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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 26 FEBBRAIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
I ribelli entrano in città dove, in alcune zone, si combatte strada per strada. Anche qui sono decine le vittime
Tripoli, la battaglia finale Il mondo si sveglia. Onu, Ue, Nato: sanzioni e intervento umanitario Guerra all’aeroporto e nel centro della capitale. Tutti i pozzi nelle mani degli insorti. Il raìs arringa i militanti in piazza, ma la comunità internazionale lo avvisa: «I tuoi sono crimini contro l’umanità» Parla Edward Luttwak
L’appello del Terzo Polo
L’OTTANTANOVE ARABO
In Libia rischia anche la nostra classe dirigente
«Svegliati, Sospendere Italia! Riprendi il trattato il tuo ruolo che ci fa alleati di leader» del dittatore
di Enrico Cisnetto
Nella City di Londra 23 miliardi di sterline
di Pierre Chiartano
di Osvaldo Baldacci
ROMA. Per la politica italiana, la
ROMA. Si muove la comunità in-
vicenda libica potrebbe diventare come una doccia fredda nel torpore provocato dal clima ormai stucchevole della cucina partitica domestica e del bunga-bunga nazionale. E allora Edward Luttwak ci richiama alla realtà: «Svegliti, Italia! Torna a fare politica». a pagina 4
ternazionale. Non si muove il governo italiano. Per questo il Terzo Polo si è attivato per chiedere l’immediata sospensione del Trattato Italia-Libia. Ma la maggioranza continua a temporeggiare, e a lanciare controversi allarmismi sul rischio immigrazione. a pagina 3
Scoperto il tesoro del “povero Gheddafi” Il dittatore si è visto congelare immediatamente i beni inglesi Maurizio Stefanini • pagina 6
a drammatica crisi della Libia, che va ben al di là dei suoi confini e che saldandosi con le rivolte in Egitto, Algeria, Tunisia e altri fronti caldi del Mediterraneo e del Medio Oriente ha dato il via a quello che potrebbe rivelarsi un epocale “1989 del mondo islamico”, richiederebbe all’Italia di avere una classe dirigente degna di questo nome. a pagina 5
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Cicchitto torna a chiedere platealmente le dimissioni
Dal Senatùr un colpo al premier e uno al leader Fli
Fini nel mirino
Il baratto di Bossi
Approvato (con veleni) il Milleproroghe
«Immunità in cambio del federalismo»
di Riccardo Paradisi
di Errico Novi
ROMA. Giornata turbolenta a Montecito-
ROMA. Non vuole perdere tempo. Se c’è
rio. Giornata di bagarre in aula durante le votazioni per il Milleproroghe approvato dalla maggioranza. Al centro della battaglia, il ruolo di del presidente della Camera. Benché in mattinata Fini avesse attaccato gli eccessi di Di Pietro, Cicchitto ha stigmatizzato il suo comportamento. Perché il presidente della Camera si era permesso di lamentare l’assenza del governo durante la votazione sul Milleproroghe.
una cosa che lo infastidisce sono le polemiche personali: «Quelle le fanno Berlusconi e Fini, non io». Umberto Bossi ha le idee chiare e un’altra marcia. Passata la buriana del milleproroghe, decide che d’ora in poi, più di prima, si tratta con uno solo. Berlusconi appunto. Che dovrà dargli il federalismo, subito. «Se saranno messe ai voti risoluzioni, metteremo la fiducia», annuncia poco più tardi Roberto Calderoli.
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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
40 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Un giovane anti-Gheddafi dimostra per le strade di Bengasi con la bandiera libica. Ieri si è combattuto anche per le strade della capitale Tripoli. Nella pagina a fianco, il ministro Franco Frattini
il fatto I ribelli entrano a Tripoli: si combatte strada per strada e per la conquista dell’aeroporto. Numerose le vittime dei nuovi scontri
L’ultimo comizio
Il raìs in piazza arringa i suoi: «Vinceremo, come contro gli italiani». Onu, Nato e Unione europea pensano a un intervento umanitario la lettera di Luisa Arezzo
otrebbe essere l’ultima zampata da leone del deserto quella che ieri sera ha sferrato Muammar Gheddafi a Tripoli. Uscito dal suo bunker per pochi istanti, mentre per le vie della città esplodeva la guerriglia, ha raggiunto piazza Verde e urlato: «Preparatevi a difendere la Libia. Lotteremo fino a riconquistare ogni pezzo del territorio del Paese. Sconfiggeremo il nemico come abbiamo sconfitto il colonialismo italiano e tutti i depositi di armi saranno aperti per armare il popolo». E poi, il terribile graffio finale: «Chi non ama Gheddafi non merita di vivere», a conferma del fatto che è pronto a tutto pur di cercare di sedare la rivolta. E che, come sempre ieri ha detto uno dei suoi figli, per il clan del dittatore ci sono solo tre alternative: «vivere o morire in Libia». La comunità internazionale intanto sta cercando vorticosamente di decidere il da farsi per isolare sempre di più il dittatore.
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Congelamento dei beni, embargo alle forniture di armi, ricorso alla corte penale internazionale per chi in Libia si sarà macchiato di crimini di guerra. Sono questi i tre punti principali di un progetto di risoluzione Onu sulla Libia che i 15 del Consiglio di Sicurezza hanno iniziato ad esaminare ieri sera. Non sarebbero, tuttavia, attese decisioni formali almeno fino a domani, dato che gli ambasciatori
Una risposta di Lamberto Dini alle osservazioni di liberal
Non faccio il tifo per il Colonnello «Ho smentito subito le forzature di “Repubblica”» di Lamberto Dini entile Direttore, le scrivo per esprimerle il mio rammarico che liberal di oggi all’articolo a firma Riccardo Paradisi sia stato dato il titolo virgolettato E Dini confessò: «Facciamo il tifo per il dittatore», poiché queste sono parole che io non ho mai pronunciato. Posso capire tuttavia che dalla mia intervista a La Repubblica del 24 febbraio sia il Suo giornale che altri abbiano tratto una tale errata conclusione. Si è trattato di una forzatura giornalistica da me corretta con una dichiarazione apparsa su Adnkronos del 24/2 ore 17 dal titolo «Dini, se Gheddafi continua con violenze sul popolo sarà la sua fine» che anticipava una mia intervista al Predellino, quotidiano on line del Pdl, pubblicata oggi 25 febbraio. Rivendico con forza (e piena condivisione) l’azione svolta dai governi italiani che si sono succeduti dal 1996 in poi per addivenire a relazioni più amichevoli col governo libico dopo che questo era rientrato (e accettato) nell’ambito della comunità internazionale. Si deve riconoscere che la politica
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estera deve trattare con il mondo così come’è e non come vorremmo che fosse. Tuttavia io stesso non ho esitato a condannare il leader libico dopo che questo ha minacciato di usare la forza contro il suo popolo. Così facendo avrebbe perso ogni legittimità, sarebbe stato condannato dalla comunità internazionale, avrebbe portato alla sua fine. Questo è il giudizio da me espresso in altre interviste apparse in questi giorni. Vogliamo tutti sperare che Gheddafi non faccia l’errore di condurre il paese in una più sanguinosa guerra civile e che la comunità internazionale possa dispiegare ogni sforzo nel tempo che rimane per evitarla. Tanto Le dovevo, gentile Direttore, ad onor del vero per il mio pensiero sulla crisi libica.
iamo lietissimi di apprendere che il senatore Dini non condivide i giudizi su Gheddafi che La Repubblica gli ha attribuito. Noi li abbiamo commentati in assenza di sue smentite al quotidiano romano. Ci permetta comunque Dini di rilevare che la sua speranza «che Gheddafi non faccia l’errore di condurre il paese in una più sanguinosa guerra civile» è già purtroppo ampiamente superata dai fatti. Non da domani ma da ieri il colonnello è già alla storia come un «criminale contro l’umanità».
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devono prima consultare le rispettive capitali per poter prendere una posizione. Ma sostanzialmente le misure all’ordine del giorno al Palazzo di Vetro sono le stesse all’esame della Ue, con l’aggiunta del divieto di ingresso in Europa per il dittatore e la sua famiglia. E così, mentre è in atto la battaglia a Tripoli, il mondo si interroga su come fermare le stragi in Libia. In una girandola di incontri ai quattro lati del globo, la diplomazia internazionale cerca le misure per fermare la brutale repressione di Muammar Gheddafi, per lanciare un’operazione umanitaria (che la Nato si dice pronta a coordinare) e per portare via dalla Libia gli stranieri ancora presenti (almeno 5/6mila gli europei). L’unico punto su cui al momento non sembra esserci una convergenza è quella dell’istituzione di una No fly zone sul cielo libico, nella mattinata di ieri caldeggiato dalla Ue e poi fatto proprio solo dalla Nato. Azione che, in ogni caso, avrebbe bisogno del bene placito delle nazioni Unite.
Il cerchio intorno a Gheddafi si starebbe chiudendo anche nel Paese. I ribelli sono arrivati a Tripoli per combattere le truppe fedeli al dittatore dopo aver conquistato la città costiera di Misurata (a meno di 200 chilometri dalla capitale). Secondo le testimonianze riportate da Al Jazeera Gheddafi ormai avrebbe solo il controllo del suo bunker nel quartiere Bab el Zizia a circa due chilometri da
prima pagina
26 febbraio 2011 • pagina 3
la polemica
«Revocate il Trattato di amicizia» Il Terzo polo chiede una sospensione dell’accordo di partnership militare. No del governo di Osvaldo Baldacci
ROMA. Si muove la comunità internazionale, l’Onu, l’Unione Europea, la Nato. Non si muove il governo italiano. Per questo il Nuovo Polo si è attivato per chiedere almeno l’immediata sospensione del Trattato Italia-Libia. Ma la maggioranza continua a temporeggiare, e a lanciare controversi allarmismi sul rischio immigrazione. Con Ferdinando Adornato, Benedetto Della Vedova e Gianni Vernetti, presenti Pierferdinando Casini e Rocco Buttiglione, il Nuovo Polo ieri alla Camera ha sottolineato: «I drammatici avvenimenti cui stiamo assistendo in queste ore, e la realtà che si sta concretizzando sul terreno, hanno reso ormai nella sostanza inefficace il Trattato». Udc, Api e Fli hanno poi chiesto che questa mozione venga immediatamente calendarizzata in Parlamento. Un gesto politico importante, ma anche un passo utile per districarsi nella confusa situazione in cui quel Trattato (contro cui votarono solo Udc, Idv e Radicali, più qualche astensione) ha messo l’Italia. Spiega Casini: «Questo trattato che noi abbiamo avversato in Parlamento ci impedisce ogni partecipazione a iniziative internazionali che possono essere assunte sulla Libia. Immaginate cosa significherebbe per l’Italia, che è il irimpettaio della Libia, essere tagliata fuori da qualsiasi iniziativa concertata tra americani, inglesi, tedeschi e francesi». Ancor più chiaro Adornato: «L’articolo 4 del Trattato afferma l’impegno di non ingerenza negli affari interni di Italia e Libia, e in particolare – come da noi contestato già allora perché piazza Algeria. L’aeroporto internazionale della città starebbe per cadere in mano ai ribelli, mentre si continuerebbe a combattere strada per strada a Tripoli. Secondo diverse testimonianze i mercenari sparerebbero anche alle ambulanze uccidendo indiscriminatamente tutti i civili. «È una carneficina» ha detto un testimone. Sempre secondo Al Jazeera le forze di polizia e i militari si sono uniti ai rivoltosi, a Tajoura, un sobborgo di Tripoli, per marciare assieme verso la piazza Verde di Tripoli. Si tratterebbe di oltre 30mila persone, secondo le dichiarazioni di Foad Aodi, presidente della Comunità de Mondo arabo in Italia (Comai) in costante contatto, da Roma, con alcuni testimoni in Libia ed esponenti arabi in Europa. Ma altre voci parlano almeno di 50mila persone. Secondo il sito israeliano Debkafile, intanto, sarebbero
in contrasto con gli altri impegni internazionali dell’Italia - si riferisce al fatto che l’Italia stando al testo deve negare l’utilizzo delle proprie basi per qualsiasi azione in Libia». Nel testo della mozione è anche sottolineato il riferimento all’articolo 20 del trattato, che prevede la collaborazione nel settore della Difesa tra i due Paesi che «si impegnano a sviluppare la collaborazione tra le rispettive forze armate». «Se non vogliamo che passi solo l’immagine dell’Italia
Napolitano cerca di frenare i “vittimismi” sugli immigrati. Maroni, invece, rilancia: «Sono 50mila, diretti tutti qui» amica di Gheddafi e non del popolo libico sospendiamo subito questo trattato», ha concluso Casini. Negativa la risposta del governo.
«Il trattato di amicizia Italia-Libia non è operante”, ha sostenuto il ministro della Difesa La Russa, aggiungendo: «Non porta vantaggi né a loro, né a noi. Esaminare la possibilità di sciogliere il trattato è solo un problema di petizione di principio, che può solo danneggiare gli italiani». Pronta la risposta di Adornato: «Che la questione sia urgente e concreta è chiaro a tutti, tranne al ministro, il quale da una parte afferma in modo ridicolo che il trattato non sarebbe operativo e dall’altra pensa di cavarsela sostenendo che la richiesta di sospen-
già centinaia i consulenti militari Usa, britannici e francesci, inclusi agenti dei servizi segreti, che avrebbero raggiunto la Cirenaica per aiutare i rivoltosi.
I consulenti, secondo quanto afferma Debka, sarebbero sbarcati a Bengasi e Tobruk per una missione dal triplice scopo: aiutare i comitati rivoluzionari a stabilire infrastrutture governative; organizzare i rivoltosi in unità paramilitari, addestrandoli all’uso delle armi; preparare l’arrivo di altre unità militari, forse egiziane. Se la notizia fosse confermata, si tratterebbe del primo intervento militare effettuato da Stati Uniti e Europa dallo scoppio delle rivoluzioni maghrebine. Fonti militari citate da Debka affermano, inoltre, che molti comandanti delle Forze aeree di
sione del trattato è solo una questione di principio. Evidentemente, né al ministro né al governo importa molto dei princìpi». E che la questione delle basi sia centrale si è subito visto, dato che Sigonella è stata messa a disposizione degli alleati occidentali.
Ma con delle precisazioni da parte dello stesso ministro La Russa: «Sia gli Usa che la Gran Bretagna ci hanno chiesto di poter utilizzare la base di Sigonella per gli aerei che abbiano come solo obbiettivo l’evacuazione o scopi umanitari. E noi abbiamo dato la nostra autorizzazione, solo per questi scopi». Con il “solo”ribadito in ogni frase. L’altro tema che investe la politica interna partendo dalla Libia è quello della possibile ondata di profughi. «Non cedere a vittimismi e allarmismi» le parole d’ordine che ha voluto lanciare in prima persona il presidente Napolitano da Berlino. Il presidente ha ribadito «l’esigenza di una forte solidarietà per far fronte a questa emergenza; perché il problema non è solo dell’Italia, ma di tutta l’Unione europea». Ma intanto il ministro Maroni ha fatto sapere di attendersi almeno 50mila rifugiati in un mese da distribuire in tutta Italia e ha di nuovo attaccato la Ue: l’Unione Europea è «un livello superiore, ma non benefico», e, nella gestione dell’emergenza immigrati ha “vincolato” le scelte del Governo italiano senza fornire “le risposte adeguate”. «Per governare l’emergenza sulle coste - ha chiarito - sono vincolato da un livello superiore cui l’Italia ha ceduto competenze e paga
Muammar Gheddafi si sono ammutinati. Il Colonnello, dunque, non sarebbe più in grado far affidamento su quello che viene considerato uno dei pilastri-chiave per la repressione della rivolta. Intanto, mentre uno dei sette figli del dittatore avrebbe trovato rifugio in Venezuela (e ieri Chavez si è detto pronto anche ad ospitare Ghed-
risorse, ma che non ha fornito risposta adeguata». Restano quindi complessi il rapporto e la collaborazione tra Italia ed Europa. Il presidente Napolitano ieri ha voluto sottolineare che l’Italia «non ha mai posto veti o rifiuti a sanzioni nei confronti della Libia». Mentre un incidente diplomatico ha coinvolto il ministro Frattini con la stampa straniera: agitazione per “un colloquio” tra il ministro ed un giornalista dell’edizione tedesca dell’autorevole Financial Times. Ne è nato un vero e proprio scontro, quando il giornale ha riferito che il ministro si sarebbe detto disponibile ad un «nuovo governo guidato da Gheddafi o da uno dei suoi figli». «Sono stupefatto», dice Frattini, «Quello che è stato scritto non corrisponde a quello che penso e quello che ho detto». Secondo il FT, invece, «l’Italia continua a puntare sul clan dei Gheddafi», e «ha messo in guardia gli europei dal promuoverne attivamente la caduta». E secondo un virgolettato attribuito al ministro, «non possiamo stabilire a Bruxelles, a Roma o a Berlino cosa è bene per la Libia». Parole pesanti, che Frattini afferma di non aver detto.
tare le forze di sicurezza a reprimere i manifestanti pro-democrazia nell’est della Libia, ma una volta giunto a Bengasi si sarebbe unito ai rivoltosi.
Considerato quello con il profilo più basso tra i figli di Gheddafi, Saif al-Arab ha anche dichiarato che suo padre potrebbe suicidarsi o rifugiarsi in
Il Consiglio dei Diritti Umani dell’Onu, formato da 47 Paesi, ha sospeso la Libia e adottato una risoluzione per inviare una missione nel Paese a verificare le violazioni dafi), il più giovane dei figli di Muammar Gaddafi, Saif alArab, secondo quanto riferito dall’agenzia iraniana Irna, si sarebbe unito alla rivolta contro il regime guidato dal padre per 41 anni. L’agenzia di stampa precisa che Saif al-Arab era stato inviato dal padre per aiu-
America Latina. Secondo quanto scrive Press Tv, Saif al-Arab avrebbe avuto l’appoggio di truppe da combattimento ed equipaggiamento militare per rafforzare la rivolta. Anche Kadhaf al-Dam, cugino e stretto consigliere del leader libico, si è dimesso «da tutti i
suoi incarichi in seno al regime per protestare contro la gestione della crisi» in atto nel Paese. Lo ha fatto sapere tramite un comunicato diffuso ieri dal suo ufficio al Cairo e riportato dall’agenzia di stampa egiziana Mena. Eppure, mentre i familiari (e il mondo) lo abbandonano Gheddafi incassa la solidarietà di un altro dittatore africano: Robert Mugabe. Il presidente dello Zimbabwe avrebbe inviato dei combattenti per dare man forte al Colonnello che tenta disperatamente di reprimere la rivolta popolare . Un aereo di fabbricazione russa con a bordo truppe dell’unità di commando dello Zimbabwe sarebbe decollato martedì con destinazione Libia, secondo lo Zimbabwe Mail, che cita fonti dei servizi segreti. Mugabe avrebbe anche offerto ospitalità al dittatore libico. Potrebbe essere troppo tardi.
l’approfondimento
pagina 4 • 26 febbraio 2011
Secondo l’esperto americano, la crisi non è ancora arrivata alla svolta finale. «Ma bisogna essere pronti al bagno di sangue»
Svegliati, Italia!
«Proprio per quei rapporti antichi e importanti che lo legano alla Libia, il governo di Roma dovrebbe guidare l’iniziativa internazionale e l’eventuale intervento militare. Con l’aiuto degli Usa». Edward Luttwak dà un consiglio a Berlusconi di Pierre Chiartano er la politica italiana, la vicenda libica potrebbe diventare come una doccia fredda nel torpore provocato dal clima ormai stucchevole della cucina partitica domestica e del bunga-bunga nazionale. Non certo per i nostri uomini in divisa, ormai abituati a responsabilità, efficienza e perfetta collocazione istituzionale. In Italia, per il momento, i militari sono stati chiamati in causa per un’operazione di recupero. «Ci sono una trentina di italiani nel sudest della Libia che ci dicono di aver finito i viveri», ha affermato ieri il ministro della Difesa La Russa ai microfoni di Sky. «Aspetto il via libera della Farnesina... ho già messo a punto coi generali competenti le modalità di recupero».
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M a se l’ It alia si t rov asse davanti a una vera carneficina attuata dalle milizie fedeli a Gheddafi, non a un “semplice” recupero di connazionali,
cosa dovrebbe fare? Noi che siamo il Paese più coinvolto, i vicini di casa della Libia, potremo restare a guardare, accontentandoci della fase orale della politica, cioè dichiarazioni e comunicati stampa? Per l’esperto americano di politica internazionale, Edward Luttwak, per l’Italia, in quel caso, arriverebbe il momento di agire, senza indugi. Liberal lo ha raggiunto telefonicamente a Dublino, una delle tappe europee del consu-
«Il destino del Colonnello rientra tutto nella sfera d’influenza europea»
lente del Pentagono, prima di proseguire per l’Oriente. «In Libia, se Gheddafi continua a resistere e cominciano ad esserci stragi indiscriminate, l’Italia e gli altri Paesi europei avranno da sciogliere il dilemma: se stare alla finestra a guardare la carneficina oppure intervenire». Il professor Luttwak quando parla d’intervento ha in mente un’operazione ben precisa. «Un intervento militare con truppe di terra e forze aeree». Come aveva gia dichiarato a liberal il generale Vincenzo Camporini, l’operazione sarebbe necessariamente «aggressiva». «Se Gheddafi dovesse dare ordini e la gente venisse massacrata che si fa? Per adesso non è ancora successo, pur essendoci state numerose vittime, ma se dovesse cominciare? Gheddafi è lo stesso paz-
zoide di sempre. L’Italia e l’Europa cosa dovrebbero fare?».
Per il professore americano di origine rumena la risposta è banale quanto ovvia: «Si deve intervenire». Ma in questa crisi così delicata per l’area mediterranea, gli Stati Uniti che ruolo avrebbero? «La Libia è una responsabilità prettamente europea. Gli americani sono pronti, come sempre, a dare una mano con la logistica. A sostenere un eventuale intervento. Ma sono gli europei che hanno il problema dei profughi e dell’immigrazione, sono gli europei che hanno la prossimità geografica e la tradizione storica dei rapporti con quella regione. Soprattutto l’Italia. In caso avvengano dei veri massacri, è l’Italia per prima a dover prendere una decisione». Insomma, l’Europa, forse per la prima volta dovrebbe dare prova d’unità d’intenti, cosa non accaduta, ad esempio, nella crisi dei Balcani. È più probabile che Francia e Inghilterra si muovano per conto loro, tanto per prendersi qualche piccola rivincita
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Come la crisi della Seconda Repubblica si riflette nella caduta dei regimi nordafricani
A Tripoli rischia anche la nostra classe dirigente
Il governo si è mostrato totalmente impreparato ad affrontare l’emergenza. Invece la sinistra ha cercato solo di sfruttarla di Enrico Cisnetto a drammatica crisi della Libia, che va ben al di là dei suoi confini e che saldandosi con le rivolte in Egitto, Algeria,Tunisia e altri fronti caldi del Mediterraneo e del Medio Oriente ha dato il via a quello che potrebbe rivelarsi un epocale “1989 del mondo islamico”, richiederebbe all’Italia di avere una classe dirigente degna di questo nome e all’Europa di esistere. Due condizioni che, purtroppo, non esistono. E la cui mancanza rischia di aprire una breccia di cui non possiamo neppure immaginare le conseguenze negli equilibri geopolitici del Mediterraneo e del Vecchio Continente, nella stabilità interna dei vari paesi per via dei flussi immigratori e negli assetti, già meno consolidati di un tempo, delle diverse economie continentali e della ricchezza dei nostri abbienti cittadini.
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Per l’Italia, in particolare, questa vicenda può rappresentare – molto più delle crisi finanziarie, quella mondiale che abbiamo vissuto e quella europea della speculazione contro i debiti sovrani e l’euro stesso che è in corso da mesi con un andamento da fiume carsico – un reagente chimico micidiale, capace di far saltare quel che resta della nostra sgangherata Seconda Repubblica. E la miglior dimostrazione di questa non difficile predizione sta nella pochezza della reazione che tanto il governo quanto l’opposizione hanno saputo mettere in atto. Inizialmente entrambi impreparati e attoniti. Poi preoccupati soltanto, Berlusconi e l’esecutivo di dover giustificare il comportamento a dir poco eccessivamente accondiscendente avuto nei confronti di Gheddafi e del suo regime, e l’opposizione (eccezion fatta per l’Udc) di approfittare dell’occasione e, per puro calcolo elettorale, attaccare il governo. Cioè lontani mille miglia, l’uno e le altre, dalla comprensione di un fenomeno che già sta andando e ancora andrà ben al di là della contingenza. Il tema da affrontare, infatti, non può essere il fondamento o meno della realpolitik che ha spinto l’Italia – peraltro, da decenni e in compagnia di molti altri paesi – a intrattenere rapporti politici e commerciali con la Libia come con altri regimi dittatoriali, e neppure la congruità della “politica del cucù”, che per molti versi sarebbe corretto porre, cioè del modo folcloristico, superficiale e da venditore di tappeti con cui il premier ha impostato non solo il rapporto con Gheddafi –
un conto è doverci avere a che fare, un altro è lasciarsi andare a comportamenti beceri come il famoso baciamano, incompatibili con la cifra di
Il nodo non è la realpolitik ma quale profilo debba darsi il Paese sul palcoscenico globale uno statista – ma con molti altri leader mondiali. No, il nodo da affrontare ora è il che fare in questa terribile e complicata circostanza. Quale profilo deve darsi il Paese, quale
grado di unità la sua classe politica è in condizione di realizzare, quale livello di influenza è capace di esercitare in sede europea e mondiale (anche Stati Uniti e Cina saranno due giocatori decisivi della partita). Partendo da un dato certo: la crisi politica – tra l’altro strutturale, sistemica – che l’Italia vive da anni e che negli ultimi dieci mesi è diventata del tutto irreversibile, non appare per nulla compatibile con la situazione che si sta verificando alle nostre porte.
Per questo i casi sono due: o assistiamo ad un tanto auspicabile quanto improbabile colpo di reni della politica nel suo insieme, che spinta dall’emergenza recupera le ragioni di una strategia paese perduta da due decenni, oppure sarà la pressione dell’emergenza stessa a travolgere quel che resta della Seconda Repubblica. Uno scenario, quest’ultimo che solo uno stolto può augurarsi, per quanto auspichi il subitaneo avvento della Terza Repubblica. Ma che al momento, in mancanza di un ben che minimo segnale di resipiscenza bipartisan, resta purtroppo quello più probabile. Ultimo avviso. (www.enricocisnetto.it)
storica. Su quest’argomento Luttwak ha un’opinione differente.
«Gli italiani potrebbero essere i promotori dell’iniziativa e coinvolgere gli altri partner europei. Se aspettiamo che si muova la baronessa Ashton… e la Francia non ha più risorse… questa volta è l’Italia a trovarsi in prima linea, vicino alla Libia. Dovrà esercitare la propria leadership, non può defilarsi». Il consulente del Pentagono non entra nei particolari della costruzione istituzionale di una possibile missione militare, ma sull’onda delle notizie che vengono dal vertice dell’Unione europea in Ungheria, sulla possibilità della chiusura dello spazio aereo libico, rimane in argomento: «Non voglio fare speculazioni, perché dipende dalla situazione. Ma voglio fare un esempio per rendere chiaro il concetto. Se Gheddafi dovesse ordinare un attacco aereo contro la popolazione civile - ha molti aeroplani, ma pochi piloti in grado di farli volare - allora l’Italian air force dovrebbe individuare l’aeroporto di partenza di quella missione e distruggere quei velivoli. Questo tipo d’intervento militare a difesa della popolazione libica dovrebbe essere molto disciplinato. Limitato come retaliation al minimo necessario». L’aggressività delle operazioni sarebbe confinata alla «funzione protettiva verso i civili», chiosa. «Stiamo ipotizzando un intervento in caso di un massacro che allo stato delle cose non c’è. Quindi parliamo sempre di intervento protettivo». E dopo un’iniziativa del genere la gestione politica del dopo Gheddafi come sarebbe? «E chi lo sa». Parliamo di reazione pura e semplice, senza una strategia che potrebbe essere sviluppata solo in seguito, valutando gli esiti di tutta la vicenda. Mentre il potere del colonnello libico sembra scorrere dentro la clessidra della storia sempre più velocemente. E anche per il nostro Paese il tempo della maturità in campo internazionale sembra ormai prossimo. «Per Gheddafi si tratta del classico caso d’erosione del potere. Sta perdendo quota e dovrebbe scomparire da sola questo ridicolo personaggio, che è stato sostenuto dal petrolio e dalla passività della comunità internazionale. Una figura che non può e non deve durare. Per il momento è ancora pericoloso, specie nei confronti dei civili». E forse una mano alla storia libica contemporanea la potrebbe dare il regolamento di conti interno alle tribù. «Le condizioni per una vita democratica non ci sono in un Paese come la Libia. Il livello socio-culturale della popolazione non permette di pensare allo sviluppo di un’armoniosa democrazia. Oggi, del resto non dobbiamo scegliere quale governo gestirà il Paese, ma solo se riusciremo a contenere i numeri del massacro. L’Italia dovrà decidere - conclude Luttwak - se accontentarsi di fare dichiarazioni di stampo emotivo oppure…». E per il nostro Paese saranno finiti i tempi delle schermaglie da “teatrino della politica” sarà arrivato il tempo delle decisioni. Intanto le unità della Marina militare italiana, la nave anfibia San Giorgio e il cacciatorpediniere Mimbelli hanno gettato l’ancora a largo di Misurata, città non lontano da Tripoli che si dice caduta in mano ai ribelli.
pagina 6 • 26 febbraio 2011
na sorpresa collaterale delle rivolte araba è stata questa: si è scoperto che non erano gli Slim, Gates e Buffett indicati dalle famose liste Forbes gli uomini più ricchi del mondo. E no! L’ultima edizione della famosa classifica dei miliardari fissava infatti in 53,5 miliardi la fortuna di Carlos Slim Helú, in 53 quella di Bill Gates e in 47 quella di Warren Buffett. Ma mentre Mubarak cadeva, Abc News e Guardian stimavano la fortuna della sua famiglia in 70 miliardi di dollari. Un record appena stabilito, e già travolto nel momento in cui von la caduta di Gheddafi esperti, media internazionali ma i governi di Paesi come Regno Unito o Svizzera si sono messi a fare i conti anche al raìs libico. E secondo il politologo Hasni Abidi, direttore del Centro di studi e ricerche sul mondo arabo e mediterraneo, Gheddafi potrebbe ar-
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Solo nella City valanghe di dollari in conti bancari, proprietà commerciali e una sontuosa dimora da dieci milioni di sterline, acquistata dal Colonnello per un figlio rivare addirittura ai 120 miliardi di dollari: petrolio, gas, infrastrutture, comunicazioni. Una fortuna in gran parte compartita con i figli: fino al giorno prima della rivolta Saif Al Islam ha mantenuto un accesso diretto all’industria del petrolio attraverso la sua società controllata One Nine. Dagli utili del petrolio derivano i 70 miliardi dollari che sono stati investiti nella Libyan Investment Authority (Lia): il fondo sovrano creato nel 2006. Ma poi ci sono conti segreti a Dubai e in altri Paesi del Golfo. E investimenti in Italia: 7,5% del capitale di Unicredit, 2% di Finmeccanica, 7,5% della Juventus, 2% dell’Eni, 14,8% di Retelit (gruppo Telecom Italia),
21,9 milioni di dollari investiti nel 2009 in un complesso alberghiero all’Aquila... E investimenti nel resto del mondo: Uganda Telecom, Rwandtel, la metà della catena alberghiera Corinthia, una quota del colosso russo dell’alluminio Rusal, una partecipazione in quelle Edizioni Pearson cui appartiene il Financial Times, la Tamoil, immobili a Londra, conti correnti, impieghi a breve termine, certificati al portatore... Secondo Wikileaks, l’ambasciatore Usa a Tripoli dopo un incontro con il presidente della Lia Mohamed Layas avrebbe stimato in 32 miliardi di dollari i contanti parcheggiati solo negli Stati Uniti, presso numerose banche in tranches che non superano mai i 500 milioni. Senza contare gli investimenti fatti con operatori di grosso calibro come la Fm Capital Partners. Per conto suo, il governo britannico dice ora di aver individuato nel Regno Unito beni riconducibili a Gheddafi per un ammontare di 23 miliardi di euro: subito congelati. Anche il governo svizzero aveva già annunciato un analogo congelamento. Così come ha fatto per i conti di Mubarak e di Ben Ali.
Va detto che i casi non sono del tutto assimilabili. Con Gheddafi, in pratica, le finanze della famiglia del raìs si confondevano con quelle dello Stato. Nel caso di Mubarak e di Ben Ali sono restate distinte, e i deposti presidenti sono limitati a lucrare sulla loro immensa rendita di posizione. Nel caso dell’ex-presidente egiziano, in particolare, tutta questa ricchezza non risalirebbe nemmeno a quando è diventato capo dello Stato, ma a prima: quando era Maresciallo dell’Aria, comandante dell’Aeronautica Militare, vice-ministro della Difesa e vicepresidente, e come eroe indiscusso della Guerra del Kippur avrebbe messo le mani alla grande sul business delle forniture militari. Così, almeno, è quanto ha affermato il docente di Scienza Politica all’Università di Princeton Amaney Jamal. Mubarak faceva stipulare i contratti; la moglie Suzanne e i due figli avrebbero steso accordi di partnership con investitori e aziende straniere interessati a quei contratti. Come ha ricordato infatti Christopher Davidson, docente di Politica del Medio Oriente all’U-
Scoperto il tesoro di Gheddafi Rintracciati a Londra beni per oltre 20 miliardi di sterline. Ma il raìs non è l’unico a nascondere i suoi averi: da Fidel Castro al re saudita Abdallah, senza dimenticare Mubarak e Ben Ali di Maurizio Stefanini
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niversità inglese di Durham, la legge egiziana prescrive che gli investitori egiziani nella maggior parte dei casi debbano trovarsi un partner locale, a cui dare il 51 per cento della società da costituire. Anche i due figli Gamal e Alaa sarebbero dunque diventati miliardari per conto proprio. Partner di tutte le principali società commerciali e industriali presenti in Egitto, praticamente non pagavano e facevano nulla, limitandosi ad incassare.
Possedevano dunque a titolo personale lussuose ville a Londra, hotel, e importanti pacchetti azionari nella catena di ristioranti Chili’s, nelle fabbriche automobilistiche Hyundai e Skoda e nella Vodaphone. Il che dà forse una chiave in più alla ostilità verso il clan Mubarak che è stata da ultimo manifestata da Naguib Sawiris, il proprietario di Wind. Ma anche alla Vodaphone si erano lamentati, perché durante la rivolta il governo egiziano li avevas costretti a inviare sms pro Mubarak. Sia Mansour Amer, che ha il franchising dei 19 ristoranti Chili’s dell’Egitto, sia Dina Ghabbour, che ha la concessionaria Hyundai del Cairo, hanno smentito ogni connessione. Ma va detto che le informazioni non si riferivano esplicitamente ai rami egiziani della catena. Davidson aveva fatto anche una stima delle varie componenti della fortuna di famiglia. Hosni avrebbe avuto 17 miliardi, la moglie Suzanne 5 miliardi e il secondogenito Gamal 10 miliardi. Secondo il Guardian, gran parte di quei soldi sarebbe stata messa al sicuro in banche svizzere o della City di Londra. Ma il clan avrebbe posserduto anche proprietà in quantità tra Londra, Parigi, Madrid, Dubai, Francoforte, il Mar Rosso, varie città degli Usa. Negli Stati Uniti, in particolare, la società immobiliare del rais, la Alaa Mubarak, avrebbe avuto proprietà in zone di pregio di Los Angeles, Washington e NewYork. Ma oltre agli immobili, il patrimonio comprenderebbe anche denaro in contanti, assets finanziari
vario tipo e anche due yachts dal valore complessivo di 80 milioni di dollari.“Mubarak ha uno stile di vita molto dispendioso con molte case in tutto l’Egitto”, aveva detto sempre a Abc News lo scrittore Aladdin Elaasar, autore di un libro che si intitola L’ultimo faraone: Mubarak e il futuro incerto dell’Egitto nell’epoca di Obama. Quanto a Ben Ali, un simbolo della “Rivoluzione dei Gelsomini”è stato il recupero della sua Ferrari: una 599 GTB gialla da 12 cilindri del valore di 300.000 dollari, che è stata portata a Tunisi con una ruspa. L’Unione Europea ha poi deciso di congelare i beni dell’ex-presidente, la Svizzera ne ha bloccati i fondi, l’Arabia Saudita in cui si è rifugiato ha limitato al minimo la sua capacità d’azione, la Tunisia ha disposto un’indagine ed ha arrestato ben 33 membri del clan Ben Ali, ma l’ammontare effettivo di questa fortuna è rimasto sul vago. La Banca Centrale ha smentito di aver dato alla first lady Leila una tonnellata e mezzo di oro prima della sua fuga, ma comunque non avrebbe oltrepassato un valore da 45 milioni di euro.
Sherpa, Transparency International e la Commissione araba dei diritti umani, le tre ong che hanno depositato a Parigi contro Ben Ali e il suo entourage una querela per storno di fondi pubblici, abuso di beni sociali, abuso di fiducia e riciclaggio aggravato commesso da associazione a delinquere, hanno parlato di una somma stimabile tra i 5 e i 10 miliardi di dollari: strategicamente distribuiti tra America Latina, Canada, Golfo Persico e Sud-Est Asiatico. Oltre alla famiglia, però, c’erano i clan: i Ben Ali e i Trabelsi, il clan della moglie. In particolare, l’avvio del processo di nazionalizzazione della Banca Zaituna ha implicato l’inizio del processo di riappropriazione della Princesse El Materi: la potente holding di Mohamed Sakher El Materi, marito della figlia di Ben Ali e deputato. Estesa dall’import di auto all’agricoltura passando per immobiliare, crociere, finanza normale e islamica, media, telecomunicazioni, appena a novembre aveva speso 1,2 miliardi di dollari per acquistare metà di Tunisiana: l’operatore di telefonia mobile creato dal già citato Sawiris.
Ma parecchio sulle fortune dei dittatori si è saputo grazie a quella che in Svizzera è stata ribattezzata Legge Duvalier. Il processo che aveva portato alla sua approvazione era partito poco più di un anno fa, e il voto definitivo dei deputati c’era stato a settembre. Dunque, è in teoria una mera coincidenza, se la Legge Federale per la Restituzione dei Valori Patrimoniali di Origine Illecita di Persone Politicamente Esposte, questo il suo nome completo, è entrata in vigore proprio mentre le rivolte a catena nel Mondo Arabo me davano subito una massiccia occasione di applicazione. Senza contare il tentativo di tornare ad Haiti che ha fatto l’ex-dittatore Jean-Claude Duvalier: proprio colui il “onore”del qua-
Le reali entità di questi enormi patrimoni sono state scoperte soltanto grazie alla cosiddetta “legge Duvalier”, una norma svizzera che impone la restituzione dei beni solo quando sono legittimi le il provvedimento è stato informalmente ribattezzato. Ma a volte la Storia ha le sue astuzie. Comunque, la legge era stata formulata in Svizzera proprio per correggere le lacune giuridiche che avevano impedito di restituire ad Haiti i fondi dei Duvalier, pur congelati dal 1986. Anche prima della sua entrata in vigore, però, il 19 gennaio il presidente svizzero Micheline Calmy-Rey ne aveva anticipato gli esiti disponendo il blocco dei fondi sia della famiglia Ben Ali; sia del presidente della Costa d’Avorio Laurent Gbagbo. Adesso, con questa legge gli ex-dittatori o loro familiari che intendono recuperare il denaro dei propri conti dovranno dimostrare che la loro provenienza è lecita. In effetti, è da una quindicina di anni che la Svizzera ha iniziato questa nuova politica, arrivando a restituire l’equivalente di 1,350 miliardi di euro. Quasi la metà nel 2003, con i 627 milioni di Ferdi-
Dall’alto in senso orario: Papa Doc, alias Duvalier (Haiti); Muammar Gheddafi; Khalifa bin Zayed Al Nahayan (Eau); Teodoro Obiang Mbasogo (Guinea Equatoriale); Hosni Mubarak (Egitto); Fidel Castro (Cuba); Kim Jong-Il (Corea del Nord); Hassanal Bolkiah (Brunei); Ben Ali (Tunisia); Abdallah Al Saud (Arabia Saudita); Robert Mugabe (Zimbabwe)
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nando Marcos ridati alle Filippine. Nel 2005 furono dati alla Nigeria 508 milioni dei conti di Sani Abacha. E altre somme minori furono restituite nel 2005 all’Angola, nel 2006 al Perù, nel 2007 al Kazakistan, nel 2008 al Messico, nel 2009 al Congo e nel 2010 appunto 5,7 milioni a Haiti. Ma nel 2009 gran parte dei soldi del defunto dittatore del Congo Mobutu Sese Soko erano invece finiti ai familiari, per via di un cavillo. Da cui la nuova legge, che dà al governo svizzero 10 anni per confiscare e restituire questo tipo di somme: a patto comunque che ci sia collaborazione giudiziaria col Paese cui bisogna restituire i soldi; e che il Tribunale Federale definisca lo Stato “fragile”, la corruzione del regime “notoria” e l’arricchimento del dittatore “enorme”.
I soldi, inoltre, dovranno essere utilizzati per migliorare la qualità della vita dei cittadini, per rafforzare il sistema giudiziario e per lottare contro il crimine. Governo federale e Cantoni possono inoltre trattenere fino al 2,5% della somma a titolo di rimborso spese, ed è pure garantito che nessuno svizzero correrà mai il rischio di finire in carcere. Le stime di questi giorni e le risultanze della Legge Duvalier svizzera hanno comunque finito per mettere in mora una speciale classifica che Forbes aveva fatto nel 2006 su “fortune di re, regine e dittatori”. Primo era infatti allora arrivato il re dell’Arabia Saudita Abdullah ben Abdulaziz, con 21 miliardi. Seguivano il sultano del Brunei Haji Hassanal Bolkiah con 20, l’emiro di Abu Dhabi Khalifa bin Zayed Al Nahyan con 19, quello di Dubai Mohammed bin Rashid Al Maktoum con 14, il principe del Liechtenstein Hans Adam II con 4, Alberto II di Monaco con 1, Fidel Castro con 900 milioni, il presidente della Guinea Equatoriale Teodoro Obiang Nguema Mbasogo con 600, la regina Elisabetta con 500 e Beatrice d’Olanda con 270. Stime più recenti avevano aggiunto 8 miliardi a Gheddafi, 4 miliardi per Kim Jong Il e almeno mezzo miliardo per Robert Mugabe. Ma appunto questa cifra di Gheddafi viene ora moltiplicata per 15. E viene il dubbio che bisognerebbe moltiplicare per 15 anche tutte queste altre stime.
politica
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Solito balletto alla Camera durante le votazioni per il Milleproroghe. E Di Pietro insulta il governo
Sparate sul presidente Ennesimo attacco a Fini: «C’è un’anomalia», dice Cicchitto. La replica: «Sì, ma non sono io» di Riccardo Paradisi
ROMA. Giornata turbolenta a Montecitorio. Giornata di bagarre in aula durante le votazioni per il milleproroghe dove la maggioranza supera un’altra prova ed ottiene la fiducia sul decreto legge, ma non riesce a sfondare quota 316, vale a dire la metà più uno dell’assemblea, fermandosi a quota 309, anche se con le undici assenze registrate oggi il centrodestra sarebbe potuto arrivare a 320 voti. Epicentro della dura polemica che s’è scatenata a Montecitorio il conflitto istituzionale sollevato dalla maggioranza contro la presidenza di Gianfranco Fini, accusata di non essere sopra le parti. Anche se in mattinata il presidente della Camera era intervenuto in difesa del governo contro gli eccessi di Antonio Di Pietro che metteva in relazione palazzo Chigi col palazzo assediato del dittatore di Tripoli. «Questo governo – aveva detto Antonio Di Pietro - ormai è chiaro, è come il governo di Gheddafi e noi abbiamo il dovere di liberarcene dato che è del tutto simile al governo libico». Parole che Gianfranco Fini ha duramente rimproverato all’ex Pm: «Onorevole Di Pietro, mi permetto di intervenire irritualmente perché, specie in giorni come questi, non si possono fare paragoni di questo tipo. Non può essere consentito in quest’Aula di paragonare un governo democraticamente eletto, per quanto possa essere avversato, a una feroce e spietata dittatura come quella di Gheddafi. In giornate come queste, credo che utilizzare termini corrispondenti alla realtà sia un dovere per tutti». A
tro il presidente della Camera rampogna anche i rappresentanti del governo per la rottura del protocollo: «La seduta non può riprendere finché il governo non è seduto e la prego di riferire al ministro per i Rapporti con il Parlamento che è senza precedenti quello che sta accadendo quest’oggi» aveva detto a Laura Ravetto, sottosegretario per i Rapporti con il Parlamento, al suo rientro in Aula dopo la sospensione della seduta, decisa da Fini proprio per l’assenza del rappresentante dell’esecutivo. Un richiamo quello di Fini che si attira la reazione del capogruppo del Pdl Fabrizio Cicchitto: «La situazione è istituzionalmente insostenibile, lei si trova in una situazione di contrasto tra l’essere presidente della Camera e leader politico».
La controreplica della terza carica dello Stato è immediata: «Concordo con lei, la situazione è istituzionalmente insostenibile». Ma Fini naturalmente non si riferisce a se stesso: nell’intervista all’Espresso di questa settimana e alla puntata di Annozero il presidente della Camera ha auspicato le dimissioni del premier e detto che, per quanto riguardava lui stesso e il suo ruolo istituzionale, «non ho vinto la presidenza della Camera per concorso». Per la verità Cicchitto aveva cominciato dalla mattina ad attaccare Fini: «Ha tutto il diritto di fare il leader politico – aveva dichiarato – ma fare il presidente della Camera è un’altra cosa: il presidente della Camera non è una persona che fa politica e chiede un giorno si e uno no le dimissioni del presidente del Consiglio. È un vulnus istituzionale». Ma per Fini, in aula, ne ha anche il rappresentante dei Responsabili Bruno Cesario «la maggioranza di governo si rinsalda per la mancanza di una alternativa possibile». E a chi lancia accusa nei confronti dei Responsabili, tra cui lo stesso Fini, replica: «Noi non abbiamo appartamenti a Montecarlo» e rivolgendosi direttamente al presidente della Camera: «Ci aspettiamo una parola chiara di condanna per l’aggressione che stiamo subendo, altrimenti sarà chiaro, se già non lo fosse, che lei non e’ presidente di tutti noi». Scocca la sua freccia anche un ex finiano come Silvano Moffa, passato ai Responsabili lo scorso 14 dicembre: «È indubbio che negli ultimi giorni il livello della polemica politica ha superato il livello di guardia. Fini, nelle sue ultime uscite e negli attacchi alla maggioranza e al premier, è andato sicuramente oltre le righe». Fonti parlamentari attribuiscono a una strategia e non al caso questo fuoco concentrico su Fini. Il mandato ad aprire una campagna politica contro il presidente della Camera sarebbe dello stesso Berlusconi: «C’è bisogno di reagire perché offusca il lavoro che fa il governo tutti giorni. Dobbiamo essere capaci di spiegare alla gente il lavoro dell’esecutivo». Oggi Berlusconi che parteciperà di persona al congresso del Partito Repubblicano potrebbe intervenire di novo sul tema. Intanto Benedetto Della Vedova è il nuovo capo gruppo di Futuro e libertà. Lo ha eletto all’unanimità il gruppo, dopo l’indicazione data dal leader di Futuro e libertà Fini in seguito all’assemblea costituente di Milano.
Sui banchi dell’esecutivo non c’era nessuno nel corso della discussione sul decreto: «È un fatto senza precedenti» aveva detto Fini. E subito il gruppo dei “responsabili” ne ha chiesto le dimissioni usare le stesse argomentazioni di Di Pietro, pur nell’incandescenza, ormai ordinaria, ma ieri particolarmente acuta, della polemica politica era stato solo Marco Ferrando, del Partito Comunista dei lavoratori con un comunicato farneticante che è, in fondo, un invito all’insurrezione: «È ora di intraprendere la via di un’aperta ribellione popolare che imponga a Berlusconi le dimissioni. È l’unica via ’realista’. Utopico - ha aggiunto Ferrando - è pensare che il governo venga messo in minoranza in un Parlamento di nominati o corrotti».
Nel suo intervento Di Pietro era tornato anche sulla vicenda della compravendita di parlamentari, tornata alla ribalta dopo le dichiarazioni del deputato Gino Bucchino che aveva detto di avere ricevuto un’offerta di 150 mila euro in cambio del suo passaggio dal Pd all’area della maggioranza. Il capo dell’Idv era addirittura arrivato - come Ferrando – a rivolgersi direttamente alla piazza: «Queste persone si debbono vergognare. Ci sono fatti gravissimi che abbiamo segnalato alla magistratura. Reati che si stanno consumando e che non possono essere ”identificati”solo perché non è un reato la vendita della funzione parlamentare. Voi potete mandare a casa Berlusconi perché lui non si dimetterà mai, perché non potete chiedere ad Alì Babà di consegnare la chiave della cassaforte». Ma Fini non s’è limitato a bacchettare Di Pie-
Letta prova a frenarlo. Ma lui: «Piace anche alla sinistra»
E il premier scherza sul Bunga Bunga Alla conferenza stampa a palazzo Chigi per la creazione della Fondazione Zeffirelli di Marco Palombi
ROMA. Nel giorno in cui l’ennesimo peones del Pdl trasloca tra i “Responsabili”- si tratta del deputato pavese Carlo Nola, il nono “prestito” - e tramite il gioco dei resti stabilizza la maggioranza in una delle commissioni in bilico (presumibilmente la Bilancio), un Silvio Berlusconi particolarmente allegro porta il “Bunga Bunga” in Parlamento e nella sala stampa di palazzo Chigi. D’altronde, nell’eterna pochade in cui vive il nostro presidente del Consiglio questo non accade a caso, ma è il frutto di una studiatissima strategia mediatica: si accenna alle proprie marachelle (per usare una delle perle del lessico berlusconiano), si abitua il pubblico ad ascoltarle, le si rende dicibili, ma senza mai ammetterle. Checché ne dicano quelli che fanno campagna contro il neopuritanesimo, infatti, il premier non ha mai rivendicato uno stile di vita libertino, al contrario sostiene che «nulla di men che commendevole» è mai accaduto nelle cene con le ragazze tenute «nella casa in cui vive anche mio figlio». Buttare lì un Bunga Bunga ogni tanto, dunque, serve a entrare in connessione non razionale con la sua audience: strizza l’occhio a quella parte del Paese a cui quel genere di comportamenti piace, tranquillizza ironizzando quelli che non vogliono credere che paghi decine di ventenni per fare sesso. «Allora facciamo martedì o mercoledì?», arringava dunque le deputate in Transatlantico dopo aver ottenuto la fiducia della Camera sul Milleproroghe: «Martedì? Va bene. E allora martedì tutti da me per un Bunga Bunga...». Risate tra i presenti, nonostante Michaela Biancofiore abbia sentito il bisogno di precisare con una collega: «Sul Bunga Bunga scherzava, eh...».
D’altronde il Cavaliere, oltre al “resto”parlamentare regalato ai Responsabili, ha motivi assai per scherzare ed essere allegro: in questi giorni le società familiari che controllano l’impero Berlusconi hanno chiuso l’ennesimo bilancio d’oro staccando al nostro un assegno per dividendi da 118 milioni di euro (altri 544
politica
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Giorgio La Malfa: «L’esecutivo si occupa solo dei problemi del premier»
«Se le intercettazioni pesano più dei conti...»
«Con il decreto il governo voleva correggere i tagli lineari: ma non si fa sviluppo in questo modo» di Franco Insardà
ROMA. «Il Nuovo Polo per l’Italia deve essere
restano nella pancia delle holding a disposizione del premier tra riserve disponibili e liquidità). Con quei milioni di motivi per essere felice, uscito dalla Camera, Berlusconi s’è presentato a palazzo Chigi mentre si teneva una conferenza stampa per la creazione della Fondazione Zeffirelli. E lì, dopo aver scherzato con Gianni Letta e scompigliato i capelli al sottosegretario Giro, è tornato a ridicolizzare il processo che lo attende a Milano (forse): «Sapete che anche la sinistra vuole venire al Bunga Bunga? Oggi sono entrato in Parlamento e mi hanno accolto al grido Bunga Bunga, che poi vuol dire: andiamo a divertirci, a ballare, a berci qualcosa». Poi, simpaticamente, si è paragonato a Francisco Franco rifiutando un confronto tv con gli avversari proposto da Sky e ha chiuso nello stile egolatrico che è il suo registro più vero: «Credo che nessuno possa governare meglio di me». Per chiudere, il tradizionale battibecco con un giornalista dell’Unità, validamente coadiuvato stavolta da una Polverini in versione vagamente coatta. Qualche ora prima, tanto per non farsi mancare niente, Berlusconi aveva per così dire parlato di politica incontrando le deputate del Pdl in vista di una riunione pubblica che si terrà il 5 marzo a Roma: «Vi assicuro che quella telefonata l’ho fatta in buona fede - ha spiegato - Non ho commesso alcun reato ed ero obbligato a farla per evitare un incidente diplomatico. Sarei venuto meno ai miei doveri se non avessi chiamato in Questura a Milano». Sì, perché il premier non si riferiva a un importante colloquio con un leader internazionale, ma al famigerato colpo di telefono del 27 maggio per far rilasciare la sua amica minorenne arrestata per furto. Quest’inchiesta, ha detto ancora il Cavaliere prima di sparare qualche numero a caso, è solo l’ennesimo capitolo di una persecuzione giudiziaria: «Ho speso 340 milioni di euro in avvocati, calcolate che Mondadori ne vale 360». Non sono mancati, nei colloqui di ieri alla Camera, anche gli altri evergreen: un attacco alla Consulta («ci boccia tutte le leggi, è una situazione insostenibile: ora basta, dobbiamo reagire, io sono stufo») e uno pure a Fini per par condicio («qui alla Camera ci viene impedito di portare avanti i provvedimenti»), cui sono seguite le pubbliche critiche al traditore del fido Cicchitto in aula. Niente di preoccupante, comunque, visto che secondo un lancio dell’Ansa Tremonti e Scilipoti, divisi dall’anatocismo bancario, hanno fatto pace: il governo può andare avanti.
molto compatto nel definire una piattaforma di politica estera, economica e sociale che contribuisca allo smottamento di questa maggioranza di governo. Dobbiamo cioè diventare interlocutori della parte più seria dell’attuale maggioranza che è consapevole del fatto che continuando così l’Italia va a fondo con un Berlusconi arroccato in una specie di bunker come i leader dei paesi nordafricani. Questa maggioranza dovrà convincersi che la leadership del Cavaliere è sostanzialmente finita dal punto di vista delle idee innovative e che Berlusconi è ormai un uomo solo e assediato». È questa la ricetta che Giorgio La Malfa ha in mente per il futuro politico del Nuovo Polo per l’Italia e sulla quale ha invitato i suoi compagni di percorso a concentrarsi avendo ben chiara la difficoltà dell’esecutivo alla guida del Paese. Onorevole La Malfa lei ha definito il Milleproproghe pasticciato. Si tratta di un piccolo provvedimento disorganico che contiene al suo interno alcune misure necessarie di proroga e una serie di provvedimenti tampone. Continua a mancare, ma è un problema di fondo del governo, l’impostazione della politica economica. Con la Finanziaria si prevedono soltanto dei tagli, mentre con il Milleproroghe si fanno delle piccole correzioni a quei tagli. Lo politica economica e di sviluppo non si fa certamente con il Milleproroghe. Su quali cardini si dovrebbe basare la politica economica? Non serve soltanto il freno, occorrono anche l’acceleratore e il volante. Nel governo il ministro dell’Economia fa il suo dovere di freno, ma mancano sia l’acceleratore sia il volante. Manca cioè la guida del presidente del Consiglio che si occupa di altro, perché non è nelle condizioni mentali di occuparsi di questi problemi del Paese: è distratto e superficiale, ma soprattutto ha una serie di guai che lo espongono. Per un Mezzogiorno così in difficoltà non arrivano buone notizie anche dal Milleproproghe. Mentre la Lega si porta a casa una violazione delle normative comunitarie sulle quote latte i signori “responsabili”che sostengono il governo, quasi tutti del Sud, non portano a casa nulla. Non avendo alcuna dignità come gruppo politico sono destinati a essere sbertucciati dal Carroccio perché, come disse giustamente, Bossi il governo ha bisogno degli ascari meridionali e questi sono proprio quelli del gruppo dei “responsabili”.
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La Lega intanto sta per incassare anche il federalismo municipale con il quale, a detta del ministro Calderoli, saranno premiati i sindaci virtuosi. Basterebbe sentire il sindaco di Varese della Lega, sicuramente un virtuoso, per capire come siano colpiti tutti da questa riforma. Il motivo per il quale ho votato contro, come l’Udc, al federalismo sta nel fatto che non si può fare senza prevedere prima una riforma degli enti locali che preveda non solo l’abolizione delle province, ma anche l’accorpamento dei comuni o a consorzi per i servizi locali. Invece si parla di una riforma che avrebbe bisogno di un consenso ampio della quale si ignorano i costi e gli effetti. Il governo, però, ha sempre dichiarato di aver ottenuto il plauso dell’Europa per le condizioni della nostra finanza. Sta per essere approvato dalla Ue un impegno di rientro in pochi dal debito pubblico che per l’Italia, con il suo debito pubblico al 120 per cento, rappresenta un nodo scorsoio alla gola della nostra economia. Su questi argomenti il governo non dedica alcuna attenzione, perché il punto principale della sua agenda è la giustizia. Quale italiano serio può pensare che regolamentando le intercettazioni si dà slancio allo sviluppo economico? Berlusconi, qualche giorno fa, ha parlato di un governo che va a passo di lumaca per colpa dell’assetto istituzionale L’assetto istituzionale è diventato più efficace negli ultimi anni, grazie alla riduzione dei partiti e altre modifiche, ma l’Italia degli anni ’50, ‘70 e ’60 con i governi centristi e di centrosinistra, molto più instabili di quelli attuali, cresceva del 4, 6, 8 per cento. In cinquanta anni, però, cinquanta governi hanno trasformato l’Italia, con la riforma politico-istituzionale della Seconda Repubblica che ha avuto tre governi in quindici anni il Paese non cresce più. De Gasperi, Moro e gli altri, con tutte le difficoltà di quegli anni, hanno consentito il nostro sviluppo, mentre se oggi non ci si riesce il problema non è istituzionale, ma politico. Intanto è iniziato il congresso del Partito repubblicano e lei non c’è? Sono sospeso per una deliberazione dell’assemblea nazionale assolutamente illegittima che mi impedisce di partecipare, per la prima volta dopo cinquanta anni, alla vita del mio partito, affidato a un gruppo dirigente che sta facendo un danno molto grosso. Sta in un furgoncino legato al carro di Berlusconi e ne seguirà la fine.
Chi gestisce oggi il Pri ne ha fatto un furgoncino legato al carro di Berlusconi, che cadrà con lui
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economia
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L’affinità tra il presidente di Confindustria e il segretario generale della Cgil ROMA. Per Susanna Camusso la mobilitazione «è una scelta di responsabilità». Per Emma Marcegaglia in questa fase «è più utile essere uniti sui grandi temi». Una è pronta a organizzare il quinto sciopero generale da quando al governo c’è Silvio Berlusconi. L’altra vuole riportare sotto l’egida di viale dell’Astronomia il pallino delle relazioni industriali, con la speranza di rimettere su altri binari la politica economica del Paese. Gli obiettivi di Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia sono diversi, forse opposti da quando la segretaria della Cgil ha deciso di ricalcare le posizioni della Fiom. Eppure le loro organizzazioni hanno bisogno l’una dell’altra per evitare che il sistema delle relazioni industriali italiane – legato com’è a due esponenti di questo governo come Sacconi e Tremonti – non crolli in maniera fragorosa assieme con il centrodestra.
Emma prova a salvare Susanna dalla Fiom Prove tecniche d’intesa per evitare il tracollo delle relazioni industriali di Francesco Pacifico
Perché se è vero che la Cgil non ha condiviso quasi nulla delle innovazioni lanciate nell’ultimo triennio – fosse la nuova contrattazione o la riforma del pubblico impiego – è altrettanto chiaro che l’alternativa all’attuale modello è l’anarchia. Un’anarchia ben esemplificata dalla decisione della Fiat, della prima azienda del Paese, di regolare i rapporti di lavoro negli stabilimenti di Pomigliano e Mirafiori fuori dal contratto nazionale. Secondo Confindustria la sede per ritrovare è il tavolo del-
La Marcegalia chiede alla Camusso di «essere uniti sui grandi temi». E rilancia il suo tavolo sulla produttività per gestire il dopo Berlusconi. Via libera con brivido al Milleproroghe la crescita aperto a fine anno proprio in viale dell’Astronomia e che dovrebbe produrre ricette su temi complessi come la produttività, il fisco o le infrastrutture. Ed un tavolo che vede assieme tutte le associazioni datoriali (dall’Abi alle piccole e medie aziende di Rete imprese Italia) e che soprattutto è fuori dall’asse privilegiato tra governo e Cisl e Uil. Quello che in questi anni ha scritto la politica economica del Paese. E tanto basta per corso d’Italia per uscire dall’isolamento nel quale sta vivendo. È per questo che 48 ore fa, dopo aver sentito la Camusso parlare della necessità di sciopero generale, la Marcegaglia ha spiegato che «la logica da seguire non è quella di rompere, di fare accordi separati, ma vogliamo relazioni sindacali più efficienti e moderne». Ma in questo clima è difficile
ottenere risultati se la controparte è debole come l’attuale governo. Ieri, alla Camera, dove è stato approvato in seconda lettura il Milleproroghe (sulla fiducia i sì sono stati 309 contro 287 no) la maggioranza è stato battuta su un ordine del giorno presentato dall’Udc contro l’anatocismo. Contro il governo anche il gruppo dei Responsabili, per i quali ci sarebbero «le condizioni per valutare l’opportunità di intervenire in tempi rapidi, anche attraverso eventuali interventi normativi, negli eventuali contenziosi con gli istituti bancari». Così, per spingere i newcomers del centrodestra a dare il via libera al Milleproroghe, è stato necessario un incontro con Giulio Tremonti. Durante il quale il ministro dell’Economia ha dovuto dare la sua parola che saranno presto cambiate le norme sull’anatocismo inserite nel testo. Di conseguenza, con un governo senza una reale maggioranza e l’ennesima spada
In alto, e da sinistra, Susanna Camusso ed Emma Marcegaglia. Ieri hanno lanciato un appello per lavorare assieme per la crescita del Paese. In basso, Giulio Tremonti di Damocle giudiziaria sul collo del premier, è difficile per la Camusso e per la Marcegalia andare oltre la gestione del contingente. Di più, paradossalmente è già un successo tenere la barra ferma ed evitare tensioni sociali.
Ed è questo che stanno facendo le leader di Cgil e Confindustria: la Camusso provando ad evitare una frattura con la Fiom e che va ben oltre la perdita di qualcosa come 150mila tessere; la Marcegaglia tranquillizzando la base (soprattutto le piccole aziende del centro Italia dove le tute blu di Landini sono forti) che non si seguiranno gli strappi di Marchionne al contratto dei metalmeccanici. In questa logica, ieri a un convegno organizzato a Bologna dall’associazione Nens, la Camusso ha spiegato che «il governo, non avendo una
politica sulla crescita, cerca di rendere più deboli i soggetti che la chiedono». Quindi ha mandato a dire alle imprese che «il patto per la crescita deve avere la premessa che le parti si riconoscono e si rispettano, e non che l’altro soggetto dica chi è il sindacato con cui trattare. Ci sono tutte le condizioni per discutere. Bisogna, però, fermare i guastatori». Cioè Sacconi e Cisl e Uil bollati in passato come «sindacati aziendali». Dal canto suo, e dalla stessa platea, Emma Marcegaglia ha promesso che il tanto contestato dalla Cgil metodo Marchionne «non diventerà un modello di relazioni industriali. Quante altre aziende hanno fatto questa cosa? Zero. Fiat aveva una specificità, le relazioni non hanno funzionato, basti pensare che c’era un assenteismo altissimo. Moltissime imprese hanno trovato la propria via in un altro modo. Bisogna però anche essere molto chiari che non bisogna più ragionare con vecchie logiche perchè la competizione è durissima, dobbiamo lasciare l’ideologia da parte, rispettandoci reciprocamente, ma lo dobbiamo fare».
E conciliante – anche se ferma sul no – la Marcegaglia lo è stata anche su quello sciopero generale che per la Camusso è una «scelta responsabile». Per la presidente di Confindustria «lo sciopero è un diritto, e quindi la Cgil se decide di farlo non ho niente da dire. L’unica cosa che ho da dire è che se lo fa per stare vicino alle imprese, forse preferirei che lo facesse aiutandoci e supportandoci sulla produttività. E si possono fare tante cose anche senza cambiare l’articolo 41 della Costituzione». Giorgio Santini, numero due della Cisl, non teme che la sua confederazione finisca isolata di fronte a questi nuovi equilibri. «Penso che nei tentativi della presidente Marcegaglia ci sia soltanto l’ennesimo tentativo di offrire una possibile convergenza su questioni di carattere più o meno generale». Da Confindustria fanno sapere che non ci sarà un ritorno agli anni di Montezemolo, quando c’era un filo diretto con Guglielmo Epifani. E sicuramente non cambieranno gli scenari fino a quando la Marcegaglia non scaricherà la Fiom. Al momento la Camusso, invece, sta spingendo per una riforma della rappresentanza tutto incentrato sui referendum preventivo e che non piace neppure ai riformisti della sua confederazione. E ha bollato come una vergogna l’accordo sul salario integrativo nel pubblico impiego che per Cisl e Uil è un successo.
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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Nicola Fano ire che fatta l’Italia ci fossero da fare gli italiani era solo una mezza verità. D’Azeglio sapeva che l’Italia come entità geografica preesisteva all’idea stessa di Risorgimento. E sapeva che a quell’idea preesisteva un complesso e articolato concetto identitario (culturale e linguistico) chiamato Italia. Di Dante e della sua meravigliosa utopia sappiamo tutto (e pure D’Azeglio lo sapeva). Ma il fatto è che molto prima del Risorgimento l’Occidente sapeva a che cosa si era riferito Dante: tanto per dire, Shakespeare parla di «Italia» e di «italiani» assai spesso. E non solo per definire gli infingardi in Otello o i preti in Enrico VIII. E se lo sapeva Shakespeare era perché lo sapeva il suo pubblico a volte anche rozzo e ignorante del primissimo Seicento inglese; figurarsi gli uomini informati e di cultura! Questo per dire che la mitica massima di D’Azeglio era «a effetto» ma molto ambigua: Italia e italiani erano già bell’e fatti. Semmai andavano educati. A questo, appunto, all’educazione degli italiani avrebbero pensato i migliori intellettuali di questo nostro meraviglioso e contraddittorio Paese. I quali dalla metà dell’Ottocento fino agli anni Settanta dello scorso secolo si sono preoccupati non solo di unire il popolo e di educarlo e di informarlo, ma anche di dargli l’opportunità di valutare la ricchezza prodotta dall’Unità a fronte della povertà indotta dalla Disunità. Insomma: in quest’ottica il catechismo laico prodotto da Cuore di De Amicis equivale all’acculturazione di massa propugnata Con dalla Rai di Bernabei; l’emotività artistica condivisa il suo mitico di Grassi-Strehler manuale operò
D
Omaggio a Pellegrino Artusi cent’anni dopo
una rivoluzione democratica: annullare i privilegi che fino ad allora l’arte culinaria custodiva e fornire a tutti le stesse opportunità di mettere insieme, in modo soddisfacente, corrisponde alil pranzo l’utopia educativa di con la cena Giovanni Gentile, ecc. Gli
L’ITALIA FATTA DALLE MASSAIE Parola chiave Multiculturalismo di Sergio Belardinelli Adele, se il soul ha il cuore rotto di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Gli azzardi di Boine, maestro in ombra di Francesco Napoli
Benjamin e l’incantesimo dell’omino gobbo di Vito Punzi 127 ore e 99 minuti à bout de souffle di Anselma Dell’Olio
esempi possono essere molti e varii: ma forse uno di quelli sui quali ci si è soffermati di meno è l’idea di «massaia italiana ideale» accarezzata a lungo da Pellegrino Artusi. Senza ago e filo ma con casseruole e padelle. E allora proviamo a vedere l’Italia da questa prospettiva. La Scienza in cucina e l’Arte di mangiare bene di Pellegrino Artusi uscì per la prima volta nel 1891 a spese del proprio autore il quale su se stesso fece il migliore degli investimenti dopo molte disavventure editorial-letterarie (ma questo lo vedremo a suo tempo).
Le Madonne operose del devoto Vitale di Marco Vallora
l’italia fatta dalle
pagina 12 • 26 febbraio 2011
Il libro di Artusti è assai più che un ricettario e contiene in sé una deliziosa ambiguità che ne fa per ciò stesso un manifesto di italianità. Perché la cucina non è una scienza nel modo più assoluto: piuttosto è un’arte. E mangiar bene non è davvero un’arte: piuttosto un’opportunità o, accordandosi con i principi del nutrizionismo positivista, questa sì una scienza. Ecco: mescolare e confondere le carte è sommamente italiano, ora, centocinquanta, centovent’anni fa e sempre. La cucina non è scienza perché è imperfetta e non bastano le formule matematiche a fare una buona pietanza: tante e troppe sono le circostanze che devono verificarsi perché un piatto, ancorché scientificamente riprodotto in cucina, sia un buon piatto. Anzi. La filosofia di Artusi è opposta alla scienza che egli furbescamente finge di propugnare: seguendo pedissequamente le mie indicazioni - ripete in moltissime occasioni - forse non preparerete pietanze sublimi, ma certo farete la vostra figura. È un invito che Artusi fa a tutti indistintamente, evitando di perorare la perfezione delle sue indicazioni (semmai il contrario) e sapendo che nella cucina è fondamentale l’estro. L’arte insomma. Mentre chi mangia non è che abbia da bearsi di questa eventuale arte, ma solo gli può capitare di coglierla, se ha strumenti per farlo.
Per dire: di fronte a Guernica di Pablo Picasso non tutti hanno la capacità (o la voglia o la possibilità) di districare l’arte dall’orrore. Lo stesso - per esempio - si può dire del risotto d’oro di Gualtiero Marchesi. E sostenere che Marchesi non è Picasso, in questa circostanza, non ha senso né interesse. Il risotto d’oro di Marchesi bisogna avere la capacità di capirlo, ma anche la voglia e soprattutto l’opportunità di apprezzarlo. Se non andate nei suoi ristoranti, potere solo sentirne parlare. Se non andate a Madrid non potete vedere Guernica, potere solo sentirne parlare. O guardarne una foto, il che fa della pittura, nell’epoca della riproducibilità, un’arte «popolare» e della cucina, in ogni tempo, un’arte elitaria. Ebbene: proprio contro quest’essenza elitaria Artusi lancia gli strali di quella che egli stesso solo polemicamente chiama scienza. Un atto destinato ad annullare i privilegi e fornire a tutti le medesime opportunità culinarie (ditemi voi se non è rivoluzionario tutto ciò). Diciamo allora che la «scienza» di Artusi pare quella comunistissima teorizzata da Brecht nel suo Vita di Galileo: come è noto, nell’edizione originale del testo, Brecht insistette sul tormento di Galileo costretto a porre un freno alla propria «voglia di conoscenza» per avere anno IV - numero 8 - pagina II
salva la vita e poter continuare segretamente nei suoi studi. Mentre nell’adattamento che l’autore medesimo fece per lo storico allestimento del Berliner Ensemble (in piena utopia comunista) Galilei biasima se stesso perché non è riuscito a mettere la sua scienza al servizio del popolo. Mentre Artusi la sua «scienza» la pone a disposizione di chiunque voglia acquistarla direttamente dall’autore a modico prezzo. Il che spiega, comunque e in modo definitivo che Pellegrino Artusi non era comunista. Anzi era un bel signore paffuto e moderato che aveva a cuore la mescolanza delle tradizioni culinarie della Penisola che solo da pochi anni dalla compilazione della sua opera s’era identificata in uno Stato unitario. Banalmente: l’Unità d’Italia a tavola. Maccheroni e polenta, acciughe e radicchio, carciofi fritti e risotti. Anche se poi, sotto sotto, la vocazione «democratica» di Artusi (per quanto può essere democratico un pranzo, legato
com’è alle risorse, siano esse alimentari o economiche) viene fuori da uno degli aspetti più apertamente rivoluzionari del suo manuale. Prendiamo il metodo del quasi coevo Auguste Escoffier, per intenderci. Il grande cuoco francese compone la propria apoteosi con un metodo ad escludendum: non tutti possono essere buoni cuochi. E comunque Escoffier non dà indicazioni per oneste massaie bensì regole ferree per chef di primissimo livello. Non vi dice come cucinare un buon arrosto ma come preparare un fondo da accompagnare a una carne arrosto o a un volatile o a un pesce che poi cucinerete un po’ come vi pare. Perché quel che conta è il fondo, ossia l’intingolo che dovrà insaporire di sé il manzo o la faraona o l’orata che gli vorrete accompagnare.
Intendiamoci: Escoffier insegna a inventare combinando sapori base (per quanto si possa insegnare a inventare, in ogni contesto possibile) mentre
Artusi vi insegna a soddisfare l’esigenza quotidiana di mettere insieme il pranzo con la cena. E lo fa tenendo a mente sia le necessità del palato, sia quelle delle buona società, sia quel-
le dell’igiene alimentare (e solo in questo ultimo ambito, appunto, la sua diventa una «scienza» applicata alla cucina). Giacché, figlio perfetto del suo secolo, Artusi è un positivista dell’alimentazione, un cuoco che vi invita a limitarvi nel mangiare non solo per gustare più pienamente i sapori ma anche - se non soprattutto - per non pregiudicare il vostro apparato digerente e, in ultima analisi, il vostro corpo. Nozioni di base della chimica, in Artusi, si mescolano a quella che dopo di lui sarebbe stata l’educazione domestica nell’ordinamento scolastico gentiliano: libro e uncinetto. Il tutto saltando da Sud a Nord nella ricerca di sapori e specificità; talché la fonduta diventa cacimperio oppure il cous cous diventa cuscussì. Dunque, ora sono cent’anni che Artusi morì a Firenze quando aveva novantun anni (il che testimonia, per inciso, che la sua arte culinaria si rivelò anche sana su lui medesimo). Da vent’anni aveva pubblicato il suo libro sublime che, va
massaie detto, nessun editore gli volle stampare al punto che Artusi lo vendeva - per così dire - in contrassegno: ossia dietro diretta richiesta del lettore. E così, con questa semplice formula artigianale, se ne stamparono dozzine di edizioni per un venduto che sfiorò le centomila copie. Qualcosa di impensabile per l’Ottocento. Ma se vi capiterà di leggere La Scienza della cucina e l’Arte di mangiar bene vi colpirà anche un altro elemento: il divertimento letterario dell’autore che sovente cita Dante Alighieri per dare sostanza ai sapori che vuole evocare (incredibile come la Divina Commedia sia zeppa di riferimenti alla buona cucina!).
Già, perché Pellegrino Artusi, nato a Forlimpopoli nel 1820 e morto a Firenze nel 1911 nella vita era un letterato. Di lui si ricordano una serie di sfortunati libri sulla letteratura italiana tra i quali una Vita di Ugo Foscolo che testimonia per altro verso la passione dell’autore per l’italianità. Salvo che questo suo meravigliosamente lodevole sentimento il nostro lo sublimò più descrivendo sartù, cibreo e cassoela che analizzando i versi dei Sepolcri. Il che dimostra solo che a fare un popolo la poesia ha il medesimo peso delle uova sode, delle rigaglie di pollo e degli zampetti di maiale. Che è un modo molto concreto per capire che si vive di poesia come di cibo. Ditelo a quelli che ci governano oggi e si faranno una disgustosa risata in faccia alla nostra storia (e al povero Pellegrino Artusi). Una risata in faccia a Artusi se la fece anche Stefano Pelloni, detto il Passatore, brigante cortese, che rubava ai ricchi per arricchire non i poveri ma se stesso. Il Passatore all’inizio del 1851 occupò Forlimpopoli, ne depredò i possidenti (gli Artusi fra costoro) e istituì in paese una cosa a metà tra il granducato e il regno dei briganti. Sicché Pellegrino trentenne fuggì e ricominciò la vita da capo. Il che spiega il passaggio dalla Romagna alla Toscana e la predilezione per la cucina emiliana nel suo libro mastro. Si fece commerciante, Artusi, e così cogliendo similitudini e differenze dei suoi clienti compilò il suo sontuoso elenco di meraviglie culinarie. È da notare, comunque, che egli raggruppò i suoi saperi culinari (naturalmente tutte le testimonianze concordano nel dire che era un cuoco eccellente) solo intorno ai settant’anni, come un uomo cui non resti altro che vivere e godere nella memoria. A meno di non voler dar retta a quell’altra possibilità: che Pellegrino Artusi volesse davvero fare gli italiani dopo che altri avevano fatto l’Italia. Anche perché sapete dove abitava in Firenze il nostro? In Piazza Massimo D’Azeglio. Più chiaro di così…
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26 febbraio 2011 • pagina 13
MULTICULTURALISMO e dinamiche socio-culturali seguono una logica solo in apparenza paradossale. Può accadere così che la crescita in termini di libertà individuale si accompagni con la crescita di colossali pericoli per la libertà, che l’emancipazione individuale faccia crescere il bisogno di legami sociali, che il relativismo e il multiculturalismo, divenuti ideologia dominante, finiscano per ridare vigore alla tematica dell’universalità e alla ricerca di ciò che è comune in tutte le culture; precisamente, credo, quanto sta accadendo nella nostra epoca. Se fino a ieri la parola multiculturalismo indicava semplicemente l’esistenza di diverse culture, oggi la stessa parola, da un lato, si è arricchita di significato, dall’altro si è fatta equivoca, fino a scadere in cattiva ideologia. Al pluralismo delle culture si è aggiunta la consapevolezza del pluralismo insito in ogni cultura; è sempre più difficile pensare la cultura come un monolite chiuso in se stesso; l’universalismo chiuso che contrassegnava le culture del passato è stato soppiantato da un «universalismo sensibile alle differenze», come lo chiama Habermas, capace di interagire, di imparare e di essere tollerante con l’«altro». Siamo passati insomma dalla incommensurabilità delle diverse culture a una concezione della cultura sempre più consapevole della porosità dei suoi confini, della pluralità dei suoi valori e, in ultimo, dei suoi ineludibili tratti «multiculturali». Tutto ciò ha contribuito senz’altro ad arricchire il significato del multiculturalismo. Al tempo stesso, però, ne ha anche smascherato certe tendenze degenerative: ad esempio l’identificazione di multiculturalismo e relativismo, quasi che ogni cultura, ogni valore, ogni stile di vita debbano essere considerati sullo stesso piano; oppure l’uso della pluralità delle culture come una sorta di arma per gettare discredito sia sulla tematica dell’universalità, sia, più ancora, su quella dell’identità culturale, quasi che nell’epoca della globalizzazione tali tematiche siano declinabili soltanto come esclusione dell’altro o come imposizione all’altro di parametri non suoi. Siamo insomma di fronte a qualcosa che assomiglia molto alla fuga da se stessi, anzi all’odio per se stessi e per la propria identità culturale, denunciato alcuni anni fa da Benedetto XVI e ripreso nelle scorse settimane dal premier inglese David Cameron con parole molto preoccupate.
L
Come ben sappiamo, siamo ormai passati dall’epoca moderna all’epoca postmoderna. E l’epoca postmoderna fatica non poco a conciliarsi con l’idea dell’universalità, ritenuta incapace di rendere ragione della molteplicità e della eterogeneità dei discorsi e quindi delle culture. Il posto che ieri occupavano le grandi narrazioni universalistiche (l’illuminismo, l’idealismo, il materialismo storico) è stato preso oggi dal pluralismo dei giochi linguistici, tutti ugualmente possibili, aperti alla differenza e alla molteplicità. Nessuno è più in grado di prescrivere un ordine delle cose; tutto è diventato fluido e, almeno in apparenza,
Luci e ombre di una dinamica sociale divenuta ideologia dominante, occasione di arricchimento ma con pericolose tendenze degenerative. Amministrabili solo con un criterio: la dignità della persona
La differenza indifferente di Sergio Belardinelli
Al posto delle grandi narrazioni universalistiche (l’illuminismo, l’idealismo, il materialismo) troviamo oggi il pluralismo dei giochi linguistici, tutti possibili, aperti alla diversità e alla molteplicità. Nessuno è più in grado di prescrivere un ordine delle cose; tutto è diventato fluido e ugualmente legittimo ugualmente legittimo. Ma se sul piano della molteplicità delle culture, la modernità sbagliava nel voler sottomettere differenze e eterogeneità ai suoi parametri universalistici - l’esperienza del colonialismo ne è forse l’espressione più violenta e più amara -, oggi si corre il rischio di cadere nell’errore opposto, di ritenere cioè che non ci sia più alcun criterio in base al quale poter misurare la validità dei diversi discorsi e delle diverse culture. Ogni discorso, ogni cultura sembrano rivendicare una sorta di riconoscimento a priori, quali che siano i loro contenuti concreti. In questo modo
però, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è detto che venga facilitato il dialogo o lo sviluppo di una sempre più necessaria sensibilità per le differenze. Può accadere piuttosto che, proprio perché tutto vale allo stesso modo, le singole posizioni si irrigidiscano, oppure che la differenza diventi, in quanto tale, indifferente. Dobbiamo dunque uscire sia dalla logica moderna dell’assimilazione, sia da quella postmoderna e ideologicamente multiculturalista dell’equivalenza e dell’indifferenza (la logica denunciata da Cameron), sapendo che il dialogo tra le culture è co-
munque tanto necessario quanto difficile. Necessario, perché il mondo si va facendo sempre più piccolo e perché le culture sono sempre più mescolate nei diversi contesti socio-culturali; difficile, perché la consapevolezza che tutte le culture abbiano qualcosa di importante da dire non si è sviluppata allo stesso modo in tutte le culture, né può significare una sorta di neutralità o di diritto da parte di qualsiasi cultura ad affermare la propria differenza, comunque questa si manifesti. La mia idea, in estrema sintesi, è che per fronteggiare questo problema abbiamo una sola risorsa: la dignità della persona umana. In quanto espressione umana, infatti, in ogni cultura è l’uomo che si esprime; quindi, al di là delle differenze culturali, anche quelle più profonde, c’è in ogni cultura un tratto comune. L’uomo deve essere il vero metro di misura, il rispetto della dignità dell’uomo il vero criterio normativo di ogni cultura. Altro che relativismo multiculturalista. Con le parole dell’enciclica Fides et Ratio, potremmo anche dire che «le culture, quando sono profondamente radicate nell’umano, portano in sé la testimonianza dell’apertura tipica dell’uomo all’universalità e alla trascendenza». Universalità dell’umano e pluralità delle culture: ecco dunque i poli all’interno dei quali soltanto ha senso porre il problema di un dialogo autentico tra le culture.
Per certi versi trovo sconcertante che una cultura come quella occidentale, la quale senz’altro ha sviluppato al proprio interno una sorta di naturale disposizione al dialogo e alla discussione, oggi fatichi così tanto a districarsi nei suoi conflitti. Ma la cosa forse si spiega, se pensiamo alla stanchezza da cui ci siamo fatti prendere. Parole come ragione, verità, giustizia, dignità dell’uomo, che pure stanno alla base della nostra cultura liberaldemocratica, sono diventate poco a poco quasi impronunciabili nella loro dimensione universalistica. Il multiculturalismo ideologico le ha praticamente neutralizzate tutte. Al loro posto troviamo la retorica di un «cosmopolitismo» senza identità e di un’idea di libertà, la quale, declinata in termini individualistici come libertà di fare semplicemente ciò che ci piace, anziché ciò che dobbiamo, non riesce più a distinguere i nostri diritti dai nostri desideri. Ma poi è arrivato il brusco risveglio dell’11 settembre 2001; è arrivata la biopolitica, la costrizione a prender partito su questioni di vita e di morte; sono arrivate le grandi migrazioni, la crisi economica mondiale e altro ancora. Si è incrinata così l’aura debole che schiacciava come un macigno la nostra cultura e, seppure smarriti, abbiamo ricominciato a cercare, a guardarci intorno, ma anche dentro. Abbiamo compreso, così almeno spero, che indebolendo le nostre radici e la nostra identità, odiando addirittura noi stessi e le nostre radici cristiane, contrariamente a quanto pensano i più accaniti sostenitori del pensiero debole e del multiculturalismo, non si rende il dialogo più semplice, né più fruttuoso; ci si mette semplicemente in balia dei fanatici.
pagina 14 • 26 febbraio 2011
MobyDICK
Pop
musica
RIACCENDETE LIGABUE! (Meglio elettrico che acustico) di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi dele, i suoi dischi, è abituata a catalogarli. «La ragione che mi ha spinto a intitolare il primo 19», ha spiegato, «è stata quella di scandire ciò che mi era successo e ciò che ero allora». Dopo 19, scritto e inciso quando aveva diciannove anni, ecco 21: composto e registrato a quell’età, esce a poca distanza dal 5 maggio quando di anni ne compirà ventitre. «Tratto le cose in maniera diversa, ora. Sono più paziente, onesta, tollerante. E più consapevole dei miei difetti. Credo sia una questione fisiologica, dovuta al tempo che passa. È per questo motivo che ho intitolato l’album 21». Oltre a farmi dare i numeri, dannazione, questo è un disco che mi ha messo knock-out: perché Adele Laurie Blue Adkins, nata nel quartiere londinese di Tottenham, è di una bravura mostruosa. Talento puro. Di anni ne aveva quattro, quando ha cominciato a cantare scimmiottando le Spice Girls e le Destiny’s Child di Beyoncé. Poi, crescendo, ha colto fior da fiore Ella Fitzgerald ed Etta James. Le prime canzoni, le ha fatte ruotare su MySpace. Hometown Glory, Chasing Pavements, Cold Shoulder e Make You Feel My Love, sono stati i suoi singoli d’oro. Adesso, se le domandate chi ha ispirato 21 (primo in Inghilterra con più di novecentomila copie vendute, mentre 19 è rientrato in circolazione al quarto posto superando il milione), vi risponderà snocciolando una raffica di nomi: Wanda Jackson, Yvonne Fair, Andrew Bird, Mary J Blige, Mos Def, Elbow, Tom Waits, Kanye West… E se le chiedete di descrivere il suo stile, vi butterà lì heartbroken soul che tradotto significa soul music straziata ma non le rende giustizia, visto il repertorio tutt’al-
A
Jazz
zapping
a queste parti siamo contro le svolte acustiche. Bob Dlylan si presentò ai suoi tempi al festival di Newport con una band elettrica (e che band, si trattava di The Band) e si beccò bordate di fischi. Invece la mossa classica del rockettaro o presunto tale per accreditarsi è il concerto acustico. Come dire: non so solo fare chiasso, sono un musicista anch’io, sono un sublimato del rock. La sindrome della svolta acustica è iniziata alla fine degli anni Ottanta con la moda dei dischi Unplugged. Per un Eric Clapton, che in fondo la musica acustica l’ha sempre frequentata, abbiamo avuto un celebre disco dei Nirvana unplugged. Niente aggiungeva, anzi qualcosa toglieva agli splendidi Nirvana punk, elettrici e grandi esecutori, ma il maglioncino infeltrito di Kurt Cobain fece epoca (probabilmente è stata una delle cause del suo suicidio). Una vena non eletttrificata percorre la storia del rock, certo. I Led Zeppelin con cordame, tamburelli e strilli hanno fatto capolavori sinceri. Da Gallows Pole a Bron y Aur stomp. Ma non tutti hanno legittimità, e per esempio un Vasco Rossi si guarda bene da fare concerti unplugged. Ma il Ligabue da Correggio no. Anzi in chiusura dell’ennesima (non fossero bastate le precedenti) tournée acustica (con bouzuki, tamburello, chitarra dobro ecc.) leggiamo sul Mattino che il buon Luciano è stato stregato dal teatro San Carlo di Napoli, e che ne ha ricevuto una vera e propria «sindrome di Stendhal». Verrebbe da commentare con un parla come magni. Ma forse siamo stati contaminati anche noialtri da una certa sublimazione linguistico-filosofica. Speriamo gli riattacchino la corrente.
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Adele, se il soul ha il cuore rotto
tro che plumbeo. Etichette a parte, il benedetto 21 (descritto da un critico inglese come sottofondo ideale a un pigro pomeriggio in una caffetteria) che Adele ha registrato a Malibu e a Londra e fatto produrre dal leggendario Rick Rubin (Johnny Cash, Jay Z, Red Hot Chilli Pepe da Paul pers) Epworth (Plan B, Bloc Party, Florence And The Machine), è nero come la pece. Rolling In The Deep, già di per sé un classico, è un viavai di gospel e blues che si danno di gomito. Idem, in chiave gospel, per quanto riguarda One And Only (che fila fin lassù, in Paradiso) e Take It All (magistrale botta e risposta di voce e pianoforte). Rumour Has It e I’ll Be Waiting, invece, sono rhythm & blues da assalto alle coronarie: diabolico e terribilmente sensuale il primo, fiati a cascata e retrogusto anni Sessanta per il secondo. Adele, con la voce, ci dà dentro che è un piace-
re. Senza sforzarla, però, come succede a tutte le altre che vogliono far vedere quanto sono brave. Lei è brava e basta: al naturale. Ascoltatela, ve lo consiglio, quando si mette sulle tracce di He Won’t Go, impeccabile soul music innervata dal funky. Centellinatela, quando si concede un po’ di respiro accoccolandosi su un pianoforte accarezzato da morbide orchestrazioni (capita in Turning Tables); quando si screpola, da Rod Stewart in gonnella, nella maiuscola ballata Don’t You Remember; quando si specchia (spontanea, senza narcisismi) in Set Fire To The Rain: altra ballad, ma più energica. Ed è impossibile resisterle, quando pesca Lovesong dal repertorio dei Cure (anno di grazia 1989: aveva appena compiuto un anno!), la rallenta e la trasforma in bossanova. Eppoi, con Someone Like You, chiude in bellezza il disco tratteggiando cromatismi vocali alla maniera di Annie Lennox. Un’autentica forza della natura. Ecco cos’è Adele. Adele, 21, XL Recordings/Spin-Go!, 16,90 euro
Quell’indimenticabile “suono Shearing”
unedì 14 febbraio a New York è scomparso un altro grande del jazz: il pianista inglese, ma naturalizzato americano, George Shearing, nato a Batterstea (Londra) il 13 Agosto del 1919, che dopo aver debuttato in Inghilterra, si era trasferito negli Stati Uniti già al termine della seconda guerra mondiale. Aveva trascorso gli anni di guerra a Londra suonando nel Quintetto che Stéphane Grappelli aveva formato nel 1940 quando aveva abbandonato Django Renhardt e il celebre Quintetto dell’Hot Club di Francia. Quel giovane pianista, cieco dalla nascita, aveva affascinato il violinista francese che lo volle immediatamente con sé e, con Grappelli, suonò per cinque anni incidendo anche i primi dischi. Al termine del conflitto quei dischi giunsero negli Stati Uniti e Leonard Feather, uno dei critici più impor-
L
di Adriano Mazzoletti tanti dell’epoca - anch’egli inglese - che viveva negli Stati Uniti già da molti anni, lo invitò a New York imponendolo all’attenzione del pubblico e degli stessi musicisti. Fu Sarah Vaughan la prima, dopo averlo ascoltato durante un concerto con Buddy De Franco, a volerlo immediatamente come pianista. Nel 1949 - a trent’anni - abbandonato il ruolo di sideman, costituì un complesso che per i successivi vent’anni fu ammirato e imitato tanto da divenire uno dei più famosi al mondo.
Il «suono Shearing», non solo proveniva dal suo modo di suonare il piano, spesso a «blocchi di accordi», ma dalla formazione stessa del complesso, con chitarra, vibrafono, contrabbasso e batteria. L’enorme successo era anche dovuto alla musica dai colori tenui e sfumati. Il jazz proposto da questa formazione aveva il suo carattere distintivo nei particolari impasti sonori tra il pianoforte e il vibrafono e negli unisono di chitarra, piano e vibrafono con cui venivano esposti, all’inizio e alla fine
di ogni esecuzione, i temi eseguiti. Quelle composizioni, oltre trecento, conquistarono anche un pubblico enormemente vasto. Motivi che entrarono nel repertorio di una infinità di orchestre e musicisti e, per anni, Lullaby of Birdland, il suo maggior successo, To be or not to bop, Midnight Moon, So this in Cuba, vennero eseguiti in tutto il mondo. Ma Shearing diede nuova e indimenticabile forma a molti standard della canzone americana, come September in the Rain, Sweet and Lovely, The Continental e centinaia d’altri, e i suoi dischi sono stati venduti a milioni di esemplari. Successivamente si esibì anche con orchestre sinfoniche distinguendosi, negli ultimi anni, per l’impegno profuso nella didattica musicale. Malgrado la sua straordinaria popolarità, si esibì raramente in Europa e una sola volta in Italia.
arti Mostre
MobyDICK
26 febbraio 2011 • pagina 15
aveva già sostenuto l’imprescindibile «cronista d’arte bolognese» Malvasia, nel Seicento, che per visionare le celebri Madonne di Vitale degli Equi, così «bononiense» da esser passato alla storia quale Vitale da Bologna, e così noto per le sue dolci opere di devozione mariana, da esser ricordato quale «Vitale delle Madonne», per ammirarlo in epoca ben più tarda bisognava piegare verso qualche chiesa del circondario, «ove per lo più si vedono innocentemente relegate talora simili anticaglie, non per altra colpa, che del cresciuto lusso, ambizioso di quel primo posto, che dentro la Città a queste diedesi». Colpa della Moda, come sempre. Del resto già Malvasia (mentre Vasari spavaldamente ignorava questa «enclave» più provinciale, ma certo non meno nobile e fiorente di quella fiorentin-giottesca. Semplicemente più affabile e meno aulica) era stato sedotto da quell’inedita dolcezza «psicologica» degli incarnati, cantando d’«una non più veduta delicatezza e gratia ne’ volti». Addirittura rifacendoci a una sorta di angelicata «cucina» delle epidermidi sante, lattee. «Ammirandosi un colore di carne così fresco, che sembra di pochi giorni impastato, e il manto di un azzurrino così vivace e brillante, che somiglia (massime tutto tempestato di griffi d’oro, quasi fiammeggiante di stelle) un pezzo piuttosto di cielo, che un finissimo oltremare». Magnifico: come se il pittore, non già stesse lì a mesticar con vasariana «fatica» i chimici colori di bottega, ma piuttosto avesse divinamente accolto un «pezzo» di sera piovuta, con far di cherubino, sulla sua tavola, «griffata» d’oro.
L’
ma-adolescente), anche Longhi favoleggia, immaginando. Ch’egli stia prelevando dal gotico «gueridon» un flaconcino d’essenza: «rara invenzione di un Bimbo che sceglie fra le ampolline sullo sgabello, come se, a guisa di principino orientale, stesse ascoltando dalla madre la prima lezione di arte dei profumi». Ora, la preziosità d’una mostra minima ma preziosissima di epifanie, come questa, al Museo Medievale di Bologna, così con passione condotto da Massimo Medica, ch’è anche il garante di questo pellegrinaggio fra Madonne operose, non sta soltanto nell’affilamento filologico, che sottrae magia al trasognare, da miniatura persiana Mille e una Notte, d’un Longhi, per avvederci che qui il Bambino, molto più casalingamente, collabora con una Madonna «dell’ago» e al dipanarsi frusciante del filo dal rocchetto. Ma sta proprio nel fatto di accostare alcuni apporti preziosi, e di ristudiare alcuni testi smembrati (protagonisti d’un gusto gotico-provinciale, ma d’altezza europea, «avignonese») in una di quelle auspicabili mostre-studio, che ruotano intorno a un unico quadro da indagare, e che l’immodesto Umberto Eco, in una modesta mostra sulla Venere d’Urbino, credeva d’avere inventato da sé, lamentando che non fossero mai esistite, prima del suo apporto provvidenziale. No, esistono, per fortuna: hanno ben poche ambizioni economiche, e sono quanto mai remunerative, anche per il pubblico colto, che accorre. Né riman spazio per elencare i doni di questo festoso convegno di Madonne, intorno all’eburnea ma umanissima Vergine dei Denti, ove forse s’intravvede, e pour cause, la martire-sdentata Apollonia. Sedotti da quell’angelo, che caracolla appoggiandosi alla cornice d’affresco, o quel pellegrino smagrito, con la vasta conghiglia-copricapo, «caricato».
Le Madonne operose del devoto Vitale
Archeologia
di Marco Vallora Ecco perché il «bolognese» Pasolini, che voleva con Longhi portare a termine la sua tesi (poi perduta su un trenino friulano) e che pure lui dipingeva, senza colori, con pezzi di vita (cenere di sigaretta, mollica o macchie di vino) si sentiva così affine a questa dolce pittura domestica, che il suo Maestro giudicava straziata tra le folate d’un «vento secco ed acuto», che veniva di Bisanzio, e quello «lirico e profumato, favoleggiante, delle corti regale e papale di Parigi e Avignone». Con il disorientato Vitale, sorpreso per via (da buon pellegrino del gusto, in quel vorticare di spifferi d’influenze) che si fa, tra molti, l’«iniziatore di quei sensi, talora fra sé contrastanti, di vivace naturalezza, di
grazia costumata, di improvvisa favoleggiante liricità, che dal Piemonte a Milano, a Verona a Treviso e Udine, fanno del Trecento padano un mondo estetico incomparabile certamente a quello di Toscana, ma non perché più scarso, soltanto perché diverso». Ed è divertente, perché anche Longhi, di fronte quella toccante e fragile Madonna, planata sin qui dal Poldi Pezzoli (in quella postura umile di paesana, che s’accrocchia sulla nuda terra per ascoltare una favola, con la portatile Santa Caterina, protettiva, alle spalle del forbito baldacchino, che brandisce il frammento di ruota, quasi una lira e il Bambino divertito che fa le fusa, solleticato sotto il mento dalla mam-
Lo strano destino delle monete di Akragas
n po’ tutti abbiamo pensato prima o poi che gli oggetti siano dotati di un’anima, che improvvisamente possano sparire, nascondersi, farsi rubare, causare eventi più o meno nefasti. O che, molto semplicemente, vogliano vivere in pace, dimenticati da tutti». E forse questo pensiero di Andrea Camilleri accompagna anche una piccola moneta (la favolosa Akragas) al centro della vicenda La moneta di Akragas (Edizioni Skira, 136 pagine, 12 tavole a colori, 15,00 euro), narrata dallo scrittore siciliano con la sua abilità linguistico-letteraria e il fascino dei suoi romanzi storici. E ancora una volta Camilleri ci descrive alcuni scorci della Sicilia aprendo finestre temporali che distano millenni. La storia inizia intorno al 406 a.C., quando Akragas (l’antica Agrigento) cade in mano ai Cartaginesi e il mercenario Kalebas, al servizio d’Akragas e agli ordini dallo spartano Deixippos, scampato all’eccidio portando con sé un sacchetto di monete d’oro che rappresentano il compenso per otto mesi circa di lavoro, cerca di fuggire. «Sono monete appositamente coniate, da un lato c’è un’aquila ad ali aperte e una lepre, dall’altro un granchio e un pesce. Ognuna pesa 1,74 grammi d’oro, comprensivo anche della quotidiana razione di grano, perché negli ultimi mesi
«U
di Rossella Fabiani ad Akragas è stato più facile trovare oro da fondere che frumento ed equivale a sei giorni di paga. Nel sacchetto di Kalebas di queste monete ce ne sono trentotto», racconta Camilleri. Kalebas, morso da una vipera, muore, ma prima sparge le sue monete scagliandole lontano. Millenovecentotto: «Quasi duemilacentosettant’anni dopo Akragas, un’altra città siciliana viene distrutta dalle fondamenta. Ma stavolta si tratta di cause naturali», dice Camilleri. La città è Messina e la causa il terremoto. Drammatiche vicende legate a questo evento portano alla luce una moneta tanto piccola quanto di grande valore: è una delle monete coniate ad Akragas considerata l’unica del suo genere, probabilmente una di quelle di Kalebas, e alla fine arriva nelle mani dello Zar, numismatico per passione. Millenovecentonove: passa soltanto un anno e uno zappatore trova un’altra moneta d’oro, dal valore inestimabile. Ma lui non lo sa e neppure può rendersi conto che questo ritrovamento sarà la sua sfortuna. Il suo desiderio sarebbe regalarla al medico del paese, il dottor Gibiliri, per sdebitarsi con lui - notoriamente appassionato collezionista, affasci-
nato dalla straordinaria scoperta - ma per una serie di coincidenze sfortunate la moneta sembrerà sfuggire a questo destino. «La spiegazione è questa - dice il medico del paese - che la moneta esprime la sua volontà di non riapparire al mondo, di tornarsene nuovamente dentro quella terra dalla quale un giorno l’hanno tirata fuori. E comunque, in linea subordinata, di non andare mai, per nessuna ragione, a finire nella sua povera collezione. È come se un’imperatrice si rifiutasse giustamente di abitare in una stamberga». E come accade nelle favole, anche la storia di Camillieri ha una sua morale che - senza troppo scomodare gli oggetti fatati della tradizione - mostra come la moneta diventa strumento e scopo ultimo di una serie di eventi. Non tanto l’oggetto utilizzato per realizzare sogni quanto quello che può servire a modificare la realtà, sia negativamente che positivamente. Dipende dalle mani in cui si trova, da chi la utilizza. Se l’uomo che ne viene in possesso è buono la moneta farà del bene attraverso lui, viceversa potrà diventare strumento del male. Insomma, una moneta antichissima per i temi eterni dell’umanità: la distinzione tra ciò che è eticamente corretto e ciò che non lo è, la relatività del possesso dei beni materiali, il premio - non garantito a tutti, però, perché esiste sempre l’imponderabile - per coloro che sapranno gestire questi beni materiali con generosità e oculatezza. E infine la forza eterna del potere e la necessità di sottostare al volere di aristocratici e governanti.
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il paginone
BENJAMIN
e l’incantesimo dell’omino gobbo Il destino avventuroso dei suoi scritti sembra risentire dello sguardo di quello stesso personaggio che abitò la sua infanzia berlinese, e che rendeva le sue vittime inesorabilmente maldestre. E mentre in Italia escono un altro tomo delle Opere complete e i “Sonetti e poesie sparse”, in Germania si lavora alla ricomposizione del lascito dello scrittore-filosofo di Vito Punzi ifficile dire quanto sia in grado, ancor oggi, di suscitare interesse. Certo è che l’impegno di Einaudi non manca. Così negli ultimi anni l’opera di Walter Benjamin è tornata a fiorire. Si vedano le riedizioni di scritti narrativi come Immagini di città, Infanzia berlinese, di saggi brevi come Sull’haschisch, o di opere monumentali come I Passages di Parigi. È dal 2000 che l’editore torinese ha deciso di riprendere l’edizione completa dell’opera dell’ebreo tedesco; una riedizione avviata allora da Giorgio Agamben, ma interrotta dopo la pubblicazione di pochi volumi.
D
A garanzia della bontà dell’operazione, l’editore torinese ha chiamato a raccolta gli stessi cu-
ratori dell’edizione tedesca, Rolf Thiedemann e Hermann Schweppenhäuser, oltre ovviamente all’«interno» Enrico Ganni. Dopo la pubblicazione del primo volume, Opere complete I (2008), comprendente gli scritti
voluto confermare la scelta originaria di Agamben di compilare l’opera seguendo un ordine cronologico, vista la contrarietà degli curatori tedeschi, motivata dal fatto che le date di redazione dei testi sono spesso incerte e Benja-
ne Amburghese per il sostegno della scienza e della cultura. E tuttavia nel caso di Benjamin c’è da chiedersi che cosa s’intenda quando si parla di «lascito». Gran parte degli scritti del berlinese apparvero dopo la sua mor-
Difficile ricostruire la diaspora dei suoi testi: lasciati nelle case di Berlino e di Parigi, consegnati a Bataille o spediti ad Adorno, talvolta non sono stati neppure cercati. Altri invece si spera ancora di rintracciarli giovanili, quelli redatti cioè tra il 1906 e il 1922, tra i quali spicca il bellissimo saggio su Le affinità elettive di Goethe, ecco ora Opere complete III e Sonetti e poesie sparse, entrambi usciti nel 2010. Tutto bello e utile. C’è invece da chiedersi perché Einaudi abbia
min tornava più volte sullo stesso scritto. E proprio in relazione alle carte dello scrittore-filosofo meritano di essere ricordate alcune vicende a loro legate.
Nel 2008 Suhrkamp, l’editore tedesco, ha iniziato a pubblicare una nuova edizione critica dell’intera sua opera sotto il titolo Werke und Nachlass (Opere e lascito), finanziata dalla Fondazio-
te e dunque il destino della sua opera è stato sempre nelle mani degli editori, ciascuno dei quali si è comportato secondo le proprie convinzioni. Un problema, questo, aggravato dal fatto che non tutti i testi pubblicati in vita sono stati menzionati dall’autore e dunque accade ancor oggi che vengano rintracciati scritti sconosciuti (tra gli ultimi recuperati un’intervista rilasciata alla rivista polacca Wiadonosci Literacki nel 1927 con a tema la sua
traduzione in tedesco di Proust, pubblicata di recente dalla Frankfurter Allgemeine).
L’imponderabilità della situazione relativa al Nachlass benjaminiano è stata del resto confermata appena poco più di un anno fa con un numero speciale di Text und Kritik, nel quale i collaboratori dell’Archivio Benjamin di Berlino pubblicarono importanti documenti sulla storia del lascito: è stato così accertato, per esempio, che non è mai stato trovato (e neppure cercato) ciò che lo scrittore-filosofo lasciò nel suo ultimo appartamento berlinese nel 1933, quando decise di abbandonare la capitale. Ancora più impenetrabile è poi il destino delle sue carte parigine. Ciò che si conosce con certezza è la storia avventurosa di quei testi che Benjamin lasciò a Parigi nella sua ultima casa, in Rue Dombasle, quando nel giugno 1940 abbandonò la capitale per raggiungere Marsiglia. Quei documenti gli furono portati a Lourdes da quella Erna von Pustau che nel 1948 avrebbe poi pubblicato inIn alto, da sinistra: Walter Benjamin, Stefan George, l’Angelo necessario visto da Paul Klee, la tomba di Benjamin. A destra: le copertine dei libri recentemente editi da Einaudi
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se ne sono occupati hanno dovuto persuadersi della grande dispersione subita dal lascito di Benjamin. Una dispersione di carte che richiama alla memoria quell’essere «maldestro» così ben ricostruito da Hannah Arendt nel suo splendido saggio Benjamin: l’omino gobbo e il pescatore di perle (in H.A., Il futuro alle spalle, Il Mulino): tra i ricordi d’infanzia del berlinese a dominare era l’«omino gobbo» conosciuto in un libro per ragazzi. Era lui a dominare, poiché chi è oggetto del suo sguardo, ha scritto lo stesso Benjamin, «non fa attenzione» e «resta costernato davanti a un mucchio di cocci». La sua vita, ha spiegato la Arendt, «si potrebbe senza difficoltà raccontare come una serie di questi “mucchi di cocci”, e non c’è quasi dubbio che Benjamin stesso l’abbia vista così». Se questa è stata la sua vita, come poteva essere diverso il destino dei suoi scritti?
sieme a Pearl S. Buck il libro Dialoghi sul popolo tedesco. Oltre a questi, si sono conservati quelli che lo stesso Benjamin consegnò, sempre a Lourdes, alla sorella Nora prima di partire per Port Bou, da dove sarebbe dovuto uscire della Francia. Del tutto sconosciuto è invece ciò che venne requisito dalle autorità tedesche d’occupazione nell’appartamento parigino. Si sa per certo che venne trasferito in Germania e anche di recente Detlev Schöttker, esperto benjaminiano, ha sostenuto essere possibile rintracciare quel materiale, «poiché allora il sequestro degli oggetti di regola veniva documentato con estrema precisione». Una ricerca del genere, però, non risulta essere mai stata effettuata.
La rete delle persone che tra il 1940 e il 1942 a Parigi potevano essere informate circa il lascito di Benjamin era piuttosto fitta e oltre a Felix Noeggerath, sul quale ha indagato a lungo Gershom Scholem, va citato George Bataille, cui lo scrittore tedesco consegnò documenti che avrebbe voluto fossero affidati alla cura della Bibliothèque Nationale. In realtà una parte del materiale venne inviata nel 1947 ad Adorno, negli Usa, e dunque oggi si trova nell’Archivio berlinese di Benjamin. Ma anche in questo caso la storia sembra essere tutt’altro che chiusa. Bataille non
inviò tutto il materiale in suo possesso negli Stati Uniti. E nel 1981 fu Giorgio Agamben, allora curatore dell’edizione italiana delle opere benjaminiane, a trovare altri documenti a Parigi, nella Bibliothèque Nationale e presso la casa di Bataille. Cose di non poco conto, visto che tra gli altri scritti c’era anche una versione sconosciuta delle Tesi sul concetto di storia. Tutto chiarito? Neppure per sogno. Dando per assodato il fatto che Agamben si sia preso correttamente cura e abbia trasferito
Gravi sono state e continuano a essere anche le difficoltà che si affrontano nel tratteggiarne la personalità. Sempre con la Arendt, si deve riconoscere che per descrivere Benjamin «bisognerebbe fare un gran numero di constatazioni negative»: se ne deve cioè sottolineare l’enorme erudizione, ma si deve altresì dire che non era allievo di nessuno, si deve ricordare che lavorava sui testi, ma anche che non era un filologo; che era attratto dalla teologia, ma non era un teologo; che era un narratore, ma la sua massima ambizione era piuttosto produrre un’opera di sole citazioni; che ha tradotto Proust, ma non era un traduttore; che ha scritto sul barocco tedesco, ma non era uno storico della letteratura; che recensiva, ma non era un critico letterario. E quando si è trovato nella necessità di scegliere, è stata proprio quest’ultima l’unica definizione che ha cercato di dare di se stesso, volendo intendere più o meno espressamente il critico letterario come un alchimista. E
rappresentato da cinquanta sonetti, ordinati secondo una sequenza stabilita dallo stesso autore, mentre una seconda raccolta, di appena nove poesie, risulta avere come tratto comune il ricordo dell’amico di gioventù Christoph Heinle, suicidatosi poco dopo l’inizio della prima guerra mondiale. Un ultimo blocco di quattordici sonetti è ugualmente dedicato in prevalenza all’amico poeta e tuttavia venne distinto dallo stesso Benjamin dalle altre composizioni senza motivi evidenti. Heinle, una figura molto prossima alla sensibilità degli adepti del vate Stefan George, il berlinese l’aveva conosciuto nel 1913 durante gli studi universitari a Friburgo, e la loro intensa, seppur breve amicizia riconduce a una verità «scomoda» in buona misura ancora da mettere bene a fuoco: «la sconvolgente influenza di Stefan George», come la definisce Tiedemann, su Walter Benjamin. E non solo su di lui, se è vero che la critica più recente è portata piuttosto a estendere l’influsso del «sacerdote» della «Germania segreta» su un’intera generazione: «Per uno studio serio della storia letteraria - ha scritto Gert Mattenklott - c’era forse, tra il 1905 e il 1925, una scuola migliore di quella del circolo di George?». In uno scritto del 1928 (ora in Opere complete III, Einaudi, XIV-536 pagine, 90,00 euro), a proposito di George, Benjamin parla di una «scossa» che l’aveva raggiunto e aggiunge: «mai dalla lettura, ma sempre solo da quelle poesie che in certi momenti decisivi sentivo sulla bocca dei miei compagni di allora, e un paio di volte sulla mia stessa
Dal punto di vista poetico è indubitabile che Walter Benjamin subì l’influsso del “sacerdote” Stefan George. Nella cui cerchia dimorò «troppo a lungo per non arrivare a conoscerne un giorno anche l’orrore» integralmente i documenti consegnatigli, resta aperta la domanda «se dalla vedova Bataille gli venne dato effettivamente tutto» (ancora Schöttker). Ed è chiaro che se il dubbio si pone ancor oggi è in ragione delle difficoltà contro le quali i ricercatori cozzano nell’accesso ai lasciti dei citati personaggi. Qua e là, in corrispondenze varie, solo qualche accenno a «manoscritti in Svizzera», a «un commerciante di Parigi», a «due leggendarie valige provenienti da Sanremo». Una cosa è certa: tutti coloro che
a questa figura ci si può rifare ora per affrontare la sua non poco sorprendente produzione poetica (W. Benjamin, Sonetti e poesie sparse, a cura di Rolf Tiedemann, Einaudi, 228 pagine, 15,00 euro), fino a oggi ignota al lettore italiano e affidata per la quasi totalità alla traduzione di Claudio Groff. Stando alla testimonianza dell’amico Gershom Scholem, Benjamin si dedicò alla stesura delle sue poesie tra gli anni 1915-1925. Suddivise in tre blocchi, quello più significativo e cospicuo è
bocca. Legato a quei compagni non dalle sue poesie, ma piuttosto da una forza della quale parlerò un giorno. Era la medesima forza che alla fine mi separò da quell’opera». Lo stesso mancato ingresso di Benjamin nell’accademia ebbe una qualche relazione con il circolo georgiano (che, è bene ricordarlo, era frequentato non solo da aspiranti poeti, ma anche da critici, storici e scienziati di varia provenienza culturale). Il berlinese bruciò l’unica chance che ebbe di approdare alla
carriera universitaria scrivendo il saggio su Le affinità elettive di Goethe (ispirato dalla polemica suscitata dal Goethe di Friedrich Gundolf, altro adepto georgiano). Pensando al mondo universitario e culturale tedesco Benjamin parlò di «orrenda desolazione» e in questo ottenne molta più comprensione da Gundolf e dagli altri del circolo di Stefan George («la cui visione del mondo gli era molto familiare sin dalla giovinezza», ha scritto ancora la Arendt) che dai signori dell’«ufficialità». In virtù della sua problematica condizione di ebraotedesco, Benjamin si chiese anche perché all’interno del circolo georgiano ci fossero così tanti ebrei e la risposta che riuscì a darsi, nel 1927, fu questa: «Nella cerchia che nel corso degli anni Novanta si formò intorno a Stefan George per la prima volta si offrì agli ebrei la possibilità di porre in un fecondo rapporto con la Germania le loro tendenze conservatrici».
Per tornare alla scrittura poetica, Benjamin ha ammesso che l’influsso di George sulla sua vita fu «legato alla poesia nel suo senso più vitale», e che, per quanto preso da «sospetti e resistenze», venne attratto da quella «scienza sacerdotale della poesia» che era il tratto caratteristico del poeta del «nuovo regno». Lui stesso poi usa una metafora molto georgiana quando definisce composizioni come Il canto del nano o Il rapimento «poesie che nel massiccio della germanicità appaiono come quelle fenditure che secondo la leggenda si aprono solo ogni mille anni per concedere uno sguardo nelle viscere dorate della montagna». Benjamin dimorò «troppo a lungo» nel contesto delle poesie di George, per, come ha scritto lui stesso, «non arrivare a conoscerne un giorno anche l’orrore». E per quanto distacco abbia poi cercato, la raccolta einaudiana è lì a dimostrare che dietro il rigido schematismo dei suoi sonetti arde un «fuoco» che non è difficile definire d’ispirazione «georgiana»: «Ora il velo è scostato/ scruto il cuore del mondo/ come non dovremmo limpido/ vidi il fuoco là dentro palpitare/ quando circonfuso dal riflesso/ l’eterna fiamma che rischiara/ mi assale con gelido respiro/ mi sento ingannato nel profondo/ ero immerso nell’osservazione/ di un fuoco che se stesso cela/ l’universo sotto le sue ciglia/ non si è compiuto il mio destino/ accecato minacciava di scordare/ la sua vita quella a me concessa».
Narrativa
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Nemesi
a Weequatic
emesi era una dea greca. Secondo alcuni figlia di Zeus, secondo altri di Oceano e Notte. Némesis significa sdegno, indignazione, ma anche vendetta o castigo. Secondo il mito avvertiva: «E io avrò biasimo degli uomini». È proprio nell’accezione di castigo - così misterioso e insondabile - che Philip Roth ha scelto questa parola per intitolare il suo ultimo romanzo. Qualche critico, riferendosi all’insistenza dell’autore sul punto di rottura dell’uomo e sul mix di angoscia e humour, l’ha accostato a Kafka. È vero solo in minima parte. Il romanzo di Roth semmai ci fa venire il mente La peste di Albert Camus. Non occorre essere geni per mettere subito a confronto le tematiche, visto che quella di Roth è il flagello della poliomelite a Newark negli anni del secondo conflitto mondiale, una decina di anni prima della scoperta del vaccino. A far pensare contemporaneamente allo scrittore francese e a quello americano, che raccontano il contagio, la morte, i lutti, la paura e i pregiudizi verso presunti «untori», è anche il drammatico e dolorosissimo interrogativo sul ruolo e la responsabilità di Dio. La sonda di Camus va in profondità, quella di Roth non così tanto, semmai procede per imitazioni. Nel 1916 c’era già stata una grande epidemia di polio, a Newark. Mentre le forze armate americane arruolano i giovani per spedirli in Europa o in Estremo Oriente a combattere nazisti e giapponesi, il morbo ha una terrificante impennata. Pare scelga un quartiere piuttosto che un altro. Quello di Weequatic, ove c’è la Cancellor School e il più alto tasso di concentrazione di abitanti ebrei, è come un albero che attira i fulmini. Muoiono ragazzini di dodici anni e Bucky Cantor, ventitreenne insegnante di ginnastica ed educatore, assiste con sgomento crescente alla morte di Alan, un fuoriclasse in tutte le materie e con l’ambizione di diventare un nuovo Pasteur (ironia della sorte), di Herbie e di altri. Nessuno sa l’origine della malattia che attacca i muscoli e il sistema respiratorio, quindi in quasi tutti si fa strada la tentazione di trovare un capro espiatorio. Serpeggia tra case, strade e campi sportivi una sorta di caccia all’«untore», ignorando tuttavia quale sia il bersaglio, ammesso che ci sia. Bucky, con una tormentata storia genitoriale alle spalle, afferra l’ancora dei ricordi mi-
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Il bibliofilo
Ricorda Camus il romanzo di Philip Roth su un’epidemia di poliomelite a Newark. E riapre interrogativi sul ruolo di Dio di Pier Mario Fasanotti gliori: il nonno saggio che fino a quando morì insegnò al nipote la dignità, la nonna che dolcemente si è fatta madre. Ha, è vero, una deliziosa fidanzata, Marcia, ma l’oscuro senso di colpa intrecciato con un senso del dovere spinto e l’incalzare delle domande sui disegni del Creatore, lo spinge a cercare affannosamente il «perché» e il «che cosa fare». Philip Roth, con un linguaggio cronachistico sempre lontano da lirismi (talvolta risulta piatto), descrive be-
libri
Philip Roth NEMESI Einaudi, 183 pagine, 19,00 euro
ne il clima del lutto e della paura. Se da un lato c’è l’esaltazione della vitalità di Alan e della sua esistenza che pare a tutti invidiabile proprio perché «sconfinata», dall’altro c’è lo smarrimento di una città intera assieme alle grida animalesche di madri e padri. Chi è il colpevole? Da inventare: quindi spuntano gli atroci pregiudizi che le democrazie occidentali stanno combattendo proprio in quel momento. Sono gli stessi ebrei vittime e untori? È colpa di un gruppo di bulli italiani che al campo sportivo sputano e si vantano di voler infettare la comunità? Rimangono minacciosamente in piedi, oscillanti come fantasmi neri, le domande sulla «coscienza di Dio». L’autore anticipa in un certo senso il quesito che molti si posero dopo Auschwitz: «Ma come può un ebreo pregare un dio che ha fatto scendere una maledizione come questa su un quartiere di migliaia e migliaia di ebrei?». Bucky ha il tormento di trovarsi dinanzi al «divino come ostile al nostro essere qui», si guarda attorno e dentro di sé e non sa come affrontare «un demonio onnipotente che può inventare la polio». Sfiora la bestemmia, s’avvicina al rifiuto di un disegno superiore, e nemmeno l’amore per Marcia, quando scoprirà d’essere lui stesso involontaria fonte di contagio, avrà la forza di indurlo a guardare con speranza e serenità al proprio futuro. Roth riprende il personaggio Bucky venticinque anni dopo. Un ex alunno (sopravvissuto) s’indigna, affettuosamente: «Non ho mai conosciuto nessuno che tragga il tuo stesso conforto dal castigarsi!». Tuttavia nel vederlo solo, storpio e col giavellotto in mano, agguerrito nella sfida tutta personale, muscolare e di coscienza, dirà: «Ci sembrava invincibile».
Jacques Guérin, un proustiano ante litteram acques Guérin è stato uno dei più importanti bibliofili e collezionisti del Novecento. Titolare di una fabbrica di profumi e amico del drammaturgo Jean Genet, Guérin venne alla ribalta della scena internazionale quando, negli anni Novanta, quasi centenario, decise di mettere all’asta la sua straordinaria collezione di edizioni originali e autografi.Tra i cimeli raccolti nell’arco di una vita figurava anche il manoscritto originale di Une Saison en Enfer di Arthur Rimbaud, considerato fino a quel momento irrimediabilmente perduto. Guérin era invece riuscito nella miracolosa impresa di scovarlo presso un antiquario londinese nel 1938 e di acquistarlo parecchi anni dopo, quando riuscì a raggranellare la somma sufficiente per il grande passo. «È stato nel 1950 che il prezioso manoscritto è entrato nella mia biblioteca: non si è più mosso di lì. Non ne ho parlato con nessuno, volevo essere l’unico a godermi quel capolavoro!» raccontava compiaciuto il collezionista qualche anno prima di morire. Oltre ai poeti simbolisti Guérin aveva una spiccata predilezione per le opere di Proust. Una serie rocambolesca di circostanze lo mise nella condizione di allesti-
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di Pasquale Di Palmo re un’incredibile collezione di cimeli proustiani, comprendente manoscritti e lettere, prime edizioni e finanche oggetti appartenuti allo scrittore. Riuscì nell’intento di ricomporre, con i mobili originali, la stessa camera di Proust, compresa «la scialuppa», il letto in cui era stata composta gran parte della Recherche. Guérin riuscì perfino a mettere le mani sul cappotto appartenuto allo scrittore, diventato pressoché leggendario tanto da ispirare pagine di Cocteau e Morand. Queste e altre vicende sono ora raccontate, con dovizia di particolari curiosi, nel pregevole libro di Lorenza Foschini intitolato Il cappotto di Proust (Mondadori, 112 pagine, 17,00 euro) che riprende e amplia l’eponimo lavoro, uscito per i tipi di Portaparole nel 2008. La giornalista, che ha al suo attivo la traduzione di alcuni inediti proustiani pubblicati da Studio Tesi con il titolo Ritorno a Guermantes, ricostruisce le varie vicissitudini che portarono Guérin a formare la sua inimitabile collezione di rarità proustiane: dal casuale incontro nel 1929 con il chirurgo
Un’ossessione letteraria animata da un senso di missione, raccontata da Lorenza Foschini
Robert, fratello di Marcel, che sottopose il giovane Guérin a un intervento di appendicite, alla frequentazione con un rigattiere che, alla morte di Robert Proust, rilevò dalla vedova di quest’ultimo i mobili e altro materiale appartenuto a quello strano personaggio, sofferente d’asma, che trascorse gli ultimi anni dell’esistenza in una camera insonorizzata a cercare di fissare sulla pagina, con la precisione di un entomologo, i particolari di una memoria sfuggente. Jacques Guérin era ossessionato dalla figura di Proust (e non a caso il sottotitolo del libro è Storia di un’ossessione letteraria), tanto da far scrivere alla Foschini: «Quest’uomo così attaccato alle proprie “conquiste”, alle carte salvate con tanta tenacia, ai minuti oggetti accarezzati fino a sfiorare il feticismo, ai grandi personaggi sconosciuti, ma amati con un’ossessività a volte maniacale, per cui è arrivato a investigare e confondersi, come nel caso di Proust, tra i parenti e gli amici pur di carpire un ricordo, un frammento della vita dello scrittore, per più di mezzo secolo ha tenuto nascosti i suoi tesori». Guérin considerava infatti questa sua attività alla stregua di una missione, tanto che la Foschini asserisce che «il sentimento che lo muove non è quello del collezionista, è piuttosto quello del salvatore».
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poesia
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el vivo contrasto tra tensione anarchica e caduta delle certezze indotta dalla fine del Positivismo e il senso di un immanente disfacimento della società coeva, Giovanni Boine (Finale Marina 1887 - Porto Maurizio 1917), cercò rifugio nella letteratura, tra rime e prose, forse mai decidendo verso quale delle due sponde era più incline. Si è così ritrovato a fare i conti, tra desiderio di controllo del pensiero e veemenza allucinata, con l’angosciante densità del pensiero di Nietzsche, accettata in pieno, e la rassicurante schematicità crociana, rifiutata con altrettanta pienezza. E sono le filosofie neospiritualiste e quelle irrazionalistiche dei primi del Novecento ad attrarlo, forse perché le uniche in grado di soddisfare la sua ricerca di spiegazioni sulla contradditorietà dell’esistenza.
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Gli azzardi di Boine, maestro in ombra di Francesco Napoli lombardi e vociani come Soffici e Papini partecipò in modo originale e personalissimo, talvolta contradditorio, al dibattito filosofico e letterario. Sin dal 1909 deve ritirarsi a Porto Maurizio, vicino Imperia, per i primi segni di quella tisi che lo condurrà alla morte. Dall’eremo di quel lembo estremo d’Italia, però non rinunciò a vivere intensamente, tra amori turbolenti e attività culturali significative, mostrando alla vigilia della prima guerra, come la stragrande maggioranza degli intellettuali italiani dell’epoca, un fervente interventismo culminato nei Discorsi militari (1914) accesi e pieni di attese per un avvenire che non ci sarà. Ed è dal 1914, e per due anni, sulla Riviera ligure di Mario Novaro, che Boine tiene quella rubrica di recensioni, «Plausi e botte» che gli valse l’ammirazione di tanti e l’odio di altrettanti. Perché Boine non guardava in faccia nessuno, stroncava o esaltava senza partito preso e, allo stesso tempo, senza rispetto di gerarchie precostituite. I suoi Frantu-
mi appariranno postumi nel 1918 e proprio in queste pagine Boine dà sfogo pieno alla sua libertà inventiva e stilistica. Leggendoli ci si trova di fronte alle più coerenti applicazioni della poetica del poème en prose, non le prime prove in tal senso (aveva letto, ammirandoli, i Canti orfici di Campana), ma certo molto affini ai quasi coevi Trucioli di Sbarbaro seppur con una inusitata inclinazione al morale.
La generazione vociana, della quale Boine è pietra miliare, comprendente per lo più poeti e scrittori che si affacciano alla vita e alla letteratura nel primo decennio del Novecento, fu tormentata e inquieta, assillata da interrogativi pressanti, ribelle e innovatrice nel tentativo di creare nuovi linguaggi e stili quanto cosciente di una lacerazione epocale che esortava a una nuova moralità Sono frammenti, ma frammentaria è l’epoca in cui dell’atto poetico. Questi poeti, «maestri in ombra» secondo una felice definizione di Pasolini, da Rebora a Boine agisce; vi si riconosce appieno la statura della poeMichelstaedter, da Jahier a Sbarbaro e, perché no, a sia ivi presente e la loro intrinseca liricità. E Boine gioca Campana, hanno regalato alla nostra storia letteraria d’azzardo anche sul piano linguistico, con certe formule un lascito in parte ancora da mettere in luce. E tra quedalle forti tinte espressioniste, già rilevate da Contini, e sti Boine merita sicuramente un approfondimento critidalla forte energia stilistica, come quel «sgretolo-frana» co più attento di quanto fatto finora. «La statura di Boiletto nell’esemplare riprodotto. Tutta la sua opera, poi, ne - uno dei veri, pochi grandi del nostro Novecento, ognasce dal contrasto tra tensione anarchica, libertaria, e gi poco conosciuto forse perché così poco consumabile un’esigenza di organicità e ordine. Tra i vociani forse fu - deriva dall’asciutta forza, mocolui che sentì maggiormente la rale e poetica», ha dichiarato, caduta delle certezze che derivanon senza ragioni, Claudio Marono dalla fine del Positivismo e gris perché è proprio vero che ne dedusse una visione della vita AREZZA Giovanni Boine è stato uno depriva di valori e significati, con gli intellettuali più eminenti del un avvertito senso dell’imminengruppo dei vociani e tout court te disfacimento della società I ripugnevoli tempi che lo sgretolo-frana degli abbandoni, del nostro primo Novecento. contemporanea. La sua poesia m’ha giù inerte varato per l’immobile belletta del nero disgusto, Studiò a Milano dove ebbe copiù autentica la si ritrova sopratme compagni Clemente Rebora, tutto in alcuni frammenti di proche tanta parte ebbe nella sua sa descrittiva dove si vede lo spente onde, giungono a volte le lente sere della malinconia, formazione, e Antonio Banfi. sforzo nel cercare l’equilibrio tra che vado zitto per l’ombre e, tutto è scordato. Saggista e polemista di rango, il desiderio della lucidità, il conassai rimpianto da Montale sia trollo della ragione e la veemenper la sua capacità di lettura za delle allucinazioni. In questo Quasi in dolcezza, dentro si levano i radi gemiti («Era un critico d’oro nella rassenso Giovanni Boine può forse come il notturno canto del chiù. segna spicciola dei libri») che essere visto come il più nietzper la sua poetica («un poeta schiano degli scrittori italiani, che sapeva affascinare con certi perfino più del conclamato supeM’allacci allora senza parola, t’appoggi allora così lievemente, moti e certi sospiri di stanchezromista D’Annunzio, anche per che appena ti sento, appena… Vuoi dir che ci sei? za che sgorgavano dalle sue paquel suo deliberato allontanarsi gine tra linea e linea»), poetica dai rassicuranti schemi crociani. alla quale il grande Nobel pur Si accostò allora con interesse a Ma torno piano dalla lontananza, ma tocco piano il dolce viso, deve un tributo non solo e non quelle filosofie irrazionalistiche guardo i fedeli occhi che guardano me. tanto per i singoli prestiti, il che meglio gli apparivano in gra«meriggiare» è tutto di Boine. do di soddisfare la sua probleNegli anni così complessi e tumaticità critica ma anche di spieGiovanni Boine multuosi di inizi Novecento Boigare meglio la complessità di ne aderì dapprima alle posizioni un’esistenza trascorsa quasi (Da Frantumi) dei cattolici modernisti per poi sempre in lacerazione e in urto staccarsene in una polemica decol mondo intero: «gli uomini le cisa e proprio con i modernisti cose: ci urto come a spigoli».
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il club di calliope
ADDIO A MICHELE, COL SUSSURRO DI UNA BREZZA in libreria
Il dono della luce per le strade che non riesco a sapere torna grato Grazie per questo giorno che ricuce e mitiga le posture di gronda e dà rilievo ai tetti e ai pochi rami, grazie per l’eleganza delle ore così chiare da cogliere serbare nella misura ambigua del loro transito Marco Vitale (Da Canone semplice, Jaca Book)
di Loretto Rafanelli
milio Coco sa che deve rendere la verità di una sofferenza e di una perdita, «di una preghiera che si rompe in pianto», per questo non usa artifizi od oscurità calcolate, ma batte il tasto della forma diretta, semplice, chiara. Perché si tratta di dire della morte del caro fratello Michele.Versi attraversati dall’amore e dal dolore che sgranano i caldi giorni di luglio e agosto 2008 nell’ospedale di Padre Pio a S. Giovanni Rotondo e che egli fissa in Il dono della notte (Passigli), libro struggente, intenso, di rara emozione. È l’estremo atto di devozione e di affetto che Emilio Coco porge al fratello che lotta con il «dragone dalle fauci orrende», una lotta impa-
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ri che non prevede vittorie. Egli, con gli occhi spalancati pronto a fare «un muro con i corpi», quasi una fisica resistenza per «ancora un altro giorno, un’altra notte,/ e formiamo tutti insieme una barriera/ per sbarrarle il passaggio». Una diga per salvare quell’uomo mite, per non perdere quella speciale, viva, intimità dei cuori. Per non disperdere quella coppia di poeti e di raffinati, noti, traduttori (Michele dei classici latini e greci, Emilio, il più grande ispanista, premiato dal re Juan Carlos I). E la dolcezza del ricordo e dell’amore ricorre in ogni verso, come quel soffio leggero della madre sui capelli di Michele, che pareva «il soave sussurro di una brezza».
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di Enrica Rosso obbiamo a Manuela Metri se Menopause, il musical è sbarcato in Italia l’8 marzo 2006. Jeanie Linders, la sua mamma americana, lo ha fatto nascere nel 2001 a Orlando, in un teatrino che non raggiungeva gli 80 posti e da lì, come un’onda, dopo aver girato per 42 città americane, è stato messo in scena in 7 Paesi del mondo. In Italia arriva con il patrocinio del Ministero della Salute e la collaborazione dell’Associazione Italiana Donne Medico. Nonostante la traduzione e l’adattamento della stessa Manuela Metri complici Antonella Laganà e Paola Tiziana Cruciani, l’operazione denuncia a chiare lettere la sua matrice americana. Per entrare nel vivo dell’argomento, prima dell’apertura del sipario, un grande televisore in proscenio ci rimanda una serie di interviste lampo a tema. Scopriamo così che: «Una donna in menopausa si trasforma come doctor Jekyll e mister Hyde»; «Il climaterio è la fase in cui la donna non può più procreare e arrivederci ragazzi»; «Gli estrogeni non si comprano» e amenità di questo tipo, e si sa, gli altrui strafalcioni ci fanno sentire migliori e ridere di gusto. L’effetto in sala è raggiunto, ma la trovata, a nostro avviso, è discutibile. A questo punto il pubblico è caldo e si può cominciare. Grandi magazzini, reparto lingerie, come dire l’eden di chi si contenta. Sul banco delle promozioni un pezzo unico: un irresistibile, scontatissimo, indifeso, reggiseno in pizzo nero; intorno a lui come erinni, quattro rappresentanti del gentil sesso over 40 pronte a tutto pur di accaparrarselo. Fioretta Mari, donna manager; Fiordaliso, attrice di soap, Emanuela Aureli, casalinga e la stessa Manuela Metri nel ruolo della figlia dei fiori. Così nasce la sfida ed è subito musical. Nulla più di questo. Si parte sulle note (eseguite dal vivo) della gettonatissima Fever night diventata ahimè Sveglia sarai con ritornello «suderai/ suderai/ suderai/ come un ele-
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Televisione
Musical Sulle note (scontate) della Menopausa MobyDICK
spettacoli DVD
LA FAVOLA TRISTE DELLE GEMELLE DEL MARE i chiamavano Michelangelo e Raffaello, e furono le ultime navi che negli anni Sessanta collegarono l’Italia all’America. Alle gemelle dei due mondi, le più grandi mai realizzate, era stato affidato il compito di trasbordare lo stile italiano sulla rotta per New York. Ma il jet DC 8 dell’Alitalia vantava già nel 1960 il record di otto re da Roma a Manhattan, e la vita dei due transatlantici declinò miseramente. Sulle tracce della Michelangelo e della Raffaello, misteriosamente scomparse, si è messo Giotto Barbieri nel bel documentario Mal de ma - Mal di mare, favola malinconica assai suggestiva.
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PERSONAGGI
fante» (praticamente una iattura servita dalle protagoniste schierate in proscenio stile Village People con indice teso a indicare le signore presenti in sala), si prosegue citando la celeberrima La bamba che qui diventa, indovinate un po’ Ahi, la vampa e si continua con «Ho messo su grasso a più non posso perché un bignè è come un amplesso». Dulcis in fundo, il capitolo sul calo del desiderio sessuale con Only you mi dai di più, interpretata con microfono a gelato travestito da roseo vibratore. Le quattro protagoniste inarrestabili hanno carattere ed energia da vendere, recitano, cantano, accennano coreografie, ammiccano al pubblico - che le ricambia con affetto e calorosi applausi si scatenano, ma la struttura del testo rimane elementare e l’allestimento lascia a desiderare: scena fissa un po’ triste e
senza sorprese, luci tirate via, da varietà - con un uso smodato dell’occhio di bue - costumi così così, indicativi del personaggio, ma senza una reale scelta cromatica d’insieme, un po’ come se ognuna di loro avesse scelto cosa indossare lì per lì. In ultimo le interpreti invitano sul palco una nutrita rappresentanza di donne a dar vita a una festosa cordata, come dire «Mal comune mezzo gaudio». Alfine sciamiamo verso l’uscita, alcuni lamentano un’acustica distorta che non rende giustizia al talento delle interpreti. Nel foyer, ad attenderci distribuzione di ventagli cartonati con il logo di un rimedio per contrastare i disturbi della menopausa.
Menopause il musical, Roma,Teatro Ambra Jovinelli fino al 6 marzo, info: www.ambrajovinelli.org - tel. 06.83082620
QUEI CINQUE GIORNI IN COMPAGNIA DI LUCIO ell’ultima intervista concessa da Lucio Battisti, si è sempre parlato nelle numerose biografie a lui dedicate. Ma solo oggi Renato Marengo, il giornalista che penetrò nella cortina di silenzio creata dal cantautore nell’ultima fase della carriera, racconta quei cinque giorni del 1974 trascorsi con Lucio negli storici studi della Numero 1. Un incontro-scontro fertile e ricco di spunti e aneddoti, che l’autore rivive in Lucio Battisti - La vera storia dell’intervista esclusiva (Coniglio Editore, 174 pagine, 14,50 euro). Testimonianza preziosa.
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di Francesco Lo Dico
Spartacus: sangue, sabbia e effetto Hollywood iniziata su Sky 1 la serie Spartacus, dedicata al più famoso ribelle dell’antica Roma. Credo sia fatica sprecata spiegare a certi registi americani che i romani, così come i greci, combattevano in modo diverso dai samurai. L’effetto Hollywood non si ferma mai. Basti pensare al film Troy, dove Brad Pitt-Achille si muoveva come Bruce Lee, mischiando judo e thai-kondò. Il serial (13 episodi, girati in Nuova Zelanda) che riguarda lo schiavo della Tracia ha come sottotitolo Blood and Sand (sangue e sabbia). La casa di produzione è la tv via cavo Starz. Che sta già preparando la prossima tornata e ridurrà il peso della violenza e del sesso così da poterlo proporre in prima serata. Spartacus è interpretato dall’attore australiano Andy Whitfield. Un volto intenso, a volte anche troppo, anche se bisogna perdonarlo date le condizioni di schiavitù e di battaglia. Una
È
di Pier Mario Fasanotti vita d’inferno, senza dubbio. Come oggi sovente capita l’emozione è tutta a favore del ribelle e dei suoi seguaci. Roma antica è vista come un branco di imperialisti corrotti e rammolliti. Che i romani avessero fama di «sgozzatori del Mediterraneo» è pur vero, ma per svariate ragioni (compresa l’astuzia politica) rispettavano etnie diverse. Imperava la legge del civis romanus, ma s’in-
globavano tutte le culture. A patto che rispettassero lo jus. In Spartacus i romani sono descritti come tardo-imperialisti, quando invece in epoca repubblicana vigeva la sobrietà dei costumi. Lo Spartacus televisivo è arruolato nelle file degli ausiliari dopo un patto di alleanza. Un drappello di traci, al seguito delle legioni, ha il compito di arginare la pressione dei barbari, da Nord. Ma il legato Glabro, genero del potentissimo senatore Albinio - che nel serial si comporta, ahi ahi, come un imperatore - vuole un’affermazione personale e si spinge a Est per contrastare la potenza di Mitridate. I traci, i cui villaggi vengono bruciati dai nordici, si sentono traditi. Glabro, volto da upper class, appare come un arrogante e anche insicuro militarmente. Se Spartacus ha una compagna bruna, Glabro è sposato a una donna biondissima. Tanto per
rimarcare - poco importa quanto ci insegna la storia in fatto di etnie - la differenza tra i brutti-neri e i belli-biondi. Il sesso abbonda. Per entrambi. Addirittura la moglie del legato si presenta nell’accampamento della Tracia avvolta da una pelliccia. Gli dice maliziosa: «Il più bel regalo per te ora sono io». Sotto la pelliccia niente. Se l’amore e la passione per la coppia ribelle paiono autentici, il legame tra i due notabili romani è inficiato dai giochi di potere, dall’ambizione e da un clima che ricorda un po’troppo la cortigianeria bizantina. Ci chiediamo: se i romani erano davvero così, come mai riuscirono a creare un impero dalle dimensioni spaventose? Già, gli schiavi ribelli sono un po’ come i buoni dei film western, mentre i romani sono gli indiani vecchia maniera: predatori, cinici, traditori. Spartacus è insomma un cartone animato virato sull’alta definizione. Cieli e paesaggi poco credibili. Una volta si diceva «fondale di cartapesta». Poco è cambiato da allora se badiamo all’effetto scenico. Risultato: caricature.
Cinema
MobyDICK
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di Anselma Dell’Olio
eri è uscito un film fortissimo: 127 ore, sei candidature all’Oscar, tra cui quella per miglior attore per lo slurpissimo, ex-carciofo James Franco. Non avremmo scommesso un cent su un futuro di premi per il sosia di James Dean.Visto la prima volta in Tristano e Isotta, stentavo a credere che avesse vinto un Golden Globe per il biopic tv sul mito della Valle dell’Eden. L’ho catalogato come sexy e insipido. Errore. Era già buono come amante di Sean Penn in Milk, ma con Pineapple Express s’è scoperto un comico naturale e un attore vero. Anche chi conosce la storia di Aron Ralston (Franco), incluso l’apice shock, passerà 99 minuti incollati alla poltrona. È noto l’episodio terrificante dello scalatore, outdoorsman superbo, schiacciato da un masso e lontano da ogni soccorso, costretto ad amputarsi da solo l’avambraccio. Il film di Danny Boyle (Trainspotting, Il milionario) comprime in modo sublime le 127 ore dell’esperienza traumatica di un individualista al cubo; cinque giorni in trappola, senza cellulare e senza aver detto a nessuno i suoi programmi da escursionista fieramente autonomo. Parte su una mountain bike con gli attrezzi per scalare e discendere crepacci, caverne e alture nelle splendide distese selvagge di Bluejohn Canyon, nel parco nazionale di Canyonlands (Utah).
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Tratto dal libro dell’ingegnere meccanico e sportivo (Between a Rock and a Hard Place, Atria Books, 2004), si temeva di non reggere un film con una sequenza tanto impensabile: al Toronto Film Festival c’erano stati un paio di svenimenti e un attacco epilettico. La sola idea di sorbirsi gore e splatter realmente accaduti (già soffro durante film horror di plateale fantasia) era proibitiva. Già uscito in America, sarebbe uscito in Italia tra non molto: fatto il segno della croce, entro in sala. L’eccezionale capacità narrativa del regista e la perfetta aderenza al ruolo di Franco incatenano subito al racconto. La fantastica riuscita del film si deve in primis a Ralston stesso: un fuoriclasse di gran carattere, completo, neo-rinascimentale per quanto lo possa essere un überamericano del Colorado. Il giovanotto unisce un’ottima laurea con lode alla rinomata Carnegie Mellon University, con prestazioni di livello nelle discipline sportive del campus. Franco, Boyle e i due direttori della fotografia ci fanno entrare immediatamente sotto la pelle di Aron. La preparazione tecnica, la gioia e la fiducia nella propria fisicità perfettamente allenata, la grazia naturale del protagonista, preparano il terreno psicologico e caratteriale. Prima di arrivare sul luogo dell’incidente e a «quel macigno che mi stava aspettando da tutta la vita», in una mattinata briosa e scintillante di sole, RalstonFranco corre spedito in mezzo allo scenografico paesaggio, spesso fuori pista, saltando crepe e dislivelli con gustosa disinvoltura sulla bicicletta fuoristrada. Persino quando ha una caduta tremenda, si rialza, massaggia brevemente il polso e risalta in sella con una grazia da gazzella. Sulla strada incontra due giovani escursioniste. Fa caldo, e dopo una breve chiacchierata, Aron le introduce a un tesoro nascosto del territorio che conosce palmo a palmo: una piscina natu-
127 ore
e 99 minuti à bout de souffle
rale di acqua cristallina nascosta, a cui si accede lasciandosi cadere tra due ravvicinate pareti di roccia verticali. È una scena stupenda. Si sente il brivido del lasciarsi cadere nel vuoto, lo spruzzo e l’impatto con l’acqua turchese, il freddo frizzante che ritempra i corpi sudati; è un inno alla gioia, allo spirito d’avventura e alla scoperta di un piacere inatteso, una celebrazione della giovinezza, della primavera della carne nel suo fulgore. Terminato il godurioso fuori programma, le due ragazze lo salutano, dopo aver invitato il loro benefattore a una festa. Mentre Ralston s’allontana spedito con i muscoli ancora più tonici dopo la nuotata,
Tiene inchiodati alla poltrona il film di Danny Boyle sulla scioccante avventura dello scalatore Aron Ralston efficacemente interpretato da James Franco. Che contenderà l’Oscar a Jeff Bridges, magnifico Grinta nel remake dei fratelli Coen. Da non perdere anche “Un gelido inverno”
Kristi (Kate Mara) dice a Megan (Amber Tamblyn): «Nella sua giornata, noi non figuriamo nemmeno». Senza preavviso, avviene il rotolamento in fondo al maledetto crepaccio lungo e stretto, la mano bloccata da un inamovibile masso fino all’avambraccio. L’ingegnere affronta la disgrazia con la calma e la logica di chi ha davanti una serie di sfide tecniche. Ha una borraccia d’acqua, corde, una videocamera che fa da diario e interlocutore, e un aggeggio multiuso di poco prezzo e mal affilato (il fido coltello svizzero era rimasto a casa). Le cinque giornate passano tra sogni e incubi, l’acqua che finisce ed è sostituita dalle urine, deliri e fantasticherie. Ha sete: un nubifragio possente manda torrenti d’acqua attraverso la gola che riempiono la boraccia; ma è solo un sogno. Gli tornano immagini dei suoi genitori, pentimenti per la sicumera, la hubris che lo ha fregato, costringendolo a usare tutte le doti naturali e acquisite di cui era fiero. Boyle e il suo co-sceneggiatore Simon Beaufoy (The Full Monty, Closer, Il milionario) hanno costruito un racconto articolato, à bout de souffle, senza un attimo di noia. La fisicità e l’umorismo congeniti del californiano Franco lo rendono credibile e sempre accattivante nei vari passaggi, come i pochi momenti nel giorno in cui la luce del sole lo riscalda in quella fessura, o l’immaginario talk-show nel quale è presentatore e ospite insieme. Ripassando gli errori che lo hanno portato lì, sopratutto quello di non aver detto a nessuno dove andava, arriva a una sintetica, asciutta, sdramatizzante conclusione da fumetto: «Oops». È un avvincente thriller, con solo alcune scene difficili da guardare ma dalle quali è impossibile staccare gli occhi. Dopo essersi liberato con caparbia e metodica determinazione, questo campione psicofisico, espressione dello spirito can-do americano (Thoreau ed Emerson sono i suoi mai menzionati numi tutelari) ha la forza di issarsi in superficie, calarsi con la corda per circa venti metri per tornare in piano, e poi camminare per dodici chilometri finché non trova aiuto, il braccio tagliato sotto il gomito avvolto in uno straccio. Oggi è sposato con un figlio, lavora e continua le sue temerarie avventure, attento a dire dove andrà. All’epoca della prova, Ralston aveva 27 anni. Da non perdere.
Ci sono altri due film da non perdere, ora che sono finite le secche invernali. Il Grinta dei fratelli Coen (10 nomination) è il remake del film che ha dato l’Oscar a John Wayne. È assai più bello del primo, e più fedele al postmoderno romanzo western di Charles Portis (1968). Mattie Ross (Hailee Steinfeld) ha 14 anni ed è decisa a vendicare il padre, assassinato dal balordo Chaney (Josh Brolin). Assolda lo sceriffo grintoso Rooster Cogburn (Jeff Bridges) al quale si aggiunge un ranger texano, cacciatore di taglie (un sempre più stupefacente Matt Damon). Un gelido inverno (4 nomination) di Debra Granik ha un’altra teenager protagonista (la splendida Jennifer Lawrence). Ree Dolly si trova capofamiglia senza soldi a 17 anni: ha una madre catatonica e due fratelli minorenni a cui badare e insegnare la sopravvivenza. Il padre, arrestato per droga, ha impegnato la casa per pagare la cauzione ed è sparito. Ree deve trovarlo, vivo o morto, o finiscono tutti sul lastrico; significa trasgredire rigide regole tribali che governano la ruvida, antica comunità montanara degli Ozarks. Eccezionale.
Camera con vista
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i sono libri che sostano sul mio comodino più a lungo degli altri, per motivi vari. In genere sono libri di amici, e questo vuol dire che sono portatori di senso di colpa. Perché potrebbero non piacermi e allora mi sentirei in imbarazzo a dire la verità, ma anche a non dirla. Così traccheggio e ne rimando la lettura cacciandomi ogni giorno di più nei pasticci, perché intanto la pila aumenta e divento di giorno in giorno più manchevole e colpevole di lesa amicizia. Capita anche che mi metta a leggerli tutti insieme, nel senso: qualche pagina di ognuno un po’per sera per non far torto a nessuno e portarli avanti in gruppo. Ma non è una tecnica indovinata. Accade infatti che un libro s’imponga su tutti gli altri e chieda la precedenza distruggendo i buoni propositi di non far torto a nessuno.
MobyDICK
ai confini della realtà
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Mi è successo con Ritratto in bianco e nero (erreciedizioni) di Leone Piccioni, che ho trascurato a lungo, direi per eccesso di stima. Perché credevo, a torto, di aver letto abbastanza dell’autore da non esserne più sorpresa, perché alcuni suoi precedenti saggi mi avevano avvicinato, con eleganza d’altri tempi e un delicato autobiografismo, a autori italiani da me piuttosto trascurati, Fogazzaro, Cardarelli, ma persino Gadda, per non parlare di Soffici e Papini. Questo Ritratto invece, che è in realtà un autoritratto costruito con materiali eterogenei («pagine legate - dice il curatore Santino G. Bonsera - a momenti ed esperienze diverse dello scrittore: viaggi negli Usa con note di jazz e con il lungo studio sulla figura contraddittoria di Malcolm X…, i viaggi in Brasile e nella musica brasiliana; e, ancora, pagine di confessioni….»), mi ha catturata per la giovinezza della voce. E non perché si tratti di un’antologia di scritti che risalgono anche agli anni Cinquanta e Sessanta, quando Piccioni, nato nel ’25, era davvero un ragazzo o poco più, ma perché giovane è lo sguardo che conserva tuttora e che non era lo sguardo di un comune giovane di allora. Poco somiglia la mia cultura (soprattutto musicale) alla sua, non sono per esempio cultrice di jazz come è lui, e il suo Brasile non è simile alla mia India, per citare due Paesi esotici cari alle nostre differenti sensibilità, ma nemmeno i suoi States sono attraversati da lui con gli umori della mia generazione ribelle. Eppure, quando dice dell’arrivo a New Orleans - «la discesa all’aeroporto pareva l’incontro con una stanza termale, piena di vapori umidi» - le esperienze si saldano e mi sento avvolta dallo stesso calore sulla pelle che mi accoglie a Delhi o a Bombay tutte le volte. E non parla forse di me, di com’ero anch’io
New Orleans alias Bombay di Sandra Petrignani alla fine degli anni Sessanta quando descrive le «figlie dei fiori»? «Un poco allucinate, un poco sorridenti, irresponsabili, anche, ma drammatiche e vive, e insieme impastate di saggezza che le invecchia, di follia che le rinnova»? C’è giovinezza nei due momenti del libro in cui ricorda suo padre, come in un congedo ancora adolescente o quando descrive, con gli occhi del grande amico Ungaretti la mimosa: «caro annuncio d’inquietanti primavere». Un altro caso per cui il libro di un amico sosta a lungo sul mio comodino è l’incomprensione. Mi è successo con L’angelo ri-
che cambia in continuazione vita e destino, e ora fa il mantenuto a Parigi, ora s’imbarca, cuoco raffinato, sulle navi da crociera per sbarcare a LasVegas dove si sperimenta «una festa senza fine» e poi torna nella sua Bergamo e ricomincia da capo, e ogni volta ha fortuna, ma non gli basta, spinto da una febbre di cambiamento, da un’inquietudine da capogiro sostenute dalla scrittura affrettata, sincopata, velocissima. Una girandola d’incontri, di donne, di esperienze in cui la superficialità del protagonista mi sembrava riverberarsi sulle pagine fino agli incontri decisivi capaci di
Viaggio letterario in compagnia di amici: negli States e in Brasile con Leone Piccioni, all’inseguimento del volubile protagonista del romanzo di Angelo Roma e immergendosi nel mirabolante gioco similpoliziesco immaginato da Franco Mimmi nel suo “Corso di lettura creativa” belle (Tropea) di Angelo Roma, di cui avevo amato i precedenti Il meticcio (PeQuod) e Le confessioni di un egoista (Tropea). Ho faticato a entrare nella storia del protagonista Gabriele Borsoni
fermarlo ormai anziano, ma sempre irredento: un ragazzo down, unica creatura capace di felicità, e una figlia piovuta dall’incoscienza del passato.Troppo bella quella figlia modella, troppo scontata,
mi aveva irritato. Ho dovuto leggere e rileggere per capire la coerenza del racconto, la sua disperazione, la sua ragionevolezza. E anche la generosità a mettersi in gioco, a provare nuove strade letterarie, dell’autore, questo Angelo Roma, che in realtà non è proprio un amico, ma un mio lettore con cui ho scambi epistolari, nato a Brindisi nel ‘69, ma radicato al nord, a Bergamo appunto, e che non ho mai incontrato di persona, ma ho imparato a stimare da quel che scrive e dalla passione che mette in tutto quello che fa.
Se poi l’amico è veramente tale, e si dà il caso che abiti in un’altra città, un altro Paese addirittura, come succede a Franco Mimmi, bolognese che ora sta in Spagna, ma è vissuto molti anni in Brasile, ex giornalista, autore di molti romanzi sofisticati fin dal ’79 (Premio Scanno Opera prima con Rivoluzione), il suo libro resterà sul comodino lungamente perché è un modo per tenere la persona lontana vicino e perché, devo dirlo subito, il suo nuovo romanzo, Corso di lettura creativa (lampi di stampa) che è appena uscito, io l’ho letto in anteprima già da qualche mese e ne sono assolutamente entusiasta. Anzi mi sento indignata che l’editoria italiana non riservi un posto migliore a un autore tanto vario, intelligente, spiritoso come lui, che da anni si contenta dell’editoria in rete. Ma veniamo al libro, così lo cercate tutti quanti su Internet e lo acquistate per 12 euro e gli decretate il successo che merita. Come s’intuisce dal titolo, il suo Corso di lettura creativa è una parodia dei tanti corsi di scrittura che fioriscono un po’ ovunque ai nostri giorni su modello americano. Ma qui s’insegna a leggere, e a leggere un ipotetico romanzo, analizzato minuziosamente, di tal Giorgio (o forse Giorgina, il sesso è incerto) Ulivò, autore/autrice di un fondamentale Entropia. E così, questo mirabolante gioco letterario, che ricorda i salti mortali di Nabokov e gli incastri vertiginosi di Perec, si snoda allegramente in una ricerca che ha del poliziesco sulle tracce della letteratura, seminata di insegnamenti, riflessioni, sciarade, connessioni, in una specie di processo dove sono chiamati a testimoni numerosissimi altri scrittori in un fuoco di fila di citazioni memorabili e insegnamenti da segnarsi sul taccuino, fino alla domanda, drastica, commovente e conclusiva, che ogni autore pone ai suoi lettori: «Sarete capaci di capirmi?».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Bisogna assolutamente tornare alla vecchia legge elettorale GESTIONE UNICA DEGLI AEROPORTI DI PISA E FIRENZE Si discute nella nostra città della proposta avanzata dal presidente toscano Rossi di una possibile fusione tra il Galilei di Pisa e il Vespucci di Firenze. Premetto che il mio approccio all’argomento non è di tipo campanilistico, ma strettamente politico-economico. Non mi convince,infatti, un certo dirigismo tipico della politica che pensa di poter prevedere e intervenire sugli scenari di sviluppo del mercato. Andiamo con ordine: la regione Toscana vuole entrare nella proprietà dell’aeroporto Vespucci. Il ragionamento di Rossi è: visto che la Regione detiene azioni del Galilei, è giusto che sia dentro anche al Vespucci. Nella mia visione, invece, la Regione potrebbe pensare di ritirarsi anche dal Galilei. Il pubblico infatti dovrebbe cercare di aiutare con poche ma mirate politiche le imprese e le società che operano sul mercato. La storia recente ci insegna che la crescita del Galilei di questi ultimi anni non è stata frutto di scelte lungimiranti da parte della regione Toscana, ma conseguenza di scelte manageriali che hanno goduto di una rivoluzione del mercato aereo legata ai voli low cost, che hanno trovato a Pisa una base strategica importante. E l’aeroporto di Pisa, da certe scelte e situazioni è cresciuto sempre più, attraverso mirati investimenti. La politica dovrebbe operare per supportare il management aziendale degli aeroporti in questione attraverso incentivi e apposite politiche turistiche che rendano sempre più appetibile il territorio. Ma il punto vero è che su questo mercato Pisa rappresenta il presente, e può giocarsela con le credenziali giuste con tutti gli altri concorrenti, mentre Firenze potrà rappresentare una forza in questo mercato solo in un futuro prossimo. Questo rappresenta un grosso rischio. E se è giusto che, sul mercato, Firenze si giochi la propria partita in un regime di concorrenza, forti dubbi rimangono su una scelta dirigistica che, attraverso una gestione unica dei due aeroporti, potrebbe limitare in qualche modo lo sviluppo futuro del Galilei per cercare di recuperare il gap competitivo dell’aeroporto fiorentino. Carlo Lazzeroni P R E S I D E N T E CI R C O L O LI B E R A L PI S A
LE VERITÀ NASCOSTE
In occasione della nascita del Pdl, mentre l’avvenimento veniva salutato da un coro di approvazione da parte di chi, anche a sinistra, ha creduto nel bipolarismo, manifestai la mia perplessità dicendo: a distanza di novant’anni meno un giorno dalla nascita dei fasci, il partito erede morale di quella esperienza ha ammainato la bandiera per concorrere alla formazione di un nuovo partito nel quale vi è già un leader carismatico estraneo alla loro tradizione, e fors’anche al loro modo ideale di intendere la Patria, lo Stato e la Politica. Gli eventi successivi hanno dimostrato la fondatezza delle mie perplessità. Lo scontro fra i due massimi cofondatori ha mostrato la fragilità del bipolarismo all’italiana. Tanto è vero che tra i teorici fautori del bipolarismo sono aumentati i dubbiosi e si è verificata anche qualche abiura. Senza addentrarci nelle vicende della scissione, appare evidente che il bipolarismo da noi non ha futuro. Insistere su un modello che non si è riuscito a realizzare in vent’anni rischia di produrre alle prossime elezioni, se non verrà modificata la legge elettorale, la creazione di cartelli elettorali non frutto di alleanze sui principali problemi ma moderne “armate brancaleoni” che si sfalderanno subito dopo l’esito del voto.
Luigi Celebre
LA CRISI IN LIBIA EVIDENZIA LA NECESSITÀ DEL NUCLEARE Quale Paese avanzato può dipendere da una dittatura? Eppure gli scontri in Libia rischiano di lasciare l’Italia senza energia! Non è più possibile dipendere dagli idrocarburi che provengono dai Paesi arabi, è necessario svoltare, dare vita ad un new deal energetico: la crisi libica evidenzia prepotentemente la necessità di tornare all’atomo, di costruire nuove centrali nucleari, ripartendo possibilmente dalla riconversione delle centrali che già furono avviate e poi bloccate, da Caorso, da Montalto di Castro e dalla centrale del Garigliano. Il nucleare porterà un abbattimento dei costi delle bollette e nuovi posti di lavoro: per il Sud è una grande opportunità, che regioni a bassa densità abitativa come la Calabria e la Basilicata non devono farsi scappare. Anche Salerno, la mia provincia, potrebbe ospitare tranquillamente, nella zona Sud, una centrale nucleare.
Alfonso Fimiani
UN PIANO MARSHALL PER IL NORDAFRICA Le insurrezioni di piazza che stiamo vedendo in Libia e più in generale in tutto il Nordafrica riportano quelle nazioni al dilemma tra democrazia liberale e inte-
gralismo islamico che visse 30 anni fa l’Iran dopo la cacciata dello Shah. L’Italia e l’Europa non devono solo preoccuparsi dell’irrompere dei clandestini sulle nostre coste ma devono organizzare, insieme agli Usa, un nuovo grande piano Marshall per il consolidamento della democrazia attraverso un adeguato sostegno ai redditi delle popolazioni magrebine. Abbiamo l’occasione di far emergere un Islam democratico e liberale: non lasciamocela scappare.
Roberto Rosso
Visto che il governo, nonostante la grande amicizia tra Berlusconi e Gheddafi, non si è accorto per nulla di quanto stava per accadere in Libia, invece di dire sciocchezze come fa Bossi sul destino degli immigrati, almeno si preoccupi di fare quanto in suo potere per difendere gli oppositori e la popolazione civile dalle inaudite violenze del regime. È giusto attendersi poi un impegno serio e concreto sul fronte della speculazione. Almeno per una volta dovrebbero impedire che le compagnie petrolifere si ingrassino come al solito a spese dei cittadini giustificandosi con i futuri aumenti del barile.
R.N.
ziotto-robot dell’omonima serie di film sarà presto una meta turistica della città di Detroit (città in cui è ambientato il film), che gli dedicherà una statua. L’operazione è stata ideata da un artista del posto, ed è completamente finanziata dai fan: sono stati raccolti più di 50.000 dollari via Internet. Le autorità cittadine hanno apprezzato il gesto ma non nascondono una certa difficoltà: «Non siamo sicuri che trasmetta il messaggio migliore sulla città di Detroit». Nel film, infatti le autorità cittadine e la polizia erano dipinte come fortemente corrotte. I promotori dell’iniziativa però sottolineano che per quanto il contesto del film sia negativo e «ci sia molta violenza nel film, Robocop è un personaggio estremamente positivo, che cerca di fare sempre la cosa giusta». E annunciano che se il comune non darà l’autorizzazione per collocare la statua su suolo pubblico, hanno già diversi privati disponibili ad ospitare l’opera.
MINORENNI CONDANNATI AD ANDARE A MESSA Ho letto qualche giorno fa una notizia davvero singolare: due ragazzi di 15 e 16 anni di Bassano del Grappa accusati di rapina ed estorsione nei confronti di alcuni coetanei sono stati condannati dal tribunale dei Minori di Mestre non solo a fare volontariato, ma anche ad andare a messa tutte le domeniche, e ad ottenere ottimi voti a scuola. Secondo me tutto ciò crea un certo sbigottimento anche tra i cattolici che maggiormente seguono i dogmi religiosi, ma ciò che più mi sgomenta è il fatto che tale condanna sia con tutta probabilità anche illegittima, dato che nessuna norma lo prevede.
Donatella
L’IMMAGINE OSSERVATORIO SULLA POVERTÀ
MARTEDÌ 8 - ORE 11 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DE GASPERI Conferenza stampa Liberal/Udc Pier Ferdinando Casini e Ferdinando Adornato presentano Marisa Grasso Raciti, neo Coordinatrice dei Circoli Liberal Città di Catania
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
DETROIT. Robocop, il famoso poli-
VIOLENZE DI REGIME
APPUNTAMENTI MARZO
GIOVEDÌ 10 - ORE 15 - ROMA PIAZZA COLONNA - PALAZZO WEDEKIND Evento liberal con gli onorevoli Adornato, Bersani, Casini, Tremonti
Robocop diventa una statua
Faccia da pesce o da serpente? L’aninga africana (Anhinga rufa) è un pennuto, ghiotto di pesce ma anche di rane e crostacei. È conosciuto come “snakebird” (uccello-serpente) per il lungo collo affusolato che, quando nuota con il resto del corpo completamente sommerso dall’acqua, somiglia a un serpente
Ho letto della “nascita” dell’Osservatorio regionale contro la povertà, uno strumento sperimentale per lo studio e lo sviluppo di politiche sociali mirate al contrasto della povertà e all’esclusione sociale. L’Osservatorio nasce dalla collaborazione tra la regione Lazio e la comunità di Sant’Egidio, e avrà tra i suoi principali compiti quello di avviare e gestire un centro studi sulle tematiche della povertà e dell’esclusione sociale ed avviare attività di censimento, promozione e facilitazione delle “reti” di supporto formale ed informale che operano nel sociale in tutto il territorio regionale. Dovrà anche occuparsi della formazione e dell’aggiornamento degli operatori del sociale, dovrà raccogliere informazioni e scambiare esperienze e buone pratiche con le cinque province della regione e partecipare alle principali attività di coordinamento e formazione attuate dalla regione Lazio sulle tematiche del sociale. Quanto ai compiti in ambito internazionale, l’Osservatorio dovrà occuparsi di individuare delle aree di criticità sanitaria e sociale nei paesi in via di sviluppo e programmare interventi sociali e sanitari. Questa sì che mi pare un’ottima notizia.
Graziella Colonna
il caso
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Anticipiamo l’introduzione di una biografia del leader leghista scritta da Giuseppe Baiocchi per Lindau
Il mistero dei due Bossi C’è il politico che anticipa la fine della Prima Repubblica e quello che rinnova la doppiezza comunista: analisi della contraddizione che è al centro della crisi politica di Giuseppe Baiocchi Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore, l’introduzione del libro «Bossi, storia di uno che (a modo suo) ha fatto la storia» di Giuseppe Baiocchi pubblicato da Lindau. er padre Dante era l’intero «cammin di nostra vita». Ma oggi i settant’anni sono più una pienezza di maturità che il malinconico avvio del naturale declino. E per chi li compie sono pure un’occasione di bilancio e di riassunto di una vita, con le sue speranze e le sue sconfitte, con i suoi errori e i suoi affetti. Se poi la ricorrenza riguarda un personaggio pubblico, che comunque ha improntato di sé l’itinerario di un Paese, allora si è obbligati per forza di cose a una riflessione che trascende la cerchia privata degli intimi ed è tenuta a tentare un ambito più complessivo che, bene o male, interessa tutti. Se poi il personaggio in questione è il fondatore e leader in sella della Lega Nord, Umberto Bossi, è an-
P
fimera né liquidatoria. D’altronde proprio la novità del fenomeno politico (un impasto sorprendente di antico e moderno e difficilmente collocabile nella dialettica destra-sinistra) consigliava come non mai uno sguardo non condizionato da gabbie ideologiche o da scettici pregiudizi o da preventive condanne. Cercare di capire cosa fosse e come si sviluppasse quella «strana bestia» della Lega e darne conto semplicemente per come era (e niente di più) fu duro lavoro di informazione, spesso condotto in pressoché totale solitudine. Un lavoro culminato nel 1999-2002 nella direzione del quotidiano «La Padania» e svolto senza obblighi di fedeltà né vincoli di appartenenza.
Dell’improvvisa folgorazione alla fine degli anni ’70 del giovane Umberto Bossi per il «federalismo» si sa già tutto. Ovvero l’incontro, tra i corridoi dell’ateneo di Pavia (dove integrava gli studi incompiuti di medicina
Nel 1984 sentì la vittoria sua e del suo movimento «scippata» e gestita solo da Berlusconi: per questo si lanciò nel ribaltone che di fatto spostò momentaneamente il Carroccio a sinistra cora più chiaro che un suo ritratto diventa naturalmente l’opportunità per uno sguardo sulla più recente storia d’Italia, con la consapevolezza che in ogni caso il soggetto non lascia e non può lasciare nessuno indifferente, comunque la si pensi. E prova a farlo in questa sede chi, né complice né ostile, è della Lega testimone antico per naturale curiosità, oltre che per dovere professionale. Fin dal lontano 1985 quando, da caporedattore, guidava le pagine dedicate alla Lombardia del «Corriere della Sera». Allora l’emergere in sede locale di una lista che conquista un primo consigliere comunale a Varese (dove l’eletto si esprimeva negli ambiti ufficiali solo in dialetto, con generale scandalo dei benpensanti) suggeriva un’attenzione mediatica non ef-
con il lavoro di tecnico biomedico), prima con i manifesti e poi con la persona di Bruno Salvadori, l’autonomista valdostano scomparso presto in un incidente stradale. E tuttavia il nuovo «verbo politico», diffuso negli ambiti di provincia, con le scritte in vernice bianca sulle grigie muraglie lungo le autostrade o con interventi nei circoli di cultori degli idiomi locali, trovava un terreno fertile nel clima sociale prealpino, dando forma e lentissimamente rappresentanza a un malessere antico del Nord, fino allora espressosi soltanto con un mugugno, certamente collettivo, ma sempre sommesso. Era in fondo la secolare disillusione verso i risultati concreti del processo di unificazione statuale del Paese, al quale proprio le classi dirigenti del
Nord avevano dato innesco con il Risorgimento. Una disillusione concretatasi ben presto nel sostanziale abbandono della politica, dello stato, dell’amministrazione. Nasceva allora a fine ’800 la vocazione industriale e commerciale dei lombardi, più proiettati come economia e cultura verso l’«altro Nord», quello europeo, che verso il resto d’Italia. E scegliendo la produzione, il lavoro, l’innovazione avevano stabilito di «fare a meno» della politica e delle istituzioni. Tanto che, nel comune sentire, chi viveva nella carriera pubblica e politica, per dignitosa che fosse, veniva interpretato come «uno che non ce l’aveva fatta» nell’impresa e nel lavoro e quindi sostanzialmente come un ininfluente comprimario sociale. Questo assetto mentale, questa diffusa cultura maggioritaria aveva resistito, di fatto impermeabile, a due guerre mondiali e, in mezzo, alla dittatura fascista. Soltanto l’imponente fenomeno migratorio interno, negli anni del «boom» economico, aveva cominciato a scalfire questa condizione di «separati in casa»: quando cioè l’incontro sul territorio di persone, famiglie e gruppi sociali di differente identità culturale (pur se cittadini della stessa Nazione) aveva creato tensioni e spesso conflitti in un faticoso e non sempre lineare processo di integrazione.
«Tutta colpa di Garibaldi»... (e dell’avventurosa spedizione risorgimentale) era il leitmotiv con il quale nel sentire popolare si
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sopportava a fatica l’arrivo e l’inserimento di frotte di meridionali, emigrati alla ricerca del lavoro e di una vita migliore. Sapendo tuttavia che si trattava di un fenomeno ineluttabile e non reversibile. Semmai favoriva la tendenza al brontolio sotterraneo e represso: perché «... non si può parlar male di Garibaldi...». Che era l’altro «luogo comune» con cui gli abitanti originari lamentavano l’alterità dello Stato, delle sue amministrazioni e della sua paludata retorica, sentita molto più consona al carattere e al modo di pensare dei nuovi arrivati. E tuttavia lo scorrere degli anni e la sostanziale assimilazione nei ritmi di vita e di lavoro del Nord avevano smussato gli spigoli e ridotto le asperità, lasciando in piedi soltanto la ormai bonaria querelle tra «terroni» e «polentoni». E saranno anche i nuovi inseriti, laddove hanno fatto propria la cultura e l’abitudine del lavoro e dell’innovazione come portato naturale del territorio, a soffrire paradossalmente di più del difficile rapporto con lo Stato, che «non c’è quando serve» (ovvero a garantire sicurezza e controllo, supporto e infrastrutture) e che «c’è troppo quando non serve» (e cioè con il peso patrigno di burocrazia e di adempimenti vessatori e in gran parte dannosi e superflui). Così, quando timidamente avanza la proposta politica della Lega (prima Lombarda e poi Lega Nord) trova un campo già dissodato nelle province prealpine, dove il benessere da intraprendenza e da lavoro si scontra sempre più con lo Stato, un «socio d’impresa» obbligato, sempre pretenzioso e mai tacitabile. E allora, confusamente, si fa strada l’idea collettiva che, comunque, non si può più «fare a meno della Politica» e che la «delega in bianco» affidata per decenni ai partiti della Prima Repubblica (in massima parte la Democrazia Cristiana) ha perduto il suo significato. La Lega ha avuto storicamente il merito temporale e la genialità politica di essere «l’unico tram che passava» e che poteva raccogliere il disagio sedimentato e diffuso e insieme la speranza di un radicale e definitivo cambiamento.
Nessuno, a quanto risulta, ha indagato a fondo sulla similitudine, peraltro coeva, secondo la quale l’affermazione del Carroccio in politica corrisponde in maniera sorprendente alla trasformazione operata nella maggior impresa privata italiana dalla lunga stagione di comando di Cesare Romiti. Lui, manager di scuola e di formazione esclusivamente pubblica, giunge alla guida della Fiat nella fase più tormentata e difficile dell’azienda. E risolve la crisi con un mix del tutto inedito tra capitale privato e macchina pubblica, lanciando la Fiat come «compagnia di bandiera» nazionale, alla cui sorte era legata quella dell’inte-
Dall’alto, Umberto Bossi, militanti leghisti al raduno di Pontida, il Senatur all’epoca della carriera da cantante, il ministro al rientro dopo la malattia, la dirigenza leghista alla manifestazione di Milano a dicembre 2007. A destra, Bossi con il figlio
ro Paese. E l’influenza finanziaria e comunicativa erano coerenti al disegno, nella «contaminazione» efficace tra i diversi ambiti, anche se restavano del tutto privati la proprietà e i profitti. Nel «mercato politico», nei complicati anni ’80 del secolo scorso, avviene una «contaminazione» altrettanto inedita ed efficiente, pur se sperimentata su un terreno molto più sfuggente e complesso. E cioè, nella fase di fusione tra i vari movimenti autonomistici regionali e di strutturazione del movimento, il fondatore e leader della Lega Nord compie, con indubbio genio politico, una spericolata operazione di «trapianto». Ovvero trasferisce le regole anche impietose della struttura di partito di origine leninista e di marca «vecchio Pci» (compresa la ferrea organizzazione, la solida gerarchia e un indiscusso centralismo carismatico) sul corpo sociale di una militanza e di un elettorato che per valori, costumi e consuetudini era formato tutto all’opposto. Il processo, faticoso e non del tutto indolore, gli consente e gli consentirà di reggere senza eccessivi tormenti sia le sfide al vertice che gli inquinamenti esterni. E uscirà sempre vincitore contro gli avversari interni, anche i più organizzati e sostenuti (come, in epoche diverse, il lombardo Castellazzi, i veneti Rocchetta e Comencini e il piemontese Comino). Non solo: ma con un simile assetto potrà anche mantenere un rapporto ambivalente, fatto di distacchi furiosi e di quiete riconciliazioni, con l’ideologo storico del federalismo padano, il professor Gianfranco Miglio. In verità, se si ripensa a quegli anni, si deve riconoscere che Bossi incoccia anche nella fortuna. La fortuna cioè di aver già costruito l’embrione completo di un movimento di massa quando il quadro politico bloccato per decenni nella cosiddetta «prima Repubblica» si scongela all’improvviso per la subitanea fine del comunismo, il crollo del Muro di Berlino e il seppellimento della contrapposizione Est-Ovest che aveva pesantemente condizionato il mezzo secolo precedente, anche e soprattutto in Italia. Non solo: lo sconvolgimento del 1989, che cambia il mondo e tracima con particolare forza nel nostro Paese, da tempo immemorabile stretto nel confronto e nella morsa politica Dc-Pci, trova il leader del Carroccio già insediato in Parlamento. È l’unico senatore della Lega Lombarda, eletto nelle politiche del 1987 (c’è anche un deputato, l’architetto e aviatore Giuseppe Leoni), e ha l’intera legislatura a dispo-
sizione per conoscere dall’interno la macchina del Palazzo, per impratichirsi con le procedure e i regolamenti parlamentari e legislativi, per assistere da vicino alle liturgie del potere, cogliendo l’essenza delle congiure e delle imboscate che maturano nei retropalco e nei sottoscala della politica ufficiale. Il Senatùr solitario, espressione di una minoranza periferica che appare stravagante e marginale, non ha responsabilità né approccio ai giochi di potere: e allora diventa spesso il libero depositario di pettegolezzi di corridoio e di confidenze riservate, delle quali saprà, nell’epoca politica successiva, far ampio tesoro. Anche per aggregare, con un complesso processo di mediazione, gli altri movimenti autonomisti del Settentrione in una definitiva «Lega Nord».
E lo si vedrà infatti alla tornata successiva, quando alle elezioni del 1992 (le ultime
svoltesi con il metodo proporzionale) la Lega Nord ottiene più dell’8 per cento di consensi a livello nazionale, conquistando 55 deputati e 25 senatori. Ed è la prova che la democrazia italiana si è finalmente sbloccata: il senso di stanchezza, se non di disgusto collettivo, per la politica ha trovato un canale di sfogo elettorale, che comunque segnala il tramonto ineluttabile della «Prima Repubblica». Su questo impetuoso processo, apertosi con la caduta del Muro e la conseguente crisi della sinistra (sia politica che culturale) piomba a deviare (se non a intorbidare) il corso democratico del popolo sovrano la vicenda insieme salutare e opaca di Mani Pulite. Le indagini sulla corruzione e il successivo peso preponderante del circuito mediatico-giudiziario sconvolgono non solo l’assetto istituzionale, ma altresì il cammino di trasformazione già autonomamente innescato dal basso e che vede così turbato il suo naturale svolgimento. In un gioco enigmatico di «sommersi e di salvati», l’ondata giustizialista muta profondamente i rapporti di forza.
il caso
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E, sul terreno politico, proprio il partito più giovane, la Lega, ne è insieme protagonista (con il cappio sventolato in Parlamento) e vittima (l’homo novus Bossi sarà l’unico segretario di partito condannato dalla Magistratura per «finanziamento illecito»).
Quando si scioglie in anticipo il «Parlamento degli inquisiti» (siamo alla fine del ’93) il Carroccio appare inarrestabile: in primavera ha espugnato Milano con il rassicurante sindaco Formentini e i sondaggi riservati lo prevedono, nonostante gli infortuni giudiziari, al 26-27 per cento di voti su base nazionale... La discesa in campo improvvisa del Cavalier Berlusconi (che appare in fondo un «leghista in doppiopetto») modifica di gran lunga le previsioni. Certo si forma l’alleanza tra Lega e Forza Italia (che al Centro-Sud aggiunge lo «sdoganato» Msi di Fini): le elezioni vengono vinte contro la «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto, della sinistra (e anche dell’establishment) e nasce un governo con molti neofiti che durerà però pochi mesi. È Bossi che si è sentito scippare di mano il trionfo annunciato e teme che la marea montante del neonato berlusconismo, sorto con gli stessi principi liberali e riformisti della Lega, ingoi rapidamente il partito e in gran parte l’elettorato. Si compie così la vicenda del «ribaltone»: e con l’accordo da congiurati con i segretari del Pds (D’Alema) e del Ppi (Buttiglione) al primo governo del Cavaliere, a Natale del ’94, viene fatta mancare la maggioranza parlamentare. Nei due anni successivi si verifica una trasformazione sociale del movimento, che accentua i suoi caratteri popolani e proletari, cominciando già da allora l’erosione tra i ceti operai. Alle politiche del ’96, nel bipo-
vece, sia pur di poco, l’Ulivo di Prodi (che sarà poi sostituito da D’Alema prima e da Amato poi): e per Bossi si apriva una lunga «traversata del deserto», sopportata e rinvigorita dall’improvvisa battaglia per la «secessione» del Nord. Una linea certamente minoritaria (pur con tutto il fantasioso contorno del rito dell’ampolla dalle sorgenti alla foce del Po, il fiume insieme sacro e magico, spina dorsale della diletta Padania), e tuttavia in grado di far trascorrere la stagione dell’isolamento, nel quale la Lega viene descritta e vissuta all’esterno in alternativa tra «costola della sinistra» e «destra xenofoba neonazista».
È a cavallo del cambio del Millennio che avviene un’ulteriore trasformazione: dopo anni di insulti reciproci, i due homines novi che hanno cambiato il panorama politico del Paese comprendono che sono fatti della stessa pasta e, soprattutto, che interpretano e coagulano in forme diverse e complementari il medesimo «blocco sociale» che è certamente maggioritario nel Nord ma che è altresì ripetutamente espandibile verso Sud se riesce a trasmettere l’immagine dell’innovazione e del radicale mutamento. Finalmente «scoppiata la pace» tra loro, Bossi e Berlusconi segnano di fatto (in politica, ma anche in economia e perfino nel costume) tutto il primo decennio appena conclusosi del XXI secolo. Tranne un effimero ritorno di fiamma di Prodi e di una Unione litigiosa e contraddittoria tra il 2006 e la primavera del 2008, l’«asse del Nord» tra Lega e Forza Italia (e poi Popolo della Libertà con l’inglobamento di Alleanza Nazionale) ha retto a tutte le tempeste restando al governo per circa otto anni. Ma l’esercizio del potere, pur se ripetutamente certificato dalla sovra-
La sua malattia arrivò nel bel mezzo del faticoso e contrastatissimo processo riformatore che negli auspici della Lega doveva portare definitivamente al federalismo larismo accentuato tra Polo e Ulivo, il Carroccio sceglie la via della solitudine. Con un seguito clamoroso per una «terza forza» e contro tutte le previsioni e i sondaggi: infatti, pur presente solo nel Settentrione, la Lega sfiora i quattro milioni di voti con oltre il 10 e mezzo per cento su base nazionale. E, tuttavia, tra l’esultanza anche scomposta dei militanti e dello stato maggiore, non si vide mai un Bossi così furioso e incarognito. Aveva perso la sua scommessa politica: quella cioè di essere in Parlamento l’«ago della bilancia» e di lucrare il massimo da una condizione determinante. Aveva vinto in-
nità popolare, non ha significato di per sé capacità di visione strategica e di buon governo. E anche la «riforma delle riforme», quel federalismo tanto a lungo vagheggiato, non ha trovato il suo sbocco finale e soprattutto la sua concreta applicazione. Certo c’è stata, alla fine della quattordicesima legislatura, la complessa approvazione di un’ampia riforma costituzionale che (oltre a ridurre il numero dei parlamentari e a dar vita al Senato delle Regioni) introduceva una robusta «devoluzione» di poteri e competenze alle Regioni e agli enti locali: ma venne poi respinta da un referendum popolare,
Ultima trovata: un salvacondotto «solo per chi governa», dice Calderoli
Federalismo-immunità: il baratto della Lega «Sì allo scudo per il premier»: Bossi ci ripensa. In cambio, pronta la fiducia sul fisco municipale di Errico Novi
ROMA. Non vuole perdere tempo. Se c’è una cosa che lo infastidisce sono le polemiche personali: «Quelle le fanno Berlusconi e Fini, non io». Umberto Bossi ha le idee chiare e un’altra marcia. Passata la buriana del milleproroghe, osservato anche il rischio delle inquietudini meridionali, decide che d’ora in poi, più di prima, si tratta con uno solo. Berlusconi appunto. Che dovrà dargli il federalismo, subito. «Se saranno messe ai voti risoluzioni, quando il governo presenterà martedì l’informativa sul decreto per il fisco municipale, metteremo la fiducia», annuncia poco più tardi Roberto Calderoli. Si tira diritto. Si allacciano le cinture e si predispongono tutte le necessarie cautele in vista dello snodo vero, cruciale. Con le parole del ministro alla Semplificazione, dunque, si capisce anche il senso della sicumera, del piglio persino infastidito del Bossi mattutino. E quell’annuncio di Calderoli è il frutto di un accordo molto preciso.
Lo stipula lo stesso Senatùr con Tremonti e Berlusconi, dopo il voto di fiducia sul milleproroghe. La riunione si tiene nella Sala del governo di Montecitorio, presente, com’è ovvio, an-
che Calderloli. Accordo preciso, si diceva. Cosa ottiene in cambio il Cavaliere? Bossi sembra farlo intendere quando concede ai cronisti un’altra battuta: «L’immunità va fatta solo per Berlusconi.Va bene per lui, perché la gente capisce che c’è un accanimento eccessivo». Qualche giornalista prova a tradurre: va bene anche il processo breve? «Va bene, va bene», risponde il capo dei lumbàrd. Ecco dunque lo scambio. Berlusconi dovrà garantire che gli Scilipoti, i Saverio Romano, si azzittiranno sul federalismo grazie alla fiducia. Si fa carico lui, il Cavaliere, della tenuta e della correttezza dei Responsabili. Già li ha convinti ad accettare il milleproroghe. Ha assicurato che sull’anatocismo delle banche, la norma presa a pretesto dalle truppe di ventura meridionali della maggioranza per contestare il decreto, ci sarà una correzione successiva. Il Carroccio ha richiesto garanzie che gli scontenti non si azzarderanno nemmeno lontanamente a vendicarsi sulle questioni care alla Lega. E visto che non si possono correre rischi, ecco l’annuncio, o meglio la conferma, di Calderoli: martedì sul decreto attuativo bloccato da Napolitano ci sarà la questione di fiducia, se necessario.
il caso
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nuità, ha comunque conquistato consensi trasversali nei ceti sociali e negli ambiti più svariati, con un di più di emotivo e di sentimentale. La Lega e Bossi sono insieme molto amati e moltissimo odiati: ma ci sono e ci sono stati e probabilmente ancora ci saranno.
caricato di altre motivazioni propagandistiche. E solo nella sedicesima legislatura (anno di grazia 2010) sono entrati in funzione alcuni (non tutti) dei decreti attuativi del cosiddetto «federalismo fiscale», ovvero il sistema che trasferisce direttamente al territorio e agli enti locali sia autonoma capacità impositiva che poteri altrettanto autonomi di spesa.
In mezzo a questo faticoso e processo contrastatissimo riformatore, che potrebbe arrivare a regime soltanto alla fine del secondo decennio del secolo, è arrivata la malattia di BosIn teoria nulla di nuovo. L’arma del voto blindato era già carica da giorni, il Consiglio dei ministri si era già pronunciato. Il fatto nuovo è che Bossi non vuole più saperne delle difficoltà sui numeri alla Camera. O meglio, pretende che Berlusconi rimetta tutti in riga. Certo, adesso lui stesso si dice più ottimista. Nel giorno del via libera sul milleproroghe, in Transatlantico dichiara pure che «il governo ha i numeri e ce la farà, è forte e andrà avanti». È l’ottimismo che nasce dalla determinazione: la Lega vuole portare a casa, costi quel che costi, la bandiera piantata sulla cima della legislatura, il federalismo fiscale appunto. E per questo è disposta a tutto. Non vuole più perder tempo, si mostra spazientita per le polemiche del Cavaliere con il presidente della Camera. E dice di voler con-
gislativa. Credo che siano quelli che hanno la necessità di poter, dover, governare».
Ipotesi mai vista. Non l’immunità dei padri costituenti, dunque. Ma una sorta di Lodo Alfano da cui però vengono esclusi i presidenti delle Camere, non ci sono più cioè quelle “alte cariche”oggetto del Lodo prima versione, compreso il capo dello Stato. C’è solo il presidente del Consiglio, magari i governatori. Chissà, forse – visto il discorso di Calderoli – persino i sindaci. Un inedito, appunto. Che assomiglia davvero a uno scudo ad personam. E che d’altronde dovrebbe per forza essere approvato come legge Costituzionale, visto che sul salva-premier ordinario la Consulta si è già pronunciata. Un ghirigoro. Ma in realtà, dietro l’ultima idea partorita dal triangolo Berlusconi-Ghedini-Lega, c’è una logica ferrea. Bossi, prima di altri, non vuole abbassarsi a tornare allo schema della prima Repubblica. Lui che può vantarsi di aver contribuito ad abbattere il sistema politico pre-Tangentopoli, lui che è leader di un popolo anticraxiano, non può pernettersi di ripristinare proprio l’articolo 68 archiviato nel ’93. E in realtà non se lo può permettere nemmeno Berlusconi. Anche lui è un liquidatore della Prima Repubblica. Anche per lui sarebbe imbarazzante presentarsi agli elettori con l’etichetta del restauratore. Nonostante le affermazioni degli ultimi giorni, frutto di una moral suasion dei colonnelli del Pdl per il ritorno alla immunità del ’48, al Cavaliere risulta assai più confortevole la via di uno scudo processuale ”straordinario”. Lui uomo straordinario non può acconciarsi a rimedi banali, abusati dalla vecchia classe politica. Almeno su questo, la trattativa tra premier e Lega pare solidissima. Ma tra il dire che un altro scudo è possibile e il farlo, c’è di mezzo un mare di passaggi parlamentari e l’orizzonte lontanissimo di un referendum.
Prima la bachettata del Senatùr: «Le polemiche le fanno Berluscioni e Fini, noi no». Poi l’intesa in una riunione a cui partecipa anche Tremonti: «La tutela non valga per i deputati» cedere sulla giustizia anche contropartite, come l’immunità, fino a poche prima dichiarate non negoziabili.
Dove va a parare, d’altronde, l’apertura sullo scudo anti-giudici rilanciata da Bossi? È sempre Calderoli a fornire l’interpretazione autentica alle affermazioni del leader: «Pensiamo a una immunità per chi ha la responsabilità diretta rispetto a una amministrazione di un certo peso». In pratica lo scudo riguarderebbe «il premier o chi governa, penso ai presidenti delle Regioni». Non i Parlamentari, né i ministri. Secondo Calderoli, le attuali guarentigie per deputati e senatori «francamente sono sufficienti». Chi governa invece va protetto, continua il ministro alla Semplificazione, «non intendendo tanto i ministri quanto chi guida degli istituti che, attraverso una via assembleare, hanno una funzione le-
E allora darne conto, senza compiacenze né pregiudizi, rivelerà un ritratto sfaccettato, un prisma dai mille bagliori, non tutti scontati o commendevoli. Ma tant’è: il personaggio è parte ineliminabile del Paese e, come tutte le nostre vicende, si mescola e si confonde in un inatteso crogiuolo molto italiano, nel quale tutto si tiene e si radica, tutto si slega e si collega. E forse a far comprendere la complessità tutto sommato inestricabile, basterà citare la genesi del simbolo, quel guerriero medievale con cotta di ferro e spadone alzato al cielo che campeggia tutt’ora, oltre che nel marchio del partito, sulla piazza di Legnano. A volere fortemente quel monumentosimbolo fu, narrano le cronache, il generale Giuseppe Garibaldi che, in un infiammato comizio in quel di Legnano nella primavera del 1867, rimproverò aspramente i lombardi dimentichi delle memorie patrie e so-
Pochi ricordano, ormai, che fu Giuseppe Garibaldi a volere a ogni costo che al centro della città di Legnano fosse eretta una statua di Alberto da Giussano diventata simbolo della Lega si. Un «ictus» improvviso, sotto una tardiva nevicata di marzo e nello stesso giorno del terribile attentato islamico alla stazione di Madrid con oltre duecento vittime. Dopo le terapie in rianimazione e il lungo e impegnativo processo di riabilitazione psicomotorio il leader leghista ne uscirà sostanzialmente in una forma decisamente superiore alle aspettative. Con qualche minima offesa fisica e senza il completo vigore di un tempo, ma con pienamente recuperata sia la vastissima memoria che la lucidità intellettuale e lo straordinario istinto politico: semmai con il carattere umanamente addolcito e in nuova sintonia con la saggezza dei capelli bianchi. Quest’uomo, comunque la si pensi, ha già inciso sulla storia d’Italia, sulla sua vicenda politica, sulla sua cultura diffusa. E del «barbaro» (un termine molto usato nel linguaggio del Palazzo e poi lentamente abbandonato) si è molto spesso preferito non indagare e ricostruire a fondo, scegliendo la comoda via di restringerlo in una variabile etichetta appiccicata ogni volta. Ma il prigioniero si è sempre liberato, suscitando sorprese impensate. Prova ne sia che il suo movimento politico, pur tra rozzezze e inge-
prattutto della vittoria dei Comuni contro il Barbarossa... «uno dei fasti più gloriosi della nostra storia – disse il generale – in cui ebbe parte tutta l’Italia...». Così bacchettati, i locali e tutti i lombardi vollero ovviare alla lacuna. Indetto un concorso e affidato il lavoro a uno scultore di fama, la posa della bronzea effigie venne fissata per una cerimonia solenne da celebrarsi in pompa magna il 29 maggio 1876, nel settecentesimo anniversario della vittoriosa battaglia. E tuttavia, venuto il gran giorno, la statua non era finita. Si preferì, per non rimandare l’occasione, installare sul basamento una copia in cartapesta. Ma nel bel mezzo dell’aulica cerimonia, nel trionfo della retorica militaresca e patriottarda, un dispettoso temporale primaverile inzuppò l’intera piazza: e l’invitto spadone di Alberto da Giussano miseramente si afflosciò. Ci volle un quarto di secolo perché il vuoto fosse riempito. Infatti la statua in bronzo venne collocata (e con una cerimonia più sobria e decisamente in tono minore) soltanto il 29 maggio del 1900. Certo, la statua del guerriero svetta ancora a Legnano e ha trovato nuova vita e fama indiscussa negli ultimi anni. Però... però.
diario
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Istat: cala ancora l’occupazione ROMA.
L’occupazione nelle grandi imprese nel 2010 è diminuita dell’1,6% rispetto al 2009. Lo ha calcolato l’Istat precisando che il dato è al lordo della cassa integrazione. Al netto della cassa l’occupazione nel complesso delle imprese con oltre 500 dipendenti è diminuita dell’1%. Si tratta del dato peggiore dal 2006, anno di inizio della serie storica. Nel 2009 il calo tendenziale nel complesso era stato dell’1,5%. Nel 2010, dice ancora l’Istat, è diminuita soprattutto l’occupazione nelle grandi imprese industriali: nelle grandi aziende del comparto infatti l’occupazione è diminuita del 2,5% al lordo della cig mentre è scesa solo dello 0,7% al netto della cassa (molto utilizzata nel 2009).
Nuovo messaggio di al-Zawahiri
Sanità, archiviato il caso-Vendola
ROMA. Un invito a tutti gli estre-
BARI. Il gip del tribunale di Bari
misti del mondo a escogitare nuovi modi per attaccare l’Occidente arriva da Ayman alZawahiri, il numero 2 di al-Qaeda. In un messaggio diffuso sul web, in cui si sente la sua voce, afferma: «Se non siamo in grado di produrre armi pari a quelle dei crociati occidentali, possiamo sabotare i loro sistemi economici e industriali e prosciugare il loro potere che si batte senza causa, fino a quando non saranno costretti a fuggire. I mujahidin devono escogitare modi nuovi che non verrebbero mai in mente agli occidentali. Un esempio di questo modo di pensare audace è l’uso degli aerei come armi, come è accaduto nella benedetta invasione di New York, Washington e Pennsylvania».
Di Paola ha archiviato, su richiesta della procura, l’indagine a carico del presidente della Regione Puglia, Nichi Vendola. Era indagato assieme ad altre 10 persone per presunte pressioni politiche, nel 2008, nei confronti dei direttori generali di alcune Asl per indurli a nominare direttori amministrativi e sanitari graditi al governo regionale. Intanto Tedesco, il senatore del Pd per il quale la magistratura barese ha chiesto l’arresto, si è dimesso: «Dopo aver valutato la situazione e per consentire al mio partito, al mio gruppo, e al Senato tutto di valutare con serenità le richieste avanzate a mio carico, dichiaro di autosospendermi dal partito e dal gruppo senatoriale del Pd».
Dopo aver praticato o supervisionato circa 75mila interruzioni di gravidanza, cercò di convincere gli altri dell’errore commesso
L’uomo che si convertì alla vita In morte di Bernard Nathanson, il “re degli aborti” divenuto pro-life di Luca Volontè l 21 febbraio è morto Bernard Nathanson, il medico che fu il “re dell’aborto” e che negli ultimi anni della sua vita, grazie alla conversione, divenne uno dei più significativi testimoni della dignità della vita umana fin dal concepimento. La sua vera conversione si basa sui dati scientifici che, a mano a mano, hanno scavato nella coscienza di Nathanson il dubbio e poi la convinzione del sorgere della vita dal concepimento. Un lento e progressivo avvicinamento alla verità della vita umana: consideriamo che ancora nel 1992 diceva di essere non credente, ma di credere che la «vita umana comincia dal concepimento». Nathanson è stato riconosciuto come responsabile della morte di 75mila bambini non ancora nati, e solo all’inizio degli anni ’80 ha preso le distanze dalla pratica medica abortiva. Le sue testimonianze e le denunce pubbliche delle sue stesse pratiche le ha affidate a due film (ovviamente censurati dai massmedia italiani): The silent Scream (1984) e L’eclisse della ragione (1984). Famosa è la sua autobiografia, La mano di Dio (1996) divenuta ormai un testo fondamentale per la promozione dei diritti del nascituro in tutto il mondo. Lo stesso Nathanson stimava di aver supervisionato 60mila aborti, istruito medici che ne praticarono altri 15mila e personalmente effettuato 5mila aborti, tra i quali il suo stesso figlio avuto dalla compagna negli anni ’60. Nathanson si definiva “un ebreo ateista”, ma nel dicembre del 1996 volle essere battezzato dal cardinale John O’Connor nella Chiesa di san Patrizio di New York e poco dopo ricevette il sacramento della Prima comunione dallo stesso cardinale O’Connor. Egli seguiva da vicino il carisma dell’Opus Dei.
Una sua lettera venne pubblicata alla fine degli anni Novanta in quasi tutti i giornali editi negli Stati Uniti. Parlando di se stesso, il ginecologo chiedeva perdono e cercava di convincere il Paese che la vita inizia con il concepimento: «Non è un dato teologico o filosofico, non parliamo di etica ma di scienza medica»
I
Bernard Nathanson era nato a New York il 31 luglio del 1926: suo padre era un prestigioso ostetrico che insegnò in diverse facoltà di medicina dello Stato. Lo stesso Nathanson si specializzò in medicina alla McGill University di
Montreal: in quel periodo pagò l’aborto clandestino per la sua “compagna”, grazie ai soldi che gli vennero inviati dal padre. Nelle sue memorie ricorda quell’avvenimento come «la mia introduzione nel mondo satanico dell’aborto».Tornato a New York, Nathanson lavorò a lungo con le donne povere e verificò quanto gli aborti illegali fossero la prima causa di morte per le donne nel 1967. Egli stesso fece un intervento abortivo sulla propria “compagna”, una esperienza della quale scrisse poi pagine drammatiche nel suo The hand of God. All’inizio degli anni ’70 Nathanson divenne il direttore del Centro per la Salute sessuale e Riproduttiva di Manhattan, che egli stesso definiva la «più impressionante clinica di aborti del mondo occidentale». Con l’avvento delle
nuove tecnologie in campo medico, in particolare gli ultrasuoni, Nathanson si convinse dell’evidenza: cioè che la vita umana inizia dal concepimento e l’aborto è l’uccisione di un essere umano. Rimane memorabile, e perciò ne pubblichiamo alcuni stralci, la straordinaria lettera aperta che Bernard Nathanson volle far pubblicare dai maggiori quotidiani americani nel 1992: «Io sono direttamente responsabile di 75mila aborti, ho una certa credibilità in materia. Sono stato uno dei fondatori dell’Associazione Nazionale per abrogare leggi che vietavano l’aborto negli Stati Uniti dal 1968. Dopodichè, un sondaggio accurato avrebbe stabilito il fatto che la maggior parte degli americani sono contro le leggi permissive sull’aborto. Tuttavia, dopo 5 anni si arrivò alla Cor-
te Suprema che legalizzò l’aborto nel 1973. Come lo ottenemmo questo successo? È importante conoscere la tattica che usammo, in quanto piccole differenze sono state ripetute con successo nel mondo occidentale.
Il nostro primo risultato importante è stato quello di fornire noi stessi ai media i dati del fenomeno, erano convinti che essere a favore di una causa proaborto, un liberalismo avanzato in materia, avrebbe sconfitto gli aborti clandestini. Abbiamo truccato i sondaggi pubblicati poi dai media, dicendo che il 60% degli americani era favorevole al’introduzione di leggi permissive sull’aborto. È stata la tattica di esaltare le loro proprie false convinzioni e così si è ottenuto un sostegno sufficiente, i nostri
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Giuliano Ferrara torna alla Rai: farà l’opinionista dopo il tg1
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
ROMA. La squadra dei fedelissimi berlusconiani allarga il proprio spazio nell’informazione della Rai. Dopo la promozione di Bruno Vespa in prima serata e l’acquisto dell’opinionista Vittorio Sgarbi (a propria volta in prima serata), ora è il turno di Giuliano Ferrara. Che di fatto prende il posto che fu di Enzo Biagi. «Ho avuto l’offerta di rifare la mia vecchia rubrica Radio Londra e l’ho accettata» ha confermato Ferrara. Per lui, infatti, si sta pensando a un programma che andrebbe in onda dopo il Tg1 delle 20, nella collocazione che anni fa era del Fatto di Enzo Biagi. La trattativa è condotta dal direttore generale della Rai, Mauro Masi, e vede coinvolto anche il direttore della rete Mauro Mazza. Il ritorno in video di Ferrara arriva a coronamento del ritrovato attivismo del giornalista al fianco del premier. Dopo un lungo periodo in cui Ferrara sembrava tenersi a margine dell’entourage berlusconiano, improvvisamente,
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
il direttore del Foglio è sceso in campo in prima linea. Prima con una serie di editoriali, poi con la scelta di firmare articoli sul Giornale. Ed ancora con l’intervista fiume sul Tg1 di Minzolini a difesa del Cavaliere. Infine la manifestazione di Milano per Berlusconi e contro ”moralisti”e i giudici. Adesso l’arrivo in Rai e una nuova prevedibile raffica di polemiche legata alla delicata situazione sia del servizio pubblico, sia della situazione politica.
Da sinistra Bernard Nathanson, una manifestazione pro-life e il presidente George W. Bush
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
dati erano basati su numeri falsi di aborti clandestini che si verificavano negli Stati Uniti. Il dato reale era di 100mila o giù di lì, ma i media hanno ripetutamente dato la cifra di un milione.
E una bugia, ripetuta abbastanza volte, convince il pubblico della propria veridicità. Il numero di donne morte per aborti clandestini ogni anno era tra 200 e 250, ma la cifra continuamente ripetuta dai media era di diecimila, e nonostante la loro falsità è stata accettata da molti americani che si erano convinti della necessità di cambiare le leggi sull’aborto. Un altro mito che abbiamo offerto al pubblico, è che cambiare le leggi avrebbe significato solamente legalizzare gli aborti illegali. Ma la verità è che oggi, l’aborto è il principale mezzo di controllo delle nascite negli Stati Uniti. E il numero annuo di aborti è aumentato del 1500 %, 15 volte di più. Il secondo approccio fondamentale è stato quello di giocare la carta anti-cattolicesimo.Sistematicamente abbiamo diffamato la Chiesa cattolica, bollando le sue idee come reazionarie. Abbiamo messo costantemente in risalto questa prospettiva reazionaria. Attraverso mass media abbiamo ribadito che l’opposizione all’aborto proveniva da questo sistema ecclesiale, ma non dal popolo cattolico, e ancora una volta, i sondaggi falsi “provarono” che la maggior parte cattolici volevano la riforma della
«Io non sono di un credo particolare, ma ritengo che sia vergognosa questa pratica che, di fatto, rappresenta un vero e orribile crimine» legge sull’aborto. E i tamburi dei media convinsero il popolo americano che qualsiasi opposizione all’aborto fosse radicata nella gerarchia cattolica, mentre i pro-aborto cattolici erano intelligenti e progressisti. Il fatto che esistessero gruppi cristiani non cattolici, e persino atei pro life,venne sempre censurato. Terzo approccio fu quello di denigrare o ignorare qualsiasi evidenza scientifica che la vita inizia al concepimento. Mi chiedo spesso cosa mi ha fatto cambiare. Come sono diventato da essere un abortista di primo piano a sostenitore pro-vita? Nel 1973 sono diventato direttore di Ostetricia in un grande ospedale della città di New York è stato l’inizio di una nuova tecnologia che oggi utilizziamo quotidianamente per studiare il feto nel grembo materno a aprirmi
gli occhi. Un argomento tipico pro-aborto è quello di sostenere l’impossibilità di definire quando comincia la vita, dicendo che questo è un dibattito teologico o filosofico e non scientifico. Ma l’evidenza scientifica dimostra che la vita inizia dal concepimento e richiede tutta la protezione di cui gode ciascuno di noi. Si potrebbe chiedere allora: perché alcuni medici che conoscono le indagini sul feto, la discreditano e continuano a praticare aborti?
Questione di aritmetica: 300 dollari ciascuno per 1.550.000 aborti significa un settore che produce complessivamente 500 milioni dollari all’anno. Di questi, la maggior parte entra nelle tasche dei medici che eseguono gli aborti. È un fatto evidente che l’aborto volontario è una deliberata distruzione della vita umana. Si tratta di un atto di violenza mortale. Si deve riconoscere che una gravidanza non pianificata pone dei problemi seri e difficili. Ma andare a risolvere il problema con un deliberato atto di distruzione è sottomettersi alla ragione utilitaristica. Come scienziato credo e so che la vita umana inizia al concepimento. E anche se io non sono di una religione particolare, credo che con tutto il cuore che ci sia una divinità che ci comanda di porre fine per sempre a questo crimine infinitamente triste e vergognoso contro l’umanità».
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il personaggio della settimana Ex-attaccante giallorosso, l’Aeroplanino ha preso la guida della Roma
Vincenzo Montella l’allenatore qualunque Voglia, talento, e tanto sudore. Decollato da Pomigliano a 13 anni, il neo-tecnico sbucato da dietro le quinte si misura con una panchina che scotta di Francesco Lo Dico uo padre si spellava le mani alla catena di montaggio dell’AlfaSud di Pomigliano. Lui ha scelto la fabbrica della pedata, e la mani, semmai, le ha fatte consumare agli altri.In famiglia le macchine si costruivano e basta. Lui ne ha comprate diverse. Jaguar soprattutto, anche se il mezzo che più gli ha fatto gonfiare il petto, insieme alla rete, è stato l’aeroplanino. Campano verace, Vincenzo Montella. Un autentico guappo, parafrasano quelli che l’hanno visto spaccare il naso di un paparazzo nell’aria fresca della Capitale. Lui, uno scugnizzo, che diventa un beniamino di Roma capoccia nel feudo del Capitano. Due amori e altrettanti figli, un inizio da portiere e un destino da attaccante, la passione per la doppia cifra condita dal record di doppiette consecutive: quattro, nella stagione 96-97. La doppiezza dev’essere iscritta nel corredo genetico di Vincenzo Montella. Che ha scanso di obiezioni razionalistiche, è pure di giugno, Gemelli, e ha persino due radici nello stesso dente. «Una cosa rara», dice Rita, la sua prima moglie.
S
Non è l’unica, nel curriculum dell’Aeroplanino, passato in pochi giorni dalla guida degli imberbi giovanotti giallorossi, alla guida della prima squadra. Apparentemente senza aver cambiato di un virgola il suo metodo educativo. Ne sa qualcosa Pizarro, veterano del centrocampo romanista da mesi ai margini per dispetto a quel cattivone di Claudio Ranieri. «Se il dolore non è insostenibile, gioca», gli ha detto Vincenzino. E lui, novello Lazzaro è guarito di botto da uno strano infortunio. Il cileno è stato tra i migliori in
campo nel fortunato debutto di Bologna. Uno a zero, e palla a centro per Montella. Che di mettere il pilota automatico fino all’arrivo dei paperoni americani non vuole saperne. «Non mi sento un traghettatore. Al tempo stesso non mi danno fastidio le voci, gli allenatori che si propongono. Per dirla tutta non mi dà fastidio che si parli di Ancelotti, una persona che stimo molto. Il mio obiettivo è solo quello di far bene da qui alla fine dell’anno», ha precisato. Perché se a Vincenzino riuscisse il miracolo di salvare l’annata di Totti e soci, persino San Gennaro sentirebbe scricchiolare i suoi indici di consenso. Anche perché, al mister Montella, non mancano i piedi meno della testa.
E a chi si è mostrato scettico verso la sua inesperienza a grandi livelli, ha risposto con un lazzo niente male: «In serie A ho fatto più panchine io che tanti altri altri allenatori. Un po’ di esperienza ce l’ho». Già, la panca. Ne ha fatta così tanto ai tempi di Capello, che dovrebbero allestirgliene una nello slideshow che ne celebra la carriera. Insieme al cucchiaio a Buffon in un lontano Roma-Parma, ai quattro gol alla Lazio di un indimenticabile derby, e prim’ancora alla faccia dei compagni di strada, quando scoprirono in quel portiere che scalpitava tra i pali, un incredibile attaccante fabbricato a Pomigliano. «Un paese piccolo, povero e particolare», racconta Vincenzo, che però è rimasto importante anche dopo aver bevuto a dismisura dal calice del successo. «Quando raggiungi certi livelli è difficile non perdere la testa», spiega il mister, che nel paese natio ha trovato la chiave di volta per non spingere troppo in alto il suo aeroplanino. «Quando vivevo momenti di esaltazione bastava tornare a casa per ritrovare equilibrio». Vincenzo lasciò il suo paese piccolo e povero a tredici anni. C’è l’Empoli ad attenderlo, il miglior settore giovanile d’Italia. Papà non lo ostacola, ma non può nemmeno incitarlo. «Quando ero più piccolo non aveva tempo per venirmi a vedere, lavorava tutto il giorno»,
racconta. Vincenzo è tra i pochi calciatori che quasi mai ha potuto annoverare i genitori tra gli spalti. «Non hanno mai visto una mia partita – racconta l’Aeroplanino – Una volta sola provai a portare mio padre allo stadio, quando ero già Montella. Scelsi una partita amichevole prevedendo che ci fosse poca gente. Invece lo stadio era pieno e mio padre rimase impressionato dagli spalti gremiti e dalla ressa». Assenti allo stadio, presenti nel cuore, papà e mamma Montella. «La famiglia mi ha dato una base determinante per la mia formazione, il mio equilibrio». Esordisce con l’Empoli nel 90-91, in C1, ma lo scoppio è ritardato da un brutto infortunio. Salta un perone, e se non bastasse si becca anche una brutta infezione virale. È nel 93, che Vincenzino trova i giusti anticorpi: i gol. Diciassette, di splendida fattura, e particolarmente apprezzati a Genova, sponda Grifone. Il salto in B non rallenta il decollo. Il pallottoliere segna ventuno marcature cui Vincenzino appone per la prima volta il marchio di fabbrica: braccia aperte tra le nuvole, andatura caracollante e sguardo verso il cielo: è nato l’Aeroplanino. L’anno successivo continua a solcare il cielo ligura, ma stavolta Montella si arruola nella contraerea. Conquista la A con la Samp, ma lui non accenna turbolenze. L’Aereoplanino vola anche nella massima serie con ventidue gol e il titolo di vicecapocannoniere. La musica non cambia nel 9798, venti reti e si accende la ressa delle grandi che vogliono mettere Vincenzino nel loro hangar.
Alla fine della fiera, se lo aggiudica la Roma nel 1999, dopo aver esordito in Nazionale contro il Galles. È Zeman ad averlo voluto sotto il Cupolone. E invece, quando Montella sbarca, il boemo ha già lasciato al generale Capello. Ci sono le prestazioni, ottime, ci sono i gol, diciotto, ma al capocannoniere del torneo mancano i minuti. Piuttosto che fargli fare novanta minuti filati, il sor Fabio preferirebbe un tuffo nella fontana di Trevi. E come se non bastasse, a
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giugno appare a Trigoria un certo Gabriel Omar Batistuta.
Le decisioni del mister sono chiare: Montella gioca però viene escluso dalla formazione tipo. Che al posto dell’Aeroplanino, prevede il lavoro sporco di Del Vecchio. Eppure segna tredici gol. Di cui alcuni davvero importanti, perché quell’anno il cielo di Roma si tinge di scudetto. Nella stagione del terzo scudetto l’argentino si infortuna. Montella gioca e timbra puntuale il cartellino. Nella terzultima gara Capel-
Resta giallorosso fino al 2007, poi la parentesi londinese al Fulham, e ancora l’Italia. Breve operazione nostalgia alla Sampdoria (2007-2008) e poi ancora Roma nella stagione 2008-2009. Ma di questi ultimi scampoli di carriera, nonstante la classe rimasta intatta, la cosa più memorabile è invero il suo addio. «Quando si smette di incazzarsi quando si resta fuori, è il momento di lasciare. E io voglio lasciare adesso. Perché bisogna smettere di giocare quando ancora dispiace a qualcuno». Il 2 luglio 2009 l’Aeroploanino plana lon-
Nell’afa di luglio, conquista il trofeo di cui forse è più orgoglioso: il diploma in ragioneria lo lo esclude ancora, ma Vincenzo subentra e segna con un pallonetto da antologia scoccato dai venticinque metri. Rete decisiva. Contro il Napoli sbotta. Sono in molti a ricordare il “vivace alterco” con il mister friulano. Non gli porta rancore, oggi, mister Montella. «A livello di gestione ha dimostrato di avere qualcosa in più degli altri.Tutte le mie esperienze sono state positive, oggi, a ripensarci a mente fredda, anche quella con Capello lo è stata. In quel periodo a me sembrava che mi venisse tolto qualcosa. Però Capello sulla gestione aveva qualità superiori».
tano dai campi di calcio. Montella lascia con 235 reti in partite ufficiali, uno scudetto, due Supercoppe, una Coppa Italia, e un Europeo rubato d’un soffio ai nostri azzurri. Non è un vero addio, ma un «mezzo addio», spiega lui, perché la società giallorossa ha deciso di convertire il suo contratto triennale in un contratto da allenatore delle giovanili. «Un ruolo che mi inorgoglisce», dice.
E d’altra parte, molti dei suoi tacchetti si sono appiccicati con la colla ai sampietrini di Roma. Il matrimonio
con Rita, poi naufragato, e l’amore per il figlio, innanzitutto. Sì, anche lui, un futuro calciatore in erba. «Quando capiterà ci penseremo. Oggi mio figlio ha nove anni e gioca nella Polisportiva Palocco. È un attaccante mancino come me ed è bravo – spiega il mister della Roma – Farò in modo di non fargli montare la testa se andrà avanti con il calcio. A me adesso interessa soprattutto che sia bravo a scuola. Ma confesso che se non avesse avuto una certa predisposizione per il calcio mi sarebbe dispiaciuto». Quanto sia importante essere bravi a scuola, papà Vincenzo gliel’ha dimostrato da grande, con caparbietà e nonostante il successo e il futuro in cassaforte. Nell’afa di luglio, Montella Vincenzo si reca all’Istituto Paritario Giacomo Leopardi dove raggiunge il trofeo di cui forse è più orgoglioso: diploma di “Perito commerciale ed aziendale, corso Igea”. Con l’ottima valutazione di 85/100, e la buonissima parlantina, il ragionier Montella viene applaudito anche dagli scolari laziali. Ironia della sorte, ha portato all’esame il bilancio d’esercizio della Roma. E nella Capitale, dopo Rita, ha pure colto un altro amore, Rachele Di Fiore. Fa la hostess della Casa del Grande Fratello, sale a bordo dell’Aeroplanino, e ne viene fuori una figlia. Come poi sia finita non è dato sapere. Montella ruppe il naso a un reporter che lo infilò nei fatti suoi. E la cosa consiglia prudenza, e saggia coltre di mistero. È pur vero che Vincenzo ha fatto tesoro di ogni cosa. Da pochi giorni in sella alla Roma, sembra essere diventato il sosia partenopeo del rude friulano che lo legò alla panca. «Un giocatore di alto livello – ha detto in conferenza stampa – deve essere decisivo anche in mezzora, è la qualità del gioco che conta, non la quantità». E stessa serafica letizia ha mostrato verso i malumori lasciati nello spogliatoio da Claudio Ranieri. «È giusto che un calciatore si incazzi, lo facevo sempre anch’io e quando ho smesso di farlo ho anche smesso di giocare. La sua rabbia però deve trasformarsi in spirito di rivalsa, senza ve-
Professione: attaccante Vincenzo Montella ha realizzato in carriera 235 gol in competizioni ufficiali. In serie A 141 gol (58 con la Sampdoria e 83 con la Roma), in Serie B 21 gol con il Genoa e in Serie C1 27 reti con la maglia dell’Empoli). L’Aeroplanino vanta inoltre 14 gol in Coppa Italia (2 con il Genoa, 4 con la Sampdoria e 8 con la Roma), della quale si è aggiudicato un’edizione in maglia giallorossa. E sempre con la Roma ha conquistato una Supercoppa italiana (1 gol), e uno scudetto. Nelle competizioni europee lo score è invece di 14 gol (10 con la Roma e 4 con la Sampdoria), di cui 2 in Champions League (con la Roma), e nove in Coppa Uuefa (8 con la Roma e 1 con la Sampdoria), e 3 in Coppa Intertoto (con la Sampdoria). Per lui anche due gol in premier leauge, con la maglia del Fulham, e tre con la stessa maglia in Fa Cup. Con gli Azzurri ha totalizzato 20 presenze e 3 gol, prendendo parte all’Europeo 2000 con il ct Zoff, e al Mondiale 2002 con il ct Trapattoni. Il 17 maggio 2008 segna il suo ultimo gol in blucerchiato e in Serie A, nella partita Sampdoria Juventus 3-3. Dal 17 febbraio è subentrato al posto di Ranieri alla guida tecnica della Roma.
nire meno ai suoi doveri di professionista, in campo e negli allenamenti, il rispetto per i ruoli e i compagni non deve mai venire meno». Borriello avvisato, mezzo salvato, insomma. Quanto ai metodi e la risposta alle enormi pressioni della piazza, le idee sono altrettanto chiare. «Ho la fortuna di avere una rosa ampia, di alto livello, almeno sedici giocatori da Roma, quindi ho l’imbarazzo della scelta. Ma pesare il minutaggio e accontentare tutti sarà impossibile. Ascolterò tutti ma ho il mio ruolo, e devo decidere». Chissà come la prenderà il Pupone, a vedere l’ex compagno di squadra fargli mulinare le gambe al ritmo del suo fischietto. Negli anni, insieme, si mormorò a lungo di rapporti tesi. «Una cordiale, ma poco appariscente antipatia», la definirono. Questioni di stili di vita diversi, di rispettive donne che si prendevano poco, di reciproche gelosie. L’altro giorno, a Bologna, Francesco sedeva in panca. Eppure, quando allo stadio è partito il coro, anche il Capitano si è messo a cantare a bocca largin direzione di Vincenzino. Con l’aria che tirava con Ranieri, Francesco deve aver visto nell’antico rivale un’autentica liberazione.
Ad ogni modo, l’Aeroplanino è tornato a volare sui cieli di Roma. Una sola partita, una sola vittoria. E ancora poco per sbilanciarsi, ma tantissimo per sperare. A Roma sono fatti così. Non è poco per uno che non cantava l’Inno di Mameli perché «si vergogna di fare qualsiasi cosa che possa distinguerlo dagli altri». Magari non sarà in prima fila per i centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. Ma stavolta, se resterà in panchina, Montella si sarà distinto eccome.