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he di cronac

Un ordine di cose stabilito colla violenza è sempre tirannico quand’anche migliore del vecchio Giuseppe Mazzini

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 24 FEBBRAIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Al vertice di Bruxelles Maroni chiederà asilo comune per gli immigrati e un fondo per chi dovrà accoglierli

Tripoli, bel suol d’orrore Al Arabiya: diecimila morti. Scoperte le fosse comuni del regime La figlia di Gheddafi scappa, ma Malta la rifiuta. Sempre più numerosi i militari che si ribellano. L’Ue: «Rischiamo un milione di profughi. Pronti a sanzioni e blocco dei beni contro il raìs» L’intervento del leader Udc

di Pierre Chiartano

Dalla parte del popolo libico: una nuova dignità della politica estera

ROMA. L’Unione Europea è pronta a chiedere sanzioni dure contro la Libia e il blocco dei beni del regime in Europa, mentre i ministri dell’Interno oggi al vertice di Bruxelles chiederanno asilo comune per gli immigrati e un fondo per chi li dovrà accogliere. Ma intanto dalla Libia rimbalzano notizie terribili: sarebbero più di diecimila i morti di questi giorni, secondo la tv Al Arabiya mentre a Tripoli sono stati scoperte le fosse comuni del regime. Infine, a un aereo con la figlia di Gheddafi è stato negato il permesso di atterraggio a Malta. a pagina 2

di Pier Ferdinando Casini na politica estera dignitosa prevede che sui principi non si ceda mai. La prima cosa che dobbiamo fare è allora dire che la strage di civili che è in corso in Libia è vergognosa. Dobbiamo esprimere una solidarietà non formale, forte al popolo libico, e farlo in tutte le sedi internazionali cui l’Italia partecipa. Condivido l’angoscia che trapela delle parole del ministro Frattini. È certamente una situazione drammatica quella che si è venuta a creare: il mix tra l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e la portata straordinaria di Internet hanno generato la rivolta di un popolo oppresso per più di quarant’anni. a pagina 2

Dopo i rilievi del Colle, maggioranza nel caos

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Le proteste trasversali

Oggi il summit della Ue

«La rivoluzione La diplomazia dei gasdotti globale spacca è appena cominciata» in tre l’Europa Michael Ledeen • pagina 4

Enrico Singer • pagina 6

La “minoranza” secondo il senatore Valditara

Mondadori stampa le memorie dell’ex Idv

«Rimaniamo in Fli, sulla linea di Todi»

Razzi, il romanziere «responsabile» di Riccardo Paradisi

di Franco Insardà

ROMA. Sulla strada di Todi. I sei senatori di Futuro e Libertà (Baldassarri, Contini, De Angelis, Digilio, Germontani e Valditara) sono al lavoro con i colleghi di Udc, Api e Mpa per costituire il gruppo del Nuovo Polo al Senato. Baldassarri ha presentato un documento nel quale si conferma «la permanenza nel Fli, per costruire un’alternativa competitiva all’attuale centrodestra, e dando vita a un nuovo e più consistente gruppo parlamentare che faccia riferimento al Polo per l’Italia». a pagina 12 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

ROMA. «A volte ho disgusto per le loro richieste» sembra aver confidato il coordinatore del Pdl Verdini a Berlusconi a proposito delle trattative per convincere parlamentari dell’opposizione a passare con la maggioranza. E siccome Verdini è uno che ha lo stomaco forte devono chiedergli veramente di tutto, i peripatetici del Transatlantico di Montecitorio. Ma è un lavoro che qualcuno deve pur fare, quello del traghettatore, sicchè Verdini canta e porta la croce. a pagina 15

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

38 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

Neanche Tremonti risolve il pasticcio Milleproroghe Non c’è accordo tra il ministro e l’opposizione. Il premier accusa: «Il Parlamento non ci fa governare» e mette la fiducia su un testo appena diverso Marco Palombi • pagina 10

La denuncia delle opposizioni alla Camera

«Un’aberrazione così non si era mai vista» di Francesco Lo Dico

ROMA. «In dieci anni di esperienza parlamentare non si era mai vista una maggioranza che si mettesse all’opposizione di se stessa non consentendo all’opposizione di deliberare. Come da copione ormai consueto, il Pdl e la Lega non si peritano di svilire le istituzioni pur di giungere ai propri obiettivi, e senza alcuna remora nei confronti di un Paese travolto dalla crisi che chiede risposte concrete, piuttosto che leggine che sembrano tagliate su misura di piccoli e grandi interessi. Buona parte delle norme incriminate, sia quelle additate dal capo dello Stato sia altre che non possiedono certo i requisiti di urgenza e in alcuni casi sono dei veri monstrum giuridici, devono essere rispedite al mittente. E in ogni caso, la Camera ha il diritto e il dovere di esaminarle, emendarle e respingerle». Capogruppo Udc in Bilancio alla Camera, Amedeo Ciccanti ha vissuto in prima persona l’incredibile serie di spericolati eventi che hanno indotto uno spazientito Napolitano a stoppare il governo. a pagina 11 IN REDAZIONE ALLE ORE

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il fatto Si fa sempre più drammatica la prospettiva di una forte pressione alle frontiere non solo dalla Libia ma da tutto il Maghreb

Un milione di profughi

L’Ue teme un esodo senza precedenti e prepara sanzioni al regime. Maroni chiede «asilo comune e un fondo per gestire l’emergenza» l’editoriale di Pierre Chiartano

ROMA. Di fronte al massacro libico si preparano le sanzioni economiche e l’Europa mediterranea ha chiesto ieri anche un po’ di soldi. Si tratta un fondo «per affrontare l’emergenza umanitaria». Servirà a fronteggiare la crisi politica e sociale nel Nord Africa e in Libia. È quanto domanderanno oggi, per la riunione del Consiglio Europeo dei ministri dell’Interno i Paesi dell’Ue che si affacciano su Mediterraneo: Italia, Francia, Spagna, Cipro, Grecia e Malta. Sollecitato anche un sistema europeo di asilo comune e sostenibile entro la fine del 2012. Il ministro Roberto Maroni ha anche appoggiato la richiesta del leader Udc, Pier Ferdinando Casini, per la creazione di una «unità di crisi» per la Libia, aperta all’opposizione. Con il colonnello asserragliato nella sua residenza di Bab Al Aziziya, a Tripoli, con i figli e qualche migliaio di uomini della milizia, il futuro del Paese resta ancora più incerto. Il macabro conteggio dei morti sale di ora in ora e si parla di fosse comuni.Probabilmente alla fine sarà un regolamento di conti con alcune tribù, le meglio armate, a chiudere il capitolo Gheddafi. Ma il Paese resterà senza una struttura politica. Quarant’anni di regime non hanno permesso la nascita di un’opposizione. E di fatto la Libia è già divisa in due: a oriente la Cirenaica e a occidente la Tripolitania. Ma come si preparano Europa – che deve rimpatriare ancora 10mila persone – Stati Uniti (con 5mila concittadini da far rientrare) e altri Paesi della regione per affrontare la caduta del regime? Si parlerà di sanzioni contro il regime di Gheddafi oggi al ”Consiglio di sicurezza” Ue. Per ora ci dobbiamo accontentare delle dichiarazioni di ieri del presidente dell’Ue, Herman van Rompuy, che ha condannato le «orribili» violenze in Libia. Questo mentre il Times britannico faceva circolare un video in cui si vedevano delle atroci mutilazioni su civili libici causate quasi certamente

L’intervento pronunciato ieri alla Camera dal leader dell’Udc: «Insieme per l’emergenza»

Dalla parte del popolo libico: diamo dignità alla politica estera di Pier Ferdinando Casini na politica estera dignitosa prevede che sui principi non si ceda mai. La prima cosa che dobbiamo fare è allora dire che la strage di civili che è in corso in Libia è vergognosa. Dobbiamo esprimere una solidarietà non formale, forte al popolo libico, e farlo in tutte le sedi internazionali cui l’Italia partecipa. Condivido l’angoscia che trapela delle parole del ministro Frattini. È certamente una situazione drammatica quella che si è venuta a creare: il mix tra l’aumento dei prezzi dei generi alimentari e la portata straordinaria di Internet hanno generato la rivolta di un popolo oppresso per più di quarant’anni. Molti si chiedono: dietro ciò che sta accadendo vi è l’islamismo radicale? Non possiamo dirlo con certezza. Che nelle proteste siano impegnati settori di islamismo radicale, è senz’altro vero. Ma è tutto da dimostrare che la rivolta debba necessariamente condurre ad un esito del genere che, certamente, sarebbe molto preoccupante.

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Il ministro Frattini ha ricordato che tutti i governi italiani, dalla Democrazia Cristiana ad oggi, hanno operato per la normalizzazione dei rapporti bilaterali con la Libia e, in questo senso, ha rivendicato la continuità della politica estera italiana. Ha ragione. Non poteva che essere così: tutti hanno fatto il proprio dovere, perché l’Italia non poteva permettersi di non “normalizzare”un rapporto così delicato come quello con la Libia. Devo dire però, che mi è piaciuta di più la seconda considerazione che ha fatto Frattini, quando ha detto: «Ci siamo divisi sul Trattato, oggi dobbiamo gestire insieme l’emergenza». Vorrei soffermarmi su questo aspetto, perché in Parlamento abbiamo un dovere di verità e non possiamo, in un momento di emergenza,“annacquare” la nostra visione dei problemi. Io accetto l’impostazione che ha dato Frattini e insieme rivendico il fatto che l’Unione di Centro abbia votato contro un Trattato di amicizia che prefigurava un giudizio di eccessiva accondiscendenza verso la politica di Gheddafi da

parte del nostro Paese. Mi fa piacere che il Partito Democratico vada oggi in piazza a manifestare, ma hanno votato con la maggioranza questo Trattato di amicizia. Adesso anche loro avvertono che, forse, le cose potevano andare diversamente: mi dispiace, ma vorrei dire che qualcuno lo aveva capito prima. Non c’era davvero bisogno del baciamano da parte di Berlusconi a Gheddafi che ci ha ridicolizzato su tutte le televisioni del mondo: ci voleva e ci vuole più sobrietà. Gli abbiamo dedicato persino la sfilata dei carabinieri: dimostrando, anche nella forma, la nostra accondiscendenza al dittatore. Ma, in politica, la forma è sostanza.

Rivendico un’idea diversa del nostro rapporto con la Libia e ringrazio Frattini che ha citato la mia modesta persona ricordando: «Proprio Casini, che era contrario a questo trattato, ha detto che bisogna condividere ora la gestione dei fatti». D’accordo, rimetto la firma sull’idea che maggioranza e opposizione non devono prendere lo spunto dalla questione libica per sconper trarsi l’ennesima volta sul problema di Berlusconi. Quello della Libia di oggi è un problema ben più importante di Berlusconi e del suo governo. Qui rischiamo veramente - in termini di approvvigionamenti energetici e di immigrazione clandestina - di importare una catastrofe. Chi se ne importa, dunque, di Berlusconi: è molto meno importante lui di quello che rischia di essere l’evento che si materializzerà da qui a poco tempo. Infine, il ministro Frattini ha utilizzato giustamente la sede del Parlamento per mandare un messaggio, nemmeno troppo cifrato, alle autorità dell’Unione europea. Ha fatto bene, però vorrei dare un suggerimento. Se esiste l’Europa, ma soprattutto se noi esistiamo in Europa, il presidente del Consiglio prenda il cappello e l’aereo e vada dalla Merkel, da Sarkozy e da Cameron a pretendere quello di cui ha bisogno l’Italia. Non possiamo essere lasciati soli ma non basta dirlo: se abbiamo ancora un peso nella politica europea, oggi è il momento dimostrarlo.

La storia italiana mostra una continuità su Tripoli. Ma Berlusconi esagera con i baciamano al raìs

da armi pesanti. Confortano invece le note sull’agenda del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ieri sera è giunto a Berlino. Si parlerà di Libia con i vertici dello Stato tedesco. Tedeschi che ormai da tempo hanno preso coscienza di quanto sia utile la proiezione esterna ai propri confini della sicurezza di uno Stato. Mentre il premier Berlusconi ha espresso ancora «preoccupazione per il pericolo fondamentalista», l’unica azione concreta contro il regime libico, ieri, sembra essere stata quella dello Stato libanese che ha respinto la nuora del colonnello che voleva atterrare a Beirut.

Dal fronte emergenza energetica il ministro dell’Industria, Paolo Romani, ha tranquillizzato: l’Italia aumenterà la capacità di pompaggio dei gasdotti del Nord Europa per compensare il blocco delle forniture dalla Libia, quindi non avrà bisogno di intaccare le riserve strategiche di gas. A guardare ciò che è successo fino all’altroieri l’Europa ha saputo produrre solo comunicati anche se con Frontex, agenzia che sorveglia le frontiere esterne della Ue, si sta muovendo. Ma, è il caso di dirlo, è una goccia nel mare. L’Italia è quella più coinvolta economicamente e sul fronte emergenza immigrazione, ma è legata alla diplomazia berlusconiana che ci metterà in seria difficoltà nel dopo-Gheddafi. Sul destino Trattato d’amicizia Italolibico, che chiuse il lungo contenzioso sulle riparazioni del periodo coloniale, si vedrà. La Francia è quella che aspetta da 40 anni una rivincita in Libia, l’Inghilterra, ormai l’ombra di quella che fu, si era ormai acconciata a fare solo affari col dittatore di Tripoli. Stranamente da Gerusalemme non si ode nulla, eppure per Israele il colonnello è stato un “utile idiota”. Ogni volta che alzava la voce, con le sue sparate contro lo Stato ebraico, l’assegno da 2,3 miliardi di dollari del Foreign militare financing program veniva velocemente firmato dal Congresso americano. Washington dalla fine della guerra fredda aveva spostato il dossier libico sotto il tavolo e l’interesse era diventato di tipo indiretto: come stabilizzare un


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gli orrori

Al Arabiya: «I morti sono già diecimila» La tv lancia l’allarme. E un ex di Guantanamo avrebbe fondato un “emirato” in Cirenaica di Luisa Arezzo iecimila morti e oltre cinquantamila feriti. Potrebbe essere questa la spaventosa conta delle vittime dovuta ai bombardamenti ordinati da Muammar Gheddafi. Che il numero dei morti fosse destinato a salire si era capito fin da subito, ma a causa del black out di informazioni dalla Libia la speranza che i caccia non avessero sganciato a mano libera c’era ancora. Poi le prime crepe: Gerard Buffet, un medico francese appena rimpatriato, ha parlato di almeno duemila cadaveri solo a Bengasi. E poche ore dopo il componente libico della Corte Penale Internazionale, Sayed al Shanuka, ha detto ai giornalisti di Al Arabya che il massacro ha raggiunto quota diecimila. «Il popolo libico, come la maggior parte dei popoli arabi, ha sofferto, ma gli è stata data l’opportunità di ribellarsi (...). Ma in questi regimi dittatoriali il popolo non può manifestare». Poi l’affondo: «da quando Gheddafi è arrivato al potere ha assassinato migliaia di persone e anche migliaia di persone nelle stesse carceri». Il pugno di ferro usato dal regime esplode anche sugli schermi, grazie ad un video amatoriale girato martedì a Tripoli e diffuso da Onedayonearth.org. La scena è orribile: decine e decine di fosse scavate, allineate, alcune già coperte con del cemento.

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Un immenso cimitero sulla spiaggia antistante il lungomare della capitale libica, con tanti uomini intenti a scavare e ricoprire. Il massacro ha finalmente e tristemente un’immagine. Ma il dittatore non ha gradito questa fuga di notizie e per bocca del suo ministro degli Esteri, Khaled Kahim, ha Paese da cui dipendeva energeticamente l’Italia, in parte minore l’Europa e in cui operavano le maggiori compagnie petrolifere Usa. I nomi di queste società sono ConocoPhilips con interessi nei pozzi di Waha; Marathon oil company che sfrutta una concessione off shore nel Golfo della Sirte; la Hess corp che trivella sia in mare che nel deserto e la Occidental petroleum. Il petrolio libico per queste compagnie rappresenta una media che va dal 16 al 23 per cento del loro business globale. C’è dunque la possibilità di un ricatto energetico? Bruxelles ci tranquillizza. Non ci sono le condizioni perché la Libia possa esercitare un «ricatto» economico sull’Europa, chiudendo i rubinetti del gas: è quanto ha concluso la Commissione europea durante

fatto sapere che i giornalisti stranieri entrati nel Paese dalle frontiere egiziane e tunisine saranno considerati fuorilegge, collaboratori di al Qaeda e arrestati, «a meno che non si arrendano alle autorità». Ma per un ministro ancora fedele ce ne è un altro pronto a versare tutto il suo odio contro il Colonnello. Ironia della storia, è quello della Giustizia, Mustafa Abdel Jalil. Che oltre a denunciare un fallito attentato al raiss nei giorni scorsi, si è tolto un pesante “sassolino” dalla

Due piloti si rifiutano di bombardare e fanno precipitare un caccia. Due navi disertano e gettano le armi in mare scarpa: Muammar Gheddafi avrebbe ordinato di persona l’attentato di Lockerbie, costato la vita nel 1988 a 270 persone. «Ho le prove che fu lui ad impartire l’ordine» ha spiegato il ministro, o meglio, l’ex ministro, visto che ha rassegnato le sue dimissioni già lo scorso lunedì appena è stato chiaro che per il suo popolo non era prevista alcuna pietà. Due piloti invece l’hanno avuta, in quello che è già assurto a simbolo di questo aberrante massacro. Il capitano Attia Abdel Salem al Abdali e il suo vice Ali Omar Gaddafi si sono ammutinati: e dopo essersi rifiutati di eseguire l’ordine di sparare si sono lanciati con il paracadute dal Sukhoi-22 di fabbricazione russa. Meglio la rabbia dei rivoltosi che il peso di uccidere i propri fratelli. L’aereo, che era partito da Tripoli, è precipitato nei pressi della città di

la sua riunione di ieri mattina, a Bruxelles, in cui il presidente, José Manuel Barroso, l’Alto rappresentante per la Politica estera comune, Catherine Ashton, e gli altri commissari hanno discusso della situazione in Libia e nel resto del Nordafrica. «Bisogna verificare, insomma, chi ha più interessi in gioco, quando si parla di sospensione delle forniture di gas libico verso l’Ue», ha osservato il portavoce dell’esecutivo Ue Oliver Bailly. Tanto per ricordarci che ognuno deve far per se in questa Europa. È pur vero che Gheddafi aveva dato anche qualche garanzia sul fronte della lotta alla penetrazione del fondamentalismo islamico in quella regione. Basterebbe ricordare la fine fatta fare al leader sciita libanese Musa al Sadr, scomparso du-

Ajdabiya, 160 chilometroi a sudovest di Bengasi. Non è il solo ammutinamento di cui si ha notizia. Anche gli equipaggi di due navi militari libiche si sono rifiutate di eseguire gli ordini. Ordini bestiali, visto che l’imput era quello di bombardare Bengasi dal mare. Gli ufficiali non ce l’hanno fatta, hanno disertato e ora si trovano al largo di Malta. Non prima però di aver gettato tutte le armi a mare. La piccola repubblica li ha accolti, a distanza ma accolti. Mentre ha invece negato l’atterraggio all’Atr 42 della compagnia di bandiera tripolina con 14 persone a bordo. Fra loro, secondo le fonti, c’era Aisha, la figlia di Gheddafi.

Il vuoto si allarga intorno al massacratore. Lunedì notte a respingere un atterraggio “imprevisto” era stato il Libano, dopo aver saputo che a bordo c’erano membri della famiglia del Colonnello. La rotta su Beirut indica che nessuno vuole accogliere il suo clan, visto che in Libano, Gheddafi è oggetto di un odio particolare specie da parte della comunità sciita, che lo accusa di essere responsabile della morte dell’imam libanese Moussa Sadr, scomparso durante una visita in Libia nel 1978. Sospetto che proprio ieri ha trovato conferma nelle parole del loquace ex ministro della Giustizia. Secondo le fonti di Al Jazeera e Al Arabya il regime avrebbe ormai perso completamente il controllo della parte orientale del Paese e c’è anche chi sostiene che a Derna, a 1250 chilometri da Tripoli, sia già stato creato un emirato qaedista sotto la guida di un ex prigioniero di Guantanamo. E intanto aumenta il pressing internazionale sul colonnello Muammar Gheddafi, perché si fac-

rante un viaggio in Libia nel 1978. Ma oggi con Obama alla Casa Bianca il vento è cambiato per tutti i son of a bitch della regione. Un po’ per convinzione e un po’ per necessità.

Le maggiori preoccupazione di Washington sono comunque dirette al Bahrein, dove c’è la base della 5ta flotta Usa, cioè uno dei capisaldi del potere americano: il controllo dei mari. La Libia dunque interessa più l’Europa mediterranea che l’Atlantico. Gheddafi è considerato dalla diplomazia Usa un «maestro di intrighi» che ha saputo mantenere il potere sulle tribù, manipolando chiunque gli stesse intorno. È ciò che emerge dai dispacci diffusi da Wikileaks, che si riferiscono ai calblo inviati dalla riapertura dell’amba-

cia da parte. Il ministro dell’Interno, Abdul Fattah Younis, considerato il numero due del regime, ha lasciato il colonnello per unirsi ai manifestanti anti-Gheddafi, ma è giallo sulla sua sorte. E mentre i governi di tutto il mondo continuano nella corsa a tirar fuori dal Paese i propri cittadini (la Commissione Ue ha fatto sapere che coordinerà l’evacuazione dei 10mila europei ancora in Libia), cresce la pressione internazionale - da Ban Ki-Moon alla Ue, su Gheddafi. L’ultimo paradosso? Contro di lui anche Ahmadinejad, «indignato» per la repressione «inimmaginabile» contro il popolo libico e che si chiede: «Come si può uccidere il proprio popolo?». Secca la risposta di Philip Crowley, portavoce di Hillary Clinton: «Dovrebbe porre la domanda a se stesso».

sciata americana a Tripoli due anni fa. Intanto gli Usa hanno noleggiato due traghetti maltesi per rimpatriare i propri cittadini che si trovano in Libia dal porto di As Shahab. A Bruxelles la Ashton parla, ma la diplomazia sotterranea sembra essere tornata quella degli Stati nazionali che usano l’Europa come scudo esterno per parare i colpi della globalizzazione, ma poi ragionano in proprio su tutto il resto. La Francia aveva lanciato l’inutile Unione euromediterranea, convinta di mettere nell’impresa la preziosissima politica della Rèpublique e dando per scontato che fosse Berlino a pagare i conti. Dai tempi di Suez (1956) Parigi ingoia il boccone amaro preparato dagli americani in Nord Africa e Medioriente: fine della poltica pseudocoloniale

per i vecchi Stati europei. Ieri il presidente francese Nicolas Sarkozy faceva sapere che avrebbe gradito che l’Europa «sospendesse i rapporti economici, commerciali e finanziari con la Libia in attesa di ulteriori notizie». E da Parigi viene escluso al momento alcun intervento militare. È forse il fronte turco quello che da più speranza per il dopo, non solo in Libia. Il premier Recep Tayyp Erdogan che aveva tuonato per chiedere le dimissioni di Mubarak, è cauto. Pensa la destino dei 25mila turchi ancora in Libia. Ma incassa dalla Tunisia. Rashid al-Gannushi il leader del maggior partito d’opposizione tunisina, Ennahda, ha infatti affermato di guardare alla Turchia come a un modello positivo da imitare per la Tunisia «post-rivoluzionaria».


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e qualcuno avesse ancora dei dubbi sul fatto che viviamo in un’epoca rivoluzionaria, gli eventi dei mesi scorsi dovrebbero aver fugato ogni perplessità. Dal Medioriente fino all’America del Nord e al Sudamerica il popolo sta chiedendo a gran voce cambiamenti radicali, e sta facendo tutto il possibile per cacciare i propri leader. Per alcuni il cambio di governo sarà sufficiente, altri, invece, insisteranno sulla strada della trasformazione rivoluzionaria. È proprio questa vasta insurrezione che rappresenta “l’evento”, quello che noi dobbiamo cercare di comprendere, ragionando non paese per paese o movimento per movimento. Sì, ho detto America del Nord. O voi pensate che il Tea Party sia qualcosa di

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Dal Medioriente fino all’America del Nord e al Sudamerica il popolo sta chiedendo a gran voce cambiamenti radicali cercando di cacciare i propri leader diverso? Basta chiedere a Nancy Pelosi: lei è stata recentemente edotta, giusto un poco, sulla disfatta dei leader, e sul potere dei movimenti di massa. Sebbene ci siano enormi differenze tra un regime e l’altro, e tra un’insurrezione e l’altra, il fatto che i regimi lottino per sopravvivere mentre i movimenti chiedano la loro sconfitta e la loro defenestrazione costituisce un singolo, coerente, fenomeno. Se le nostre università insegnassero veramente storia, e non ideologia politica del passato, molti più americani sarebbero in grado di comprendere meglio tutto ciò. Il

miglior punto di partenza, per questo, è la meravigliosa opera in due volumi di R.R. Palmer L’età della Rivoluzione Democratica, 1760-1800, scritto tra il 1950 e il 1960 (la prima edizione è del 1969), nel quale egli fa la cronaca dei movimenti che hanno combattuto i vecchi regimi praticamente in ogni paese moderno, dalla Francia agli Usa, dalla Polonia fino (sì!) alla Svizzera. Io dubito che i nostri politici lo abbiamo mai letto, ma la buona notizia è che, sembra, stia per andare in ristampa: bisogna rendere gloria alla Princeton University per questo. Palmer nota come i rivoluzionari democratici fossero in contatto tra di loro, imparassero ognuno della esperienze dell’altro, e pianificassero, di conseguenza, strategie e tattiche. Facevano tutto questo sia incontrandosi sia, molto più frequentemente, attraverso rapporti epistolari, qualche volta anche attraverso l’Oceano Atlantico (e senza i “social media”, che hanno avuto tanta parte negli eventi di questi mesi). I rivoluzionari condividevano anche un linguaggio comune, con parole come “libertà” e “democrazia”, e la maggior parte di loro guardava alla Rivoluzione Americana per quanto aveva insegnato nella lotta contro la Corona Britannica.

Anche le forze dei vecchi regimi, allo stesso modo, di fronte ad una insurrezione globale, condivisero le loro conoscenze e le loro opinioni su come contrastare la minaccia comune. Inevitabilmente, furono portati a pensare di essere oggetto di una vasta cospirazione: concetto vero nella realtà, ma non nel modo in cui loro pensavano. Ci fu certamente una cospirazione politico-intellettuale (come per esempio i Committees of Correspondence dell’America pre-rivoluzionaria) ma non fu, nella maggior parte dei casi, un movimento sovversivo sotterraneo così ben organizzato come le monarchie immaginavano. Oggi accade qualcosa di simile. Il regime iraniano è chiaramente convinto

È iniziata la rivolta globale Nel mondo sono molti i regimi che lottano per sopravvivere, incalzati da movimenti di massa. È un fenomeno trasversale, nuovo, unico e dirompente di Michael Ledeen


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che gli oppositori locali siano in realtà manovrati dall’esterno, da oscure forze democratiche a Washington, a Londra e a Gerusalemme, e voi potete essere sicuri che, ormai, gli spaventati tiranni da Damasco a Caracas (dove, per tre settimane giovani donne e giovani uomini hanno manifestato per la libertà di fronte agli uffici dell’Organizzazione degli Stati Americani) credono che siano proprio questi soggetti, bisbigliando in inglese o in ebraico, a orchestrare ogni cosa. Ovviamente non è così, anche se potrebbe esserlo.

I veri cospiratori, oggi come nel 18esimo secolo, sono tra i democratici all’interno dei regimi tirannici, oppure - com’è successo finora - nelle mani dei tiranni. I sauditi sono accorsi in aiuto di Mubarak, facendo pressione su Washington perché facesse lo stesso. Solo qualcosa di questo è stato raccontato, e non ci sono dubbi che sia molto di meno di quanto sia stato trasmesso attraverso canali classificati. Io non ho dubbi sul fatto che Iran, Siria e Turchia stiano coordinando una strategia comune e condividendo informazioni riservate, così come stanno facendo i membri del “network del terrore”. Essi hanno due obiettivi: preservare i regimi islamici, e sconfiggere i loro nemici utilizzando proprio l’arma delle insurrezioni contro di loro. La vasta insurrezione, in effetti, mira a spodestare i sovrani, ma non tutti i rivoluzionari stanno combattendo per la libertà. In verità molti di loro sono pronti per il martirio, per perorare la causa di tirannie ancora più terribili, camuffate nella gloria di un nuovo califfato. Le dimostrazioni in Bahrain e in Giordania, così come la virtuale guerra civile nello Yemen, sono appoggiate dall’intelligence della Repubblica Islami-

ca dell’Iran, e supportate dai killer di Hezbollah, le Guardie del Corpo della Rivoluzione, e dai loro mandanti.

E abbiamo già visto le rivendicazioni degli Islamisti Egiziani. Andy McCarthy (l’ex Procuratore Generale di New York, ndr) è giustamente allarmato. Al momento è difficile separare i democratici da coloro che vorrebbero essere i creatori del califfato, tranne che nel paese più importante - per la libertà delle popolazioni del Medio Oriente e per la sicurezza degli americani - che è l’Iran. Tutti gli esperti, in questioni governative o in comunicazione, sono concordi nel sostenere che l’opposizione in Iran è stata repressa, e ancora una volta screditata, come già accadde nel giugno del 2009, quando per la prima volta apparve nelle strade il Movimento Verde. Ancora più importante, poi, è il fatto che il regime, i cui leader hanno convinto se stessi di aver vinto, sia convinto anche di altro, motivo per cui i leader del Movimento Verdem Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi sono stati condannati agli arresti domiciliari e tagliati fuori - o “informati”, come hanno detto i due leader supremi del paese, Ali Khamenei e il presidente Ahmadinejad - dai contatti con il mondo intero e, soprattutto, con i loro seguaci e supporter. Io dubito, personalmente, che questo sia un dispositivo a tenuta ermetica: ci sono tantissimi traditori tra le forze di sicurezza e un ottimo giornalista, Con Coughlin, del London Telegraph, ha scritto che i comandanti delle Guardie della Rivoluzione hanno chiesto - per iscritto - ai loro superiori di non ordinare loro di sparare sui dimostranti. Nell’ambito di una spaccatura all’interno della gerarchia del governo della Repubblica Islamica circa il modo in cui ha gestito le proteste, la lettera è circolata ampiamente in tutte le fila delle Guardie Rivoluzionarie, il corpo responsabile della difesa del sistema

religioso. La lettera, di cui una copia era in mano del Daily Telegraph, è indirizzata al Generale Maggiore Mohammad Ali Jafari, l’ufficiale di comando delle guardie. Si appella a lui per affrontare la questione della guida sia delle guardie che della milizia paramilitare dei Basij affinché usi una mano più morbida e dignitosa nella gestione delle proteste. Ho confermato la storia con grande soddisfazione, e mentre la confermavo mi è stato detto che messaggi simili erano stati emessi anche dai comandanti Basij. Se è vero, allora il meccanismo del “pugno di ferro” contro il popolo iraniano potrebbe non continuare

Per alcuni il cambio di governo sarà sufficiente, altri, invece, insisteranno sulla strada della trasformazione radicale. Questa vasta insurrezione rappresenta “l’evento” a funzionare in futuro. La domanda potrebbe ricevere almeno una risposta parziale dalle nuove manifestazioni indette per i prossimi giorni.

L’opposizione iraniana ha un enorme sostegno interno, e sta ricevendo incoraggiamenti anche dai leader sciiti dell’Iraq. L’ayatollah Jamal al-DIn, un adepto del Grande Ayatollah Sistani di Najaf (discutibilmente la figura più stimata nel firmamento sciita), si è appellato al popolo iraniano affinché rovesci i suoi leader e ripristini la libertà nella loro terra madre. Le sue parole ricordano quelle di Mousavi e trasmettono una forte emozione: «Oh cari fratelli! Non vi è alcuna differenza fra un dittatore che indossa una corona, quello che indossa un turbante e un dittatore che indossa il tradizio-

Dall’alto in senso orario: proteste in Algeria; un’immagine simbolo degli scontri; manifestanti in Egitto; l’Onda Verde in Iran; l’ex presidente tunisino Ben Ali con la moglie; Mubarak, manifestanti in Turchia e Yemen; il raiss libico Gheddafi; scontri in Tunisia e popolo in piazza in Bahrein

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nale copricapo arabo. I dittatori sono gli stessi non importa quale sia il loro stile o la loro lingua. La libertà e la dignità sono le stesse per ogni popolo. E voi, Nobile Popolo dell’Iran, siete stati i primi in Medio Oriente a rivoltarvi contro la dittatura e la corruzione nel 1979. Oggi è il giorno per rivendicare la vostra dignità, la vostra libertà e i tesori del vostro ricco paese dalla morsa di quei ladri che vi hanno rubato religione e stato».

È inutile girarci sopra: questa è la voce dell’insurrezione democratica. Se dovesse prevalere, allora potrebbe ancora esserci una possibilità per una vera rivoluzione democratica su larga scala. Anche se il presidente americano, che si è unito ai manifestanti in sciopero sindacale del Wisconsin molto più velocemente che ai combattenti per la libertà iraniani, sembra incline a credere che il conflitto di classe sia la risposta adatta alla rivolta democratica americana dello scorso novembre. Nessuno sa come evolverà la storia. Mentre sto scrivendo arrivano i racconti del bagno di sangue in atto in Libia. Domani il sangue potrebbe scorrere in Iran. È solo una questione di tempo finché qualcuno nell’opposizione realizzerà di aver perso troppi amici e parenti per mano degli assassini del regime e vorrà vendicarsi. Inoltre, come ho sottolineato ripetutamente, molti oleodotti e raffinerie continuano ad “esplodere” in Iran (è alquanto improbabile che siano tutti incidenti), e sono sempre più frequenti gli incidenti di aerei che trasportano le guardie rivoluzionarie. Che cosa avreste fatto voi se aveste combattuto questo regime malato per gli ultimi due anni, sperando che l’occidente venisse ad aiutarvi, e vi foste ritrovati poi con un occidente che sta ancora cercando di fare accordi con i vostri oppressori? Si tratta di una domanda globale, non è vero?


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l’approfondimento

I ministri dell’Interno della Ue oggi cercano una impossibile mediazione sulle iniziative da prendere nei confronti di Gheddafi

I gasdotti della discordia

La Francia compra il gas solo dall’Algeria, la Spagna fa affari con il Marocco e l’Italia con la Libia. L’Europa non ha una politica estera unitaria perché è divisa sugli interessi. Ecco perché il vertice di Bruxelles di oggi rischia di fallire di Enrico Singer anti interessi comuni. Programmi di cooperazione economica e politica che passano, in molti casi, attraverso accordi di associazione con l’Unione europea, un volume di scambi commerciali enorme, fonti di approvvigionamento di materie prime e mercati per l’esportazione di beni, bacini di manodopera che ha fatto molto comodo allo sviluppo anche se adesso, con l’immigrazione clandestina, è diventata una mina innescata. Da quando i romani lo chiamavano Mare Nostrum – perché ne avevano conquistato tutte le sponde – fino ai tempi della spartizione coloniale e ancora oggi, i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo sono legati da un rapporto speciale. Che è viziato, però, anche da egoismi nazionali, da obiettivi contrastanti, dalla voglia di sfruttare a proprio favore relazioni privilegiate per conquistare punti nelle classifiche internazionali, per scavalcarsi a vicenda. In fondo, questa è la vera debolezza dell’Europa che si dichiara unita, ma che poi rivendica le distinzioni tra grandi e pic-

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coli, tra locomotive e vagoni di coda. E che, dietro le solenni dichiarazioni di solidarietà, si rimpalla i problemi reali.

La crisi libica – più ancora di quelle che l’hanno preceduta in Tunisia e in Egitto – con il suo impressionante corollario di massacri sta mettendo a nudo le divergenze di vedute e di comportamenti tra le capitali che si sentono più o meno coinvolte. Che nelle ultime ore hanno raggiunto punte imbarazzanti. Con Angela Merkel che ha chiesto sanzioni contro Gheddafi e Silvio Berlusconi che ha passato venti minuti al telefono con il raìs di Tripoli per chiarire che il nostro Paese non ha fornito armi per la rivolta, prima di condannare le stragi. Come è accaduto per la Francia nel caso della Tunisia, ora è l’Italia nell’occhio del ciclone perché centinaia di nostre aziende lavorano in Libia e proprio da lì arriva il 15 per cento del petrolio e il 12 per cento del gas che importiamo. Ognuno dei tre grandi Paesi del Nord del Mediterraneo – Italia, Francia e Spagna – ha i suoi

legami, di storia e di commerci, con la sponda meridionale che si può facilmente individuare anche attraverso i tracciati dei gasdotti e degli oleodotti che passano sotto il mare. Ce ne sono quattro in funzione e due progettati. Di quelli che pompano ogni giorno milioni di metri cubi di gas e milioni di barili di petrolio, due arrivano in Spagna, due in Italia. Nessuno collega direttamente la Francia che riceve minori quantità di idrocarburi dal Maghreb attraverso pipeline derivate in territorio europeo. Questa è la prima, capita-

Le pipelines sono tutte attive, tranne Galsi e Trans-Sahariana

le differenza che si ripercuote sull’atteggiamento politico di Parigi. La Francia ha puntato sul nucleare e basta guardare le statistiche della dipendenza energetica per vedere che importa soltanto il 51 per cento del suo fabbisogno, mentre l’Italia è il più grande importatore (con l’85

per cento) seguita dalla Spagna con l’82 per cento. La media dell’Europa a ventisette è del 55 per cento, con l’eccellenza di un Paese produttore come la Gran Bretagna (soltanto il 22 per cento d’importazioni) e la più che sostenibile quota del 62 per cento della Germania che acquista soprattutto dalla Russia e dai Paesi del Golfo.

Anche ieri il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, ha tranquillizzato sugli scenari futuri elencando riserve e possibili aumenti di forniture da fonti diverse, ma l’allarme rimane. Il nome del gasdotto che da Mellitah, in Libia, arriva a Gela è ormai diventato tristemente famoso: è il Greenstream, il più lungo mai realizzato nel Mediterraneo (520 chilometri), che attraversa il mare in punti dove la profondità dell’acqua supera anche i mille metri. La sua costruzione è cominciata dell’agosto del 2003 e funziona già da sei anni con una potenzialità di otto miliardi di metri cubi di gas l’anno. Ma ormai è fermo. L’altro parte dall’Algeria, dal grande giacimento di


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Nata nel 2002 era, nelle ambizioni del dittatore, un progetto da portare a compimento nel 2017

L’Unione africana tace (e Pechino lavora sottobanco)

Il vuoto di potere “aiuta” la Cina, pronta ad appoggiare qualsiasi regime pur di avere un accesso esclusivo alle risorse del Continente di Antonio Picasso i fronte ai regimi nordafricani che si sgretolano, le organizzazioni transnazionali sembrano accomunate dallo stesso atteggiamento di apatia. All’Onu, il Consiglio di sicurezza è desaparecido. L’Europa è vittima delle divisioni interne. A sua volta, l’Unione africana (Ua), assiste come la testimone passiva della fine di tre leader che ne hanno ispirato la nascita. Appena il 31 gennaio scorso, è scaduto il mandato di Muhammar Gheddafi in qualità di presidente dell’organizzazione. Da pochi giorni gli è succeduto il malawiano Bingu wa Mutharika. Nel frattempo, dal summit ordinario, che si tenuto tre settimane fa ad Addis Abeba, non è emersa una posizione che permetta di capire se l’Ua intenda adottare una linea comune per far fronte alle rivoluzioni scoppiate in tre dei suoi 52 Stati membri (il Marocco è escluso dalla community per la questione del Sahara occidentale). Come a Bruxelles e a New York, quindi, l’atteggiamento assunto è di esitazione. Da mettere subito in chiaro il fatto che l’Ua è una realtà giovane, fondata appena nel 2002 sulle ceneri dalla fallimentare Unione degli stati africani. Questo non facilita l’efficienza dell’organizzazione e tanto meno le permette di muoversi su scala internazionale come un soggetto unico. Inoltre, la caduta di Ben Alì e Mubarak incide relativamente poco sulle sorti del continente. Gli interessi arabo-islamici, mediorientali in senso allargato, ma soprattutto mediterranei ha sempre tenuto Egitto e Tunisia in posizioni quasi marginali rispetto all’Ua. Salvo le frizioni per lo sfruttamento delle risorse idriche del Nilo. Materia in cui Il Cairo svolge un ruolo precipuo. In Nord Africa è la Lega Araba il punto di riferimento.

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Del tutto differente è il discorso per Muhammar Gheddafi. Il colonnello, infatti, ha sempre dimostrato una particolare attenzione nei confronti dell’Africa. Al punto da voler sottolineare la posizione biunivoca della Libia, in qualità di Paese membro del Medioriente allargato e del quadrante africano stesso. Una prospettiva atipica che, però, ha permesso a Gheddafi di giocare su due nello tavoli stesso momento. Nel 2009, con l’entrata in possesso della leadership dell’organizzazione, il co-

lonnello aveva auspicato la nascita degli Stati Uniti d’Africa, con tanto di unità monetaria e di esercito comune. Progetto ambizioso per il quale aveva indicato nel 2017 la deadline per la realizzazione. Gheddafi aveva fatto, inoltre, esplicito riferimento alla necessità di creare un’identità africana estranea allo sfruttamento occidentale, libera dalle inimicizie tribali e da qualsiasi modello politico straniero. Democrazia inclusa. Un progetto di ampio respiro, per il quale la

Nel 2009, arrivando al comando dell’Ua il Colonnello aveva auspicato la nascita degli Stati Uniti d’Africa Libia si assurgeva come esempio di emancipazione politica ed economica da seguire. Attenzione: Tripoli non ha mai professato l’idea di un’Africa islamizzata. Bensì quella di un continente che vive una perenne fase di rivoluzione. Il regime si è quindi mosso su due canali. Da una parte quello economico, finanziando progetti di sviluppo dell’agricoltura,

dell’industria e delle infrastrutture. A oggi, Tripoli resta il maggior finanziatore dell’Ua. Con i suoi oltre 200 milioni di dollari versati annualmente nelle casse dell’organizzazione, la Libia contribuisce per il 15% alle sue iniziative. Operazioni militari comprese. Gli ottomila soldati africani impegnati in Somalia sono finanziati da dollari libici. Lo stesso dicasi per il contingente di ventimila unità dislocato in Darfur. Dal lato politico invece, Gheddafi ha cercato di proclamarsi come una sorta di erede di Nelson Mandela. L’amicizia fra il colonnello e l’eroe dell’apartheid è sempre stata oggetto di critiche da parte di Washington. Il colonnello, in effetti, ha sfruttato sapientemente la stima nutrita dal leader sudafricano, per ottenere il riconoscimento della leadership africana transnazionale. Tant’è che la Libia ha sempre vantato voce in capitolo nelle più aspre crisi del continente, cercando di farsi mediatore. In Sudan e nel Corno d’Africa oggi, in Ruanda nel 1992. In ogni caso, senza raggiungere successi effettivi.

Ora però il sogno di Gheddafi è svanito. Comunque vadano le cose in Libia rivoluzione o repressione - l’immagine del colonnello è irrimediabilmente compromessa. Detto questo, resta il dubbio se l’Ua abbia davvero perso il suo mentore. O se il colonnello si fosse auto convinto di aver in pugno l’organizzazione. Certo è che, adesso, quest’ultima è esposta ancora di più all’instabilità. Le crisi attualmente aperte non saranno agevolate nelle loro risoluzioni. Volendo fare un veloce pronostico, il primo leader africano esposto alla stessa sorte di Mubarak, Ben Alì e Gheddafi è il presidente sudanese Omar al-Bashir. Sia perché il governo di Karthoum risponde a tutte le caratteristiche di un regime simil-mediorientale, islamico e arabo, messe in discussione dalla rivoluzione dei gelsomini. Sia perché il suo peso politico, interno e di fronte alla comunità internazionale, è ancora più ridotto di quanto non fosse quello dei rais egiziano e tunisino, oppure di Gheddafi. Se Bashir cadesse, in pochi sarebbero a rimpiangerlo. Si pensi poi alla Somalia e all’annessa pirateria. La perdita del controllo di Suez, come forse anche di Aden in Yemen, non giova. Ma questo è un altro discorso. È infatti più probabile che a guadagnarci dai fatti libici, siano soggetti non africani che però in Africa sono ben consolidati. Come la Cina. Quale miglior occasione per Pechino, se non un vuoto di potere generalizzato, per arrivare presso i nuovi governi, oppure nella sede dell’Ua, e garantire, da oggi, il totale appoggio politico per qualsiasi regime, in cambio dell’accesso esclusivo ai mercati locali e alle risorse del continente?

Hassi R’mel, ma entra nel Mediterraneo dalla Tunisia, a El Haouaria, nella regione di Capo Bon, da dove raggiunge Mazara del Vallo dopo avere attraversato i 155 chilometri del Canale di Sicilia. È intitolato a Enrico Mattei anche se il suo nome originario è Trans Mediterranean e, in territorio italiano, arriva fino all’estremo Nord e serve anche la Slovenia. Dei due che riforniscono la Spagna, uno parte dall’Algeria – è il nuovissimo Medgaz – e l’altro, il Maghreb-Europe, parte dal Marocco e anche questi itinerari spiegano perché gli altri due grandi Paesi del Nord del Mediterraneo – Spagna e Francia – si sentano al riparo dagli effetti diretti della crisi libica sugli approvvigionamenti.

La geografia, poi, basta per capire perché l’altra possibile conseguenza devastante della guerra civile in Libia – la fuga di migliaia di profughi – sia prima di tutto un problema italiano. Le coste del nostro Paese – a parte Malta – sono le più vicine a quelle libiche. E, del resto, già i barconi degli immigrati clandestini di tutto il Maghreb partivano proprio dalla Libia in base alla volontà di Gheddafi che apriva e chiudeva i rubinetti dell’esodo a suo piacimento. Il mix tra rifornimenti energetici in pericolo e possibili masse di disperati in arrivo è davvero esplosivo. Dal resto dell’Europa – e dagli altri Paesi mediterranei prima di tutto – ci si dovrebbe aspettare comprensione e aiuto. Ma sarebbe ingenuo essere troppo ottimisti. L’inconfessata speranza che le difficoltà di uno potranno favorire gli altri nella competizione intereuropea, hanno già prevalso in passato e sono in agguato anche adesso. Questo significa che l’Italia deve essere in grado di muoversi con le idee chiare su due fronti: quello diretto dei suoi rapporti con la Libia in pieno marasma di fine regime e quello del gioco diplomatico europeo. Finora, sul primo come sul secondo fronte, hanno dominato le incertezze e i passi falsi. L’oggettiva interdipendenza economica con la Libia non deve essere l’alibi per una politica debole. Più gli interessi in gioco sono forti, più deve essere forte la strategia per salvaguardarli. Anche perché quanto sta accadendo dall’altra parte del Mediterraneo non si ferma soltanto a Tripoli e a Bengasi. Il “Grande Gioco” per il controllo delle risorse dell’Asia tra Russia e Inghilterra che Rudyard Kipling ha così bene descritto, nel 1901, nel suo Kim, ai giorni nostri si è spostato tra il Canale di Suez – dove le petroliere ogni giorno trasportano circa 1,8 milioni di barili – e le pipeline sottomarine. Quelle già realizzate e quelle che sono in progettazione. L’approdo finale della crisi dell’Egitto, che controlla il canale, e nel Maghreb dipende anche da quello che sapranno fare Europa e Italia.


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L’istituto fu sempre visto come una struttura assistenziale e sanitaria d’avang el nome del Signore l’anno della Sua nascita Mille settecento sessanta sei.. giorno di Sabato ventitré del mese di Agosto circa le ore tredici. L’inevitabile Tributo di morte a cui sono indistintamente soggetti tutti gli esseri viventi..». Con queste parole si apriva il testamento del principe Antonio Tolomeo Trivulzio, grazie al quale tutte le sue sostanze venivano lasciate per costruire un ospizio per poveri, che sarebbe sorto nel palazzo di famiglia in via della Signora a Milano, a due passi da piazza Duomo. Nel 1767 l’aristocratico meneghino morì. E un anno dopo, gli esecutori testamentari decisero di affidare al padre barnabita Ermenegildo Pini, scienziato e architetto, il compito di ristrutturare il palazzo e di adattarlo alle esigenze di ricovero per anziani bisognosi. Inizia così la storia del più famoso fra gli

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L’opera non sarebbe mai cresciuta senza due riformismi: prima quello degli austriaci e poi quello dei socialisti ispirato dalle idee di Kuliscioff e Turati istituti assistenziali milanesi. Comincia grazie a un gesto di generosità della locale aristocrazia - Antonio Tolomeo non era solo generoso ma anche molto colto - che voleva, per uscire definitivamente dal malgoverno spagnolo, dar luogo ad una nuova e più efficace politica assistenziale. Se da una parte fu il principe Trivulzio, con la sua donazione, a dare il via all’opera, dall’altra essa non sarebbe mai cresciuta in quantità e qualità senza l’aiuto di due riformismi: prima quello degli austriaci - all’epoca regnava Maria Teresa e poi quello dei socialisti ispirato dalle idee di Anna Kuliscioff e di Filippo Turati. Il Pio Albergo Trivulzio ha ormai nella sua storia grandezze e precipitose cadute. Basti ricordare che parte da lì e dal suo amministratore Mario Chiesa la “tangentopoli” del 1992. E rispunta da lì l’attuale affittopoli. Eppure l’istituto non è certo solo il re-

gno della corruzione, ma anche, e soprattutto, un gigantesco e qualificato luogo d’assistenza. Ora ha 66,7 milioni di euro di fatturato, 1600 dipendenti e 500 volontari, nonché oltre mille immobili di proprietà. E ospita migliaia di vecchietti: a Milano il suo nome viene utilizzato come sinonimo di vecchiaia non ricca, ma serena e assistita. Quando una persona di una certa età comincia a non essere più al 100 per cento delle forze, lo s’invita ad andare a riposarsi alla “Baggina”. Ma torniamo alla storia e agli artefici dell’ospizio più grande, ricco e chiacchierato d’Italia.

Nacque dunque quando Milano era austriaca e fu figlio del riformismo di Maria Teresa. L’imperatrice infatti volle centralizzare l’assistenza e in particolare la sanità, rendendola più laica, meno soggetta al potere nobiliare e a quello clericale. Creò infatti un’apposita giunta amministrativa che aveva poteri di controllo sul funzionamento e sovrintendeva anche alla beneficenza. Prima degli austriaci, durante la dominazione spagnola, il rapporto con i poveri, i vagabondi, i mendicanti si esprimeva solo con la repressione: un potere occhiuto e ottuso, incapace di una qualche generosità. La netta sterzata avvenne a partire dal 1765 in nome di principi solidaristico-egualitari, figli dell’Illuminismo. Naturalmente nel disegno dell’imperatrice Maria Teresa e del suo successore Giuseppe II c’era anche la difesa degli interessi di Vienna: rappresentata dalla volontà di espropriare gli aristocratici locali del loro potere, per prendere tutte le decisioni nella capitale. La monarchia austriaca gestiva poi i territori italiani attraverso la sua burocrazia “riformata” ed efficiente. Tutti questi imput di modernità transitarono per il Pio Albergo Trivulzio: ne venne fuori un’organizzazione perfetta, ben gestita, senza sprechi, e con un personale decisamente all’altezza. Ma in questa struttura oltre ad una buona assistenza, si sperimentava anche e proficuamente una “nuova medicina”, quella - per intenderci - che si consolidò nelle ricerche dell’Università di Pavia nel periodo a cavallo fra la dominazione austriaca e quella napoleonia. Secondo le nuove “rivoluzionarie”acquisizioni, non ci si doveva limitare soltanto a curare i malati, ma accorreva “illuminare” tutti i cittadini verso l’applicazione di nuovi modelli di vita. Si trattava di un radicale mutamento dell’atteggiamento verso l’igiene personale e colletiva. Una serie di nuove discipline dalla sociologia alla statistica - divennero ausiliare della Medicina. Le malattie, soprattutto quelle epidemiche, non erano più considerate - come accadeva un tempo - gravissimi e inspiegabili accidenti che capitava-

Povera Ma di Gabriella Mecucci

Nascita, ascesa e (rovinoso) declino del Pio Albergo Trivulzio, dall’imperatrice d’Austria a Filippo Turati. Fino a Pisapia

no agli sfortunati, ma diventavano figlie della cattiva nutrizione, dell’insalubrità dell’aria, dell’eccesso di fatiche imposte ai lavoratori. I nosocomi venivano perciò progettati tenendo conto anche di queste necessità: non esaurivano il loro ruolo solo con la cura in senso stretto, ma dovevano reinserire nella società un uomo in salute, che non avrebbe dovuto riammalarsi con facilità. Il Pio Albergo Trivulzio fu il ricettacolo di queste nuove idee e diventò così una struttura assistenziale e sanitaria d’avanguardia. L’epoca napoleonica lasciò immutate queste caratteristiche, ma vi aggiunse un controllo severo affinché l’accettazione delle domande per poter entrare nell’istituto avvenisse nel modo più imparziale possibile, e con una particolare atten-

zione alle difficoltà economiche dei richiedenti. Insomma, oltre che alla qualità scientifica e assistenziale, si dava una grande rilevanza anche ai problemi di natura sociale. Milano e la Lombardia - a seguito, prima dell’intervento austriaco e, poi, di quello francese - diventarono dunque luoghi dove malati e anziani avevano una vita migliore rispetto ad altre zone dell’Italia. A queste importanti novità, si accompagnava una notevole vivacità culturale ed economica. Insomma, si formarono allora - prima dello stesso Stato unitario - quelle qualità che faranno definire il capoluogo meneghino “capitale morale”: si trattava in particolare dell’efficienza e dello spirito solidale. Caratteristiche queste che trovavano nel Pio Albergo Trivulzio un luogo di


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guardia. Oggi è finito sotto i riflettori a causa del cosiddetto caso “Affittopoli”

aria Teresa! A sinistra, un libriccino di Andrea Costa sul socialismo e, in basso, Filippo Turati. A fianco, una foto di Milano nell’Ottocento. A destra, Maria Teresa d’Austria e, sotto, uno scatto di Mario Chiesa e della sua valigetta

elezione. Dal riformismo austriaco, si passò allo Stato unitario: a Milano la grande borghesia mantenne una forte spinta solidaristica: valga per tutti il nome di Alessandrina Ravizza, femminista e filantropa. E poi arrivò la grande ventata del riformismo socialista con Turati e Kuliscioff.

Le due robuste correnti s’incontrarono, si mescolarono, dando luogo ad un’idea di cambiamento gradualistica. Anna Kuliscioff scriveva ad Engels: «È giusto caro maestro accettare la legalità capitalistica?». La risposta che applicherà in tutto il suo operato è inequivocabile: «Ogni legge in favore degli operai, ogni singola azione è una particella rivoluzionaria che si aggiunge alla massa.

Verrà un giorno in cui i fiocchi di neve si trasformeranno in valanga». Questa è la temperie culturale in cui si formeranno i sindaci socialisti di Milano. E, quando prenderanno in mano l’amministrazione agli inizi del ’900, governeranno ispirandosi a tali principi politici. Grazie alla grande eredità che il commerciante ebreo Moisè Loria lascerà al Comunbe, nascerà “Umanitaria”. Il suo scopo - recitava lo Statuto - era quello di «mettere i diseredati, senza distinzione, in condizione di elevarsi da sé medesimi, procurando loro lavoro, appoggio, istruzione». È una grande impresa nella quale la Kuliscioff si impegnerà direttamente. Ma il dibattito sui temi della solidarietà e della municipalità da lei e da Turati condotto su Critica sociale sarà linfa vi-

tale anche per la conduzione del Pio Albergo Trivulzio. E una notevole rilevanza avranno in materia assistenziale anche le aperture al mondo cattolico dell’atea Anna, che rese onore con il suo scritti al vescovo della città, cardinal Andrea Ferrari. Sia come non sia, l’istituto crebbe a tal punto che, nel 1910, fu costretto a cambiare sede: non c’era più spazio infatti nel Palazzo nei pressi di Piazza Duomo e, soprattutto, c’era bisogno di trovare un luogo più arioso, con locali più moderni e adatti. Si decise dunque di costruire una nuova sede che verrà realizzata sulla strada che conduce a Baggio. Da allora il Pio Albergo Trivulzio abbandonerà il suo nome altisonante e verrà più semplicemente conosciuto come “Baggina”. L’intraprendenza amministrativa, ma anche la filantropia dei milanesi lo renderà sempre più grande e importante: numerosissime le donazioni che gli arriveranno nel tempo. Fra queste particolarmente generosa quella, nel 1968, del commendator Filippo Frisia, grazie alla quale verrà realizzata una nuova residenza. La storia del Pio Albergo Trivulzio rappresenta dunque un compendio di cose positive della storia di Milano. Ma quando la città abbandonò i suoi austeri costumi per diventare un luogo “da bere”, fu tra i primi a risentirne. E - incredibile a dirsi - fu proprio uno sciagurato erede del riformismo socialista, che tanto aveva fatto per far crescere quell’istituto, a farlo precipitare ai piani bassi della cronaca giudiziaria.

Mario Chiesa, infatti, venne arrestato in flagranza di reato, mentre cioè stava ricevendo una mazzetta di 7 milioni di lire: una parte di una tangente datagli da un’azienda che voleva prendersi l’appalto delle pulizie alla Baggina. Per la verità, visto con gli occhi di oggi, sembra un peccato veniale. Eppure, venne giù la valanga di Tangentopoli con tutti i suoi misfatti, ma anche con tutte le sue esagerazioni e distorsioni. Bettino Craxi bollò Chiesa con l’epiteto di «mariuolo isolato», ma non riuscì a bloccare la “grande slavina”che azzerò la Prima Repubblica. Da allora Baggina non è più sinonimo di buona am-

L’istituto ha nella sua storia grandezze e precipitose cadute. Basti ricordare che partì da lì e dal suo amministratore Chiesa la “tangentopoli” del ’92

ministrazione. Né, purtroppo, evoca più la storia gloriosa di una Milano “capitale morale”, dove prosperano gli affari, ma anche una borghesia filantropa e un socialismo moderno e solidarista. Adesso è spuntata pure affittopoli ed ecco che nuovo fango precipita sull’antico Albergo Trivulzio, nato da un generoso aristocratico e reso grande e forte dagli austriaci e dai napoleonici. Signori ricchi o comunque benestanti vivono nelle case destinate ai poveri. E per di più pagano pigioni troppo convenienti per non essere sospette. C’è di mezzo Carla Fracci, la compagna del candidato sindaco del centrosinistra Giuliano Pisapia, un parente di Montezemolo. Un brutto spettacolo. Chissà come commenterebbe Anna Kuliscioff...


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politica

Neanche Tremonti riesce a trovare un accordo. E così cominciano trattative serrate per decidere che cosa salvare e cosa togliere dal testo uscito da Palazzo Madama

Pasticcio Milleproroghe Niente accordo con l’opposizione. Il governo pensa a un maxiemendamento: vuole la fiducia in Aula di Marco Palombi

ROMA. «Abbiamo spezzato le catene del centralismo». Di più, «un lavoro di portata storica». La Lega di Umberto Bossi (nelle parole, rispettivamente, del capogruppo in Senato Bricolo e del governatore piemontese Cota), in mancanza di fatti, ha deciso di sparare i mortaretti almeno a parole, supportata ovviamente dal premier («riforma chiave», spezzeremo le reni «del parassitismo e della rendita», parte «il risanamento dei bilanci» eccetera). Quel che è successo, nella realtà, è che il Senato ha approvato, come ampiamente previsto, la relazione del governo sul federalismo municipale che la maggioranza non è riuscita ad approvare nell’apposita Bicamerale. Tutto qui: si tratta del testo già criticato dall’universo mondo perché è confuso, assolutamente non federalista, pieno di nuove tasse e intimamente contraddittorio. Lo spettacolo, peraltro, per dirsi concluso ha bisogno anche dell’approvazione della Camera, il che dovrebbe avvenire il primo marzo con relativo spreco dell’aggettivo «storico». Checché ne dica il Carroccio, però, la giornata parlamentare di ieri ha trovato il suo segno a Montecitorio e non sui temi del federalismo, ma su più tradizionali spartiti berlusconiani: la confusione imbarazzante sul decreto Milleproroghe e il ritorno in auge della legge sul processo breve e di quella sul testamento biologico (da portare in aula rispettivamente il 28 e il 7 marzo).

Un ingorgo di “leggi-bandierina”, insomma, che nelle intenzioni del Cavaliere doveva dare il segno della ritrovata spinta propulsiva della maggioranza, ma che ha finito per sottolineare una volta di più l’assenza di una guida politica che trovi il modo, se non altro, di calmierare lo stato psicotico in cui si trova il presidente del Consiglio: la legge sul fine vita gli serve pensa - per riguadagnarsi la simpatia del Vaticano, il processo breve per infilarci la “prescrizione breve” che lo salverà da tre dei suoi quattro processi, il federalismo per tenere buona la Lega, il Milleproroghe a sistemare qualche clientela par-

Agli Stati Generali per Roma, il Cavaliere fa anche una battuta “galante” su Emma Marcegaglia

Solito show di Berlusconi: «Io, premier senza potere» di Andrea Ottieri

ROMA. Silvio Berlusconi - forse ringalluzzito dall’affievolimento del caso Ruby su giornali e tv necessariamente (e drammaticamente) concentrate sulla Libia - ricomincia la sua tournée di leader di governo e d’opposizione al tempo stesso. Ieri, il palcoscenico era offerto dagli Stati generali per Roma, pomposamente convocati dal traballante sindaco Alemanno. «Il nostro assetto istituzionale dà al governo solo il nome e l’immagine del potere. Ma chi occupa la Presidenza del Consiglio non ha alcun potere» ha esordito il premier riproponendo un copione consumato. «Da imprenditore sì che avevo dei poteri: potevo assumere, licenziare, anche se non ho mai licenziato nessuno», ha proseguito. «Quando leggo di alcuni ottimi editorialisti che

un focoso destriero purosangue, quando esce dal Parlamento è, se va bene, un ippopotamo». La colpa, va da sé, è dell’oppsizione: «Se noi non facciamo le riforme istituzionali, non c’è nessuna speranza, anche con l’opposizione con cui ci troviamo ad operare. Perché sono sordi a ogni possibilità di collaborazione». Ed ecco perché il premier sogno «di poter disporre, come paese, di una opposizione socialdemocratica». Anche sul federalismo, il Cavaliere ha avuto parole definitive: «È una riforma chiave per il nostro sistema, siamo a una svolta storica e a parere di tutti questa è una opportunità fondamentale per l’Italia». Affermazione quanto meno ardita dopo le critiche e i dubbi espressi un po’da tutti sul federalismo in stile Calderoli (dal Vaticano alla Corte dei Conti, tanto per citare le più recenti). Purtuttavia, Berlusconi ha illustrato a beneficio di Alemanno il suo progetto: «Adesso la Capitale potrà avere una governance al passo con i tempi, ed entrare nell’Olimpo delle grandi capitali europee. Il Comune diventa uno speciale ente territoriale con un’autonomia statutaria e un proprio patrimonio».

Poi Berlusconi ha toccato tutto il resto degli argomenti, dalla crisi economica, alla crisi libica. Ma prima ha salutato la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia appena entrata nella sala. «Vi prego di tributare un applauso alla mia presidente di Confindustria. È quella che in milanese si definisce una “bella tusa” (bella ragazza o ragazza tosta, ndr)...», ha aggiunto. Per poi passare a raccontare la crisi economica, naturalmente lodando la capacità del suo governo di lasciare l’Italia al riparo. «Ora possiamo dire che ci sono delle solide basi per la ripresa delle imprese e la crescita economica. È perché il nostro governo è stato il primo a intervenire». Non una parola, naturalmente, sul record tutto italiano della disoccupazione giovanile. Poi la frecciata in favore delle aziende: «Noi auspichiamo di poter approvare un nuovo codice di norme fiscali per mettere fine a tutta quella selva di norme che creano dei problemi anche alle aziende». Nel complesso, un Berlusconi su di giri come non capitava da tempo. Colpa o merito del caso Ruby?

«Il nostro decreto era una destriero, il Parlamento l’ha trasformato in un ippopotamo»: e così rilancia l’idea della modifica della Carta ci rimproverano di non aver fatto le riforme - ha detto il premier - mi viene una gran voglia di raccontare il perché. Il nostro governo come tutti i governi precedenti è dentro quell’assetto istituzionale che i nostri padri costituenti giustamente pensosi sul non rendere possibile un regime dittatoriale, spartirono il potere fra il Presidente della Repubblica, il Parlamento e la Corte costituzionale. Al Governo rimane soltanto il nome e la figura, l’immagine del potere».

Naturalmente, in questo contesto Berlusconi non poteva evitare di parlare del decreto Milleproroghe. E anche in questa circostanza non ha avuto mezze misure, al solito parlando di sé in terza persona: «Quello che il presidente del Consiglio e il Governo avevano concepito come

lamentare sparsa. Intanto fuori gorgoglia, inascoltato, quel che resta del Paese. Il decreto in scadenza domenica, in particolare, è divenuto in questi giorni una sorta di plastica rappresentazione del momento di confusione dell’esecutivo e del suo braccio armato parlamentare. Abbandonato in commissione al Senato per quasi 40 giorni (il Parlamento ne ha solo sessanta di tempo per approvarlo), il Milleproroghe è stato poi riempito di nefandezze al limite del potabile ad opera di partiti, lobbies e singoli parlamentari non solo di maggioranza. In questo modo è uscito dalle commissioni di palazzo Madama con mole quadruplicata rispetto all’esile decretino licenziato dal governo, con contenuti eterogenei (e dunque estranei alla materia, cioè inaccettabil i) e qualche volta decisamente criminogeni: «Quello che avevamo concepito come un focoso destriero purosangue, quando esce dal Parlamento è, se va bene, un ippopotamo», ha spiegato il premier. Tralasciando il fatto che un decreto di proroghe amministrative difficilmente può essere un purosangue, e pure il fatto che il governo ha dato il suo parere favorevole a tutte le modifiche incriminate, il nostro non avrebbe fatto neanche un plissé se non fosse intervenuto il presidente della Repubblica. Di più: Silvio Berlusconi, invece di scusarsi per aver forzato la Costituzione, è tornato a criticare i lacci e lacciuoli che gli impone la Carta («i decreti devono avere un consenso totale: ci vuole sempre l’accordo del capo dello Stato», s’è lamentato). Il governo dunque, e in par-


politica

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Il capogruppo centrista alla commissione Bilancio commenta il testo

«Stop a giochi e leggine, la Camera è stata svilita»

L’Udc Amedeo Ciccanti attacca il decreto: «Norme immotivate, un capolavoro di aberrazioni giuridiche» di Francesco Lo Dico

ticolare Giulio Tremonti (ieri non a caso ricevuto al Quirinale), hanno dovuto trovare una via d’uscita. Il ministro dell’Economia l’ha annunciata ieri mattina alla Camera: noi sfrondiamo un po’ delle cose più fastidiose e voi fate in modo che il decreto passi senza patemi. Il no che si è visto opporre l’ha talmente sorpreso che per buona parte della giornata a palazzo Chigi non sapevano cosa fare: è tanto vero che alle 17, nell’aula di Montecitorio, il Pdl

nistro. Una lista delle cosette sacrificabili l’ha fatta Tremonti: il congelamento delle graduatorie dei precari della scuola col vincolo della provincia voluto dalla Lega (e nonostante una sentenza della Consulta avesse già bocciato il principio), una roba lunare sull’organizzazione dei corsi da bagnino che sembrava un favore a un deputato del Pdl, l’aumento dei consiglieri e degli assessori per Roma (e pure per Milano), il blocco delle demolizioni in

Nella nuova legge rimarrà comunque la sospensione delle multe per le quote latte chiesta a gran voce dalla Lega. E intanto i senatori approvano il federalismo bocciato dalla Bicamerale non sapeva ancora se sarebbe arrivato un maxiemendamento del governo o se bisognava andare avanti col testo com’era. Mentre andiamo in stampa, pare si sia affermata la prima via: il governo rimette le mani sul dl e poi metta la fiducia sia alla Camera che al Senato.

Quel che resta da capire, a questo punto, è cosa rimarrà nel decreto e cosa invece finirà nel secchio della spazzatura: le trattative sono serratissime. Il gruppo dei Reponsabili, per dire, ha trovato voce per la prima volta per criticare una norma che consente alle banche di non restituire gli interessi sugli interessi ingiustamente imputati ai clienti (il cosiddetto anatocismo): «Così non lo votiamo», ha scandito Saverio Romano, secondo i maligni parecchio irritato perché Berlusconi non si decide a nominarlo mi-

Campania, la proroga di alcuni contratti a Catania e una normetta sugli incroci proprietari tra tv e giornali che pareva fatta apposta per tenere fuori dalla carta stampata, anche in futuro, Sky e Telecom. Dovrebbero però restare nel testo – citando fior da fiore - la dilazione delle multe per gli “splafonatori”delle quote latte, la sanatoria per i partiti sanzionati per manifesti elettorali abusivi, l’obbligo per le regioni colpite da calamità naturale di aumentare le tasse, il balzello da un euro sul biglietto del cinema e i soldi per le alluvioni in Veneto e Liguria “distratti”da un fondo per il dissesto idrogeologico del Mezzogiorno. Intanto, dalla prossima settimana, si tornerà a parlare del processo breve: «Voglio proprio vedere cosa fa la Lega», s’è chiesto Bersani. La risposta è semplice e l’ha già annunciata Bossi: lo vota.

ROMA. «In dieci anni di esperienza parlamentare non si erai mai vista una maggioranza che si mettesse all’opposizione di se stessa non consentendo all’opposizione di deliberare. Come da copione ormai consueto, il Pdl e la Lega non si peritano di svilire le istituzioni pur di giungere ai propri obiettivi, e senza alcuna remora nei confronti di un Paese travolto dalla crisi che chiede risposte concrete, piuttosto che leggine che sembrano tagliate su misura di piccoli e grandi interessi. Buona parte delle norme incriminate, sia quelle additate dal capo dello Stato sia altre che non possiedono certo i requisiti di urgenza e in alcuni casi sono dei veri monstrum giuridici, devono essere rispedite al mittente. E in ogni caso, la Camera ha il diritto e il dovere di esaminarle, emendarle e respingerle». Capogruppo udc alla commissione Bilancio della Camera, Amedeo Ciccanti ha vissuto in prima persona l’incredibile serie di spericolati eventi che hanno indotto uno spazientito Giorgio Napolitano a stoppare il governo lanciato in folle corsa verso l’approvazione di un decreto milleproroghe mai così ricco e pieno di sorprese» Onorevole, ci spiega che cosa è successo in commissione? È successo che alla Camera c’è una maggioranza aritmetica in Assemblea, ma nelle commissioni Bilancio e Affari costituzionali è stata messa in atto una incredibile procrastrinazione dei tempi affinché queste non potessero esprimere un voto nei tempi concordati. Non è difficile immaginare il perché. È stata una mossa scaltra, dal momento che i berluscones sarebbero andati in minoranza con 49 voti contro 48. Dal momento che l’assenza del Deputato degli autonomisti, Zeller, ha messo il centrodestra in minoranza nelle commissioni congiunte, si è assistito a una bella maratona oratoria che nemmeno nella Grecia di Demostene. Ho avuto il piacere di assistere a uno spettacolo singolare: la prima maggioranza che si fa ostruzionismo da sola. E a quanto apprendiamo, certe isingolarità sono presenti anche nel milleproroghe. Qualche esempio? Pensiamo alla sospensione per tutto il 2011 dell’obbligo penale di abbattere case abusive in Campania, oppure al regalo fatto ai comuni sopra il milione di abitanti ai quali viene cancellato il taglio di consiglieri comunali, e ancora alla proroga dei termini di pagamento per le quote latte. Dov’è l’urgenza? Deve pur esserci, me lo insegna. Il fatto è che governo e maggioranza torchia-

no con una mano parte degli italiani, e con l’altra fanno sconti a un’altra parte. L’8 giugno del 2010 la Camera aveva già bocciato le disposizioni del decreto legge 62 che riguardava la demolizione di case disposte dalle autorità giudiziarie in alcuni comuni campani. Ma il governo dev’essere smemorato, perché ha riproposto la stessa norma nel milleproroghe: una aberrazione giuridica che fa gridare al capolavoro. D’altra parte ci sono però nel decreto norme bipartisan necessarie. Come si esce dal ginepraio? Il provvedimento aveva in origine un suo profilo di dignità che poi è stato inquinato al Senato con aggiunte della maggioranza assai discutibili. Tuttavia, l’idea di adottare norme interpretative post hoc non mi sembra percorri-

«Il provvedimento aveva in origine un suo profilo di dignità che poi è stato inquinato al Senato con aggiunte della maggioranza assai discutibili. Il Parlamento deve ripristinare il rigore» bile, perché la pezza sarebbe peggiore del buco. Abrogare con un ulteriore decreto legge ciò che intanto viene sancito è una soluzione poco convincente. Che cosa fare, quindi? Le pare possibile violare ad esempio l’articolo 81 della Costituzione, rinviando i finanziamenti ai comuni sulla base delle emanande leggi sul federalismo fiscale, e cioè varando una copertura finanziaria sulla base di leggi che ancora non esistono? La Camera ha il dovere di intervenire e sanare il sanabile. È il momento di scoprire le carte. L’orientamento è quello di ripristinare il rigore. A mio parere è necessario espungere tutte quelle norme che non riguardano strettamente la crescita e lo sviluppo del Paese, e che non sono aderenti al titolo che le rappresenta. A partire dalle quote latte.


diario

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L’inflazione sale ancora, +2,1%

Processo Fininvest, chiesti tre anni

ROMA. Inflazione in aumento a gennaio. Lo dice la nota diffusa dall’Istat secondo cui «nel mese di gennaio, l’indice Nic, comprensivo dei tabacchi, registra un aumento dello 0,4% rispetto al mese di dicembre 2010 e del 2,1% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente (era +1,9% a dicembre 2010). La stima definitiva conferma quella provvisoria». Secondo l’Istituto, quindi, «l’inflazione acquisita per il 2011 è pari all’1,2%». L’inflazione di fondo, calcolata al netto dei beni energetici e degli alimentari freschi, «è pari all’1,4%, invariata rispetto a quella calcolata a dicembre». Sul piano tendenziale «la variazione dei prezzi dei beni sale al 2,5% (dal +2,1% di dicembre 2010).

MILANO. Il pg di Milano Laura Bertolè Viale ha chiesto la condanna a tre anni di carcere per Massimo Maria Berruti, deputato del Pdl ed ex consulente Fininvest, accusato di riciclaggio in relazione alla gestione dei presunti fondi neri dei diritti tv di Mediaset. Si tratta del processo d’appello bis dopo che la Cassazione ha rispedito gli atti a Milano. Il procuratore generale ha ricostruito i fatti contestati a Berruti e ha sottolineato che «non sussistono i motivi per le attenuanti generiche» perché Berruti «dimostra una preoccupante inclinazione a delinquere» tanto maggiore, secondo l’opinione dell’accusa, per «il suo ruolo politico e per il suo passato nella guardia di finanza».

Il Papa visita le Fosse Ardeatine ROMA. Benedetto XVI visiterà domenica 27 marzo il Sacrario delle Fosse Ardeatine. «Accogliendo l’invito dell’Associazione Nazionale tra le Famiglie italiane dei Martiri caduti per la libertà della Patria (Anfim) - si legge in un comunicato -, il Santo Padre si recherà in visita privata al Sacrario delle Fosse Ardeatine, nel 67/o anniversario dell’eccidio, domenica 27 marzo 2011, alle ore 10». Questa sarà la terza visita che un Pontefice compie sul luogo del massacro nazista del 24 marzo 1944, in cui furono uccisi 335 civili e militari italiani in rappresaglia per l’attentato del giorno prima in Via Rasella, dopo quelle di Paolo VI il 12 settembre 1965 e di Giovanni Paolo II il 21 marzo 1982, nel 38/o anniversario.

Dopo le defezioni degli ultimi giorni, nasce al Senato la “minoranza interna” dei futuristi. Che si unisce ai colleghi del Nuovo Polo

«Rimaniamo in Fli, nel solco di Todi» Giuseppe Valditara spiega la fedeltà al partito e a Gianfranco Fini di Franco Insardà

ROMA. La strada intrapresa a Todi continua. I sei senatori di Futuro e Libertà (Mario Baldassarri, Barbara Contini, Candido De Angelis, Egidio Digilio, Maria Ida Germontani e Giuseppe Valditara) sono al lavoro con i colleghi di Udc, Api e Mpa per costituire il gruppo del Nuovo Polo al Senato. Mario Baldassarri ha presentato un documento nel quale si conferma «la permanenza nel Fli, per costruire un’alternativa competitiva all’attuale centrodestra, e dando vita a un nuovo e più consistente gruppo parlamentare che faccia riferimento al Polo per l’Italia, rifiutando così qualunque ipotesi di ammucchiata a sinistra». La senatrice Germontani, alla fine di un colloquio alla Camera con Gianfranco Fini, lo ha detto chiaramente: «Dopo la riunione di ieri al Senato del nostro gruppo siamo sempre più convinti che si debba proseguire nel solco di quello che avevamo deciso a dicembre con il coordinamento dei gruppi tra Fli, Udc, Api ed Mpa». La Germontani ha riferito anche di un incontro con il presidente dei senatori dell’Udc, Gianpiero D’Alia: «Ci stiamo organizzando, dovremmo essere circa in 20, considerando i nostri senatori, quelli Udc, quelli Api e un senatore Mpa. Si chiamerà Nuovo Polo per l’Italia», il logo scelto alla convention dei terzopolisti di fine gennaio a Todi. Lo stesso segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa ha confermato: « Stiamo lavorando per cercare di costituire un gruppo unico al Senato».

Intanto la stessa Udc a Palazzo Madama allarga le proprie file con l’arrivo dal gruppo misto dell’ex Pd Maurizio Fistarol che passerà, quindi, nel gruppo Udc-Svp e Autonomie guidato da Gianpiero D’Alia, attualmente composto anche dei tre esponenti della Svp. Il gruppo includerà nella propria denominazione “Verso Nord”, il nome del movimento politico che Fistarol rappresenta in Parlamento. Fistarol ha motivato la propria decisione con l’attenzione che “Verso Nord” rivolge al progetto di un

Nonostante gli ultimi terremoti, il sondaggista Mannheimer spiega che secondo le rilevazioni Futuro e Libertà si attesta intorno al 5-6 per cento: «Il gruppo gode di una percentuale nelle intenzioni di voto nettamente superiore a quanto molti osservatori si possano aspettare»

Nuovo Polo per l’Italia, auspicando la creazione in Senato di un gruppo parlamentare unitario tra tutte le forze che si richiamano al Terzo Polo. Ieri si è svolto anche un incontro tra i senatori Manfred Pinzger e Gianpiero D’Alia allo scopo, come informa una nota dell’ufficio stampa Svp, di «chiarire i rapporti personali e politici anche in ragione delle recenti polemiche che hanno avuto un eccessivo eco sui giornali. A conclusione dell’incontro i senatori hanno confermato i reciproci sentimenti di stima e di amicizia ed hanno definitivamente chiarito anche le questioni legate ai buoni rapporti con tutto il personale del gruppo e hanno inoltre concordato di tenere una riunione del gruppo

parlamentare nella prossima settimana». Con l’arrivo di Fistarol, eletto col Pd e passato al Misto lo scorso 13 dicembre, i senatori Udc diventano sette: D’Alia, Dorina Bianchi,Vincenzo Galioto, Claudio Gustavino, Achille Serra, Mirella Giai. Anche se si lavora alla composizione di un gruppo unico del Terzo polo il primo obiettivo dell’Udc al Senato resta comunque quello di raggiungere quota dieci per formare uno proprio. Per ora i centristi considerano nel computo i senatori a vita Emilio Colombo e Giulio Andreotti: con loro l’Udc toccherebbe quota nove senatori e ne mancherebbe soltanto uno per raggiungere il numero minimo necessario alla formazione di un gruppo. Uno dei

nomi su cui ci sarebbe una trattativa è l’ex Pdl Musso, passato al Misto lo scorso novembre.

Giuseppe Valditara spiega a liberal i motivi che hanno spinto lui e gli altri cinque senatori a continuare il percorso politico al fianco di Gianfranco Fini: «È molto semplice: non è cambiato il contesto. Continueremo sulla linea politica definita a Todi, ampiamente condivisa all’interno del partito. Non siamo usciti dal Pdl per questioni personali e per la mancanza di valorizzazioni, ma perché abbiamo ritenuto che con l’espulsione di Fini fosse impedito a chi rappresentava un certo tipo di destra di esprimere le sue proposte e di avere una voce all’in-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

In dieci anni è raddoppiata la spesa per la gestione dei rifiuti ROMA. La spesa per la gestione dei rifiuti tra il 1997 e il 2009 è quasi raddoppiata, crescendo del 95%, con un aumento della propria incidenza sul Pil dall’1,1% all’1,4%. I dati sono stati forniti dall’Istat: dal 1997 al 2009 la spesa nazionale per la gestione dei rifiuti, delle acque reflue e delle risorse idriche ammonta complessivamente a 34.730 milioni di euro, con una incidenza sul Pil del 2,3%. Nel periodo considerato, ha aggiunto l’Istat, la spesa nazionale a prezzi correnti aumenta in tutti e tre i settori analizzati, sia pure con diversa intensità. Oltre ai rifiuti, si segnala che la spesa per la gestione delle acque reflue aumenta del 44%, quella per la gestione delle risorse idriche del 52%, con un’incidenza sul Pil che rimane sostanzialmente stabile in entrambi i casi. In particolare, il 62% della spesa proviene dal servizio di gestione dei rifiuti (21.514 milioni di euro, equivalente all’1,4% del Pil), il 27% dal servizio di gestio-

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

ne delle risorse idriche (9.516 milioni e lo 0,6% del Pil) e il rimanente 11% dal servizio di gestione delle acque reflue (3.700 milioni, 0,2% del Pil). Per quanto riguarda il solo 2009, gli investimenti in questo settore rappresentano l’11% del totale della spesa nazionale. Quanto al valore della produzione, in Italia nel 2009 la produzione dei servizi ambientali in esame ammonta complessivamente a 30.380 milioni di euro, l’1,1% dell’intera economia.

Da sinistra gli esponenti di Fli Adolfo Urso, Giuseppe Valditara e Pasquale Viespoli

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato

terno di quel partito. Riteniamo, anche alla luce di quello che è successo in questi mesi, che ormai il berlusconismo, come dissi a Bastia Umbra, ha esaurito la sua spinta propulsiva e bisogna andare oltre Berlusconi. Una volta superato il berlusconismo auspichiamo che si possa costruire un grande partito di centrodestra che riunisca quelle esperienze liberaldemocratiche che sono ampiamente rappresentate nello stesso Pdl, ma che oggi come oggi non possono esprimersi».

Insomma Futuro e Libertà continua per la sua strada e anche se perde depuad come ha dichiarato tati, Affaritaliani.it il presidente dell’Ispo Renato Mannheimer, a livello elettorale non subisce contraccolpi. «Secondo il nostro ultimo sondaggio, - ha spiegato Fli si attesta tra il 5 e il 6% e cambia un po’ tutti i giorni a seconda delle varie notizie che i cittadini leggono sulla stampa. Gode di una percentuale nelle intenzioni di voto nettamente superiore a quanto molti osservatori si possano aspettare. Futuro e Libertà attrae una quota molto ampia di elettori potenziali, anche perché è una novità dello scenario politico. E tanti del Popolo della Libertà guardano ancora oggi con interesse a Fli». Insomma i motivi secondo i quali gli ex Fli che hanno abbandonato il partito per il pericolo di una deriva a sinistra sono, secondo il senatore Valditara, «strumentali, dal momento che

«Mi auguro che il futuro di Urso e Ronchi sia all’interno di Futuro e Libertà. Sarebbe un errore scegliere altre strade» l’assemblea costituente di Milano è andata nella direzione opposta. Mi sembra abbastanza curioso che si dica questo, quando invece si sa perfettamente che non è così: sia nell’intervento di Bocchino, sia soprattutto in quello conclusivo di Fini si è detto chiaramente che vogliamo essere alternativi al centrosinistra e non abbiamo nulla a che vedere con questa sinistra che ha una posizione conservatrice». I riflettori ora sono puntati sulla Camera e sulle decisioni di Andrea Ronchi e Adolfo Urso che potrebbe organizzare una riconosciuta area moderata dentro Fli, oppure tentare di organizzare,“la destra del Terzo polo”. E il capogruppo di Fli alla Camera, Benedetto Della Vedova, sarebbe pronto a fare un passo indietro per lasciare il posto ad Adolfo Urso: «È il momento della ”responsabilità”, non dei

”personalismi” - scrive in una lettera pubblicata su “Liberiamo”- di mettere a disposizione l`incarico di capogruppo alla Camera per cui sono stato indicato da Gianfranco Fini, in qualità di presidente eletto del partito, se ciò potesse servire a risolvere, in maniera condivisa, definitivamente e “ad horas”, un`impasse che si trascina da troppo tempo.

Sulla vicenda Giuseppe Valditara dice: «Mi auguro che il futuro di Adolfo Urso e Andrea Ronchi sia all’interno di Futuro e Libertà. Sarebbe un errore scegliere altre strade perché non portano da nessuna parte o, in alternativa, a un progressivo rientro nel Pdl, che vorrebbe dire in pratica rinnegare tutta una prospettiva politica di questo anno di Futuro e Libertà». Prospettiva che viene commentata in maniera abbastanza ironica da alcuni ex esponenti di Alleanza nazionale come il ministro Ignazio La Russa che ha detto: «Sapevo che avrebbero fatto questa fine». La replica di Valditara è altrettanto caustica: «Mi è chiara la fine che hanno fatto loro: quella, cioè, di essere a disposizione del Cavaliere. Noi siamo ancora qui e facciamo le nostre battaglie. Ne abbiamo avviata una sulla trasparenza a Milano che ha come protagonista la nostra Barbara Sciabò e dalla quale risulterà chi ha approfittato dell’enorme patrimonio pubblico gestito sia dal Pio Albergo Trivulzio, sia quello dell’Istituto case popolari».

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il caso

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Il 14 dicembre lasciò l’Idv per la maggioranza. Ora ha deciso di pubblicare le sue memorie. Con Mondadori, naturalmente

I dolori del giovane Razzi

di Riccardo Paradisi volte ho disgusto per le loro richieste» sembra aver confidato il coordinatore del Pdl Denis Verdini a Silvio Berlusconi a proposito delle trattative per convincere parlamentari dell’opposizione a passare con la maggioranza. E siccome Verdini è uno che ha lo stomaco forte devono chiedergli veramente di tutto - i peripatetici del Transatlantico di Montecitorio - per disgustare uno come lui. Del resto è un lavoro che qualcuno deve pur fare quello del traghettatore, sicchè Verdini canta e porta la croce. Ora, nella schiera dei traghettati si trovava fino a qualche mese fa quell’Antonio Razzi che per essere esponente dell’Italia dei valori era annoverato, per autocertificazione, tra i paladini del virtuismo morale ed etico e che invece, saltato il fosso, è diventato, suo malgrado, archetipo, simbolo e paradigma della categoria stessa del mercimonio politico. Per Di Pietro, che non vuole più nemmeno nominarlo, addirittura un Giuda (paragonando così se stesso a Gesù Cristo).

Antonio Razzi, il 14 dicembre, dopo aver votato contro il suo partito (l’Italia dei Valori), viene abbracciato dai berluscones alla Camera. Sotto, la presentazione del gruppo dei Responsabili, creato da Silvano Moffa con i transfughi dell’opposizione : tra di loro, naturalmente, c’è anche Razzi

«A

Più degli altri doleva il suo tradimento perché Razzi era proprio quello che aveva denunciato le manovre di compravendita per ingrassare la maggioranza: «Si sono offerti di pagarmi il mutuo e darmi un posto nel governo, ma la proposta più concreta è stata la rielezione sicura», dichiarò in un’intervista fiero della sua storia operaia e della sua fermezza nel dire di no. Tre mesi dopo, folgorato sulla via della responsabilità nazionale, Razzi ha deciso di fare il salto del fosso e passare nella maggioranza. ”Ecco che gli hanno pagato il mutuo” dissero i maligni e i malfidati, mentre lui continua a dichiarare che quel mutuo se lo sta pagando da solo. Dal suo passaggio di fronte però, se non il pagamento del mutuo - e

non c’è motivo per dubitare della parola di razzi - una cosa sicuramente l’ha ottenuta. Una cosa che rispetto a certe richieste ricevute da Verdini appare addirittura elegante: la pubblicazione della propria vita da parte di Mondadori. Già perché l’ex dipietrista sta scrivendo La vera storia di Antonio Razzi un

Nel libro anche un ritratto a tinte fosche di Antonio Di Pietro, che sarebbe stato invidioso del deputato e della sua attività per gli italiani all’estero titolo che autorizzerebbe a sospettare che esistano anche degli pseudo Razzi in circolazione o almeno delle biografie del personaggio non autorizzate. Ad affiancarlo, ad ascoltarlo mentre declama la sua storia un redattore della stessa casa editrice a cui spetterà il compito di mettere in forma il Razzi pensiero, di dare ritmo e metro nar-

rativo alle rivelazioni del deputato riguardanti soprattutto i veri motivi della sua grave decisione di abbandonare l’Idv e passare alle fila della maggioranza. Del resto non è in fondo vero che ogni vita merita un romanzo? E che cosa manca alla vita di Razzi per essere un romanzo? Emigrante in Svizzera poi diventato punto di riferimento per gli italiani all’estero ha raccontato lui stesso che per questa sua attività avrebbe ricevuto autenitche persecuzioni nel suo ex partito: «Contro di me, nell’Idv, e contro conseguentemente le comunità all’estero che rappresentavo, c’è stata una presa di posizione sclerotica, di chi insofferente alla mia persona, ha fatto di tutto per contrariarmi, mobbizzarmi, mettermi in ridicolo». Anche per questo, perché stanco d’essere trattato come l’ultimo della classe soprattutto da Di Pietro – uno che certo non ha proprio il fisico del primo, della classe – Razzi ha tratto il dado e passa il Rubicone. Ed ecco che la fama finalmente arriva ma è fama in-

grata: «Dacchè Razzi è stato sempre il signor “Nessuno”– dice di se stesso usando la terza persona – è divenuto l’uomo del secolo al quale tutti vogliono affibbiare una croce che non è sua. Dal quale dipendono i destini della nazione addirittura. Non ci provassero. Non ci provasse nessuno a guidare la macchina schiacciasassi che passa su tutto e tutti uniformando in giudizi approssimativi e distruggendo le reputazioni».

Ma la vita di Razzi non è solo azione è anche pensiero. E la sua autobiografia conterrà anche ampi stralci della sua visione del mondo. Considerazioni per esempio sulla globalizzazione che Razzi ha già anticipato in alcune interviste: «Appare evidente che il concetto di economia globalizzata che attualmente prevale, si sia smarcato e prescinde da contrassegni politici che invece hanno caratterizzato tutto il dopoguerra...». Ma Razzi non resta prigioniero nel cielo della teoria, su cui pure, vola a lungo, e traduce in proposta

politica il suo pensiero: «La politica economica del paese da presentare al vaglio della globalizzazione, sia studiata e presentata al paese quale frutto della collaborazione di due ministri rappresentativi delle forze politiche bipolari. Con la diretta compromissione del ministro della compagine che ha perso le elezioni, si induce a responsabilizzare anche l’opposizione delle scelte strategiche di breve e di lungo periodo che il paese si troverà costretto ad affrontare. In caso di disaccordo insanabile tra due, il Parlamento sarà chiamato a gestire quella crisi con il voto, magari, dopo una “quarantena” di approfondimenti e di studi ulteriori da parte dei due ministri per scongiurare l’impasse. Si eviterà, di contro, quella deresponsabilizzazione dei conti del paese e lo scaricabarile sistematico quando l’un ministro di destra subentra nella gestione appena lasciata da quello di sinistra e viceversa». E non si dica che predica bene e razzola male il Razzi: la responsabilità nazionale, la libertà rispetto allo spirito di parte, la capacità di prendere ovunque il meglio erano tutte già nel suo pensiero.


ULTIMAPAGINA Ieri Mosca ha celebrato gli uomini fra regali, vodka e machismo. Una volta era il giorno dell’Armata sovietica...

In Russia si festeggia l’8 marzo di Giancristiano Desiderio na volta c’era la Festa dell’Armata Sovietica, oggi c’è la Festa dell’Uomo. Anche se non è più una festività ufficiale, ieri in Russia è stato un giorno di spensieratezza. La festa per gli uomini viene poco prima della più classica e nota Festa delle Donne e subito prima della altrettanto seguita Festa della Frittella che cade il 27 febbraio, giorno in cui in Russia si dà addirittura il benarrivato alla primavera ma non il benservito all’inverno. Il senso originario della festa mascolina è tutt’altro che secondario: era, un tempo, un tributo a tutte le generazioni di soldati russi dai tempi antichissimi degli Unni e di Attila, il famoso “flagello di Dio”, fino all’Armata Rossa che avrebbe dovuto fornire il braccio armato per la nascita dell’Uomo Nuovo. È finita invece con la Festa dell’Uomo Qualunque in cui tutti i maschi - bambini e adulti, grandi e piccoli, potenti e impotenti - si scambiano auguri, regali e fiori. «Che cos’è il comunismo?» chiesero una volta a Lenin. E lui rispose senta tentennamenti: «Il comunismo è il potere sovietico più l’elettrificazione di tutto il paese». La festa russa degli uomini e dei maschi è l’esatto opposto dell’idea che Lenin aveva non solo del comunismo, ma della Russia: è la vittoria della spontaneità sulla rivoluzione. È la fine del “modello russo” che rappresentava per i rivoluzionari e sognatori del mondo l’avanguardia della Storia e il “sole dell’avvenire”. Il sole è tramontato e più che le parole del compagno Lenin in Che fare? - «il nostro compito consiste nel combattere la spontaneità, consiste nell’attirare il movimento operaio sotto l’ala della socialdemocrazia rivoluzionaria» - contano le parole di Scarlett O’Hara dopo la caduta di Atlanta e il rogo di Tara: «Dopotutto, domani è un altro giorno».

U

La festa dell’uomo in Russia non è di certo la festa dell’umanità. Va bene che la Russia è un paese che conta 150 milioni di abitanti, ma a capo di Mosca c’è un ex agente del Kgb che non va per il sottile un po’ su tutto. Sulla questione cecena, ad esempio, l’ex delfino di Eltzin disse: «Andremo a cercarli anche nei ces-

si». Un programma che per il presidente russo vale un po’ per tutto, compresi i giornalisti. La festa dell’uomo per Putin in molti casi equivale a fare la festa agli uomini. Ma anche alle donne. Come il caso molto noto di Anna Politkovskaja, uccisa sotto casa ancora non si sa da chi e chissà quando si saprà.

Ma il titolo la Festa dell’Uomo sembra esser fatta apposta per indagare chi sia l’uomo misterioso che collega Silvio Berlusconi a Vladimir Putin. Il mediatore uscito dai file di Wikileaks ha almeno tre facce: quelle di Valentino Valentini, Antonio Fallico e Angelo Codignoni. Li hanno chiamati “i tre moschettieri russi” per i loro rapporti con Putin e Berlusconi. Anche questo fa parte della festa dell’uomo. Dopotutto, proprio nelle indiscrezioni mondiali di Wikileaks si è potuto leggere che l’ambasciatore americano Spogli si espresse con un giudizio abbastanza severo sul presi-

DEI MASCHI dente del Consiglio americano che mostrava di apprezzare «lo stile macho e autoritario» di Putin. Il quale apprezza le ballerine, tanto che nel suo partito Russia Unita entrò a far parte anche Anastasia Volochkova, una volta prima ballerina del Bolshoi. Ma Anastasia ha commesso un errore: si è fatta fotografare in topless alle Maldive e il “macho e autoritario” Putin l’ha messa fuori dal partito. «Non mi aspettavo di essere trattata così per un po’ di foto in topless» si è lamentata la bella Anasta-

Winston Churchill definì il Paese «un enigma avvolto in un mistero». In effetti la patria di Pietro il Grande e Caterina è un po’ per tutti noi insondabile sia con il tabloid Tvoiden. Dal partito non si è fatta attendere la risposta: «Non è una gran perdita, non capiva neanche la differenza tra Russia Unita e Russia Giusta». Ma è una differenza che non capiscono neanche, probabilmente, le igieniste dentali, eppure nessuno in Italia si sogna di metterle fuori dal partito di maggioranza o da un consiglio regionale. Per la Festa dell’Uomo anche Putin festeggerà, naturalmente. Se

non è la sua festa preferita poco ci manca. E siccome è grande amico di Berlusconi - «l’amico Putin» dice il nostro capo del governo - anche Putin è un discreto cantante. Recentemente si è esibito nientemeno che davanti a (nell’ordine): il cantante Paul Anka, Sharon Stone e Gerard Depardieu, Alain Delon, Kevin Kostner, Mickey Rourke, Kurt Russel.

Una volta Churchill definì la Russia «un enigma avvolto in un mistero». In effetti il paese di Pietro il Grande e di Caterina è un po’ per tutti noi insondabile. È pur sempre un paese asiatico, anche ha dato molto all’Europa e ha ricevuto molto dall’Europa. Ma la Festa dell’Uomo nel paese che voleva dare al mondo l’Uomo Nuovo è una di quelle ironie della storia che rendono tutto più umano, anche una terra che nella nostra immaginazione conserva (ingiustamente) il senso del disumano.


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