ISSN 1827-8817
10301
he di cronac
In guerra, la massima «la sicurezza innanzi tutto» porta diritto alla rovina Winston Churchill
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 1 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Dopo la tragedia i soliti opposti estremismi: il premier si chiede se ne vale la pena e Di Pietro dà ogni colpa al governo
Afghanistan, ancora una vittima italiana
gni volta ci chiediamo se questi sacrifici servano davvero». Così il presidente del Consiglio ha commentato la morte nell’ovest dell’Afghanistan del tenente degli alpini Massimo Ranzani. Avrebbe compiuto 37 anni il prossimo 24 marzo, era di Ferrara ed era in Afghanistan dal 12 ottobre, alla sua seconda missione fuori area. In ser-
«O
di Osvaldo Baldacci
Massimo Ranzani
vizio nell’Esercito dal 1999, celibe, era in forza al 5° Reggimento Alpini di Vipiteno, prima vittima di questo reparto mentre gli Alpini hanno già contato diversi caduti. Con lui sono rimasti gravemente feriti altri quattro commilitoni. Il loro mezzo è stato investito dalla deflagrazione di uno Ied (Improvised Explosive Devices), una potentissima mina artigianale. L’e-
splosione ha colpito il terzo mezzo blindato Lince di una pattuglia che rientrava da un’operazione di assistenza medica alla popolazione locale congiunta con le forze afgane. I militari sono stati evacuati presso l’ospedale militare (Role 2) della base Shaft di Shindand, sede del comando della Task Force Centre. segue a pagina 16
Gli States prendono contatto con i ribelli e inviano davanti alla Libia una nave con 6 cacciabombardieri e 42 elicotteri d’assalto
L’ultimatum di Washington Dura la Clinton: «Gheddafi vada via subito.Altrimenti non escludiamo alcuna opzione». E negli Usa già si parla di esilio. Intanto l’Ue delibera embargo e blocco dei beni del raìs PER UNA RISPOSTA EFFICACE
Ci vogliono interventi veri, non palliativi (e scaricabarile) di Mario Arpino e tanto invocate sanzioni del Consiglio di Sicurezza sono arrivate. Quale sarà il loro effetto al fine di fermare la strage? Nessuno. La Libia e il suo leader sono abituati a conviverci. Questi provvedimenti hanno solo l’effetto morale di presa di distanza dai Gheddafi. Eppure, c’è una gran smania di «fare qualcosa di concreto». segue a pagina 2
L
di Pierre Chiartano
La sfida che coinvolge Generali e Rcs
inalmente l’Europa ha fretta: ieri l’Ue ha varato una serie di sanzoni contro il regime di Gheddafi; mentre gli Usa hanno mosso verso la Libia una partfe delle proprie forze nel Mediterraneo. Nei dintorni di Tripoli, intanto, stando ad alcune testimonianze i ribelli hanno abbattuto un elicottero militare del regime. a pagina 2
F
John R. Bolton
Karim Mezran e Sergio Romano
«Il mondo rivaluti «Devono decidere i libici se mandarlo il discorso di Obama al Cairo» alla Corte dell’Aja» Francesco Lo Dico • pagina 4
Luisa Arezzo • pagina 5
Il Cavaliere a tutto campo a Milano: «Voglio tornare un privato cittadino»
Berlusconi contro il Quirinale «Se non gli piacciono le leggi, lo staff del Colle le boccia» di Errico Novi
Per ora niente legittimo impedimento
ROMA. Il Quirinale? «Lo staff è
E intanto rivede la sua linea di difesa
troppo puntiglioso». Il giornali? «Sanno fare solo processi falsi». Il governo? «Sono stufo, non vedo l’ora di tornare privato cittadino». Berlusconi dà spettacolo nella sua città: attacca, promette e accusa. Ma fatti concreti, nessuno. a pagina 10 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
di Marco Palombi
ROMA. Il processo per le false fatturazioni Mediaset è cominciato a Milano con l’imputato Berlusconi contumace. a pagina 11 I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
41 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
Della Valle o Geronzi? Cosa c’è dietro il grande scontro del potere italiano di Giancarlo Galli all’improvviso, fulmine a ciel sereno, con due parole, il cinquantottenne calzaturiero e finanziere Diego Della Valle da Macerata, ha dato il là a quello sciame tellurico che pare destinato a scuotere dalle fondamenta le fragili impalcature del sistema bancario e imprenditoriale italiano. «Arzilli vecchietti» è il termine con cui Della Valle a metà febbraio ha bollato l’attuale establishment, aggiungendo nel suo stile sferzante e dissacratore di far riferimento a quei notabili, ormai prossimi a celebrare le ottanta primavere, che non rischiando nulla in proprio (a differenza degli industriali) poiché agiscono con i “soldi degli altri”, fanno a suo dire il bello e il brutto, dettano legge, nel “sistema Italia”.
E
IN REDAZIONE ALLE ORE
segue a pagina 8
19.30
il commento
prima pagina
pagina 2 • 1 marzo 2011
Il mondo chiede una risposta rapida ed efficace
Ci vogliono misure vere, non palliativi di Mario Arpino segue dalla prima Cosa e quando, a parte le sanzioni, è ancora tutto da vedere. Perfino l’Onu, è vero, sotto la pressione di un inusitato Ban Ki-moon si è mosso con stupefacente solerzia, partorendo il solito topolino. Le idee però circolano, e sono tante. Ma nessuna, al momento, riunisce in sé le necessarie caratteristiche di fattibilità, tempestività ed efficacia. Così, Barak Obama precede l’Onu nel bloccare i beni di Gheddafi e negare il visto per i viaggi dei suoi dignitari, mentre gli inglesi gli revocano l’immunità diplomatica dovuta ai capi di Stato. L’Unione Europea lancia l’idea di interdire lo spazio aereo libico e impedire ai suoi caccia-bombardieri di bombardare le folle, mentre la Nato prende neghittosamente in considerazione questa ipotesi, ma ritiene che necessiti di un’autorizzazione dell’Onu che nella risoluzione del Consiglio non c’è. La Francia frena e l’Inghilterra, oltre a revocare i visti e ventilare – attraverso l’immarcescibile Blair – un generico «intervento della Nato», ritiene che si debba porre l’embargo sulla vendita delle armi. Come l’Onu, che pensa di risolvere il problema mandando Gheddafi e gli altri responsabili a rispondere davanti alla corte dell’Aja.
Tutto ciò è encomiabile, ma nulla è davvero “concreto”, se il motivo è quello conclamato, ovvero “fermare immediatamente le stragi”. Di concreto al momento non ci sono nemmeno le informazioni, se è vero che molto di ciò che i media ci raccontano – in questo si distinguono le televisioni arabe – viene continuamente riaffermato e smentito, come i 10 mila morti, le fosse comuni a Tajura, i bombardamenti su Tripoli e Zawia, un Gheddafi asserragliato nei bunker di Bab al-Azizia ma, contemporaneamente, presente sulla Piazza Verde per lanciare minacciosi proclami suicidi. Anche in Italia, diretta interessata e dalla quale, chissà perché, questa volta la comunità internazionale – compreso Barak Obama – si aspetta molto, si continua a parlare e straparlare. C’è chi approfitta della situazione per picchiare su Berlusconi, chi vuole invece denunciare il trattato di amicizia, chi afferma che – non essendo ancora applicato - è già sospeso di fatto. Prova ne è che “i finanzieri che dovevano assistere i libici a bordo delle motovedette ex-italiane sono rinchiusi nella nostra ambasciata”. C’è anche chi teme – a mio avviso non a torto - un futuro di emirati islamici all’est e chi vuol rendere disponibile, per carità, “solo per scopi umanitari”, la base aerea di Sigonella. Per fortuna c’è anche chi, senza troppe chiacchiere, ha operato davvero concretamente, rimpatriando in breve tempo quasi tutti i connazionali. Come fino a ieri l’Alitalia, e oggi, in condizioni meno permissive, la nostra Aeronautica e la Marina. Soffermiamoci solo un attimo sulla “no flight zone”. Significa mantenere in volo ventiquattro ore al giorno, presumibilmente per diversi giorni (fino a quando Gheddafi cadrà davvero?) ed a seconda dell’estensione di spazio da controllare, decine di velivoli caccia-intercettori, con l’indispensabile corredo di radar volanti e avio-cisterne. Per fare cosa? Impedire a eventuali aerei ancora fedeli a Gheddafi di bombardare il popolo, visto che lo scopo non può che essere umanitario. O, subordinatamente, i pozzi petroliferi. Prima però è necessario distruggere i suoi radar e i suoi missili contraerei, se sappiamo che rispondono ancora ai suoi ordini. Ma l’impiego dei caccia-bombardieri, di cui anche noi disponiamo, presumibilmente cercheremo di lasciarlo fare agli americani. Come in Afghanistan.
il fatto Diplomazie al lavoro per portare sostegno concreto ai ribelli libici
Il dittatore è rimasto solo L’Europa vara embargo e blocco dei beni di Gheddafi e Washington alza la voce: «Se non se ne va in esilio, siamo pronti a tutto». Anche a un attacco militare di Pierre Chiartano
ROMA. La partita libica nelle ultime ore si sta giocando su due fronti. Il primo è quello delle sanzioni internazionali, che vedono l’Onu dare il cappello necessario alla timida Europa e alla tentennante Italia, per entrare nel “gioco”libico. Mentre la Casa Bianca «riposiziona» forze navali e aeree, per creare le sponde utili a un eventuale intervento (non Usa) e da un consiglio: «Gheddafi vada in esilio». Il secondo si gioca sul campo delle operazioni militari. Se il primo risulta chiaro nei vari passaggi istituzionali, compreso l’avvertimento Usa sull’apertura di «ogni opzione», il secondo lo è meno, vista l’ancora scarsa affidabilità delle notizie dal fronte. Se arrivano informazioni su milizie d’insorti a 50 chilometri da Tripoli, da Misurata giunge l’eco di qualcosa che assomiglia a una controffensiva dei fedelissimi di Gheddafi e addirittura dalla profonda Cirenaica, già data per autonoma e liberata, ci sono aggiornamenti sull’aeroporto militare di Bengasi che sarebbe stato conquistato «quasi del tutto» dagli insorti.
Mentre a Ginevra era ieri in corso un summit internazionale a livello dei ministri degli esteri Onu e l’Unione europea ha varato le sanzioni, i rivoltosi libici sembrano iniziare a muoversi verso la zona occidentale del Paese per unirsi alle forze di opposizione presenti nei pressi di Tripoli e lanciare l’assalto alla capitale. Secondo un sito dato per vicino ai servizi segreti israeliani – che non gode però di grande credito – consiglieri militari Usa e europei sarebbero già in Cirenaica per aiutare i ribelli. L’Unione Europea ha adottato nel primo pomeriggio di ieri un embargo sulle armi dirette alla Libia, oltre al congelamento dei beni e il blocco dei
visti contro il leader libico Muammar Gheddafi e 25 funzionari del suo entourage. Il danno economico potenziale delle sanzioni per l’Italia è stato valutato – per quel che valgono questi calcoli – intorno ai 14 miliardi di euro. Intanto all’Aia il procuratore della Corte penale internazionale, Luis Moreno-Ocampo, ha annunciato l’apertura di un esame preliminare sulle violenze in Libia, che potrebbe condurre a un’inchiesta su Muammar Gheddafi per crimini contro l’umanità. In Libia, stando a quanto riferisce il nuovo governo ad interim di Bengasi, i rivoltosi starebbero iniziando ad unire le loro forze. Il principale ostacolo per la marcia su Tripoli appare Sirte, luogo natale del colonnello, controllata dai miliziani fedeli al regime. Sarebbe diventata una roccaforte per Gheddafi più della capitale. Ma istruttori militari americani ed europei sarebbero già in azione. Senza far valutazioni sulla fonte della notizia, consideriamo che potrebbe essere nella logica degli avvenimenti che l’Occidente si stia dando da fare sul campo, per non vanificare le decisioni prese sui tavoli della politica internazionale. Ma il fatto che sia verosimile non significa che sia vero. Una notizia sembra invece quella di elicottero militare precipitato ieri nei dintorni di Misurata, sulla costa, nella zona in cui si sono imbarcati sull’unità anfibia San Giorgio, l’altro giorno, alcuni profughi italiani. Secondo quanto hanno reso noto i ribelli libici che avrebbero preso il controllo della città, il mezzo sarebbe stato abbattuto e sarebbero stati catturati cinque uomini d’equipaggio. Non è chiaro se il velivolo sia lo stesso che poco prima aveva attaccato la sede della radio locale. Sempre Misurata è stata protagonista di un altro episodio che da la cifra
il retroscena
Il primo sconfitto (forse) è al Qaeda Per il “New York Times” i terroristi non hanno avuto alcun ruolo nelle sommosse arabe di Antonio Picasso a rivolta del Nord Africa e del Medioriente segna il fallimento di al-Qaeda? La domanda sta accendendo un dibattito in seno ai maggiori istituti di analisti di politica estera negli Stati Uniti. Un dibattito al quale, ieri, ha dato spazio anche il New York Times, permettendo così che la questione non resti a esclusiva dei simposi accademici. In realtà, la mancanza di capacità opportunistica, da parte del gruppo di Osama bin Laden, era stata messa in evidenza ancora a metà gennaio. Di fronte alla rivolta tunisina, al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqim) non ha colto l’occasione di porsi alla guida dei dimostranti. Le manifestazioni si sono svolte senza una sua minima partecipazione, sia a livello propagandistico, sia in termini operativi.
L
to che il moto di protesta non è ancora terminato. La maggior parte dei think tank interpellati è d’accordo nel sottolineare la contraddizione fra il messaggio qaedista e la rivoluzione dei gelsomini. Osama bin Laden ha sempre professato la ricostruzione del Grande califfato, dopo la sconfitta dell’Occidente e il rovesciamento dei regimi regionali collusi con il primo. Ha profetizzato lo scoppio di una nuova guerra santa. Nel suo disegno visionario, la spada dell’Islam dovrebbe tornare a difendere il Corano. Non è acca-
I movimenti di opposizione non applicano i due principi fondamentali del credo qaedista: la violenza e il fanatismo
Nei cortei al-Qaeda non è mai stata inneggiata. Né quest’ultima ha postato propri comunicati in materia. Nel rispetto del linguaggio giornalistico, in un primo momento, è sembrato che Aqim non fosse “sul pezzo”. Tuttavia, il quotidiano statunitense ha messo in evidenza una serie di lacune strutturali nell’attuale linea politica dell’organizzazione. A queste fanno da contrappeso alcuni campanelli di allarme suonati da color che si rendono con-
duto nulla di tutto questo però. Le rivolte, infatti, si sono sviluppate all’insegna del laicismo. Sebbene in maniera parziale. In piazza Tahrir, il grido di Allah-u-Akbar è stato udito chiaramente. Ma soprattutto i regimi sono crollati nel nome di una spe-
della confusione che si vive in queste fasi concitate della rivolta armata. Alcune unità lealiste avrebbero circondato la sede dell’accademia dell’esercito, sequestrando gli allievi presenti all’interno. Secondo quanto riferisce la tv al-Arabiya, gli allievi fatti prigionieri dai miliziani fedeli a Gheddafi si erano rifiutati di combattere per il regime. Dalle notizie che giungono sempre da Misurata, sembra che si combatta ancora in città, anche se i ribelli mantengono il controllo del centro cittadino e dell’aeroporto. Mentre la città di Sabrata ad ovest di Tripoli sarebbe – il condizionale è d’obbligo – nelle mani dell’esercito fedele al regime. Secondo quanto ha riportato al-Arabiya, «la città è controllata dai soldati dell’esercito libico fedeli a Gheddafi. Non si tratta di mercenari stranieri, ma di libici di una tribù locale» ha affermato l’inviato della tv satellitare, riferendo che nella città «la vita è tranquilla è che la gente sostiene il regime». La caratteristica del fronte libico rispetto alle vicende di Tunisia ed Egitto sta proprio nell’ambiguità e nella contraddizione delle notizie che arrivano. E chi è in possesso delle vere informazioni non ha alcun interesse a diffonderle.
rata democrazia. Elemento, quest’ultimo, che al-Qaeda ha da sempre bandito. «Per il terrorismo, l’avvento della democrazia è un risultato a dir poco terribile», dice Paul R. Pillar, 28 anni di servizio alla Cia e ora visiting professor alla Georgetown University. «Quando una popolazione vede soddisfatte le proprie esigenze di benessere e stabilità in maniera pacifica, la prima cosa che viene a mancare è l’impulso di ricorrere alla violenza».
A giudizio degli osservatori statunitensi, i giovani musulmani del Medioriente si sono resi conto dell’esistenza di un’alternativa al jihad. «Queste rivolte ci hanno dimostrato che le nuove generazioni non sono così drammaticamente allineate all’ideologia qaedista», dice Steven Simon, ricercatore del Council of Foreign Relations. Per questo gli appelli del vice di bin Laden, Ayman al-Zawahiri, appaiono abbandonati a loro stessi. «Se non addirittura patetici». Nel caso particolare del Numero 2 di al-
l’Italia, che ha tanti interessi economici e che condivide non poche responsabilità politiche, si dovrebbe acconciare a organizzare la transizione e il dopo Gheddafi. Che vorrà dire militari, ong, diplomazia e velocità per non farsi scippare la sedia da Parigi. Francesi che non vedono l’ora di rientrare dalla finestra in Libia, dopo essere stati buttati fuori, senza tanti complimenti, dall’Italia ai tempi della defenestrazione di re Idris – con Washington che strizzava l’occhio – e che hanno cominciato a inviare aiuti umanitari a Bengasi. Con il conflitto libico e la conseguente impennata dei prezzi
Ma da oltre Atlantico arrivano “parole”che qualche significato per gli italiani dovrebbero avere. «Il popolo libico deve poter costruire il proprio futuro». Lo ha affermato il segretario di Stato, Hillary Clinton, sottolineando come sia «venuto il momento per Gheddafi di andarsene senza ulteriori ritardi e violenze». La Clinton ha sottolineato che «nessuna opzione è esclusa». Leggendo non tanto in trasparenza, significa che
Ancora più concreto nel suo pessimismo, risulta essere Michael Scheuer, ex direttore dell’unità Cia di ricerca di bin Laden e ora autore dell’ultima biografia su quest’ultimo. L’analista è convinto che Washington e i suoi alleati abbiano prestato erroneamente la propria attenzione solo al carattere «secolare, anglofono e occidentale» delle rivolte. «Ci dimentichiamo che in Egitto, per esempio, la fuga di massa dalle carceri ha provocato la perdita delle tracce dei jihadisti che vi erano detenuti». Scheuer aggiunge che «un’organizzazione non può essere giudicata dalla qualità della sua leadership, bensì dalla capacità di trarre vantaggio dalle situazioni». A suo giudizio, alQaeda, grazie agli avvenimenti di queste settimane, ha esteso una rete ancora più articolata di quella del 2001.
rebbe però meglio evitare termini come «sfortunatamente» e parlar chiaro. Perché ormai gli speculatori, orfani delle borse, si sono buttati nel settore agroalimentare e i prezzi del cibo salgono con gli stessi meccanismi “incomprensibili” della altre commodity, ormai strumento di facili guadagni.
Ma ci sono anche buone notizie che arrivano dalla Cirenaica. I rivoltosi libici hanno annunciato la ripresa delle forniture di petrolio in arrivo dalle aree sotto il loro controllo. Una petroliera della compagnia Arabian Gulf oil company, con a bordo 700mila barili di greggio, avrebbe ripreso il mare, secondo quanto riporta il Wall Street Journal. E «la maggior parte dei pozzi non sarebbe più controllata da Gheddafi». A riferirlo è stato il commissario Ue per l’Energia, Gunther Oettinger. E qualche segnale di cedimento arriva da parte del colonnello, se è vero, come afferma al Jazeera, che avrebbe dato incarico al capo dell’intelligence di aprire delle trattative con l’opposizione. Ma l’eco delle rivolte arriva anche da altre regioni arabe. Anche l’Oman si ribella. Sono ormai tre giorni, infatti, che il piccolo sultanato situato al sud della Penisola arabica è colpito da forti moti di protesta. E anche in Algeria continua a bruciare la fiamma della rivolta e purtroppo anche quella della carne umana. Un giovane che domenica si era dato fuoco davanti alla prefettura di Bordj Bou Arredidj, a est di Algeri è morto ieri. Un altro bel problema per Eni visto che l’Algeria rappresenta quasi il doppio degli approvvigionamenti di gas rispetto a quelli libici.
All’Aja il procuratore della Corte penale internazionale ha annunciato l’apertura di un procedimento su Muammar Gheddafi per crimini contro l’umanità alimentari e del petrolio, il numero di persone colpite dalla fame potrebbe aumentare sempre di più. Anche grazie alla speculazione finanziaria. È l’allarme lanciato ieri dalla commissaria Ue per la gestione delle crisi e gli aiuti umanitari Kristalina Georgieva: «la situazione in Libia mi fa temere un effetto spillover su Tunisia ed Egitto, ma soprattutto sui prezzi alimentari e del petrolio». «Con la fiammata del costo del barile, quel che vediamo è, sfortunatamente, la tendenza all’aumento anche dei prezzi alimentari – ha continuato il responsabile Ue – che può spingere milioni di persone alla fame» e verso l’esodo. Insomma dall’Europa, nella solita forma impersonale, si mette in guardia il mondo per le ripercussioni disastrose della crisi. Sa-
Qaeda, gli osservatori d’oltreatlantico sembrano essere unanimi nel ritenere che i fatti di questi due messi rappresentino una sconfitta anche personale. Questo però non significa che siamo fuori pericolo. Il New York Times pone l’accento sulla Libia. «Finché in questo Paese regnerà il caos e Gheddafi non sarà caduto, per noi sarà facile reclutare nuovi adepti». È la testimonianza di Abu Salman, membro algerino di Aqim. Il nome è fittizio. «Abbiamo tanto lavoro da fare qui, per sostenere la lotta di questo popolo e costruire uno Stato islamico», aggiunge, ricordando che molti veterani libici e tunisini delle guerre in Afghanistan e in Iraq stanno tornando a casa. Questo significa che la possibilità di creare nuove cellule altamente specializzate è più che concreta.
l’approfondimento
pagina 4 • 1 marzo 2011
Il 4 giugno del 2009, Barack Obama tenne un importante discorso all’Università del Cairo, da sempre considerata come la culla dell’islamismo moderato. L’evento suscitò molto clamore in tutto il mondo arabo: qui accanto, quel discorso in diretta tv in un bar del Cairo. Nelle foto sotto, Karim Mezran e Sergio Romano
L’Occidente e le rivolte: Karim Mezran e Sergio Romano hanno opinioni diverse sulle funzioni della piazza e della politica
La rosa del Cairo
Fin qui, la politica estera di Washington è stata fallimentare, ma bisogna essere onesti nel riconoscere che il discorso tenuto da Obama nell’ateneo egiziano nel giugno 2009 ha contribuito a cambiare gli equilibri nel mondo arabo di Francesco Lo Dico ono qui per cercare un nuovo inizio fra gli Stati Uniti ed i musulmani nel mondo, basato sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto. E sulla verità: America e Islam non devono essere in competizione. Invece, si sovrappongono e condividono principi comuni, di giustizia e progresso, di tolleranza e dignità di tutti gli esseri umani. Certi cambiamenti non avvengono in un giorno, ma dobbiamo provarci. Gli eventi in Iraq hanno ricordato all’America la necessità di usare la diplomazia e creare consenso internazionale per risolvere i nostri problemi ogni volta che è possibile». Le parole pronunciate dal presidente Barack Obama all’università del Cairo, nel giugno di due anni fa, appaiono oggi rilucere di un alone profetico. Nell’incredulità dell’opinione pubblica internazionale, e in modi e circostanze del tutto imponderabili ai più occhiuti apparati di intelligence dello scenario globale, il mondo assiste da qualche settimana con un
«S
misto di sgomento e ammirazione a quello che molti definiscono ormai il 1848 nordafricano. Ed è giocoforza domandarsi quanto la politica della mano tesa del presidente americano, aspramente criticata da quanti avrebbero preferito proseguire la guerra contro il Male dell’amministrazione Bush, abbia potuto influire proprio su quello che tutti oggi battezzano come il «nuovo inizio» tanto atteso, l’avvento della rivolta popolare in Libia, Egitto e Tunisia.
ingenerato negli anni della presidenza Bush. La popolazione ha avvertito in quell’appello al dialogo una vera svolta, perché è cresciuta, soprattutto nelle frange giovanili che sono state protagoniste dei rivolgimenti, la percezione di avere trovato negli Usa un alleato decisivo contro la tirannide».
Di segno opposto è invece la disanima dell’ex ambasciatore ed editorialista del Corriere della sera, Sergio Romano. «Le parole di Obama al Cairo erano state
sagge ed equilibrate, ma da queste il popolo arabo non ha tratto alcuna ispirazione. Innanzitutto va notato che l’attuale presidente americano si rivolgeva allora alle autorità egiziane contro cui è poi scattata la rivolta. E in secondo luogo, i fatti nordafricani dimostrano semmai come le tesi neocon sostenute e divulgate in Occidente nel corso dell’amministrazione Bush non fossero rispondenti alla realtà. In Libia come in Egitto, non è stato il fondamentalismo islamico a organizzare il dissenso e a farlo esplode-
re in un grande movimento di massa. Si è trattato piuttosto di sommovimenti della società civile e moderata, nient’affatto guidata da istanze religiose totalizzanti, che si è levata piuttosto per affermare la propria voglia di democrazia e di libertà. La caccia al terrorismo, la guerra santa contro il Diavolo islamico, ha accecato l’Occidente. Con il risultato che ciò che accade oggi nei Paesi arabi, ci giunge sorprendente nonostante sia il compimento di fermenti culturali iniziati da decenni».
È di questo avviso Karin Mezran, direttore del Centro Studi Americani presieduto da Giuliano Amato: «Non c’è dubbio. Il discorso tenuto da Obama ad Al-Azhar ha segnato l’origine della rivoluzione nordafricana in quanto ha sancito una nuova alleanza tra islam moderato e Stati Uniti in seguito al clima di scontro
«Il presidente è stato un incentivo per l’islam moderato»
Sul grande contributo offerto dai giovani nordafricani alla causa della rivoluzione, concorda Mezran: «Nella mano tesa di Obama, la gioventù islamica avvezza alle nuove tecnologie ha riconosciuto l’affidabile controparte di una comunicazione rimasta per molto tempo clandestina
1 marzo 2011 • pagina 5
Secondo John R. Bolton, Gheddafi non deve essere incriminato dall’Occidente
«Ma adesso tocca ai libici decidere se mandarlo all’Aja» «ll nostro compito? Riconoscere un governo provvisorio, girare i proventi del petrolio all’opposizione e non armare i rivoltosi» di Luisa Arezzo er quasi due decenni, i leader di Al Qaeda hanno accusato i dittatori del mondo arabo di essere degli eretici burattini dell’Occidente, invitando la gente alla rivolta. Eppure, nel loro rovesciamento, Al Qaeda non ha giocato alcun ruolo. Com’è possibile, si chiedeva ieri il New York Times e soprattutto, cosa significa questa assenza? Per Scott Shane, autore dell’articolo, che al Qaeda sia sul viale del tramonto e prossima alla sconfitta. Di parere diametralmente opposto Jonh R. Bolton, già ambasciatore Usa alle Nazioni Unite e profondo conoscitore del mondo arabo. Che non vede alcun nesso particolare fra le due cose. Ci vuole spiegare perché? I governi arabi, o meglio le dittature arabe, sorte sulle ceneri dei regimi post coloniali negli anni Cinquanta e Sessanta sull’onda del nazionalismo interno, erano quasi completamente secolarizzate. Nulla a che vedere con Al Qaeda, che rappresenta un’alternativa religiosa. Mi spiego meglio: la caduta dei regimi arabi come quello di Mubarak o Gheddafi non c’entra assolutamente nulla con i movimenti qaedisti. Qui ci sono dei popoli protesi al consegumento della democrazia. Ecco perché ritengo un errore leggere questi avvenimenti alla stregua di una cartina tornasole dello stato di salute di al Qaeda. Il New York Times ha pubblicato un articolo molto interessante, ma quello che accade in Egitto e in Libia non è al momento riconducibile (e forse non la sarà nemmeno in futuro) al movimento di bin Laden. Sia l’amministrazione Obama che la Ue sono concordi sull’idea di creare una No fly zone sui cieli libici per impedire il bombardamento dei civili. Pensa che possa essere un’azione utile contro Gheddafi? La proposta di una No fly zone ha sicuramente senso visto come stanno andando le cose in Libia, anche se io ho qualche perplessità su come gli Stati Uniti e i Paesi della Nato potranno gestirla. Al momento non ci sono portaerei nel Mediterraneo e dunque per tutte le operazioni bisognerà fare affidamento sulle basi italiane. Non sono certo che la Nato abbia gli strumenti necessari per un’operazione di questo tipo nel breve periodo, ma fa bene a prenderla in considerazione. Per entrare in azione sarebbe comunque necessario un ulteriore passaggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu? Non necessariamente. La Nato può deciderlo anche in maniera autonoma. Oltretutto non sono certo che la Cina darebbe il via libera, anzi: potrebbe porre il suo veto.
P
Hillary Clinton ieri ha detto che se Gheddafi non lascerà il potere ogni opzione potrà essere presa in considerazione. Le stesse parole usate anche dal senatore repubblicano John McCain. Affermazioni che danno adito a molte interpretazioni, finanche quella di un vero intervento militare. Senza correre con l’immaginazione, quali potrebbero realisticamente essere queste opzioni?
«La No fly zone potrebbe essere approvata solo per i cieli di Tripoli, dove i rischi sono maggiori» La prima mossa per aiutarli davvero potrebbe essere quella di riconoscere un governo libico alternativo, un governo provvisorio. A Bengasi stanno provando ad instaurarlo e certamente dovremmo entrarci in contatto. Poi si potrebbe intervenire sul fronte economico: a fronte del fatto che non si interrompa il flusso energetico verso l’Europa dovremmo garantire all’opposizione che ne controlla il flusso la revenue economica. In questo modo avrebbero del denaro. La No fly zone potrebbe essere approvata solo per i cieli di Tripoli, dove al momento il rischio di un bombardamento della popolazione è maggiore. Mentre
escluderei, in questa fase, di pensare ad armare l’opposizione libica. Dopo la ratifica delle sanzioni da parte dell’Onu, ieri anche l’Unione europea ha approvato le misure contro il regime. Dall’embargo di armi al divieto di espatrio al congelamento dei beni del raiss. Quanto tempo ci vorrà prima che diventino realmente operative? E che effetto potranno avere sul regime? Francamente penso che le sanzioni, almeno nel medio periodo, non avranno il benché minimo effetto sul regime. Gheddafi ha soldi, armi e tutto ciò che gli serve per trascinare il Paese nel baratro della guerra civile. Senza dimenticare le altre emergenze dell’area: la Somalia in primis, vera base di molti terroristi e che potrebbe aiutare Gheddafi e poi l’emergenza umanitaria che sta toccando i Paesi confinanti e che potrebbe presto interessare l’Europa. La comunità internazionale spinge affinché Gheddafi venga portato all’Aja davanti alla Corte Penale internazionale per crimini contro l’umanità. Non c’è il rischio, così facendo, di trasformarlo in un martire del mondo arabo? Sono convinto che debba essere il nuovo governo libico, una volta che si sarà insediato, a dover giudicare Gheddafi. Non penso che la comunità internazionale lo debba portare in alcun luogo e tantomeno davanti alla Corte dell’Aja. Alcuni osservatori sostengono che ci sia un nesso fra il discorso pronunciato da Obama al Cairo nel 2009 e le rivolte a cui stiamo assistendo. Noi non siamo mai stati particolarmente teneri con le scelte in politica estera fatte da Obama, ma forse bisogna riconoscergli questo merito? Assolutamente no. Quello di Obama è stato un discorso al mondo musulmano e poco aveva a che fare con la richiesta di una nuova democrazia in Tunisia, Egitto, Libia e mondo arabo. Non credo sia stato fonte di ispirazione per la rivolta. Dallo Yemen all’Oman, dal Barhein alla Libia: tutto il mondo arabo è in fibrillazione. Ma cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro? L’unica cosa chiara in questo momento è che ogni Paese è un’esperienza a sè e che ancora non si può dire con certezza cosa ci riserverà il futuro. Sicuramente stiamo andando incontro a un periodo di forte instabilità in cui l’azione terroristica troverà spazio e linfa. In più assisteremo a una crescita del potere iraniano che renderà sempre più precaria la situazione mediorientale.
nei circuiti della virtualità. L’interscambio ha prodotto alla lunga nella gente della rete la sensazione di poter essere massa critica decisiva nelle sorti dei loro Paesi. E così pensieri, opinioni e posizioni di ostilità nei confronti della dittatura, sono precipitate da internet alla realtà, dai forum alle piazze». Ma anche il direttore del Centro Studi Americani evidenzia come «l’elemento religioso per anni scongiurato dopo l’11 settembre si è manifestato come del tutto marginale nelle rivolte».
Un aspetto sul quale fornisce chiarimenti l’ex ambasciatore Sergio Romano: «Presentato come la madre di tutte le minacce, il terrorismo di Al Qaida e le sue velleità egemoniche sulla società araba escono ridimensionati. Le dinamiche interne dell’Egitto, protagonista di un boom demografico iniziato due decenni fa, avevano già creato le premesse della rivolta. A partire dall’impennata dell’alfabetizzazione e della familiarità con le nuove tecnologie, era nata da tempo in Egitto una società di giovani uniti da alcune caratteristiche comuni: tanti, diplomati e con un telefonino in tasca». L’estremismo islamico ha avuto scarsa voce in capitolo, spiega Romano, «perché in realtà gli atti terroristici erano messaggi recapitati a dittatori come Mubarak, Re Hussein e Ben Ali, che erano i loro veri nemici. L’Islam estremista intendeva mostrare la vulnerabilità dei Paesi occidentali». «Non è facile individuare il cerino che ha incendiato la sterpaglia», osserva Karim Mezran, «ma è certo che questa sterpaglia si estendesse già copiosa nei luoghi della rivolta. Adesso l’Occidente farà bene a seguire con attenzione gli eventi, sebbene sia da escludere qualunque intervento armato in Nord Africa. Manca una leadership forte, e dunque la situazione va monitorata giorno per giorno, specia quella libica, dove i Paesi occidentali potrebbero concedere un salvacondotto a Gheddafi per evitare ulteriori spargimenti di sangue e favorire la transizione democratica». Sul ruolo che il presidente americano ha svolto nello scacchiere mediorentiale, Sergio Romano avverte che «la Casa Bianca ha ereditato il pesante fardello della dottrina bushiana, e un paio di guerre che Washington ha dovuto gestire nonostante le posizioni diametralmente opposte di Obama». «Sebbene oggi non abbia senso rimproverarci per la nostra miopia, va ammesso che l’idea neocon di ribaltare l’intero scacchiere mediorentale, la strategia della guerra al terrore e di Israele come unico grande alleato, fosse dannosa oltreché inutile. Accecati da quelle tesi prefabbricate ci siamo persi il dato più importante: frattanto gli arabi erano cambiati.
pagina 6 • 1 marzo 2011
olte, moltissime analisi sono state scritte in questi giorni per cercare di spiegare l’ondata di rivolte che sta colpendo il Medioriente e l’Africa settentrionale. Nella miopia italiana sono state ignorate però le proteste popolari – le prime in assoluto – che si sono verificate alcuni giorni fa in Corea del Nord, in una cittadina al confine con la Cina. Quindi alla lista tracciata in apertura possiamo aggiungere anche una parte dell’Asia, la più povera e dimenticata. I fattori che accomunano queste manifestazioni sono parecchi: rapidità d’esecuzione, violenza degli scontri e imprevedibilità. La causa comune è una: il passaggio di poteri dal dittatore in carica al proprio delfino. Prendiamo la già citata Corea, l’Egitto e la Libia.Tre regimi, quale più quale meno repressivo; tre Paesi“rivoluzionari”, che circa cinquant’anni fa
M
Giovani, educati fuori dai Paesi di provenienza e molto ricchi. I tre delfini hanno una biografia molto simile e una caratteristica comune: disprezzano la gente sono stati teatro di sollevazioni popolari contro governi democratici ma estremamente corrotti; tre nazioni estremamente militarizzate, anche se nel caso libico a una buona qualità degli arsenali si accompagna da tempo una scarsa capacità di utilizzo. Ma soprattutto tre governi che hanno cercato di divenire monarchie assolutistiche di tipo ereditario, con il passaggio di consegne fra padri e figli sanciti da elezioni truffa “al sapor di democrazia”. Hosni Mubarak, Muammar Gheddafi e Kim Jong-il, in pratica, si sono attirati le ire delle proprie popolazioni non per le violenze, la repressione o la povertà: ma perché, dopo decenni di regno tirannico, hanno tentato di“eternare”le proprie figu-
re tramite Gamal, Saif e Jong-un. Partiamo dalla cronaca, che può sempre aiutare. In Egitto c’è un vuoto di potere, i militari non stanno rispettando le promesse di dare il potere al popolo e attuare le riforme sociali e non si vede all’orizzonte un possibile leader democratico in grado di contenere l’esondazione dei Fratelli musulmani. In Libia il caos è totale: non si hanno notizie certe della sorte di Gheddafi e non si può in alcun modo dare una conta delle vittime che sia credibile. In Corea del Nord lo scorso 14 febbraio (due
Le rivoluzioni contro i figli
Dietro alle proteste di piazza in Egitto, Libia e Corea del Nord c’è la successione di Saif, Gamal e Jong-un. I popoli hanno paura degli eredi, più crudeli dei raìs di Vincenzo Faccioli Pintozzi giorni prima del compleanno del leader Kim Jong-il) la popolazione si è sollevata nelle città di Jongju,Yongchon e Sonchon. Si tratta di insediamenti nella provincia di Pyongan del nord, non lontane dal confine occidentale con la Cina.
Il Dipartimento di sicurezza statale ha ordinato un’inchiesta sull’incidente ma non è riuscito a identificare i manifestan-
ti. Secondo una fonte locale, citata dall’agenzia AsiaNews, «nel passato quando avvenivano queste cose erano i vicini di casa o gli amici a denunciare chi protestava. Oggi invece si difendono l’un l’altro». Le stesse fonti spiegano che questo cambiamento di mentalità «nasce da fattori diversi. Da una parte c’è sicuramente il peggioramento delle condizioni economiche della nazione, che non riesce più a ga-
rantire il fabbisogno alimentare della maggioranza della popolazione; dall’altra c’è il cambiamento al vertice, con la successione al “trono” di Pyongyang di Kim Jong-un, delfino ed erede designato del padre». Ed è questo il punto che fa drizzare le orecchie: i popoli non vogliono gli eredi. Eredi che, tra l’altro, si somigliano molto fra di loro così come i padri – in un certo senso – hanno camminato sugli
prima pagina
stessi sentieri. Analizzandoli uno per uno si capisce meglio l’analogia e la protesta. Saif al-Islam Muammar al-Gheddagi è nato nel giugno del 1972 in Libia. Nel 1994 si diploma in Ingegneria presso l’università Al Fateh di Tripoli; subito dopo si trasferisce a Vienna dove, nel 2000, ottiene un Mba presso l’Imadec austriaco; nel 2008 ottiene un dottorato presso la prestigiosa London School of Economics. Tornato in patria, fonda e dirige la Compagnia nazionale per l’ingegneria nazionale, apre una Fondazione caritativa e aiuta a trattare per la liberazione di ostaggi internazionali nelle mani dei diversi militanti islamici in giro per il mondo. Grazie al suo attivismo guadagna per la Libia l’avvicinamento dell’Unione europea, che inizia a tracciare nel 2007 un Trattato di amicizia comunitario molto sponsorizzato dall’Italia. Qualche mese dopo, Saif dichiara di non voler succedere al padre, perché la Libia «non è una fattoria che si possa ereditare».Tutto bene, dunque?
Non proprio. Nell’agosto del 2008, parlando con la Bbc, ammette candidamente che la Libia «ha ammesso le proprie responsabilità nel bombardamento Lockerbie [non la definisce “colpevole” nda] soltanto per ottenere la rimozione delle sanzioni internazionali contro il Paese». E poi aggiunge: «I parenti delle vittime? Delle iene, che hanno trattato il sangue dei loro cari soltanto per avere più denaro». Da quel momento inizia a perdere lo smalto internazionale e l’amicizia dei governi europei, e si avvicina sempre più al padre. Arrivando a essere indicato nel 2010 come erede; in questo ruolo ha minacciato i dimostranti in televisione poco prima della presa di Tripoli. Inoltre, su di lui pesano accuse di crudeltà contro i servitori personali; il popolo, inoltre, lo ritiene “eccessivo”nello stile personale. Quello che è certo è che, fino alla sollevazione, ha speso milioni di dollari in lussi sfrenati. Gamal Al Din Mohammed Hosni Sayed
Mubarak è il più giovane dei due figli di Hosni Mubarak, il Faraone egiziano caduto in disgrazia all’inizio del mese. Contrariamente al fratello maggiore Alaa, Gamal ha da sempre mantenuto un profilo pubblico e politico di un certo spessore sin dall’ingresso nell’età adulta. Meno esibizionista di Saif Gheddafi, è stato sempre più interessato a inserirsi nel solco del padre piuttosto che a godersi la bella vita. Dopo aver studiato presso la prestigiosa Università americana del Cairo, entra infatti subito in Bank of America, dove si concentra sullo studio della finanza internazionale. Lascia l’istituto per fondare, insieme ad alcuni colleghi, la Medinvest Associates, con base a Londra. Ma dall’inizio del 2000 guarda con più attenzione al Partito NazionalDemocratico (di cui il Faraone è padrepadrone) e al Parlamento cairota. Inizia la scalata partitica giusto all’inizio del nuovo millennio, dopo aver capito che il padre non ha intenzione di nominare un erede politico e tanto meno un vice presidente. Nel giugno del 2000 inoltre, a pochi chilometri dai confini egiziani (giusto il tempo di bypassare Israele) si verifica un evento fondamentale: a poche ore dalla morte di Hafez al Assad, il Leone di Siria, il piccolo leoncino Bashar ne prende il posto. Sui media egiziani si scatena un dibattito infuocato sulla successione ereditaria e sulla sua legittimità, ferocemente contestata dalla sinistra socialista. Sia Hosni che Gamal dichiarano in maniera ripetuta che una cosa del genere «non succederà mai al Cairo», ma non convincono il popolo. Nel 2006, Gamal sostiene: «Non voglio il posto di mio padre, ma rimango al mio posto».
Il riferimento è al rango di vice Segretario generale del Partito e di presidente della Commissione politica interna, probabilmente il ruolo più importante di tutti. La situazione precipita con la malattia del Faraone, che inizia a inviare il figliolo al suo posto ai ricevimenti e agli incontri internazionali. Inoltre, gli delega una parte del controllo dell’esercito. Durante l’occupazione di piazza Tahrir, la gente urla slogan contro Gamal e ripete ai media che «nessuno vuole un altro Faraone,
il primo basta e avanza». La caduta di Mubarak è repentina e inaspettata, e del figlio si perdono le tracce. La storia coreana è ancora più rocambolesca, in accordo con uno degli Stati più segreti e censurati del mondo. Kim Jongun è il secondogenito di Ko Yong-hee, terza moglie del “Caro Leader”nordcoreano Kim Jong-il morta nel 2004. Il padre lo ha
Ai despoti è stato permesso di comandare con metodi da tiranni perché hanno combattuto e vinto in nome dei propri popoli. I ragazzi invece sono solo molto viziati e sprezzanti di tutto indicato come proprio erede circa un anno fa, dopo almeno due anni di incertezza sulla sua successione. I media ufficiali del regime stalinista non hanno riportato l’investitura, ma hanno dato ampio spazio alla sua promozione ai vertici del Partito dei lavoratori. Secondo alcuni analisti, questa sua natura “pericolosa” deriva dall’ambiente in cui è nato e vissuto. Dopo una lunga parentesi di studi in Svizzera, Kim Jong-un ha frequentato la corte del padre ed ha dovuto affrontare i fratelli maggiori, nati dal primo e dal secondo matrimonio del “Caro Leader”, che ne hanno ostacolato in tutti i modi la scalata al potere. Una fonte di liberal spiega che il padre «ha apprezzato questo spirito. Kim Jongil avrebbe persino dato il suo permesso a un’eventuale uccisione degli altri candidati al trono: la sorella più giovane del dittatore Kyong-hee, il marito Jang Songtaek e la “first lady”Kim Ok». Il candidato
In alto, da sinistra: un manifestante a piazza Tahrir; dimostrazioni contro Kim Jong-un; la folla in Libia; Saif al Islam al Gheddafi, manifestanti in Egitto protestano contro Gamal Mubarak; scene da Tripoli; l’esercito abbandona le armi in Egitto; Kim Jong-un, terzogenito ed erede del Caro Leader nordcoreano Kim Jong-il
1 marzo 2011 • pagina 7
più pericoloso sembra essere Jang: dopo un allontanamento dal potere, che ha causato alla moglie una forte depressione, ora è considerato il secondo uomo più potente del regime. Al momento, zio e nipote sembrano lavorare in accordo all’ambizioso progetto di modernizzare Pyongyang. Come Kim Jong-il prima di loro, infatti, al cambio di dittatore viene accostata una ripartizione delle commesse e degli appalti statali. Il giovane Kim, continua la fonte, «è temutissimo dalla popolazione, che lo considera un folle sanguinario. Quasi tutti attribuiscono a lui gli attacchi militari lanciato prima contro la corvetta sudcoreana Cheonan e poi contro un’isola sotto il controllo di Seoul: attacchi che hanno provocato un sensibile restringimento dell’invio di aiuti umanitari dal Sud. I nordcoreani sono pronti a tutti per bloccare la successione».
Queste brevi biografie ragionate dei figli-delfini non sembrano essere poi troppo diverse da quelle recenti dei padri; non li distanzia troppo dagli augusti genitori. Anzi in alcuni casi – come quello di Saif – i tratti tra padre e figlio sembrano combaciare. Il fatto è che i dittatori in caduta libera, in gioventù, non hanno goduto dei benefici che hanno poi fornito ai figli; anzi, sono stati tutti membri dei ceti inferiori della società, hanno molto spesso combattuto in trincea, hanno propagato il valore dello sforzo.Soprattutto hanno ridato orgoglio nazionale e unità a Paesi a rischio colonialismo, o coloniali, cacciando gli invasori o i presunti tali dal suolo nazionale. Sono stati molto amati, in maniera sincera, dai propri connazionali. Sono impazziti, ma soltanto in un secondo momento. Le rivoluzioni di questi giorni, dunque, si spiegano con una considerazione socio-politica: ai dittatori in carica si è permesso di comandare in maniera ingiusta perché hanno combattuto e vinto (almeno da un punto di vista nominale) per la propria gente. I figli, no: sono soltanto rampolli viziati e crudeli che hanno avuto il meglio dalla vita, che hanno mangiato a spese della popolazione dimostrandone un enorme disprezzo. All’alba del loro regno, il popolo ha deciso altrimenti.
il paginone
pagina 8 • 1 marzo 2011
Tra Generali e Rcs, Della Valle ha attaccato gli «arzilli vecchietti» in nome degli affari (contro la speculazione politica). E così Geronzi è finito nell’angolo. Almeno per ora di Giancarlo Galli segue dalla prima Contro chi ha scagliato la freccia, acuminata e avvelenata il Robin Hood delle scarpe Tod’s? In prima battuta, rabbia e un tremar di polsi, fra i molti “arzilli vecchietti”, che occupano prestigiose poltrone. Uno sfogliare precipitoso di annuari nelle redazioni dei giornali, poiché di “vecchietti”, e tutti arzilli, in circolazione ve ne sono a bizzeffe, nella foresta pietrificata del Potere economico. Da Cesare Geronzi classe 1935 (presidente delle Generali) a Giovanni Bazoli (1932 per nascita), dominus del Gruppo San Paolo-Intesa, all’ultrapotente quanto riservato Giuseppe Guzzetti da Como (1934) che regge con polso d’acciaio la galassia delle Fondazioni bancarie. Col passare delle ore, il bersaglio del Robin della Finanza s’è andato precisando. I “vec-
L’ultimo Cda del colosso triestino è durato addirittura sette ore. Alla fine il banchiere dei Castelli è stato costretto a cedere i poteri operativi chietti” presi di mira erano due: Geronzi e Bazoli. Senonché , da brillante stratega che ha studiato l’Arte della guerra di von Clausewitz, Diego ha da essersi reso consapevole che una battaglia su due fronti comportava rischi troppo alti. Eccolo allora concentrarsi (almeno in questa fase della battaglia) su un unico obiettivo: tagliare l’erba sotto i piedi dell’av-
versario ritenuto più debole: Cesare Geronzi, appunto.
Interrogativo ultrapertinente : perché Della Valle (e chi lo spalleggia, come vedremo) ce l’ha con Geronzi? «Nulla di personale, però…», si usa dire in simili circostanze. La risposta va ricercata in quel “però”, congiuntivo avversativo. Cesare Geronzi è navigatissimo banchiere di lungo corso e collaudata esperienza che anche superando tempeste giudiziarie, ha saputo scalare la piramide del potere. Dall’apprendistato in Banca d’Italia al Banco di Napoli, dal Banco di Roma a Capitalia. Dopo la morte di Enrico Cuccia e la defenestrazione del delfino Vincenzo Maranghi, al vertice di Mediobanca. Da qui, un paio d’anni fa, l’ultimo balzo: la presidenza delle Assicurazioni Generali, pilastro del sistema finanziario italiano. In un intreccio di partecipazioni che assai poco hanno da spartire con l’originaria vocazione assicurativa della Compagnia. Da notare: Generali ha in portafoglio il 2 per cento di Mediobanca (che a sua volta è il maggior azionista di Trieste col 13,46 per cento), il 5,48 per cento di Pirelli, il 4,97 di San Paolo-Intesa, il 3,40 della Rizzoli-Corriere della Sera (Rcs), il 6,20 di Telecom. Quale significato rispetto al business assicurativo? Correttezza impone di registrare che sin dall’epoca Cuc-
Che cosa si nasconde dietro alla battaglia senza esclusio
La guerra cia, l’establishment aveva trasformato le generali in uno zatterone d’appoggio delle aziende in difficoltà, o con problemi di equilibri nell’azionariato di controllo. Tuttavia i tempi son mutati, e la statura di Geronzi non è raffrontabile a quella di Enrico Cuccia. Di più: le performances borsistiche di Generali, appesantite da poco redditizie partecipazioni, paiono nettamente inferiori allo standard europeo. Non bastasse, in una recentissima intervista al Financial Times patron Geronzi, già ai ferri corti col suo management, ha improvvidamente dichiarato che la “vocazione” della Compagnia è di condurre opera-
Diego Della Valle e, sopra, Cesare Geronzi. Nelle altre foto, dall’alto: il leone delle Generali, Bazoli, Del Vecchio, Perissinotto, Tronchetti Provera e Montezemolo
zioni “sistemiche”, portando ad esempio il finanziamento al Ponte sullo Stretto di Messina. Per i “soci privati” dei quali Della Valle ha preso la testa, s’è trattato della goccia che ha fatto traboccare il vaso. S’è così giunti al regolamento dei conti, mercoledì 23 febbraio, in un Consiglio d’amministrazione protrattosi per sette ore. Durata inusuale, e segnale di profondi dissensi. Risultato: se non un colpo di stato “costituzionale”, poco ci manca. Validamente spalleggiando Mister Tod’s, l’amministratore delegato Giovanni Perissinotto, manager tosto e determinato, ha fatto prevalere la sua impostazione, mettendo con le spalle al muro il presidente.
Si sa ovviamente come ci si comporta nei salotti buoni: una medaglietta allo sconfitto cui si riconosce di avere “sempre garantito le condizioni di diritto e di fatto affinché ciascun consigliere potesse validamente concorrere a incidere sugli indirizzi strategici”. Anche perché, nel frattempo, l’industriale Leonardo Del Vecchio (Luxottica, 1,96 per cento del capitale), aveva sbattuto la porta, so-
il paginone
1 marzo 2011 • pagina 9
le), si legge “Nessuna delle partecipazioni detenute dalla Compagnia ha rilevanza strategica salvo quelle per cui esistono rapporti industriali”. Invece ci troviamo innanzi alla sublimazione dell’ipocrisia. Infatti, nel “patto” Rcs troviamo in ordine di importanza, Mediobanca (13,6), Fiat (0,3) Italmobiliare dei Pesenti cementieri (7,4), Fondiaria di Ligresti (5,2), Intesa-San Paolo di Bazoli (4,9), Merloni (2), Mittel ancora di Bazoli (1,2). E attenzione: la stessa Dorint Holding di Della Valle col robusto 5,4 per cento. Domanda: per quali reconditi propositi il Della Valle col cappello di consigliere delle Generali propone lo sganciamento da una Rcs della quale è lui stesso socio in presa diretta? Risposta, politica ancora prima che finanziaria: Mister Tod’s intende con questa mossa, apparentemente incomprensibile, far sgretolare un sistema di alleanze che hanno pietrificato l’economia italiana. A ben vedere, un gesto che potrebbe avere concordato con l’amico Sergio Marchionne della Fiat, che ha ormai rotto gli ormeggi.
Diego da Macerata non è Robin Hood, semmai uno Zorro in italica versione. Cresciuto e allattato dall’establishment, ha deciso con spregiudicata mossa gattopardesca, che per il bene del Paese s’imponga un ricambio un ricambio della classe dirigente. Ritenuta sclerotizzata, in ogni caso incapace di qualsiasi rinnovamento. Un sentimento che pare riscuota non pochi consensi negli ambienti imprenditoriali (in primis, Luca Cordero di Montezemolo), piuttosto stanchi del
oni di colpi che si sta combattendo nella grande finanza
a di Diego stenendo che con ben altre prospettive era entrato in Generali. Va da sé che Cesare Geronzi non ha fatto una piega. Stando alle cronache, a fine riunione Geronzi ha porto la mano a Della Valle, che non l’ha lasciata cadere. (Nessuno stupore: financo Fini ha stretto la mano a Berlusconi, alle riunioni per il 150esimo dell’Unità). Oltre il formalismo, la sostanza del ko tecnico inflitto da Della Valle & C. a Geronzi che a meno di colpi di scena (nulla è da escludere!), ha l’aspetto di un presidente dimezzato. In quanto privo di poteri operativi e invitato pure a tenere d’ora in poi la bocca chiusa coi giornali, se non dopo avere ottenuto il preventivo placet del Consiglio.
A scatenare l’offensiva di Mister Tod’s vi è in realtà nel piccolo mondo antico della nostra Alta Finanza un’insofferenza di fondo fra coloro che, restando all’azionariato di controllo Generali hanno un’anima imprenditoriale, una vocazione all’efficienza e al profitto mentre la “scuola di pensiero” della quale Geronzi costituisce la punta di diamante, si ritiene
depositaria di un’altra visione-missione: anteporre, se necessario, agli interessi specifici della Compagnia (sviluppo, profitti, dividendi per i soci), un ruolo parapolitico, di equilibrio dei vari interessi in gioco.
Tradotto il braccio di ferro in soldoni: per Della Valle, e con lui oltre i manager alla Perissinotto, consiglieri della struttura di Leonardo Del Vecchio e Francesco Gaetano Caltagirone, una società per azioni (e le Generali con 237mila azionisti, una storia che comincia nel 1830 quando Trieste era ancora austroungarica , è la perla, ora un po’ offuscata, della Borsa italiana), ha dei compiti primari, irrinunciabili, statutariamente fissati. Fra questi (ed era una tesi cara ad Enrico Cuccia), non certo quello di possedere giornali. Invece Generali, è con una quota del 3,71 per cento, partecipe del “patto” per il controllo di Rcs-Corriere della Sera. Della Valle chiede di metterla in vendita. Potrebbe sembrare una richiesta logica dando credito al comunicato finale del Consiglio Generali in cui (dopo ore ed ore di esasperata mediazione financo sulle virgo-
Dietro alla sfida per il controllo del “Corriere della Sera” c’è anche una lotta generazionale, con Bazoli come obiettivo continuo e tradivo cicaleggiare di Emma Marcegaglia, la Signora di Confindustria che nemmeno s’era accorta di quel che il Marchionne sempre più Detroit-Obama e sempre meno Torino andava combinando. Onde spezzare l’incantesimo, bisognava colpire nel punto giusto: al tallone d’Achille del “sistema”. I “vecchietti” dunque, Geronzi e dietro di lui Bazoli. L’azionariato delle Generali è parso il luogo più indicato per l’attacco, mettendo in difficoltà un Geronzi tutt’altro che in stato di grazia; ma la smobilitazione della quota Generali in Rcs significa una dichiarazione di guerra a Bazoli che, da par suo, ha risposto con un rude “Gli equilibri azionari in Rcs non si toccano”. Quasi un proclama. Ma se le legioni dieghiste sfondassero il fronte in quel di Trieste, che accadrebbe in via Solforino a Milano dove BazoliGeronzi siedono gomito a gomito nel Consiglio d’amministrazione della Rcs-Quotidiani? Però, attorno allo stesso tavolo, gran notaio Piergaetano Marchetti presidente, troviamo pure Diego Della Valle, Luca Cordero di Montezemolo, Antonello Perticone (manager), Giampiero Pesenti e Marco Tronchetti Provera. Lotta di Potere & Poteri senza quartieri, dunque. Esito incertissimo. Con Geronzi determinato a resistere, costi quel che costi.
politica
pagina 10 • 1 marzo 2011
Tutti colpevoli per Berlusconi: da Napolitano e Fini ai pm «che impediscono di riformare la giustizia perché ne trarrei benefici»
Attacco al Quirinale «Staff troppo puntiglioso», dice il premier. Poi scherza: «Ho buttato il telefonino» di Errico Novi
ROMA. Perché in un momento così delicato Berlusconi torna ad attaccare il Colle? È giusto chiederselo. Nel corso di un meeting del Pdl con la Brambilla, il Cavaliere si lancia in una delle sue dissertazioni sulle lungaggini del sistema democratico: «Una legge passa per le Camere, per le commissioni, e viene sottoposta all’esame dello staff del Quirinale», che è «enorme» e «interviene puntigliosamente su tutto». E ci mancherebbe, viene da dire a più di un leader d’opposizione. Giustamente qualcuno, come il responsabile Giustizia del Pd Andrea Orlando, fa notare al premier che «dovrebbe piuttosto ringraziare» la presidenza della Repubblica per il lavoro di verifica preventiva. E Pier Ferdinando Casini ricorda anche che «se si vincono le elezioni non si diventa padroni del Paese» e che «anche i ragazzini sanno bene come il criterio per fare le leggi sia rispettare la costituzionalità». Da una parte, Berlusconi è in una di quelle mattinate a metà tra l’allegro e il tendenzioso, e l’attacco a Napolitano, così ingeneroso nella sostanza, non è proprio dal sen fuggito. Perché appunto, dall’altra parte, la battuta pare studiata in funzione delle prossime mosse sulla giustizia.
Allo studio dell’alchimista Ghedini – ieri impegnato in tribunale per il processo Mediaset dove il Cavaliere non si presenta, pur trovandosi a Milano ed è dichiarato «contumace» – c’è infatti quella che Anna Finocchiaro ribattezza «prescrizione breve». Visto che sul processo breve la contrarietà di Napolitano è nota quanto inevitabile, si prepara un intervento legislativo separato, che ridurrebbe i tempi di prescrizione per i soli imputati incensurati. Anche su questo si rischia di scontare qualche obiezione del Quirinale. La polemica apparentemente estemporanea di Berlusconi ha dunque tutta l’aria di un’accusa preventiva, in vista di intemerate incostituzionali. Tutto ruota attorno ai processi, a quello che si celebra in giornata e alle altre udienze che seguiranno. Il presidente del Consiglio tra
Il dato europeo, prima della crisi libica, è 2,3%
E intanto la benzina rilancia l’inflazione ROMA. È allarme inflazione sul valore dell’euro: nel mese di gennaio l’inflazione nei Paesi che compongono l’area nella quale circola la moneta unica si è attestata al 2,3%. Lo ha reso noto Eurostat, l’ufficio europeo di statistica, che ha rivisto la sua precedente stima flash del 31 gennaio scorso quando aveva indicato una crescita al 2,4%. In dicembre era stata del 2,2%, superando così la soglia del 2% per la prima volta dal novembre 2008. C’è da dire, però, che la rilevazione di gennaio è precedente alla crisi politica dei regimi del Nordafrica che, con l’aumento vertiginoso dei prezzi del petrolio, poterà sicuramente a un’impennata dell’inflazione a febbraio. Non a caso ieri, Andrea Beltratti, presidente del Consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, ha spiegato che «se la situazione in Libia dovesse rimanere difficile, con un’estensione del contagio ad altri Paesi, e quindi se il prezzo del petrolio aumentasse ancora o se rimanesse su questi livelli per qualche settimana o qualche mese, credo che l’impatto sulla crescita e sull’inflazione potrebbe essere sensibile».
Comunque, nell’Unione europea (ossia oltre i ristretti confini dell’area euro), sempre in gennaio, l’inflazione è rimasta stabile al 2,7%. I Paesi che hanno mostrato il tasso annuo più contenuto sono stati l’Irlanda (0,2%) e la Svezia (1,4%), mentre quello più alto è stato registrato in Romania (7,0%), Estonia (5,1%)
e Grecia (4,9%). In Italia l’inflazione è stata dell’1,9%, così come in Francia, mentre in Germania è stata al 2% e in Spagna è salita al 3%. Sull’aumento del tasso annuo d’inflazione, in gennaio, nell’area dell’euro, hanno inciso soprattutto gli aumenti nel settore dei trasporti (5,1%), della casa (4,5%), delle bevande alcoliche e del tabacco (3,7%). I combustibili liquidi sono aumentati dello 0,19% e l’elettricità dello 0,11%.
In margine, sempre a sottolineare la debolezza dell’economia sotto le spinte della crisi nordafricana, c’è da segnalate che l’oro è in rialzo sui mercati future, dove ha raggiunto 1.417 dollari l’oncia: la distanza dal massimo storico di 1.432 dollari, toccato nella prima settimana dello scorso dicembre, è solo oramai dell’1%. In questo caso, l’aumento non dettato tanto dalle tensioni in Libia, quando da quelle nel Sultanato dell’Oman, il paese dove è collocato sullo stretto di Hormuz, un area molto sensibile che divide la penisola arabica dall’Iran. Qui prevale la virtù dell’oro come bene-rifugio. Poi ci sono le ripercussioni sui prezzi del petrolio con Wti oltre 100 dollari e Brent a 111. In questo contesto, il fatto più significativo è che il secondo sta sostituendo il primo come benchmark (punto di riferimento) per le quotazioni internazionali. Gli effetti di questo cambio di prospettive sono scritte nei prezzi: in Europa il greggio costa il 10% in più che negli Usa.
l’altro si scopre non impeccabile nel coordinamento della comunicazione tra sé e i suoi avvocati. Di fronte alla contumacia conclamata sul processo Mediaset, infatti, Niccolò Ghedini dice che all’appuntamento successivo il premier ci sarà (l’11 aprile). Lui però dal palco della Brambilla spiega che sono proprio i suoi legali a dirgli che non deve presentarsi. Non si capisce dunque di chi sia la scelta. Si capisce invece che al Cavaliere è tornato il buonumore quando s’invola in una
perché anche il sottoscritto ne ricaverebbe un beneficio» (e qui l’attualità del tema “processo breve e dintorni”emerge tutta). Secondo atto ’accusa, contro Futuro e libertà: «Adesso che ci siamo liberati di Fini e dei suoi, che sono statalisti, riusciremo a realizzare tutte le riforme che non abbiamo potuto fare finora».Terzo atto, ancora contro Fini: «C’è un patto tra lui e l’Anm per bloccare la riforma della giustizia e in particolare i passaggi sui quali i magistrati non sono d’accor-
Presentata la rete di “punti d’ascolto” del Pdl per i servizi al cittadino: «Prendiamo a modello la Lega», esorta il presidente del Consiglio. Che poi ammette: «Con l’arrivo di Fli abbiamo perso qualcosa» delle sue ricorrenti iperboli evangeliche: «Dico solo che sono l’uomo più processato, ho avuto 2952 udienze, perciò quando mi dicono “fatti processare” io penso “perdonali perché non sanno quello che dicono”». Poi ironizza: «Per non correre rischi con le intercettazioni ho buttato il telefonino».
L’altra ragione che spinge Berlusconi a sparare persino contro lo staff del Quirinale è che, semplicemente, deve dare la colpa a tutti. Tranne che a se stesso. Il Colle dunque è solo il caso più appariscente. Seguono gli altri atti d’accusa. Contro i giudici, naturalmente: «Vorremmo fare la riforma della giustizia e accorciarne innanzitutto i tempi, ma non lo si fa
do». Quarto colpevole, la sinistra: «Non è socialdemocratica ma comunista, con un leader, Bersani, che se noi diciamo bianco, lui dice nero». Quinto colpevole, le Regioni: «Solo due di esse hanno approvato il piano casa». Sesto imputato messo alla sbarra dal Cavaliere, l’ecologismo di sinistra: «Colpa di questa corrente di pensiero se in Italia è così faticoso reintrodurre il nucleare». Settimo imputato, i giornali: «Vivo benissimo perché non li leggo». Ottava vittima dell’avvelenata berlusconiana, ovviamente, il Parlamento: «Quelli che là dentro lavorano sono cinquanta o sessanta. Gli altri sono lì a fare pettegolezzi e si adeguano a quello che dice il capogruppo».
politica
1 marzo 2011 • pagina 11
Da ieri al tribunale di Milano il primo dei quattro dibattimenti
Processo in contumacia. Il premier cambia difesa Niente legittimo impedimento per i diritti Mediaset: il vero obiettivo è bloccare Mills e il caso Ruby di Marco Palombi
Berlusconi ieri ha dato spettacolo per i fedelissimi del Pdl. Accanto, l’avvocato inglese David Mills. A destra, Niccolò Ghedini che da anni lavora alacremente per difendere il premier in numerosi procedimenti penali
E proprio su questo particolare dettaglio della sua invettiva universale, il Cavaliere si produce nel suo lamento sull’iter a suo giudizio eccessivamente pesante che incontrano le leggi per essere approvate (dopo il via del governo c’è appunto «lo staff del Quirinale che interviene puntigliosamente su tutto», eccettera, dalle commissioni parlamentari al nuovo vaglio del Colle fino agli eventuali «ricorsi dei pm alla Corte costituzionale»). Visto che la conrtobiezione immediata s’indirizzerebbe proprio sui ritardi nelle riforme costituzionali, qui appunto Berlusconi rimpalla la responsabilità su quello statalista conservatore di Fini. Ma è tutto l’impianto delle recriminazioni berlusconiane a fare acqua. L’unico che Berlusconi risparmia nel suo chaier de doleances è Bossi: «Il federalismo farà recuperare molta parte dell’evasione fiscale», concede, passando dal meeting sui “Pun-
ti Pdl” della Brambilla a un appuntamento con Confcommercio. Ma in realtà è proprio al «modello Lega» che il Cavaliere fa esplicito riferimento nel presentare l’iniziativa coordinata dal ministro del Turismo. «Saranno centri di consulenza per le famiglie, per le pratiche della pensione, per i contenziosi». Insomma, anche il Pdl ha la sua rete di “Caaf”. Un tentativo funzionalista di imitare almeno un po’la capillarità dell’insediamento leghista in vista delle Amministrative. Preoccupazione comprensibile, se è vero che lo stesso Berlusconi ammette (è una delle prime volte in assoluto) che «abbiamo perso qualcosa» dopo la nascita di Futuro e libertà. Che però «non andrebbe oltre l’1,3 per cento» se si schierasse con la sinistra. E che più che altro, dice Berlusconi, ha messo in circolo un certo numero di indecisi. «Li recupereremo», rassicura. E i punti “PdlAl servizio degli italiani”sono il motore azzurro di ultima generazione studiato per lo scopo.
ROMA. «Oggi propongo la catena di montaggio. Quattro aule con giudici diversi, una accanto all’altra e noi passeremo da un collegio all’altro senza nemmeno toglierci la toga». Il senatore Piero Longo è uno dei legali del presidente del consiglio e, assieme all’allievo-collega Niccolò Ghedini, è l’uomo che porta il peso di quell’autentica fabbrica di San Pietro che sono i processi milanesi di Silvio Berlusconi: «Sono 13 anni che lo assistiamo e non è mai stato condannato», s’è vantato ieri entrando nell’aula del procedimento sui diritti tv Mediaset. Tecnicamente Longo ha ragione: il premier è stato amnistiato un paio di volte, assolto nel merito o archiviato in qualche caso, prescritto in qualche altro e assolto perché nel frattempo aveva depenalizzato il falso in bilancio in altri ancora. I suoi sodali, in compenso, sono stati falcidiati di condanne: Previti, per dire, comprò davvero la sentenza sul Lodo Mondadori con soldi del Biscione ma il mandante è sconosciuto; gli uomini Fininvest, tra cui il senatore Berruti, sul serio pagarono tangenti alla Finanza ma non si sa chi gli diede l’ordine. Ora, come si sa, rimane in piedi un poker di processi, più un’inchiesta ancora aperta al Tribunale dei ministri di Roma: è quella nata a Trani per le telefonate del premier all’ex commissario dell’Agcom Innocenzi per far chiudere Annozero. Per chi si fosse perso nella giungla giudiziaria nata attorno al presidente del Consiglio, ricapitoliamo i quattro dibattimenti dell’Apocalisse in corso a Milano. Quello di ieri - aggiornato all’11 aprile quando cominceranno a sfilare i testi a difesa (Ghedini s’è lamentato che gliene abbiano concessi troppo pochi) - riguarda la compravendita di diritti tv da parte di Mediaset. Questo processo, come il cosiddetto Mediatrade e quello per la corruzione di David Mills, gemma dall’indagine All Iberian: fu allora, siamo negli anni Novanta, che la Finanza si convinse che le società del Cavaliere facessero la cresta sugli acquisti dei film negli Usa per mettere da parte fondi neri. In pratica, i diritti arrivavano a Mediaset dopo una serie di passaggi in società offshore che facevano lievitare il prezzo: la differenza tra costo iniziale e finale era il “nero”. Scopo: guadagni esentasse e provviste per tangenti. Per l’accusa, ad esempio, Berlusconi s’è messo in tasca 280 milioni di euro, frodando fisco e azionisti Mediaset. Suo socio “occulto”sarebbe l’uomo che gestiva il lato americano dell’affare, l’egiziano Frank Agrama, che di nome fa Farouk Mohamed. Le testimonianze in questo senso sono plurime, una persino di un dirigente Mediaset che non capiva perché dovesse pagare cifre fuori mercato per i film e si sentì rispondere da Agrama, all’ingrosso, che così voleva Berlusconi. Imputati, tra gli altri, oltre all’egiziano e al Cavaliere, Fedele Confalonieri, Paolo Del Bue di Arner Bank e un noto avvocato inglese, architetto della struttura offshore del Biscione. Come i più accorti avranno già capito il legale di cui si parla è David Mills, protagonista dell’omonimo processo per corruzione in atti giudiziari, una sor-
ta di topos berlusconiano insieme al falso in bilancio. Tutto nasce dal peccato d’origine, le inchieste per le tangenti alla Guardia di Finanza e per la costellazione estera con cui Fininvest pagava le mazzette perseguita nei due processi All Iberian (fu negando di avere società offshore – oggi tranquillamente ammesse – che Berlusconi giurò «sulla testa dei suoi figli»): deponendo nei due processi relativi - sostiene l’accusa sulla scorta di una lettera e di un interrogatorio dello stesso avvocato, oltre che della traccia dei soldi - Mills nascose quanto sapeva sulle società estere e le tangenti a Bettino Craxi, in
Sabato prossimo si apre anche il procedimento relativo alle presunte frodi della società Mediatrade per creare fondi neri cambio il Cavaliere lo ripagò con 600mila dollari. Come si sa l’avvocato fu condannato in primo e secondo grado e poi prescritto in Cassazione (ma deve risarcire 250mila euro alla presidenza del Consiglio). La posizione del premier fu stralciata grazie al Lodo Alfano e ora la prescrizione è vicinissima.
Il processo Mediatrade (questo sabato si terrà l’udienza preliminare) nasce dall’indagine sui diritti tv e persegue gli stessi reati ma in anni più recenti e contro una società diversa: il 14 ottobre 2005 la Guardia di Finanza – che è convinta che le illegalità Mediaset nel settore dei diritti tv continuino invariate – perquisisce gli uffici di Mediatrade spa, società ad hoc del gruppo Berlusconi creata nel 1999. La Procura è convinta d’aver scoperto massicci passaggi di denaro dalla società di Agrama a conti esteri riconducibili a gente di Mediaset, anche grazie ad un ex dirigente Paramount, Bruce Gordon. Imputato, oltre ai soliti Frank e Silvio, anche il rampollo del premier Piersilvio. Il 6 aprile, infine, c’è il Ruby day, la prima udienza del nuovo processo a Berlusconi per prostituzione minorile (sesso a pagamento con la giovanissima marocchina) e concussione (la telefonata in Questura per farla rilasciare dopo un arresto per furto).
diario
pagina 12 • 1 marzo 2011
Affittopoli scoppia anche a Roma
Belfronte, dal Pdl all’Udc di Roma
ROMA. Dopo Milano, Roma. Lo scandalo delle case svendute o date in affitto a prezzi al di sotto dei valori di mercato arriva nella Capitale, dove la procura ha deciso di aprire un’inchiesta sugli appartamente gestiti da una serie di enti variamente legati alla Regione Lazio (finora si parla di Ipab o Ater). Per fare un esempio: delle case ancora da vendere, l’Ater ne ha 16.410. E tra queste, ce ne sono più di 1.300 alla Garbatella, mille nella zona di Villa Pamphili, 700 a Testaccio. Quartieri di pregio, certo: ma, in un passato più o meno recente, appartamenti in zone centrali sono stati venduti o affittati a prezzi stracciati. Il problema è capire se i prezzi sono «congrui» rispetto al mercato e alle condizioni dell’immobile.
ROMA. Il gruppo Udc in Campidoglio potrà contare su di un uomo in più: il consigliere Rocco Belfronte è passato dal Pdl, che lo candidò in Campidoglio nel 2008, al partito centrista, portando a quattro il numero di rappresentanti del sodalizio di Pier Ferdinando Casini in aula Giulio Cesare, che già poteva contare sul capogruppo, Alessandro Onorato, e sui consiglieri Paolo Voltaggio e Francesco Smedile. «Mi fa piacere trovare un gruppo così affiatato», ha commentato Belfronte. «Il gruppo capitolino dell’Udc è ormai una squadra complessa che contiene esperienze diverse unite in un progetto comune», ha spiegato il vice presidente e assessore all’Urbanistica della Regione Lazio, Luciano Ciocchetti.
Olipad, l’anti iPad made in Italy ROMA. Sarà nei negozi lunedì prossimo “Olipad”, il primo tablet italiano lanciato da Olivetti. Display touchscreen da 10 pollici e connettività 3G, Wifi e Bluetooth,“Olipad”fa il suo ingresso in un mercato le cui previsioni di vendita in Italia - si legge in una nota del gruppo - per il 2011 sono di circa 1,5 milioni di terminali. Il tablet, che sarà in vendita a 399 euro quindi molto meno del «concorrente» iPad, si rivolge sia alla clientela consumer sia a quella business. Dotato del sistema operativo android e delle porte Usb, Sd card e Hdmi, il tablet è in grado di interfacciarsi con qualsiasi dispositivo; legge musica, immagini, e-book e video e può accedere al browser web, gestire e-mail, agenda e contatti.
Alla Camera oggi la maggioranza chiede la fiducia sul federalismo municipale. Settimana decisiva per la futura spesa sanitaria
Tasse, Sangalli contro il premier Il leader di Confcommercio: «Uno sbaglio alzare l’Iva, il problema è la crescita» di Francesco Pacifico
«Ho accolto volentieri l’invito rivolto dal governo per un confronto con le imprese lombarde», ha detto Carlo Sangalli. «Per noi il problema resta quello di sempre, accelerare e irrobustire la crescita. Gli obiettivi da raggiungere sono semplificazione e riduzione della pressione fiscale, ma anche più lavoro ai giovani»
ROMA. L’asse tra Emma Marcegaglia e Susanna Camusso, tra Confindustria e Cgil, lavora per un piano di rilancio dell’economia. Una piattaforma in grado di dare una scossa al Paese e forse anche di riscrivere gli equilibri della rappresentanza. Carlo Sangalli – e con lui tutto il fronte di Pmi di Rete imprese Italia – è convinto che soltanto la leva fiscale possa incentivare la ripresa.
Ieri, a margine di un convegno a Milano al quale ha partecipato Silvio Berlusconi e il gotha del governo, Sangalli ha spiegato che l’imperativo è «allargare e irrobustire la crescita ma non tassare i consumi». Che è il motto deve essere «più Irpef e meno Iva», non il contrario. Meglio intervenire sui redditi da lavoro. A chi ricorda che aumentare l’Iva è l’unica strada per sconfiggere l’evasione, il numero uno di Confcommercio replica che «l’ipotesi di tassare i consumi anziché i redditi ci vede contrari, perché in un momento in cui la stagnazione rallenta la crescita, appesantirla ci pare una proposta che non va nella direzione del rilancio dei consumi». Quindi ha rilanciato la piattaforma presentata nei mesi scorsi e che prevede di «accelerare e irrobustire la crescita con una riforma fiscale, un federalismo fiscale efficiente e solidale per arrivare a due obiettivi importantissimi: semplificare e ridurre la pressione fiscale e dare occupazione ai giovani». Un monito importante a 24 dallo sbarco a Montecitorio della risoluzione del governo sul federalismo municipale. Quello che introduce la compartecipazione all’Iva, senza però che la Ragioneria generale dello Stato abbia ancora calcolato quanto aumenterà l’imposta ai danni di imprese e cittadini. Al riguardo Gianfranco Fini ha ricordato che «il federalismo fiscale non può e non deve comportare un aumento dell’aggravio del sistema impositivo come al contrario in alcuni casi rischia di essere. Esso è soltanto uno dei pilastri su cui deve poggiare la modernizzazione
del paese e del sistema istituzionale». Quindi ha sottolineato la necessità di «una camera delle regioni, capace di dare risposte certe ai territori e ai cittadini». Senza dimenticare che sempre da oggi le Camere iniziano a vagliare il decreto legislativo che affronta i costi della sanità, introducendo il passaggio dalla spesa storica a quella standard. Una materia finanziata in larga parte dall’Irap, l’imposta più odiata dalle imprese. Non a caso il ministro per i Rapporti con le Regioni, Raffaele Fitto, ieri ha fatto sapere che «gli enti meridionali devono affrontare la sfida del federalismo». Alla base di questo percorso ci deve essere «l’idea chiara che la legge e i prov-
vedimenti collegati non sono altro che un obiettivo forte di aumento della responsabilizzazione degli amministratori per migliorare la qualità della spesa pubblica». Ma per commercianti e artigiani il vero tavolo è quello istituito da Giulio Tremonti per scrivere la riforma fiscale e supere il modello fiscale introdotto quasi 40 anni fa da Ezio Vanoni. E dal quale, in verità, arrivano segnali contrastanti visto che le parti (le imprese grandi e piccole, i professionisti o le banche) hanno posizioni spesso opposte, nonostante si sia ancora in una fase di studio e non certamente di proposte. Senza dimenticare che i piccoli produttori – spesso accusati di essere i maggio-
ri responsabili dell’evasione – non hanno voglia di pagare tutto il prezzo di una sacrosanta battaglia; che ha come obiettivo i circa 120 miliardi di euro di presunto sommerso annuo.
Mariano Bella, economista e responsabile dell’ufficio studi di Confcommercio, spiega che «questa storia del meno Irpef e del più Iva è una cosa vecchia. Se ne ritrova traccia evidente dell’immaginifico linguaggio del ministro Tremonti, quando nel 1994 si affidò a un triplice adagio per ristrutturare il nostro sistema fiscale: dal complesso al semplice, dal centro alla periferia e dalle persone alle cose. Bene, proprio quest’ultimo slogan può essere interpretato come la
1 marzo 2011 • pagina 13
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Malasanità a Lamezia Terme, una bambina muore di tonsillite
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
LAMEZIA TERME. Un nuovo, sospetto, caso di malasanità in Calabria. La procura di Lamezia Terme ha aperto un’inchiesta sulla morte di una bambina di nove anni, Claudia Michienzi, avvenuta dopo un’operazione alle tonsille in cui è stata sottoposta nell’ospedale di Lamezia Terme. La bambina, di Filadelfia (Vibo Valentia) è stata operata lunedì scorso. Due giorni dopo, mercoledì, i medici dell’ospedale calabrese l’hanno dimessa dicendo che tutto andava bene. La piccola, però, tornata a casa non si è sentita bene e il venerdì la madre l’ha riaccompagnata in ospedale. Qui Claudia è stata visitata nuovamente, ma per i medici era tutto normale ed è stata rimandata a casa. Sabato sera, la bambina ha avuto la febbre alta ed è stata male nuovamente. La madre ha chiamato l’ambulanza per trasportarla nuovamente nell’ospedale di Lamezia dove, però, Claudia è giunta morta. La madre della bambina ha presentato una
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
denuncia alla polizia che ha sequestrato la cartella clinica su disposizione della Procura che ha subito affidato l’incarico per l’autopsia. A rendere ancora più tragica, se possibile, la vicenda, c’è il fatto che il padre della bambina è morto nel 2003 a propria volta per un sospetto caso di malasanità. Accusando dolori al petto si recò nell’ospedale di Vibo Valentia dove fu visitato e dimesso. Il giorno dopo morì per un infarto.
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
Qui sopra, Calderoli, Bossi e Tremonti: è iniziata la settimana devisiva per il decreto sul federalismo municipale, bocciato in Commissione bicamerale e ora in discussione alla Camera. Nella pagina a fronte, Carlo Sangalli volontà di fare un trasferimento dell’imposta dai redditi ai consumi». Indipendentemente dalle mode, il capo dell’ufficio studi di Confindustria boccia questo processo. E spiega: «Della proposta non ci convinconono diverse cose: non siamo di fronte svalutazione competività o almeno non è lo è per tutti i settori. È vero che aumentando i prezzi interni diminuiscono i costi di produzione come quello del lavoro, quindi si incentivano le esportazioni e si disincentivano le importazione. Ma come le mettiamo con i bar o con i ristoranti, che – come conferma la composizione della nostra bilancia dei pagamenti – ogni qualvolta vendono un caffè o un pasto è come se lo esportassero?». Bella poi consiglia di valutare con molta attenzione l’effetto regressivo dell’Iva e le ripercussioni sulle classi più abbienti: «Un aumento verrebbe bilanciato soltanto destinando a queste fasce di popolazioni quanto incassato». E sottolinea che «le imprese indirette sono generalmente distorsive, perché ampliano il cuneo fiscale tra gettito che va allo Stato e il peso su chi le paga». In questa logica, «e ricordando che la tassa più evasa è proprio l’Iva, un aumento di questa imposta diventerebbe un incentivo a evadere ancora id più di quanto si fa oggi, anche perché i meccanismi di contrasto non funzionano. Eppoi ci dimentichiamo che rispetto agli altri Paesi europei, l’Italia ha le aliquote
più alte, ma gli incassi minori». Così la pensano gli imprenditori di Rete Italia imprese. I quali, seppur timidamente rispetto al passato, ieri a Milano hanno voluto dare l’ennesima prova di fiducia al governo.
Eccezione per una decina di contestatori arrivati davanti all’Unione del commercio, Silvio Berlusconi ha saputo
Gianfranco Fini: «Il federalismo non può e non deve comportare un aumento delle tasse, come rischia di accadere» intercettare gli umori della platea, quando ha ricordato che in Parlamento «lavorano 50-60 persone, tutti gli altri stanno lì, fanno pettegolezzo e poi seguono ciò che dice il capogruppo. C’è uno spreco di energie e di professionalità che è veramente incredibile». Ma per il resto il premier non ha saputo dare le risposte alle proposte delle imprese. In un intervento durante il quale
il tema dominante è stato la giustizia, e alla richiesta di meno tasse, il ha garantito soltanto la creazione di un «codice tributario unico» e che con il federalismo fiscale «avremo dichiarazioni dei redditi più congrue». E siccome in «Italia c’è un’evasione che supera i 120 miliardi di euro contro i 20 della Francia, se il contribuente sa che i controlli avvengono nell’ufficio dove abita, magari la sua dichiarazione sarà infatti più rispondente al vero». Con lo stesso approccio, ha ripetuto anche ieri che, con la riforma dell’articolo 41 della Costituzione, avremo una legge valida, che farà sì che chi vuole realizzare un albergo lo potrà fare e poi avrà le verifiche da parte di un esponente della pubblica amministrazione per vedere se ha rispettato le leggi ambientali e urbanistiche».
Di conseguenza, ha finito per rassicurare di più le piccole e medie imprese il ministro per lo Sviluppo, Paolo Romani, quando ha spiegato che «bisogna interrompere il meccanismo di incentivazione all’energia rinnovabile che è costato 20 miliardi di euro tra il 2009 e il 2010 agli italiani». Un tema sentito in «un Paese manifatturiero, dove le aziende pagano l’alto costo dell’energia e le rinnovabili sono sulle spalle di chi in conto bolletta ha pagato 20 miliardi in cambio del 4,5 per cento di energia prodotta».
Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato,Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 0 6 . 6 9 9 2 4 0 8 8 - 0 6 . 6 9 9 0 0 8 3 Fax. 0 6 . 6 9 9 2 1 9 3 8 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
politica
pagina 14 • 1 marzo 2011
more e odio. Questi sono i sentimenti contrastanti che il Pd nutre per le primarie. Le ama quando le vince, come accaduto a Torino con Piero Fassino. Le odia quando le perde, come è accaduto a Napoli dove, in verità, non si sa chi ha vinto dal momento che colui che ha preso più voti, Andrea Cozzolino delfino di Antonio Bassolino, è stato accusato di aver imbrogliato o di essersi comunque avvalso di imbrogli. Quando le vince, il Pd pensa che le primarie sono lo strumento più bello e democratico del mondo e tutti, ma proprio tutti i partiti le dovrebbero fare, come ha detto ieri Walter Veltroni: «Ora diventino obbligatorie per tutti i partiti». Quando le perde, il Pd pensa che si tratti di uno strumento imperfetto e non indispensabile visto che non si sa bene come utilizzarlo al meglio e a volte è anche non facile da controllare.
A
Dopo il voto di Napoli (che ora è finito in mano agli avvocati che hanno portato le carte in tribunale), ad esempio, sul blog di Rondolino e Velardi si poteva leggere che «i voti di Miano sono infettati dalla presenza del clan di ‘o Capitone». Così accade che si decida che le primarie non sempre si debbano svolgere: come accade a Benevento dove il Pd riconferma alle elezioni il sindaco uscente Fausto Pepe. Insomma, il pensiero del Pd sulle primarie è infallibile perché equivale a una tripla: 1 x 2. Quando Pierluigi Bersani da Torino ha saputo i risultati dell’alta affluenza alle urne ha tirato il classico sospiro di sollievo. Quando poi gli hanno comunicato anche i risultati del conteggio delle schede ha fatto i salti di gioia. Il che è fin troppo indicativo: il Pd è messo così male che quando riesce a vincere le primarie tocca il cielo con un dito. Gianni Sartori con sarcasmo ha scritto in un suo articolo sul Corriere di qualche mese fa che i democratici si sforzano di capire come vincere le primarie invece di cercare di organizzarsi per vincere le secondarie. Le cose stanno più o meno così: dal momento che non riescono a vincere le elezioni cercano di accontentarsi costruendosi in casa dei turni elettorali che alla fin fine non contano nulla. Se poi si considera che il più delle volte il candidato del Pd le primarie le perde, come a Milano, a Bari, a Napoli, allora si può capire il riformismo del Partito democratico è bocciato prima di tutto dallo stesso centrosinistra. Questo è l’aspetto più serio di tutta la faccenda delle primarie: se il riformismo è minoritario nel centrosinistra come si può pensare che possa essere maggioritario nell’intera società italiana? Le primarie potranno anche essere belle e
L’ambiguo approccio alle consultazioni interne del Partito democratico
Viva le primarie! Anzi no. Dipende... di Giancristiano Desiderio democratiche ma al momento sono servite unicamente per mettere in luce una debolezza ideale e pratica della politica dei democratici. Qualcuno si dovrà pur fermarsi a rifletterci un po’ su. Il giudizio espresso da Veltroni è a dir poco paradossale: l’ex segretario dei Ds, ma anche ex vicepresidente del
Consiglio, ma anche ex sindaco di Roma, ma anche ex candidato alla presidenza del Consiglio dei ministri, dopo la vittoria di Fassino, ha detto che le primarie ora devono diventare obbligatorie per tutti. Naturalmente, se il risultato fosse stato diverso, Veltroni non avrebbe detto quanto ha detto. Soprattutto,
non l’ha detto dopo la vittoria di Pisapia a Milano o dopo il disastro napoletano: qui le primarie non sono state un appuntamento elettorale e democratico, ma un evento sismico. Il Pd ne è uscito così male che è stato commissariato. Si è conclusa così la lunghissima stagione bassoliniana che era iniziata
Questi sono i sentimenti contrastanti che il Pd nutre: le ama quando le vince, come accaduto a Torino con Piero Fassino, ma le odia quando le perde, come è accaduto a Napoli dove, in verità, non s’è ancora capito chi abbia vinto
In alto, Piero Fassino, neovincitore delle primarie interne al Partito democratico per la corsa a sindaco di Torino. A sinistra, Andrea Cozzolino. A destra, Giuliano Pisapia
con un commissariamento Bassolino era il commissario e si è chiusa con un altro commissariamento. Del resto, se in un partito ci sono iscrizioni fantasma, nel senso che sono iscritti anche i morti, se alle primarie prendono parte anche i camorristi - ‘o Capitone - significa che il pensiero sulle primarie dovrebbe essere secondario perché i problemi concreti sono altri e far finta che non ci siano conduce al suicidio politico. La verità è che il Pd ora rilancia le primarie perché ne ha paura. È una forma di esorcismo. Il sostegno allo stesso Fassino non è stato dei più convinti e schierati. Proprio Bersani è stato criticato perché non si è fatto vedere più di tanto sotto la Mole e la sua telefonata a Fassino, dopo il risultato dell’alta affluenza, è stata a tutti gli effetti una telefonata preventiva o riparatrice. Insomma, se si perdeva bisognava star lontani da Torino, ma visto che per fortuna la fortuna ha sorriso bisogna ora mettere il cappello sulla vittoria. Un po’ pochino per un partito che aspira ad essere un modello di vita democratica per gli altri partiti. Un po’pochino perché tutti sanno che le primarie nascono non dall’unione ma dalla divisione, non dalle stesse idee, ma dalle contrapposizioni. Il centrosinistra non sa come organizzarsi e si affida al voto. Le culture politiche non si riconoscono reciprocamente e non sono capaci di perseguire un accordo politico sulla base di un progetto unitario da proporre al Paese e allora si fa ricorso al voto degli elettori che sono chiamati a risolvere quanto i loro stessi partiti non sanno risolvere.
Le primarie in queste condizioni non sono un segno di forza ma di debolezza. Tutta la retorica che si sente in giro sulle primarie - democrazia, scelta, popolo - è appunto soltanto retorica e perfino della peggior specie. Persino la vittoria di Fassino a Torino manifesta questa debolezza: in fondo Fassino nella sua Torino non sta aprendo la sua giornata politica ma la sta chiudendo. Con Fassino non si afferma il ricambio di classe dirigente ma è il prolungamento della vita politica della vecchia guardia. Tutto è all’insegna della fatica e dell’anzianità di servizio. La democrazia ha bisogno per vivere di idee e forze morali. Quando idee e morale non ci sono la democrazia langue. Non saranno le procedure formali a risollevare le sorti della democrazia interna dei partiti. Al contrario, la democrazia può anche morire per troppa democrazia. Le primarie sono soltanto un mezzo, ma il centrosinistra le ha trasformate in un fine dimostrando di non governare più le sue stesse idee e la sua politica che le è scappata di mano.
società
1 marzo 2011 • pagina 15
Nell’intervista di Bagnasco al “Giornale”, anche se non lo nomina mai, è evidente che il cardinale si riferisce a Silvio Berlusconi
Ma la Chiesa sul premier non tace di Luigi Accattoli ontinua la disputa su quello che la Chiesa dice o non dice su Berlusconi e le feste di Arcore. C’è stato un momento - a fine gennaio, in occasione del Consiglio permanente della Cei ad Ancona - nel quale prevalse la percezione di una censura, se pure espressa in linguaggio diplomatico. Ultimamente abbiamo avuto il ricevimento del 18 febbraio all’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede con il diplomaticissimo incontro tra Bagnasco e Berlusconi e l’intervista che domenica il cardinale presidente della Cei ha dato a Il Giornale, e l’impressione dei più è che la Chiesa sia tornata a tacere. Non che mai avesse taciuto, ma di ciò era stata accusata prima che dell’onda mediatica sugli scandali - il cui primo rovescio è del 14 gennaio - parlasse Avvenire, il 18 gennaio.
C
Non è tornata a tacere, dico io, e credo di essere attrezzato per dimostrarlo. Sono andato per 33 anni ai ricevimenti dell’Ambasciata per i Patti Lateranensi e per altrettanti anni ho cercato e condotto e interpretato interviste ai presidenti della Cei per conto della Repubblica e del Corriere della Sera. So qualcosa di quei linguaggi. All’uscita dall’Ambasciata, il 18 sera, il premier disse ai giornalisti: «Tutto benissimo, come sempre». E voleva dire che tra lui e la Chiesa c’era un’intesa di ferro, su ogni aspetto dei rapporti bilaterali, implicazioni personali comprese. Questa è stata invece la dichiarazione venuta il giorno dopo dal car-
dei cristiani nel mondo islamico, in India, in Cina. E anche di temi etici, dal testamento biologico all’adozione dei singles. Ma in nessun modo di “polemiche e scandali”. Dove la possiamo vedere la condiscendenza verso le feste di Arcore, o il chiudere un occhio sugli “scandali” da parte degli uomini di Chiesa? Sarebbe come se uno nel 2007 avesse visto nel colloquio a due tra il cardinale Bertone e il presidente Prodi, che si era avuto nella stessa circostanza, un’adesione del cardi-
dubbio sul fatto che il primo tra tutti sia il premier, come dice la parola stessa? L’intervistatore, che la sa lunga, nomina lui il Rubygate e chiede a Bagnasco una risposta a chi l’accusa di essere stato «troppo equilibrato» quando - ad Ancona aveva citato la Costituzione per richiamare alla «sobrietà» chi assume un mandato politico ma aveva anche bacchettato i magistrati riguardo alla «ingente mole di strumenti di indagine».
favorevole a Berlusconi che si possa incontrare nei media nostrani. E bisogna dire che anche stavolta il cardinale riesce a non nominare mai il premier: questa è arte. Ma nonostante l’aplomb ecco per intero la descrizione di ciò che «preoccupa di più la Chiesa in questo momento» e valutate voi se queste parole non vanno tutte difilato ad Arcore e al suo signore: «La preoccupazione di fondo è che una visione edonista della vita abbia la meglio, mortifichi la dignità personale, e corrompa le energie migliori del nostro Paese. Siamo tutti avvertiti del fatto che una certa cultura della seduzione ha introdotto una mentalità, e ancor prima una pratica di vita, dove sono state messe al bando parole come sacrificio, impegno, disinteresse, e tutto sembra diventare moneta. Questo ha indotto anche tra i giovani falsi miraggi: la rincorsa alla vita facile più che il bene, cercare l’utile più che il vero, inseguire l’effimero anziché ciò che dura».
In realtà, già dopo l’incontro per l’anniversario del Concordato, il prelato precisò che fu un colloquio dovuto dal significato diplomatico e che si trattò di null’altro dinale Bagnasco: «Un incontro istituzionale, di prassi, che ha il suo valore simbolico e anche contenutistico sostanziale, quindi nella norma dell’incontro e del rapporto tra le istituzioni».Tradotto in volgare vuol dire: un incontro dovuto, che ha un significato diplomatico e anche uno specifico per ciò di cui si è trattato, e niente altro. I giornalisti insistono a chiedere e il cardinale dice ancora che «l’incontro è andato, come risulta, sostanzialmente bene». Qui la parola chiave è “come risulta”. Che cosa risultava nelle cronache di quel 19 febbraio? Che si era parlato di questioni internazionali, dall’Africa al Medioriente e della situazione
nale ai Dico. Ogni anno i cardinali incontrano in quella sede il premier pro tempore e con lui trattano le questioni di reciproco interesse. Non se ne può dedurre alcunché che vada oltre quelle realmente trattate. Semmai un segno di attenzione alla persona lo si può avere quando Bertone incontra a quattr’occhi Prodi ma non quando l’incontro, come stavolta, è collegiale. Più interessante è l’intervista del cardinale Angelo Bagnasco a Il Giornale di domenica, condotta dal collega vaticanista Andrea Tornielli. Occorre premettere che quello è il quotidiano della famiglia Berlusconi: e dunque in esso troveremo il Bagnasco più
“Una certa cultura della seduzione”: mi pare perfetto. Ma qualcuno obietta che il cardinale non nominando nessuno parla di tutti. E questo è vero. Ma chi ha qualche
Dall’alto: papa Benedetto XVI; il premier Silvio Berlusconi; il cardinale Angelo Bagnasco
Ed ecco la risposta dell’intervistato: «L’equilibrio di per sé è una virtù, l’equilibrismo no. È una questione di responsabilità. Ora il problema morale è fin troppo evidente perché venga piegato a beneficio dell’una o dell’altra fazione politica. La coerenza personale e il rispetto delle regole sono la condizione necessaria per lo sviluppo di una democrazia». «Il problema morale è fin troppo evidente»: non c’è da chiedersi di chi stia parlando. Poi dice «rispetto delle regole» e questo riguarda anche i magistrati, si capisce. Ma tutto il ragionamento sta a dire che la questione morale è la montagna che abbiamo davanti. Perché chiediamo ai vescovi di affrontare anche la questione politica? Quella spetta a noi laici. www.luigiaccattoli.it
ULTIMAPAGINA A Shindand muore il tenente Ranzani. Berlusconi si chiede se “vale la pena”
In morte di Massimo, un alpino di Osvaldo Baldacci segue dalla prima Qualche ora dopo l’attentato, i talebani hanno rivendicato l’attacco. Al contrario, il governatore afghano di Herat Mohammad Dawood Saba ha espresso dolore e la propria riconoscenza per «il sangue versato» e gratitudine per chi «ha dato la propria vita per la pace». In Afghanistan, ha sottolineato il governatore, si combatte contro il «terrorismo internazionale, che non è solo il nemico dell’Afghanistan, ma di tutta la comunità internazionale».
Ranzani è il 37° militare italiano a cadere durante la missione in Afghanistan, il secondo del 2011. Nel 2010, l’anno peggiore, le vittime italiane sono state 13, contro bilanci inferiori negli anni precedenti: una nel 2004, due nel 2005, sei nel 2006, due nel 2007, due nel 2008, nove nel 2009. Compresi gli italiani, nel 2010 sono morti in Afghanistan 712 militari internazionali, contro i 521 del 2009. Dall’inizio della missione Isaf in Afghanistan, nel 2001, sono oltre 2.300 i militari rimasti uccisi. Per i servizi segreti italiani le capacità
sono riuscite del tutto a neutralizzare la minaccia degli Ied, gli ordigni esplosivi artigianali su cui è saltato il Lince a Shindand. Gli uomini dell’intelligence continuano a ripetere che proprio le bombe artigianali e le imboscate lungo le strade interessate dal transito dei mezzi della colazione, restano le tecniche privilegiate dalla guerriglia, insieme al lancio di razzi verso le basi avanzate di Isaf. Contrastare e prevenire gli attentati condotti con gli ordigni esplosivi improvvisati è divenuta una priorità per le forze alleate. Gli Ied sono ordigni realizzati in maniera artigianale tramite l’impiego di parti di ordigni convenzionali, recuperati per via fortuita o di contrabbando. Un fustino di detersivo, una lattina, una bottiglia: qualsiasi oggetto può diventare un ordigno esplosivo improvvisato.
Frattini e La Russa. «Dobbiamo andare avanti, ma è un tormento», ha concluso Berlusconi, mentre il presidente Napolitano ha espresso «sentimenti di solidale partecipazione al dolore dei familiari del caduto e un affettuoso augurio ai militari feriti». Ma se è un tormento, quale ne è il senso? Perché ci ostiniamo a tenere laggiù 4000 giovani italiani e un ingente spiegamento di mezzi?
È doveroso chiedersi cosa stiamo facendo, e soprattutto come. È cioè doveroso verificare i progressi nella stabilizzazione dell’Afghanistan e nel suo sviluppo, in modo da operare con efficacia e correttezza. Ma risposte ai dubbi sul senso della nostra onero-
CORAGGIOSO E sono potenti quanto o più di una mina convenzionale, grazie anche all’alta professionalità con cui vengono realizzati, e alla ingente quantità di esplosivo che viene utilizzata per sconfiggere le protezioni dei mezzi blindati. Secondo il ministro, il mezzo colpito ieri era dotato di un sistema che impedisce l’attivazione a distanza degli Ied, ma non è bastato. E a fronte di rinnovati rischi segnalati dagli esperti, dai rapimenti agli attentatori suicidi, torna quindi d’attualità la domanda che si è fatto ieri il premier: «Vale la pena?». La sinistra più estrema, da Di Pietro a Vendola ha risposto con toni duri parlando di responsabilità di chi ha votato le missioni e di necessità di un immediato ritiro. Le forze più moderate sia di maggioranza che di opposizione hanno invece chiesto una riflessione in Parlamento pur tenendo fermo il principio dell’azione internazionale dell’Italia e del rispetto degli impegni presi. Linea ribadita da ministri come
Per i servizi segreti italiani le capacità militari degli insorgenti sono aumentate, e il rischio di nuovi attacchi è concreto e reale. In cinque mesi, l’Agenzia per la sicurezza ha diffuso 1.509 “allerta” militari degli insorgenti sono aumentate, e il rischio di nuovi attacchi è concreto e reale. L’Agenzia per la sicurezza esterna nel periodo tra maggio e settembre 2010 ha diffuso 1.509 allerta a fronte di 741 azioni ostili effettivamente verificatesi. Informative più o meno circostanziate su progetti di attacchi agli uomini del nostro contingente che hanno determinato un innalzamento delle misure di sicurezza poste a protezione dei militari e che hanno permesso di sventare diversi attentanti. Ma non
sa missione arrivano proprio in questi giorni. Proprio l’attacco di ieri chiarisce i ruoli in campo: le vittime italiane portavano aiuti medici alla popolazione, gli insorti uccidono la gente a tradimento (e tra l’altro il 30 per cento delle vittime degli Ied sono civili). Seconda risposta, in una visione più ampia: siamo sicuri che non ci sia nessun collegamento tra il vento di libertà che pur con grande fatica spira sul Medioriente e l’impegno internazionale a sostegno del progresso democratico e contro il fondamentalismo e il terrorismo? Siamo sicuri che senza l’Afghanistan e l’Iraq avremmo avuto l’Egitto, la Tunisia, la Libia e le altre spinte democratiche? Forse no, e ora il problema è gestirle per indirizzarle sulla giusta strada, e non far travolgere tutto.