate, vadano nel camerino delle soliste; le altre negli spogliatoi». Nina è tra le fortunate, candidate étoile del prossimo balletto: Il lago dei cigni di Tchaikovsky, la vetta da scalare per ogni ballerina classica. Odette è una principessa pura, lirica, trasformata in cigno da un mago. L’incantesimo finirà solo se sarà amata da un uomo fedele. Durante la sola ora notturna in cui Odile torna donna, incontra Siegfried, un principe in cerca di moglie. Lui è rapito e giura che amerà solo lei. Odile torna cigno, lasciandogli in pegno una piuma bianca. Durante un ballo il giovane incontra Odette (il cigno nero), straordinaria seduttrice molto somigliante a Odile, che danza per lui. Il principe è incantato, credendola Odile, e chiede la sua mano; quando si rende conto dell’inganno, è troppo tardi: Odile è cigno per sempre. Siegfried implora perdono ma il mago scatena una tempesta sul lago per annegarlo. Al cigno bianco non resta che suicidarsi tra i flutti.
Thomas sceglie Nina per il doppio ruolo ma le dice che è credibile solo come cigno bianco; è troppo legata, perfezionista, ingenua per il doppio ruolo, il più difficile di tutto il repertorio. La incalza durante le prove, la marca stretta, la pungola, la tormenta: ha la precisione, la dolce innocenza di Odile ma è troppo schiava della tecnica per essere credibile come cigno nero. Odette è passionale, libera, un’ammaliatrice con arti di seduzione tali da obnubilare la mente e scatenare le pulsioni autodistruttive di un uomo innamorato di un’altra. La «accusa» d’essere ancora vergine, le palpa la patata, la eccita e le ordina di tornare a casa e toccarsi. Nina s’addormenta al suono d’un carillon con la musica del Lago dei cigni (che ha pure sul cellulare) in una cameretta tappezzata di disegni infantili e pupazzi di peluche.Vive in una simbiosi paraincestuosa con la madre Erica (Barbara Hershey, brava da incubo e con un doppio ruolo), danzatrice fallita che dedica la vita interamente alla carriera della figlia. L’amoreodio tra madre e figlia è la più intricata delle rivalità femminili. Quella più tradizionale è con l’amica-nemica Lily (Mila Kunis) che Thomas chiama da San Francisco per fare da sostituta a Nina. Sensuale, scafata, tatuata, senza complessi, è la più pericolosa delle contendenti (tutte le soliste lo sono) e manda in paranoia Nina. Kunis ha guanciotte piene, lo sguardo invadente. La minuscola Portman, già un fuscello, ha perso dieci chili e si è allenata per mesi per aderire alla parte. Con le ossicine sporgenti, il viso scavato e gli occhi da cerbiatta spaventata, il contrasto con Lily è netto. La più navigata la trascina in discoteca, con rimorchio di ragazzi e anno IV - numero 7 - pagina II
la via, senza più avere bisogno di una custode. Il cigno nero, visto la seconda volta, senza dover seguire la trama e districare i fili della voluta confusione tra fantasia e realtà, suscita ammirazione per la stupenda pagina di cinema realizzata dal regista, dal suo direttore della fotografia Matthew Labatique, d’origine filippina, e dal montatore Andrew Weisblum. Labatique (Requiem for a Dream, L’albero della vita) sa catturare le visioni allucinatorie e deliranti immaginate dal regista, per esprimere stati interiori. I tre collaboratori hanno raffinato ulteriormente l’uso della Snorricam (Mean Streets, Babel, Il milionario) detta anche bodycam, imbragata sul corpo dell’attore, e di molti primi piani e immagini fast motion, poi montati a pezzetti in rapida successione, per simulare una psiche alterata dalla droga o dalla psicosi e la caotica mescolanza tra sogno e realtà. Si chiama montaggio hip hop (dai videoclip del genere musicale) e lo usa, in maniera molto diversa, anche Guy Ritchie (Lock, Stock, and Two Smoking Barrels, RocknRolla).
consumo di ecstasy. In Nina, che lo stress delle prove e il terrore di fallire hanno reso borderline psicotica, si scatenano desiderio, pulsioni omicide, autolesionismo: sono graffi sulla schiena o ali che spuntano? Il confine tra vero e fantastico, e tra io, super-io e subconscio sparisce. La scena più fantasiosa, in un film dove debordano, è quella in cui le danzatrici si fanno intorno a Nina dopo una caduta in palcoscenico, chiedendole premurose se sta bene. Secondo gli addetti ai lavori, è pura fantascienza. Ognuna starebbe col fiato sospeso nella speranza di poterla sostituire in caso d’infortunio. Il conflitto con la madre è ben diverso, più morboso, scisso, ambiguo, il segreto malato incistito nella complicità. Le ballerine stanno sempre a dieta: la forma e il peso ideale sono da custodire sempre con la massima vigilanza. Erica compra una torta ipercalorica per «festeggiare» l’assegnamento del ruolo agognato alla figlia, che gliel’ha detto subito. Nina guarda il dolce con disgusto: «Mamma no, non riesco a mangiare, ho ancora lo stomaco chiuso dall’emozione». Mammina cara da festante si rabbuia, prende il trionfo di pasticceria e fa per buttarlo nella spazzatura, furibonda. Nina, persa davanti all’ira della persona che passa la vita a compiacere, la blocca. La donna rispolvera un sorriso agghiacciante, prende una ditata della glassa cremosa e la infila nella bocca tremante della sua «bimba», che si sforza di non vomitare.Tra le molte scene disturbanti, è la più inquietante, patologica, verosimile.
Verso l’alba Nina si sveglia e comincia a muoversi sotto il piumone a fiori rosa. Si sta toccando a occhi chiusi. Arrivata vicino all’orgasmo, si gira sulla pancia: sussulta quando scopre la madre appisolata sulla poltrona accanto al letto, dove ha passato la notte: è una hover mother, la madre colibrì che non rispetta i confini, un’altra immagine di puro orrore. Poco dopo, portando fuori la spazzatura, Nina raccoglie un bastone di legno tra i bidoni, che usa per bloccare la sua porta contro l’invadenza della mamma. È l’inizio della rivolta. Il cordone ombelicale riceve un secondo strattone brutale quando la madre non la sveglia dopo la notte brava con Lily, e senza interpellarla chiama la compagnia per dire che la figlia sta male e non andrà alle prove. Nina fuori di sé si veste di corsa, mentre la madre le sibila che non è in grado, il ruolo è troppo per lei, non ce la farà mai. «Io sono la regina dei cigni» urla Nina mentre scappa via, «e tu non sei nessuno!». È scioccante rendersi conto che la premura materna è lastricata di gelosia, della voglia di ostacolarla. Se la figlia fallisce l’obiettivo, resta sua e uguale a lei; se lo centra, dimostra la sua superiorità e vo-
cigno
IL CIGNO NERO - BLACK SWAN GENERE DRAMMATICO DURATA 103 MINUTI PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE 20TH CENTURY FOX
REGIA DARREN ARONOFSKY INTERPRETI NATALIE PORTMAN, MILA KUNIS, CHRISTOPHER GARTIN, WINONA RYDER, VINCENT CASSEL, BARBARA HERSHEY, SEBASTIAN STAN, TOBY HEMINGWAY, KRISTINA ANAPAU, JANET MONTGOMERY
Qualcuno potrebbe scambiare un film sulla danza per roba da femmine, un girly movie per le legioni di vecchie ragazze che hanno ballato sulle punte da piccole. Sarebbe una lettura riduttiva e molto superficiale. Il costo psicofisico dell’etereo splendore del balletto è alto e cruento: piedi deformati e sanguinanti per lo sforzo innaturale, ore e ore di massacranti prove quotidiane, il sacrificio di una giovinezza spensierata e di una vita privata appagante. L’autore (con tre sceneggiatori tutti maschi) è ossessionato dall’ossessione stessa. Pi - il teorema del delirio (premio per la regia a Sundance) è la storia di un matematico paranoico, che impazzisce nell’inseguimento di un numero chiave che schiuderà i segreti dell’universo. Requiem for a Dream (Ellen Burstyn candidata all’Oscar), dal romanzo di Hugh Selby Jr., racconta il maniacale perseguimento dello sballo perfetto e duraturo e la follia che ne consegue. L’albero della vita parla della ricerca della fonte d’eterna giovinezza, almeno credo; il film copre mille anni, tre storie in epoche diverse, con gli stessi attori. Fischiato alla Mostra di Venezia, è bello, noioso e incomprensibile. Dato per morto artisticamente, Aronofsky risorge con The Wrestler (proprio come Rourke), un successo di critica e al botteghino. È sempre la storia di uno che sacrifica tutto e mortifica il corpo per la sua professione. «La fissazione è peggio della malattia», si dice, e secondo alcuni critici è Aronofsky stesso che va liberato dalla sindrome che mette in scena così bene. Portman è la favorita per l’Oscar e Il cigno nero merita le cinque nomination ricevute: film, regia, attrice, montaggio, fotografia. Si potrà amarlo o criticarlo ma non mancarlo. Da vedere.
MobyDICK
parola chiave
19 febbraio 2011 • pagina 13
VOCE utto, o quasi tutto ciò che appartiene all’uomo passa attraverso le vibrazioni di una voce: il canto è voce, e lo è il sussurrare della parola d’amore, lo è il grido lacerante del bimbo alla nascita, o il rantolo estenuato dell’agonizzante. La voce scandisce i tempi e le espressioni della vita e della morte. La voce è l’uomo, è la sua storia. Affastellando questi pensieri, mi sono tornate alla mente le parole di un grande scrittore olandese contemporaneo, forse il più rappresentativo della sua letteratura, o comunque il più conosciuto anche da noi. Si chiama Cees Nooteboom e ha sorprendentemente descritto la città di Amsterdam, dove vive parte dell’anno, nell’alternarsi delle sue voci. Ma ogni città - questo è il pensiero di Nooteboom - è un teatro di voci, presenti e passate, un accatastarsi, sovrapporsi, stratificarsi di suoni e di voci, la cui somma assume un segno probabilinconfondibile. mente Amsterdam, Parigi, Londra o Roma o New York hanno un suono, una voce così come hanno una luce che le caratterizza e le differenzia.
T
Una città - ha scritto Nooteboom - «è tutte le parole che in essa furono dette, un continuo, interminabile mormorare, sussurrare, cantare, gridare che è risuonato nel corso dei secoli per poi dissolversi. Per quanto sia svanito nel nulla, è parte integrante di una città anche ciò che non sarà mai possibile ricostruire, ma che le appartiene per il semplice fatto di essere stato detto o gridato in una notte d’inverno o in una mattina d’estate proprio in quel punto. Le parole del predicatore ambulante, la sentenza del tribunale, le grida di dolore del fustigato, l’offerta fatta a un’asta, l’ordinanza, il manifesto, la manifestazione, il libello, l’annuncio di morte, la voce della sentinella, le parole di re, suore, prostitute, capi di Stato, giudici, boia, navigatori, mercenari, guardiani delle chiuse, architetti, questo continuo dialogo lungo i canali nel corpo vivo della città, tutto questo costituisce la città stessa». Mi sono dilungato in questa citazione, perché mi risultava difficile staccarmi da un’immagine tanto seducente: la città come insieme delle voci che l’hanno attraversata, ordito, labirinto di voci. La forte seduzione di questa immagine viene proprio dalla lunga, dettagliata elencazione delle voci e dagli eccentrici accostamenti cui dà luogo: «le parole del predicatore ambulante… di re, suore, prostitute, capi di Stato, giudici, boia…». È in questo coacervo sonoro che si sente scorrere, pulsare, passare la vita. Come il battito del polso o il ritmo del cuore, così le
Scandisce i tempi e le espressioni dell’esistenza e della morte: è l’uomo, è la sua storia. Lo stato delle cose si coglie dai suoni che esse emettono e che sono la manifestazione di ciò che è vivo
In ascolto del mondo di Maurizio Ciampa
A Marrakech Elias Canetti andava a caccia di umane sonorità attraverso le quali decifrava la città. Invece Pavel Florenskij, rinchiuso per quattro anni nel gulag delle Solovki e poi eliminato, colse il segno di quell’oppressiva esperienza nella cappa di silenzio che lo circondava voci, nella loro stordente pluralità, scandiscono lo spazio della città e ne formano la storia.
Dicevo all’inizio che la voce è l’uomo. Mi pare che le parole di Cees Nooteboom abbiano chiarito il senso di un’affermazione che, sulle prime, poteva apparire eccessivamente sintetica. Era un modo, probabilmente troppo rapido, per dar conto di una nuova significativa attenzione che passa attraverso la voce. A guardar bene, è presente da tempo nella nostra cultura. In un libro di oltre trent’anni fa Rumori - l’economista Jacques Attali diceva: «Il mondo non si guarda, si ode. Non si legge, si ascolta». E, più all’indietro, ci sono i due libri straordi-
nari di Elias Canetti, Le voci di Marrakech e Il testimone auricolare con le sue «fisionomie auditive». Possiamo immaginare il burbero Canetti come un abile cacciatore di umane sonorità, capace di leggere lo stato del mondo nelle inflessioni di una voce. O nella sua assenza, come fa il grande filosofo e teologo russo Pavel Florenskij, rinchiuso per quattro anni nel gulag delle Solovki e poi brutalmente eliminato. Che cosa immediatamente nota Florenskij? Quale è il segno della sua nuova terribile esperienza? Un’oppressiva cappa di silenzio. Ma perché il silenzio dove, in uno spazio esiguo, soffocante, si accalcano tanti uomini? Per Florenskij il silenzio conosciuto nel gulag è semplicemente assenza di
voce, quella della natura e quella degli uomini, la tranquilla armoniosa orchestrazione delle voci, un gaio brusio, un grembo di suoni temperati. Ecco il rilievo strategico, nella nostra cultura, della parola «voce». Non deve dunque sorprendere se a Bologna, da una decina d’anni, è attivo un «Centro della Voce», diretto da Lino Britto, che attorno a questa «parola chiave» si muove con grande fervore, promuove ricerca (dalla «voce come codice genetico al suo uso come principale mezzo di comunicazione»), organizza memorabili eventi culturali, come quello dell’anno passato che ha avvicinato, muovendosi tra la Basilica di San Petronio e l’Università, la musica di Arvo Pärt e la costruzione d’immagini di Bill Viola: non un semplice intreccio di forme, ma un dialogo di anime. Molto il Centro di Bologna farà nell’immediato futuro. In fondo, l’esplorazione della voce è solo all’inizio. E si tratta di un continente, non di una circoscritta regione. Sono in questione l’ascolto del mondo, e l’uomo, la sua storia, le sue produzioni simboliche. L’orizzonte è ampio, e può creare un effetto di stordimento in chi si trova a guardarlo.
«Una voce significa questo: c’è una persona viva, gola, torace, sentimenti, che spinge nell’aria questa voce diversa da tutte le altre voci», ha scritto Italo Calvino in uno dei suoi ultimi racconti, Un re in ascolto. Una nuova «mappa del mondo», tanto cara a Italo Calvino, una autentica ossessione che percorre tutta la sua opera, forse può partire proprio da questo segno minimo: «C’è una persona viva». È la stessa constatazione che fa Canetti: gli «arabeschi acustici» dei mendicanti di Marrakech, le loro voci che si assottigliano in una litania ripetuta quasi all’infinito, non sono che la sonorità elementare dell’essere vivo. Questo è la voce: la manifestazione di ciò che è vivo e rompe l’involucro del silenzio. Non nasce così il mondo nel racconto di Genesi? È una voce a generarlo, una parola: «Dio disse.“Sia la luce”. E la luce fu». Dov’era il silenzio, il «deserto», le «tenebre», dell’informe, ora si distende l’ordinata geometria della creazione. Ed è la voce che ha percorso quella strada, è la voce che, vibrando, mette in esistenza. «C’è una persona viva»: una voce ne rivela la presenza. Il sapere dell’uomo, la «mappa del mondo», che oggi è un disegno confuso costantemente affacciato sull’indecifrabile, può tornare ad articolare la sua trama a partire da questa constatazione elementare, ma difficile. Possiamo ripartire da una voce.
MobyDICK
Pop
pagina 14 • 19 febbraio 2011
musica
di Bruno Giurato
Le mode passano MA JEFF BECK RESTA
di Stefano Bianchi are musica, per John Cale, equivale a «inspirare ed espirare». Me lo confidò in un’intervista telefonica. Con la musica ci vive: non tanto nel senso di quattrini (è pur sempre artista di nicchia), quanto di cuore che batte. Una questione fisiologica. L’introverso gallese adottato da New York, negli anni Sessanta organizza con La Monte Young il Dream Syndacate, ensemble votato alla sperimentazione. Poi con Lou Reed, Maureen Tucker, Sterling Morrison e Nico dà vita ai Velvet Underground sponsorizzati da Andy Warhol. Dopo due ellepì, preferisce proseguire da solo pur di restarsene caratterialmente in disparte, chiuso nel suo guscio. E dalla musica, a partire dagli anni Settanta, cava fuori suoni caustici, slabbrati, soavi, romantici. Alternandosi alla viola, al pianoforte e alla chitarra, padroneggiando una voce nevroticamente passionale, John Cale è transitato dal folk psichedelico (Vintage Violence) alla magniloquenza sinfonica (The Academy In Peril); dall’estetismo cameristico (Paris 1919) alla sporcizia rock (Fear); dall’unplugged (Music For A New Society) all’overdose elettronica (Artificial Intelligence); dal pop intellettuale (Walking On Locusts), al technopop obliquo (Hobosapiens). E ogni volta, dal vivo, s’è messo in discussione disossando il proprio repertorio allo scopo di rintracciarne la matrice classica (Fragments Of A Rainy Season) ed esasperando il rock fino a destrutturarlo (Sabotage! Live). Questa doppia identità di musicista classico e rocker, si svela ai massimi livelli nel doppio cd Live At Rockpalast che propone due concerti tedeschi: quello registrato il 6 marzo 1983 allo Zeche di Bochum e quello del 13 ottobre 1984, inserito nel Rockpalast Festival, alla Gru-
eno male che Jeff Beck c’è. Nessun dorma rifatta da lui è un caso unico di grande melodia italiana (meglio di Eros Ramazzotti, nientemeno) non massacrata da rivisitazioni pop. E quel che è davvero incredibile è che la melodia viene da una chitarra elettrica, la Fender del vecchio Beck appunto. Della magnificenza beckiana si sono accorti da tempo quelli dei Grammy Awards, che quest’anno lo hanno premiato per la migliore performance rock strumentale. Ma sono anni e anni che il vecchio Beck fa incetta di premi ai Grammy, le Britney Spears, le Lady Gaga, le Madonne, passano e lui resta. Sempre più anziano (67 anni) e sempre più lirico o spericolato. Beck è il chitarrista famoso anche per non esser mai entrato nei Rolling Stones: dopo l’abbandono di Mick Taylor gli fu preferito Ron Wood. Vero hidalgo del rock, Beck passa più tempo ad aggiustare i carburatori della sua collezione di Ford che a studiare la chitarra. Suona a mani nude, senza plettro, picchiando, torcendo, facendo strillare la chitarra. All’occorrenza tirando fuori delle melodie delicate con tecniche stranissime. Chiunque abbia bisogno di un fuoriclasse lo chiama. È successo a Mick Jagger per il suo disco solista Primitive Cool, a Roger Waters dei Pink Floyd per Amused to death, perfino alla poppettara Imogen Heap, a cui Beck, pare, insegnò a suonare la chitarra in una notte provenzale di chiaro di luna (l’ha confermato la stessa Heap a chi scrive). Il suo disco Emotion & Commotion è un porto sicuro e anche un viaggio pieno di sorprese. E il fatto bizzarro è che una scorbutica vecchia volpe come lui possa ancora regalare emozioni rockissime. Provare per credere.
M
F
Danza
zapping
John Cale
classico e rocker gahalle di Essen. Da solo, sul palcoscenico, Cale accarezza i tasti del pianoforte e pizzica le corde della chitarra acustica. Reduce dalla nudità di Music For A New Society, denuda il proprio canzoniere. Mette in fila, con rigore e un pizzico d’aristocrazia, Ship Of Fools, Amsterdam, A Child’s Christmas In Wales, Buffalo Ballet, Antarctica Starts Here, Cable Hogue… Addolcisce Waiting For The Man di Lou Reed (repertorio Velvet Underground) e illanguidisce Heartbreak Hotel di Elvis Presley. Gioca di fioretto. Seduce la platea. Un anno e mezzo dopo, sale sul palco alle 3 di notte accompagnato da Dave Young (chitarra), Andy Heermans (basso) e Dave Lichtenstein (batteria). Butta gambe all’aria Waiting For The Man, urlandole addosso e riempiendola fino all’orlo di rock tossico. Riprende con furore, solo con la voce, Heartbreak Hotel. Si concede il lusso di
fondere in un delirante rock-blues Pablo Picasso dei Modern Lovers e Love Me Two Times dei Doors. Si toglie lo sfizio d’esasperare la storica Streets Of Laredo di Francis Henry Maynard, tramutando il lamento folk del cowboy in assordante fragore chitarristico. Mena fendenti di spada. Schiaffeggia la platea. Si racconta, in equilibrio sul rock & roll, con Autobiography: pezzo mai proposto prima, che non riproporrà mai più. Dal disco che ha da poco pubblicato, Caribbean Sunset, estrae la canzone omonima più Magazines e Modern Beirut Recital. Dopodiché nevrotizza i suoi classici: balbetta e strangola Fear Is A Man’s Best Friend, manda in cortocircuito Mercenaries (Ready For War), riempie di veleno Leaving It Up To You e Close Watch. Se ancora non conoscete la grandezza di John Cale, scopritela in questo duplice (Vasco Rossi mi passi la citazione) Fronte del Palco. John Cale & Band, Live At Rockpalast, Mig Music, 23,00 euro
Ritratto di Pina Bausch (prima e dopo Wenders) uesto febbraio è stato, ed è ancora, un periodo eccezionalmente dedicato alla figura di Pina Bausch. L’esordio di uno dei mesi più freddi, infatti, è stato stemperato dall’attesissimo ritorno in Italia, dopo un’assenza durata vent’anni, della compagnia di Wuppertal - dal 10 al 13 al Piccolo di Milano con uno degli ultimi stücke della coreografa, Vollmond (2004), in prima nazionale. La capitale, da parte sua, non si è affatto risparmiata, regalando 35’ in compagnia di due donne formidabili: Pina Bausch, appunto, e Susan Sontag. A Primer for Pina, cortometraggio prodotto e diretto per Channel 4 Television da Jolyon Wimhurst nel 1984, è stato proiettato nello spazio Ascolto dell’Auditorium Parco della Musica lo scorso week-end all’interno della rassegna Pina Bausch. Un Ritratto. In A Primer for Pina, le due figure femminili che hanno
Q
di Diana Del Monte animato il mondo culturare europeo e statunitense della fine del secolo scorso si incontrano - la voce della seconda accompagna le immagini della prima - in quello che appare quasi un atto di devozione e ammirazione della scrittrice americana nei confronti dell’arte coreografica della danzatrice tedesca. Come prevedeva il progetto originario, il film ha fatto da introduzione alla registrazione integrale di 1980, proiettato per la prima volta in Italia all’Auditorium grazie alla collaborazione tra il Festival Equilibrio, Riccione TTV e il Centre Pompidou di Parigi. La rassegna dedicata alla figura dell’artista tedesca scomparsa a giugno del 2009,
che ha riunito oltre venti documenti video tra film e registrazioni di spettacoli della e sulla rivoluzionaria coreografa, si chiuderà domani con le immagini di Bandonéon (1980) e Der Festerputzer (1997). Ma gli stücke sono esperienze, non spettacoli, e devono essere sperimentati in prima persona ogni volta che se ne presenta l’occasione, più volte nella vita ove possibile. La loro forza e il coinvolgimento che ne consegue sono stati croce e delizia per Wim Wenders che, rapito dal lavoro della Bausch dopo aver assistito a Café Müller nel 1985, ha continuato a pianificare un film sull’opera della coreografa tedesca per anni: «Come regista conosco bene il movimento. È un elemento essen-
ziale di ogni film, ma solo quando ho visto per la prima volta un lavoro di Pina ho capito che non sarei mai stato in grado di creare un’opera che avesse la stessa potenza visiva ed emotiva dei suoi balletti. Non sarei mai stato in grado di produrre un movimento simile al suo». La lunga attesa si è conclusa sabato scorso, quando Pina è stato presentato fuori concorso alla 61esima edizione del Festival di Berlino. Accolto con un lungo, caloroso e sincero applauso da parte di pubblico e critica, il film, interamente girato in 3D nell’amata Wuppertal, è un montaggio di alcuni frammenti di quattro lavori Le Sacre du printemps (1975), Café Müller e Kontakthof (1978), Vollmond - scelti in accordo con la stessa Bausch e ripresi tra il 2009 e il 2010. L’uscita nelle sale tedesche è prevista per la fine di febbraio mentre, per quanto riguarda la sua distribuzione in territorio italiano, non si hanno, purtroppo, notizie.
MobyDICK
arti Musei
arà un effetto anticipato del federalismo strenuamente voluto dalla Lega (ma qui si ritorna addirittura al municipalismo guelfo-ghibellino) eppure è difficile non rendersi conto che in un’Italia che perde ormai i pezzi, in cui crollano muri storici e chiudono istituzioni e fondazioni preclare, e persino spezzoni importanti d’università, dolosamente affamate, scompaiono in un vischioso silenzio, e in cui i sovrintendenti vanno e vengono, sospinti dal vento come pedine di dama, e i ministri preposti non entrano nemmeno più in ufficio, è impossibile non accorgersi che alcune virtuose città, in un fattivo questa volta silenzio, danno prova di operazioni serie e affidabili, non tutte legate all’effimera voga delle mostre passa e vai. Per dire: qualcosina a Firenze, qui e là qualcosa a Torino, nel bailamme persino a Roma, poco, notoriamente, nella finta-Capitale Milano (a parte quel «coso» imprendibile del nuovo Museo di Arte del Novecento, con scale mobili a paillettes lampeggianti e il «Quarto Stato», come in un outlet di moda, incassato in una vetrinona, con tutti i riflessi della città che sale e s’agita, in piazza, pur di entrare). Ma suvvia, si giunga finalmente alla nostra meta Bologna, che via dalla pazza confusione euforica delle mille concordanze espositive eruttate da Arte Fiera (più o meno valide, talvolta basta solo il numero), poco a poco svela il lavoro corposo fatto in questi anni, da parte della Fondazione Carisbo e della caparbia volontà mecenate di Fabio Roversi Monaco, nel senso di questo decentrato Museo della Città, ovvero Genus Bononiae. E si parta appunto dal cuore pulsante del vecchio Palazzo Fava, edificio cinquecentesco, che ritrova una sua nobiltà un po’ pomposa, sede ritrovata dopo cinque anni di doverosi lavori, che mostra soprattutto gli acquisti (talvolta un po’ discontinui) fatti in questi anni
S
Architettura
19 febbraio 2011 • pagina 15
Carracci & Co.
forse fin troppo privato, di un viaggio d’una famiglia bolognese nella Shanghai primo Novecento, «quando la Cina era ancora lontana»: storie di porti, dogane, fidanzamenti, colonialismo e Boxer, non nel senso di Signorini e Lele Mora, che oggi passano da intellettuali. Allora: la vera verità è che noi avremmo voluto arrivare alla mostra bolognese, che più ci stava a cuore, perché la più umile e più nutritiva, quella dedicata alla Madonne di Vitale da Bologna al vicino Museo Medievale, e che vi consigliamo comunque di vedere, noi ritorneremo presto a parlarne. Ma ci rendiamo conto che lo spazio si è ormai esaurito, e non siamo nemmeno entrati nel restaurato e vicino, sontuoso Oratorio di San Colombano, trasformato in un prezioso museo degli strumenti originali a tastiera, spinette, forte-piani, clavicembali, virginali, salteri, appartenuti al celebre organista bolognese Ferruccio Tagliavini. Che ci accompagna, col suo suono antico, nella visita di questo spazio barocco, dov’è difficile però non esser colpiti dallo sguardo contrito e dal tornito corpo, assai duccesco, del Cristo affrescato nella cripta, e che dovrà essere ancora attentamente studiato, anche per capire le influenze giottesche e senesi in questa compagine locale. Ma ovviamente la visita a Palazzo Fava non può concludersi senza il debito omaggio agli ariosteschi affreschi dei Carracci, che raccontano cinematrograficamente «il racconto cappa e spada» del vello d’oro, dove la maga-bambina Medea, al lume di una acerba luna «compie un lavacro di purificazione, pudica e fragile come una moderna bagnante di Degas, carnale e languida», come ha scritto felicemente Anna Ottani Cavina.
nel Genus Bononiae di Marco Vallora dalla Fondazione e che soprattutto, nel suo sfarzo nobiliare, tradisce un poco il classico limite delle collezioni bancarie, per quanto prestigiose. E così, hai pur voglia di lavorare in stile antica quadreria e di accrochage astuto e balzano, ma che risultato complessivo puoi ottenere, mostrando accanto (e in cagnesco) alte opere silenti di Melotti, Martini, Sironi e De Pisis, cheek to cheek però con il chiasso cromatico di rovinosi quadracci della Transavanguardia e qualcosina di locale, di ancor peggio, se possibile? Viste le possibilità
dei quattro livelli espositivi, inevitabile e un poco prevedibile il ricorso al tour de force d’omaggiare, comunque, i secoli che si sfogliano, in salita, placcando il Novecento-storico al pianterreno, riservando il piano nobile al classicismo ideale e Bellori del naturalismo bolognese, senz’ancora per ora sollevare gli occhi alle magnifiche e distraenti decorazione del soffitto. Poi, via via salendo, un divertente e magari anche didattico confronto tra la Bologna fotografica di un tempo e la Bologna attuale e infine uno story-board,
Sinfonia in rosso per lo scrigno del vino
ull’onda delle grandi case vinicole europee e americane, anche numerosi proprietari di piccole aziende agricole hanno investito nella ricerca di qualità architettonica per l’edificio della cantina, divenuto esso stesso manifesto di propaganda del prodotto vinicolo. Non solo archistar si sono cimentate in questo inedito tema progettuale, ma anche giovani architetti hanno avuto occasione di mettersi alla prova: come è accaduto nel recente ampliamento della cantina Martín Berdugo. In un’area a nord della Spagna, la Ribera del Duero, dal fiume che rende il terreno fertile, una zona rinomata per la produzione di vino, sorge la Martín Berdugo, una piccola azienda vinicola spagnola a conduzione familiare, che da poco più di cinque anni ha allargato il proprio mercato e ha inserito la vendita diretta di vino in situ. L’immagine architettonica della cantina Berdugo, completata nel 2004, è affidata alla giovane progettista Maria Viñé, con la collaborazione di Vicky Daroca, dello studio Vi-Vo di Zurigo. I committenti chiedono un edificio giovane, innova-
S
di Marzia Marandola tivo e inusuale, che trasmetta l’idea di persone audaci, che vogliono sperimentare le nuove tecnologie, senza rinunciare al tesoro della tradizione, e che intendono rispettare e valorizzare il paesaggio circostante. L’architetto Viñé assume dal paesaggio rurale aspro, ghiaioso, coperto a vigneti di tempranillo, un grappolo rosso con sfumature violacee tendente al nero, i cromatismi e le grane materiche che sostanzieranno il progetto. Sul paesaggio orizzontale la cantina emerge come una cassaforte, un prisma ermetico ed enigmatico, uno scrigno che nasconde e protegge un prezioso prodotto: il vino! Apparentemente senza aperture, il volume è in realtà intaccato, oltre che da due grandi aperture per gli ingressi, da numerose finestre rettangolari, strette e allungate, poste sui lati lunghi del volume, ma schermate da pannelli sporgenti. Il volume offre facce geometricamente e cromaticamente differenti su ogni fronte così come in copertura, infatti alla semplicità elementare di pianta corrisponde un’articola-
zione volumetrica complessa. Le pareti esterne, composte dall’assemblaggio di pannelli cementizi, che talvolta plasticamente slittano verso l’esterno, uscendo dal filo della parete, alternano colorazioni a fasce dal colore rosso brillante o rugginoso a rustiche porzioni in grigio cemento. La nuova cantina si affianca parallelamente alla preesistente, un anonimo capannone in cemento, e ne riprende la pianta ad aula unica rettangolare. I grandi ingressi industriali, con apertura a saracinesca metallica, sono allineati e tagliano trasversalmente l’aula, che resta divisa in due ambienti: uno maggiore di circa 2/3 dell’intera lunghezza, destinato alla conservazione del vino in barrique, e uno minore destinato ai macchinari per l’imbottigliamento. Alla geometria variabile dei pannelli è associata anche una colorazione attenta del calcestruzzo di ogni pannello, a tratti lasciato grigio, oppure chiazzato da macchie e sfumature del rosso dal vermiglio al carminio, fino a raggiungere scure ombreggiature, volumi intensi che richiamano le tonalità accese del corposo vino rosso del Duero. L’architetto Viñé ha sapientemente composto uno scrigno plasticamente articolato, che durante il giorno riluce colorato da rosse sfumature e tonalità cromatiche in apparente e continua variazioni, mentre di notte svanisce affiorando con sottili fasce di luce soffusa.
MobyDICK
pagina 16 • 19 febbraio 2011
iglia di un «Grand Blanc» della Martinica, Rose Josephine Tascher conosce il suo destino da uno stregone locale: «La tua vita è oltre le grandi acque. Sei stata salvata per uno scopo». E sarà così. La ragazza creola, bellissima e sensuale, diventerà in Europa, al di là dell’Oceano, Giuseppina Bonaparte, moglie di Napoleone. Una grande storia la sua più volte raccontata, ma nelle cui pieghe si trova sempre qualcosa di nuovo e di affascinante. Caroly Erickson aveva già scritto la sua biografia, ma ora rivisita il personaggio in un romanzo dal titolo, La vita segreta di Giuseppina Bonaparte (Mondadori, 396 pagine, 19,00 euro). È lei, la femme fatale, a ricostruire la sua vita in prima persona, guardandola con gli occhi indeboliti di una donna ormai anziana.
F
Tutto inizia con la lettura del primo biglietto amoroso ricevuto. A inviarglielo Scipion du Roure, l’ufficiale di cui s’innamorò quando ancora viveva alla Martinica: «Rosa di tutte le rose, mia bella signorina Tascher... Fino al nostro nuovo incontro vi bacio le mani, gli occhi le labbra, vi bacio tutta». Così prende le mosse la narrazione che la Erickson, straordinaria scrittrice di biografie, definisce un «divertisemment storico» non «un romanzo storico». Nel romanzo si intrecciano fatti realmente accaduti (molti) con altri che sono frutto dell’invenzione dell’autrice. Alla fine con una breve nota si viene a sapere ciò che è vero e ciò che non lo è. Ma torniamo alla lussureggiante Martinica e ai primi giovani uomini che at-
Alexandre non sopportava la vitalità e l’indipendenza di Josephine, di cui disse ai quattro venti che era una prostituta, e ben presto i due si separarono. Sola, in una Parigi che non l’amava, ma che non le faceva paura, la bellissima creola dette prova della sua straordinaria maestria nell’arte di cavarsela: si mise in affari con il barone Rossignol (prestiti a strozzo) e in poco tempo si arricchì, tanto da poter mandare parecchio danaro al padre rimasto alla Martinica. Presto tornò anche lei, ricca e potente, nella sua amata isola. Lì reincontrò Donovan e la magia del suo amore, ma a causa di una sanguinosa rivolta dovette fuggire per sbarcare di nuovo in Francia dove è costretta ad assistere, a Parigi in piazza della Rivoluzione, al supplizio dei «traditori della Repubblica». Fra i ghiliottinati c’era il suo vecchio socio in affari, barone Rossignol, accusato di aver prestato i soldi alla vedova Capeto. Così era chiamata Maria Antonietta, dopo che al marito era stata tagliata la testa. Josephine precipita nel gorgo del Terrore, viene arrestata e reincontra in carcere Alexandre. Lei riesce a evitare la ghigliottina, lui no. Salva e fuori dalla galera, la bella creola, ormai trentenne, conduce una vita di eccessi: un uomo dietro all’altro sino ad arrivare a Paul Barras, membro del direttorio che rovesciò Robespierre. Fu lui, cinico, ricco e corrotto a favorire l’incontro di Josephine con Napoleone. Lei, divenuta ormai molto abile nelle scalate al potere, non si lasciò sfuggire l’occasione. Intanto si era inserita anche nel businesss delle forniture all’esercito, fonte di un fiume di da-
Maestra nell’arte di cavarsela, si arricchì con i prestiti a strozzo e nel business delle forniture all’esercito. Sesso e denaro, del resto, erano le sue grandi passioni traggono Rose. C’è Scipion, che le resterà amico per tutta la vita. E c’è soprattutto Donovan, un ragazzo bianco e bellissimo, ancora più giovane di lei, che le farà scoprire il sesso sulla spiaggia bianca dell’isola caraibica. Un’esperienza che Rose-Josephine non dimenticherà mai: «Quel lungo pomeriggio scoprii di essere fatta per l’amore. Amavo Scipion con tutto il cuore, ma avevo amato quel ragazzo, quell’estraneo con il mio corpo. E, dei due generi d’amore, l’amore del corpo era il più forte e il più ricco e desiderabile. Compresi allora che a quell’amore avrei sempre ceduto, per quanto cercassi di resistere». Una frase questa che anticipa il futuro di Josephine: la sua sensualità dirompente che non si sottometterà mai a nessun potere, ma sceglierà sempre per il suo piacere. E infatti, la storia con Donovan durerà per tutta la vita: sarà suo amante anche durante il matrimonio con Napoleone. Anzi, sarà la causa prima delle terribili gelosie dell’imperatore. La vita agiata, immersa nel paradiso della Martinica, viene interrotta da una decisione del padre: Josephine andrà in Francia dove diventerà la moglie di Alexandre de Beauharnais, un nobile tanto bello per quanto cinico e violento, che sarà giustiziato durante il Terrore. Prima di scomparire però infelicitò la vita della moglie quanto più possibile: basti ricordare che il primo dei due figli (Eugène e Hortense) sarà il frutto di una violenza carnale del marito ubriaco. anno IV - numero 7 - pagina VIII
naro e di parecchi futuri guai. La prima volta che vide il generale corso, lui le si rivolse così: «Si dice siate una delle donne più desiderabili di Parigi, a dispetto dell’età». E lei: «Non so se ringraziarvi o darvi uno schiaffo». Napoleone si innamora come un ragazzo. Le scrive biglietti appassionati. Lei non lo ama, pensa piuttosto a Donovan e continua, anche se stancamente, a incontrarsi con Barras. Nonostante ciò, quando il generale le chiede di sposarlo, risponde: «Non posso fingere che i miei sentimenti per voi siano forti quanti i vostri per me. Tuttavia, dopo aver riflettuto, ho deciso di accettare la vostra proposta di matrimonio». Un discorsetto freddo al quale il generale, in partenza per la Campagna d’Italia, risponde con l’entusiasmo di un adolescente innamorato. Il matrimonio avviene in
il paginone
In un “divertissement storico” di Caroly Erickson, la creola che divenne imperatrice dei francesi si racconta in prima persona. Tra realtà e un po’ di finzione, la vita, gli amori, la scalata al potere di un personaggio che si è trasformato nel tempo in icona di trasgressività
Oui, je Josephine di Gabriella Mecucci tutta fretta: gli impegni bellici premono e Bonaparte ha fretta di sposarsi. Cerimonia spartana fra una donna ormai trentaduenne che porta sul suo corpo i primi segni di una giovinezza che si va allontanando, e un ventisettenne comandante dell’esercito, bruttino, sporco e geniale.
Josephine, prima e dopo il matrimonio, continua a coltivare la sua bollente relazione con Donovan, che gli chiede, senza successo, di tornare con lui alla Martinica. La seducente creola ha tre passioni che non tradisce mai: il sesso, la ricerca del potere, danaro. Quando Napoleone - mentre trionfa in Italia - la vuole con sé, la desidera, la prega di raggiungerlo, lei attraverserà le Alpi in compagnia dell’amante. A Milano c’è il primo impatto con l’odiosa famiglia còrsa dei Bonaparte: con mamma Letizia, occhiuta e moralista che se la prende con la nuora per la sua infertilità, con la sorella Elisabetta, bruttina e grassoccia, con Paolina, bella e di facili costumi che
accusa in compenso la cognata di avere centinaia di storie di sesso, con il fratello Giuseppe, perfido sino al punto di tentare d’uccidere Josephine. Insomma, un mostruoso caravanserraglio che il giovane generale si porta dietro, che lo adula e lo sfrutta. E cerca soprattutto di metterlo contro la moglie, accusata di essere una «donna perduta», che lo «riempie di corna e di discredito». All’inizio, Napoleone, ancora molto attratto dalla bellezza e sensualità di Josephine, la protegge: non crede alle storie che gli vengono raccontate su Donovan e si limita a chiedere alla moglie di non esagerare con le sue speculazioni nel rifornimento delle salmerie dell’esercito. Poi, soprattutto gli affondi di mamma Letizia e di Giuseppe cominciano a far breccia. La campagna d’Egitto fa il resto. È Eugène, ormai valoroso ufficiale dell’esercito francese, che scrive alla madre per raccontargli come stanno andando le cose. Oltre alle ragazze offerte dai ricchi sceicchi ma
19 febbraio 2011 • pagina 17
e suis Bonaparte
snobbate da Napoleone, «c’è un’altra donna, chiamata Cleopatra o Beillotte. È la bastarda di un cuoco. Il generale l’ha incontrata al Tivoli egiziano, una sala da ballo del Cairo... Il generale l’ha sedotta soltanto perché ha saputo che voi e Monsieur de Gautier (Donovan) siete amanti. Prima non l’aveva mai voluto credere. Ma adesso sì». Da allora vennero riversate su Josephine le peggiori cattiverie da parte del marito: tradimenti, rabbia e vendetta. Solo grazie alla mediazione del figlio Eugène, molto amato dal patrigno Napoleone, ogni tanto il clima teso e rissoso della coppia si stemperava in qualche tenerezza. Ma la situazione era insopportabile. Si arrivò così all’incoronazione di Bonaparte: con un gesto di sfida verso il Papa, fu lui medesimo a poggiare il diadema sulla sua testa e, subito dopo, su quella della moglie. Sono imperatore e imperatrice di mezza Europa. La sensuale creola, ormai invecchiata, dotata di una sensualità ancora forte ma fanée, guarda dall’alto del trono la sua lunga e strabiliante carriera. Si ricorda del vaticinio dello stregone caraibico, si compiace di averlo trasformato in realtà, ma non può non soffrire dei malatrattamenti e dei tradimenti continui dell’imperatore e delle cattiverie della famiglia Bonaparte. E ha sempre più bisogno della
marito è perduto e il suo malanimo verso di lui esplode: fa tutto il possibile per aizzargli contro l’esercito, per mettere gli uomini uno contro l’altro. Per favorire, insomma, il crollo. In mezzo a quella tragedia ritrova anche Donovan, ferito molto gravemente. Lo cura, lo salva, mentre Napoleone precipita sotto lo sguardo cinico e soddisfatto di quella moglie ormai cinquantenne, sul cui volto è svanita l’antica bellezza e sono comparsi i solchi della sofferenza e dell’età. Josephine va prima a Milano dal figlio Eugène, poi di nuovo alla Malmaison, Donovan la segue.
È qui che la donna passa gli ultimi giorni della sua vita avventurosa. Poco prima di morire scrive: «Una parte di me ha sempre camminato nel mondo come una straniera, portando un dono che non ho mai compreso. Muoio avendo condotto a termine il mio compito. Lascio dietro di me un soffio di mistero, un dolce profumo che viene da un luogo lontano. Ricordatemi». E la sensuale creola è rimasta nel tempo un’icona di bellezza, di spregiudicatezza, di indipendenza, di trasgressività. A suo modo, titolare di un fascino indimenticabile. Il romanzo della Erickson è piacevole. La prova da romanziera è superata, il «divertissement storico» funziona. Ma
Non nascose mai di non ricambiare i sentimenti di Napoleone con la sua stessa intensità. Ma alla fine la relazione tra i due fu costellata dalle peggiori cattiverie
La Malmaison, la dimora preferita di Josephine. A sinistra, un ritratto di Hortense, figlia di Josephine e di Alexandre de Beauharnais. Sopra il titolo: un ritratto della moglie di Bonaparte, già incoronata imperatrice; un particolare della “Consacration de Napoleon” di Jacques-Louis David e la copertina del libro di Caroly Erickson
protezione e delle calde carezze di Donovan. Il cane si morde la coda: Napoleone viene a conoscenza degli incontri e s’incattivisce sempre di più, lei, sofferente non può che cercare conforto fra le braccia dell’amante. Vive una vita difficile nel Palazzo de Le Tuileries, dopo aver abbandonato l’amata Malmaison. Si avvicina a grandi passi l’esito finale: la tragedia di Napoleone e della Francia. L’imperatore guida la Grand Armée, Josephine fa parte del seguito: il suo odio verso quell’uomo che, del resto, non aveva mai amato, si acuisce. Come sia andata la storia è noto: l’arrivo in una Mosca deserta, la mancanza di cibo e di legna per scaldarsi, la terribile ritirata. Dolore, sconfitte, morte. Josephine capisce che il
in coda - così come fa l’autrice - occorrerà mettere in chiaro ciò che è frutto dell’invenzione. Innanzitutto, Josephine non andò al seguito della Grand Armée nella tragica Campagna di Russia. Non è mai esistito un suo amante di nome Donovan, ma è vero che ebbe numerose storie con uomini più giovani di lei: uno di questi, Hippolyte Charles era molto attraente e la loro relazione durò molto a lungo. Per tutto il resto, i fatti narrati nel romanzo rispondono - fatta salva qualche licenza - alla verità. La protagonista somiglia molto alla Josephine vera. Una vita straordinaria: fatta di inimmaginabili successi, di avventure e di piaceri, ma anche di sconfitte cocenti e di insopportabili dolori. Finita fra pochi, amatissimi amici.
Narrativa
MobyDICK
pagina 18 • 19 febbraio 2011
ncora un esordio narrativo di giovane scrittore. In questo caso scrittrice non letteralmente esordiente, ma con alle spalle qualche rapsodica pubblicazione breve. È l’inizio d’anno e inizio stagione dei premi e sembrerebbe anche questo libro di Barbara Di Gregorio, Le giostre sono per gli scemi, appartenere al gruppo di giovani romanzieri, partito qualche anno fa da Paolo Giordano, coccolato e spesso creato dai grandi gruppi editoriali. L’esordiente è quindi alla moda, attira lettori e critici, fa vendere e sbanca i premi. Sembra di essere tornati ai primi anni Ottanta, quando l’esordio di De Carlo, Del Giudice, Busi e Tabucchi, fece ripartire il motore della rinascita del romanzo e della narrativa italiana. Curioso ricordare che a quasi trent’anni di distanza oggi le scrittrici la fanno da padrone, mentre allora le donne faticavano a trovare la voce e la forza per imporsi sui più aggressivi gruppi editoriali. Sono invece più di dieci anni che il romanzo ha invertito il senso, le donne sfiorano la maggioranza, gli ultimi premi Strega e Campiello su tutti, sono stati a prevalenza femminile per partecipazione e vincite. Torniamo alla nostra scrittrice in esame, fuori dai luoghi comuni, è sempre meglio verificare sul testo la qualità e la tenuta dei testi gridati e lanciati, e non si fa un buon lavoro quando si intruppano gli scrittori nelle categorie. Ma anche questo libro, dopo Giordano e Avallone, torna su tematiche e personaggi noti. I due principali protagonisti sono adolescenti e fratellastri da parte di madre, Leonardo e Chicco. Il luogo dove si muove la storia è la grande provincia italiana. Dentro questo mondo conosciuto va detto anche che ci sono due cose che colpiscono e fanno ben sperare in questa nuova scrittrice: un taglio espressivo denso e deciso, una tematica non di moda che avvicina l’occhio (e l’orecchio) al mondo del nomadismo, sintetizzato brutalmente come il mondo zingaro, che vive ai margi-
libri Barbara Di Gregorio LE GIOSTRE SONO PER GLI SCEMI Rizzoli, 279 pagine, 18,00 euro
A
La casa della
zingara Un altro esordio al femminile: il mondo del nomadismo alimenta di magia lo stile denso di Barbara Di Gregorio
Riletture
di Maria Pia Ammirati
ni delle nostre piccole e grandi città. «Pescara è la città degli zingari. Famiglie che hanno girato il mondo per secoli, e a un certo punto si fermano… e decidono di diventare normali». Pescara provincia benestante e contraddittoria come la rappresentazione della famiglia che vien fuori dalla storia, famiglie fuse su altre famiglie con alla base la radice zingara della capostipite, nonna di Leonardo, una zingara che nel tentativo di far perdere le tracce del nomadismo crea una casa come una sorta di fortino segreto e inespugnabile, che invece andrà perduta. «Faccia da zingara, parlata da zingara, camminata da zingara… hai voglia di vestirsi di nuovo. Hai voglia a chiudersi dentro una casa, ma lei s’immaginava che bastasse perché da lontano sembrassero tutti signori». La storia che procede anche per colpi di scena che cambiano la visione realista, peraltro mai veramente affrontata come si potrebbe, ha un suo alone di narrazione magica. La prima parte è dedicata al tenero rapporto tra Leonardo e Chicco, uno spaccato familiare dove si condensano i grumi di rapporti faticosi e difficili tra figli e genitori, dove i fratellastri sono un gruppo contro un altro (madre e padre), dove il dissidio si nasconde dietro la normale routine che in realtà non è altro che la ripetizione di gesti di necessità: il sonno, il cibo e la scuola. La seconda parte cambia repentinamente d’umori. Leonardo abbandona la famiglia ricomposta, Chicco si sente abbandonato dall’elemento concreto e vitale della casa. Comincia una fase di ricerca da cui saltano fuori le radici e le persone perdute: la radice zingara e una strana vena di follia che sono l’eredità vera della nonna di Leonardo. Chicco, il ragazzo bulimico e intelligente, è il ponte fra due mondi, uno apparentemente normalizzato, l’altro corrotto dalla necessità di normalizzarsi.
Con Croce alla scoperta dell’Anticristo che è in noi a Fondazione Corriere della Sera ha stampato e diffuso un libro dedicato agli scritti di Benedetto Croce pubblicati sul quotidiano di via Solferino. Il volume è edito nella collana «Terzapagina» che raccoglie gli scritti e gli articoli di altri importanti uomini della cultura e del pensiero che collaborarono o lavorarono con il Corriere. Non so bene dove il mio lettore potrebbe reperire il testo, ma so per esperienza che nulla è più bello ed entusiasmante della ricerca di un libro perduto o non facile da recuperare. Quando, al termine della ricerca, si avrà finalmente tra le mani il libro tanto desiderato, la lettura sarà più bella e istruttiva. Io stesso, sapendo di non trovare il nuovo testo crociano in libreria, mi sono rivolto direttamente alla Fondazione che, con voce cortese - quella della segretaria -, mi ha detto: «Mi dia l’indirizzo che glielo spedisco». Ho atteso, non senza trepidazione, qualche giorno e il libro è giunto a casa mia con mia grande felicità (in fondo, mi accontento di poco). Benedetto Croce e il Corriere della Sera: questo il titolo del libro che raccoglie quanto il filosofo pubblicò sul quotidiano milanese dal 1946 al 1952. Infatti,
L
di Giancristiano Desiderio Croce non scrisse nulla per il Corriere prima del 1946. Giuseppe Galasso, nella ricca e bella introduzione al volume, spiega perché e ripercorre la storia dei rapporti tra il filosofo e il Corriere oltre a soffermarsi sull’idea che Croce ebbe del giornalismo e che praticò. Tra gli scritti crociani per il Corriere ci sono alcune grandi pagine che il lettore di Croce avrà già avuto modo di leggere e apprezzare. Faccio un solo esempio. Lo scritto L’Anticristo che è in noi uscì il 3 agosto del 1947 per poi essere ripreso nel volume Filosofia e storiografia due anni dopo. Sapere o scoprire che questa altissima pagina crociana uscì per la prima volta sulle pagine di un quotidiano - autorevole quanto si voglia, ma pur sempre un giornale che, come si sa, il giorno dopo è buono per l’uso dell’incartamento del pesce o dell’insalata - fa senz’altro un certo effetto. Il mio lettore la potrà rileggere scorrendo le pagine di questo «testo giornalistico» di Croce e, forse, ne potrà apprezzare ancor meglio lo spirito di verità che contiene una volta e per sempre. «In verità”, dice quel testo, «l’Anticristo non è
Gli scritti del filosofo per il “Corriere della Sera” (dal ’46 al ’52) raccolti in volume
un uomo, né un istituto, né una classe, né una razza, né un popolo, né uno Stato, ma una tendenza della nostra anima, che, quando non sia fa sentire in essa operosa, vi sta come in agguato; e non sale dagli abissi a muoversi nel mondo né nasce umanamente di donna, sebbene taluni credano di averlo incontrato: non viene tra noi, ma è in noi. E anche quando noi lo aborriamo e lo combattiamo con tutte le nostre forze, non lo rendiamo mai a noi esterno ed estraneo, perché nessuno di noi si può distaccare con un taglio netto, sicuro e definitivo dalla società e dall’umanità alla quale appartiene, né rinnegarla e disconoscerla e credersi puro tra gli impuri, irresponsabile delle colpe altrui, le quali, non meno che le azioni buone, hanno un’origine che oltrepassa il singolo e comprende tutti». Dopo tanta altezza, ritorno alle cose di quaggiù, ricordando qualche curiosità. Una in particolare mi preme riferire, ossia l’affanno dei direttori del Corriere, e soprattutto di Guglielmo Emanuel, che volevano pubblicare in esclusiva gli scritti di Croce. Il filosofo non badava molto a queste regole e i suoi scritti potevano essere editi in vari giornali. Il Corriere, che già sapeva di essere il Corriere, voleva l’esclusiva, ma Croce non si curava più di tanto della cosa.
Memoriette
MobyDICK
19 febbraio 2011 • pagina 19
sisteva per salire sull’ultimo vagone perché «era il meno pericoloso». Era invece il più pericoloso di tutti.
Trovo in un libro di Camilla Baresani questa battuta: «Dio saprà quanto deve a Bach?».
n sacerdote di Chiusi, don Moisè, guidava una sera una macchina sull’autostrada con due preti a bordo. La polizia stradale lo fermò per eccesso di velocità e cominciò a scrivere la contravvenzione. Don Moisè scese dalla macchina, prese sottobraccio un agente e camminò con lui per un po’ ai bordi dell’autostrada; tornato indietro fece lo stesso percorso con l’altro agente. Poi risalì in macchina, accese il motore, ripartì senza nessuna contravvenzione. «Come ha fatto?», gli chiesero i compagni di viaggio. «Poverini - rispose don Moisè - era tanto che non si confessavano. Li ho confessati io».
U
Definizioni da far risalire a Mazzacurati: Moravia, «l’amaro Gambarotta»; Cardarelli, «il più grande poeta morente»; Guttuso, autore di «Picassate alla siciliana». Di un pittore che era anche scrittore notissimo Vincenzo Talarico diceva: «Come non ti piace di più: come scrive o come dipinge?». A Ungaretti in una festa celebrata negli Stati Uniti all’Università di Harvard, una giovane studentessa chiese quanti anni avesse: «Dipende - rispose Ungaretti - dall’intenzione con la quale me lo chiede».
A Pienza c’era un barbiere molto piccolo di statura e molto spiritoso. Andato in pensione si divertiva a dirigere il traffico nel crocevia della città. Un giorno si fermò accanto a lui una macchina con tre o quattro giovanotti in vena di scherzi che gli chiesero: «Da che parte dobbiamo andare per andare dove ci pare?». Il barbierino rispose con calma: «Se volete andare al mare dovete preseguire diritto e poi svoltare; se volete andare a Firenze fate otto chilometri di strada a sinistra e poi c’è il bivio; se volete andare a Roma dovete passare per Chianciano; se poi volete prendervela in quel posto siete belli e arrivati». La vita umana a Pienza tende tranquillamente alla vecchiaia.Ogni tanto si vedono degli annunci funebri sui muri delle strade: chi è morto a 80 anni, chi a 87, chi addirittura a 90. Un pullman di visitatori siciliani si incuriosì a vedere queste longeve età. Chiesero: «A Pienza si vive così a lungo?». «Sì rispose un passante. Qui si muore solo per cause naturali». Un contadino della provincia di Pistoia di un paese che si chiama Gello, durante la guerra dalla Libia scriveva ai suoi: «Qui non si fa altro che rinculare. Rincula rincula, speriamo di rinculare fino a Gello».
Meridione
Per la sceneggiatura televisiva dei Promessi sposi chiamammo il grande scrittore Riccardo Bacchelli (regista Sandro Bolchi). Una volta Bacchelli ci disse: «Siete fortunati perché per Manzoni avete chiamato uno scrittore degno di lui». E aggiunse: «Queste cose se non me le dico da solo non me le dice mai nessuno».
Picassate
alla siciliana di Leone Piccioni Un amico romano aveva una grossa macchina americana che voleva vendere. Non era molto esperto di guida. Con un probabile cliente andò verso il centro e arrivato a Piazza Barberini cominciò a girare intorno alla piazza. Più girava e più si accostava ai lampioni, fino a sfiorarli. In queste incerte manovre stava sospingendo un ciclista vicino a un lampione: «Che vuoi? - gli disse questi.Vuoi che m’arampico?». Di un italianista come Luigi Russo, Piero Bargellini indicava il suo gusto per essere sempre al centro dell’attenzione: «Nei matrimoni - diceva - vorrebbe essere lo sposo, nei funerali il morto».
Gianpaolo Cresci, segretario di Fanfani, e uomo di relazioni pubbliche della Rai, invitò a cena in un ristorante di lusso, a Roma, Silvana Mangano, Flaiano, me e altri. Ma Cresci stette ben poco a tavola perché era di continuo chiamato al telefono. «Il dott. Cresci al telefono… il dott. Cresci al talefono» per tutta la sera. Ma la conversazione fra noi non si interruppe mai. Alla fine Flaiano ringraziò a nome di tutti e disse: «Caro dott. Cresci una di queste sere La inviteremo noi e faremo una cena direttamente alla Teti». Morandi e Manzù dovettero una volta prendere un treno insieme. Morandi in-
Bacchelli aveva gelosamente nascosta una relazione con una signora sposata. Un suo amico, il bibliofilo Marino Parenti, un giorno passando sotto la casa di Bacchelli vide affacciata alla finistra una bella signora bionda, e lo disse a Bacchelli. Rispose: «Ero io!». Un grande amico di tanti anni fa, Annibale, non si poteva certo definire un bel ragazzo, ma era molto simpatico e cercava qualche compagnia femminile. Aveva una specie di garçonnière subito dopo il centro di Roma: ci si arrivava con un tram e poi c’era da fare un bel pezzo di strada piuttosto in salita. Annibale con una ragazza arrivò in cima stremato e si buttò su una sedia. «Cosa ti devo fare?» chiese la ragazza, e Annibale dopo una piccola pausa: «Fammi un caffè!».
Quei 300 mila in fuga verso tutti i Nord del mondo fantasmi del Sud sono i giovani per i quali non c’è un lavoro per affermarsi. Sono la coda di una Questione meridionale in un Mezzogiorno neppure più «colonia di consumo del Settentrione produttivo». E infatti emigrano, almeno in 300 mila all’anno e verso tutti i Nord del mondo, con la borsa in pelle del portatile al posto della valigia di cartone. E sono braccia e cervelli, perché a 150 anni dall’Unità d’Italia qui vale sempre il motto siciliano «cu nesci arrinesci». Giulio Tremonti è convinto che non esista «un problema di crescita nazionale», ma «un problema meridionale». E appena può ricorda che senza la zavorra del Mezzogiorno il reddito procapite italiano passa da 25.800 a 30.445 euro, superando quindi in benessere diffuso Gran Bretagna, Germania e Francia. Ma se si guarda la classifica dal basso, dal Sud, la Penisola finisce alle spalle della Grecia. Questa differenza la riempiono gli economisti Luca Bianchi e Giuseppe Provenzano nel loro saggio Ma il cielo è sempre più su?, spiegando che il gap è dovuto alla pessima gestione che nell’area si fa del capitale umano: perché anche quando si impongono livelli di formazione molto alti, non si fanno i conti con un
I
di Francesco Pacifico mercato locale incapace di assorbire le figure professionali prodotte. Bianchi e Provenzano - anche essi meridionali che hanno avuto successo oltre il Garigliano - descrivono con il piglio degli etologi una generazione che ha scelto come luoghi d’elezioni gli aeroporti, le stazioni e i caffè delle piazze dei loro paesini quando si torna a case per le vacanze. Perché per il resto dell’anno si produce ricchezza a Milano o a Modena come a Londra e a New York. E nel 30 per cento dei casi si tratta di un’emigrazione precoce, visto che ci si laurea fuori. Per poi diventare emigrazione precaria, legata a contratti a tempo e alla speranza di rientrare, quindi senza alcuna possibilità di fare progetti a lungo termine come un figlio o una casa. È precarietà nella precarietà. In questo scenario, scrivono gli autori, «studiare serve soprattutto a emigrare. In particolare per coloro che, non provenendo da famiglie agiate, non possono godere di quel sistema di relazioni informali che rappresenta ancora al Sud uno dei principali canali di acces-
so al mercato del lavoro. Ma a emigrare sono proprio i migliori». E il 41,5 per cento dei laureati lo fa. Quello di Bianchi e Provenzano è un cahier de doléances, la cui forza sta proprio nel fotografare con i numeri l’assenza di mobilità sociale, la sconfitta di una generazione che non ha saputo sfruttare i sacrifici dei padri per lasciare una società più giusti a i figli. Nel libro non c’è spazio per le eccellenze del Sud che permettono in alcuni casi all’area di competere con i Paesi più dinamici. Perché la colpa principale della classe dirigente è quella di ostentare i pezzi migliori, non preoccupandosi di integrarli in un progetto complessivo, che parta da una più virtuosa ridistribuzione delle risorse pubbliche. La soluzione, lo Stato, potrà apparire banale, ma è difficile pensare a qualcosa di meglio in un microcosmo che si blinda con la scusa che «ogni soldo trasferito nella migliore delle ipotesi è sprecato e nella peggiore finisce direttamente alle mafie». Luca Bianchi - Giuseppe Provenzano, Ma il cielo è sempre più su?, Castelvecchi-Tazebao, 200 pagine, 14,00 euro
Personaggi
MobyDICK
pagina 20 • 19 febbraio 2011
molto probabile, anzi auspicabile, che l’Accademia svedese prima o poi prenda in considerazione lo scrittore spagnolo Javier Marías (nato a Madrid nel 1951) come persona degna del premio Nobel. Marías, che conosce molto bene l’Italia e la nostra lingua, ha vinto la trentaseiesima edizione del premio Nonino, oggi tra i più seri. Claudio Magris ha detto di lui: «È uno scrittore totale, si confronta con il tempo, sa fare i conti con l’essere umano in tutte le sue pieghe e nella sua opacità». Marías, pur avendo sempre affermato di non essere «un cronista» anche se si occupa, in profondità, del tempo, a Percoto (Udine), sede della premiazione, si è associato ad altri intellettuali nell’additare un mal di vivere non solo individuale ma collettivo, un mondo in crisi. E si è detto disposto a ragionare sui rimedi possibili a quel male dilagante che è l’impunità. Il riferimento alla situazione italiana era esplicito: Marías, come tanti altri intellettuali, parla con la gente, consulta il termometro emotivo di noi italiani. Il Premio Nonino è riferito alla trilogia Il tuo volto domani, pubblicato come tutti gli altri suoi romanzi dalla Einaudi. L’ultimo tomo è sottotitolato «Veleno e ombra e addio». In Italia ha cominciato a diventare famoso con Un cuore così bianco, romanzo che ha mostrato appieno le sue doti narrative che lo accostano ai grandi scrittori dell’Europa, e non solo del Novecento. Marías è uno scrittore che non si isola dal tempo in cui vive. La «lezione» che ci viene proposta è la seguente: la capacità umana di provare sentimenti verso gli altri può diventare la nostra salvezza.
ALTRE LETTURE di Riccardo Paradisi
SE IL MERCATO È ÜBER ALLES
È
Aiuta, e molto, a comprendere Marías come scrittore e come uomo il libro-intervista edito da Passigli, Voglio essere lento (139 pagine, 14,50 euro). Cominciamo dal titolo, che segnala un comportamento di vita in controtendenza. Marías non usa il computer. Scrivere a mano gli permette di essere lento, con l’obiettivo di «perdere il tempo, nel senso che lo consumo, che lo uso a mio piacimento, che lo uso a mio piacimento nella misura in cui mi è consentito, giusto perché non ho fretta». Ripete, nell’intervista alla studiosa Elide Pittarello: «Voglio perdere il tempo. Ed è esattamente questo che mi consente il romanzo». Marías considera «macchiette» quegli scrittori che non riescono a staccarsi mai dalla scrittura. Lui passa del tempo a fare altre cose, viaggia, soggiorna in altre città (a lungo ha soggiornato a Venezia). Ma di recente ha avvertito la necessità di tornare tra i suoi personaggi come se questi gli garantissero un rifugio sereno. È così a suo agio tra le figure che inventa che vorrebbe, talvolta, diventare lui stesso un personaggio. Non si è mai sposato, ha avuto varie relazioni, in specie con donne che vivevano lontano: «In maniera più o meno inconscia mi sono dato da fare per non costruire qualcosa di simile a una famiglia». Ha un peso significativo, a questo proposito, una frase contenuta in Il tuo volto domani: «Magari nessuno ci chiedesse mai niente». In Un cuore così bianco si legge di un uomo al quale pesa molto l’idea di alzarsi dal letto e che la persona
hi ha davvero il potere, oggi, nel mondo globalizzato? I governi degli Stati con i loro leader politici? O piuttosto le grandi multinazionali e i supermanager? O la potenza anonima e misteriosa della grande finanza? Il giusto equilibrio tra potere politico e potere economico, ricorda Massimo Terni nel suo La mano invisibile della politica (Garzanti, 185 pagine, 16,60 euro) era un tema di riflessione già ai tempi della Grecia classica ma che la recente crisi finanziaria ha reso di esplosiva attualità tanto più che il trionfo del mercato ha portato a privilegiare l’homo oeconomicus sull’homo politicus, rovesciando la prospettiva del pensiero politico occidentale che da Aristotele a Hobbes ha sempre preferito il secondo sul primo.
C
Il romanzo come perdita di tempo
Non usa il computer e, in evidente controtendenza con lo Zeitgeist dei nostri giorni, ama la lentezza, specialmente nella scrittura. Javier Marías, vincitore dell’ultima edizione del Premio Nonino, parla di sé in un libro-intervista. E propone un rimedio ai mali di oggi: provare sentimenti verso gli altri ci può salvare di Pier Mario Fasanotti con cui vive sia lì. Lo disturba «il fatto che per stare insieme non intercorra la minima decisione, un minimo previo accordo da parte di entrambi… ha un certo rifiuto a dover assistere costantemente a tutto ciò che riguarda quella persona… ha una certa resistenza a essere eccessivamente testimone della vita dell’altro e che l’altro, a sua volta, sia eccessivamente testimone della sua». Ed ecco il plauso all’assenza «come forma di vitalità e di rispetto». Dichiara Marías, che ha imparato dai suoi genitori il riserbo e il limite alle confidenze: «Credo che a quasi tutte le persone, che lo sappiano o meno, convenga stare sole una parte del giorno, voglio dire fisicamente sole, e che allora possano scegliere». Se oggi la gente ossessivamente vuole «riempire il tempo», Marías rivendica: «Pensare è una delle cose più spassose e divertenti che ci siano, anche se fosse pensare - come si dice in spagnolo - alle ragnatele». È in queste ore che si evidenziano le sfumature, tema ricorrente nella sua narrativa. C’è poi il Marías inevitabilmente cronista - lo è nelle dichiarazioni, negli articoli, mai nei romanzi anche se questi non ignorano la Storia - quando s’indigna della recente deriva etica. La Spagna non è diventata quello che desiderava: «Ora ho la sensazione che non solo nessuno si vergogni di essere ignorante, ma che sia persino orgoglioso di esserlo». E aggiunge: «Questa cosa così spagnola del “sì,
questo non lo so, e allora?”, non so se è un fenomeno generale, se per esempio in Italia succede qualcosa di simile».
L’intervistatrice gli fa notare che per gli italiani la Spagna è diventata di moda, quasi un modello. Risposta: «Il mio è un Paese che ama fare baldoria.Visto da fuori, durante una visita breve, può dare quella impressione. Paese relativamente allegro, sebbene abbia anche un lato molto sinistro… i rapporti col denaro non sono ancora diventati, come succede altrove, sordidi e deprimenti… ma la Spagna è sempre un Paese di cui io non mi fido, che mi spaventa sempre un poco». Spavalderia e volgarità? Sì, anche per queste ragioni. E l’Italia? «L’ho sempre sentita vicina e la trovo abbastanza imparentata con la Spagna. In Italia mi sono sempre sentito quasi come a casa… mi fa però tanta rabbia il fatto che l’Italia sembri andare a rotoli: è una cosa che non le si addice per niente». Fa una distinzione tra partiti europei di destra e di sinistra: «Gli elettori di sinistra sanno ancora reagire di fronte ai comportamenti dei loro rappresentanti. E invece si ha l’impressione che i politici di destra possano contare sugli stessi voti qualsiasi cosa facciano, esattamente come se non avessero fatto niente di male». Per Marías c’è indubbiamente «una malattia morale della società». Che si può chiamare in tanti modi: ignoranza, volgarità, impunità, non distinzione tra pubblico e privato, insopportabili amnesie storiche.
VIVERE FELICI CON PITAGORA *****
precetti forniti dai Versi aurei di Pitagora riguardano l’osservanza degli obblighi religiosi e dei doveri naturali, la vigilanza sulle passioni, la moderazione, la sopportazione dei dolori, la distanza dagli eccessi, l’equilibratura del corpo. Libero nelle sue scelte l’uomo è responsabile della propria condotta, per cui è esortato da Pitagora a riflettere prima di agire, mentre gli viene ricordato che, per un felice compimento delle azioni, sono necessari l’esame di coscienza e la preghiera. Le edizioni Mediterranee pubblicano ora in una nuova versione I versi d’oro (Edizioni Mediterranee, 195 pagine, 19,50 euro), l’introvabile Commentario di Ierocle, la vita di Pitagora scritta da Porfirio e un brano della Vita pitagorica di Giambico. La traduzione è dello stesso curatore dell’opera, Claudio Mutti, che nel saggio introduttivo ha seguito l’evoluzione del lungo rapporto di Evola - di cui viene ripresentata un’introduzione ai Versi del 1959 - con la tradizione pitagorica.
I
LE VITE PARALLELE DI BISMARK E CAVOUR *****
amillo Cavour e Otto Bismark sono i costruttoiri degli Stati nazionali italiano e tedesco e soprattutto sono due grandi esempi di leadership politica. Cavour è un leader risoluto nel Parlamento e in forza del Parlamento, tanto che il suo modello diventa attraente anche per i liberali tedeschi anche se l’unità tedesca segue altre strade grazie a Bismark. Il quale incarna il principio d’autorità monarchica, pur utilizzando in modo spregiudicato strumenti democratici. Sullo sfondo degli avvenimenti italiani del 1859-’61 e di quelli tedeschi del 1866-’67 il saggio Cavour e Bismark di Gian Enrico Rusconi (Il Mulino, 212 pagine, 15,00 euro) ripercorre i processi di decisione politica dei due statisti e i loro stili di governo tra liberalismo e cesarismo.
C
MobyDICK
spettacoli
di Enrica Rosso ate un gioco: chiudete gli occhi e visualizzate le sensazioni collegate alla parola marmo, marble in inglese: hanno forse a che fare con il senso di morte? Marble è appunto il titolo del testo dell’irlandese Marina Carr in scena al TeatroVascello di Roma per la regia di Paolo Zuccari. Come nel precedente fortunato allestimento di Zuccari A cena con gli amici di Donald Magulies, quattro i personaggi a dividere la scena. Ben e Hurt, entrambi felicemente sposati e padri di famiglia, sono amici da lunga data. Una di quelle amicizie inossidabili in cui si cazzeggia delle rispettive spose senza freni inibitori supportati da una complicità affinata negli anni. Non solo, i due lavorano insieme. Apparentemente realizzati, galleggiano in una routine senza scampo sostenendosi a vicenda fino al giorno in cui Hurt che per resistere alla barbarie di un’esistenza opaca ha messo in agenda di obnubilarsi con metodo al calar della sera col brandy -, confessa all’amico, con dovizia di particolari, di aver fatto un sogno erotico travolgente, starring la moglie di Ben - una buona moglie che cerca di sopravvivere al tran tran domestico facendo scorrere il tempo tentando di non soffrire eccessivamente. Il problema vero però è un altro. Il sogno si ripete, ogni volta con assoluta soddisfazione. Contemporaneamente anche la moglie di Ben sogna Hurt, di più: vive lo stesso sogno ambientato nella stessa abbacinante camera di marmo, ma soprattutto traendone la stessa impareggiabile soddisfazione. «I sogni son desideri di felicità, nel sonno non hai pensieri, ti esprimi con sincerità», intona la sonnolenta Cenerentola prima di rituffarsi nelle sue poco gratificanti mansioni di tutti i giorni, e conclude: «Tu sogna e spera fermamente, dimentica il presente, e il sogno realtà diverrà». Che dire di più? Un testo-manifesto contro la ritualità dei rapporti siglati dalla noia e in cui l’amore viene barattato quotidianamente con la stabilità di un presente tanto frustrante
F
Televisione
Teatro Partita a quattro su marmo bollente
19 febbraio 2011 • pagina 21
DVD
MEXICO E BUSINESS A CIUDAD JUAREZ «Il capitale è intelligente. Va dove deve andare». Nelle parole beffarde del responsabile dell’Associazione delle Maquiladoras di Ciudad Juarez, c’è l’amara realtà che investe il Messico. In mezzo al deserto, la Ciudad de negocios è popolata da clandestini che non riescono a passare il Rio Bravo per andare negli Usa. E c’è il business annesso, documentato con puntiglio da Isabella Sandri e Giuseppe Gaudino in Maquilas, ovvero le circa 400 fabbriche delle Export Processing Zones. Luoghi dove non si pagano le tasse, e quasi nulla la manodopera. Opera sintomatica.
BAND
MODELLO RADIOHEAD SULLA ROTTA LOW-COST quanto rassicurante, che spezza l’amarezza con battute da risate a denti stretti, sviluppato in scene brevi, rapide, di succo, nella traduzione di Valentina Rapetti. Un testo servito molto bene da una regia di taglio cinematografico che sovrappone le immagini degli incontri tra i quattro protagonisti grazie alla scelta della scenografia di citazione di Francesco Ghisu (pochi arredi fondamentali, rigorosamente trasparenti, intangibili, quasi linee), che viene mossa e rimossa da due elementi scorrevoli di grande autorevolezza a contenere tanto i sogni notturni quanto gli incubi diurni. Le luci di Valerio Geroldi percorrono il biancore della scena e lo personalizzano dandogli carattere. Paolo Zuccari nel ruolo del sognatore Hurt si sciupa di giorno in compagnia del Ben (Paolo Giovan-
nucci) e rifiorisce di notte tra le braccia impalpabili della sposa di lui (Teresa Saponangelo): affiatati, calibrati, convincenti, ben assortiti; mentre Anne, moglie di Hurt (l’eccellente Antonella Attili), troppo intelligente e lucida per accontentarsi di rapporti di scarsa qualità, si dibatte nel suo regno domestico occupandosi delle celebrazioni familiari, leggendo libri desolanti, rigirando gli arredi della sua magione come fosse la casa di Barbie, coltivando il sogno proibito di comprarsi un divano rosso a interrompere il biancore accecante, tombale dell’ingresso di cui lei ritualmente e ossessivamente lucida le candide e marmoree piastrelle.
Tornano a quattro anni di distanza da In rainbows, ma anche il nuovo The king of limbs è ispirato dallo stesso lodevole intento: lasciare al mercato, per davvero, il compito di stabilire il prezzo. Per l’ottavo album di studio, disponibile sul loro sito a partire da oggi, i Radiohead hanno fatto una media: sei sterline, tanto quanto più o meno fu raccolto per ciascuna copia del precedente lavoro nel 2007. Dopo la rottura con Emi, i funambolici britannici si confermano artisti all’avanguardia. E se la qualità somma della loro musica vale sei sterline, ecco spiegate quindi molte cose.
Marble, Roma, Teatro Vascello fino al 6 marzo, info: 06 5881021 - www.teatrovascello.it
di Francesco Lo Dico
Ah, l’opinione pubblica... questa eterna portinaia n tempi italiani come questi, che è superfluo definirli tanto sono sfacciatamente lì, sul gran palco del mondo, la televisione accoglie e raggruma quella strana e anguillosa cosa che è l’opinione pubblica. Lo fa attraverso i talk-show, le interviste, la satira, lo spettacolo (che puro non lo è più da molti anni). I microfoni e le telecamere aiutano a capire l’umore nazionale. Scoraggiamento, indignazione, archiviazione dell’osceno anche se non provato giudizialmente, indignazione, voglia di reagire, realismo delle piccole cose. Strano ma vero: anche nelle televisioni di proprietà di Berlusconi s’infila lo spiffero dell’opinione pubblica. A Zelig (Canale 5) si ridacchia, tra pena e sconforto, del «padrone», e la gente applaude. Secondo Lincoln «l’opinione pubblica è tutto»: riassunto della mentalità americana. Il greco Eraclito la definiva «mal caduco». Karl Kraus: «questa eterna portinaia».Vero, ma per avere informazioni sui condomini, come insegnava il commissario Maigret, si deve sostare in portineria.
I
So di gente che non segue, per saturazione o nausea, programmi come Anno zero, Matrix o Ballarò. Troppi proclami, troppe risse, voce a volume altissimo. Un programma più quieto viene offerto da La 7 con Niente di personale, condotto da un sobrio Antonello Piroso, il quale sa alternare domande impegnative a domande più leggere senza perdere di vista il baricentro della persona intervistata e il perché è lì in quel momento. Camicia bianca con maniche rimboccate, cravatta, modi cordiali ma non sbracati, un lieve indugiare su di sé come regista dell’attualità, risata irrefrenabile al posto della
battuta pungente di Fabio Fazio, Piroso ripete sempre d’essere nemico del «pensiero unico». E quindi porge il microfono a personaggi diversi. Il sottofondo è sempre quell’inafferrabile cosa che è l’opinione pubblica. Ci si accorge comunque che, indipendentemente dalla personalità dell’ospite, l’umore nazionale bolle come una minestra sul fuoco, in attesa di piatti nuovi che la possano contenere quando s’apparecchia la (nuova?) tavola. A proposito della manifestazione di protesta delle donne, per esempio, la saggista Maria Madotti ha modo di precisare che il rischio è quello di dar fiato all’unanimismo, elemento che fa sempre paura, oppure quello di prendere in considerazione il modello di famiglia anni Cinquanta. Gino Paoli, che oltre a scrivere canzoni pensa, ci avverte che Berlusconi «non ha capito un accidente delle donne»: esse non sono categoria, ma condizione. E ancora, dalle labbra dell’autore di Il cielo in una stanza: l’Italia è cambiata perché è cambiata
la mentalità. Quella che dà spazio ai furbi e molto meno agli onesti. O per satira o per dichiarazioni, sul banco televisivo degli imputati prima o poi siede sempre il premier. E anche se Piroso intervista Matteo Renzi, sindaco di Firenze, il quadro non muta di molto. Salvo però il modo di combattere il declino nazionale. Dice Renzi: «Smettiamola di chiacchierare su quel che fa Berlusconi di notte e cominciamo a discutere su quel che non fa di giorno». Si deve puntare sulle cose. Al ministro La Russa così facile alla rissa (per un gioco di parole è diventato «ministro la rissa») non imputa la colpa di «messaggiare» con la escort di turno, semmai di non aver dato risposte sulle caserme abbandonate: potrebbero servire, a Firenze, per gli alloggi popolari. Ecco che avanza l’opinione pubblica, ondeggiante tra barzellette, ripetizioni di portaborse e dito puntato su ciò che non s’è fatto e si continua a non fare. Il brusio si diffonde. (p.m.f.)
Babeliopolis
pagina 22 • 19 febbraio 2011
ntorno al 5-7 febbraio tutti i giornali italiani hanno riportato una raccapricciante notizia: in un paesetto della Svizzera un’implacabile burocrazia aveva soppresso il barboncino di una signora che non aveva pagato le tasse comunali che lo riguardavano sulla base di una legge del 1904. C’è chi scriveva che la signora aveva provato a pagare in extremis quei 50 franchi, ma niente da fare; e c’è chi scriveva che la ignara, a differenza di altri, si era ostinatamente rifiutata di pagare la tassa per anni sino alla tragica conclusione. I commenti, giustamente indignati, si sono sprecati e hanno coinvolto anche il funzionamento di una burocrazia svizzera inesorabile e precisa come i suoi orologi. Giornalisti, veterinari, animalisti, commentatori di costume hanno detto tutti la loro. Insomma, come si suol dire, un «caso» di quelli che occupano anche le prime pagine dei quotidiani all’affannosa ricerca di storie popolari e lacrimevoli (ormai si sono ridotti quasi tutti così).
I
E invece dopo un altro paio di giorni viene a galla la verità. Se la calunnia è un venticello, la bufala, o più accademicamente, la leggenda metropolitana, è un tornado, una bufera, un ciclone. Soprattutto da quando la Rete e Internet sono diventate il mezzo di comunicazione mondiale più diffuso, veloce e consultato. Nulla di tutto quel che aveva mosso a commozione e indignazione lettori e telespettatori era vero. O per meglio dire non era vera la parte essenziale della notizia: la morte del cane.Vero il luogo della vicenda: il paesino (duemila anime) di Reconvilier nel Canton Bernese. Vero il nome del sindaco: Flavio Torti. Vera l’infame legge ammazzacani morosi del 1904. Vera la tassa di 50 franchi (38 euro). Punto. Il resto era falso. Falsa la signora italiana tignosa o pietosa, tale Marilena Janotta. Falsa la morte del barboncino di tre anni causa evasione delle tasse. E allora? Allora, a quanto pare la faccenda girava su Internet dall’inizio di gennaio e se ne erano occupati anche i giornali svizzeri, ma la cosa è rimasta là, senza uscire dai confini della Confederazione. Evidentemente, la falsa notizia ha continuato a gonfiarsi a tal punto in Rete che qualche importante agenzia stampa l’ha ripresa e rilanciata. Ora, una agenzia stampa è sicuramente più attendibile del chiacchiericcio mediatico del Web e i quotidiani italiani tutti, vedendosela comparire sui loro monitor, ci si sono gettati su senza pensarci due volte. Eppure, si dovrebbe sapere che ormai, sempre più spesso, le notizie, specie quelle più singolari, strane, curiose, grottesche, improbabili, le agenzie stampa mondiali, un dì famose per la loro autorevolezza derivante da una accredita serietà, se le vanno a pescare proprio nella Rete senza un minimo di controllo. Basta fare lo scoop! Peraltro collettivo… Basta fornire ai media cartacei e visivi quel materiale «leggero» di cui vanno ghiotti. Ed ecco
MobyDICK
ai confini della realtà
Bufale in Rete
di Gianfranco de Turris il povero cagnolino soppresso dalla cieca burocrazia elvetica. Non è detto, peraltro, che tutto questo sia stato creato a bella posta dal comune di Reconvolier medesimo che infatti ammette di aver recuperato ben presto il 50 per cento delle tasse canine arre-
o inventate, ma noi non possiamo sapere con certezza che esse non lo siano! Infatti chi garantisce per esse? Tutti, ma proprio tutti, per i motivi più diversi, seri o faceti, per destabilizzazione, terrorismo o solo puro divertimento, possono inserire fatti, informazioni, dati che si
La più recente è quella del cane soppresso in Svizzera perché la sua padrona non aveva pagato le tasse. Leggende metropolitane che un tempo si diffondevano oralmente e che oggi, più veloci della luce, rimbalzano su Internet. Finché autorevoli quotidiani non le prendono per vere trate: far cadere nel panico i padroni morosi con relativa reazione. Il risultato però è identico. Indipendentemente da ciò, questa grottesca vicenda sta a dimostrare molte cose e dovrebbe dar da pensare seriamente a quelle categorie che si interessano dei fenomeni di massa. Dagli psicologi, ai sociologi e agli stessi politici. Il tempo della carta stampata e delle notizie diffuse dalle agenzie, ma anche il tempo dei radio, cine e telegiornali come uniche fonti di informazioni sta tramontando. Così come sta tramontando il fatto che una volta le notizie che sembravano poco ortodosse come minimo si controllavano, oppure si facevano conoscere con cautela, con poche o molte riserve. Tutto ciò sembra essere finito, purtroppo. Oggi il World Wide Web ha affossato praticamente a priori ogni pretesa di sicurezza, serietà e veridicità delle informazioni in esso e con esso diffuse. Ovviamente non tutte le notizie sono false
afferma siano reali, ma che nessuno può controllare. E - diciamo - più si tratta di questioni inverosimili e più trovano accoglienza, sono rilanciati, arricchiti, abbelliti, manipolati dilatandosi, gonfiandosi, espandendosi per ogni dove. Sino a che non trovano sfogo su qualchee «autorevole quotidiano» o qualche «importante emittente» che dà loro il crisma della totale verità.
È il meccanismo della «leggenda metropolitana» o «urbana» sulla quale sono stati scritti saggi di notevole interesse e pubblicate antologie di storie sorprendenti. Sorprendenti soprattutto perché alcune di esse, praticamente uguali fra loro con minime varianti, sono nate e hanno proliferato in Paesi senza collegamenti o contatti. Ovviamente ci si riferisce a un’epoca ante Era Digitale. Evidentemente l’Immaginario umano è simile nei cinque continenti, e la voglia di affabulare e di lasciarsi irretire dalle storie più singolari e curiose,
più paurose e grottesche non ha confini. Internet ha potenziato questo meccanismo, elevandolo all’ennesima potenza. Se prima i ricercatori di antropologia culturale o di sociologia dovevano andarsi a studiare i casi uno a uno, cercando anche di rintracciare come, dove e perché una leggenda metropolitana era nata per poi dilagare, adesso la questione è irrisolvibile. Si pensi ai casi classici in materia dell’«autostoppista fantasma» (un automobilista offre un passaggio a una persona che improvvisamente scompare) o del «bambino nel forno» (una domestica africana che cerca di rosolare il neonato della famiglia dove presta servizio) diffusissimi in molte nazioni. La leggenda metropolitana è la versione moderna, industriale, tecnologica della vecchia leggenda del folklore. Non ha una fonte originaria precisa. È sempre appresa dall’amico di un amico, da un familiare che a sua volta l’ha udita da altri attendibilissimi ecc. ecc. Si diffonde oralmente e la si ritiene vera sol perché tutti ne parlano: la quantità e la diffusione creano la realtà e la verità. La nascita e l’affermazione definitiva di Internet ha reso incontrollabile il fenomeno, consentendo di credere che siano reali le vicende più improbabili: si pensi a quanto la Rete abbia contribuito a diffondere le leggende metropolitane intorno all’attentato dell’11 settembre. Di tutto questo il caso del barboncino soppresso perché la padrona tirchia non pagava la tassa è semplicemente l’ultimo caso.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Silvio Berlusconi non molla ma è evidentemente indifendibile IL POLO PER L’ITALIA Nella storia della politica è sempre stato difficile far convivere tradizioni culturali, esperienze di vita, sensibilità diverse. Lo spirito di scissione ha sempre tenuto banco sulle ragioni dell’unità. Non a caso la presenza del Nuovo Polo, nel contesto politico-istituzionale, si è creata di fronte al fallimento delle fusioni a freddo dei Ds con la Margherita e dell’unione di pura convenienza elettorale tra FI e An. Nel Polo per l’Italia, la nuova formazione politica, si incontrano l’ispirazione cristiana, il pensiero liberale, il patriottismo nazionale, le virtù civiche repubblicane, quattro segni distintivi che da Manzoni a Gioberti, a Mazzini hanno ispirato il processo risorgimentale e unitario del Paese. Sono le grandi scuole di pensiero che, con De Gasperi e Einaudi, hanno accompagnato la ricostruzione morale e strutturale dell’Italia. Due momenti significativi della nostra storia, laddove Stato e Nazione vennero letti come una sola unità, politica, spirituale e territoriale. Il patrimonio di queste diverse culture si rivelerà per noi prezioso se i partiti in campo sapranno smussare le ragionevoli angolature esistenti per compilare la carta d’identità del costituente Polo per l’Italia. La scommessa che proponiamo è dimostrare che è possibile stare insieme in nome della storia, del bene comune da perseguire, della ricostruzione morale e del rilancio della politica e della sua dignità nel Paese. Non a caso, i partiti contrari all’originalità del nuovo progetto hanno cominciato, al centro come in Basilicata, a cercare di dividerci con argomentazioni rozze e poco sofisticate politicamente richiamando la diversità delle anime presenti nel costituente Polo. Proponiamo, allora, che in Basilicata si organizzi una piccola Todi, cioè un’occasione seria e mirata per approfondire e dibattere la bontà delle proposte della nuova alleanza alla società civile del nostro territorio. Per questo sarebbe auspicabile coinvolgere le migliori energie della regione al fine di declinare una piattaforma di proposte e di azioni condivise all’altezza del compito e del momento storico che viviamo. In parole povere, di fronte alle difficoltà e ai disagi della situazione politica esistente, il disegno che si propone non può reggersi su un’impostazione retorica o su una mera contrapposizione al sistema politico vigente, bensì è necessario avanzare una nuova visione della società civile di Basilicata fondata su programmi comprensibili per i cittadini lucani e per l’elettorato indeciso. Da questo momento in poi riteniamo che sia necessario passare, con il concorso di tutti, dalle buone intenzioni ai fatti. Gaetano Fierro PRESIDENTE CIRCOLI LIBERAL BASILICATA REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Il Premier non sembra intenzionato a lasciare palazzo Chigi. La proposta di Gianfranco Fini, ovvero l’ipotesi di doppie dimissioni, è stata respinta e rispedita al mittente. Anche il monito del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che valutava l’idea di scioglimento anticipato delle Camere (visto il clima avvelenato), cadeva nel vuoto e otteneva in contropartita un attacco mediatico da parte della stampa filo-berlusconiana. Una importante risposta di insofferenza è arrivata dalla piazza: un milione di donne italiane ha voluto esprimere il proprio disagio per l’atteggiamento immorale e sessista del nostro presidente del Consiglio. In una situazione politica che vede il Premier ormai “accerchiato”, Giuliano Ferrara prova ad impersonare i panni dell’avvocato del diavolo, definendo illiberali e puritane le accuse rivolte al Cavaliere. Dal suo punto di vista un Capo sarebbe libero di tenere qualunque tipo di condotta morale. In sostanza non dovremmo scandalizzarci se il Premier la sera prima partecipa ad un party “bunga bunga”e magari il giorno dopo presiede una conferenza sulla Famiglia. Credo sia evidente che qualunque ulteriore tentativo di difesa ad oltranza rischi di diventare paradossale.
Fabrizio Vinci
BASTA CON LA POLITICA DEI PROCLAMI Per smaltire l’arretrato di sei milioni di cause civili arretrate il Consiglio dei ministri ha approvato un disegno di legge per la nomina di seicento nuovi giudici ausiliari pagati duecento euro a sentenza. In un periodo in cui tutti abbiamo fretta,e spesso leggiamo solo i titoli dei giornali, per la maggioranza dei non addetti ai lavori, il problema sembrerà risolto. Non solo la soluzione in questo modo rimane lontana ma si acuiscono le disparità di trattamento fra i giudici onorari. La soluzione rimane lontana perché l’iter del disegno di legge non lascia prevedere una sollecita approvazione. Dopo la promulgazione dovrà essere emesso il bando di concorso, e nel migliore dei casi i nuovi giudici ausiliari inizieranno a lavorare fra circa due anni, quando quasi sicuramente l’arretrato sarà maggiore. Il disegno di legge presentato dal ministro Alfano appare, a prima vista, come una riedizione dei Goa (Giudici onorari aggregati) e acuisce le disparità di trattamento fra i giudici onorari. Infatti mentre i Got (Giudici onorari di tribunale) hanno solo il gettone di presenza per la partecipazione alle udienze, i Giudici di Pace hanno retribuita tutta l’attività (sentenze, decreti ingiuntivi, definizione delle cause civili, udienze) oltre una indennità fissa mensile. Ad accrescere la disparità di trattamento ora si ag-
giungono i previsti giudici ausiliari anche se provenienti da posizioni di alto profilo professionale. Non sarebbe meglio e di impatto immediato, al fine di incidere nella riduzione dell’arretrato, dare maggiori attribuzioni e più ruoli ai Got, retribuendone tutta l’attività come viene fatto per i Giudici di Pace? Ritengo che i Got meritino un migliore trattamento economico anche in considerazione che la loro attività ha contribuito ad evitare la paralisi delle udienze in molti tribunali. La soluzione sopra prospettata non fa clamore ma è più efficace della politica dei proclami.
Luigi Celebre
ESCORT, BERSANI E ZERBINI Nella speranza di beccare qualcosa, da quando il mondo è mondo, lacchè, cortigiani e zerbini hanno adulato i potenti di turno.Talvolta ai reggenti è andata bene: al loro cospetto si sono avvicendate, seppur non ammantate di immacolate virtù, bellissime donne, ad altri invece, è andata molto male. Per rimanere sull’italico suolo, Berlusconi è stato fortunato. Ai suoi piedi si sono accucciate decine di bocca di rosa in cerca di notorietà, gloria e agiatezze. Diversamente, ai vertici della Lega non si sono presentate bambolone mozzafiato, ma, il segretario del Partito democratico. La domanda che i veri moralisti (che non sono i sepolcri imbiancati che amano le piaz-
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
Fratelli divisi si ritrovano vicini di casa CORNER BROOK. Tommy e Stephen sono due fratelli canadesi, separati da quando avevano pochi mesi, dati in adozione a famiglie diverse. Diventati maggiorenni, ciascuno dei due si è messo a cercare informazioni sui genitori biologici e sugli eventuali altri parenti. Una ricerca che ha richiesto diversi anni, ma che ha permesso a Tommy Larkin di rintracciare la famiglia a cui era stato dato in adozione il fratello e a sapere dove questi abitava. E la sorpresa è stata ancora più forte quando Tommy ha scoperto che Stephen, cresciuto come Stephen Goosney, abitava proprio di fronte casa sua da più di due anni. Stephen, infatti, era cresciuto a diverse centinaia di chilometri a sud, ma da qualche tempo si era trasferito, come il fratello, nella città di Corner Brook. «Non potevo crederci», ha raccontato Tommy, «speravo che vivesse nella stessa regione, ma trovarlo dall’altra parte della strada è stata una fortuna incredibile». I due fratelli non avevano mai scambiato molte parole quando erano semplici vicini di casa, ma poi hanno trascorso diverso tempo insieme, scoprendo di avere molte cose in comune, dai gusti alimentari… alla scelta del posto dove vivere.
ze, gli slogan imbottiti d’odio, gli atti vandalici e le bandiere rosse) si devono porre è: che differenza passa tra una lucciola che vende il suo corpo e un Bersani che svende i suoi ideali pur di abbattere il nemico Berlusconi? Risposta ovvia: nessuna! Che altro è, se non una forma di meschina prostituzione lo svendersi alla Lega per realizzare il federalismo fiscale in cambio della testa del capo del governo? È normale, e soprattutto morale (morale si fa per dire) rinnegare i valori (valori sempre per dire) del Partito democratico, vale a dire il diritto all’aborto (leggasi omicidio di un essere innocente), all’omosessualità (leggasi pratica della sodomia senza apertura alla vita), all’eutanasia e al testamento biologico (leggasi omicidio di un soggetto incapace di intendere e volere) e alla fecondazione artificiale eterologa (leggasi selezione innaturale della specie di nazista memoria), pur di cacciare il più votato e amato dagli italiani? Per fortuna i leghisti, come il macho Berlusconi, manifestano tendenze eterosessuali, motivo per cui le efebiche seduzioni di Bersani saranno respinte al mittente. Per il segretario del Pd semmai, il rischio di potenziali pratiche sessuali “alternative”provengono dalla sua base, che già grida all’inciucio con i nemici di sempre. Uomo avvisato, deretano salvato!
Gianni Toffali - Verona
PIANO NOMADI. LE TENDOPOLI NON SONO UNA SOLUZIONE
Tutto ok! Già quando era nel pancione deve aver pensato che non fosse il caso di far preoccupare la sua mamma. Così, quando la signora Marie Boswell ha fatto l’ecografia alla 20esima settimana di gravidanza, il piccolo Taylor Evans, che ora ha cinque mesi, ha pensato bene di sollevare un pollice, quasi a dirle «qui tutto a posto!». Insomma, il sogno di tutte le future mamme apprensive
L’ennesima soluzione improvvisata, l’ennesimo spreco di risorse. Dopo 3 anni di gestione fallimentare, Alemanno partorisce l’innovativa idea delle tendopoli per ospitare i rom che vivono nei microaccampamenti abusivi. Il sindaco continua con la politica del “fare cassa”per garantirsi finanziamenti straordinari omettendo di affrontare in concreto il problema.
Lettera firmata
pagina 24 • 19 febbraio 2011
grandangolo Secondo il Palazzo di Vetro nel 2050 saremo 9 miliardi
Boom demografico, la Terra ha bisogno del piano B Quest’anno gli abitanti del pianeta raggiungeranno la vetta dei 7 miliardi. Sei miliardi in più in soli 200 anni. L’Onu lancia l’allarme e invita i governi a rafforzare le misure sul controllo delle nascite. Ma molti scienziati non ci stanno. Il problema non sono le persone ma le risorse e come vengono gestite. Chi ha ragione? di Luisa Arezzo ette miliardi, che numero impressionante. È stato stabilito che solo per contare una simile cifra ad alta voce occorrerebbero 200 anni. E che 7 miliardi di passi consentirebbero di fare il giro del mondo ben 133 volte. D’altronde ci vuole un paragone pratico per cogliere la grandezza del numero, altrimenti la mente umana non riesce a coglierne la vastità, concentrata più sul semplice 7 che su tutti gli zeri che stanno al seguito. Ebbene, il dato è ufficiale: in questo 2011 gli abitanti della Terra raggiungeranno la vetta dei 7 miliardi. Nel 1800 la popolazione mondiale toccò l’apice del primo miliardo, 130 anni dopo, dei due. Nel 1960, dei tre; nel 1974 dei quattro; nel 1987 dei cinque e nel 1999 dei sei. Anno più anno meno, considerando un maggior incremento negli ultimi 25 anni, si può dire che gli abitanti crescono al ritmo di un miliardo ogni dodici anni. Ma nel 2045 non dovremmo aver superato la soglia dei nove miliardi.
S
I dati sono quelli dell’Onu: ogni secondo nascono 5 bambini e muoiono due persone. Nel tempo che ci avete messo a leggere queste prime righe la popolazione mondiale è cresciuta (uomo più uomo meno, la simulazione seguita è quella del National Geographic) di 165 persone. Senza contare che (fortunatamente) viviamo di più e che l’aspettativa media di vita di un essere umano è di 69 anni, contro i 53 del 1960. Il dato più
importante, tuttavia, simbolo di una vera rivoluzione mondiale, è che aumentano le cosiddette megacity, le metropoli con oltre 10 milioni di persone. Viceversa, si svuotano le aree rurali. Il 2008 ha segnato il punto di non ritorno di questo trend esplosivo: tre anni fa, infatti, per la prima volta in assoluto si sono registrati più abitanti nelle città che nelle zone a vocazione agricola. Nel 1975 le magacity erano soltanto tre: Città del Messico, Tokyo e New York. Oggi sono 21. Si stima che entro il 2050 il 70 per cento dell’intera pooplazione mondiale sarà urbanizzato. Non si contano gli al-
Ogni secondo nascono 5 bambini e muoiono due persone mentre aumenta l’aspettativa di vita, oggi di 69 anni larmi demografici, compresi quelli “cultural-religiosi”. Il Pew Research Center’s Forum on Religion and Public Life ha stimato che nel prossimo futuro il mondo sarà sempre più musulmano e che nel 2030 la popolazione mondiale di
religione islamica raggiungerà i 2,2 miliardi. Oggi sono 1,6. E il Pakistan diventerà la nazionale islamica più popolosa al mondo, scavalcando l’attuale Paese leader, che è l’Indonesia.Tuttavia, le previsioni secondo cui il Vecchio Continente sarà invaso dai seguaci di Maometto e diventerà presto una sorta di Eurabia sono totalmente infondate, visto che la presenza di islamici in Europa, oggi pari al 6%, nel 2030, si attesterà all’8%.
Quanto all’Italia, non si andrà oltre il 5%. Secondo questi dati, nei prossimi due decenni la popolazione islamica crescerà con un tasso dell’1,7% all’anno, il doppio rispetto a quello della popolazione non musulmana che avanzerà dello 0,7%. Oggi i musulmani costituiscono il 23,4% dell’intera popolazione mondiale. Nel 2030 saranno oltre un quarto, raggiungendo quota 26,4%. Queste proiezioni sono basate non solo sui trend demografici registrati negli ultimi decenni ma anche «sui possibili flussi migratori che potrebbero verificarsi tra i Paesi islamici e quelli occidentali». Flussi che «potrebbero avere un impatto enorme nella politica americana ed europea». Quanto al Pakistan, «dovrebbe sorpassare l’Indonesia e diventare il paese con la più alta presenza di musulmani», con una popolazione che tra 20 anni raggiungerà quota 256 milioni, mentre ora è di appena 178 milioni. L’Indonesia, sempre nel 2030, dovrebbe fermarsi a 238 milioni di islami-
ci, mentre l’India, terza, ne conterà 236. Sul fronte occidentale, gli Usa vedranno duplicata la presenza di islamici nei prossimi 20 anni, raggiungendo i 6,2 milioni di persone, mentre ora sono appena 2,6. In Europa si passerà dai 44 milioni di oggi, ai 58,2 milioni nel 2030. Ma nessuna minaccia di Eurabia, visto che la loro presenza passerà dall’attuale 6% all’8 nel 2030.Terminata la parentesi demografico-confessionale, che ha chiaramente risvolti culturali ma non di sostenibilità ambientale, torniamo all’allarme lanciato dall’Onu su un possibile boom demografico in grado di sconvolgere l’equilibrio del pianeta. Il Plazzo di vetro, martedì scorso, ha chiamto i governi a concertare politiche di controllo demografico attive affinché il fosco scenario di una Terra con 18 miliardi di abitanti (questa la stima Onu a 100/150 anni da oggi) non si realizzi. Un futuro da incubo, insomma, con l’Africa che ne ospiterebbe quasi la metà, su un territorio largamente desertificato per via dei cambiamenti climatici. L’assioma dell’Onu è molto semplice: la natalità si deve adattare alla mortalità per ripristinare l’equilibrio. E dunque c’è bisogno di pianificare le nascite. Il cuore dell’azione dovrebbe essere l’Africa, seguita a ruota dall’Asia. Ma non tutti sono convinti che il cuore del problema sia il controllo delle nascite. Anzi. Molte associazioni ambientaliste e molti governi suggeriscono risposte alternative. In primis, fermare la povertà. È il cosiddet-
19 febbraio 2011 • pagina 25
Ma tutta l’Europa è sotto schiaffo per il calo delle nascite
Italiani sempre più vecchi ma il record della denatalità spetta alla Russia di Laura Giannone li ultracentenari sono triplicati in dieci anni. Erano 5.400 nel 2001, sono oggi 16mila. Ma anche i «grandi vecchi», gli over 85, sono in forte crescita, un milione 675mila, il 2,8 per cento, nel 2001 erano il 2,2. L’Istat conta gli anni agli italiani e scopre, anzi conferma la tendenza: il Paese invecchia sempre di più, e gli italiani sono più longevi. L’età media di un italiano è 43 anni e mezzo, dieci anni fa era 41,7. Come se non bastasse, nel 2010 è tornata a calare la natalità, dopo un breve trend positivo di crescita: sono nati lo scorso anno 12 mila e 200 bambini in meno dell’anno prima. La popolazione al primo gennaio del 2011 ha superato i 60 milioni di abitanti con un tasso d’ incremento del 4,3 per mille dovuto alla diminuzione dei decessi ma anche alla maggiore presenza degli immigrati che sono ormai determinanti per la demografia. La popolazione straniera che vive in Italia è infatti pari al 7,5 per cento dei residenti, si tratta di quattro milioni e mezzo di persone. Gli ultra 65enni sono il 20,3 per cento, dieci anni fa erano il 18,4 per cento. La popolazione attiva, gli adulti che lavorano e non sono ancora in pensione, diminuisce, e ha minor peso percentuale, nel 2001 era il 67,3 per cento e oggi è il 65,7 per cento. Oltre i 65 anni le donne sono in numero superiore agli uomini perché la loro aspettativa di vita è più alta, ma il rapporto di genere si riduce: nel 2001 ogni cento uomini sopra i 65 anni c’ erano 143 donne, oggi le donne sono 137.
G
to “piano B”di Lester Brown, il papà del Worldwatch Institute (noto per i rapporti che ci aggiornano sullo stato di salute del mondo, il State of the world) nonché fondatore e presidente dell’Earth Policy Institute.
Brown (24 lauree honoris causa e scritti tradotti in oltre 40 lingue) propone delle soluzioni per superare le crisi del globo: il suo “Piano B”, che è giunto alla versione 4.0 parte dall’idea che solo sradicando la povertà si potrà fermare l’esplosione demografica. Perché è ormai un’equazione affermata che là dove
Il dato più importante è che aumentano le megacity, le metropoli con oltre 10 milioni di persone si soffre la fame e l’ignoranza si fanno più figli. E che là dove si fanno più figli aumentano le carestie e i drammi umanitari. Dunque l’azione dei governi dovrebbe essere focalizzata su questo punto. E poi sul taglio delle emissioni di CO2, sulla difesa dell’ambiente e sul controllo delle nascite. Ma quest’ultimo punto non è centrale, fa parte di un insieme che potremmo definire interdipendente. La tesi di Brown è sostenuta e corroborata da moltissimi studiosi internazionali. Ma mentre il World Watch Institute segnala che bisogna agire ora per evitare di raggiungere gli 8 miliardi di abitanti (soglia del collasso ambientale), altri non si tormentano all’idea di arrivarci. E trovano errato concentrarsi sulle proiezioni demografiche Onu. Perché il problema non è se diventeremo 9 miliardi, ma solo come ci arriveremo. Che senso ha scongiurare l’aumento
della popolazione se il mondo non agisce sull’ambiente e lo porta al collasso per altre vie? Il Bangladesh ha un tasso di natalità fra i più alti del pianeta, ma anche il più ambizioso programma di controllo delle nascite non salverebbe il Paese dall’innalzamento del livello del mare, né scongiurerebbe un nuovo genocidio in Ruanda (altro Paese a forte tasso di crescita). Il riscaldamento globale è un buon esempio per capire le loro tesi. Le emissioni di carbonio dovute ai gas fossili crescono a dismisura in Cina, grazie al boom economico che stanno vivendo, ma non gli si può chiedere di più in termini di controllo delle nascite. Nell’Africa Sub-sahariana, dove il tasso di crescita è elevatissimo, le emissioni di CO2 sono infinitamente più basse di quelle statunitensi: insomma, il boom demografico non incide sul clima. Brian O’Neill del Centro Nazionale di Ricerca sull’Atmosfera ha calcolato che se nel 2050 la popolazione fosse di 7.4 miliardi anziché di 8.9 (uno scenario non escluso, perché le proiezioni sono passibili di molte variabili in grado di alterare le stime) le emissioni sarebbero ridotte del 15 per cento.
«Quelli che dicono che il problema è la crescita demografica sono in errore - dice Joel Cohen, scienziato della Rockfeller University - la bolla demografica non è il problema dominante». Fermare il riscaldamento globale invece sì. Questo non significa che il numerto della popolazione sia irrilevante, è ovvio. Ma come la gente consuma le risorse preoccupa un po’di più. Il 5 per cento dell’intera popolazione mondiale utilizza il 23 per cento dell’energia. Il 13 per cento non ha acqua potabile. Il 38 per cento è privo di servizi igienici. Il problema non è lo spazio: se 7 miliardi di persone fossero messe spalla a spalla occuperebbero un’area non più grande di Los Angeles. Non è di spazio che abbiamo bisogno, ma di equilibrio. Un punto su cui molti governi proprio non sono disposti a trattare, confondendolo con un arretramento socio-culturale. Eppure ci sono ben 7 miliardi di ragioni per pensarci.
È la Liguria la regione con la più alta età media della popolazione (47,7 anni) ed anche quella con la più alta percentuale di persone oltre i 65 anni (26,7 per cento). Forte invecchiamento anche in Friuli, Toscana e Piemonte. Nel Sud ci sono più giovani ed è più alta la natalità ma non sempre questo corrisponde ad una aspettativa di vita più alta. La Campania, in particolare, ha un’età media di 40,3 anni (quella nazionale è come già detto 43,5) e una quota di popolazione oltre i 65 anni pari al 16,2 per cento. Ma l’aspettativa di vita è la più bassa d’Italia: 77,7 anni per gli uomini e 83 per le donne. In ogni caso, spiega l’Istat, non tutto quello che sta a Sud può essere considerato «giova-
ne» né tutto quello che sta sopra Roma «vecchio»: Abruzzo e Molise hanno una popolazione anziana e un’età media più elevata del Trentino Alto Adige. Natalità, tasto dolente: il numero medio di figli per donna è sceso a 1,40; nel 2009 era di 1,41, nel 2008 di 1,42. Non è poco. Per l’Istat «sembra essersi conclusa la fase di recupero cui si era assistito per ampia parte nello scorso decennio». Per avere infatti un numero di nascite inferiore a quello del 2010 (557 mila nuovi nati) bisogna risalire al 2005, quando i nati furono 554 mila.
Sul fronte della denatalità, a livello internazionale è la Russia a detenere il triste record. L’allarme è così violento che l’agenzia Standard&Poor’s ha fotografato in chiave economica le conseguenze per Mosca. In assenza di una netta inversione di tendenza la proiezione al 2050 prevede un crollo della popolazione di 24 milioni unità, a 116 milioni di abitanti, e una crescita vertiginosa del debito pubblico a 585% del Pil con rating sotto l’investment grade. Secondo lo studio commissionato dal Cremlino se non saranno messe in campo serie riforme, il problema demografico si tradurrà in costi ingestibili delle pensioni e del welfare in generale: tra 39 anni, prevede S&P, il rapporto tra ultrasessantacinquenni e popolazione attiva sarà al 39% (contro il 18% attuale) e le spese per gli anziani saranno raddoppiate rispetto ad oggi, arrivando al 25,5% del Pil. Il problema demografico per la Federazione russa è reale e il continuo declino secondo le stime ufficiali potrebbe portare ben oltre le previsioni di S&P, che da parte sua si limita a consigliare una urgente e drastica riforma del sistema pensionistico e dello stato sociale. Se all’inizio degli anni Novanta contava un po’ più di 148 milioni di abitanti, la Russia secondo il suo ente statistico RosStat nel 2031 ne avrà 127 milioni, concentrati nella parte occidentale del Paese, mentre le vastità siberiane e del lontano oriente russo saranno sempre meno popolate, esposte ad un reale pericolo di perdita del controllo da parte delle autorità moscovite.
mondo
pagina 26 • 19 febbraio 2011
Si fa sempre più confusa la situazione in Libia dove per i ribelli è difficile far filtrare notizie attendibili
Si aprono le prime crepe nella polizia di Gheddafi Defezioni a Bengasi, e Al Beida sarebbe già in mano agli insorti di Pierre Chiartano
ROMA. Medioriente in fiamme. La guida spirituale dei Fratelli musulmani ha parlato in Egitto. Mentre in Libia e nel Bahrein hanno parlato le armi da fuoco. Nel Paese del Golfo le forze di sicurezza hanno sparato sulla folla, causando morti e feriti e in Libia si contano nuove vittime e reparti di esercito e polizia sarebbero passati con i rivoltosi. Il regime di Gheddafi ha minacciato una risposta «affilata e violenta». Washington è invece in apprensione per l’alleato del Golfo. «Riusciremo a liberare Gerusalemme e ad entrare in Palestina», sono alcune parole pronunciate da Yusuf Qaradawi ieri, in quello che è stato battezzato Venerdì del Trionfo. Mentre il simbolo della rivolta anti-Mubarak Wael Ghonim, responsabile per il Medio Oriente di Google, è stato cacciato dal servizio d’ordine del teologo islamico. Un paio di milioni d’egiziani si erano dati appuntamento in piazza Tahrir per festeggiare le dimissioni dell’ex presidente Hosni Mubarak, dopo oltre tre settimane di proteste. Nessun allarme particolare per il pronunciamento dello sceicco, cominciato con un’involontaria citazione di Martin Luther King: «ho un sogno». Sia a Gerusalemme che a Washington – che per voce della Clinton ha promesso un po’ di soldi per l’emergenza economica – non si scompongono più di tanto per l’uscita dell’ulema egiziano, mentre sale la preoccupazione per la situzione in Bahrein. Ma c’è grande attenzione per gli eventi nel Maghreb come in Medioriente, considerata ancora «aperta». Bocche cucite al ministero degli Esteri israeliano – qualsiasi commento sa-
rebbe dannoso – ma la sensazione e che tutte le antenne siano puntate per cogliere ogni minimo segnale che possa dare un colore preciso agli avvenimenti. Non sembra ci siano pregiudiziali sugli esiti delle rivolte, ma si pensa che dal lato del fondamentalismo islamico non possa arrivare nulla di buono. La manifestazione di ieri è stato anche un modo per ricordare alle forze armate, che ora governano la transizione, che la piazza è sempre pronta. E sembra che il messaggio sia stato recepito. Infatti il Consiglio supremo delle forze armate egiziane ha annunciato che nessun componente dell’esercito prenderà parte alle prossime elezioni presidenziali, secondo il quotidiano alAhram (Le Piramidi). Per la prima volta nella storia repubblicana dell’Egitto, sottolinea il quotidiano, si profila l’elezione a presidente di un civile. E un candidato potrebbe essere ’ex direttore generale dell’Aiea e leader dei riformisti egiziani, Mohammed ElBaradei: «se emerge un consenso nei miei confronti, allora correrò per le elezioni». ha affermato in un’intervista alla Bbc. Per Qaradawi si è trattato del primo sermone in patria degli ultimi 30 anni durante i quali il regime lo aveva costretto all’esilio a Doha. A proposito dei rapporti tra musulmani e cristiani il religioso ha aggiunto: «la vittoria di questa rivoluzione è di tutti gli egiziani e non solo dei musulmani. Con la vostra rivolta siete riusciti a sconfiggere anche le divisioni settarie tra cristiani e musulmani». Il leader spirituale dei Fratelli musulmani ha poi dichiarato: «ho un sogno che è quello di tenere un sermone nella moschea di al-Aq-
Parla Paul Wolfowitz, ex presidente della Banca Mondiale
Devono perdonare Hosni Mubarak
Solo la riconciliazione porterà la democrazia. «I militari? Vanno messi alla prova» di Paul Gigot a molti anni Paul Wolfowitz (già presidente della Banca Mondiale e uno dei principali architetti della politica estera dell’amministrazione Bush junior) dice che la democrazia nel mondo arabo non solo è possibile, ma non dovrebbe essergli negata. Lo dice da anni e non sempre è stato creduto. Oggi i fatti sembrano dargli ragione: nel giro di poche settimane è caduto sia il regime tunisino che quello egiziano. «È una grandiosa rivincita del popolo e contro tutti coloro che affermano che agli arabi la libertà non interessa», esordisce. Si sbagliavano? Profondamente. In Tunisia i manifestanti hanno creato parole visibili solo dall’alto e fotografate da Google Maps. In una sorta di grafia umana hanno scritto la parola libertà, “horreya” in arabo. In Egitto la gente portava in piazza striscioni con scritto «non si tratta di pane, si tratta di libertà». Non è stata una rivolta per il pane, è stata una mani-
D
festazione per la libertà. E si tratta di un enorme passo in avanti. Sono sempre stato ottimista sulla capacità degli arabi di conquistare la libertà. Un capitolo, quest’ultimo, che ancora non è stato scritto. Pensa che Mubarak si sia comportato da patriota ritirandosi? Voleva farlo o fino all’ultimo ha cercato di resistere? Dopo aver letto con attenzione il suo discorso di tre pagine poche ore prima della sua uscita di scena, direi piuttosto che stava cercando di rispondere alle critiche che gli erano state fatte per non aver espresso la minima solidarietà nei confronti delle famiglie che avevano perso i loro figli. Il suo è stato un discorso molto confuso. Non so dire se si sia comportato da patriota, ma ha fatto la cosa giusta. E ritengo che a questo punto maggiore è il credito e il perdono che gli egiziani riusciranno ad accordargli, migliore sarà il recupero del Paese. Qui non si tratta di Mubarak, si tratta dell’Egitto. Trasformazioni di tale portata fun-
mondo
19 febbraio 2011 • pagina 27
sa, preghiamo affinché si possa tutti andare a pregare a Gerusalemme e liberare la Palestina». Il leader religioso ha anche chiesto «al Consiglio Supremo delle forze armate che detiene il potere in Egitto di aprire la frontiere con la Striscia di Gaza». Il sermone di Qaradawi è stato trasmesso in diretta dalla tv al-Jazeera e seguito dall’emittente di Stato del Cairo. L’atmosfera ieri è stata rilassata e festosa, mentre l’esercito bloccava il traffico in piazza Tahrir. La folla, sventolando bandiere egiziane, scandiva: «esercito e popolo sono uniti». L’ala politica della Fratellanza ha chiesto agli egiziani, come aveva fatto anche Qaradawi, di proteggere la rivoluzione. Mohamed Badie, leader del gruppo, ha detto che gli egiziani non devono permettere agli «opportunisti di scipparla». Strana raccomandazione, visto che essendo stata una rivolta prevalentemente “laica”, gli unici a poterla scippare potrebbero essere solo i gruppi islamici come quello guidato da Ba-
La Cirenaica è la regione dove le proteste sono più dure ma c’è ancora molta incertezza sul numero delle vittime e sulla consistenza degli scontri
zionano molto meglio in assenza di vendette e aggiustamenti di tiro. Per fare un esempio più famoso, pensiamo al Sudafrica dove Nelson Mandela disse «Se direte la verità, noi andremo verso la riconciliazione». Posso farvi una dozzina di altri esempi in cui è stato cruciale saper mettere da parte il passato. Lei porta ad esempio una rivoluzione democratica riuscita. Ma adesso non esistono figure come Nelson Mandela, nessuno di tale statura emerge dalle strade dell’Egitto... Mandela è un uomo unico, ma ciò non toglie che nella maggior parte degli altri casi di cui sono a conoscenza c’è stato qualcuno che ha preso la guida. Nel caso dell’Indonesia, il vicepresidente imposto da Suharto ha adottato una serie di misure molto coraggiose. Direi anzi che dovrebbero essere prese a modello dalla giunta militare che al momento governa l’Egitto. E dunque cosa dovrebbe fare? Dovrebbe togliere lo stato d’emergenza il prima possibile e liberare i prigionieri politici. Dovrebbe lavorare a una nuova costituzione e probabilmente tornare alla costituzione che era stata abbozzata nel 1954. Andava talmente bene che i militari si rifiutarono di adottarla. L’attuale costituzione non è altro che una regola assoluta sottilmente mascherata. Cosa possono fare gli Stati Uniti per alimentare questa transizione e assicurarsi che proceda nella giusta direzione? Innanzitutto penso che l’entusiasmo sia opportuno. In altre parole non dovrebbe-
ro tenere i bottoni troppo allacciati... Il Paese ha sofferto moltissimo e ci sono molte possibilità che questa rivolta finisca male. Mi ricordo che quando crollò il Muro di Berlino una persona che ammiro molto, Margaret Thatcher, e la sua controparte francese, François Mitterand, erano disperati all’idea che l’Europa potesse ritrovarsi davanti a una nuova minaccia tedesca. In quell’occasione, il presidente Bush disse: «Celebriamo quello che hanno fatto i tedeschi, abbracciamo l’unità e avremo l’opportunità di farla girare nella giusta direzione». E vorrei che fosse rimasto di questo parere quando visitò l’Ucraina e avvisò gli ucraini di non votare per l’indipendenza. Ma sfortunatamente, non gli prestarono abbastanza attenzione. Ritengo che quando un popolo si mette in marcia per la libertà dovremmo esserne felici. Oltretutto, così facendo, se le cose non dovessero poi andare nel verso giusto avremmo l’autorità, e la credibilità, di potergli dire: «Ehi, questa non è più libertà». Secondo lei gli Usa dovrebbero usare i propri aiuti militari, che corrispondono a circa 1,5 miliardi di dollari l’anno, per spingere l’Esercito ad intraprendere una transizione che contempli davvero la democrazia e istituzioni politiche libere? Bisogna essere cauti. Penso che se avessero fatto ricorso di nuovo alla violenza, avrei fortemente raccomandato di usare quei fondi, ma non lo hanno fatto. Dobbiamo offrirgli molta fiducia, se la sono meritata per come hanno risposto pa-
cificamente alla lotta. Lo hanno fatto per il loro bene e nei loro interessi. Ma se avessero scelto di fare quello che hanno fatto i cinesi in piazza Tienanmen, oggi parleremmo di cose molto diverse. Oltretutto, se i militari fossero più rispettati la situazione in Egitto potrebbe solo che migliorare. Sono convinto che sia utile dargli credito. Certo, se dovessero uscire dal seminato e ricominciare a buttare in carcere ogni democratico liberale che riescono a trovare, allora la questione sarebbe punto diversa. Io non penso però che stiamo andando indietro. Credo che la richiesta di media liberi, la richiesta di porre fine a questa tirannia ed oppressione sia troppo forte e che sia molto difficile tornare indietro. I Fratelli Musulmani dovrebbero partecipare a questa transizione? Potrei darle il mio parere, ma non mi va di farlo perché penso che siano gli egiziani a doverlo dare. Ma spero che il giorno in cui cominceranno a prendere delle decisioni rifletteranno bene se un partito politico possa essere considerato tale e legittimo se, per esempio, non concede uguali diritti alle donne. Questi sono standard universali. Dovrebbero essere anche gli standard egiziani.
die. La vita in Egitto è però ancora lontana dalla normalità, con mezzi militari per le strade, banche e scuole chiuse e i lavoratori in sciopero. Intanto cominciano le epurazioni. Quattro persone, tra cui tre ex ministri e un dirigente del partito Pnd dell’ex presidente Hosni Mubarak, sono state arrestate in Egitto giovedì sera, su ordine del La situazione procuratore generale del Cairo. in Libia sembra sul punto Si è sparato anche in Libia, ma di precipitare. non si hanno certezze sul numeNella pagina ro di vittime. Sono stati migliaia i a fianco, manifestanti tornati in strada Qaradawi nella città orientale di Bengasi e e Tantawi, al Beida per i funerali dei morti di capo delle giovedì, che sarebbero 15 seconforze armate. do la Bbc. Alcune unità dell’eserIn basso, cito inviate a Bengasi per sedare Wolfowitz la rivolta si sarebbero schierate con i manifestanti. A rivelarlo è una fonte libica citata dall’emittente inglese. Sempre ieri l’imam di una moschea di Bengasi, Abdellah al-Warfalali, è intervenuto in diretta sulla tv araba al-Jazeera, denunciando la repressione della sicurezza libica e delle bande che sostengono il colonnello Gheddafi. L’imam ha anche confermato la presenza di persone provenienti dall’Africa sub-sahariana che avrebbero ammesso di essere stati pagati dal regime per aggredire i manifestanti. E si è sparato anche nel Bahrein dove l’esercito ha aperto il fuoco su una folla di dimostranti vicino alla Piazza della Perla a Manama. Secondo la Cnn, ci sarebbero state almeno quattro vittime e numerosi feriti. Intanto ieri ai funerali dei tre morti dei giorni scorsi la gente urlava «il popolo vuole la caduta del regime». Tensioni che iniziano a preoccupare gli Usa, anche per le reazioni degli stessi politici d’opposizione che hanno annunciato le dimissioni di 18 parlamentari in segno di protesta.
quadrante
pagina 28 • 19 febbraio 2011
Haiti, 4.549 morti per il colera GINEVRA. L’epidemia di colera ad Haiti si è stabilizzata, provocando finora 4.549 morti e oltre 231 mila contagi. È quanto emerge dagli ultimi dati delle Nazioni Unite reso noto a Ginevra. Le aree rurali sono più colpite, e qui i casi di colera continuano ad essere in aumento secondo l’Un Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (Ocha). L’Onu aveva chiesto 175 milioni di dollari per contrastare l’epidemia, ma al momento le donazioni coprono appena il 45% della somma. Una carenza che sta costringendo anche le associazioni non governative a chiudere alcuni dei progetti in corso nel Paese, inclusi i programmi per la clorazione dell’acqua potabile nella capitale Port-au-Prince.
Cristiani, accordo Ue per difenderli
Alcol: chi beve di più? I moldavi
BRUXELLES. Nel testo della Ue
GINEVRA. Sono i moldavi i più
sulla difesa delle minoranza religiose - che sarà approvato lunedì dai ministri degli Esteri dei 27 - ci sarà il riferimento ai cristiani. L’accordo sarebbe stato raggiunto dai rappresentanti permanenti degli Stati membri presso la Ue. Le divisioni delle scorse settimane sembrano dunque essere state superate. L’Italia, infatti, aveva bocciato il documento che era stato sul messo sul tavolo dei ministri a fine gennaio, proprio perché non conteneva un riferimento esplicito alle minoranze cristiane. Secondo le fonti, nel nuovo testo si esprime «profonda preoccupazione per i numerosi atti di intolleranza religiosa, come simboleggiato da vari attacchi contro i cristiani ed i loro luoghi di culto».
grandi consumatori del pianeta di bevande alcoliche, secondo il rapporto sulla situazione mondiale sull’alcol e la salute pubblicato dall’Organizzazione mondiale per la sanità. Stando al documento, i moldavi bevono 18,22 litri di alcol all’anno, ossia tre volte la media mondiale (6,1 litri). Nella parte alta della classifica tutti Paesi ex Urss o ex satelliti sovietici: la Repubblica ceca (16,45 litri d’alcol pro capite l’anno), l’Ungheria (16,27), la Russia (15,76), l’Ucraina (15,6) e l’Estonia (15,57). Secondo l’Oms, una persona su cinque in Russia e nella Comunità di Stati indipendenti (sorta sulle ceneri dell’Urss, ad esclusione di Baltici e Georgia) muore per un consumo eccessivo di alcol.
Sul vertice di ministri e governatori pesa il giallo di un «prelievo d’urgenza» di 16 miliardi di euro dal «bancomat europeo»
La sfida alle «banche ombra»
I grandi istituti di credito senza regole nel mirino del G20 a Parigi di Gianfranco Polillo
«Anche se la fase acuta della crisi sembra superata permangono incertezze. Specie in Europa, dove la relazione tra i rischi sovrani e le debolezze del sistema bancario stanno creando tuttora significative tensioni»: questo l’allarme lanciato da Mario Draghi al seminario di Eurofi nell’ambito dei lavori preparatori del G20
pertura da brivido al vertice finanziario dei Paesi del G20, a Parigi, con i ministri delle finanze e i Governatori delle principali banche centrali delle maggiori potenze economiche e un’agenda fitta – forse troppo – di punti all’ordine del giorno. Brivido e giallo: a seguito del prelievo d’urgenza da 16 miliardi di euro agli sportelli della Bce, da parte di molti istituti bancari. È stato un fulmine a ciel sereno. Nessuno si aspettava una richiesta così consistente, a un tasso d’interesse dell’1,75%, che non è proprio regalato. Il prelievo è avvenuto attingendo al fondo del marginal lending facility: una sorta di bancomat al quale si ricorre quando si è con l’acqua alla gola. Per aver idea del costo, si consideri che il finanziamento sul mercato interbancario è pari solo allo 0,62 per cento. E quello delle aste all’1 per cento. E allora perché buttare i soldi dalla finestra? La spiegazione è semplice: l’anonimato. Tant’è che non è dato da sapere quale banca abbia inserito la fiche nello sportello automatico. C’è poi un’idea più tranquillizzante, che tale non è: un semplice errore, dovuto al fatto che le richieste, relative all’asta, della scorsa settimana erano state (700 milioni) particolarmente basse.
A
Qualche operatore avrebbe quindi schiacciato il tasto sbagliato, per poi dover ricorrere ai ripari. Ma se anche fosse, non si capisce perché ricorrere alle aste, invece di rifornirsi a un tasso più basso, presso il mercato interbancario. Dove le banche si conoscono reciprocamente. E quindi se non si fanno credito, a brevissimo termine, qualcosa deve pur significare. I mercati finanziari, com’è noto, non guardano in faccia. Se qualcosa non funziona o la fiducia è scarsa, scatta subito la punizione sotto forma di rincaro dei tassi d’interesse a copertura del maggior rischio. Oppure si negano semplicemente i finanziamenti richiesti. Si aggiunga il discorso di Mario Draghi. Forse l’evento è solo
casuale. Ma proprio in coincidenza di quanto avveniva a Francoforte, il Governatore della Banca d’Italia esprimeva preoccupazione per le sorti del sistema finanziario. Eravamo stati, quindi, buoni profeti, nello scrivere qualche giorno fa, che ben poco era stato risolto. Che le regole, nonostante la grave crisi finanziaria, non erano state riformate. Che il moral hazard – il volano delle retribuzioni milionarie del management – continuava indisturbato. Giovedì ne è venuta la conferma più autorevole, specie se si considera che Draghi parlava come responsabile del Financial Stability board: l’organismo internazionale al quale era stato affidata la cura del grande malato. Nulla o poco si è conclu-
so. I salvataggi – dice Draghi – «sono stati necessari per la stabilità finanziaria, per ragioni macroeconomiche, ma hanno rafforzato l’azzardo morale in modo significativo, aumentando il leverage (la leva finanziaria, vale a dire la differenza tra gli impegni ed il patrimonio ndr) e l’assunzione di rischio delle aziende più grandi». Quelle aziende che erano «troppo grandi per fallire» – ecco il paradosso della crisi – sono divenute ancora più grandi. Ma non è diminuita la caccia al profitto facile e immediato.
Il grande accusato è il cosiddetto shadow banking. Il sistema bancario ombra. Una galassia di hedge fund, società veicolo, società di cartolarizzazione e
così via che operano senza regole e rete di sicurezza. Sono distinte dal sistema bancario ufficiale – quello controllato dalle authority centrali – ma con questo vivono in simbiosi. Fanno, in altri termini, il lavoro sporco per i propri apparentemente onesti committenti. Da qui un reticolo di rapporti quasi mai decifrabili, dove non si capisce dove finisce il lecito e il legittimo e dove regna la semplice speculazione. Hic sunt leones, dicevano gli antichi romani quando tracciavano le mappe dei territori a loro sconosciuti. Disboscare questa giungla non sarà facile. L’equilibrio da trovare è quanto mai complesso: da un lato l’esigenza di regolazione, dall’altro la necessità di non soffocare gli animal spirits del mercato.
19 febbraio 2011 • pagina 29
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Germania, la Merkel e la Cdu temono il voto di Amburgo AMBURGO. Partenza in salita per Angela Merkel nel Superwahljahr, l’annata delle elezioni in sette Laender. Domani si vota nella città-Stato di Amburgo e tutti i sondaggi pronosticano una batosta storica per la Cdu del cancelliere. Il borgomastro cristiano-democratico uscente Christoph Ahlhaus, è dato in picchiata al 24%, dopo il 42,6% ottenuto alle elezioni del 2008. Il vincitore annunciato è il socialdemocratico Olaf Scholz, dato al 45%, dopo il magro 34,1% incassato dalla Spd tre anni fa. In ascesa anche i Verdi al 15% (+6%), stabile la Linke al 6% come nel 2008 (6,4%) mentre i liberali di Guido Westerwelle con il 5% riuscirebbero per un pelo a tornare nel parlamento regionale dopo un’assenza di 7 anni. Se le previsioni verranno confermate dalle urne, il borgomastro cristiano-democratico uscente passerebbe alla storia come quello con la minore durata di esercizio, dal 25 agosto del 2010, dopo le dimis-
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
sione del suo predecessore Ole von Beust (Cdu), ma anche per aver probabilmente regalato al suo partito il peggior risultato elettorale del dopoguerra. Con una vittoria socialdemocratica ad Amburgo Angela Merkel si troverebbe ancora più in difficoltà al Bundesrat, la Camera Alta dei Laender, dove attualmente con 34 seggi su 69 non dispone della maggioranza assoluta, poiché a quel punto le verrebbero meno altri 3 seggi spettanti alla città-Stato anseatica.
Il governatore della Bundesbank Weber, Angela Merkel e Sarkozy. Nella pagina a fianco, Mario Draghi
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Di quel mercato finanziario che è un tutt’uno con i processi di globalizzazione che sono all’origine dei grandi cambiamenti intervenuti nei rapporti di forza tra le diverse aree del Pianeta. Ed ecco allora una delle possibili conclusioni di questo vertice: l’incarico di circoscriverne il perimetro. Di individuare la latitudine dello shadow banking come atto ricognitivo preliminare al successivo possibile governo. Una patata bollente che toccherà ancora una volta a Mario Draghi da sbrogliare.
Ma non sono solo queste le spine di
I grandi arrivano divisi anche sulle soluzioni da adottare per aiutare i Paesi travolti dalle «rivoluzioni del pane»
questo vertice. Anzi, dal punto di vista politico, forse si tratterà della cosa di più facile consenso. Ben altri sono i punti del contendere che attengono alle politiche economiche. C’è innanzitutto il problema delle bilance dei pagamenti. Paesi in surplus (soprattutto Cina, Giappone e Germania) e paesi in deficit (Stati Uniti, Francia, Italia e Inghilterra, oltre tanti altri minori). Chi esporta di più è anche colui che risparmia e presta risorse ai Paesi in deficit. Finora la grande locomotiva che ha guidato l’economia internazionale sono stati gli Usa. Ma ora quel motore si è parzialmente fuso e gli altri si rifiutano di tirare la carretta. Per questo l’economia internazionale langue e la disoccupazione cresce. Il problema trascina con sé quello delle monete. Negli anni passati il surplus della bilancia dei pagamenti si ac-
compagnava a una rivalutazione valutaria. Oggi non è più così. Gli squilibri, pertanto, non si ricompongono. Naturalmente nessuno vuole rivalutare, perché altrimenti perderebbe posizioni di mercato. Quindi: stallo. C’è infine il problema dell’eccesso di deficit e di debito di tutte le economie avanzate che fanno parte del G20: Giappone, Stati Uniti, Italia, Francia, Inghilterra e via dicendo. Quel problema che, fino a ieri, era prevalentemente italiano si è ormai generalizzato. Anzi l’Italia – paradosso della storia – si trova in una situazione leggermente migliore. Prevarrà la linea tedesca del rigore innanzitutto? Anche di questo si dovrà discutere nel vertice. Sullo sfondo, poi, un problema che, in questi ultimi giorni, ha assunto un profilo drammatico: l’aumento dei prezzi
delle materie prime (non solo petrolio, ma rame, zinco e così via) e, soprattutto, quello dei prodotti alimentari. Fenomeni non solo economici.
I grandi sommovimenti del Magreb hanno origini lontane, ma la saldatura tra gli antichi oppositori dei vari rais e le masse popolari, che ha portato alla disfatta di questi ultimi, è avvenuta proprio a causa di questo secondo fenomeno. La rivoluzione del pane: com’è stata chiamata in Egitto o in Tunisia. Con prezzi che aumentavano al ritmo del 10 per cento al mese, con un impatto devastante sui più poveri di quelle terre. È un fenomeno, per molti versi, nuovo: figlio della grande liquidità internazionale, alimentata dalla politica soprattutto americana, impostata nella speranza di accelerare la ripresa e contrastare il fenomeno della disoccupazione. Non ha generalizzato l’inflazione solo a causa dell’eccesso di capacità produttiva inutilizzata, nel settore industriale. Ma in campo agricolo, dove l’offerta è rigida, le conseguenze sono state immediate con gli effetti che abbiamo richiamato. Cosa deciderà il vertice? Vedremo nei prossimi giorni. Fin da ora traspare tuttavia un contrasto sulle modalità da seguire per porre freno ad un fenomeno che rischia di determinare una scomposizione ancora più drammatica nei fragili equilibri politici (Cina compresa) di tanta parte del Mondo.
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 9 2 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
pagina 30 • 19 febbraio 2011
il personaggio della settimana Il mondo in apprensione per Steve Jobs, che secondo alcuni sarebbe in fin di vita
Il guru che ha colto il Tempo e le Mele Il padre della Apple ha sempre lottato (e vinto) contro tutto e tutti. Insegnando che morte e malattie non sono la fine, ma un nuovo inizio di Gabriella Mecucci essuno vuole morire»: questa frase pronunciata da Steve Jobs nel suo straordinario discorso a Stanford, nel 2005, risuona cupamente ora che sembra avere sei mesi di vita e che circolano foto dove appare magrissimo, fragile, avviato alla fine. Il cancro sta prendendo il sopravvento? Steve è un combattente nato: tante volte ha reagito e ce l’ha fatta. Sembrava sull’orlo dell’abisso ma, con un colpo di reni, si allontanava e riprendeva la sua strada col suo passo dinoccolato e il suo sorriso beffardo. E anche ora, nonostante la malattia lo incalzi, lotta: dicono che giovedì scorso ha incontrato il presidente Obama per discutere di nuove tecnologie. In attività fino alla fine, dunque. Del resto, ha amato tanto il suo lavoro, la sua famiglia, le sue creazioni. Tanto da sconfiggere per loro la morte. Sembra di vederlo ancora salire sul palcoscenico, quel signore alto, sottile, bello anche quando la malattia aveva prodotto i primi danni, per presentare l’ultimo ipod o l’ultimo i phone. O chissà quale altra diavoleria tecnologica inventata da lui. Lui, creatore della Apple e di tanto altro, nonchè genio assoluto del marketing, e della progettazione di oggetti estremamente utili ma anche eleganti. Lui, marito innamorato e padre premuroso, eppure caratteraccio insopportabile sul lavoro. Lui, uomo di successo in affari e con le donne: aveva conquistato da giovane la mitica Joan Baez e stava per sposarla. Lui, impegnato in politica, gran finanziatore del partito democratico e sostenitore di Al Gore. Una vita straordinaria, movimentata e irregolare sin dall’inizio.
«N
Nacque nel 1955 e sua madre, giovane studentessa non sposata, decise di darlo in adozione. Voleva che a prenderlo fossero genitori laureati e benestanti: un avvocato e sua moglie stavano per portarselo a casa, ma all’ultimo momento gli preferirono una bambina. Le assistenti sociali spulciarono allora le liste di attesa e alla fine trovarono una coppia che lo accolse con amore.
Non erano laureati però e la madre biologica non ne voleva sapere di firmare l’autorizzazione. Lo fece solo quando i futuri genitori promisero che avrebbero mandato Steve a studiare in un’ importante università. Il ragazzo, quando fu il momento, scelse Stanford, tanto prestigiosa quanto costosa. La sua vita da studente è altrettanto inusuale.
Dopo sei mesi di lezioni universitari, Steve si annoiava: gli sembrava di non imparare nulla di interessante. Decise di piantarla lì. Lui stesso in proposito ha raccontato: «Fu difficile, ma guardandomi indietro credo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso. Nell’attimo in cui mollai il college, potei anche smettere di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a capitare nelle classi che trovavo più interessanti. Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio ed ero costretto a dormire sul pavimento nelle camere di amici». Per tirar su qualche dollaro raccoglieva le lattine di Coca Cola vuote, attività che negli States in genere fanno i barboni. Riusciva a fare un buon pasto solo una volta alla settimana quando si recava a piedi (sette miglia) al tempio di Hare Krishna: «Tutto quello che ho trovato seguendo la mia curiosità– ha detto lui stesso sui sacrifici iniziali – è però risultato essere senza prezzo, dopo». Vita dura eppure, sulla base di questa esperienza, lui stesso ha consigliato ai giovani: «Non lasciate che il rumore delle opinioni altrui offuschi la vostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, abbiate il coraggio di seguire il vostro cuore e la vostra intuizione. In qualche modo loro sanno che cosa volete realmente diventare». Seguendo il “suo cuore” Jobs si iscrive ad un corso di calligrafia ed è lì che apprende qualcosa che gli verrà molto utile in futuro. Lui stesso ha raccontato: «Imparai la differenza tra i tipi di carattere con grazie e senza grazie, imparai l’importanza della variazione dello spazio fra
19 febbraio 2011 • pagina 31
caratteraccio da iperprotagonista, ma non privo di generosità. Fanno ormai parte della storia del costume i suoi scontri e le sue riappacificazioni con Bill Gates, l’altro “pirata della Silicon Valley”, icona di Microsoft.
combinazioni diverse di caratteri, mi insegnarono quali elementi fanno della tipografia, una grande tipografia. Era affascinante: si trattava di storia, bellezza, arte, come la scienza non può catturare. Niente di tutto questo aveva per me una diretta utilità, ma dieci anni dopo mi servì e parecchio. Lo mettemmo nel Mac: era il primo computer che curasse la tipografia». Una soluzione che fece scuola e che nacque per caso: da una strana passione per “la bella scrittura”. La tecnologia sgorgava non solo dalla scienza, ma anche dalla sto-
milioni di dollari. I due stravanti giovanotti cominciavano a diventare ricchi. E da lì a tre anni, nel 1980, la loro azienda veniva quotata in Borsa. Loro avevano solo 25 anni. I due si separano dalla Parc, la mitica “Palo Alto Reserch” e continuano la loro corsa che sembra non trovare ostacoli: nel 1984 nasce il Machintosh. Questi nomi ormai fanno oggi parte del nostro quotidiana e quasi ci dimentichiamo che ciascuno di quegli oggetti ha significato un lungo passo in avanti nel mondo delle nuove tecnologie. Che rappresentano conqui-
Da giovane si iscrive a un corso di calligrafia: «Lì imparai cosa sono bellezza ed eleganza» ria e dall’arte. Per Steve il successo arrivò molto presto. Aveva poco più di venti anni quando insieme al suo amico Steve Wozniak, vero e proprio genio dell’elettronica, fondarono la Apple Computer con sede nel garage dei genitori. Per finanziarsi Jobs vendette la sua Wolswagen e Wozniak la sua calcolatrice. Pochi mesi di lavoro e, il primo aprile del 1976 nacque Apple I, il loro primo computer. Sembrava un miracolo tanto era precario e brutto, ma un anno dopo era già pronto il primo personal computer, Apple II che raggiunse un successo di mercato travolgente: vendite per
ste che hanno segnato profondamente la vita della società della comunicazione. Dopo il nuovo straordinario successo la strana coppia formatasi in un garage della California, si sciolse: Wozniak andò per la sua strada. E, incredibile a dirsi, Jobs venne cacciato dalla sua creatura: la Apple. Entrò infatti in rotta di collisione con l’amministratore delegato che lui stesso aveva nominato, John Sculley e, a trent’anni, si trovò completamente out: doveva ricominciare daccapo. Ma allora, come sempre, non gli venne meno né il genio né il coraggio: oltre il precipizio c’era la risali-
ta. E una bruciante sconfitta – anche questo è un leit motiv della sua vita – si trasformò in una grande vittoria. «Ero stato rifiutato – ha raccontato lui stesso – ma ero ancora innamorato, quindi decisi di ricominciare. All’epoca non me ne accorsi, ma il licenziamento dalla Apple fu la cosa migliore che mi potesse capitare». Occorreva infatti reinventarsi e reinventare.
Gli anni fra i trenta e i trentacinque furono pieni di conquiste per Jobs: fondò due nuove società, Next e Pixar. Quest’ultima produsse il primo film animato al computer: Toy Story. Un’altra idea straordinaria. Un altro business dirompente. Dopo questa catena di successe, diventò maturo anche il tempo del rientro, da trionfatore, in Apple. E le innovazioni continuavano senza sosta sino ad arrivare all’ iPod, lettore multimediale più venduto nel mondo, e all’ iPhone. Da ultimo c’è l’iPad, gestore e visualizzatore di libri e, più in generale, di contenuti cartacei.Tutto rose e fiori negli affari? No, Steve ha dovuto fare i conti, alla fine degli anni Novanta, anche con alcuni momenti difficili della Apple, quando assunse direttamente la carica di amministratore delegato con lo stipendio simbolico di 1 euro. Un biennio di lavoro intenso e ritornò a galla alla grande. Fra un business e l’altro, Jobs non si è certo negato la vita privata. Dai tempi della passione per Joan Beaz non si era più innamorato, sino a quando non incontrò, oltre i trent’anni, quella che diventerà sua moglie e la madre di tre dei suoi quattro figli, Laurene Powell. Di figli per la verità ne ebbe anche un altro, nato da una relazione extraconiugale con una pittrice: lo riconobbe e lo portò in famiglia. Qualcuno può credere che quell’uomo tutto dedito al lavoro, genio e sregolatezza messi insieme, non tenesse troppo ai sentimenti. È sbagliato. Steve è sempre stato un tipo caldo, appassionato, con una vita affettiva ricca: non uno stinco di santo, ma uno che sapeva amare. Certo, un
Una vita felice nella quale però compare, a partire dal 2004, il suo opposto: la continua minaccia della morte. «Quando avevo 17 anni – ha raccontato – lessi un brano che diceva più o meno così.“Se vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo, prima o poi lo sarà veramente?”. Da allora, ogni mattina mi sono guardato allo specchio e mi sono chiesto: “Se oggi fosse davvero l’ultimo, vorrei fare ciò che sto per fare?”.. . E se mi dicevo per troppe volte dei no, cambiavo rotta. Inventavo qualcosa di nuovo… Ricordare che moriremo è il modo migliore che conosco per evitare la trappola di credere che hai qualcosa da perdere. Siamo, siete tutti nudi. Non c’è nessuna ragione per non seguire il nostro cuore». Quante volte negli ultimi sette anni, da quando gli diagnosticarono il cancro, Jobs deve essersi ripetuto questa frase. Lui stesso ha raccontato l’inizio del suo calvario: «Ho fatto una Tac alle 7,30 del mattino che mostrava chiaramente un tumore al pancreas. I dottori mi dissero che era incurabile, l’aspettativa di vita era dai 3 ai 6 mesi. Il mio dottore mi consigliò di andare a casa a sistemare le mie cose, che è il messaggio in codice dei medici per dirti di prepararti a morire». Ma l’uomo dei miracoli visse un nuovo miracolo: dopo qualche giorno si scoprì che il suo cancro era uno fra i più rari, ma aveva il pregio di essere curabile, una cosa che non accade quasi mai quando si tratta di pancreas. Da allora, le crisi si sono succedute: per Steve la morte ha camminato accanto alla vita e lui, giorno dopo giorno, è stato costretto a riflettere su questa compagna scomoda. ed è arrivato a dire: «La Morte è l’unica invenzione migliore della Vita. È l’agente di cambiamento della Vita. Elimina il vecchio per far spazio al nuovo. Oggi il nuovo sei tu, domani è qualcun altro, e tu devi sparire. Mi dispiace essere così drammatico, ma questa è la verità». Nonostante la durezza di queste parole, Jobs ha proseguito con grande forza. È caduto e si è risollevato: altre volte l’abbiamo visto pallido e smagrito e altrettante è ritornato per spiegarci una sua nuova invenzione o per raccontare la scoperta di un nuovo mercato: più redditizio, più elegante. La Vita ha sempre vinto: così ci ha abituato Steve. Ora la lotta s’è fatta più dura: ormai è all’ultimo sangue, ma lui non demorde. Se è vero come è vero che continua a vedere i suoi figli, a conversare con la moglie e ha persino incontrato il presidente Obama. Ancora una vita piena, sino a quando c’e. Del resto fu lui a raccontare alla platea dei neolaureandi di Stanford che non ci si deve mai rassegnare, che l’uomo è indomabile: «Eravamo a metà degli anni Settanta – disse - e io avevo la vostra età. Sul retro di copertina dell’ultimo numero del Grande Catalogo Mondiale c’era la foto di una strada di campagna all’alba, quel tipo di strada sulla quale potreste trovarvi a fare l’autostop se foste avventurosi. Sotto c’erano queste parole: “Siate affamati. Siate folli”. Ed io vi dico oggi, a oltre cinquant’anni, siate affamati. Siate folli». Sino all’ultimo respiro, vecchio Steve.
ULTIMAPAGINA Il regista Philippe Mora annuncia il ritrovamento di due film del 1936
Gelo a Berlino, il padrino del cinema 3D è di Francesco Lo Dico apoleone in folle corsa su un cavallo ansimante, l’occhio squarciato di Bunuel, il sorriso irritante di Belmondo che fa capolino dall’angolo di un giornale, un giovane premier seduto alla scrivania che rimira il suo revolver come un trucido antieroe di Howard Hawks, o viceversa. Nel sancta sanctorum dell’immaginario cinematografico riposano frammenti memorabili. Ma in un superomistico spregio della sua stessa grandeur, oggi discende dagli altari la prima gloriosa reliquia del cinema in tre dimensioni. Che per la gioia dei cinefili, ritrae una sordida salsa tedesca che
N
rifrigge su un barbecue, ed è stata immortalata al tempo del regime nazista in netto anticipo sulla fabbrica di miti e latrocini hollywoodiani.
La scoperta si deve al regista australiano Philippe Mora, presente al Festival di Berlino per dare in pasto alla critica u biopic in 3d sulla vita di Salvador Dalì. Ma più dell’opera ha colpito al momento il suo annuncio di aver trovato due film della durata di 30 minuti ciascuno, ripresi dalla propaganda del Terzo Reich. Il primo, denominato icasticamente Così reale che si può toccare, è per l’appunto un film di montaggio che sovrappone una serie di inquadrature di una salsa tedesca, il bratwurst, che sbuffa su un braciere. Il secondo è invece composto da attori che lo stesso Mora (meglio immaginarne il nome alla francese, con l’accento sulla -a- finale), sostiene siano state la creme dello star system dell’epoca, che gravitava attorno agli studios della Universum Film. «La qualità dei film è fantastica», ha rivelato il cineasta al sito ninemsn.com. Che dalla vividezza plastica della salsa barbecue, trae curiose notazioni antropologico-artistiche: «I nazisti erano ossessionati dal registrare qualunque cosa, e ogni singola
immagine è curata al meglio. Rappresenta bene il modo in cui hanno conquistato il controllo del Paese e del popolo».
Un piccolo azzardo teorico: come voler trarre dal pagliaccio del fast food, il quadro lombrosiano dell’impero americano. Ad ogni modo, la tesi del regista australiano è esposta con maggiore accuratezza nel prossimo documentario How The Third Reich Was Recorded, che ricostruisce il potere rivestito dalla cinematografia tedesca all’interno del progetto propagandistico di Goebbels. Lo stesso senza il quale i due reperti in 3d, sarebbero rimasti custoditi nella polvere di un archivio. Secondo quanto emerso finora, il Ministero della Propaganda nazista commissionò le riprese di questi due film in 3D, girati in 35 millimetri bianco e nero nel 1936 e della durata di mezz’ora l’uno. E sebbene
Il “Napoleone” di Abel Gance, film francese che sperimentò una percezione più ampia dell’immagine. Qui sotto, “Delitto perfetto”, girato in 3D negli anni 50. In fondo, un’immagine di Leni Riefensthal
stioni vennero realizzati in uno studio indipendente e poi improvvidamente etichettati come raum films, ovvero come fantascienza. Cosa che deve aver scoraggiato anche gli sci-fi addicted a eludere ben volentieri una proiezione esplorati-
HITLER va.Vi avrebbero ritrovato invece una concezione di ripresa tridimensionale, che anticipa di quasi vent’anni gli esperimenti di Hollywood. Secondo altre fonti, il primo cortometraggio che ha come protagonista la salsa barbecue, illustrerebbe in realtà una festa di carnevale mentre la seconda, galleria di star naziste, risponderebbe invece a un titolo per niente male: Il fine settimana di sei ragazze.
Il Ministero della Propaganda commissionò le riprese delle due opere rivoluzionarie vent’anni prima degli esperimenti di Hollywood: ritraggono una festa di carnevale e alcune star del tempo l’archivio federale tedesco non abbia per il momento confermato la notizia, sembra invece abbastanza certo il motivo per cui essi siano rimasti nell’oblio per tante decadi. I due film in que-
E d’altra parte, occorre notare come la storia del cinema stereoscopico, sia vecchia come gli stessi Lumiere. Già nel 1923, Frederick Eugene Ives e Jacob Leventhal, diffusero i loro primi cortometraggi stereoscopici. E che nel 1934, lo stesso Louis Lumiere presentò il remake del suo film del 1895, L’Arrivée du Train, in versione anaglifica. E cioè in 3D. Quanti avatar sono venuti prima di te, caro Cameron.