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he di cronac

È comune defetto degli uomini non fare alcun conto, nella bonaccia, della tempesta

Nicolò Machiavelli

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 3 MARZO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Alla Camera il ministro Maroni in controtendenza: «Attenti, dietro alle rivolte potrebbe esserci al Qaeda»

Bombe alla Libia,insulti all’Italia Gli aerei di Gheddafi contro gli insorti. «Roma si è dovuta inchinare» Cruenta battaglia a Brega. Nuovo discorso del raìs: «Ho costretto Berlusconi a chiedere scusa». Ma anche la Lega Araba lo isola e gli chiede di andarsene. Due portaerei americane verso Tripoli

Ora il governo deve reagire

Il consiglio di Edward Luttwak

Perché sbagliano i pessimisti

L’analisi di Tahar Ben Jelloun

Una rivoluzione contro al Qaeda

«È un vento nuovo, cambierà il mondo»

Una sola risposta: «Muovetevi, per voi revocare il Trattato è una vera chance» di Osvaldo Baldacci

di Pierre Chiartano

di Daniel Pipes

di Luisa Arezzo

«Abbiamo costretto l’Italia a inchinarsi», urla Gheddafi in televisione. «L’Italia è stata costretta a chiedere scusa per la sua occupazione militare e a pagare per questo». «L’Italia deve scusarsi con il popolo libico per la sua visione coloniale. Ci pentiamo del rapporto intrattenuto con l’Italia, che dovrà pagare alle autorità libiche risarcimenti per vent’anni». «Siamo andati in Italia portando il figlio di Omar Mukhtar, e li abbiamo costretti a scusarsi per la colonizzazione». Sono tutte parole del leader libico che ieri festeggiava l’anniversario della sua rivoluzione mentre i suoi mercenari continuavano a sparare contro il popolo. a pagina 2

«Se un Paese come l’Italia, con la sua vicinanza alla Libia e una storia condivisa così particolare non agisce, allora esce dal gioco», è il consiglio dell’esperto di strategia Usa Edward Luttwak. a pagina 3

Le ribellioni che stanno sconvolgendo il mondo arabo in queste settimane si inseriscono nel contesto di una scacchiera regionale, di ciò che io chiamo la «guerra fredda mediorientale». a pagina 4

Il centro del mondo si è spostato in Nord Africa. Dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia e poi chissà quali altri paesi ancora. Il popolo invade le strade e riempie le piazze. La polizia in parte solidarizza, in parte reprime. Il mondo sta a guardare e fatica a prendere posizione. «Ma una cosa è certa, nulla sarà più come prima». È una certezza granitica quella che ci esprime il romanziere marocchino di nazionalità francese Tahar Ben Jelloun, che alle rivolte della piazza araba ha dedicato il suo nuovo libro, La rivoluzione dei gelsomini, edito da Bompiani e da ieri in libreria. «Ma attenzione: Gheddafi è un pazzo. A Tripoli servono i Caschi blu dell’Onu». a pagina 5

Ancora sangue per discriminare i cattolici a Islamabad

Shabbaz Bhatti, nuovo martire dei cristiani in Pakistan I talebani uccidono il ministro per le minoranze Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 14

Per pochi voti la Camera «corregge» il no della Bicamerale alla riforma leghista

Un trucco chiamato federalismo Casini: «Aumentano le tasse e si attacca l’Unità nazionale» fatto che il Po non è un dio ma un fiume, che la Padania non è una regione ma una pianura, che Roma non è “ladrona” ma la capitale del nostro Paese. Non possiamo fidarci se la Lega rifiuta di festeggiare il 17 marzo, giorno della ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, con la scusa della crisi economica, salvo poi pretendere un altro giorno di festa per ricordare la battaglia di Legnano il 29 maggio. Se si vuole un federalismo che unisce, perché esaltare gli egoismi? a pagina 12

di Pier Ferdinando Casini l nostro partito è stato l’unico a votare contro la legge istitutiva di questo federalismo e la nostra è stata una scelta attenta e ponderata, basata sull’analisi dei contenuti e non certo su pregiudizi. Ci sono ragioni di ordine politico e di merito che ci hanno indotto e ci inducono ancora a dire no a questo provvedimento. Non possiamo fidarci finché la Lega non si troverà almeno d’accordo su nozioni elementari come il

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

43 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il commento

prima pagina

Il governo agisca sulla linea dell’Udc

pagina 2 • 3 marzo 2011

L’unica risposta è revocare ora il Trattato di Osvaldo Baldacci bbiamo costretto l’Italia a inchinarsi», urla Gheddafi in tv. «L’Italia è stata costretta a chiedere scusa per la sua occupazione militare e a pagare per questo». «L’Italia deve scusarsi con il popolo libico per la sua visione coloniale. Ci pentiamo del rapporto intrattenuto con l’Italia, che dovrà pagare alle autorità libiche risarcimenti per vent’anni». Sono tutte parole del leader libico che ieri festeggiava l’anniversario della sua rivoluzione mentre i suoi mercenari continuavano a sparare contro il popolo libico. Le pallottole della legione straniera e la propaganda degli accordi con l’Italia, le due armi usate da Gheddafi per mantenere il potere ad ogni costo. È lo stesso tiranno di Tripoli a farci capire come e perché sia giusto che l’Italia sospenda immediatamente il Trattato di amicizia italo-libico.

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Prima di tutto perché non è un trattato di amicizia con il popolo libico, ma solo con il dittatore che lo usa a suo esclusivo beneficio, e anzi lo agito come un’arma contro tutti, compresa la comunità internazionale. In secondo luogo perché quel trattato - come diceva l’opposizione isolata dell’Udc - non contiene clausole ad esempio a tutela dei diritti umani, mentre ne contiene altre a carattere militare e relative al divieto delle basi italiane, clausole che certo mettono quanto meno in imbarazzo l’Italia nei confronti delle istituzioni mondiali, come in primis l’Onu che ha votato una risoluzione dura contro la Libia, o l’Unione europea, che ha varato sanzioni. Forse a qualcuno è sfuggito che persino la Lega Araba ha sospeso la Libia. In terzo luogo perché è addirittura lo stesso Gheddafi a sbeffeggiare quel trattato, e a continuare imperterrito a lanciare ogni sorta di accusa contro l’Italia quando si tratta di tentare di galvanizzare il Paese. È allora sempre più evidente che aveva ragione Casini quando ha chiesto al governo l’immediata sospensione del trattato. E ha ragione Cesa quando ribadisce che il governo non può continuare a mettere la testa sotto la sabbia libica, dicendo che il trattato è inoperante (come diceva fino a qualche giorno fa La Russa) o che è sospeso di fatto, ma solo a parole, come dicono i ministri di questi tempi. Il trattato è un atto formale, e formalmente va denunciato dal governo ed eventualmente anche dal parlamento. Un atto concreto, formale, operativo, ma anche dal grande valore politico. Chi si ostina a dire – come dicono dalla maggioranza - che il trattato è sospeso di fatto perché non esiste una controparte con cui realizzarlo, in realtà di fatto dà ulteriori legittimazioni a Gheddafi, perché dice che lui è la controparte, che il trattato era operativo quando lui era al potere, e quindi tornerà a esserlo se lui dovesse consolidare di nuovo il suo potere. E non mi sembra che questa strada possa essere percorribile da un Paese civile e democratico dopo tutto quello che sta succedendo. Al contrario sospendere formalmente il trattato è un atto politico con il quale si afferma di non riconoscere più la legittimità dell’autorità di Gheddafi, e gli si toglie la possibilità di brandirlo come una clava contro il suo stesso popolo a fini di propaganda. Allo stesso tempo l’Italia può dire che il Trattato sarà ridiscusso quando ci saranno autorità legittime e democratiche, facendo così allo stesso tempo un’apertura di credito al futuro del popolo libico e allo stesso tempo riservandosi di correggere quelle distorsioni gravi che erano presenti negli accordi a causa della condiscendenza verso i capricci e i ricatti del padre-padrone Gheddafi. E se tutto questo non dovesse avvenire, la mozione presentata lo scorso 24 febbraio da Adornato, Della Vedova e Vernetti del Nuovo Polo impegnerà il Parlamento ad agire in vece di un governo latitante.

il fatto Anche la Lega Araba abbandona il raìs. E gli Usa schierano le navi da guerra

Parole false bombe vere

Il dittatore lancia una controffensiva sia militare (verso la Cirenaica) sia di insulti. «Se l’Occidente non vuole il nostro petrolio, lo venderemo ai cinesi e agli indiani» di Etienne Pramotton

ROMA. Non c’è pace per la «primavera araba» in Libia. Muammar Gheddafi, dato per moribondo, morde ancora. Le sue milizie contrattaccano, vogliono rendere meno evidente la sconfitta. Si deve far pensare che c’è ancora una possibilità, mentre probabilmente si tratta su altri tavoli. E cosa c’è di meglio del petrolio come ostaggio? Non solo, ma sta accadendo qualcosa che metterà l’Italia di fronte a una scelta: le forze antiGheddafi stanno per chiedere aiuto all’estero. Così finalmente vedremo quanto sia radicato nella cultura di governo il concetto d’interesse nazionale, che non si difende solo con l’intervento umanitario. Visto anche che il colonnello, con le sue invettive televisive deliranti ci starebbe facilitando il compito. Ma il clima non è migliore nelle cancellerie internazionali, dove si discute ancora sulla no-fly zone. Proprio mentre le forze fedeli al colonnello, ieri, hanno attaccato il terminal per l’esportazione petrolifera di Marsa el Brega, primo segno di una controffensiva del leader libico nella parte orientale del Paese controllata dai ribelli. «Hanno tentato di prendere Brega questa mattina (ieri), ma hanno fallito. È di nuovo nelle mani dei rivoluzionari. Gheddafi sta tentando di creare ogni sorta di guerra psicologica per tenere queste città al limite», ha dichiarato a un’agenzia di stampa internazionale, Mustafà Gheriani, un portavoce della Coalizione ribelle 17 Febbraio. «Probabilmente ci apprestiamo a chiedere aiuto all’estero, si tratterebbe di attacchi aerei in obiettivi strategici che metteranno i chiodi sulla bara di Gheddafi». Ora si stanno muovendo di nuovo unità della marina militare italiana, ufficialmente per dare

supporto agli interventi umanitari in Tunisia e a quelli prevedibili in Libia. Ma oltre la mano tesa, serve altro. Intanto, mentre l’Onu vaglia l’ipotesi della creazione di una no-fly zone, due unità della Marina statunitense sono entrate nel canale di Suez e dovrebbero giungere in serata nel Mediterraneo. Il portavoce dell’agenzia Onu per i rifugiati ha dichiarato che una folla che si estende «per chilometri e chilometri» si accalca alla frontiera tra la Libia e la Tunisia e ha lanciato un nuovo appello, affinché «siano noleggiati centinaia di aerei» per evacuare tutte queste persone.

Ma il delirio televisivo del colonnello ha investito tutti, anche Washington, anche se con un apertura finale. Ha affermato ieri che i libici sono pronti a morire a migliaia se gli Stati Uniti o altre potenze straniere entrassero in Libia e che lui è disponibile a discutere della modifica della Costituzione e di altre leggi senza violenze. Nella prima parte del discorso la sovrapposizione con Saddam Hussein è imbarazzante, nella seconda parte c’è da chiedersi se sia sincero. Come quando mette in mezzo al Qaeda: «sono pronto a parlare con chiunque di loro, uno dei loro emiri, o come si chiamano, che vogliano venire da me per discutere. Ma loro non discutono... non hanno nessuna richiesta». Per il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, il pericolo che la rete di bin Laden s’infiltri in Italia attraverso l’esodo di profughi sarebbe reale. Mentre continua la stucchevole polemica con l’Europa su chi s’impegna di meno. Il ministro definisce di «stallo» la situazione in Libia, ma forse lo stallo è ciò che vive l’Europa e l’Italia che pensa di convincere Gheddafi con i discorsi.


l’intervista

«L’Italia deve guidare il post Gheddafi» Secondo l’analista americano Edward Luttwak «chi si tira indietro sparirà dalla scena» di Pierre Chiartano e forze navali americane si sono riposizionate nel sud del Mediterraneo. Pronte a consolidare un quadro per un intervento dell’Europa in Libia. Mentre sia francesi che inglesi – pur vessati dalla crisi economica – si muovono attivamente per contare di più nel «dopo» Gheddafi. Naturalmente a scapito dell’Italia che, per ora, sta alla finestra. Il rischio è che l’Italia esca dallo scenario libico per mancanza d’azione. Abbiamo raggiunto telefonicamente in Giappone Edward Luttwak, grande esperto di politica internazionale e consulente del governo Usa in materia di strategie militari, per farci spiegare se siano questi i contorni del quadro libico.

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«Sì, è così. È inutile cercare di influenzare Gheddafi con i discorsi. O si mettono i fanti sul terreno e gli aerei in volo o è meglio stare zitti. Se un Paese come l’Italia, con la sua vicinanza alla Libia e una storia condivisa così particolare non agisce, allora esce dal gioco. E il governo provvisorio che si farà non sentirà il parere degli italiani e nessuno si curerà dei loro interessi». Ma se l’inazione italiana dovesse continuare, gli Stati Uniti continueranno a osservare la situazione al largo delle coste, dalle navi militari? «Sulla Libia chi partecipa detterà le linee e le regole per tutti. E non partecipare avrà un costo. Un intervento diretto Usa è possibile, ma dipende da co-

sa succede. Ripeto, in caso di stragi indiscriminate bisognerà reagire», spiega Luttwak. Secondo le regole della retaliation: si distrugge chi ha colpito. In sintesi, l’Italia dovrebbe intervenire con la sua Aeronautica o con le forze speciali per mettere eventualmente in atto le operazioni di retaliation.

Lo scenario generale è di grande cambiamento, dalla Tunisia all’Egitto alla Libia, dall’Iran all’Oman. Si sta prefigurando un Gran-

Scegliendo lady Ashton al posto di Blair, l’Europa ha dimostrato di non avere interesse a tenere una posizione forte

de Medioriente molto diverso da come è ora. Gli Stati Uniti si stanno facendo un’idea di cosa li aspetta, ci sono delle ipotesi sul tappeto. «Se il movimento continua e determina un cambiamento nei governi non democratici di ieri e li fa diventare quelli democratici del futuro, sarebbe un grande trionfo per tutto l’Occidente e per l’America in particolare. Avere il dittatore amico sostituisce ciò che non si può avere, cioè un leader democratico, magari meno amico, ma con la garanzia della stabilità data da un vero regime democratico. Il problema è il livello socio-culturale di

Ementre il vecchio colonnello minaccia di sostituire l’Occidente, con Cina e India, come se i giochi fossero ancora aperti. A buttare acqua sul fuoco delle inutili polemiche tra Roma e Bruxelles ci ha pensato il capo dello Stato. Giorgio Napolitano si dice convinto «di poter trovare piena intesa in sede Ue sulle politiche nei confronti della Libia» e ha spinto per accelerare la politica Ue sull’asilo dei profughi. Almeno dal Colle arrivano parole di misurata saggezza. Da settimane comunque le prefetture starebbero bersagliando diocesi e vescovadi per sapere il tipo di disponibilità che le strutture cattoliche potrebbero mettere a disposizione nel caso l’esodo dal nord Africa dovesse diventare reale. Intanto non si riesce a trovare un accordo neanche sulla no-fly zone.

queste popolazioni, che non è sufficiente per sviluppare dei sistemi più liberi. Però non si sa mai, forse è possibile». Ma se dovesse succedere, forse sarebbe una vittoria dell’approccio obamiano, reso bene dal discorso all’Università del Cairo nel 2009, oppure una rivincita tardiva della politica bushiana. «Obama proponeva una sorta di conciliazione. Chi aveva visto giusto era Bush, con i suoi discorsi che parlavano di democrazia nel mondo arabo». Importata indirettamente questa volta. Ma ora servirebbe una vera rivoluzione culturale. «Senza un concreto cambiamento culturale, i sistemi nati dalle rivolte avranno delle basi molto fragili». Da anni la globalizzazione economica ha creato una working class con standard sempre più simili, non potrebbe succedere lo stesso con la cultura democratica, lo spirito di cittadinanza e il desiderio di libertà? Si tratterebbe di una sorta di globalizzazione della democrazia.

«La cultura necessaria per lo sviluppo democratico non nasce dall’elettronica. Nonostante il luogo comune che vuole il web come motore di queste rivoluzioni, ciò che le ha causate sono delle insurrezioni popolari, partite forse per caso, con una reazione a catena. L’Egitto non poteva usare la violenza e provocare dei massacri, perché era alleata con gli Usa. Così poi c’è stato il contagio». Difficile sapere quanto durerà l’onda della ribellione, anche per il consulente del Pentagono. E almeno fino ad oggi non tutti Paesi stanno reagendo all’irrefrenabile voglia

del Consiglio di sicurezza dell’Onu – che dovrebbe dare il via libera a un’ipotetica operazione – martedì ha mostrato grande cautela: «Bisogna pensarci due volte prima di un intervento militare», ha detto il neo-ministo degli Esteri di Parigi Alain Juppé, secondo cui un’azione della Nato «potrebbe essere estremamente controproducente». Alti responsabili francesi si sono detti «non contrari» a una no-fly zone in linea di principio, ma hanno sottolineato che si tratterebbe di un’operazione «molto complicata, che pone molti interrogativi», citando come esempio – che combinazione – i rischi di un sorvolo da parte di aerei dell’Italia, ex potenza colo-

di rivolta. «La Siria che è una dittatura ben peggiore di quella di Mubarak, senza la crescita economica dell’Egitto, è tranquilla. Non è successo nulla» considera il consulente del Pentagono di origine rumena.

L’Europa inattiva, senza politica estera e dove sembra essere tornato l’interesse nazionale di Paesi come Francia, Inghilterra e Germania a dominare le dinamiche interne, cosa può fare di fronte a questo cambiamento epocale? È davanti a una prova storica: gestire il cambiamento nel sud Mediterraneo oppure soccombere di fronte alle conseguenze negative che questo porterà. «L’Europa ha scelto un profilo basso sin dalla nomina di personaggi senza personalità e potere. Bruxelles ha rifiutato Tony Blair e ha dato alla baronessa Ashton la responsabilità della politica estera Ue. Ora l’Europa sta pagando un prezzo per questa debolezza, soprattutto se le ondate migratorie causate da queste rivolte dovessero non essere gestibili. Si è preferito un’Europa debole senza una politica estera attiva e questi sono i risultati». za delle loro operazioni. «Le persone con cui stiamo parlando si oppongono a Gheddafi», ha dichiarato al Financial Times un manager del settore. Il controllo dell’industria petrolifera è cruciale nella lotta tra il leader libico e l’opposizione, sottolineava ieri il quotidiano finanziario, ricordando che prima della crisi la Libia produceva circa 1,6 milione di barile al giorno, per un valore di 5,5 miliardi di dollari al mese. Oggi, la produzione è almeno pari alla metà. Un dato confermato dallo stesso Gheddafi: «i pozzi sono sicuri da noi, ma la produzione di greggio oggi è al minimo. Questo perché le compagnie hanno fatto partire i loro addetti a causa della presenza delle bande armate che rapiscono i loro esperti». E «se le compagnie occidentali se ne vanno, per fortuna esiste il grande Oriente, vuol dire che verranno i russi e i cinesi» hai poi sottolineato sibillino il colonnello.

Alla violenza verbale e militare del colonnello, l’Italia risponde con un campo d’assistenza in Tunisia. E uno a Bengasi, ma solo quando la situazione lo permetterà

Un eventuale intervento armato in Libia, con l’imposizione dell’interdizione al volo, non piace a Russia e Turchia, e gli stessi Stati Uniti hanno sottolineato come non ci sia ancora alcuna decisione a riguardo, prendendo di fatto le distanze dal Regno Unito. Due giorni fa, era stato il premier di Londra, David Cameron, a dichiarare di non escludere un intervento Nato in Libia, precisando di aver dato ordine alle proprie forze armate di «lavorare insieme ai nostri alleati su una no-fly zone militare». Ma l’attivismo inglese – anche se Londra naviga nei debiti – potrebbe essere letto in chiave anti-italiana, visto che furono i nostri servizi a mandare via re Idris, con l’appoggio di Washington che era stanca della politica neocoloniale di Londra e di Parigi in quella regione. E anche la Francia, che come la Russia è un membro permanente

niale in Libia. Ma è ad Ankara che bisogna rivolgere lo sguardo in queste ore. L’attivismo di Erdogan in tutto il Medioriente e nel Maghereb ne ha fatto un mediatore per eccellenza. Oltre al fatto che la Turchia si aspetta che questo ruolo – forse più un’ambizione che una realtà, per il momento – sia riconosciuto dalle cancellerie occidentali. Occidente che non sembra lavorare in perfetta sintonia, almeno per ora. Ma intanto è partita la diplomazia dell’oro nero.

I colossi petroliferi internazionali hanno stabilito contatti con l’opposizione libica che controlla la zona orientale del Paese per chiedere garanzie sulla sicurez-

Però l’opposizione controlla il più grande giacimento petrolifero del Paese, Sarir, situato nella zona est del Paese, e diversi terminal da cui partono le navi cariche di greggio, tra cui Tobruk, Bengasi e Zueitina. Da parte sua, Gheddafi tiene ancora in mano pozzi e terminal situati nel centro e nell’ovest della Libia e i giacimenti situati nel sud-ovest del Paese, gestiti da Eni e Repsol. Intanto la Farnesina sta pensando di allestire «un campo di assistenza» nell’area di Rais Eider, al confine tra Libia e Tunisia, dove attualmente stazionano decine di miglia di profughi. E un altro vicino a Bengasi «appena le condizioni di sicurezza lo permetteranno».


prima pagina

pagina 4 • 3 marzo 2011

Audizione del leghista alla Camera

Il ministro Maroni in controtendenza: «Dietro alle proteste potrebbe esserci anche al Qaeda» di Marco Palombi

ROMA. Primo: c’è il rischio di un califfato islamico a Tripoli. Secondo: orde di immigrati sono pronti a partire per l’Italia. Ergo: non infastidiamo Gheddafi. Queste sono, in buona sostanza, le cose che Roberto Maroni ha comunicato al Parlamento sulla situazione nel Nordafrica ieri mattina, insieme alla formalizzazione della missione umanitaria in Tunisia di cui parleremo più avanti. Un discorso all’insegna della paura per quanto accade al di là del Mediterraneo, fatto salvo per un veloce accenno all’emergenza umanitaria usata per denunciare l’immobilismo dell’Unione europea (che ha liquidato le parole del nostro ministro dell’Interno con un «non è il momento delle polemiche»). «La Libia è in una situazione di stallo e non si sa quando si risolverà», ha esordito Maroni: «C’è il rischio di infiltrazioni di

al Qaeda nella crisi in Libia, che si possa creare una situazione simile a quella dell’Afghanistan o della Somalia. È un rischio grave e reale e mi auguro che la comunità internazionale dica la sua». La fonte del ministro sono i nostri servizi segreti, gli stessi che il 3 febbraio hanno comunicato al Copasir che a Tripoli c’era un regime stabile: oggi dicono invece che «c’è un’attività di associazioni vicine ad al Qaeda nel Maghreb che mirano a fare proselitismo» e «l’Europa - ha scandito il ministro leghista - non può solo minacciare sanzioni, serve un piano straordinario di intervento, una sorta di piano Marshall per quei paesi».

Da buon leghista, il problema di Maroni sono ovviamente i migranti. Quanto siano sensate le norme

Uno dei più noti esperti di Medioriente: «Non facciamo l’errore di regalare il movimento all’islamismo radicale»

L’Ottantanove arabo

Per la prima volta la piazza vuole modernità e democrazia: è una “controrivoluzione” rispetto agli schemi del terrorismo di Daniel Pipes li sconvolgimenti senza precedenti che infuriano da un capo all’altro del Medioriente, dal Marocco all’Iran, inducono a tre riflessioni. Innanzitutto, queste ribellioni si inseriscono nel contesto di una scacchiera regionale, di ciò che io chiamo la «guerra fredda mediorientale». Da un lato, si trova il blocco della “resistenza” guidato dall’Iran e che include la Turchia, la Siria, il Libano, Gaza e il Qatar, blocco che cerca di dare uno scossone all’ordine esistente con un nuovo ordine, più piamente islamico e ostile all’Occidente. Dall’altro lato c’è il blocco dello “status quo” capeggiato dall’Arabia Saudita e che annovera la maggior parte del resto dei Paesi dell’area (implicitamente include anche Israele). A differenza della prima, questa coalizione preferisce che le cose restino più o meno come sono. I Paesi del primo blocco (tranne la Siria) hanno un programma, quelli del secondo blocco (ad eccezione di Israele) desiderano principalmente godere dei frutti del potere. Il blocco della resistenza è attratto dal fascino di offrire una visione, la coalizione dello status quo può utilizzare le proprie armi, e in gran quantità.

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ste rivolte ispireranno gli iraniani a rinvigorire i loro attacchi contro l’ordine khomeinista. Se una simile controrivoluzione avesse successo, le conseguenze andrebbero ben al di là dell’Iran, con effetti deleteri sul regime del Trattato di non non-proliferazione, sulla sicurezza di Israele, sul futuro dell’Iraq, sul mercato energetico globale e – forse è questa la cosa più importante di tutte – sul movimento islamista. Privo del più importante governo appartenente al blocco della“resistenza”, il movimento islamista mondiale probabilmente comincerebbe ad essere in declino. Il Regno dell’Arabia Saudita non è un Paese come tutti gli altri. Il suo potere risiede in una singolare combinazione di dottrina wahhabita, controllo sulla Mecca e su Medina, e di estese riserve di gas e petrolifere. Inoltre, i suoi leader vantano un eccezionale record di politiche fuori dagli schemi. E ancora, le differenze geografiche, ideologiche e di personale fra i sauditi potrebbero causare la caduta del Regno, ma c’è da chiedersi chi lo farebbe. Gli sciiti che si risentono della loro condizione di cittadini di seconda classe e che forse spingerebbero il Paese verso l’Iran? I puristi wahabiti che disdegnano gli adattamenti monarchici alla modernità e che vorrebbero riprodurre l’ordine talebano dell’Afghanistan? O entrambi, nel caso di una spaccatura? O forse i progressisti, finora una forza trascurabile, che trovano la loro voce e portano a un rovesciamento dell’ordine saudita antiquato, corrotto ed estremista? Quest’ultima riflessione conduce alla mia terza e più sorprendente osservazione. Le rivolte degli ultimi due mesi sono state in gran parte costruttive, patriottiche e di larghe vedute. L’estremismo politico di ogni tipo, di sinistra o islamista, è per lo più assente dalle piazze. Le teorie del complotto sono il rifugio di governanti decaduti e non di folle esuberanti. Gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e Israele erano visibilmente assenti dagli slogan scanditi (Gheddafi ha addossato la responsabilità dei disordini nel suo Paese alla somministrazione di allucinogeni da parte di Al-Qaeda). Si ha la sensazione che l’estremismo del secolo scorso –

I rivoltosi hanno bisogno di un’opportunità per ritrovare se stessi e agire da adulti: il compito dell’Occidente oggi è soprattutto aiutarli

In secondo luogo, se gli sviluppi in Tunisia, Libia, Egitto,Yemen e in Bahrein rivestono un grande significato, va rilevato che nella regione ci sono solamente due colossi geo-strategici– l’Iran e l’Arabia Saudita – ed entrambi sono in fieri vulnerabili. Nel giugno 2009, si è manifestato un certo malcontento verso la Repubblica islamica dell’Iran, quando delle elezioni manipolate hanno fatto scendere in piazza folle di manifestanti. Sebbene le autorità siano riuscite a domare l’Onda verde, non sono però riuscite a reprimerla e così essa continua ad operare nella clandestinità. Malgrado gli strenui tentativi di Teheran di rivendicare le rivolte scoppiate da un capo all’altro della regione, dipingendole come ispirate dalla rivoluzione iraniana del 1978-79, e il proprio marchio di islamismo, è più probabile che que-

legato a figure come Amin al-Husseini, Nasser, Khomeini, Arafat e Saddam Hussein – abbia fatto il suo corso e che le popolazioni cerchino qualcosa di più banale e di consumabile della retorica, del negazionismo e dell’ottusità.

Il pessimismo serve per rafforzare una carriera negli studi mediorientali e io sono conosciuto proprio per essere pessimista. Ma con la dovuta esitazione, vedo i cambiamenti che potrebbero presagire una nuova era, un’epoca in cui gli immaturi arabofoni diventano adulti. Ci si stropiccia gli occhi dinanzi a questa trasformazione, in attesa del cambiamento di rotta. Finora, tuttavia, ha retto. Forse il simbolo più divertente di questa maturazione è l’esempio dei manifestanti di piazza che dopo le dimissioni di Mubarak puliscono e riordinano. Non sono più sotto la tutela dello Stato da cui dipendono per i servizi: d’un tratto sono dei cittadini con un senso di responsabilità civica. Per quanto si possa essere cauti nel premettere le politiche estere su questo improvviso miglioramento, sarebbe comunque un errore negarlo. I rivoltosi hanno bisogno di un’opportunità per ritrovare se stessi e agire da adulti. È arrivato il momento di abbandonare lo sciocco settarismo delle basse aspettative: parlare in arabo o in persiano non rende una persona incapace di costruire strumenti democratici per conseguire obiettivi di libertà.


prima pagina italiane lo spiega il fatto che la procura di Agrigento abbia dovuto aprire un fascicolo per immigrazione clandestina contro ognuno dei seimila tunisini arrivati a Lampedusa nei giorni scorsi. Il punto, però, è vendere paura: «In Libia stimiamo ci siano almeno 1,5 milioni di clandestini, ma alcuni dicono 2 milioni e mezzo, entrati nel corso degli anni per l’incapacità delle autorità di controllare i confini al sud e stavano lì tollerati per svolgere una serie di attività». Tradotto: questa massa di persone stava in Libia - che nell’area è un paese ricco - a lavorare e li si chiama clandestini solo perché Gheddafi ha gestito l’immigrazione (come tutto il resto) attraverso l’arbitrio e non con la legge. Il timore dell’Italia è che questa gente si metta in viaggio verso la Sicilia tutta insieme: «Ci stiamo preparando - ha detto Ma-

roni - ci sono 120mila persone accampate ai confini tra Tunisia e Libia», una «tragica emergenza umanitaria». Per questo il governo italiano sta avviando una missione di solidarietà (stanziamento iniziale di 5 milioni di euro) in territorio tunisino: medici, paramedici e protezione civile - con una scorta armata - dovranno mettere in piedi un campo profughi. L’obiettivo “umanitario” del ministro: evitare che partano. Problema: un inviato dell’Ansa ieri pomeriggio ha sostenuto che il confine dalla parte tunisina è “deserto”.

Il vero problema, per il governo, sono i migranti: per questo è pronta una missione umanitaria in Tunisia

C’è infine il capitolo dell’inattività ormai patologica del governo sul fronte dei rapporti formali con la Libia di Gheddafi. La linea di palazzo Chigi, a quanto pare, è fare finta di nulla: il Trattato di amicizia italo-libico, ratificato dal Parlamento

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in questa legislatura, è ancora pienamente in vigore e né il ministro Frattini, né tantomeno il presidente del Consiglio sembrano intenzionati a sospenderlo con un atto formale davanti alle Camere. Solo che, ad esempio, noi non potremmo fornire, almeno non legalmente, basi militari per operazioni considerate ostili dal traballante Colonnello. Niente da fare nemmeno per i cospicui interessi libici nelle nostre aziende: «Tripoli – ha detto Maroni - ha partecipazioni azionarie in società italiane e non penso che il governo possa intervenire per bloccarle. Ci sono valutazioni in corso: una cosa è congelare conti correnti, altro sono le partecipazioni azionarie. La Consob dovrebbe dire qualcosa in merito». Intanto, pare, abbia detto qualcosa Bankitalia (oltre a tutti gli altri paesi occidentali): il governatore Draghi avrebbe chiesto di mettere in freezer i pacchetti libici in Unicredit, Juventus, Finmeccanica, Eni, Retelit eccetera.

Parla lo scrittore franco-marocchino, che ha appena pubblicato un libro sulle proteste nel Maghreb

«È un vento nuovo»

Tahar Ben Jelloun: «A Tripoli servono i Caschi blu dell’Onu. Ma tutta la gioventù ormai è contro il fondamentalismo» di Luisa Arezzo l centro del mondo si è spostato in Nord Africa. Dopo la Tunisia e l’Egitto, la Libia e poi chissà quali altri paesi ancora. Il popolo invade le strade e riempie le piazze. La polizia in parte solidarizza, in parte reprime. Il mondo sta a guardare e fatica a prendere posizione. «Ma una cosa è certa, nulla sarà più come prima». È una certezza granitica quella espressa dall’autore marocchino di nazionalità francese Tahar Ben Jelloun, che alle rivolte della piazza araba ha dedicato il suo ultimo libro, La rivoluzione dei gelsomini, edito da Bompiani e da ieri in libreria. Ben Jelloun, lei ha paragonato le sommosse in corso alla caduta del Muro di Berlino... Sì, ma anziché un muro di pietra in Nordafrica e Medioriente stanno abbattendo il muro della paura. Paura per la cattiveria e la disumanità dei dittatori e dei regimi arabi. Paura per l’onnipresente stato di polizia e per la repressione messa in atto in tutti questi anni. Vessazioni che nessuno sapeva come contrastare perché mancava una legittimità politica, visto che la maggior parte dei dittatori sono assurti al potere con un golpe e non certo grazie al voto popolare. Da oggi tutto cambia e il vento benefico della liberazione è destinato a contagiare tutto il pianeta, Cina compresa. Basta con le umiliazioni. E la cosa più straordinaria è che è un movimento senza leader e senza ideologie. È una ribellione naturale. Anche il nostro corpo si ribella quando lo obblighiamo ad agire contro natura. Ecco cosa è successo. Di più, questo vento è destinato a propagarsi anche in Europa - penso all’Italia e alla Francia. L’Italia? Sì, ma non spirerà nelle città industriali

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o nei centri di cultura borghese. Si agiterà nei piccoli capoluoghi dove l’influenza migratoria è più forte ed esasperata. Nulla sarà più come prima, ma nessuno è in grado di dire cosa sarà... È così. Nessuno può prevedere il futuro, perché qusto dipende da troppe variabili: penso alle tradizioni proprie di ciascun paese, alle forze armate che non sappiamo come reagiranno, alla posizione, di aiuto o meno, occidentale. Ma la cosa più importante è che il pugno di ferro è stato spezzato e che molti giovani sono morti per dei valori fondamentale: democrazia e libertà. Questi valori, prima di adesso, in quei paesi non esistevano. Nel suo libro scrive che nel mondo arabo l’inidviduo non è riconosciuto in modo tale e che tutto è organizzato in modo che l’emergere della persona venga impedito. Il figlio di Gheddafi, Saif al Islam, è stato molto chiaro in proposito. Alla Tv di stato ha appena detto che in Libia non c’è un popolo, c’è la

punemente sia in Tunisia che in Libia. La sua complicità è stata terribile. Ma anche la Francia è rimasta totalmente silenziosa sulle violazioni drammatiche dei diritti dell’uomo. Un silenzio figlio di interessi economici contratti con Gheddafi, Mubarak e Gheddafi e in nome dei quali la Francia ha dimenticato il popolo arabo. Finisco la domanda che avevo iniziato: molti governi occidentali, adesso, sono pronti a sostenere i popoli in rivolta. Forse anche con delle azioni militari. Lei interpreta questa disponibilità come semplice opportunismo o come vera condivisione morale? Tutte e due le cose. Lei dice che i Fratelli Musulmani in Egitto fanno parte del paesaggio. Non gli si può dare né troppa né troppo poca importanza. L’Occidente è spaventato. Il rischio islamico esiste? In Egitto (e non solo) lottano contro i Fratelli musulmani e contro il fondamentalismo islamico. Io mi spingo oltre: l’islamismo è completamente superato, è out. Chi lo predicava ha fallito e ha perso il treno della rivolta. Finora si è sempre parlato di Nord Africa e Medioriente, però adesso si comincia a parlare di piazza araba. Lei pensa che ne stia davvero nascendo una? Stiamo assistendo a uno tsunami, ma l’idea della nascita di una piazza araba è troppo ottimistica. La solidarietà araba adesso esiste, ma non è detto che sia destinata a resistere. Come crede che potrà evolvere la situazione libica? Non lo so, ma è certamente la più tragica perché Gheddafi è un mostro, un malato mentale e lui e la sua famiglia non lasceranno il potere. Sono pronti a resistere fino alla fine e a precipitare il popolo nel sangue. Le Nazioni Unite devono inviare i caschi blu per proteggere la popolazione dal dittatore.

I Fratelli musulmani? Fanno parte del paesaggio. Non gli si deve né troppa né troppo poca importanza. Il rischio islamico è finito

famiglia, c’è la tribù. Lui ha capito molto bene la sociologia del popolo arabo, un popolo che esiste solo in quanto clan. E che proprio per questo è vittima delle dittature. Perché nel momento in cui una società riconosce l’individuo nascono i diritti della persona. La responsabilità dei leader occidentali nel mantenimento di questi regimi sono state evidenti, però... La interrompo. Perché penso al suo presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che fino alla fine ha dato il permesso di uccidere im-


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l’approfondimento

Dall’inizio delle rivolte, il prezzo del greggio è tornato a volare. Bloccando la ripresa e facendo impennare l’inflazione

Chi brucia il petrolio

Si scommette sulla crisi: i pessimisti sperano di guadagnare comprando oggi per rivendere domani a un prezzo maggiorato. Gli ottimisti, invece, puntano su una soluzione rapida. E l’Italia, senza politica energetica, sta nel mezzo... di Gianfranco Polillo rezzi del petrolio in rialzo, per tutta la gamma di prodotti. Il greggio è salito a circa 98 dollari il barile, il brent (quello prodotto nel Nord Europa) a circa 112. Differenze sensibili, quindi, che non trovano riscontro in altri momenti caldi. Nel marzo del 2008, infatti, quando la bolla speculativa sulle materie prime si manifestò in tutta la sua veemenza, entrambi sfiorarono i 150 dollari al barile. Picco che alcune valutazioni pessimistiche non escludono possa essere nuovamente raggiunto, se la crisi del Nord Africa e del Medio Oriente dovesse ulteriormente aggravarsi. Finora a calmierare le acque è intervenuta l’Arabia Saudita che ha aumentato i ritmi di produzione per compensare il venir meno dell’attività svolta dai Paesi più coinvolti nella crisi politica. Quanto questa compensazione potrà durare resta, tuttavia, un’incognita visto il rincorrersi di avvenimenti di segno opposto. Da un lato un certo, seppur faticoso, processo di

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stabilizzazione in alcuni Paesi (Tunisia ed Egitto); dall’altro il dramma libico. È chiaro che un eventuale intervento militare dell’Occidente - seppure necessario visto il susseguirsi di massacri della popolazione civile - non potrà non avere ulteriori conseguenze che, allo stato, è difficile valutare.

Per il momento, tuttavia, le fibrillazioni del mercato sono più l’effetto dell’attività speculativa, che non il dato reale e di lungo periodo. Si scommette sulla crisi. I pessimisti sperano di poter realizzare un lauto guadagno se essa si avviterà. Comprano oggi, per rivendere domani a un prezzo maggiorato. I più ottimisti, che confidano invece su un rapido ristabilirsi di un equilibrio, qualunque esso sia, si muovono in direzione opposta. Il rialzo dei prezzi sta indicare che, per adesso, prevale il pessimismo. In questa partita a scacchi i fondamentali premiano la loro azione. La grande liquidità internazionale, conseguenza del-

la politica monetaria della Fed, che con il suo quantitative easing cerca di sostenere il ciclo del consumo interno degli Usa, non si scarica sui prezzi dei prodotti industriali, a causa dell’eccesso di capacità produttiva inutilizzata. Le maggiori imprese manifatturiere comprimono i loro prezzi nella speranza di non subire perdite di mercato, a causa della spinta competitiva dei propri concorrenti. Ma in tutti quei settori a offerta rigida – prodotti alimentari e materie prime – l’im-

In un mondo turbolento, contare sugli altri è un rischio non valutabile

patto sui prezzi è stato immediato. Al punto che si può ritenere sia stata questa la miccia che abbia innescato nel Maghreb la “guerra del pane”, determinando la saldatura tra un’opposizione, tenace ma relativamente impotente, e le grandi masse popolari. Ossia le vere artefici del cambiamento.

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del

prezzo del petrolio, verso livelli che fin da ora non è possibile prevedere, si avrà solo quando la tempesta si sarà placata

e ritornerà il sereno. Nel frattempo a soffrire sono i Paesi più esposti dell’Occidente. Quelli la cui politica energetica non ha fonti autonome di approvvigionamento. Paesi diversi dalla Francia, da tempo leader nel nucleare. Diversi dalla Germania, ricca di carbone che i nuovi processi tecnologici rendono comunque potabile ai fini della produzione d’energia. Diversi dall’Inghilterra, che deve la sua auto sufficienza ai grandi giacimenti sottomarini del Mare del Nord. Insomma, paesi come l’Italia che, al contrario, non gode di tutto ciò, ed è rimasta con il cerino in mano. I ritardi che la caratterizzano – centrali nucleari, rigassificatori, termovalorizzatori e così via – alimentati da paure immotivate, figlie di un ambientalismo fondamentalista di una stagione ormai superata nei fatti, imporranno oneri maggiori. Si consideri, infatti, che un aumento permanente del prezzo del petrolio non determina solo un maggior tasso di inflazio-


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Si moltiplicano le voci su uno “scudo” da mettere in campo per proteggere le nostre società

Il grande capitalismo italiano fa i conti con le quote libiche

Finmeccanica, Eni, Unicredit, Fiat: sono tante le partecipazioni. Le sanzioni le hanno bloccate, ma prima o poi dovranno essere vendute. E allora... di Maurizio Stefanini a sigla di riferimento è la Lia: Libyan Investment Authority, fondo sovrano creato nel 2006 con un capitale di 40 miliardi di dollari. In realtà, la Libia non ha aspettato questa data per accodarsi alla nuova tendenza per la quale i Paesi con forti export di materie prime o manufatti hanno iniziato a dotarsi di questo tipo di veicoli di investimento per gestire i surplus di valuta, evitando allo stesso tempo sia il deprezzamento che eventuali spinte inflazionistiche. Anzi, in qualche modo è tra i Paesi che la hanno anticipata. Al 1982 risale infatti la creazione della Libyan Arab Foreign Investment Company (Lafico), banca di investimento. E al 1988 la Oilinvest: società con sede in Olanda per la commercializzazione dei prodotti petroliferi libici, più nota con il logo di Tamoil che usa nei suoi distributori. Ma gli investimenti nella grande industria italiana erano venuti prima ancora, con il famoso acquisto nel 1976 del 9,7% della Fiat, per 415 milioni di dollari. Passata alla Lafico, quella partecipazione era cresciuta fino a raggiungere nel 1986 il 15%, ma in quell’anno un veto dell’Amministrazione Reagan a contratti del governo Usa con la Fiat a motivo di questa presenza convinse gli Agnelli a ricomprare tutto. Nel 2002, finito l’embargo, la Lafico tornò in Fiat, con un 2% in cambio di 112 milioni di dollari. Ma dopo il passaggio alla Lia nel 2006 la quota riscese sotto quella soglia minima del 2% che rende obbligatoria la denuncia alla Consob. In compenso, nel 2002 la Lafico era entrata anche nella Juventus: con una quota del 5,31%, circa 23 milioni di euro, poi cresciuta dopo il passaggio alla Lia, all’attuale 7,5%. Inoltre la Tamoil finanziò la Juventus firmando nel 2005 un contratto decennale di sponsorizzazione da 240 milioni di euro: il più grande accordo della storia del calcio per la pubblicità su una maglietta, anche se fu poi rescisso dopo nel 2006 dopo la retrocessione in B della squadra bianconera in seguito a Calciopoli. In precedenza, tra 1989 e 1995 la Tamoil aveva invece sponsorizzato l’Atalanta, e in seguito se ne era parlata come di una possibile acquirente della Roma. È stata invece direttamente la Lia ad acquisire il 33% della Triestina.

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Attraverso la Lafico, la Lia è inoltre oggi in possesso del 2,01% di Finmeccanica di Pierfrancesco Guarguaglini. La rete dei possessi italiani della Lia comprende inoltre l’1% dell’Eni; il 14,8% in Retelit, società controllata da Telecom; il 21,7% in Olcese. A parte il capitolo delle banche. Nel novem-

bre del 1997 la Banca Centrale libica acquista infatti il 5% della Banca di Roma in cambio di 420 milioni di dollari, e nell’aprile del 1999 il governatore della stessa Banca Centrale libica Taher Jehimi entra nel Consiglio di Amministra-

Dai fondi sovrani alle banche d’investimento. Fino alle sponsorizzazioni della Tamoil zione. Nel 2002 la Banca di Roma, nata 10 anni prima dalla fusione tra Banco di Roma, Cassa di Risparmio di Roma e Banco di Santo Spirito, confluisce però con il gruppo Bipop Carire in Capitalia, che nel 2007 confluisce a sua volta in

Unicredit. Di cui la presenza libica nella prima banca italiana, con un pacchetto che fa di Gheddafi il primo socio, sia pure attraverso due partecipazioni diverse: 4,988% della Banca centrale di Libia, 2,594% della Lia, per un totale del 7,582%. A parte l’importanza economica, questa presenza ha per il raìs un forte impatto simbolico per il fatto che era stato il Banco di Roma all’avanguardia nella penetrazione economica in Libia poi sfociata nella conquista coloniale del 1911-12. Come è noto, è stato proprio questo rafforzamento libico che ha portato alle dimissioni dell’ad Profumo. Ed è proprio sul destino della quota libica che si gioca la nuova partita tra dirigenti italiani e tedeschi in Unicredit.

Ma l’Italia non è che una componente, sia pure importante, di un patrimonio globale della Lia che oggi ammonta ad almeno 70 miliardi di dollari. E non manca chi arriva oltre il centinaio, distribuito in almeno un centinaio di società. Evidentemente, la Juventus e la Fiat possono andare avanti anche se i rappresentanti dei capitali libici non partecipano alle riunioni. Ma già crea problemi il caso del vicepresidente di Unicredit Omar Farhat Bengdara: governatore della Banca Centrale libica sparito dalla circolazione, e forse passato ai ribelli. Nel frattempo, sabato scorso a Londra è saltato fuori un tentativo di trasferire fondi per 900 milioni di sterline da Londra a Trpoli, aggirando l’embargo delle Nazioni Unite. Subito bloccata, la mossa segnala però il gran bisogno di liquidi in cui Gheddafi in questo momento si trova: per pagarsi i mercenari, acquistare armi e munizioni che per l’embargo saranno anch’esse di contrabbando, provare a ricomprare uomini e tribù e più in generale mantenersi il consenso. Ambienti finanziari di esuli a Ginevra segnalano Saif al-Islam Gheddafi come presumibile regista dell’operazione. Ma anche se vince l’opposizione, avrà bisogno di liquidare molti asset in gran fretta, per ricostruire il Paese e venire incontro alle domande della popolazione. Insomma, c’è una prospettiva di grandi saldi, con esiti imprevedibili. Anche per questo, il governo italiano starebbe studiando uno “scudo” per mettere in sicurezza in tempi rapidi le partecipazioni dello Stato libico in Italia: uno “scudo” destinato a far fare buoni affari a qualcuno...

ne, considerando il suo riverbero su tutto il sistema produttivo, ma una flessione nel suo già limitato tasso di sviluppo. Una bolletta petrolifera più cara significa accentuare il deficit della bilancia commerciale. Ed il saldo negativo con l’estero deprime il tasso di crescita.

Per fortuna non siamo ancora a questo punto. Come dicevamo, a dominare è ancora la speculazione e, per definizione, quest’attività è di brevissimo termine. I contratti a più lunga scadenza – quelli impostati da Eni o da Enel – sono regolati diversamente. Risentono dell’aumento dei prezzi solo nel momento in cui essi diventano permanenti. In questo caso i guai possono nascere dalle eventuali interruzioni di forniture. Ma, per fortuna, le fonti di approvvigionamento sono quanto mai diversificate. Si sono criticati spesso i rapporti con la Russia di Putin. Ma, oggi, essi si dimostrano essenziali per compensare eventuali cali dell’offerta da parte di altri Paesi. Vi sono poi elementi contingenti che rendono meno drammatico il quadro d’insieme. Negli anni precedenti specialmente l’Eni aveva sottoscritto con molti paesi del mondo arabo contratti del tipo “take or pay”. Il prezzo andava comunque pagato: sia nel caso si pompasse – in questo caso – gas; sia si rinunciasse all’eventuale fornitura. Era capitato che un eccesso di produzione portasse il prezzo del gas al di sotto di quello definito per contratto. L’Eni era, quindi, costretta, per non subire perdite ulteriori, ad onorare i contratti sottoscritti. Gli eventi eccezionali del mondo arabo hanno interrotto o ritardato questo flusso, consentendo alla nostra azienda petrolifera di poter tirare un sospiro di sollievo. La morale da trarre da questi avvenimenti è evidente. In un mondo turbolento, com’è quello che s’intravede all’orizzonte, contare sulla disponibilità degli altri è un rischio non valutabile. Può essere minimo nei momenti di calma, ma diventa drammatico all’esplodere delle contraddizioni. È pertanto necessario assicurarsi, sul fronte energetico, un’indipendenza che non può essere data solo dalla diversificazione degli approvvigionamenti. Dobbiamo avere una fonte nazionale d’energia ed essa non può che essere assicurata dal nucleare. Tutto il resto – le rinnovabili, la razionalizzazione dei consumi e via dicendo – va bene, ma come elemento complementare. Se viene meno questo nocciolo duro, tutto diventa aleatorio. E allora basta che cada un regime, che pure sembrava inossidabile, per far crescere la paura e lo sconcerto.


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introdurre un discorso su Manzoni e il Risorgimento si possono richiamare alcune considerazioni del quinto capitolo del Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia (1820-1822), Della parte che ebbero i papi nella caduta della dinastia longobarda, dove si legge: «Questa speranza, i Romani non potevano averla in altri che ne’pontefici. Roma, così incapace per sé di farsi temere, aveva nel suo seno un oggetto di venerazione, e qualche volta di terrore, anche per i suoi nemici, un personaggio per cui verso di essa si volgeva da tanta parte di mondo uno sguardo di riverenza e d’aspettazione, per cui il nome romano si proferiva nell’occasioni più gravi. E mentre le ragioni di giustizia, di proprietà, di diritto delle genti, non sarebbero state né ascoltate né intese dai barbari, i quali avevano un loro sistema di diritto fondato sulla conquista, questo solo personaggio poteva pronunziar parole che diventavano un soggetto d’attenzione e di discussione: era un Romano che poteva minacciare e promettere, concedere e negare. A quest’uomo dunque si dovevano volgere tutti i voti, e tutti gli sguardi de’ suoi concittadini; e così infatti avveniva». È una considerazione, questa, che avremo modo di richiamare più avanti a proposito di Gioberti e del suo Primato.

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Ma partiamo dal secondo capitolo del Discorso, Se al tempo dell’invasione di Carlo Magno i Longobardi e gli Italiani formassero un solo popolo, da quel motivo della «immensa moltitudine di uomini» tutta «una serie di generazioni che passa sulla terra, sulla sua terra, inosservata, senza lasciare traccia». È un motivo che diverrà, a ben vedere, il leit-motiv di tutta l’opera del Manzoni. Ecco già Il Natale (1813), dove si legge: «L’Angel del cielo, agli uomini / nunzio di tanta sorte, / non de’ potenti volgesi / alle vegliate porte; / ma tra i pastor devoti, / al duro mondo ignoti, / subito in luce appar». Ecco ancora Marzo 1821, che inizia: «Soffermati sull’arida sponda, / volti i guardi al varcato Ticino, / tutti assorti nel novo destino, / certi in cor dell’antica virtù, / han giurato: Non fia che quest’onda / scorra più tra due rive straniere: / non fia loco ove sorgan barriere / tra l’Italia e l’Italia, mai più… ». Ecco inoltre Adelchi (1820-1822), i noti versi del coro dell’atto III: «E il premio sperato, promesso a quei forti, / sarebbe, o deludi, rivolger le sorti, / d’un volgo straniero por fine al dolor? / Tornate alle vostre superbe ruine, / all’opere imbelli dell’arse officine, / ai solchi bagnati di servo sudor. / Il forte si mesce col vinto nemico, / col novo signore rimane l’antico; / l’un popolo e l’altro sul collo vi sta. / Dividono i servi, dividon gli armenti; / si posano insieme sui campi cruenti / d’un volgo disperso che nome non ha». Ecco infine i Promessi Sposi (1827) con le parole di don Rodrigo nel capitolo XI («Chi sa che ci siano? Son come gente perduta sulla terra; non hanno neanche un padrone: gente di nessuno») e quelle di Lucia all’Innominato nel capitolo XXI («Ma il Signore lo sa che ci sono»), parole che, non a caso, richiamano san Paolo: «Niente ci sepa-

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L’immagine che il grande scrittore milanese aveva della nostra Penisola era m

Il Risorgimento se Per lui, il cattolicesimo rappresentò il cemento dell’Unità d’Italia. Idea che affiora già nell’Adelchi, in Marzo 1821, ma anche nei Promessi Sposi di Sabino Caronia

rerà dall’amore di Dio». Francesco De Sanctis giustamente parla a proposito dei Promessi Sposi di «un ideale di ritorno». È lo stesso De Sanctis che, nella sua Storia della letteratura italiana nel secolo XIX, dopo aver passato in rassegna i rappresentanti della scuola cattolico-liberale, così conclude la sua analisi: «Ormai… capirete il motivo principale che ha guidato i miei giudizi. Severo… per Cesare Cantù, pel Tommaseo… Severo anche verso Gioberti ed anche verso Mamiani… verso Balbo stesso… I miei prediletti sono tre in questa schiera che è passata innanzi ai nostri occhi. Il più simpatico è Massimo d’Azeglio… il secondo è il santo e il martire di questa

scuola, Silvio Pellico… e finalmente, quasi non è necessario che ve lo dica, è il più grande Alessandro Manzoni, non solo per la sua genialità che lo mette al di sopra di tutti, specialmente aiutata dal vivo senso del reale che tempera quel che di troppo assoluto vi può essere ne’ suoi ideali, dalla finta ironia, dall’analisi profonda, dalla vivacità plastica della rappresentazione, ma anche perché quell’anima armonica comprendeva tutte le opinioni, tutte le grandezze. Accanto alla sua mansuetudine era l’energia; Dio era con la patria; il suo cristianesimo era accordo di divino e di umano, forza che si contiene. E ciò spiega perché la sua memoria è così venerata universalmente, e perché, non ostante le discordie, avete visto tanta unanimità nel chinarsi innanzi a lui.

Anche quelli che non credono in Dio e nel Vangelo, sono indotti a sentire simpatia verso quest’uomo; ed è naturale, perché se essi sono liberi di credere o di non credere, non sono liberi di non credere ciò che Manzoni attribuisce al suo ideale, alle idee, alle conseguenze che trae da un libro che molti possono non credere divino, ma che trattato a quel modo da Manzoni diventa consacrazione del mondo moderno. Sono costretti a credere alla voce che Manzoni fa emanare da Dio, nella quale è l’eco della loro coscienza». Manzoni e il binomio fra libertà e religione. Quel binomio che Manzoni giudicava inscindibile e che animò tutta la generazione cattolico liberale del Risorgimento richiama alla mente le considerazioni di Giovanni Spadolini che, in un suo intervento par-


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molto chiara: «Una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue e di cor»

econdo Manzoni... proposito è interessante quanto Manzoni scrive nelle sue Osservazioni sulla morale cattolica, parte seconda, capitolo secondo: «Un’accusa che si fa comunemente ai nostri giorni alla religione cattolica è che ella sia in opposizione con lo spirito del secolo… Quando il mondo ha riconosciuta una idea vera e magnanima, lungi dal contrastargliela, bisogna rivendicarla al Vangelo, mostrare che essa vi si trova, ricordargli che se avesse ascoltato il Vangelo, l’avrebbe riconosciuta dal giorno in cui esso fu promulgato… “poiché tutto quello che è vero, tutto quello che è puro, tutto quello che è giusto, tutto quello che è santo, tutto quello che rende amabili, tutto quello che fa buon nome, se qualche virtù, se qualche lode e disciplina, tutto è in quel libro divino” (Paolo ai Filippensi, IV, 8) ...».

lamentare a proposito della revisione del Concordato il 7 dicembre 1978, parlava di «un primo decisivo passo sulla via della separazione nella libertà, in quella libertà religiosa sacra alla tradizione risorgimentale non meno della scuola democratico repubblicana che della scuola liberale e cattolico liberale, la tradizione che unisce Mazzini e Manzoni, la tradizione che fa dello stato moderno, per dirla con il nostro Iemolo, la casa comune per credenti e non credenti». Si è voluto vedere un contrasto tra «cattolicesimo» e «civiltà moderna», tra religione e idee moderne. A questo

Alcuni hanno parlato del vagheggiamento di un cristianesimo alternativo da Iacopone a Manzoni. Ma per Manzoni non esiste un cristianesimo alternativo per il semplice fatto che esiste un solo modo di essere cristiani. È noto che uno dei maggiori conforti degli ultimi anni di vita del Manzoni fu il matrimonio della figlia Vittoria col patriota toscano Giovanni Battista Giorgini. Appunto la figlia Vittoria, nelle sue Memorie, a proposito del padre che, nominato senatore nel febbraio 1860, si recò accompagnato dal Giorgini da Brusuglio a Torino per prestare giuramento, racconta: «Era convinto che la perdita del potere temporale dovesse essere una misura provvidenziale per la Chiesa la quale, liberata di ogni cura terrena, avrebbe potuto meglio esercitare il suo dominio spirituale… Egli stesso, visto l’atteggiamento preso più tardi da Pio IX, dopo il 1870, non osava più parlare dello scottante argomento. Ma clericale non fu mai, e ritenne sempre che nessuno meno dei clericali si ispirasse al Vangelo». È sempre lo stesso Manzoni che, nella seconda parte della Morale cattolica, aveva scritto: «Mi ingannerò, ma credo che quando la religione fu spogliata in Francia dello splendore esterno, quando non ebbe altra forza che quella di Gesù Cristo, poté parlare più alto, e fu più ascoltata; e almeno coloro che sono disposti a pigliar le parti degli oppressi ebbero contro di essa un pregiudizio di meno; il linguaggio de’ suoi difensori ebbe tosto i caratteri gloriosi di quei primi che la professavano, quando il confessarla non portava che

l’obbrobrio della croce». Per Manzoni la religione cattolica è sentita come cemento dell’Unità d’Italia. È l’Italia libera e una, l’Italia «una d’arme, di lingua, d’altare / di memorie, di sangue e di cor», del Marzo 1821, è quell’Italia unita per cui Manzoni non aveva esitato a scrivere a suo tempo, come lui stesso dice, anche un brutto verso come: «Liberi non sarem se non siam uni». Ecco quanto, a proposito dell’idea di una Confederazione, lo stesso Manzoni scrive in Dell’indipendenza italiana: «… non avrebbe potuto essere mai altro, che una nuova forma della nefasta divisione dell’Italia. Sarebbero state… tante porte rabbattute, non chiuse alle potenze straniere, che nella rivalità di quei diversi Stati, avrebbero trovato il mezzo di esercitare il solito divide et impera». Maria Luisa Astaldi nel suo Manzoni ieri e oggi richiama il giudizio di Manzoni su Gioberti: «Per me il Gioberti non riesce a persuadermi. La sua non è una fede religiosa profondamente sentita; egli vuole la Chiesa cattolica solo come un’istituzione che può essere utile a risolvere i problemi dell’Italia, mentre l’esigenza del Rosmini è un’altra; ben più vasta, fondamentale: la chiarificazione dei princìpi cattolici di contro alle imprese del mondo moderno… Gioberti ha fatto sue le istanze dei cattolici moderati, e ha rinunciato all’idea repubblicana. Affidare al papato compiti politici, a scapito della riforma morale della Chiesa, non piace nemmeno al Balbo né al D’Azeglio». A questo proposito non a caso anche un teorico del federalismo come Gianfran-

Così il de Sanctis sul poeta: «Accanto alla sua mansuetudine era l’energia. Il suo cristianesimo era accordo di divino e di umano...» co Miglio nel suo L’unità d’Italia e i cittadini italiani sosterrà che il federalismo di Gioberti è più un espediente che un’alternativa tecnica.

E si deve ricordare l’evoluzione del pensiero di Gioberti, conseguente alla crisi spirituale dello stesso dopo la catastrofe di Novara, dal Primato (18421843) al Rinnovamento (1851), a quel Rinnovamento dove è accolta la tesi unitaria e riconosciuto come punto di unione non più il papa ma la monarchia piemontese e dove si afferma la necessità della centralizzazione politica, senza della quale «gli ordini federativi, nonché essere la migliore forma di stato, sono anzi la peggiore». Tutto questo va detto senza nulla togliere ai meriti di Gioberti e del suo Primato, ri-

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Marzo 1821

Soffermati sull’arida sponda, Vòlti i guardi al varcato Ticino, Tutti assorti nel novo destino, Certi in cor dell’antica virtù,

Han giurato: Non fia che quest’onda Scorra più tra due rive straniere; Non fia loco ove sorgan barriere Tra l’Italia e l’Italia, mai più! (…)

conosciuti anche da Antonio Gramsci, che, in Il Risorgimento, sottolinea che «non bisogna dimenticare che dal Cinquecento in poi l’Italia contribuì alla storia mondiale perché sede del Papato e che il cattolicesimo italiano era sentito come un surrogato dello spirito di nazionalità e statale» aggiungendo che Gioberti «offriva agli intellettuali una filosofia che appariva come originale e nello stesso tempo nazionale», mentre Mazzini «offriva solo delle affermazioni nebulose e… vuote chiacchiere». Certo non è chi non veda quanto il Primato di Gioberti sia debitore dell’opera del Manzoni a partire da quel Discorso sopra alcuni punti della morale cattolica di cui, come abbiamo visto, non va sottovalutata l’importanza.

Giovanni Paolo II il 15 maggio 1994 nella Grande preghiera per l’Italia e con l’Italia non a caso ricordava il «patrimonio di fede e di cultura» e, riaffermando il valore etico della solidarietà nell’unità, sottolineava che «la divina Provvidenza per mezzo di Pietro ha legato in modo particolare la storia d’Italia e la storia della Chiesa». Sul rapporto tra Chiesa e Risorgimento è appena il caso di segnalare, con il volume di Beppe Del Colle e Pasquale Pellegrini, Cattolici dal potere al silenzio, dove è dichiarato quel senso di una coerenza di valori sociali e politici ispirati alla dottrina sociale della Chiesa che i cattolici hanno dato al Paese, l’altro, del gesuita Giovanni Sale, L’unità d’Italia e la Santa Sede, che richiama quanto scritto alcuni anni fa dal cardinale Giacomo Biffi che proponeva una lettura cattolica del fenomeno risorgimentale a partire dal concetto di identità culturale nazionale, di quel fattore culturale, individuato soprattutto nella fede e nella tradizione cattolica, che è sentito come principale elemento di coesione e unità nazionale, e indicava come «limite più grave del nostro Risorgimento» l’aver sottovalutato il radicamento nell’animo italiano «della fede cattolica e la sua quasi consustanzialità con l’identità nazionale». Non possiamo non sottolineare in proposito il grande significato che ha avuto lo scorso anno la presenza del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone a Porta Pia in occasione del 20 settembre, quel 20 settembre che non molti anni fa un autorevole politico propose che fosse dichiarato non soltanto festa civile, ma religiosa, per avere liberato la Chiesa da tutte le compromissioni e da tutti gli ostacoli di natura profana ed averla restituita al supremo magistero delle anime, quel magistero che promette di essere tanto più alto quanto più siano liquidate le confusioni fra Cesare e Pietro.


economia

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Aspra requisitoria dei Pm che sostengono l’accusa nel processo contro un fallimento che, nel 2003, costò a molti italiani tutti i propri risparmi

Colpo duro per Geronzi Crac Cirio: chiesti 15 anni per Cragnotti e 8 per il banchiere. Ma soprattutto l’interdizione perenne da uffici e imprese di Andrea Ottieri

ROMA. Richieste pesanti quelle fatte dall’accusa nell’ambito del processo per il fallimento della Cirio: per Sergio Cragnotti, proprietario della Cirio, 15 anni di reclusione; per Cesare Geronzi, che con la “sua” Banca di Roma sostenne le acrobazie finanziarie di Cragnotti, 8 anni. Ma in realtà la pubblica accusa, ha puntato l’indice, oltre che su delle persone fisiche, su una commistione di capitalismo e potere spregiudicato moralmente ed economicamente. Infatti, al di là della responsabilità dei due «big» del processo, l’accusa ha chiesto nel complesso 221 anni di carcere. Nello specifico: otto anni di reclusione sono stati chiesti dalla procura anche nei riguardi di Andrea e Elisabetta Cragnotti, figli dell’ex patron della Lazio, dell’avvocato Riccardo Bianchini Riccardi, dell’altro ex funzionario della Banca di Roma, Antonio Nottola; sei anni, invece, tra gli altri, per Massimo Cragnotti e Flora Pizzichemi, rispettivamente altro figlio e moglie dell’ex proprietario del gruppo Cirio e per gli ex funzionari della Banca di Roma, Pietro Locati, Remo Martinelli, Angelo Fanti e per quelli dell’ex Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani e Giovanni Benevento. Non solo. Nel formulare le richieste di condanna, la procura di Roma ha spiegato a chiare lettere di non voler sollecitare per nessuno degli imputati la concessione delle attenuanti generiche. «Si tratta di fatti di estrema gravità - ha spiegato il pm Gustavo De Marinis - alla luce dei reati commessi cui va applicata la continuazione per i vari casi di bancarotta. La sola mancanza di precedenti penali non è sufficiente per concedere le attenuanti». Ad aggravare il giudizio dei pm sulla questione, nei confronti dei 31 imputati per i quali è stata avanzata richiesta di condanna, la procura ha sollecitato l’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici (solo per temporanea per l’ex funzionario della Banca di Roma, Michele Casella, per il quale sono stati chiesti 4 anni di reclusione), l’interdizione legale e l’inabilitazione all’esercizio di una im-

Al centro dell’inchiesta di Roma è finito tutto un sistema che lega potere e finanza

La Seconda Repubblica sul banco degli imputati di Giancristiano Desiderio e richieste di condanna per il crac Cirio fanno tremare le vene ai polsi. Duecentoventuno anni di carcere per quarantacinque imputati. Tra questi spiccano i nomi, certo, di Sergio Cragnotti e dei suoi collaboratori, tuttavia il nome più importante è quello di Cesare Geronzi che oggi ricopre la carica di presidente del gruppo Generali, ma all’epoca dei fatti era dirigente della Banca di Roma. Il nome di Geronzi, che è presente in tante altre società, gruppi, consigli d’amministrazione, che è influente in Mediobanca, spicca ancor di più se si considera la richiesta del pubblico ministero Gustavo De Marinis: otto anni di reclusione e la condanna all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e l’inabilitazione all’esercizio dell’attività commerciale e all’esercizio di funzioni dirigenti per dieci anni. Non si tratta di una condanna - è bene specificarlo - bensì di una richiesta di condanna, ma non ci si può esimere dal considerarne la gravità. Dopotutto, è quanto fanno anche gli avvocati dello stesso banchiere, Ennio Amodio e Paola Severino, quando si dicono certi che i giudici nell’emettere la sentenza sapranno andare al di là delle «implausibili presunzioni contenute in una requisitoria generica e immotivata». C’è da aggiungere che questo dovrebbe essere l’auspicio un po’ di tutti noi, gente comune, perché la eventuale condanna di Cesare Geronzi per il crac Cirio riguarderebbe il cuore finanziario dell’Italia degli ultimi venti anni, quelli che coincidono con la cosiddetta Seconda repubblica.

L

a differenza di crac, non è onomatopeica e non si capisce bene che cosa significhi, ma se vi rivolgete ai possessori delle obbligazioni Cirio e ai creditori di Cragnotti vi sapranno spiegare molto bene il senso della strana parolina: fallimento, insolvenza, niente più interessi e niente più soldi investiti.

In fondo, l’aspetto più grave e triste di vicende come quelle della Parmalat e della Cirio è proprio quello che riguarda non tanto gli imprenditori, ma le operazioni di finanza e credito che sono state fatte coinvolgendo piccoli risparmiatori che credevano di fare un affare, anche in forza della credibilità dei nomi delle imprese e degli istituti di credito, e si sono fatti bidonare. Un rischio, in verità, che con un sistema bancario all’insegna della finanza allegra può riguardare tutti, anche il correntista più avveduto e prudente. Può darsi che quando la Procura, avanzando le richieste di condanna, chiede che «non devono essere concesse agli imputati le attenuanti generiche vista l’estrema gravità dei reati perpetrati» si riferisca proprio all’intenzionalità del reato. Come si è visto, infatti, i reati contestati sui quali si è svolto il processo presuppongono la volontà della truffa e del raggiro. Un motivo in più per sperare che i pm sia siano sbagliati. Staremo a vedere il giudizio dei giudici. Speriamo che gli anni dell’economia gestita in base alla finanza siano alle nostre spalle e che il “sistema-Italia” abbia imparato dagli errori della crisi mondiale ma anche dagli errori commessi in proprio. Al di là dei rinvii a giudizio, dei processi, delle richieste di condanna e delle condanne di ieri Parmalat - e delle eventuali di domani - Cirio - ciò che è certo è che i crac non solo ci sono stati, ma sono stati pagati soprattutto dalla figura del piccolo e medio risparmiatore-investitore con il contributo del mondo bancario. È l’intreccio non chiaro tra credito ed impresa a determinare i crac e se i giudici confermano le richieste di condanna è bene che i responsabili escano di scena.

L’aspetto grave è il coinvolgimento di piccoli risparmiatori che credevano di fare un affare

La parola crac è onomatopeica, ma non ha niente di poetico. Indica un cedimento strutturale di qualcosa che viene giù non perché colpito dall’esterno, ma perché svuotato delle sue stesse forze dall’interno. Il fallimento Cirio, che venne subito dopo il crac Parmalat in cui fece il suo importante ingresso collegato con Cirio anche Geronzi, comportò il default delle obbligazioni per 1.125 miliardi di euro emesse tra il 2000 e il 2002. La parola default,

presa commerciale e incapacità a esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa per la durata di dieci anni. Questo vuol dire, per essere chiari, che se Cesare Geronzi per caso dovesse essere condannato a questa pena, dovrebbe probabilmente lasciare i vertici di Generali, Mediobanca e Rcs. Un terremoto nel salotto buono della finanza, insomma; un terremoto nel quale non si può non vedere riflesso il baratro giudiziario nel quale è finito di recente il presidente del Consiglio in virtù delle sue discusse amicizie.

Ad ogni, modo, sono complessivamente 45 gli imputati in un processo per fatti risalenti al 2003, quando il fallimento del gruppo Cirio, allora guidato appunto da Sergio Cragnotti, fece andare in default obbligazioni per 1,125 miliardi di euro emesse tra il 2000 e il 2002. Gli imputati, a seconda delle singole posizioni, devono rispondere di falso, truffa, bancarotta fraudolenta, preferenziale e distrattiva. Secondo i pm Gustavo De Marinis, Rodolfo Sabelli e Tiziana Cugini, titolari dell’inchiesta, sono state «evidenziate responsabilità a partire dal suo dominus Sergio Cragnotti», fino poi a scendere nei diversi livelli degli indagati, vertici di società legati al gruppo Cirio nonché bancari. Secondo la Procura «non devono essere concesse agli imputati le attenuanti generiche vista l’estrema gravità dei reati perpetrati: la mancanza di precedenti, come evidenzia la giurisprudenza, non è inoltre un elemento sufficiente per concedere queste attenuanti. Senza contare poi il comportamento processuale tenuto dagli imputati, che


economia

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L’ottimismo di Alessandro De Nicola

«Ma ora ci sono gli anticorpi» «Il mercato è cambiato: truffe come quelle sono impossibili» di Francesco Lo Dico

Cesare Geronzi e, nella pagina a fianco, Sergio Cragnotti: i due maggiori imputati del processo Cirio. Qui accanto, Toni Servillo e Remo Girone nel film «Il gioiellino» sul crac Parmalat hanno sempre respinto le accuse». Di tenore opposto, ovviamente, i commenti dei difensori degli imputati. In particolare, i legali di Geronzi - malgrado il banchiere si sia detto tranquillo e fiducioso nella giustizia hanno sottolineato l’inconsistenza dell’accusa in virtù del fatto che non è plausibile, a loro modo di vedere che «le banche debbano coltivare la logica del sospetto e pronosticare esi-

cesso Cirio sostiene di fatto che gli imputati si ispiravano allo stesso principio: il gioco pericoloso era quello di «inventare i soldi»; naturalmente con l’ausilio del management, delle banche compiacenti e di ignari risparmiatori. I quali, come nel caso del crac Parmalat, anche stavolta, non sono solo le vere vittime di questo spregiudicato capitalismo ma anche coloro i quali, sulla propria pelle, devo-

Una vicenda simile al caso Parmalat, sul quale esce domani un film con Toni Servillo. Profeticamente, il suo personaggio nella finzione dice: «Se i soldi non ci sono, inventiamoceli» ti rovinosi pur se si convincono che una impresa gode di buona salute, insomma anche quando il cliente è solido e vitale».

È curioso notare che la richiesta dei pm arriva in coincidenza con l’uscita di un film dedicato a una storia molto simile: Il gioiellino di Andrea Molatoli (con Toni Servillo e Remo Girone) dedicato al crac Parmalat. La coincidenza colpisce perché lo “slogan pubblicitario” del film (che poi è una battuta del ragioniere che ordisce la grande truffa) è: «Se i soldi non ci sono, inventiamoceli». Ebbene, la pubblica accusa nel pro-

no contraddire la scaltra legge «Se i soldi non ci sono, inventiamoceli». Ossia: i soldi da mettere a rischio ci sono, ma sono quelli degli altri. Naturalmente, una richiesta di condanna non è una condanna, ma un’altra coincidenza significativa di questi giorni è l’attacco concentrico di cui è oggetto Cesare Geronzi in Generali: l’impressione è che uno dei padripadroni della nostra finanzia sia effettivamente in difficoltà.

Quanto al merito specifico del processo, ammontava a circa tremila miliardi di lire il debito del Gruppo Cirio quando

andarono in default obbligazioni per 1.125 milioni di euro emesse tra il 2000 e il 2002, appunto mandando all’aria i progetti di migliaia di risparmiatori. Lo ha sottolineato il pm Gustavo De Marinis nella sua requisitoria, in cui ha delineato i ruoli dei principali imputati di questa vicenda: «Sergio Cragnotti era il motore di tutto e, in quanto personaggio dal carattere accentratore, era al centro di tutte le decisioni». Dalla lettura dei verbali dei comitati esecutivi - ha detto il pm «emerge, ogni volta che si parlava di Cirio, la piena consapevolezza dello stato problematico in cui versava il Gruppo di Cragnotti», che già verso la fine del ’96 aveva una crisi di liquidità. «La Banca di Roma aveva una conoscenza approfondita della situazione in Cirio - ha proseguito il pm -, della realtà del suo cliente e nonostante ciò ha avallato il protrarsi di quell’apporto che si è andato sviluppato nel tempo anche se, mano a mano, l’istituto stesso cercava di prendere le distanze tentando di avere nuove garanzie da parte del cliente o prevedendo ulteriori finanziamenti scaricando su altri il rischio. Lo scopo era rientrare almeno parzialmente dell’esposizione». È il caso dei bond Cirio, finiti sulle spalle dei piccoli e medi risparmiatori quando erano destinati agli investitori istituzionali. «In questo - ha detto il pm - spicca il ruolo di Geronzi e Nottola la cui presenza alle riunioni del comitato esecutivo spicca dalla lettura del verbale». In questo desolante panorama, l’unica soddisfazione per gli imputati è che la procura ne ha chiesto il proscioglimento dal reato di truffa. Per avvenuta prescrizione.

ROMA. «Rispetto a quando avvenne il crac della Cirio, le regole sono cambiate ed è probabilmente da escludere in futuro che simili vicende possano verificarsi di nuovo. Oggi ci sono regole certe in linea con quella degli altri Paesi europei, e il sistema italiano è sotto controllo grazie all’attività dell’Antitrust e della Banca d’Italia. Il vero problema del comparto economico-finanziario nazionale è piuttosto l’attuazione delle norme atte a garantire il corretto funzionamento del mercato, e l’incredibile lentezza della nostra giustizia. È abnorme constatare come le richieste di condanna per Cragnotti e Geronzi, arrivino ad esempio a nove anni dall’inizio del processo». Presidente della Adam Smith Society e professore di Diritto commerciale alla Bocconi di Milano, Alessandro De Nicola appare fiducioso. La terrificante parabola di truffa e inganno ordita da banche e aziende ai danni di 35mila risparmiatori che misero ingnari nel proprio portafoglio debiti del valore di 900 milioni di euro, per il professore è un’esperienza irripetibile. Professore, il caso Cirio non è l’emblema dell’impresa all’italiana, che tiene per sé i profitti e scarica sui cittadini i debiti? Rispetto ad allora, le regole sono molto diverse: chiare e semmai sovrabbondanti. Il nodo consiste nella loro applicazione. Eppure il caso Alitalia è abbastanza fresco. Debiti ai cittadini, new company ai capitani coraggiosi. Non crede che una certa tendenza ad aggirarle sia viva e vegeta invece? Alitalia è un caso diverso da Cirio. I problemi del sistema imprenditoriale italiano non vanno cercati nella vicenda

giudiziaria di Cragnotti. Oggi vige un contesto di nuove regole. Quali sono le note dolenti del nuovo contesto? Basta sentire quello che dicono di noi gli investitori stranieri. Innanzitutto c’è una scoraggiante complessità regolamentare, e in secondo luogo bisogna fare i conti con le lentezze della nostra giustizia. E ancora: siamo in presenza di una ec-

cessiva rigidità del mercato del lavoro, scontiamo un regime di tassazione elevatissimo e l’incertezza della giustizia civile ci costringe spesso all’immobilismo. C’è stata però la modifica della legge Marzano per il salvataggio delle grandi aziende nel 2008. E ancora pochi giorni fa, un emendamento del Milleproroghe ha bloccato la restituzione di 1400 milioni agli azionisti Parmalat. Non è che oltre al problema di chi deve far rispettare le leggi, c’è anche quello di chi le fa? La magistratura ha a disposizione un’infinita serie di strumenti per far valere il rispetto della legge, e in ogni caso bisogna precisare che quei provvedimenti riguardano la materia penale e non toccano la sfera del diritto civile. Le 35mila persone truffate, avranno però l’eventuale risarcimento secondo la personale disponibilità di Cragnotti, piuttosto che direttamente da Cirio. Vedremo come andrà a finire, la responsabilità civile del reo resta.


diario

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Bondi annuncia le dimissioni

Il Bangladesh «caccia» Yunus

ROMA. Il ministro della Cultura, Sandro Bondi, rassegnerà «presto» le dimissioni dal governo. Decisione della quale ha già informato il premier che «se ne occuperà non appena sarà possibile». Lo ha annunciato lo stesso Bondi in una lettera pubblicata ieri sul quotidiano il Giornale. Nel ruolo di ministro, dice, «posso avere fatto degli errori, ma ho realizzato delle riforme importanti e ho imposto una linea alternativa, in senso compiutamente liberale e riformatore, alla politica culturale della sinistra». Uno «sforzo» però nel quale non è stato «sostenuto con la necessaria consapevolezza dalla maggioranza e da quei colleghi che avrebbero potuto imprimere insieme a me una svolta nel rapporto tra Stato e cultura».

DACCA. Il governo del Bangladesh ha costretto il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus a lasciare la sua banca di microcredito, la Grameen Bank, che conta microprestiti per 955 milioni di dollari complessivi a circa 8 milioni di poveri, in maggioranza donne. È l’ultimo atto della guerra tra il governo del Bangladesh e il banchiere: del resto lo Stato possiede il 25% della Grameen Bank presieduta da Yunus. All’inizio di dicembre 2010 un documentario realizzato dal giornalista danese Tom Heinemann ha insinuato irregolarità nella gestione della banca riguardanti doni finanziari della Norvegia e di altri Paesi, provocando reazioni contrastanti ed inchieste da parte dei governi di Oslo e di Dacca.

Marche: tre vittime per il maltempo ANCONA. Una tardiva ondata di maltempo è costata una vittima ad Ascoli Piceno, un morto e una ragazza dispersa a Casette d’Ete (Fermo) dove il fiume Ete è straripato trascinando nel fango l’autombile dove viaggiavano l’uomo e la ragazza. L’intero centro abitato del paese (dove ha sede l’azienda calzaturiera Tod’s, di Diego della Valle) è invaso dalla piena. Sott’acqua anche diversi stabilimenti e capannoni. Sono esondati l’Ete vivo, l’Ete morto, il Tronto, l’Aso e il Menocchia nel centro sud della regione, il Misa, l’Esino, il Nevola e il Musone più a nord. Insomma, tutte le Marche stanno combattendo con pioggia e neve. Gravi disagi ha causato anche una bora fortissima (fino a 160 km/h) a Trieste.

L’Aula ”corregge” il no della Bicamerale: E Casini attacca: «Questo provvedimento serve solo ad alzare le imposte»

Ecco il federalismo delle tasse

«La Lega, pur di costruire in fretta uno spot, rinuncia alla vera riforma» di Pier Ferdinando Casini

«È inutile che Berlusconi sbraiti contro la patrimoniale: la vera patrimoniale la introduce questo falso federalismo», ha detto Casini alla Camera. E ha aggiunto: «Se è vero che non state facendo il federalismo fiscale, cosa state facendo allora? Semplicemente state riparando i danni che voi stessi avete causato con la vostra politica dei tagli lineari»

l nostro partito è stato l’unico a votare contro la legge istitutiva di questo federalismo e la nostra è stata una scelta attenta e ponderata, basata sull’analisi dei contenuti e non certo su pregiudizi. Ci sono ragioni di ordine politico e di merito che ci hanno indotto e ci inducono ancora a dire no a questo provvedimento.

I

Non possiamo fidarci finché la Lega non si troverà almeno d’accordo su nozioni elementari come il fatto che il Po non è un dio ma un fiume, che la Padania non è una regione ma una pianura, che Roma non è “ladrona” ma la capitale del nostro Paese. Non possiamo fidarci se la Lega rifiuta di festeggiare il 17 marzo, giorno della ricorrenza dei 150 anni dell’Unità d’Italia, con la scusa della crisi economica, salvo poi pretendere un altro giorno di festa per ricordare la battaglia di Legnano il 29 maggio. Se si vuole un federalismo che unisce, perché esaltare gli egoismi? Parlare come facciamo oggi di risorse da trattenere sui territori e di nuove tasse e non parlare di livelli minimi di servizio da assicurare a tutte le regioni, da Nord a Sud, ignorare la perequazione, ignorare cioè tutto ciò che unisce, tutto ciò che di solidaristico ci può essere nel federalismo, vuol dire dividere. Devo dirvi una cosa: Il federalismo fiscale non esiste. È solo uno spot, un pasticcio, che rischia solo di creare confusione e danni. Non esiste perché non si può applicare lo strumento del federalismo fiscale se prima non si costruisce lo Stato federale. La stessa evocazione, sacrosanta, dei costi standard, non si capisce perché non possa venire adottata oggi, uniformando i trasferimenti dello Stato alle Regioni per la sanità, e aspetti invece messianicamente la sua realizzazione col federalismo. Introdurre un sistema fiscale federale in uno Stato centralista come il nostro significa sfasciare il Paese. Per intenderci, in uno Stato federale non ci sono due Camere e 1000 parlamentari. E’ sufficiente una sola Camera

con molti meno parlamentari perché lo Stato centrale è più leggero e ha molte meno funzioni. In uno Stato federale non ci sono tanti livelli di governo come in Italia (circoscrizioni, comuni, comunità montane, unioni di comuni, province e regioni): ce ne sono meno. Ecco perché avevamo chiesto di abolire almeno le province. In uno Stato federale non ci sono 8.200 Comuni, di cui circa 4.800 sotto i 5mila abitanti. Secondo voi, è possibile ideare un sistema fiscale efficiente che vada bene a un Comune di 35 abitanti e allo stesso tempo vada bene a un Comune come Milano che ha quasi 2 milioni di abitanti? Saranno due tipi di comuni diversi, che per funzionare bene hanno bisogno di regole diver-

se. È possibile chiedere a un Comune di mille, duemila abitanti di erogare in modo efficiente ed economico i servizi? È chiaro, quindi, che senza revisione dell’assetto istituzionale ogni forma di federalismo fiscale equo e che comporti riduzione di costi, è impossibile. E allora è chiaro che qui non si vuole fare un vero federalismo. Si vuol solo approvare uno spot per la Lega.

Se è vero che non state facendo il federalismo fiscale, cosa state facendo allora? Semplicemente, state riparando i danni che voi stessi avete causato con la politica dei tagli lineari. Avete tolto risorse ai Comuni che nonostante abbiano aumentato le tariffe per i cittadini e

diminuito i servizi – come noi avevamo previsto – non ce la fanno più. Oggi restituite parte di quelle risorse ai Comuni aumentando le tasse. Abbiate il coraggio di dirlo con chiarezza. Ed è inutile il grande sforzo del ministro Calderoli nel tentativo di spiegare agli italiani che con questo federalismo le tasse non aumenteranno. Se si introduce l’imposta di soggiorno, se si introduce la tassa di scopo, l’Imu, se si sblocca l’addizionale Irpef, la traduzione è una sola: le tasse aumentano. E stiamo parlando di imposte che con il federalismo non c’entrano proprio nulla. Anzi sono antifederali. In tutti i Paesi del mondo, l’imposta federale è una: quella sulla prima casa. Proprio quella che


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Nel 2010 Equitalia ha recuperato 8,9 miliardi di euro dall’evasione ROMA. Nel 2010 la riscossione dei tributi è salita a 8,9 miliardi, il 20% dei quali recuperati da grandi evasori fiscali, soprattutto in Lombardia, Lazio e Campania. Il dato è reso noto da Equitalia che, naturalmente, ha colto l’occasione per “farsi i complimenti”. «I dati sulla riscossione – spiega una nota di Equitalia - indicano un incremento complessivo del 15% rispetto al 2009 e del 27% sul 2008, per un valore che, al 31 dicembre 2010, si attesta a 8,9 miliardi tra imposte, tasse e contributi, non pagati dai contribuenti, ma dovuti ai vari enti creditori». Sempre secondo Equitalia, l’aumento rilevante delle somme recuperate è dipeso soprattutto dall’affinamento delle attività di controllo e riscossione, frutto delle maggiori sinergie con l’Agenzia delle entrate, l’Inps e la Guardia di finanza. In particolare per le morosità rilevanti: rispetto al 2009, infatti, «sono aumentati del 17% gli incassi da chi ha debiti oltre i 500mila eu-

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

ro, per un importo complessivo che ha rappresentato il 20% del totale riscosso». Altro contributo decisivo, secondo Equitalia, è venuto dalle rateazioni delle cartelle che ha facilitato il percorso dei contribuenti intenzionati a mettersi in regola col Fisco, riducendo contemporaneamente il contenzioso. «In totale - si legge ancora nella nota - al 31 dicembre 2010 le rateazioni concesse hanno raggiunto quota un milione per un importo che supera i 14 miliardi».

La scelta di Calderoli

Una proroga di quattro mesi alla delega ROMA. Incassato il sì del Parlamento al decreto sul federalismo municipale, Umberto Bossi guarda avanti e ammette che «ora arriva al parte difficile: il federalismo regionale e provinciale». Anche perché questo testo dovrà introdurre i costi standard, attraverso i quali gli enti locali dovranno iniziare a spendere seguendo come direttive efficienza e risparmio. Se il Senatùr si affida all’idea di riequilibrare i pesi dei poli nella Bicamerale che si occupa di federalismo – «La speranza è l’ultima a morire», Roberto Calderoli si mostra ancora più pratico. Così, prima che il governo ottenga la fiducia in aula sul fisco municipale, annuncia una proroga di 4 mesi alla delega della legge 42. Secondo la quale la riforma avrebbe dovuto essere licenziata in estate. Da mesi le opposizioni chiedono di allungare i tempi, ma dal dicastero per la Semplificazione si sono sempre opposti, spiegando che non tutti in maggioranza avrebbero acconsentito. Ieri la svolta dopo un incontro con Saverio Romano dei “Popolari d’Italia domani”. Tempi a dir poco necessari se ieri, durante la sua ultima audizione presso la Bicameralina, il presidente della Copaff Luca Antonini è stato abbastanza vago sugli impatti che la nuova fiscalità avrà sull’imponibile e sui servizi destinati ai cittadini. «Non ci saranno aumenti di pressione fiscale ma fino a quando non sarà pronto il Dpcm sulle risorse complessivi», ha spiegato il costituzionalista. Intanto ieri il governo ha incassato la fiducia sul testo che riscrive la fiscalità municipale, introducendo l’Imu e la cedolare secca. Se in maggioranza si sono astenuti i deputati di Forza Sud per protesta contro i tagli agli incentivi al fotovoltaico. Pd, Idv e Terzo Polo hanno votato compatto per il no.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

«Prima avete tolto risorse ai Comuni ora gliene restituite una parte aumentando le tasse. Abbiate il coraggio di dirlo» voi, per demagogia, avete tolto. Oggi dovete essere coerenti: se non c’è l’imposta per la prima casa, non c’è nemmeno il federalismo fiscale. Perché federalismo significa maggiore controllo degli elettori sui propri eletti. Mentre le vostre nuove tasse vanno in direzione opposta, deresponsabilizzano gli amministratori locali: l’imposta di soggiorno la pagano i non residenti, chi non vota in quel Comune. L’Imu colpisce principalmente le seconde case che nella stragrande maggioranza dei casi riguardano i non residenti.

E con l’Imu ancora una volta si sceglie di penalizzare famiglie e piccole imprese, le uniche strutture che hanno

garantito la coesione sociale caricandosi sulle spalle tutte le difficoltà della crisi economica. Ha ragione il ministro Tremonti quando ci dice che il federalismo si basa sul trinomio «Pago - Vedo - Voto». Qui però si è inventato il federalismo: «Pago - Vedo - E voto da un’altra parte». A Berlusconi poi vorrei dire che la patrimoniale l’ha già introdotta lui introducendo la tassa di scopo. Non lo dico io, ma i libri di Scienze delle Finanze. Da oggi, con l’approvazione di questo decreto, se un Comune realizzerà una strada o una scuola, i cittadini potranno pagarla con la tassa di scopo. Non è un altro aumento delle tasse questo? Non state mettendo le mani in tasca agli italiani, a quelli del nord come a quelli del centro e del sud? Ecco allora perché nel merito, una forza federalista come la nostra, ha il dovere di votare no a questo provvedimento.

Eravamo soli nel febbraio del 2009, quando votammo per la prima volta «no» al federalismo. Oggi questa presunta riforma sarà approvata, grazie alla fiducia, per qualche voto. La nostra compagnia è più folta come lo è in Parlamento e nel Paese. Continuiamo a lavorare senza isterismi e senza fretta per una svolta che deve arrivare.

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grandangolo Aveva detto di essere «pronto a versare il proprio sangue»

Shahbaz Bhatti un nuovo martire cristiano in Pakistan Un commando talebano ha ucciso ieri con 30 colpi di pistola il ministro per le minoranze di Islamabad, che combatteva per abrogare la famigerata legge islamica sulla blasfemia. Negli ultimi mesi si era impegnato per salvare la vita ad Asia Bibi, la giovane madre cattolica condannata a morte dagli estremisti. Ora dobbiamo continuare la sua battaglia di Vincenzo Faccioli Pintozzi l martirio è cosa particolare, su cui legifera la Chiesa cattolica. E definire una persona “martire” è una responsabilità non da poco: implica una conoscenza personale e profonda del soggetto, che deve aver affrontato una morte violenta con serenità e che vi sia giunto perché guidato da valori profondi e ben compresi. Forse Shahbaz Bhatti non entrerà nella lista di coloro che sono morti per la fede – almeno non nella lista stilata dalla gerarchia vaticana – ma di sicuro la sua morte rappresenta uno spartiacque per la società civile. Non soltanto pakistana, ma mondiale. Il ministro pakistano per le minoranze è stato ucciso ieri mattina da un commando armato. L’attentato è stato compiuto nel quartiere I-8/3 di Islamabad - la capitale è stata disegnata dall’ex presidente Musharraf come un enorme campo militare, e come tale non ha nomi esotici ma numeri a delinearne le aree - da un gruppo di uomini mascherati che hanno teso un agguato al ministro per strada. L’hanno tirato fuori dalla sua auto e hanno aperto il fuoco contro di lui a brevissima distanza, crivellandolo con 30 proiettili prima di fuggire su un’automobile.

I

Una nipote, che stava viaggiando con lui quando è avvenuta l’aggressione, sembra essere sopravvissuta. I terroristi hanno continuato a sparare per circa due minuti. Non c’era nessun agente della sicurezza con Bhatti quando è avvenuto l’attentato. Il ministro è stato im-

mediatamente trasportato all’ospedale Shifa, dove però i medici non sono riusciti a salvarlo. Gli assassini hanno lasciato sul luogo del delitto un manifestino: «Il Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp) rivendica l’assassinio di Bhatti per aver parlato contro la legge sulla blasfemia». Il Tehrik-e-Taliban Pakistan è un’organizzazione “ombrello” che raggruppa vari gruppi di militanti islamici che operano in tutta l’Asia meridionale. La ferocia dell’agguato e la sostanziale impunità di cui godranno gli assassini confermano che, oramai, il Pakistan è fuori controllo. La cacciata del presidente Musharraf – dittatore di stampo milita-

Aveva detto a liberal qualche mese fa: «So di essere stato condannato tanto tempo fa. Ma non per questo intendo tirarmi indietro» rista, ma quanto meno ferocemente contrario all’ideologia islamica imperante – e la salita al potere di una coalizione incapace di governare le aree tribali hanno aperto la porta al dominio oramai incontrastato non soltanto dei

talebani, ma di ogni segmento sociale chiuso al dialogo interreligioso. Shahbaz Bhatti, cattolico, era stato confermato di recente nel suo incarico di ministro per le Minoranze in un rimpasto governativo: aveva difeso con coraggio Asia Bibi, la cristiana condannata a morte per blasfemia sulla base di accuse false, e in genere si era sempre speso per la libera circolazione delle minoranze e per il rispetto dei loro diritti. In un’intervista rilasciata a liberal alcune settimane fa aveva detto: «So benissimo di essere stato condannato a morte, da molto tempo. Ma questo non mi impedisce di andare avanti, giusto? Sarebbe come darla vinta a chi sbaglia senza neanche combattere». In quella stessa occasione aveva ribadito quello che era divenuto il suo leitmotiv: «Dobbiamo abrogare la draconiana e incostituzionale legge sulla blasfemia. L’Occidente deve aiutarci, perché è sulla base di leggi come queste che il Pakistan continua ad essere un porto sicuro per i fondamentalisti di tutto il mondo».

La legge sulla blasfemia è il peggior strumento di repressione religiosa in Pakistan: secondo dati della Commissione nazionale di Giustizia e Pace della Chiesa cattolica (Ncjp), dal 1986 all’agosto del 2009 almeno 964 persone sono state incriminate per aver profanato il Corano o diffamato il profeta Maometto. Fra questi 479 erano musulmani, 119 cristiani, 340 ahmadi, 14 indù e altri 10 di altre religioni. Essa costituisce anche

un pretesto per attacchi, vendette personali o omicidi extra-giudiziali: 33 in tutto, compiuti da singoli o folle inferocite. Dal 2001 a oggi, sempre secondo Ncjp, almeno 50 cristiani sono stati uccisi utilizzando come pretesto la legge sulla blasfemia. A questi si aggiungono quelli delle altre minoranze religiose del Paese, oggetto di violenze da parte di estremisti musulmani che, in alcuni casi, finiscono per colpire anche i fedeli dell’islam. La comunità ahmadi, confessione di ispirazione musulmana che non riconosce Maometto come ultimo profeta, considerata per questo eretica da sunniti e sciiti, dichiara che nel 2009 sono stati uccisi almeno 12 fedeli.

Dal 1984 a oggi sono morti 107 ahmadi, 719 sono stati arrestati. La legge sulla blasfemia è stata introdotta nel 1986 dal dittatore pakistano Zia-ul-Haq per difendere da offese e ingiurie l’islam ed il suo Profeta, Maometto, ed è ormai diventata uno strumento di discriminazioni e violenze. La norma è prevista alla sezione 295, comma B e C, del Codice penale pakistano e punisce con l’ergastolo chi offende il Corano; essa prevede anche la condanna a morte per chi insulta il profeta Maometto. Le accuse a carico dei presunti blasfemi sono spesso false o motivate da interessi meschini, generano scandali e spingono folle inferocite a farsi giustizia. Anche se arrestati in base all’accusa di un solo testimone, i malcapitati rischiano violenze e torture dalla polizia. Shahbaz Bhatti era


3 marzo 2011 • pagina 15

Parla il vescovo di Islamabad, monsignor Rufin Anthony: «Lo Stato è assente»

La forte reazione della Chiesa: «La misura è colma» di Dario Salvi un giorno triste e amaro non solo per le minoranze, ma per l’umanità intera». Lo ha dichiarato ieri ad AsiaNews mons. Rufin Anthony, vescovo di IslamabadRawalpindi, colpito nel profondo dalla notizia dell’omicidio a sangue freddo di Shahbaz Bhatti. Il prelato sottolinea che «la misura è colma» e si chiede «quanto sangue dovrà scorrere ancora, prima che il Pakistan trovi pace e armonia». Intanto fonti cristiane nel Paese, anonime per sicurezza, chiariscono che «esiste uno Stato nello Stato», composto da elementi fondamentalisti che «commettono crimini e agiscono nell’impunità più totale». Ricordando il prezioso lavoro di Shahbaz Bhatti per i cattolici e le minoranze in genere, mons. Anthony parla di «episodio triste, un giorno amaro non solo per le minoranze, ma per l’umanità intera». Il vescovo conosceva bene le abitudini del ministro: «La routine quotidiana di Bhatti prevedeva che andasse a trovare la madre, pregava qualche tempo con lei. Poi mi chiamava e mi chiedeva ogni mattina di pregare per lui». Profondamente scosso dall’omicidio, il prelato continua a parlare di Bhatti: «Lo ricordo ancora bambino, partecipava con regolarità alla messa; era un cattolico devoto e appassionato sin dalla più tenera età». «Il ministro – aggiunge – viveva sotto costante minaccia e il governo non ha saputo garantirgli un’adeguata sicurezza». Il vescovo di Islamabad lo descrive come «un uomo coraggioso, impavido, che ha preso una posizione molto forte a favore delle minoranze». Quando ha prestato giuramento per il nuovo esecutivo, rinnovato di recente dopo il rimpasto voluto dal presidente Ali Zardari, ha sottolineato che avrebbe combattuto «fino all’ultima goccia del suo sangue: egli ha messo in gioco se stesso, ha mantenuto una posizione ferma e ne ha pagato il prezzo con il suo sangue». Mons. Anthony conclude con un auspicio: «Quanto è successo dovrebbe servire ad aprire gli occhi alle minoranze e al governo. Quando sangue dovrà scorrere ancora – chiosa il prelato – per capire che la misura è colma?». Intanto fonti cristiane di AsiaNews nel Punjab, anonime per moti-

«È

Shahbaz Bhatti, ministro per le minoranze ucciso ieri a Islamabad con 30 colpi di pistola. Nella pagina a fianco, dall’alto: manifestazioni di protesta contro l’omicidio del ministro e lo stesso Bhatti con il marito di Asia Bibi nato il 9 settembre del 1968 in una famiglia cristiana originaria del villaggio di Kushpur. Suo padre Jacob ha servito a lungo nell’esercito; poi si è impegnato nel campo dell’istruzione, ha insegnato a lungo ed è stato presidente del consiglio delle Chiese di Kushpur. Nell’autunno del 2010 è stato ospitalizzato a Islamabad. Secondo fonti locali, le sue

Gli appelli dell’Occidente hanno sempre ignorato l’Asia meridionale: l’islam fa quello che vuole senza controlli condizioni sono peggiorate decisamente dopo la notizia dell’assassinio del governatore del Punjab, Salman Taseer, il 4 gennaio 2011. È entrato in una forma di depressione psicofisica che ha portato infine all’arresto cardiaco, e alla morte il 10 gennaio 2011.

L’importanza di Jacob Bhatti nella vita del figlio è stata grande. Una testimonianza apparsa sui giornali pakistani al momento della morte lo descriveva così: «Era un uomo coraggioso ed era la principale fonte di forza per suo figlio. Lo incoraggiava e lo aiutava ad affrontare le situazioni più rischiose e precarie». Ispirato proprio dalla figura del padre, il ministro ha sempre avuto un’attenzione particolare per la situazione dei settori del Paese più discriminati. È stato a lungo presidente dell’Apma (All Pakistan Minorities Alliance), un’Orga-

nizzazione non governativa che rappresenta le comunità emarginate e le minoranze religiose del Pakistan, e opera su vari fronti in sostegno dei bisognosi, dei poveri, dei perseguitati. Del motivo del suo impegno egli dice semplicemente: «Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Cristo». Nel 2006, in occasione del grande raduno in Vaticano della Caritas internazionale, aveva detto: «Più che la lotta alle ingiustizie, dobbiamo impegnarci nella promozione della giustizia. In Pakistan abbiamo molte leggi e situazioni ingiuste che vanno cambiate, ma prima di tutto dobbiamo mostrarci aperti al bene; in questo modo si cambiano i cuori, mentre con la forza si cambiano soltanto le leggi».

Non si trattava di parole di circostanza, dette per ammansire qualche vescovo presente o per ottenere maggiori fondi da Roma. Era una ricetta di vita che il ministro, sin dall’inizio della propria opera a favore dei meno fortunati, aveva cercato in ogni modo di perseguire. La sua morte tragica e improvvisa lascia un enorme vuoto nella comunità pakistana e in quel sottile network di persone che - in giro per il mondo - fanno il possibile con vari mezzi a disposizione per aiutare coloro che vengono perseguitati per motivi politici e religiosi. È stato d’aiuto, e questo non era molto pubblicizzato per ovvi motivi, ai cristiani iraniani: a loro ha insegnato in alcune occasioni come poter sopravvivere sotto l’egida di una teocrazia islamica. Forse sarà ridondante, e sicuramente non è questa la sede giusta per affermarlo senza timori di smentite. Ma i 30 proiettili che ieri hanno devastato il corpo di Shahbaz Bhatti hanno regalato al mondo un nuovo martire. Morto per i diritti di coloro che i diritti non pensano neanche di averli.

vi di sicurezza, sottolineano: «Esistono elementi fondamentalisti che commettono crimini e agiscono nell’impunità più totale. Ci sono degli elementi che agiscono all’interno dello Stato esiste uno Stato nello Stato, più potente, che agisce secondo l’ideologia estremista. I cittadini comuni, al contrario, la società civile, gli stessi musulmani moderati, la maggioranza, vogliono vivere in maniera pacifica, ma sono impotenti davanti ai movimenti integralisti».

La fonte di AsiaNews parla di “episodio deplorevole” che «toglie coraggio e speranza alle minoranze religiose e alla società civile». È la seconda figura di primo piano, dopo il governatore del Punjab Salman Taseer, che «viene ucciso per la sua opposizione alla legge sulla blasfemia e per il suo lavoro a favore delle minoranze religiose». Questo è un modo, continua, per «mettere il bavaglio alle minoranze, per sopprimere la loro voce e chi li difende». Anche in questo caso, conclude, «si tratta di violenze commesse in nome della religione». Anche i cristiani indiani condannano il “brutale” assassinio di Shahbaz Bhatti, ucciso per essersi opposto alla “draconiana” legge sulla blasfemia. Attivisti per i diritti umani si appellano alle Nazioni Unite e alla comunità internazionale, perché esercitino pressioni verso il governo pakistano, finora incapace di fermare la mano dei fondamentalisti. Sajan George, presidente del Global Council Of Indian Christians (Gcic), invoca «l’immediata abrogazione della legge sulla blasfemia» in Pakistan. In passato, ricorda l’attivista cristiano, «il Gcic ha chiesto al governo indiano di sollevare la questione al Consiglio Onu per i diritti umani» e si è battuto per «salvare la vita di una madre di due figli condannata a morte» (il riferimento è ad Asia Bibi). Per il movimento cristiano indiano «il governo pakistano sponsorizza il terrorismo islamico e le violenze contro le minoranze e le donne», e questo «potrebbe innescare una catena di violenze anche in nazioni a maggioranza musulmana». (Hanno collaborato Jibran Khan e Nirmala Carvalho - AsiaNews)


ULTIMAPAGINA Troppe incognite sulla sorte di Mousavi e Karrubi, spariti nel nulla

Il mondo salvi i cavalieri dell’Onda verde di Antonio Picasso a questione iraniana sbarca in Europa e consolida la sua testa di ponte in Italia. Ieri, durante l’interrogazione parlamentare alla Camera, Ferdinando Adornato dell’Udc ha chiesto al Ministro della Difesa, Ignazio La Russa, di intervenire in difesa dei due maggiori esponenti dell’opposizione a Teheran, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karrubi, dei quali si sospetta lo stato di arresto a Teheran. «Non possiamo tacere e non possiamo lasciar sole due persone che combattono per la libertà del loro Paese», ha detto Adornato. La Russa ha replicato che sottoporrà la questione al responsabile della Farnesina, Franco Frattini. Successivamente il governo italiano dovrebbe fare appello all’intera Unione europea per un’iniziativa congiunta.

L

L’Iran è decisamente fuori dai riflettori in questo momento. La crisi che più angustia gli osservatori occidentali è quella libica. È facile, quindi, pensare che gli ayatollah abbiano colto l’occasione per avviare una nuova rappresaglia contro i propri oppositori, Mousavi e Karrubi appunto. Gli stessi che, un anno e mezzo fa, si erano posti alla guida dell’Onda per abbattere il tandem Khamenei-Ahmadinejad. La conferma di quest’ultimo attacco alla Presidenza era nata da un voto palesemente manipolato. In questi mesi, con l’intero Medioriente in ebollizione, i riformisti sono tornati nelle piazze. Di fronte alle proteste in Tunisia ed Egitto, il regime aveva parlato dell’atteso crollo degli alleati dell’Occidente che hanno tradito l’islam. Tuttavia, le proteste all’estero si sono estese anche

IRANIANA ufficiale per le sorti dei due oppositori non regge rispetto alle ulteriori dichiarazioni. Il regime ha detto, infatti, che la questione di Mousavi e Karrubi rappresenta un problema interno, nel quale i Paesi stranieri non hanno diritto di ingerenza. Se Mussavi e Karrubi fossero liberi, per quale motivo accusare le cancellerie straniere di interferire nelle questioni domestiche? Inoltre, proprio ieri, la Mejlis, l’Assemblea nazionale, ha presentato una domanda ufficiale per l’apertura di un processo nei confronti delle due personalità, indicandoli come «capi della sedizione e mercenari». «Auspichiamo che ciò venga attuato presto dalla magistratura», ha dichiarato lo speaker del parlamento, Ali Larijani. Nei giorni scorsi, era stata ventilata l’idea che Mousavi e Karrubi potessero essere condannati a morte. L’escalation di prese di posizione, quindi, smentisce lo stesso regime. È evidente che la sua ala oltranzista intenda liquidare l’opposizione nel modo più celere e drastico possibile. Resta da domandarsi se una dimostrazione di forza sia vantaggiosa. Già nell’estate 2009, si era parlato di un eventuale patibolo pronto per Mussavi e Karrubi. La forca, poi, non venne eretta. Forse perché a Teheran ci si rese conto di quanto sia più pericoloso martirizzare due nemici, invece che lasciarli in vita tarpandone le ali. Tenere Mousavi e Karrubi agli arresti domiciliari, come probabilmente sono ora, è un fatto di censura politica. Condannarli a morte vorrebbe dire elevarli a eroi della rivoluzione. È anche vero che né Mousavi né Karrubi costituiscono la vera alternativa che il popolo iraniano deside-

In questi mesi, con l’intero Medioriente in ebollizione, i riformisti sono tornati nelle piazze. Il regime non ha fatto attendere la propria reazione e, nell’indifferenza, ha lanciato la repressione nelle piazze iraniane. Risale a martedì pomeriggio l’ultima manifestazione sfociata in un nuovo episodio di violenza. I Basiji e Pasdaran, strenui scudieri del regime, non si sono fatti scrupolo di colpire i manifestanti. Secondo le fonti locali, i dimostranti arrestati sarebbero centinaia, decine invece i feriti. L’Onda adesso attende il 21 marzo, capodanno persiano e festa nazionale, per tornare all’assalto del fortino. Nel frattempo, da ormai due settimane, non è chiara la sorte di Mousavi e Karrubi. I due più importanti siti dell’opposizione, Kaleme e Sahamnews, denunciano il fermo perpetrato dalle autorità della capitale. Agli arresti, con loro, vi sarebbero anche le rispettive mogli e i figli. Le reazioni del governo di Teheran sono apparse oltremodo contraddittorie. La smentita

ra. Il primo ha ricoperto in passato diversi incarichi di governo. Negli anni Ottanta, quando Khomeini era al potere, Mousavi era stato nominato Ministro degli Esteri e successivamente Premier. Karrubi, dal canto suo, oltre che mantenere un ruolo cardine nella gerarchia del clero sciita, è stato speaker della Mejlis.

I due riformisti non rappresentano il nuovo Iran, bensì il“meno peggio”del regime.Tant’è che il loro duopolio viene contrapposto a quello di Khamenei-Ahmadinejad. I critici più maliziosi, infatti, accusano Mussavi e Karrubi di ambire a sostituirsi a questi ultimi, senza poi cambiare l’identità autoritaria del Paese. D’altra parte, il riformismo iraniano non offre alternative. E comunque, risulterebbe più vantaggioso per lo stesso Paese un cambiamento soft, anziché un crollo repentino del sistema. Com’è stato per l’Egitto e la Tunisia. Dal punto di vista europeo, la questione è delicata. Un’iniziativa presso il governo iraniano è urgente. È ora che a Washington e a Bruxelles ci si renda conto che la crisi del mondo islamico non può essere gestita in sezioni modulari e a tenuta stagna. Prima la Tunisia, poi l’Egitto, ora la Libia. Senza preoccuparsi, nel frattempo, di quale sarà il prossimo regime a rischio crollo. Siamo di fronte a una rivoluzione ad ampio respiro. È necessario, quindi, intervenire anche nei contesti che non hanno ancora raggiunto lo zenit delle tensioni. Sebbene parzialmente compromessi con la struttura degli Ayatollah, Mousavi e Karrubi restano i soli due interlocutori validi in Iran e con cui l’Occidente potrebbe parlare. Lasciarseli sfuggire vorrebbe dire commettere lo stesso errore di un anno mezzo fa. In un contesto regionale, però, molto più delicato.


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