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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 5 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Intervento del presidente all’Onu di Ginevra: «L’Italia farà ogni sforzo perché la Libia rispetti i diritti umani»
Napolitano contro Gheddafi «Fermi i militari, sta sfidando il mondo». Nuovi scontri a Tripoli Il dittatore bombarda ancora i pozzi e i ribelli: i mercenari del regime avrebbero ripreso la citta di al-Zawiyah. Ma l’Interpol spicca un mandato di cattura globale per il Colonnello Le domande cruciali della comunità internazionale
Si può intervenire? E si deve? Se invece vince il raìs, che succederà?
IL POTERE E LE TRIBÙ
LA PRIMAVERA ARABA
Maghariba, Warfalla & Co. ecco da chi dipende il futuro della Libia
Vi racconto progetti e sentimenti del nuovo movimento
di Enrico Singer
di Samir Khalil Samir
heddafi continua ad accusare al Qaeda e le potenze occidentali, ma i suoi nemici si chiamano Warfalla, Maghariba, Zawiya, Masrata, Tarhuna, Salim, Zintan, Tuareg, Hilal, Rafla, Hawara, Nefussa, Sanhaja, Tebu, Furjan. Sono soltanto i quindici più forti clan - le cabile in dialetto beduino - delle 140 tribù della Libia che, fino a poche settimane fa, il colonnello riusciva a governare. a pagina 4
uanto stiamo vivendo in Africa del nord e in Medio Oriente è davvero una primavera del mondo arabo. Tutta questa regione sta cambiando e sta rivelando un aspetto che finora non era manifesto: l’importanza dei giovani.Le persone che manifestano, che tengono i contatti, che diffondono le notizie sono tutti giovani sotto 30 anni. In questi Paesi la metà della popolazione è sotto i 30 anni. a pagina 6
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Un generale, Mario Arpino, e un osservatore geopolitico, Lucio Caracciolo, rispondono: In questo momento, l’opzione militare sarebbe sbagliata. «La strategia di Obama serve solo a fare pressione» Luisa Arezzo • pagina 3
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Il degrado della classe dirigente
Da Luigi Vitali a Saverio Romano
Dopo la proroga sul federalismo
Dopo la decisione di Trichet
Oggi il sistema è ancora più bloccato della partitocrazia
C’è una nuova figura politica: il ministro “di scambio”
Montezemolo, Maroni e Monti, che cosa farete da grandi?
Italia attenta, il prezzo dell’inflazione sarà più alto
di Enzo Carra
di Marco Palombi
di Enrico Cisnetto
di Gianfranco Polillo
scoltiamo il leopardiano venditore di almanacchi, oggi bisognano «lunari nuovi» e nuovi politici, politiche nuove. È curioso che nel momento in cui la stagnazione e la mancanza di ricambio delle classi dirigenti è più grave e più sentita di quel che era stato in altre epoche non venga sollevato con tutta la serietà che merita questo problema. Eppure è così: se a Torino si incammina verso il Palazzo di Città Piero Fassino, a Napoli sono in lizza un magistrato e un prefetto. a pagina 27
l rimpasto, croce e delizia del Cavalier Berlusconi Silvio, che lo prolunga ogni giorno. Chi potrà, tra vecchi e nuovi ascari della maggioranza, fregiarsi del titolo di sottosegretario o, magari, addirittura, di viceministro? Il presidente del Consiglio osserva il panorama e rimanda: intanto i “papabili”trattengono il fiato e sperano di poter aggiornare i biglietti da visita. Molti albergano in quel bizzarro gruppo parlamentare che va sotto il nome di Iniziativa Responsabile ed è composto di ben sei correnti. a pagina 24
on si vota più. Sicuramente non entro l’estate, con buona probabilità neppure nella seconda parte dell’anno – in autunno non si è mai votato per le politiche – e forse neanche nel 2012, visto che a quel mancherebbe solo un anno alla scadenza naturale della legislatura. Il patto di ferro Berlusconi-Bossi ancora una volta è stato più forte di tutto e di tutti, come dimostra il passo indietro fatto dalla Lega sulla proroga di quattro mesi della delega per discutere del federalismo. a pagina 25
rimi seri allarmi sul fronte dell’inflazione. Fenomeno da non sottovalutare e non solo perché Trichet minaccia di aumentare, fin da aprile, i tassi d’interesse, entrando così in conflitto con la politica monetaria della Fed – la banca federale americana – che invece vuol continuare nella politica fin qui seguita: tassi d’interesse, in termini reali, prossimi allo zero. Le ultime rilevazioni mostrano che il fuoco cova sotto le ceneri. In un anno i prezzi al consumo sono aumentati del 2,1%. a pagina 9
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
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45 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il fatto Il dittatore spara ancora sui pozzi. E dopo la preghiera del venerdì, si scatenano i combattimenti anche a Tripoli
Muammar Wanted
Mandato di cattura internazionale contro Gheddafi dell’Interpol. All’Onu di Ginevra, Napolitano lancia un appello: «Basta bombe» di Pierre Chiartano
ROMA. La capitale libica è come Giano bifronte. Riflette l’ambiguità di un regime duro a morire. Piazza Algeria si trova al centro di Tripoli, da un lato c’è la moschea, ieri era piena per la preghiera come ogni venerdì, ma all’ombra del minareto c’è stata una manifestazione pro Gheddafi. Il quartiere di Tajoura, nella parte orientale della città, è invece stato testimone di una manifestazione anti-regime. Dove le forze di sicurezza del rais, con indosso tute militari e foulard verdi in testa, sono giunte sulla scena delle proteste dove si gridava: «Gheddafi è il nemico di Dio». Ma le cattive notizie arrivano da oriente. Secondo al Jazeera, sarebbe di almeno 50 morti e 200 feriti il bilancio provvisorio dell’attacco dell’esercito contro i manifestanti anti-regime nella città di Zawiyah. Il condizionale è d’obbligo, ma anche altre emittenti parlano di numersi morti. Le forze lealiste avrebbero aperto il fuoco alla periferia della città, su una folla di alcune migliaia di persone. La città portuale, a una cinquantina di chilometri da Tripoli, sarebbe stata poi riconquista dai lealisti che avrebbero cattura-
Il titolare della Farnesina prende posizione contro il raìs. Forse un po’ troppo tardi
E Frattini citò i diritti umani... ROMA. Gli atti criminali commessi da Gheddafi e dal regime libico «dovranno essere puniti dalla comunità internazionale». Parola di Franco Frattini, ministro italiano degli Esteri, che ieri ha poi aggiunto: «Le sanzioni già decise in sede Onu, Ue e dalla Lega Araba dovranno portare a conseguenze serie per chi continua a violare i diritti basilari delle persone». E alla rocambolesca conclusione: «Nessun dialogo potrà mai svilupparsi in presenza di gravi violenze e sistematiche violazioni dei diritti umani come quelle perpetrate dal regime libico di Muammar Gheddafi». Il primo commento che viene in mente è che il titolare della Farnesina abbia pronunciato parole sagge e condivisibili, una dichiarazione di intenti alla quale (si spera) seguiranno i fatti. Poi però to alcuni mezzi corazzati degli insorti. Nella capitale invece i pretoriani del colonnello si sarebbero limitati a sparare gas lacrimogeni.
«Ho sentito sparare a Tajoura, la gente sta scappando», ha riferito ieri un reporter Reuters. In seguito sarebbero arrivate altre forze filo-regime a bordo di numerosi pick up. È ovvio che se Tripoli dovesse essere testimone di una rivol-
ci si chiede se, per Frattini, le «violenze e le sistematiche violazioni dei diritti umani perpetrate dal regime libico» siano una novità delle ultime ore. Ovvero se, per il ministro, siano i bombardamenti dei civili le prime violazioni compiute dal Colonnello. Perché, se così non fosse, non si spiegherebbe il decennio di rapporti strettissimi con Tripoli e il sostanziale sdoganamento compiuto dall’Italia a favore di un Paese considerato impresentabile. Arresti, processi sommari e schiavismo - più volte portati all’attenzione del governo di Roma - non sono evidentemente mai bastati al nostro esecutivo per interrompere i rapporti con la dittatura. Ora si invoca l’intervento della comunità internazionale e si stigmatizza. Ma forse un pochettino troppo tardi.
ta, Gheddafi non saprebbe più dove appoggiare la residua legittimità da dittatore. Le due fazioni sarebbero poi entrate in contato nella piazza Verde. Ma sono ripresi anche i bombardamenti. Nella mattinata di ieri l’aviazione libica ha ripreso a martellare le postazioni dei ribelli. Un aereo dell’aviazione libica ha lanciato un attacco contro una base militare controllata dai rivoltosi ad Ajdabiya, nell’est del Pae-
se, senza colpirla. Anche la città di Brega è nuovamente bombardata così come il terminal petrolifero di Ras lanuf. Barack Obama alza i toni e mette le pedine della Us Navy a largo della Libia, ma in cuor suo spera tanto di non doverle usare. L’Europa della baronessa Ashton si spacca e litiga, guardando con il sopracciglio alzato l’Europa del sud, mentre l’Italia si sta rendendo conto di quale prova sta per af-
frontare. Ma, al momento, muove le pedine umanitarie.
Mentre da Ginevra, Giorgio Napolitano, durante l’intervento al consiglio per Diritti umani dell’Onu fa giustamente eco alla Casa Bianca e rivolto al dittatore afferma: «basta con le violenze. Gheddafi sfida il mondo». La situazione libica rischia di diventare un pantano, per la rivolta, ma anche per l’Occidente. Le immagini trasmesse da Anno Zero, giovedì sera, dal fronte di Brega fanno vedere una vera guerra di popolo, con centinaia di libici armati che vanno al fronte con le proprie auto, le parcheggiano e proseguono a piedi verso la linea di fuoco. Come non rimanere colpiti da tanto sincero coinvolgimento. Ma poi il cinismo prevale – si chiama real politik – sui tavoli delle cancellerie occidentali e fra i commentatori. Gli esperti militari ci mettono sull’avviso: «il grosso dell’esercito libico non si è ancora schierato». Gheddafi potrebbe riconquistare la Cirenaica. La no fly zone avrebbe bisogno della distruzione preventiva di tutta la difesa aerea libica. E poi l’Europa sarebbe in grado di sostenere un intervento armato pur con l’aiuto americano? Tutte domande che al momento restano
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l’inchiesta
Ma il mondo deve intervenire o no? Rispondono Arpino e Caracciolo: adesso un’azione militare sarebbe sbagliata di Luisa Arezzo uesta guerra contro la Libia non s’ha da fare. Ma questa volta non sono due “bravi” di manzoniana memoria a dirlo, bensì il nostro ex capo di Stato maggiore Mario Arpino e il direttore di Limes, Lucio Caracciolo. Per entrambi, «l’opzione militare» paventata da Obama è da evitare. E probabilmente sbandierata dal Presidente Usa solo a scopi tattici, per mantenere alta la pressione contro il raiss. «Non credo che gli Stati Uniti, e tantomeno la Nato, abbiano intenzione alcuna di intervenire. Il punto è che tutti credevano che Gheddafi fosse sul punto di crollare - spiega Arpino - e invece adesso non solo questa certezza vacilla ma si ipotizza che sia in grado di resistere nella distanza. D’altronde, di brigate fedeli ne ha, di mezzi pure e certamente più degli insorti. Pensare di intervenire sul territorio o di bombardare? È poco realistico e Obama non può permetterselo. Va bene che nel settore militare e difesa ha copiato Bush, ma questo gli è anche costato e non credo si voglia ripetere. D’altronde, dovremmo aver imparato qualcosa anche dagli sciiti iracheni. Quando l’Iraq è stato liberato gli sciiti non erano lì ad aspettarci con le bandierine americane, e appena hanno potuto hanno cercato di mandar via tutti. E così avverrà non solo in Tripolitania ma anche in Cirenaica, dove delle frange nazional religiose ci sono sicuramente con i Senussi». Dello stesso avviso anche Caracciolo, a cui l’opzione militare appare improbabile per tre motivi: «Primo, perché non ci sono mezzi, uomini e capacità di mobilitazione per un intervento del genere; secondo perché an-
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darsi a ficcare in una guerra civile non è mai facile; terzo, perché ci sono altri scenari strategici per l’America, penso soprattutto alla penisola arabica, che potrebbero aprirsi e richiedere interventi militari». A monte, poi, Caracciolo si chiede quale sia l’obiettivo di un eventuale attacco: «Un’opzione militare spiega - è un mezzo che dovrebbe portare ad uno scopo. In questo caso qual è? Che andiamo a prenderci Tripoli e facciamo un protettorato? Oppure che dobbiamo dimostrare di essere forti? Facciamolo, ma poi dobbiamo essere in grado di affidare il Paese a qualcuno e non vedo dei Karzai disponibili in Libia. Considerando poi la difficoltà a tenere assieme un territorio così lacerato». Il punto è anche un altro: qual è la resistenza di Gheddafi? Secondo Mario Arpino «Non cadrebbe né con un embargo, al quale è abituato da anni, né con una No fly zone. Oltretutto bisogna considerare che la Libia è profonda, la sua forza non è solo a Tripoli, arriva al deserto. Parliamo di un territorio di circa un milione e 700mila Kmq. Per fare un paragone: la Bosnia si estende per 50 Kmq. e per l’applicazione di una No fly zone abbiamo impiegato 15 basi in Italia e 300 aerei schierati, non solo caccia ma anche cacciabombardieri. Fino a quando non sapremo quante sono le forze fedeli al raiss non possiamo fare un piano operativo, anche perché prima di un intervento di questo tipo è necessario distruggere radar e difese aeree. Certo - continua Arpino - essendo l’Italia parte di un’Alleanza, se questa decidesse per l’intervento do-
Tutti davano il Colonnello per spacciato, ma questa certezza ora vacilla e si ipotizza che possa resistere
senza risposta. Così circolano voci sul progetto di far «implodere» il regime del colonnello. Staremo a vedere.
Sta partendo intanto la missione umanitaria in Libia, il ministro degli Esteri Franco Frattini è meditabondo: l’opzione militare «non è da considerare con leggerezza». E il ministro degli Interni Roberto Maroni ha altri problemi per la testa: «speriamo di prevenire un esodo di massa». L’Italia si nasconde dietro procedure formali: «ci vogliono mandati precisi del consiglio di sicurezza Onu, della Nato, ma soprattutto abbiamo sentito le parole molto chiare della Lega araba che – ha spiegato il capo della Farnesina – ha detto con chiarezza: “gli occidentali non entrino con i militari”». La Nato osserva, registra le posizioni degli alleati, valuta, si dice «pronta a ogni eventualità», ma per il momento aspet-
ta. Ed esclude, in tempi brevi, un intervento. Cioé niente interdizione al volo sul Paese nordafricano. Fino a contrordine, ovvero l’eventuale approvazione di una risoluzione Onu che autorizza l’uso della forza. Perché il cappello Onu è comunque considerato imprescindibile per qualsiasi, eventuale, operazione non umanitaria. E su questo sono tutti più o meno d’accordo. Ma «l’intesa è ancora lontana», ha fatto sapere giovedì il segretario di stato Usa Hillary Clinton. La Cina, che a marzo ha assunto la presidenza di turno del consiglio di Sicurezza, ritiene che la crisi debba risolversi «esclusivamente con mezzi pacifici». Per la Turchia è «un’assurdità» un impegno della Nato «visto che non può intervenire se non quando un Paese alleato viene attaccato militarmente» e non dice il falso. La Russia sottolinea «il rischio di trasformare la Libia in un nuovo Afghani-
vremmo fare la nostra parte e mettere a disposizione la stessa logistica e le stesse forze garantite in Bosnia e Kosovo. Ma il nostro spirito sarebbe simile a quello della Germania durante la guerra nei Balcani, dove i tedeschi, visti i precedenti nell’area - erano molto riluttanti ad impegnarsi. È chiaro però che così facendo rischiamo altri 30/40 anni di inimicizia. Fino adesso, pur se con un mostro, con la Libia abbiamo parlato.
Se domani bombardassimo, anche se sotto l’egida dell’aiuto, ce li faremmo nemici. È una verità scomoda, ma finché non c’è nemmeno un leader alternativo, che senso ha intervenire? Con chi parli poi? Bisogna lasciare che qualcuno vinca. Certo, un po’ di sangue sarà versato, ma bisogna aspettare». Quel che è certo è che «Gheddafi da solo non casca - afferma Caracciolo - o lo si va a prendere o lo si deve far ammazzare da uno dei suoi. Non è il tipo che soccombe a una
stan» e neanche al Cremlino dicono fesserie. Poi ci sono anche le indecisioni della Francia, titubante e dell’Italia, ma questa è un’altra storia. È al via nel frattempo la missione umanitaria italiana. «Le missioni italiane in Nordafrica sono partite: il team di ricognizione avanzata è già operativo da questa mattina (ieri). Siamo pronti a far partire due operazioni: una diretta a
crisi depressiva... Le opzioni oggi sul campo sono il mantenimento di uno stallo o un recupero parziale del terreno perduto da parte del dittatore libico». Due scenari anche per Mario Arpino («Ma se ne potrebbero fare molti di più»): il primo riguarda la Cirenaica: «che potrebbe costituire uno stato autonomo ma che difficilmente verrà lasciata andare, visto che le ricchezze del paese sono concentrate là. In questa ipotesi, Gheddafi viene lasciano bollire ad Ovest». Il secondo riguarda il raiss: «Potrebbe riuscire a riprendere il controllo e in quel caso vedrei uno scenario di durata limitata - quanto gli anni che gli restano da vivere - in cui rimane blindato in Tripolitania per il resto della sua vita». Il problema è che a quel punto «Non potremmo rimetterci a parlare e trattare con lui così come non potremmo lasciar cadere i nostri intressi in Libia - continua Arpino -. Ma nemmeno lui li può affossare, anche se ha detto che da ora in poi venderà il petrolio ai cinesi e agli indiani. La realtà è che non può farlo perché tutte le infrastutture sono orientate verso di noi e non può riconvertirle. Parliamo di pipeline che passano sotto il mare. La Libia ha bisogno di vendere a noi e noi abbiamo bisogno di comprare. Il problema potrebbe essere iniziale ma poi magari essere riassorbito». Di questo avviso, con un’amara battuta, anche Caracciolo, che non vede nelle parole usate dal nostro Governo un impedimento a riallacciare gli affari: «Le dichiarazioni di Berlusconi contro il raiss sono arrivare un paio di giorni dopo quelle d’amore. Sono parole che vanno prese per quello che sono, solo dichiarazioni».
sione sia calata rispetto ai giorni precedenti – ha spiegato il funzionario della Farnesina – ma temiamo che il flusso dalla Libia continui e riprenda. Siamo pronti soprattutto a rimpatriare, su richiesta del governo egiziano e tunisino, i lavoratori egiziani che si trovavano in gran numero in Libia e che ora vogliono tornare in Egitto». Nell’area di confine tra Libia e
autorità britanniche infatti hanno bloccato una nave presumibilmente diretta in Libia, ieri, che aveva a bordo casse di dinari libici per un valore di 117 milioni di euro. Lo ha reso noto un portavoce del ministero dell’Interno. La nave è stata intercettata da una motovedetta dell’Agenzia doganale che l’ha costretta a invertire la rotta e l’ha scortata lungo la Manica fino a Harwich, nella contea sudorientale inglese dell’Essex, dove si trova tuttora. Già domenica scorsa la Gran Bretagna ha congelato i beni libici sul suo territorio per un valore che sfiorerebbe i 20 miliardi di lire libiche (23 miliardi di euro), secondo il quotidiano britannico Daily Telegraph. Forse il progetto d’implosione del regime prevede di prendere il colonnello per fame di ”liquidi”.
Partite le missioni italiane. Il team di ricognizione avanzata è operativo da ieri nella zona di Bengasi, mentre le milizie governative hanno sparato sulla folla a Zawyah Bengasi per fornire assistenza umanitaria, e una più impegnativa diretta in Tunisia, al confine con la Libia», ha affermato ieri il direttore generale per la Cooperazione e lo sviluppo del ministero degli Esteri, Elisabetta Belloni. «Al confine tra Libia e Tunisia mi risulta che la pres-
Tunisia ci sono circa 90mila profughi, e in tutta la Libia ci sono almeno un milione e mezzo di non libici che, perdendo il lavoro, non sanno dove andare.
E se l’Italia aspetta i migranti, il colonnello evidentemente aspettava altro. E invano. Le
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heddafi continua ad accusare al Qaeda e le potenze occidentali, ma i suoi nemici si chiamano Warfalla, Maghariba, Zawiya, Masrata, Tarhuna, Salim, Zintan, Tuareg, Hilal, Rafla, Hawara, Nefussa, Sanhaja, Tebu, Furjan. Sono soltanto i quindici più forti clan - le cabile in dialetto beduino delle 140 tribù della Libia che, fino a poche settimane fa, il colonnello riusciva a governare e a tenere apparentemente insieme con la politica del bastone e della carota, distribuendo posti nell’amministrazione, gradi nelle forze armate, interessi nei giacimenti di gas e petrolio. Ma che ora non riconoscono più il potere assoluto della “guida della rivoluzione”che appartiene anche lui a una delle tante tribù del Paese: i Qadhdhafa. Il nome completo del raìs di Tripoli è Muammar Abu Minyar al Qadhdhafi e proprio quest’ultimo appellativo - che in italiano è traslitterato in Ghed-
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L’intero Stato è rimasto ancorato al passato, del tutto prigioniero di una realtà governata da antiche usanze, dove i legami di sangue contano più di ogni altra cosa dafi - indica la sua origine. Quella dei Qadhdhafa è una tribù beduina della regione della Sirte, storicamente non tra le più influenti del Paese, ma diventata potentissima proprio grazie al colonnello che, nel ’69, alla testa del movimento degli “Ufficiali liberi”, ha rovesciato re Idris al Senussi e da allora si è preso tutto, si è circondato di fedelissimi - a partire dai suoi sei figli - e da una milizia mercenaria, oltre alle “amazzoni” del suo corpo di guardia, per evitare di finire a sua volta vittima di un colpo di Stato. Dell’importanza dei clan e delle tribù si è scritto molto da quando è cominciata la rivolta. Proprio sulle colonne di liberal è stato già notato che, nei primi dieci anni del suo potere,
Gheddafi cercò di indebolire le strutture tribali - che definiva di ostacolo alla modernizzazione del Paese - per dare un profilo unitario alla Libia, ma che fu poi costretto a fare marcia indietro di fronte alla reazione delle tribù più forti e finì per scegliere la strada alternativa del divide et impera: sfruttare le ancestrali rivalità per tenere in mano le redini del comando. Adesso che questo delicato equilibrio è saltato, però, sarebbe semplicistico definire soltanto “tribale”la lotta contro il colonnello. Paradossalmente Gheddafi è vittima della sua stessa strategia: per paura di perdere il controllo del regime, ha sempre impedito la nascita di partiti politici e di qualunque strumento di aggregazione che avrebbe potuto interpretare realtà trasversali superando la dimensione tribale e ha costruito un meccanismo di fittizia sovranità popolare attraverso i “comitati rivoluzionari” che, di fatto, hanno mantenuto le loro radici nelle diverse zone del Paese e nella loro composizione tribale. Così la Libia è rimasta prigioniera di una realtà governata da antiche usanze dove i legami di sangue contano più di ogni altra cosa e perfino i matrimoni tra uomini e donne di diverse cabile sono osteggiati.
In tutto il mondo arabo la dimensione tribale è molto rilevante. Basterebbe ricordare un altro nome completo: quello del dittatore iracheno Saddam Hussein Abd al Majid al Tikriti, l’uomo di Tikrit che proprio da quella città e da quel clan traeva la sua potenza maggiore. Ma la Libia è una storia a parte. E non è davvero un caso che la rivolta sia cominciata a Bengasi, capitale della Cirenaica, dove vivono le tribù da sempre più ostili allo strapotere del clan di Gheddafi. E che, proprio a Bengasi, si è costituito l’embrione del governo provvisorio sotto la forma di un “Consiglio nazionale delle città liberate”che altro non è se non la ricomposizione del mosaico del popolo libico attraverso tutte - o quasi - le sue componenti tribali che, già nel passato sono state protagoniste dei momenti decisivi della vita del Paese. La paura di favorire la nascita di contro-poteri interni ha spinto Gheddafi a diffidare anche dell’esercito che, nei Paesi arabi in generale, è, invece, il principale pilastro del sistema come è stato provato dalle rivolte in Tunisia e in Egitto. È vero che la Libia ha una
Petrolio e gas in Libia
Maghariba, Warfalla & Co. ecco da chi dipende il destino della Libia Gheddafi continua ad accusare al Qaeda e le potenze occidentali, ma i suoi nemici sono in realtà i clan di alcune tribù di Enrico Singer
TUNISIA
Oleodotti Giacimenti di petrolio Gasdotti Giacimenti di gas Localizzazione delle riserve di petrolio (80%)
ALGERIA
EGITTO
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popolazione che non arriva ai 7 milioni di abitanti, ma i numeri delle forze armate di terra (50mila uomini), dell’aria (20mila) e del mare (appena 8mila, nonostante i 1800 chilometri di coste) sono davvero esigui e sembrerebbero in contrasto con il desiderio del colonnello di guidare tutta la regione. Sono, invece, il risultato di una precisa politica di contenimento voluta della “guida della rivoluzione”. Perché l’esercito risente delle divisioni tribali come il resto della società tanto che, al momento della rivolta, i reparti si sono schierati secondo le linee di appartenenza e Gheddafi può contare per la sua controffensiva soltanto sull’aviazione e sui mercenari. L’aviazione è l’arma controllata direttamente dal clan Qadhdhafa da quando la tribù Warfalla fu esautorata da tutti i posti di comando che prima occupava. Le truppe mercenarie sono per lo più composte da africani di origine ciadiana, eredità dell’avventura - fallita - dell’invasione del Ciad tentata nel 1981. Si calcola che i mercenari siano almeno 30mila, bene armati e agli ordini di Khamis Gheddafi - il figlio minore ma più agguerrito del colonnello - che comanda anche la polizia anti-sommossa.
Nell’esercito è molto influente la tribù Maghariba, un milione di persone, la seconda dopo i Warfalla. Originari del Fezzan, i Maghariba erano diventati un pilastro del regime che aveva affidato a uno di loro, Abdullah Senussi, la direzione della sicurezza. Senussi, cognato di Gheddafi (ha sposato la sorella della moglie del colonnello), è stato per vent’anni alla guida di tutte le più feroci repressioni del regime, e da quando è cominciata la rivolta è il più ascoltato consigliere del raìs. I Maghariba erano associati al potere fino a quando Gheddafi, nel ’93, emarginò Abdessalam Jallud, esponente di spicco di questa cabila ed ex numero due del colonnello. Da allora i Maghariba si sono divisi e una parte del clan si è alleata con la tribù Warfalla e con le tribù Zintan, Tebu, Furjan e Zawhiya. Quest’ultima è strategica perché controlla i campi petroliferi che
sono nel suo territorio. L’accademico egiziano Faraj Abdulaziz Najam, che è un grande esperto di storia libica, ha dichiarato al giornale Asharq al-Awsat che la tribù Maghariba, da una parte, è grata a Gheddafi che ha ottenuto dalla Gran Bretagna la liberazione di Abdel Baset Ali Mohamed al Meghrabi, l’agente dei servizi segreti che era stato imprigionato per l’attentato di Lockerbie, ma, dall’altra, non ha dimenticato la defenestrazione di Jallud che è ancora vissuta come una gravissima offesa alla cabila. Un altro colpo per Gheddafi è stato il pronunciamento a favore della rivolta dei Tuareg che, con quasi 500mila persone, rappresentano una forza importante, oltre ad essere i discendenti diretti della popolazione berbera che è stata la prima a raggiungere queste terre dal deserto e che, anche durante la dominazione romana, pagava le tasse a Roma ma conservava l’indipendenza facendosi chiamare Imazigham (uomini liberi). Nel fronte anti-Gheddafi spicca poi un’altra tribù influente, quella dei Tarhuna che rappresentano circa un terzo della popolazione di Tripoli e che alimentano la rivolta da dietro le linee perché, ancora oggi, la capitale è sotto il controllo dei fedelissimi di Gheddafi che vive ormai asserragliato nella cittadella sotterranea scavata negli Anni Ottanta sotto la caserma di Bab el Aziza. È da questo rifugio che il colonnello lancia le sue minacce e cerca di guidare la riconquista del Paese puntando sull’aviazione e sui mercenari. Ed è qui che è montata la sua inseparabile tenda beduina che, ancora una volta, fa riemergere le differenze tra i clan perché la tribù Qadhdhafa è del ceppo “Bawd”: i beduini, appunto, i popoli della “badiya”(la steppa) che sono presenti in tutta la zona centrale e settentrionale della Penisola Araba. Sempre considerati credenti tiepidi dell’Islam in quanto troppo legati alle“adab”(le tradizioni) preislamiche quando ancora adoravano la Luna, che sarebbe poi diventata simbolo dell’islam stesso. L’unica occupazione che i beduini considerano veramente nobile è la guerra, ogni altra attività è vergognosa. E Gheddafi in queste ore sta tenendo fede al credo del suo clan.
Il segretario del neonato “Consiglio nazionale delle città liberate”, Mohamed Mustafa al Abud Jeleil, è convinto che
Muammar Gheddafi «si toglierà la vita nel suo bunker, come fece Hitler, piuttosto che arrendersi o fuggire». Abud Jeleil conosce molto bene il colonnello: è stato il suo ministro della Giustizia dal gennaio del 2007 fino al 21 febbraio scorso quando si è dimesso dopo che Gheddafi ha cominciato a far mitragliare e bombardare dagli aerei i ribelli. Nell’intervista che ha concesso al quotidiano svedese Expressen, ha anche rivelato che fu Gheddafi in persona a dare l’ordine di distruggere in volo il Jumbo della Pan American, con una bomba nascosta in una valigia, sulla cittadina scozzese di Lockerbie. In quell’attentato, nell’88, morirono le 259 persone che erano a bordo e undici abitanti delle case sulle quali l’aereo precipitò. Anche il caso di quel terribile attentato, adesso, potrebbe
Non è davvero un caso che la rivolta sia cominciata a Bengasi, capitale della Cirenaica, dove vivono le etnie da sempre più ostili allo strapotere del raìs essere riaperto e potrebbe finire tra i capi d’imputazione nel procedimento che il Tribunale internazionale dell’Aja sta aprendo contro il colonnello per crimini contro l’umanità. Per il momento, però, tutti gli occhi sono puntati sui combattimenti tra le forze ribelli e le truppe ancora fedeli a Gheddafi che si affrontano già sotto due bandiere diverse: quella completamente verde voluta dalla “guida della rivoluzione”e quella con le tre fasce orizzontali rossa, nera e verde, la mezzaluna e la stella dei tempi della monarchia che fu rovesciata nel 1969. Anche questo simbolo rimanda a un pezzo di storia che pesa almeno quanto la divisione in tribù. La Libia è l’unione di tre ex province dell’impero ottomano: la Cirenaica, la Tripolitania e il Fezzan. Fu proprio la colonizzazione italiana, cominciata nel 1911, di quello “scatolone di sabbia”, come lo chiamava Francesco Saverio Nitti, a creare un solo Paese al quale, nel ’34, Mussolini decise di dare il nome di Libia riesumando il termine usato per la prima volta dai greci per indicare
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tutta la fascia costiera del Nord Africa ad eccezione dell’Egitto. Finita la seconda guerra mondiale, fu l’Onu a restituire a re Idris al Senussi, già emiro della Cirenaica, tutta la Libia. Ma le differenze che esistono nelle tre realtà storico-georgrafiche hanno continuato a pesare.
La Cirenaica, con la sua capitale Bengasi e le città di Tobruk e Darnah, occupa tutta la fascia orientale del territorio libico, lungo il confine con l’Egitto, dal Mediterraneo al confine con il Sudan e con il Ciad. La Tripolitania comprende la fascia settentrionale, lungo il mare, dal confine con la Tunisia fino al Golfo della Sirte. Infine il Fezzan occupa la parte sahariana a Sud della Tripolitania. In Cirenaica la tribù più importante è la Zawiya il cui leader, Sheykh Faraj al Zaway, affiliato della confraternita islamica della Senussia, ha il controllo dei più importanti pozzi petroliferi ed è bene armata dai tempi in cui Gheddafi la utilizzò per combattere in Ciad. Gli effettivi delle forze armate di stanza in Cirenaica, passati tutti con la rivolta, sono circa settemila, ai quali si sono aggiunti molti volontari. Per il controllo della Tripolitania, invece, è decisiva la tribù dei Warfalla che raggruppa sei grandi clan il cui Consiglio degli anziani, guidato dallo sceicco Akram al Warfalli, si è già schierato contro Gheddafi. Un caso a parte, naturalmente, è Tripoli, che è in mano alle milizie del colonnello. La capitale, il cui nome in arabo è Tarabulus, è l’antica colonia fenicia di Oea che, con Leptis Magna e Sabratha, costituiva l’insieme delle Tri polis (le tre città) da cui deriva sia il termine Tripolitania che lo stesso Tripoli. In una parte del Fezzan, infine, si allunga il potere della tribù Qadhdhafa che è composta da sei clan e che, dalla Sirte, arriva fino alla città di Sabha considerata la sua roccaforte. Dei segnali di spaccatura, però, si stanno manifestando anche tra i Qadhdhafi. La defezione più rilevante è quella di Ahmed Qadhdhaf al Dam, cugino del colonnello, che era stato incaricato di trattare con la tribù orientale degli Awlad Ali e che, dopo avere fallito il suo compito, è fuggito in Egitto da dove sta organizzando una fronda interna. Chissà se la fine di Muammar Gheddafi non sarà decretata proprio dal tradimento della sua cabila.
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l’approfondimento
Per troppo tempo il Vecchio continente ha supportato i regimi: ora è arrivato il momento di riscattarsi. L’analisi dell’islamologo
Dentro la nuova primavera Cosa vogliono i giovani arabi, anima del movimento? Non amano ingerenze ma hanno bisogno di grande sostegno. Il compito dell’Europa è dunque quello di aiutarli senza però intromettersi nei governi dei loro Paesi di Samir Khalil Samir uanto stiamo vivendo in Africa del nord e in Medio Oriente è davvero una primavera del mondo arabo. Tutta questa regione sta cambiando e sta rivelando un aspetto che finora non era manifesto: l’importanza dei giovani.Le persone che manifestano, che tengono i contatti, che diffondono le notizie sono tutti giovani sotto 30 anni. In questi Paesi la metà della popolazione è sotto i 30 anni. In tutti i Paesi del Medio oriente l’età media della popolazione è fra i 29 e i 31 anni. Il desiderio di questi giovani è di avere un lavoro, e magari di sposarsi (ma questo suppone avere dei soldi e perciò – ancora - un lavoro). Le loro richieste partono dunque da esigenze terra terra. A queste si aggiungono anche priorità di valori: democrazia, libertà, parità, giustizia. Questi sono i desideri di tutti i giovani del mondo, ma in quella situazione, con la grande percentuale di giovani, tali desideri sono divenuti una spinta fondamentale al cam-
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biamento. Una seconda caratteristica è il minor interesse per i conflitti internazionali. In tutti questi movimenti non sono apparsi temi legati all’America, a Israele, alla lotta dei palestinesi, alla liberazione di Gerusalemme, ecc. Per decenni nel mondo arabo vi sono state manifestazioni così ideologizzate. Questi giovani sono invece centrati su problemi nazionali e sociali; non testimoniano nessuna ideologia, di destra o di sinistra. In tutti questi mesi nessuno ha bruciato una bandiera americana o israeliana, o ha fatto proclami in difesa dell’islam che deve dominare la terra. Essi non vogliono ideologie, ma realismo.
Su questa linea, colpisce il fatto che i giovani vogliano sì la religione, ma senza fanatismo; è esclusa ogni opposizione fra gente di religioni diverse. Nei giorni scorsi ho potuto assistere a un raduno per la commemorazione della morte di Rafik Hariri in Libano il 14 febbraio. La cerimonia si svolgeva in una
sala colma di centinaia di persone, grandi dignitari e gente comune, al Biel di Beirut. Sul palco prima della commemorazione, è stata eseguita l’Ave Maria, cantata da una solista libanese cristiana, intrecciata con l’appello alla preghiera musulmana, eseguito da un cantautore islamico.
Le due voci si mescolavano in una maniera così profonda e bella, che molti si sono messi a piangere per la commozione. C’è perciò in questo movimen-
Le proteste evidenziano un nuovo elemento: i ragazzi e la loro forza morale
to un desiderio di unità, di pace, forse un po’ idealista, ma reale. Basta vedere le foto che sono state pubblicate su AsiaNews nei giorni scorsi (v. Rivoluzione egiziana: Cristiani e Musulmani uniti). Durante le manifestazioni in Egitto abbiamo potuto assistere a gesti anche nuovi e inusitati, come quelle donne che baciavano i soldati come se fossero loro figli, perché i soldati hanno deciso di non sparare sulla popolazione. Anche in Libia i militari si sono ammutinati, al punto
che il governo ha dovuto chiamare dei mercenari sub-sahariani. Almeno 5 ambasciatori libici hanno dato le dimissioni; ministri si sono dimessi; altri soldati hanno rifiutato di bombardare alcune città. È un movimento che dice no alla dittatura, una vera primavera che speriamo non vada delusa. In questo ambito non appare mai una religiosità formale o eccessiva. Non fa problema che sulla piazza della liberazione ci sono dei “barbuti” (appartenenti a movimenti islamici). Ma essi non hanno fatto blocco fra loro, e si sono invece mescolati a tutta la folla. Questa unità è una novità.
Un altro elemento che balza evidente è che tutti hanno cercato di manifestare e spingere al cambiamento in modo pacifico: in Egitto soprattutto, ma anche in Bahrain, in Tunisia e un po’ anche in Libia. È come se il mondo arabo aspirasse finalmente a un’era di pace. L’elemento pacifico è risaltato anche dal fatto che non c’è stata
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Le ragioni storiche dietro alle preoccupazioni dell’Italia di fronte all’interventismo di Cameron
Quel triangolo pericoloso tra Roma, Tripoli e Londra
Da Crispi a Giolitti, da Moro al presidente dell’Eni Mattei, la politica sul Mediterraneo non è mai cambiata: è sempre rimasta antibritannica di Riccardo Paradisi e si vuole fare un passo oltre la superficie di quanto sta accadendo in Libia e comprendere atteggiamenti e comportamenti delle forze internazionali in gioco – Italia in testa – è al lungo periodo che è più opportuno guardare e in particolare alla storia geopolitica del Mediterraneo. Il mare interno dove non hanno mai smesso di agire interessi divergenti, linee di collisione e scontri tra potenze europee. Si inquadra in questo contesto storico e geografico la reazione di disagio e di malcelato allarme con cui è stata accolta dalla politica e dalla diplomazia italiana l’intenzione manifestata dal primo ministro inglese David Cameron di intervenire direttamente in Libia.
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Si inscrive in una partita anglo-italiana in corso dagli inizi del Novecento e che la guerra civile in Libia rischia di far riemergere dal fiume carsico lungo il quale ha continuato a scorrere in tutti questi decenni. La cui sorgente è precedente all’imperialismo fascista e il cui prosieguo corre lungo tutto il secondo dopoguerra italiano fino ai nostri giorni – attraversando prima e seconda Repubblica, governi di centrodestra e centrosinistra – a conferma del fatto che la geopolitica non sarà una scienza esatta ma certo spiega meglio delle ideologie e delle retoriche imperialiste o umanitarie passaggi storici, strategie politiche e scenari di conflitto. La politica estera italiana sul Mediterraneo dei primi anni del Novecento e segnatamente la politica di personaggi come Francesco Crispi e Giovanni Giolitti, ha come prospettiva strategica quella di conquistare una posizione di predominio su questo mare allo scopo di contenervi l’egemonia della Gran Bretagna che dominava con la Mediterranean Flee le vie d’accesso del Mare nostrum e le basi obbligate delle sue rotte interne, dallo stretto di Gibilterra al canale di Suez, da Malta a Cipro, controllando di fatto le coste del Nord Africa e del Medio Oriente. È per questo che Giolitti, dopo la guerra italo-turca, occupa la Tripolitania e la Cirenaica e fonda la colonia della Libia italiana. Il fascismo non fa che proseguire su questa politica accentuandone la retorica civilizzatrice e entrando in conflitto diretto con la Gran Bretagna contendendogli, senza mai riuscirvi, l’egemonia sul Mediterraneo puntando addirittura al controllo del canale di Suez e dello stretto di Gibilterra. Una guerra malamente perduta, come è noto, quella fascista ma il cui esito non modifica d’un centimetro obiettivi e strategie politiche sul Mediterraneo. E anzi ne affina i mezzi per il suo raggiungimento. L’Italia democratica infatti continuerà a muoversi – mutatis mutandis – lungo il vettore geostrategico di Crispi, Giolitti e Mussolini e, paradossalmente, con maggiore successo rispetto alle precedenti avventure coloniali e im-
perialiste. È quello che Rosario Priore, il giudice che indagando sulla strage di Ustica ha ricostruito lo scenario geopolitico entro cui si consumò, nel 1980, quella misteriosa tragedia, ha definito, in un’intervista alla rivista Storia in rete “il felice paradosso della prima repubblica”. Il tentativo di esercitare un’influenza diretta in Libia capitalizzando risorse energetiche e ruolo strategico stavolta riesce «perché condotto con maggiore intelligenza rispetto ai decenni precedenti e ha
La contraddizione fra il tramonto di Gheddafi e le «rendite di posizione» del passato avuto grandi protagonisti come Enrico Mattei che ha attuato una politica di potenza e di espansione in tutta l’area con metodi che altri paesi occidentali criticavano». Che irritavano talmente tanto da essere costati probabilmente la vita al presidente dell’Eni. L’altro protagonista che Priore ricorda è Aldo Moro che è succeduto a Mattei negli obiettivi politici e le cui iniziative entrano in conflitto con tutti quelli che avevano interessi forti e consolidati sul Mediterraneo. Conflitti talmente forti che anche in questo caso possono avere contribuito all’esito fatale della vicenda politica e umana del presidente della Dc. La politica petrolifera dell’Eni da un lato dunque – che garantisce ai Paesi produttori il 50% dei profitto contro il 30% delle altre compagnie occidentali – e dall’altro la politica democristiana e poi socialista di interlocuzione coi paesi arabi del mediterraneo sono le due leve capaci di mantenere l’Italia in una posizione d’influenza su quest’area dello scacchiere che disegna il largo confine tra il vecchio continente e il nordafrica e in particolare di consolidare la nostra presenza in Libia dopo aver contribuito in maniera determinante alla presa del potere di Gheddafi e di conseguenza alla cacciata degli inglesi da quel Paese. Che dopo la seconda guerra mondiale era finita sotto il mandato britan-
nico malgrado Stati Uniti e Urss preferissero il mantenimento della presenza italiana in quel Paese, proprio allo scopo di contenere l’espansionismo inglese. Sta di fatto appunto che Gheddafi chiude immediatamente le basi britanniche e americane ed espelle i militari dei due paesi. La cacciata dei civili italiani è immediatamente successiva ma viene letta da Roma come una trovata propagandista del colonnello. Cinicamente i rapporti vengono mantenuti. Una relazione obliqua, sempre giocata sulla sottile linea rossa del do ut des, incentrata sulla reciproca diffidenza, pericolosa e anche umiliante per molti episodi – i baciamani di Berlusconi sono l’ultimo d’una serie di inchini – eppure costante, come se ad essa, al di là delle enunciazioni di principio che contano poco in politica e quasi niente in politica internazionale, non ci siano mai state alternative. L’Italia del resto non ha tratto dal suo rapporto con la Libia solo vantaggi economici. Grazie alla posizione conquistata in Libia infatti il nostro Paese ha svolto per decenni un ruolo di mediazione dei conflitti nel Mediterraneo, ha rivestito una funzione di avanguardia diplomatica.
A pensarci bene non è un’operazione di poco rilievo: l’aver marginalizzato la gran Bretagna da un’area dove pure s’era insediata all’indomani d’una guerra vinta è anzi, a ben vedere, un capolavoro politico che alle classi dirigenti del dopoguerra andrebbe riconosciuto. Un capolavoro politico diplomatico che gli inglesi non hanno mai perdonato all’Italia. Sarebbe miope oggi, da parte del governo in carica nel nostro Paese, non capire che l’era di Gheddafi volge al tramonto, che le vecchie rendite di posizione sono finite. Ma non si deve dimenticare nemmeno che le nazioni si muovono ancora lungo le logiche dei loro interessi. Insomma nel petto del premier inglese Cameron batterà sicuramente un cuore sensibile alle sorti del popolo libico ma è bene ricordare che pochi mesi prima che scoppiasse la rivolta in Libia la compagnia petrolifera britannica Dp aveva ottenuto concessioni per cercare il petrolio nel Golfo della Sirte e l’ex premier inglese Tony Blair era diventato uno dei più ascoltati consiglieri di Gheddafi. Ecco perché quando Cameron si dice pronto all’intervento in Libia l’Italia come in un antico riflesso condizionato drizza le antenne. Ed ecco perché a Tripoli non si combatte solo una guerra civile per cacciare un tiranno, ma una partita geopolitica vasta come il mediterraneo.
forte animosità contro Mubarak o contro Ben Alì. C’è qualcosa ovviamente, ma non vi è stata violenza. E questo indica una volontà di fare qualcosa di bello e di nuovo insieme.
Un elemento che mi preoccupa e sorprende è l’assenza di leader. Forse questo dipende dal fatto che questi movimenti sono fatti da giovani che non hanno vene ideologiche o fondamentaliste. Questo è l’aspetto rischioso del movimento, che magari in futuro potrebbe essere sottomesso o soffocato da qualche leader indegno del loro slancio. D’altra parte questi movimenti ricordano quelli dell’89 nell’Europa dell’Est. Anche lì vi è stato un effetto domino per cui i regimi sono caduti uno ad uno senza colpo ferire. Questa impressione generale mi dà una certa sicurezza che i giovani non saranno manipolati da movimenti estremisti religiosi o ideologici. E l’Europa? Se guardiamo poi all’occidente, ciò che più stupisce è che tutti i governi europei confessano che questi cambiamenti sono accaduti in modo inaspettato. Come è possibile che l’Europa, che ha così tanti rapporti economici con questi Paesi, non si sia mai accorta di nessun segnale? Forse l’Europa, nei rapporti con queste regioni, si interessava solo ai propri investimenti. Questa insensibilità o cecità è una lacuna sorprendente. Girano anche molte interpretazioni secondo cui questi stravolgimenti sono tutti orchestrati dall’America, che vuole in tal modo riaffermare il suo potere dal Marocco fino al Kuwait, ridisegnando la leadership di questi Paesi e controllando tutte le risorse petrolifere della regione. A me sembra che questa visione conceda agli Stati Uniti un ruolo da superpotenza manipolatrice che non ha. Invece, a questo punto, il compito dell’Europa è di aiutare senza intromettersi. La gente non vuole ingerenze esterne nella loro politica. Ma ha bisogno nello stesso tempo di essere sostenuta. Queste rivolte hanno causato forti disastri economici: lunghi scioperi, distruzioni, miseria. Sarebbe bene tendere la mano e aiutare a risolvere questi problemi. D’altra parte è tempo che l’Europa approfitti di questa nuova situazione per fare un esame di coscienza. Cosa abbiamo fatto con questi regimi? Di fatto, li abbiamo sostenuti. La Francia con la Tunisia, l’Italia con la Libia, gli Stati Uniti con l’Egitto: in un modo o in un altro questi Paesi hanno avuto degli sponsor occidentali. Quanto sta succedendo è un invito all’Europa a verificare gli appoggi che dà a questi regimi, per rendere in futuro più positivo l’apporto europeo verso gli altri Paesi.
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Il rialzo dei tassi e la bassa occupazione americana indeboliscono le borse e l’euro. Solo le banche tirano un sospiro di sollievo
E dopo Trichet?
L’aumento del costo del denaro avrà parecchie ripercussioni in Italia: benefici per il debito pubblico ma mutui e prestiti più cari di Francesco Pacifico
ROMA. Più della stretta (o ministretta) di Trichet l’Europa sembra temere la debolezza dell’America. Ieri perfettamente esemplificata negli ultimi dati arrivati da Oltreoceano sull’occupazione: a febbraio sono stati creati 192mila unità contro i 200mila previsti. E in questa logica poco importa che la disoccupazione sia calata fino all’8,9 per cento. E allo stesso finisce per aver un valore diverso anche il Brent che ha di nuovo superato la soglia dei 115 dollari al barile e il Wti in rialzo a 103,4 dollari.
Il cruccio di autorità monetarie, governi e mercati resta sempre il petrolio. Giulio Tremonti è andato oltre. E a margine di un seminario Aspen tenutosi a Instabul, ha spiegato che in queesto scenario diventa più complesso studiare sanzioni per la Libia. «Noi vogliamo bloccare i fondi di quei Paesi, pensate se lo facessero loro al contrario. Pensate ai fondi sovrani, e se per caso una rivoluzione dicesse: “Quei soldi sono nostri e li vogliamo indietro”?. Pensate agli effetti destabilizzanti». Non a caso i listini europei hanno aperto positivi dopo il mezzo annuncio di Trichet di alzare i tassi d’interesse di un quarto di punti. E infatti le migliori performance sono state proprio quelle dei bancari, che si attendono dalla mossa benefici anche ai loro conti economici.
Poi sono arrivati i dati suoi nuovi occupati dall’America e le Borse hanno compreso che la ripresa è più debole anche dove dovrebbe essere più forte. Risultato, a metà giornata hanno iniziato un’inversione di marcia alcune piazze come Parigi (-0,04 per cento per finire a -1), Zurigo (-0,22) e Madrid (-0,08). A chiusura di quest’ottava Milano ha bruciato tutti i guadagni e chiuso con -0,07 per cento. Peggio Londra (-0,25) e Francoforte (-0,65 per cento). Mentre l’euro è rimasto sostanzialmente stabile, 1,3976 dollari, non beneficiando della scelta dell’Eurotower. L’Europa sembra aver metabolizzato le ultime decisioni di Jean-Claude Trichet. Anche se questo non esclude rallentamenti più marcati per un’economia sempre più lenta. Non a caso Il banchiere centrale ha spiegato che «per ora e per il futuro il punto principale per le politiche economiche e monetarie globali sarà rendere il sistema monetario, qualunque esso sia, più stabile, riducendo gli squilibri». Armonizzare quindi Il principale problema dell’attuale sistema monetario «monete con cambi totalmente flessibili e monete con cambi regolamentati». E la strada passa sempre per la leva pubblica. Lo ha sottolineato il rappresentante italiano nel board della Bce, Lorenzo Bini Smaghi, sottolineando che«anche i Paesi, così come le banche,
dovrebbero affrontare uno stress test. Perché una maggiore attenzione deve essere prestata alla dimensione globale e all’interconnessione del settore finanziario nel suo insieme nei vari Paesi e
Tremonti rafforzerà la sua politica di rigore, ma dovrà fare le riforme e intervenire sulla spesa alla capacità di questi Paesi di assorbire gli choc che colpiscono non solo una singola istituzione finanziaria, ma l’intero sistema finanziario». In quest’ottica, ha concluso Bini Smaghi, «mantenere i tassi di interesse inva-
riati a fronte di inflazione in aumento potrebbe eventualmente alimentare l’inflazione core». Con la malattia che si diffonde in tutta l’economia reale. Intanto in Italia si valutano gli impatti della stretta decisa dalla Banca centrale europea. Sia nella forma minima (il quarto punto in più dovuto più in risposta in quanto deciso nel luglio scorso) sia in quella più estensiva (il tasso tra l’1,75 e il 2 per cento a fine anno). Di primo acchito si può dire che questa mossa finisce per rafforzare la politica di Tremonti e il suo tentativo di blindare la spesa. Anche perché l’aumento dei tassi serve per congelare gli effetti del petrolio, non certo di un’inflazione core, che in Italia deve fare i conti con una domanda interna ancora debole. Senza contare che l’Italia paga ogni anno qualcosa come 80 miliardi di servizio al debito, interessi che si traducono in qualcosa come due o tre finanziarie. E che di conseguenza ha come strada obbligata quella del pareggio di bilancio. In quest’ottica l’aumento dei tassi potrebbe avere sul breve termine ripercussioni non da poco, visto che gli spread sono facilmente influenzabili dall’instabilità esterna. Ma sul medio e breve termine si aspettano non pochi benefici. Ricorda Angelo De Mattia, economia con una lunga carriera in Bankitalia, che «ben prima dell’annuncio di Trichet, cioè al Forex della scorsa settimana, il
economia rimi seri allarmi sul fronte dell’inflazione. Fenomeno da non sottovalutare e non solo perché Trichet minaccia di aumentare, fin da aprile, i tassi d’interesse, entrando così in conflitto con la politica monetaria della Fed – la banca federale americana – che invece vuol continuare nella politica fin qui seguita: tassi d’interesse, in termini reali, prossimi allo zero. Le ultime rilevazioni dell’Istat mostrano che il fuoco cova sotto le ceneri. In un anno i prezzi al consumo sono aumentati del 2,1 per cento. Dato non preoccupante e in linea con quelli europei. Siamo ancora al limite del target – un’inflazione del 2 per cento – che rappresenta l’obiettivo della politica monetaria della Bce. Anche se in Europa la media è leggermente superiore. Quello che invece preoccupa è l’andamento dei prezzi alla produzione. In un anno, in Italia, i prezzi sono saliti del 5,1 per cento. Finora questi aumenti non sono stati traslati interamente sui prezzi finali di vendita al grande pubblico; ma le tensioni sono evidenti. Le aziende, in altri termini, hanno preferito ridurre i rendimenti sul capitale investito a causa di una domanda interna che ristagna e delle difficoltà che s’incontrano, a livello internazionale, per l’accresciuta concorrenza.
I dati macroeconomici impongono di prendere subito contromisure
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La spinta all’aumento dei prezzi proviene soprattutto dal petrolio. Sulla produzione rivolta verso il mercato interno, l’aumento è stato del 16,5 per cento. Per quella destinata all’esportazione addirittura del 30 per cento. Dove questo divario non rappresenta altro che l’incidenza maggiore dei costi del trasporto. L’Italia, infatti, almeno fino a questo momento, ha beneficiato dei vantaggi dell’eccesso di produzione di gas, che ha notevolmente compresso i prezzi di vendita. Ci ha consentito, pertanto, di avere energia elettrica a prezzi contenuti, contrastan-
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La vera inflazione è più alta: 5,1% Schizzano i prezzi alla produzione: è l’effetto-domino del caos petrolifero di Gianfranco Polillo do l’aumento dei costi di produzione. Cosa che non è avvenuta per quanto riguarda i trasporti che utilizzano, invece, altre fonti energetiche: benzine, gasolio e via dicendo. Ne fa fede il listino dei prezzi: con la benzina verde che ha raggiunto in media il prezzo di 1,55 al litro e il gasolio che si è collocato a 1,447. Prezzi che sono molto vicini ai loro massimi storici del 2008, quando il prezzo del petrolio era a 150 dollari al barile. Si deve, poi, aggiungere che gli aumenti indicati sono su base annua. Scontano pertanto un lungo periodo di relativa tranquillità che nulla ha a che vedere con le recenti turbolenze che hanno coinvolto il Mondo arabo. Si consideri che dal primo di febbraio di quest’anno il brent è cresciuto del 15 per cento (da 100 a 116 dollari al barile) e il WTI di quasi altrettanto (da 92 a 103).
costo minore – basandosi sugli ultimi prezzi d’importazione. Quando, invece, le quotazioni scendono, esse fatturano in base ai prezzi di origine. Il risultato è una stabilizzazione verso l’alto dei prezzi e un doppio guadagno dovuto alla costante rivalutazione delle riserve accumulate. Ma anche una tendenza dei prezzi ad adeguarsi rapidamente in salita e più lentamente in discesa. Comportamenti censurabili sul piano etico, ma pienamente rispettosi dei principi contabili internazionali.
La politica «protezionista» europea si scontra con quella più aggressiva della Fed. E infatti l’euro ha già ripreso a crescere nei confronti del dollaro
Quali le conseguenze? La più ovvia e immediata è che il fenomeno è destinato a persi-
governatore Mario Draghi, ha detto che si stavamo avvicinando a nuove condizioni monetarie. Quindi ha segnalato prima che spesso i tassi reali ampiamente negativi non sono sufficienti a rinforzare la crescita. Poi che da un rialzo dei tassi possono beneficiarne il costo del credito come gli spread sui titoli di Stato: visto che cala l’inflazione, quindi si contiene il premio di rischio». Ma per raggiungere maggiore benefici l’Italia deve avere la capacità di crescita. Deve trovare risorse nel suo bilancio per investire in sviluppo. Non a caso il primo a lanciare l’allarme della bassa produttività fu nel 1995 l’ex governatore Antonio Fazio. Al riguardo Giacomo Vaciago, ordinario di economia politica alla Cattolica di Milano, consiglia a Tremonti di «smet-
stere, fin quando la situazione in Medio Oriente non si sarà stabilizzata. Dobbiamo, quindi, scontare nell’immediato futuro un più elevato livello d’inflazione, salvo un avvitamento della crisi – cosa non auspicabile – con ulteriore aumento dei livelli di capacità produttiva inutilizzata in grado di frenare l’aumento dei prezzi dei prodotti destinati al grande pubblico. Questo scenario dovrebbe, tra l’altro, indurre le compagnie petrolifere a più miti consigli. In generale esse fatturano le proprie giacenze – acquistate in precedenza a un
terla di fare politica economica con tagli alla spesa in conto capitale, a pagare la cassa integrazione con i fondi per le infrastrutture o quelli per la formazione. Queste cose non si rinviano». L’assunto di Vaciago è semplice: «Senza
Secondo punto: le interferenze con la politica monetaria. Se Trichet dovesse mantenere la promessa, aumentando i tassi d’interesse, per molte famiglie tornerebbe innanzitutto l’incubo del caro mutuo. Con conseguente possibile riduzione dei già bassi livelli di consumo. Differenziando, poi, la politica monetaria europea da quella americana, il risultato probabile sarebbe una rivalutazione dell’euro
di tanto:ancora oggi non si comprende che eliminando le scartoffie, la burocrazia, si risparmia anche sulla benzina che serve per andare da una parte all’altra per ritirare un certificato». A differenza dei conti pubblici, non trar-
Il Codacons ha stimato che 30mila famiglie in più faranno fatica a pagare le rate. Intanto il greggio vola sopra i 115 dollari e le autorità si interrogano su come eliminare gli squilibri crescita non c’è stabilità. Dovremmo imparare dai contadini cinesi che quando vanno i città si dimenticano della zappe e lavorano con i macchinari all’avanguardia. Bene, noi, nelle nostre città, spesso pensiamo ancora di poter lavorare con la zappa. Ma la cosa, a pensarci bene, non dovrebbe meravigliarci più
ranno gli stessi benefici le aziende e le famiglie: perché l’aumento dei tassi si traduce in una crescita delle rete dei mutui e dei prestiti. Per non parlare dell’accesso al credito. Il Codacons ha annunciato che il ritocco al costo del danaro metterà circa 30mila famiglie a rischio insolvenza. Dall’uf-
nei confronti del dollaro. Quindi un colpo per le esportazioni del Vecchio Continente e, dal punto di vista congiunturale, una conseguente gelata. Cosa tutt’altro che positiva se si considerano i differenziali – tutti a favore degli Usa – nei tassi di crescita. L’Europa rischia pertanto di importare, al tempo stesso, inflazione e stagnazione. Qualcosa che abbiamo già visto e subito negli anni passati. Ma allora perché tanta prudenza? I giuristi non faranno fatica a ricordarci le differenze tra gli statuti delle due diverse banche centrali. La Bce ha nel suo Dna esclusivamente il controllo dell’inflazione. Nella Fed questo primo obiettivo deve essere declinato guardando anche a una politica economica di sviluppo. Un tasso d’inflazione maggiore può essere pertanto tollerato, se esso porta, negli Usa, ad un maggior tasso di sviluppo complessivo. Diagnosi corretta, ma insufficiente.
Nel 2010 gli Stati Uniti sono cresciuti più dell’Europa, soprattutto grazie a due elementi: la debolezza del dollaro e il cosiddetto “effetto ricchezza”. Un dollaro più debole ha comportato una notevole riduzione del deficit commerciale: ottenuto aumentando le esportazioni e riducendo le importazioni. L’effetto ricchezza è invece il prodotto del buon andamento della borsa e della diffusione tra il pubblico dei titoli azionari: circa 17 miliardi di dollari. In borsa l’aumento è stato in media del 15 per cento. Il maggior valore del patrimonio posseduto ha consentito alle famiglie di poter ridurre il tasso di risparmio e consumare di più. Ne è derivato un forte sostegno della domanda interna che si è aggiunto a quello proveniente dai mercati internazionali. Risultato? Un tasso di crescita complessivo pari al doppio della media europea. Distanze che, purtroppo, potrebbero aumentare se alle minacce di Trichet seguissero i fatti.
ficio studi dell’associazione fanno notare che «il tasso Euribor a 3 mesi è salito all’1,162 per cento, ai massimi da giugno 2009: è la prima nefasta conseguenza dell’annuncio di Trichet di un possibile aumento del tassi d’interesse già da aprile. Figurarsi cosa potrà accadere quando si passerà dagli annunci ai rialzi effettivi».
Angelo De Mattia sottolinea che è difficile in questa fase fare previsioni. «Se ci saranno aumenti, bisognerà vedere quale concorrenza si manifesterà tra le banche, che sono state invitate da Draghi a incidere sui costi. Diversi istituti si aspettano una variazione per dare sollievo ai propri conti, ma molto starà alla capacità dei banchieri di non fare di tutta l’erba in fascia».
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Le ragioni della richiesta di Confcommercio al governo sul fisco iente guerre di religione quando si parla di imposte (neppure patrimoniali). Se ne può discutere sempre e comunque. Segnalo qui alcune perplessità riguardo all’attuale diffusa idea di spostare il prelievo dalle imposte sui fattori di produzione (sinteticamente, dall’Irpef) alle imposte sui consumi (sinteticamente, all’Iva). Tra gli altri, Innocenzo Cipolletta ne condensava le caratteristiche e i presunti vantaggi alcune settimane fa sul Sole24ore.
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Più Iva vuol dire meno crescita Intervenire sulle imposte indirette allarga il divario tra Stato e contribuenti di Mariano Bella*
Meno Irpef e più Iva potrebbe apparire un sistema per attuare una svalutazione competitiva: penalizza le importazioni, avvantaggia l’offerta di lavoro e di capitale, quindi la crescita. Obietto: certamente non è vero per tutti i settori produttivi. Per il turismo la manovra si rivelerebbe penalizzante, configurandosi proprio come un’imposta sulla produzione. I turisti che acquistano in Italia sarebbero scoraggiati dai prezzi più elevati. Poiché il turismo è uno dei pochi settori caratterizzati da un saldo con l’estero sempre positivo e rilevante - ancorché decrescente - la maggiore Iva sarebbe molto simile a un dazio, volto a disincentivare le esportazioni di beni e servizi piuttosto che le importazioni. La questione mi pare decisiva, convinto come sono che il turismo sarà un pilastro per il futuro dell’Italia e per l’Italia del futuro. Le svalutazioni, poi, sono sempre soltanto apparentemente competitive: fiaccano gli animal spirits degli imprenditori perché spingono
Prima di tutto l’esecutivo dovrebbe agire immeditamente per ridurre subito il debito, anche alienando una parte del patrimonio pubblico ma in questo modo rilanciando le privatizzazioni a pensare al prezzo come principale leva di successo; ciò non ha giovato in passato. Proprio la manifattura esportatrice ha ricominciato a crescere dopo le ristrutturazioni imposte dal sistema della moneta unica.
Ancora: con le latenti tensioni inflazionistiche, in procinto di diventare attuali, l’idea di toccare i prezzi è da escludere tassativamente: la combinazione di inflazione importata e manovra Iva potrebbe avere effetti molti gravi sul già depresso potere d’acquisto degli italiani.
Non sono sicuro neppure dei potenziali giovamenti di una manovra selettiva, nella quale si moduli la riduzione Irpef per le fasce meno ricche della popolazione e, nel contempo, si incrementino le aliquote legali in modo da non colpire i soggetti meno abbienti (così da evitare un effetto regressivo dell’incremento dell’Iva). Semplicemente è un’ipotesi troppo complicata per essere realmente attuabile. In ogni caso, i reali effetti sulla crescita di una manovra, generalizzata o selettiva, di spostamento di gettito prelievo
Cassa integrazione per 700 dipendenti
Nuova Cig per Alitalia ROMA. Alitalia e sindacati hanno firmato nella sede di Confindustria un accordo che prevede la cassa integrazione straordinaria volontaria fino a 700 dipendenti (personale di terra ed equipaggi): l’intesa prevede anche il contratto di part-time per 550 assistenti di volo, grazie al quale rientreranno in azienda 160 assistenti di volo attualmente in cassa integrazione. Meno favorevole l’accordo per i piloti: a fronte di un minimo di 32 contratti part-time potranno rientrare in azienda solo 10 piloti attualmente in cassa integrazione sui cir-
ca 400 che sono fuori dall’azienda e non avranno, al termine della mobilità, i requisiti per la pensione. La novità dell’accordo firmato ieri è che la cassa integrazione non riguarda più solo il personale di terra ma è estesa ai «naviganti». Per quanto riguarda hostess e steward, dunque, ci sono novità rilevanti. L’Alitalia è disponibile a concedere 550 contratti di part-time, a partire da aprile su 700 richieste già ricevute. A fronte di ciò, ci sarà il trasferimento di 110 assistenti di volo e il rientro dalla cassa integrazione straordinaria di altri 160.
dall’Irpef all’Iva, a parità di prelievo complessivo potrebbero non essere favorevoli. Queste obiezioni, di per sé rilevanti, sono ancora marginali rispetto ad altre due questioni. La prima riguarda il benessere dei cittadini in funzione delle modalità di prelievo di uno stesso gettito: saremo un po’ meno felici se qualcuno modifica ex lege i prezzi dei beni e servizi, prescindendo dall’operare del mercato, rispetto alla situazione nella quale possiamo allocare il nostro (minore) reddito in presenza dei prezzi normali. Le imposte indirette creano, infatti, un cuneo irrecuperabile tra il beneficio del maggior prelievo per lo stato e il sacrificio dei contribuenti. Ciò suggerisce di non forzare troppo la mano con l’imposizione indiretta.
Infine, la questione , purtroppo, decisiva. Il livello delle aliquote, standard, ridotta e super-ridotta in Italia è sempre superiore al livello delle aliquote legali Iva applicate presso i principali partner europei eppure il rapporto tra gettito Iva e Pil è da noi sensibilmente inferiore al rapporto osservato presso gli altri stati. La composizione settoriale di applicazione delle aliquote differenziate e i regimi di esenzione e di indetraibilità, non spiegano la differenza di produttività dell’Iva. Diversi studi concludono che tale anomalia ha una sola ragione: l’evasione dell’Iva in Italia è superiore a quanto accade negli altri Paesi ed è largamente superiore al tasso di evasione che si osserva in Italia su altri tributi. Stando così le cose, aumentare le aliquote Iva incentiverebbe l’evasione dell’imposta più evasa dagli italiani. Economisti e politici concordano sul fatto che occorre coniugare rigore (nei conti pubblici) e crescita. Ma proprio per questo non sono possibili scorciatoie. Si tratti delle patrimoniali piuttosto che delle svalutazioni fiscali. Dobbiamo ridurre il debito pubblico, anche alienando patrimonio pubblico e rilanciando giuste privatizzazioni. Dobbiamo perseguire una riduzione netta di pressione fiscale, e non una sua riarticolazione tra imposte dirette ed indirette. Il che significa meno spesa pubblica e più recupero di evasione ed elusione. * Direttore dell’Ufficio Studi di Confcommercio Imprese per l’Italia
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
“The Fighter” di David O. Russell
ON THE ROAD CON MICKY WARD
di Anselma Dell’Olio
he Fighter è un film sulla boxe ma è un errore non vederlo perché non boxe non è esattamente un MacGuffin, un mero pretesto intorno al quale ruota piace il genere, anche se gli stilemi ci sono e molto di più. Toro scala storia, però conta alla pari del dramma (non melodramma) famigliare e Da non della storia d’amore, per niente banali. La differenza la fa il realismo tenato (di Martin Scorsese con Robert De Niro) è classificato perdere il film della trama e la verosimiglianza. Qui non ci sono le esagerazioni tra i dieci film migliori di tutti i tempi, e Rocky (di John G. plateali del melò, ma un intreccio che ha il sentore della vita Avildsen con Sylvester Stallone star e autore) come uno dei sulla vita del pugile welter, vissuta. Mickey Ward (Mark Wahlberg) è un pugile welsuccessi popolari di tutti i tempi (è curioso che ha vinto del suo fratellastro Dicky Englund ter juniores, con sette sorelle e un fratello ex cam3 Oscar, uno in più di Toro, infinitamente superioe della loro famiglia di origini irlandesi. pione di boxe e suo allenatore, quando non è re). Il film biografico di David O. Russell è metroppo intrippato con il crack per ricordarsene. no appariscente, come il protagonista Micky Ambientato a Lowell, che dette i natali La storia è tratta dalla vera vita dei fratellastri Micky Ward, un pugile welter grande incassatore, con un a Jack Kerouac, è un racconto che ha Ward e Dicky Englund, figli della stessa, tosta Alice (l’irrigancio sinistro notevole. È stato un concorrente legittimo il sapore del vissuto, senza conoscibile Melissa Leo, già candidata all’Oscar per Frozen Ritra pesi massimi (come Il discorso del re, The Social Network, I Ward-Englund sono una famiglia d’origini irlandesi di Lowell, Il Grinta, Winter’s Bone, Il cigno nero, 127 ore) con sette nomination ver). esagerazioni alla statuetta dorata: regia, montaggio, film e tre per attori non protagoMassachusetts, cittadina operaia già in sofferenza per l’abbandono della melò nisti: Christian Bale, Melissa Leo e Amy Adams (Bale e Leo hanno vinto). La grande industria quando il film inizia nel 1993.
T
Parola chiave Maghreb di Gennaro Malgieri Affari di cuore a ritmo di danza di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
L’autobiografia in versi di Dino Campana di Filippo La Porta
Chi ha paura degli Impressionisti? di Gabriella Mecucci La memoria riconoscente di Maurizio Ciampa
Erratica romana (con sosta alla Gnam) di Marco Vallora
on the road con Micky
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Dopo Jack Kerouac, originario di Lowell, l’orgoglio del posto era Dicky, ex campione welter del New England, che aveva steso nientemeno che Sugar Ray Leonard, anche se poi aveva perso il match ai punti. La storia inizia con Dicky seduto su un divano in una stanza spoglia, mentre parla con la videocamera di una troupe che sta girando un documentario «sul mio ritorno nel ring». Bale parte in quarta con un ritratto pirotecnico del suo personaggio, il fratello maggiore, spigliato, carismatico, inaffidabile. Si scoprirà che in realtà il film nel film è il ritratto della vita sballata di un crackhead. Vediamo filmini amatoriali dei due fratelli da piccoli, l’adorazione classica del minore verso il grande e l’onnipresenza di Alice. Dopo, tutta la famiglia va in processione trionfale per le strade di Lowell, inseguita dalla troupe. Dicky è il divo; bacia le ragazze, autografa vecchi poster dell’epoca di gloria e gigioneggia per la macchina da presa. Il giorno dopo, Micky è sul ring in palestra, le mani bendate, in attesa di allenarsi per un vero ritorno, in seguito a un ritiro strategico. Manca solo Dicky. La madre chiede alle sorelle, tutte in fila contro la parete, di cercarlo: un coro di menadi con i capelli cotonati, la sigaretta pendula. Bastano i loro soprannomi per capire l’antifona: Pork, Tar, Red Dog e Beaver. Alice ha capelli corti, biondo-bottiglia anche lei, e indossa tailleur stretti con gonna corta, sempre bianchi e con inserti leopardati sulle spalle gonfiate dalle protesi dell’epoca. Porta occhialoni con strass, orecchini a hula hoop, una cicca e un bicchiere di whisky mai lontani. Leo all’inizio esitava ad accettare il ruolo della madre di due uomini con appena dieci anni meno di lei. Ha deciso per il sì e ha vinto. La sua autorevolezza non lascia dubbi che sia la mamma al comando della truppa di nove figli adulti. Dicky, uomo fatto e tossico perso, salta dalla finestra del primo piano pur di non farsi trovare da lei in un covo di tossicomani.
Con economia di parole e situazioni, lo script ci coinvolge nel dramma di Micky, senza mai essere didascalico o usare i personaggi come stampelle per «tematiche». Dicky arriva trafelato in palestra dalla fatiscente crackhouse dove si droga. Rimproverato (non da Alice, che anzi lo spalleggia sempre), dice a Micky: «Perché perdere tempo in chiacchiere, saliamo sul ring!». Il ragazzo mite riesce appena a farfugliare «Ma come?! Ho buttato via mezza giornata aspettandoti!». Il jiu jitsu verbale di Dicky dice tutto sul loro rapporto squilibrato. Intanto Alice ha anno IV - numero 9 - pagina II
organizzato un incontro con un pugile ad Atlantic City. Guardano i video degli incontri dell’avversario per studiarne mosse e debolezze. La sera al pub, Micky è attratto dalla cameriera Charlene (Amy Adams). Ci siamo innamorati di lei in Junebug, splendido film sulla famiglia, purtroppo arrivato in Italia solo in dvd, in cui è una giovane moglie incinta, talmente luminosa e vera da meritarsi una nomination all’Oscar, da perfetta sconosciuta. Ha messo su peso per fare Charlene, la bella criniera rossa è più voluminosa, toppino e shorts incorniciano il pancino di Venere. Mark dice che è boxeur, e lei ripete quel che si dice di lui: è uno di cui gli altri pugili si servono per fare carriera. Lui si difende senza offendersi. «Sì, ho avuto qualche incontro tosto, ma io non sono quello lì. Mi alleno per un match ad Atlantic City: farò un ritorno alla grande». Poi le dà qualche nozione della sua strategia: «Corpo-testa, corpo-testa. Dai un colpo alla testa e l’avversario alza le mani per proteggerla, allora tu colpisci l’addome; lui abbassa le braccia per proteggere lo stomaco e tu gli sganci un sinistro alla testa. La gente pensa che è alla testa che fai male, ma si possono infliggere molti più danni al corpo».
una famiglia molto simile a quella del film. Da ragazzo era un delinquente; è finito in carcere a vent’anni. Grazie all’aiuto di un sacerdote e della religione cattolica è riuscito a cambiare vita. È stato rapper di successo (Marky Mark and the Funky Bunch) e grazie a un fisico magnifico, modello in una celeberrima pubblicità d’indumenti intimi di Calvin Klein.Tra i suoi film migliori ci sono Boogie Nights - l’altra Holywood di Paul Thomas Anderson, sull’ascesa e caduta di una pornostar, nominato per tre Oscar, Three Kings (sempre con la regia di Russell), The Departed (nomination all’Oscar per il ruolo di un poliziotto; è in cantiere un seguito con al centro il suo personaggio), I padroni della notte di James Grey, di cui è anche produttore. Ha prodotto le riuscite serie tv di classe In Treatment, Entourage e Boardwalk Empire. Come attore è così poco appariscente da essere a volte eclissato da istrioni di talento come Bale. Si sceglie bene le parti e sparisce dentro personaggi interiori, trattenuti. È spesso sottovalutato, ma è compensato dal successo in altri campi e dall’apprezzamento di registi di prima qualità come Scorsese, Grey, Anderson e Russell.
Intanto un altro avventore rivolge a Charlene un complimento pesante. Mark lo sbatte sul bancone e gli ordina di portarle rispetto. Dopo chiede un appuntamento alla ragazza e lei domanda se è sposato. Reagisce perplesso: «Ti chiederei di uscire se lo fossi?». «Non sarebbe la prima volta», risponde asciutta Charlene. Mark: «Ho una figlia, la vedo due weekend al mese. Non c’è altro». Lei chiede quando vuole uscire; sabato, risponde. È la risposta giusta: sabato in quella cultura è prime time, l’ora di punta e per il massimo che offre la ditta da quelle parti, cena fuori e un film. Gli scrive il suo numero su una salvietta. «È quello giusto?», chiede Mark, che conosce gli stratagemmi per liberarsi di uno scocciatore. «Dovrai chiamarmi per saperlo», risponde lei. È una scena perfetta, come tutte le altre del film scritte con una drammaturgia sapiente; si apprendono intere biblioteche d’informazioni sulla psicologia e il retroterra dei personaggi, con spirito e senza dialoghi meramente espositivi. Mark Wahlberg è protagonista e executive producer del film, che ha fortemente voluto. Si è innamorato di Ward e ci ha messo quattro anni a combinare il film. Nel frattempo si è allenato per essere credibile nelle scene di boxe, che sono ben fatte, senza i virtuosismi di Toro scatenato ma convincenti. Bale (American Psycho
ward
THE FIGHTER GENERE BIOGRAFICO DRAMMATICO DURATA 118 MINUTI PRODUZIONE USA 2010 DISTRIBUZIONE EAGLE PICTURES
e tre film con Christopher Nolan: Batman Begins, the Prestige, Il cavaliere oscuro) è un attore che aderisce al metodo di Stanislavsky-Strasberg, in cui la preparazione, la concentrazione e l’aderenza al ruolo sono totalizzanti. Lui e Melissa Leo, della stessa formazione, non hanno mai mollato il
REGIA DAVID O. RUSSELL INTERPRETI MARK WAHLBERG, CHRISTIAN BALE, AMY ADAMS, MELISSA LEO, JACK MCGEE, DENDRIE TAYLOR, MICKEY O’KEEFE, MELISSA MCMEEKIN, JILL QUIGG, CAITLIN DWYER, ERICA MCDERMOTT, BIANCA HUNTER
loro personaggio nemmeno nelle pause. Leo restava Alice, prepotente, dura, demotica. Bale (figlio d’arte) restava l’ipercinetico, affascinante affabulatore Dicky, sempre scattante, con la battuta pronta, una mina vagante. Wahlberg è un’altra storia. È il più giovane di nove fratelli, come Ward,
Funziona anche in coppia con Adams nel film: Charlene e Micky sono due perdenti in cerca di una seconda chance. Lei era riuscita ad andare all’università con una borsa di studio sportiva, come campionessa di salto in alto. Non si era laureata, però: troppe baldorie, troppa dissoluzione. Basta questo fallimento «alto» per renderla invisa alle truculente sorelle di Micky; la considerano una snob che si crede meglio di loro perché ha studiato, e la chiamano «Mtv girl», per loro un insulto sulla sua onorabilità. Charlene si batte perché Micky sia protetto dall’abbraccio pitonesco di madre e fratello, che mostrano di non avere i suoi interessi a cuore, solo i loro. Dopo il ritiro del primo avversario ad Atlantic City, Dicky e Alice lo convincono ad accettare un incontro con un pugile che pesa dodici chili più di lui e quasi lo ammazza. Ma grazie a un becero exploit criminale di Dicky, finisce in galera e riesce a staccarsi dalle grinfie sconsiderate della famiglia. Ma quando il pugile, ormai vincente, deve affrontare il match per la sfida al campionato, sente forte il bisogno del sostegno proprio di Dicky e Alice. Qualcuno pensa che Russell abbia voluto compiacere la famiglia vera, che ha collaborato al film. Io credo che pur prendendosi qualche naturale libertà con la storia per ragioni drammaturgiche, il regista abbia rispettato il nocciolo della verità. Da non mancare.
MobyDICK
parola chiave
l vento del deserto l’autunno scorso annunciava devastazioni che nessuno poteva immaginare. Dalle alture di Algeri la baia inondata di sole abbagliava con la sua luce dorata. Immaginavo, tuffandomi con l’immaginazione in quelle acque solcate dalle inquietudini, che per quanto pessimista si potesse essere, non c’era motivo per non avere fiducia in un Paese che stava cercando, sia pure con difficoltà, la propria dimensione. Dopo gli anni durissimi della decolonizzazione, sbaragliati i fondamentalisti islamici, ritrovato nuovo slancio con il partenariato europeo sempre più intenso, gli algerini finalmente vedevano alla portata anche un soffio di libertà. Alcuni, sia pure guardinghi, mi dicevano che la libertà sarebbe arrivata con un po’ di benessere. Una prospettiva che nelle piazzette e nei vicoli dell’impenetrabile casbah poco entusiasmava, tanto veniva considerata irreale. Eppure quei ragazzi che da sopra un alto muretto guardavano una partita di calcio di una delle decine di squadre di Algeri, avevano negli occhi speranze vive quanto la loro voglia di evadere da quel mondo in abbandono, saccheggiato da satrapi nazionalisti e socialisti, da impostori e mercanti che facevano affari con gli europei vendendosi l’anima di quella gente che dopo de Gaulle credeva di aver toccato il cielo con un dito.
I
Da Algeri a Orano a Costantine vedevo il Maghreb respirare con affanno. E non riuscivo a capire. Mi confondevo ancora di più tra Tunisi e Djerba. Mi acquietavo nella romanità sfiorata su quel lembo d’Europa in Africa e nel suk di Rabat, attirato dalle musiche incantatrici provenienti da Zyrab, ristorante raffinatissimo, mi stordivo con vino marocchino e golosamente assaporavo il più succulento dei meshui che abbia mai gustato, mentre una fanciulla dalla pelle ambrata danzava per me e qualcun altro su note che avevo già ascoltato a Essaouira. Europeo svagato? Semplicemente attratto dalle mollezze maghrebine al punto di non vedere ciò che avvolto dai silenzi delle vie di Casablanca si muoveva: un mondo indecifrabile appena percettibile. Non so se in Marocco esploderà prima o poi la rivolta, certo è che il Maghreb sta velocemente cambiando. Emerge la rabbia. Internet chiama chi può alla ribellione. Dilaga la voglia di libertà. Le donne per le strade sono le più attive. Mi dice un amico che il sesso, sempre segreto e vorace, diventa perfino libero. Non fatico a credergli. L’istintualità ha guidato i rivolgimenti tunisini; anche quelli algerini, per il momento meno appariscenti, hanno la stessa matrice. E poi gli egiziani hanno subito l’effetto domino. I satrapi cadono uno dopo l’altro. Il più feroce, quello che si veste come un pagliaccio anche nei giorni della tragedia, Muhammar el Gheddafi, tragico e tristo prodotto di un Occidente irresoluto e istupidito, è capace delle peggiori nefandezze, sapendo che nessuno lo disturberà fino all’ultimo giorno. Il Mediterraneo fiammeggia. Ci si attendeva che da qualche altra parte, forse a Est, verso Gerusalemme, il focolaio divampasse. E invece l’insorgenza è venuta dove meno se lo aspettavano gli «attenti osservatori» occidentali che ancora ragionano secondo le tradizionali categorie della politica. Come il Maghreb dimostra, sono i fenomeni pre-politici ad
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MAGHREB Sono i fenomeni pre-politici a muovere le masse che chiedono più diritti. Lo dimostra questa parte di mondo in abbandono dove la voglia di evadere sta scardinando le tradizionali categorie della realpolitik
Un nuovo Mediterraneo di Gennaro Malgieri
Ha contribuito molto di più la musica rai a costruire le coscienze dei giovani maghrebini che le madrasse coraniche. Il segno dei tempi. E l’Occidente stanco non ha capito come si realizzano oggi le rivoluzioni. Chissà se adesso gli strateghi comprenderanno che la politica sta cercando altre strade attizzare le masse che chiedono più diritti, più pane, più sesso e ora più web per essere cittadini di un mondo dal quale non vogliono essere esclusi. Ha contribuito molto di più la musica rai a costruire le coscienze dei giovani maghrebini che le madrasse coraniche. I segni dei tempi. E l’Occidente stanco non capiva, non capisce come si realizzano oggi le rivoluzioni. Chissà se la lezione del Maghreb e quella egiziana e yemenita e del Bahrain e forse della Siria e della Giordania e magari dell’Arabia Saudita faranno comprendere agli strateghi stanchi del vecchio mondo che la politica sta cercando altre strade e, dunque, in Afghanistan, in Iran e perfino nell’Iraq tutt’altro che pa-
cificato, bisognerebbe investire sui movimenti e sulla cultura della libertà per vincere la battaglia finale. Naturalmente Ahmadinejad non si abbatte con le parole soltanto... Resta, tuttavia, diffusa la sensazione, tornando sulle alture che dominano la baia di Algeri, che la retorica delle politiche statunitensi ed europee sul Mediterraneo e sul Medio Oriente negli ultimi vent’anni, abbia favorito la percezione in Occidente di una realtà falsata dalle esigenze della realpolitik. Nel Vecchio Continente, come sull’altra sponda dell’Atlantico, non si è mai avuta la consapevolezza di ciò che poteva accadere dove il potere autocratico di alcune inossidabili nomenklature aveva impoverito le
popolazioni e negato i diritti elementari. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno sempre favorito, anche di fronte a una evidenza che li avrebbe dovuti sconsigliare, la stabilità dei regimi che stanno cadendo o sono caduti a scapito dell’incoraggiamento, come era da attendersi dopo i fatti iracheni, di reali processi di democratizzazione che si stavano manifestando nell’area e che soprattutto l’Unione per il Mediterraneo, ormai agonizzante, non ha saputo o voluto vedere. Se le amministrazioni Bush e Obama non hanno rinunciato a una Freedom Agenda, che in qualche modo compensasse l’obbligata necessità di affari e relazioni stabili con i governi rovesciati o in crisi, l’Unione europea ha abdicato a svolgere un ruolo propulsivo nell’area, praticando pigramente un bon usage dell’autoritarismo che connotava quei regimi alleati dell’Occidente, forse per appagare uno svogliato neo-realismo più rassicurante e meno impegnativo.
L’esaurimento della politica euro-mediterranea delineata a Barcellona nel 1995, che prevedeva l’aiuto allo sviluppo politico dei regimi arabi verso la democrazia, non è stato superato dal varo dell’Unione per il Mediterraneo, che si è presto rivelata un «esperimento» fallimentare da tutti i punti d vista. I Paesi europei, a cominciare dall’Italia, hanno sempre proceduto in ordine sparso, concorrenti più che collaboranti. Di fatto la politica europea verso un’area di fondamentale interesse strategico ha finito per privilegiare i rapporti commerciali ed economici a scapito di quelli politici. L’Unione per il Mediterraneo, nata nell’estate 2007 per iniziativa dell’appena eletto Nicolas Sarkozy, e ratificata un anno dopo da tutti gli Stati interessati, con l’obiettivo di superare le divergenze emerse dal Processo di Barcellona, non è andata più in là delle buone intenzioni. Se il focus su progetti in specifici settori tecnico-economici (disinquinamento del Mediterraneo, autostrade del mare, autostrada del Maghreb, ferrovia transmaghrebina, piano solare mediterraneo, promozione delle piccole e medie imprese) sembrava l’approccio migliore e più funzionale per fare avanzare la cooperazione - rafforzata o a geometria variabile - tra i Paesi dell’Ue e i partner mediterranei, scindere il piano economico da quello politico si è rivelato esiziale all’auspicato successo dell’iniziativa. Erroneamente si è pensato che nei Paesi nordafricani e in Medio Oriente ci fossero solamente singoli individui coraggiosi di orientamento «liberale», ma che non esistesse un’opinione pubblica capace di sovvertire l’ordine dei regimi autoritari. L’Europa adesso è costretta a considerare questa nuova realtà. Le rivolte popolari, prive di una chiara direzione politica e di leadership riconosciute, ma anche fortunatamente prive di connotazioni islamiste radicali (tranne forse che in Cirenaica), dovrebbero fornire all’Ue l’occasione per riacquistare credibilità presso il mondo arabo attraverso un impegno convincente e sostenibile. Non si tratta, insomma, di adottare politiche controproducenti tese a diffondere secondo modelli occidentali la democrazia con la forza, ma di proporsi come riferimento e fornire aiuti economici, sociali e culturali a favore della società civile e dei ceti disponibili all’avvio di un processo di partecipazione popolare.
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MobyDICK
Pop
musica
MAGIC MOMENT per la Parodia di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi e la giocano eccome, a mostrarci come suonava la discomusic anni Settanta che si ballava allo Studio 54 e poi l’house e la dance anni Ottanta. Lo fanno (bene) ogni due per quattro gli Scissor Sisters: con un’immedesimazione tale da essere riusciti a clonare il falsetto dei Bee Gees epoca Saturday Night Fever. Nel 2008, poi, quell’affabulatore/campionatore di suoni chiamato Moby ha solleticato la nostalgia canaglia con Last Night, ultimo e fatal capitolo della leggendaria nightlife newyorkese che shakerava in un sol colpo Giorgio Moroder, Andy Warhol, Donna Summer e i Village People. In quell’anno, oltretutto, è uscito allo scoperto Andy Butler, disc jockey fin da ragazzino in quel di Denver, che dopo aver pensato bene di raggiungere New York alla ricerca della disco perduta s’è inventato un sound che somigliava al remake di Runaway di Gino Soccio elaborato nel robotico stile dei Kraftwerk. Visto il successo, Butler s’è trasformato in Hercules, ha arruolato cantanti e musicisti da giocarsi a rotazione e li ha chiamati Love Affair. Dopodiché, Hercules & Love Affair hanno fatto il botto: col primo album, dal primo pezzo all’ultimo, ma soprattutto col singolo Blind magistralmente interpretato da Antony Hegarty, cioè dalla voce più bella in circolazione. Incassati gli applausi e riempite le piste da ballo, Andy è sparito per un po’ dalla circolazione ma senza abbandonare del tutto il filo del discorso. Nel nome della discomusic (e dell’house, dell’acid e del synth pop), ha confermato in organico Kim Ann Foxman, ha scelto le voci debuttanti di Aerea Negrot e Sean Wright, ha sfruttato l’esperienza di Keke Okereke dei Bloc Party e si è dedicato al nuovo disco ben
S
Jazz
zapping
arodia magic moment. In tivvù e su youTube assistiamo a un fiorire di parodie in forma musicale, da Ti sputtanerò di Luca e Paolo a Sanremo, al genialoide Zalone, alle performance degli Elii dalla Dandini, a Cetto la Qualunque. È il momento magico della parodia. Un Daniele Luttazzi di qualche anno fa spiegò il concetto con parole preziose: «Satira è prendere in giro chi è più potente di te, parodia è prendere in giro chi è più intelligente di te, avanspettacolo è fare tutte e due le cose, ma calandosi le brache» (chissà cosa direbbe il buon Luttazzi sul concetto di plagio, che ha finito per impastoiarlo non poco, ma questa è altra storia...). Bene, qui si vede che la parodia, che fa schizzare l’audience, le visualizzazioni su youTube, e che rallegra le giornate in ufficio con facebook e twitter aperti sotto i fogli di excel e i documenti di word (come una volta Topolino sotto la grammatica di greco), è un pensiero meraviglioso di risulta, perfetto per i tempi che scorrono. Fa sorridere, non impegna, è allegra e a breve scadenza. Il momento magico della parodia musicale, quella fatta con una canzone di moda il cui testo viene rimaneggiato, è una dichiarazione di impotenza virata sulla simpatia non dei sentimenti ma dei risentimenti. Ce ne sono certe davvero pessime, come Perdere il partito, quella dedicata a Gianfranco Fini: ascolti tutto il testo e non trovi rime se non casuali. Arte poca, malanimo tanto, e viene voglia perfino di rivalutare Mr.Tulliani, dopo aver riso distrattamente. Alla fine viene da dare ragione al gran tastierista e parodista degli Elii, Rocco Tanica: «Il centone e la parodia hanno un po’ rotto i coglioni. Se ne producono troppi, per un semplice motivo: sono semplici da realizzare, la canzone è già bella e pronta».
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Affari di cuore
a ritmo di danza sapendo quanto fosse difficile bissare la bontà danzereccia di Hercules & Love Affair. Con cautela, di Blue Songs, ha dichiarato: «È un album per certi versi più dolce. Che non rinuncia, però, a una sua aggressività». Poi, finalmente, si è sbilanciato: «Volevo progredire. Esplorare le mie capacità non solo attraverso la voce, ma utilizzando strumenti impensabili nel primo disco: un clarinetto, una chitarra acustica…». Appunto. Blue Songs è il colmo della danzabilità creativa. Senso del vintage + elettronica spinta. Luci stroboscopiche e suoni digitali. Discomusic? Certo che sì: ma impreziosita, in Painted Eyes, da giochi orchestrali e da un canto che ricorda il Jimmy Somerville dei Bronski Beat. E poi talmente rétro, in Falling, che sembra di riascoltare Sylvester. Ritmo. Ecco il sale di tutto il disco. Ritmo a tonnellate:
preciso come un metronomo, con l’elettronica che graffia e un’ombra di rhythm & blues (My House); funkeggiante (Answers Come In Dreams) e poi funk in Leonora (tale e quale ai Tom Tom Club: anni Ottanta, l’altra faccia dei Talking Heads) e techno, così, di botto (Visitor), e poi dance fuori registro (I Can’t Wait) e ancora dance, in Step Up, da far muovere il piedino a tempo. Ercole, i suoi affari di cuore, riesce perfino a renderli imprevedibili. Già, perché quando rallenta il ritmo ci sono chitarre acustiche in bellavista, un evanescente sussurro di fiati e una pastosa voce alla David Sylvian (Boy Blue); e c’è un abile tocco di calypso che si fonde coi virtuosismi di un clarinetto jazz (Blue Song). Alla fine, bastano un pianoforte e una voce per tratteggiare il candore di It’s Alright. E allora sì che si spengono le luci, si scende dal dancefloor e New York, là fuori, è un poetico tuffo al cuore. Hercules & Love Affair, Blue Songs, Moshi Moshi/Cooperative Music, 15,99 euro
L’Inno di Mameli da Wayne Shorter a Ahmad Jamal risi o non crisi, tagli più o meno importanti al Fus (Fondo unico per lo spettacolo), diversi festival hanno già annunciato parte dei loro programmi estivi. Il primo è stato Umbria Jazz che ha già comunicato che dall’8 al 17 luglio saranno presenti a Perugia alcuni ex musicisti di Miles Davis per un tributo al loro vecchio leader. Si tratta di Wayne Shorter, Herbie Hancock e Marcus Miller in esclusiva italiana il 9, Carlos Santana il 12 e BB King con Trombone Shorty il 16 che si esibiranno all’Arena Santa Giuliana. Ma altri nomi sono previsti in cartellone: un appuntamento imperdibile sarà quello con il pianista Ahmad Jamal, uno degli inventori della formula del trio pianistico moderno. Ad aprire la sua esibizione Hiromi Uehara, sua allieva prediletta, pianista giapponese che si era già esibita tempo fa al Blue Note di Milano. I ritmi carioca e caraibici saranno presenta-
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di Adriano Mazzoletti ti dal brasiliano Serro versione dell’Inno gio Mendes, dal domidi Mameli. L’altro nicano Michel Camilo grande festival, quello e dal cubano Chuco di Roma di Villa CarValdes, oltre a nuove pegna, giunto alla seproposte come la canconda edizione, protante olandese Caroliprio per festeggiare il na Esmeralda più co150° anniversario, nosciuta come Caro sarà dedicato interaEmerald, vero e promente al jazz italiano prio tormentone tra e alla canzone d’autogli spot pubblicitari. re, italiana naturalAhmad La presenza femminimente, rivisitata in Jamal le vedrà inoltre la canchiave jazzistica. Ma a tante di Chicago Dee rendere particolarAlexander, la clarinettista israeliana mente interessante il festival sarà una Anat Cohen e la sassofonista Tia Fuller. mostra, mai realizzata prima, dedicata Un omaggio al 150° anniversario dell’U- ai musicisti italiani di jazz, al jazz italianità d’Italia, Umbria Jazz lo chiederà ai no, ma anche, e soprattutto, al jazz in musicisti italiani che all’inizio di ogni Italia. Il jazz italiano per molti anni è loro concerto dovranno eseguire una lo- corso parallelo, o quasi, a quello ameri-
cano, con alcune diversità dovute alla storia socio-politica del nostro Paese, mentre da circa quindici ha raggiunto livelli di autonomia straordinari. La mostra seguirà un ordine cronologico che inizia nel 1904, quando nelle città dell’Italia del Nord Italia giunsero i primi musicisti di colore che faranno conoscere agli italiani dell’epoca le prime forme della musica nera. E coprirà oltre cento anni di jazz italiano raccontato attraverso foto d’epoca, manifesti, locandine, dipinti, copertine di dischi a 78, 45 e 33 giri, pubblicazioni specializzate, stampa quotidiana e periodica, supportate da filmati, da registrazioni anche inedite di celebri concerti ed esecuzioni di complessi e musicisti che illustrano le varie epoche del jazz italiano. Ancora ignota invece la programmazione, sempre a Roma, di Villa Celimontana e della Casa del Jazz che tace, inspiegabilmente, da oltre due mesi.
arti Mostre
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di Marco Vallora
crivo su Dio: conto su pochi lettori e ambisco a poche ambizioni. Se questi pensieri non piaceranno a nessuno non potranno che essere cattivi, ma se dovessero piacere a tutti, li considererei detestabili». Lo diceva Diderot, ed è così bella la citazione che si merita di rubare qualche riga alle nostre puntuali scempiaggini (sono stato appena inserito nella squadra dei «ferrivecchi longhiani», d’una critica che non serve più a nulla. Magnifico, e anche vero!). Figurarsi, poi, chi invece che di Dio scrive (della feccia) dell’arte. Eppure a quei 2,5 lettori che uno si merita pare diverta molto di più invece d’una monolitica recensione monografica, unica, una sorta di erratica, appunto, svariante divagazione, attraverso una mappa-ragnatela, ipotetica, di rapide occasioni, da non perdere (sempre per chi si fida, ovvio). Così a Roma, via da alcune occasioni maggiori, di cui poi magari ci occuperemo singolarmente, cadendo nella vecchia trappola della solfa monografica - per esempio la bella mostra, da Gagosian, del fotografo molto anglosassone-hollywoodiano Crewdson (per la prima volta a contatto con l’Europa fatiscente di Cinecittà, vista come fosco Sanctuary), senza dimenticare poi l’intelligente accoppiata neo-realista Paul Strand e Rosenblum (al Museo di Trastevere, sotto l’etichetta «corrispondenze elettive») e magari un salto veloce al Chiostro del Bramante per il Lagerfeld della fotografia (sempre meglio che non nella moda) e poi quella ghiottissima della moglie-fine secolo (e ge-
«S
Moda
Quando
Capogrossi s’ispirava a Morandi
niale amazzone d’immagini liberty) del dandy Scipione Borghese, a Palazzo Fontana di Trevi (come si vede, la fotografia è sempre protagonista) c’è di che godere. Usciti dall’altalenante mostra di Palazzo Farnese, con alcuni pezzi notevoli e didatticamente funzionali, ma non certo sufficientemente adeguati alla sontuosità del luogo (soprattutto se nel week end si riesce a penetrare nell’inaccessibile sancta santorum dello studio dell’ambasciatore di Francia, decorato dai Carracci, e che i comuni mortali extra-francesi possono abitualmente ammirare soltanto in occasione della consegna della Legion d’Onore ai nostri Migliori... a noi era capitato con Zeri e Alvar Gonzales-Palacios) ebbene, se ci si abbandona a una sorta di erratica «passeggiata romana», per rimanere in ambito stendhaliano, proprio svoltando in via di Monserrato, si presentano due occasioni gentili. Certo non due mostrone ambiziose, come il sempre utile Romac’è consiglia, con aulici voli pindarici d’intraducibile critichese, ma forse più remunerative. Presso la galleria Ricerca d’arte, via di Monserrato 121/a, che è davvero alla ricerca d’opere ragguardevoli di più o meno illustri «piccoli maestri», ecco un’accolita d’alcuni artisti primo-Novecento, raccolti intorno a «Villa Strohl Fern e dintorni» (alludendo alle case-studio disseminate dentro Villa Borghese - e anche qui, in certi giorni particolari della settimana, c’è la possibilità di visitarne ancora alcune, in miracolosa preservazione). Per fare qualche prelievo: un bel ritratto di Pasquarosa, la pittrice, realizzato nel 1929 del marito Nino Bertoletti (ma c’è pure un’opera della stessa, notevole Pasquarosa, modella analfabeta di Anticoli Corrado, diventata pittrice lei stessa, un po’ come la francese Suzanne Valadon, passata dalla po-
sa al cavalletto). E poi Katia Castellucci, un’incantata natura morta di Trombadori, un bellissimo mazzo di fiori di Capogrossi, quasi morandiano, di transito dal figurativo al quasi informale, prima d’accedere alle sue più celebrate forchette. Ma al proposito, allora, non si dimentichi di passare (anche perché è inevitabile, visto il labirintico percorso della Gnam), prima di accedere alla bella mostra sui Preraffaelliti e l’Italia (di cui poi), nel gran salone dove sono tornate a splendere, grazie alla curatela di Massimo Mininni e di altri studiosi, opere incredibilmente lasciate sin’ora a ronfare nei depositi. Magistrali: di Afro e Capogrossi, appunto (uno e due, prima cioè della cura segnica, quando egli era accanto al purismo contrastato e tonale, al «primordialismo plastico» di Cavalli e Melli) e poi tagli a volontà di Fontana e sacchi di Burri, monocromi di Manzoni e viaggi segnici di Novelli, ceramiche di Leoncillo e dettagli stregati di Gnoli (non al suo meglio, però) e poi soprattutto la quasi riscoperta d’un ottimo scultore dimenticato (salvo mostra a Milano, nel 2005) come Lorenzo Guerrini: «maestro cesellatore» passato al taglio crudo di voluminose pietre, dopo la scoperta parigina del cubismo e di Lipchitz. Un altro Guerrini, Giovanni, passato da Imola a Roma a inizio secolo, visionario-déco, lo troviamo invece ancora in via Monserrato, al 30, presso la sempre stimolante Galleria di Campo dei Fiori, specializzata in pittori a cavallo tra liberty e scuola di Via Cavour, reduce da una bella mostra sui Capricci romani di Balla. E anche qui, del parmense Amedeo Bocchi, si segnala almeno una felicissima veduta di Villa Strohl Fern, un divertente ritratto di Salvatore di Giacomo e una bella scultura di Ercole Drei.
Flexisexual... dove regna l’androgino na cosa è sicura. L’autunno-inverno della moda (le sfilate, maratona estenuante, sono finite il primo marzo) è flexisexual. Certo, è dura stare al passo con le definizioni che finora si erano esercitate sul territorio maschile (si è passati dal metrosexual - eterosessuale, metropolitano e curatissimo nell’aspetto all’ubersexual - virile, elegante e sicuro di sé - fino ad arrivare ai più moderni heteropolitan - uomini con un fisico da urlo e modi da bravo ragazzo. La flexisexual non è bisex, ma le piace baciare le ragazze, può essere iperfemminile, ma anche maschile, al limite dell’androgino. Questo scompigliare le carte si vede benissimo nella collezione di Dolce&Gabbana, trionfo della femmina/maschia che affianca all’armamentario consueto di pizzi e bustier anche cappotti e giacche alla David Bowie/Mick Jagger. Si vede in quella di Gucci, che elabora l’idea di seduttrice un po’hippy negli sfacciati abbinamenti di colori (il verde con il viola, il fucsia con l’arancio), decisa nelle scelte (i pantaloni a vita altissima e le gonne a
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Armani Woman 2011-12
di Roselina Salemi tulipano) ardita negli accostamenti (la pelle con lo chiffon) e nei mix spiazzanti. Questa donna è tutto e il suo contrario, può esprimere le molte identità che porta dentro di sé e, sul serio, non ha che da scegliere, tra il lusso selvaggio di Roberto Cavalli - ricami, veli, plissé e tacco 14 - e il rigore non più minimal di Prada, tra le cascate di paillettes fuxia e oro, le stampe animalier e il gotico dark di Philipp Plein, adorato non a caso da ambigue icone del nostro tempo come Mischa Barton e Peach Geldoff. Frankie Morello la sintetizza in un’uscita che non può davvero passare inosservata: gonna a ruota, rossa, in similvinile, abbinata a camicia bianca, giacca e cravatta. Una tentazione così c’è sempre stata, molto prima che qualcuno s’inventasse il flexisexual, ovvero il lento smottare dell’identità femminile verso sfumature poco afferrabili (Amica, in una delle ultime stagioni da settimanale aveva puntato il suo restyling sulla definizione «Uoma», che fece allora, abbastanza ridere), ma adesso la moda
non può che riflettere sul nuovo mercato della seduzione.Tutte a sedurre tutti. Tutte a portare l’abito come maschera e identità di riserva. Così, non sorprende che siano così tante le citazioni cinematografiche, la spy-noir di Emporio Armani (Delitto sul Nilo) occhialoni e aria misteriosa, la Nannarella di Marras, preziosa e concettuale, la rock chic di Ermanno Scervino, la scostumata di Krizia, maliziosa, anche troppo, la romantica di Bottega Veneta (presa di peso da Un uomo, una donna di Claude Lelouch, 1966), la stramba, colta e ironica signora di Vivienne Westwood che scova i pezzi migliori al mercatino di Portobello. Né sorprende che ci sia un revival di tutto, gli anni Cinquanta, i Sessanta, gli Ottanta, da soli o mescolati, una zeppa, un pantalone a zampa, un accenno a Florinda Bolkan o all’intramontabile Jackie. Non è come potrebbe sembrare, un minestrone: è la selezione accurata della contemporaneità nel passato, perché le femmine/maschie ci sono sempre state, variamente vestite e travestite, anche se non se ne vantavano.
Krizia Donna 2011-12
MobyDICK
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il paginone
Tutto cominciò con Pissarro che dalle Piccole Antille approdò a Parigi. Incontrò Monet e con lui formò la “prima tessera” del movimento. Ce lo racconta Irving Stone nel suo libro appassionante dedicato ai “ragazzi” che innovarono il XIX secolo, mentre domani a Roma si inaugura una mostra al Vittoriano l centro della storia c’è Camille. Un giovane che faceva il commesso nel grande magazzino del padre a Saint-Thomas nelle Piccole Antille. Quel ragazzo ebreo dipingeva il mare, la costa, i villaggi e sognava di andare a Parigi. A 25 anni si trasferì nella capitale francese e trovò casa a Montmartre con tutta la famiglia: era il 1855. Quel giovane si chiamava di cognome Pissarro ed è il protagonista di un libro tanto voluminoso quanto scorrevole e appassionante che racconta «il romanzo degli Impressionisti». S’intitola Vortici di gloria edito Corbaccio. L’autore è Irving Stone che lo ha pubblicato per la prima volta nel 1985, quattro anni prima di morire. Si tratta dell’ultima grande avventura di «un uomo di lettere», famoso per le sue affascinanti ricostruzioni storiche romanzate. Indimenticabili restano Il tormento e l’estasi, straordinaria biografia di Michelangelo, Brama di vivere e Le passioni della mente, rispettivamente il racconto
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della vita di Van Gogh e di Sigmund Freud.
Quando Camille arrivò a Parigi, la sua passione per la pittura lo portò subito sulle tracce dei grandi dell’epoca. Per primo visitò lo studio di Corot e di Courbet. Poi toccò a quello di Ingres e di Delacroix. Quest’ultimo gli raccontò la sua contesa con Ingres: «È convinto che io sia il distruttore dell’arte francese e che lui sia il guardiano della fortezza». E apprezzò i primi lavori di Camille: «Papa Corot ha ragione, sanno di autentico». Una promozione da parte dei «mostri sacri» era molto, ma il ragazzo delle Antille, che poi diventerà per tutti anno IV - numero 9 - pagina VIII
«il visionario riflessivo», non aveva bisogno solo di un generico avallo, voleva capire quanto valeva davvero. Si trasferì a una quindicina di chilometri da Parigi e cominciò a dipingere paesaggi con grande impegno.
Decise di frequentare l’Accademie Suisse dove aveva studiato gente come Corot. I vecchi maestri lo apprezzavano e lo tenevano con loro. Mentre cresceva come artista, fece l’incontro più importante della sua vita: quello con Julie che resterà per sempre la sua comnpagna. Corot lo consigliava: se ami una donna, fai in modo che diventi la tua amante, ti darà maggiore stabilità, ma non la sposare. Fra Camille e Julie nacque un grande amore: il loro era un autentico delirio sessuale, «un rapporto che attraversava la passione e raggiungeva l’ebbrezza, une gaieté du coeur, un cri d’allegresse, una prodigalità dei sensi che conferiva alle loro vite, separatamente e insieme, una nuova dimensione di
Chi ha paura degli IMPRESSIONIS di Gabriella Mecucci
Al Salon des Refusés frotte di visitatori si scagliarono contro “Le déjeneur sur l’herbe” di Manet. Quella denigrazione non era altro che timore di fronte a una nuova sfida, a un’esuberanza che spaventava bontà e rettitudine nel loro piccolo mondo». Mentre vibrava una passione spumeggiante, Camille conobbe un giovane pittore che formerà con lui la «prima tessera» del movimento impressionista, Claude Monet di Le Havre, tanto geniale per quanto povero in canna. Poi toccò a Paul Cézanne e a Edouard Manet, mondano, elegante, ricco. Che giornate fan-
tastiche passate fra il Cafè Guerbois e il Cafè de Nouvelle Athènes, le esposizioni dei Saloni ufficiali, le discussioni sull’arte alla Suisse, le grandi bevute con gli amici e le donne: tutte belle, allegre, pazze d’amore per quegli artisti. Julie faceva un figlio dietro l’altro e i soldi erano pochi. C’erano per fortuna di tutti loro gli inviti di Corot a Fontainebleau
dove si mangiava bene e si dipingevano paesaggi sotto l’occhio attento e critico del vecchio maestro.
Si arrivò così al 1863 quando il gruppo composto da Monet, Manet, Pissarro, Cèzanne e altri fu in blocco non ammesso al Salon de Beaux Arts. I loro quadri vennero tutti respinti con la R di refusé. Eppure in
mezzo a quei dipinti ce n’erano alcuni che avrebbero segnato la storia dell’arte: basti per tutti l’esempio di Le déjeneur sur l’herbe. Un giovanissimo Baudelaire, allora oltre che poeta agli inizi, anche critico, aveva lanciato l’allarme: il rischio per quegli artisti innovatori era di essere espulsi in blocco dalla grande mostra. E così andò. Il nostro gruppo di amici-pittori d’avanguardia si organizzò, protestò, esercitò pressioni sino a quando l’imperatore Napoleone III in persona li fece riammettere. Ne venne fuori quello che fu definito il Salon des Refusés. All’inizio, una gran folla sembrò garantire uno straordina-
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STI?
Dalla Scuola di Barbizon alle Ninfee
rio trionfo, ma quasi subito si capì invece che il fiasco era in agguato. Le frotte di visitatori dettero vita a scene di «linciaggio». Le più insopportabili accaddero davanti a Le déjeneur sur l’herbe di Manet. La gente strillava: «Sono prostitute... Il pittore è pazzo… È immorale… Ci pigliano in giro. Dovrebbe essere fatto a pezzi. Nessuna meraviglia che sia stato rifiutato». Commenti simili alla Ragazza in bianco di Whistler. Irving Stone spiega che «l’esplosione di irrisione non era perché il quadro fosse profano… C’era una nota più profonda e sinistra nella ridicola e irriverente denigrazione. Paura. Non paura dell’immoralità, ma di una sfida a tutto ciò che conoscevano e accettavano nella pittura». E a poco servì che un giovane Emile Zola promuovesse la mostra nel suo insieme: «Vi è abbastanza verità e sincerità nei paesaggi e qualità sufficienti di tecnica nella maggior parte dei quadri da conferire un’atmosfera salutare di passione e vigore giovanile». Erano proprio le novità
entre al Castel Sismondo di Rimini si sta per cocludere la mostra Parigi. Gli anni meravigliosi. Impressionismo contro Salon, che ripercorre anno dopo anno la produzione artistica del Salon di Parigi e degli Impressionisti francesi, con opere realizzate da Ingres, Bonnat, Bouguereau, Gerome, Couture affiancate a quelle dei più famosi colleghi Cézanne, Monet, Bazille, Renoir, Degas, Van Gogh, Gauguin, al Complesso del Vittoriano di Roma si apre domani Da Corot a Monet. La sinfonia della natura. Saranno esposte più di 170 opere che ripercorrono l’intero percorso evolutivo degli Impressionisti nel rappresentare la natura e il paesaggio, partendo dalle prime innovazioni dei pittori della Scuola di Barbizon per arrivare al trionfo cromatico delle Ninfee di Monet. Organizzata grazie alla collaborazione con prestigiose collezioni private e i maggiori musei di tutto il mondo (tra cui l’Art Institute di Chicago, il Metropolitan Museum di NewYork, la National Gallery di Washington, la Bibliotheque Nationale de France di Parigi e il Museo Ermitage di San Pietroburgo), resterà aperta fino al 29 giugno.
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Sopra, “Le déjeuner sur l’herbe” di Édouard Manet (a destra un suo autoritrato). Nell’altra pagina, un autoritratto e un’opera di Camille Pissarro e Claude Monet pittoriche, quell’esuberanza di chi vuol mettere in discussione il passato, che il pubblico non sopportava. Ancora nessuno aveva usato il termine Impressionisti, ma già era scattato l’odio contro quel tipo di innovazione. A quel Salon dell’infamia, seguirono insulti, isolamento, miseria: vendere quadri era pressoché impossibile. Ma il gruppo cresceva in numero e qualità: si erano aggiunti prima Renoir e poi Degas. Come se non bastasse, le vicende storiche portarono catastrofi a quella che un tempo era stata l’allegra compagnia: la guerra franco-prussiana comportò la messa fuori uso delle abitazioni di alcuni fra loro. Per non parlare della vendita dei quadri: sempre più rara, sempre meno pagata. Camille si era ridotto a lasciare le sue tele al negozio di colori, per averne in cambio la materia prima per dipingere. E la vita dei giovani innovatori diventati ormai più che quarantenni si riempiva di malattie, della scomparsa di persone care, di preoccupazioni famigliari.
Le serate della bohème parigina fatte di appassionate discussioni e da fiumi di alcol non erano più frequenti e gioiose come un tempo. La brigata andava sempre meno spesso in campagna a dipingere. Si avvicinava però a grandi passi un’altra data storica che avrebbe segnato la vita di Camille e degli altri: l’anno 1874, quando per la prima volta il nuovo stile pittorico trovò nome e cognome. I critici lo chiamarono Impressionismo. All’inizio quel termine venne utilizzato con tono di disprezzo. Degas si lamentò: «È un trattamento indegno, uno screditarci. Un mezzo per colpirci». Ma una sera, tutti riuniti intorno al tavolo del solito caffè decisero che dovevano accettare quella definizione. A coinvincerli fu Camille Pissarro. «Non è questo - disse a cui ci dedichiamo, dipingere le nostre impressioni? In quale altro modo ci esprimiamo? Corot, la prima volta che fui accompagnato nel suo studio, mi disse che l’ispirazione poetica era nei boschi e che dovevo dipingere l’impressione di ciò che vedevo mediata dai miei sentimenti. Siamo tutti Impressionisti? Benissimo. Portiamo il nome come un distintivo onorofico». Il gruppo si convinse e, accettando la linea di Pissarro, si preparò a «incassare» un importante risultato positivo: capovolgere il significato sprezzante della definizione anche grazie alla capacità di stabilire una qualche continuità con un mostro sacro qual era Corot. Il primo Salone degli Impressionisti rappresentò un importantissimo successo sul piano dei visitatori, ma vendite poche o nulle e i soldi rimanevano l’eterna dannazione di quei pittori ormai non più ragazzi, ma uomini maturi con tanto di famiglia.
Il tempo passava e ai «soci fondatori» si unirono altri artisti. Toccò a Paul Gaugin, ricco speculatore di Borsa. Prima fu semplicemente un acquirente delle opere degli Impressionisti: pieno di soldi come era, li pagava bene facendo la felicità del fortunato autore.Voleva però dipingere anche lui e abbandonare l’alta finanza: un tormento che andò avanti per anni e anni. Ma alla fine vinse la passione per l’arte. Del resto Camille, suo grande amico, glielo aveva detto da subito: «Sei nato per dipingere». Più avanti ci fu l’incontro con i fratelli Van Gogh,Teo e Vincent. Il primo era un mercante di successo e vendette i quadri dell’intero gruppo. Il secondo era un genio folle che aveva un rapporto particolarmente intenso con Pissarro: «Posso venire nel suo studio, a imparare dai suoi lavori?», gli chiese poco dopo averlo conosciuto. Nel frattempo Camille, il «visionario riflessivo», si era allontanato dall’Impressionismo e aveva aderito al Puntinismo. Vincent voleva avvicinarsi a en-
trambe le tecniche. Andò in giro per la Francia a trovare la sua campagna. Si stabilì ad Arles, con lui c’era Gaugin. I due erano profondamente diversi fra loro e il loro rapporto non era certo semplice: Van Gogh animato da una profonda religiosità, con una vita breve e interamente votata all’arte, capace di lavorare senza interruzione per giorni e notti. L’altro - come si è detto - di tutt’altra tempra. Il secondo punzecchiava in continuazione il primo procurandogli crisi e attacchi d’ira. Mentre il gruppo degli Impressionisti non era più tale: lontane le scampagnate con cavalletto e pennello, distanti anche le mostre organizzate tutti insieme, scoppiava a Parigi la terribile temperie dell’antisemitismo intorno al caso Dreyfuss. Camille Pissarro, l’unico ebreo del gruppo, ne fu sconvolto. E frequentò in quel periodo assai assiduamente Emile Zola quando scriveva il suo celebre J’accuse. Ormai, dopo tante difficoltà e stenti, era arrivata per tutti l’affermazione e il danaro: persino Cézanne - quello che aveva faticato di più - vendeva bene. Eppure da vecchi bohèmienne quali erano non furono mai del tutto «sistemati» e tranquilli. Ci fu sempre un’altalena nelle loro condizioni economiche.
Parigi, superato l’affaire Dreyfuss col reintegro dell’ufficiale nell’esercito, si praparava all’Esposizione Universale del 1900. Il mercante d’arte Durand Ruel progettò di fare in quella sede una grande mostra dell’Impressionismo. Ci mise i quadri più importanti per ricostruire la storia del movimento ormai universalmente riconosciuto, a partire da quelli del Salon des Refués, tanto bistrattati all’epoca. Il gruppo dei ragazzi ormai sessantenni ne usciva da vero protagonista. Erano stati fra i più grandi innovatori del Diciannovesimo secolo. Il romanzo di Irving Ston termina con Camille Pissarro che rientra in casa sua, dopo aver ammirato l’Esposizione Universale. Dalla finestra di Rue de Rivoli guarda Parigi e ricorda la storia della sua vita e di quella dell’intero gruppo. Gli passano davanti agli occhi malati i decenni di miseria e di lotta con i confratelli Impressionisti, pensa che «dopo tutto il Ventesimo secolo poteva essere loro». E fu così. Parigi ormai capitale dell’arte, li celebrò. La loro rivoluzione era stata grande: conteneva la riscoperta della pittura del paesaggio, il mito dell’artista ribelle, la centralità del soggetto che guarda, l’amore per il colore. Un’arte la loro che era diventata anche un modo di vivere. La città che li aveva ospitati era assurta a mito. E il racconto dei loro amori, delle loro follie, delle loro liti, delle loro traversie, dei loro cocenti dolori era materia per uno struggente romanzo.
Narrativa
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Miracolo
iracoli narrativi sotto le macerie potrebbe essere il sottotitolo del quarto romanzo di Giuseppe Lupo, L’ultima sposa di Palmira. Un sottotitolo non solo allusivo della tematica centrale del romanzo, il terremoto Irpino del 1980, ma metaletterario, dove la letteratura è quella che si produce senza sosta sotto le macerie che celano spoglie, suppellettili e a volte ancora una debole vita. Scava lo scrittore per tirar fuori un complesso e intricato patrimonio di storie, di micro racconti, agganciati alle pietre di un luogo, Palmira, che non esiste sulle carte geografiche. Ancora un moderno Decamerone, in cui l’oralità e la fantasia si incrociano con la cronaca brutale della realtà. Ecco quindi un primo elemento di un romanzo binario: la forza creatrice della letteratura. Certo perché la storia narrata da Lupo, che è docente di letteratura italiana all’Università Cattolica di Milano, è una storia dove la distruzione e la morte producono continuamente vita, una vita che si confonde a volte con la fantasia e che vede fantasmi, crea e ri-
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Giuseppe Lupo L’ULTIMA SPOSA DI PALMIRA Marsilio, 171 pagine, 18,00 euro
tra le macerie
crea miti in continuazione. La struttura binaria è il calco di due livelli narrativi (tutto è gemmato in questo florido e apparentemente caotico testo): il primo è quello reale (il presente), il terremoto narrato in prima persona da una giovane antropologa milanese con un serrato diario giornaliero che parte il 25 novembre 1980, e chiude dopo un anno circa. Il secondo livello narrativo è quello della fabula (il passato), storie in terza persona senza tempo e luogo, o meglio in uno spazio-tempo sospeso, immaginifico, che ricostruisce il mito di Palmira, la città fondatrice. I protagonisti di questo diario da una parte drammatico, dall’altro aereo, sono la giovane an-
Riletture
La forza creatrice della letteratura e la devastazione del terremoto in Irpinia nel romanzo di Giuseppe Lupo: un moderno Decamerone di Maria Pia Ammirati
libri
tropologa e il nume del luogo, il falegname Gerusalemme. Una giovane scienziata che arriva in Meridione, con il suo carico di malessere cittadino, per andare a scoprire cosa succede a «chi ha perso la casa o piange un parente sotto le macerie». Un anziano artigiano «che pareva un re magio che ha dimenticato il dono da consegnare alla capanna di Betlemme», ostinato a finire il corredo dell’ultima sposa di Palmira, prima di abbandonare le zone terremotate. Tra i due personaggi un dialogo serrato, un rapporto d’emergenza, d’amore, di complicità che serve a entrambi per far comunicare mondi diversi e lontani. L’arcaismo dei luoghi, l’oralità popolare, la razionalità dello studio, tutto si incontra nella fantastica Palmira, spazio magico e irreale che non sarebbe dispiaciuto trovare nel novero delle Città di Italo Calvino, dove lo scavo del terremoto si fonde con lo scavo profondo delle origini di una sorta di culla della cultura mediterranea. A contrasto tra corpi mutilati ed enfiati che giacciono sotto le pietre, mastro Gerusalemme tira fuori le mille storie della fondazione di Palmira, una storia che comincia con il Patriarca Maggiore «arrivato da Oriente sotto la collina di Trivento… aveva tracciato le linee di un villaggio… così era nata Palmira», che sposa tante donne da cui avere una ricca progenie - «i figli di Patriarca… ammontavano in tutto a quaranta» - con la quale popolare una città intitolata a una donna mai dimenticata. Lo scavo, tema centrale di questo denso romanzo, archetipo letterario, allude costantemente al mondo dei morti, siano essi quelli brutalizzati dall’orrore dell’evento imprevisto, della catastrofe, siano quelli inventati dalla fantasia popolare: l’ultima sposa di Palmira, esiste davvero? O è solo, e per sempre, l’ultima testimone della città dei morti? «In certi momenti non sono sicura che Rosa Consilio esista veramente. Temo sia un’invenzione di mastro Gerusalemme per non cedere al demonio che questo inverno si è infilato tra le case per rubarsi l’anima. A volte mi chiedo se Palmira sia stata davvero abitata dai sogni… qui non ci sono trucchi, solo morti che aspettano di essere cercati».
Isherwood e Bergmann “anarchici” del cinema uesto è un esempio di come si può costruire un romanzo breve senza l’appiglio di quel vago, e sempre discutibile, concetto di avventura. È essenziale ovviamente che lo scrittore sia un grande scrittore, capace di muoversi disinvoltamente e in profondità. Christopher Isherwood (1904-1986), tra i massimi della letteratura della Gran Bretagna, è splendida garanzia. L’Adelphi ripropone (dopo Un uomo solo e Viaggio in una guerra) La violetta del Prater, perseguendo un programma editoriale che sfila ad altri editori occasioni meravigliose (e da essi stessi perse) che riguardano le migliori pagine del Novecento. Isherwood - che è stato amico intimo di W.H. Auden - parla in prima persona. Incontra a Londra il nevrotico, istrionico e geniale regista viennese Friederich Bergmann, che si definisce «un vecchio Socrate ebreo». Questi, abbandonata la Germania dell’incendio del Reichstag, è intenzionato ad affidare al narratore la sceneggiatura dell’operetta che dà il titolo al libro. Il lavoro dell’uno e dell’altro sarà costellato da alti e bassi: non solo contrasti sul tema, ma anche caratteriali e culturali. Il problema, cui tutto alla fine
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di Pier Mario Fasanotti si riconduce, è il cinema: «…è una macchina infernale; una volta accesa e messa in moto gira con una dinamica irresistibile. Non può fermarsi. Non può chiedere scusa. Non può ritrattare più nulla. Non può attendere che si comprenda. Non può spiegarsi. Ma semplicemente matura verso la sua inevitabile esplosione. E questa esplosione noi dobbiamo prepararla, come anarchici, con la massima ingegnosità e malizia». Sinceramente a me pare che questa sia la più brillante ed esatta definizione del cinema. Durante la conversazione, a volte ironica a volte spigolosa, tra regista e narratore, emergono altri temi: apparentemente indiretti, in realtà sostanziali. Per esempio la dignitosa superiorità dell’Inghilterra nei confronti della crescente barbarie nazista. Un esempio risulta illuminante. La civiltà britannica, che sarà il baluardo della resistenza a Hitler e ai suoi folli collaboratori («tutti da comprendere prima ancora di condannarli») è riassunta dall’ombrello, oggetto così caro agli inglesi. È il simbolo della rispettabilità britannica, che pensa: «Ho le mie
L’incontro del narratore inglese col regista austriaco nella “Violetta del Prater”
tradizioni e queste mi proteggeranno. Nulla di sgradevole, di men che corretto può accadere nella cerchia del mio privato». Isherwood fa dire ancora al regista: «Questo rispettabile ombrello è la bacchetta magica con la quale l’inglese cercherà di fare scomparire Hitler. Quando poi Hitler rifiuterà di scomparire, allora l’inglese aprirà il suo ombrello e dirà: “Dopo tutto, che può farmi un po’ di pioggia?”. Ma la pioggia sarà una bomba di pioggia e di sangue. L’ombrello non è a prova di bomba». Il narratore ribatte, saggiamente: «Non sottovaluti l’ombrello». A questo punto occorre precisare che il romanzo di Isherwood è stato scritto nel 1945, al termine del grande orrore mondiale, ma le vicende in esso narrate sono di almeno dieci anni prima. Datata anche La violetta del Prater, operetta che risale a prima della guerra 1914-1918, tempo di valzer, di stranezze da fiera, di zingare, di ragazzi con la fisarmonica. Il testo tuttavia va «calato» nell’inquietante attesa del peggio. Scatta la profezia: «Stiamo morendo con le teste nello stesso forno». Ci sono poi paragrafi dedicati alla donna: «La donna quando sia riuscita ad avere l’uomo che vuole, diventa un essere sbalorditivo, stupefacente… l’amore è come l’interno di una miniera». Quanti spunti in poche pagine.
Meditazioni MobyDICK
er secoli la cella è stata ed è ancora questo per ogni monaco d’Oriente e d’Occidente: il luogo in cui il monaco impara ad habitare secum, ad abitare con se stesso, in cui cerca Dio nella solitudine e nel silenzio, in cui si impegna e si esercita a lottare contro le pulsioni malvagie che lo abitano e in cui si addestra alla comunione con gli uomini tutti». Si può osservare il mondo dallo stretto perimetro di una cella? Osservarlo amorevolmente, e conoscerlo, viverne intensamente le forme e ricomporne la memoria con tono accorato, struggente, e non solo la memoria delle persone irrimediabilmente perdute, ma quella dei luoghi e delle correnti di vita che li attraversano. È quello che fa Enzo Bianchi, priore della Comunità di Bose, una delle voci più alte del cattolicesimo contemporaneo, in un libro straordinario (Ogni cosa ha la sua stagione, edito da Einaudi), capace di rianimare gli angoli di un mondo remoto che ci è ormai alle spalle, quello delle colline del Monferrato e dei suoi paesi nel corso del dopoguerra, in bilico su una vertiginosa trasformazione che ne cambierà, per sempre, le consuetudini.
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Dico subito che non mi pare sia la nostalgia a muovere Enzo Bianchi alla scrittura, o perlomeno non è soltanto la nostalgia. La sua voce sommessa, talvolta quasi sussurrata, sempre morbida, è anche nitida e forte, e non si piega sul passato perdendosi in esso nell’impossibile desiderio di riafferrarlo. Il monaco è un conoscitore di passioni umane. La millenaria tradizione cui appartiene gli ha consegnato cataloghi accurati, mappe analitiche dei flussi dell’anima e delle intermittenze del cuore. Sa dunque che la nostalgia è un veleno sottile e corrosivo, e uno specchio deformante in cui le immagini evocate possono trarre in inganno. Aprendo un precedente libro (Il pane di ieri, uscito da Einaudi nel 2008) assai vicino a quello di cui stiamo parlando, Enzo Bianchi avverte il suo lettore: «Difficile operazione ricordare, rileggere e raccontare il proprio passato, il mondo di ieri nel quale abbiamo vissuto. Operazione in cui si corre non solo e non tanto il rischio della nostalgia, quanto quello di rendere idilliaco ciò che in realtà non lo era affatto». C’è poi un altro rischio che si corre seguendo la catena dei ricordi a occhi chiusi: ci si può affacciare pericolosamente sul bara-
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La memoria riconoscente
Dalla sua cella al Monastero di Bose, il luogo in cui “habitare secum”, Enzo Bianchi abbraccia il mondo e in un libro guarda al passato per meglio decifrare il presente. Ricordi di luoghi e persone, di flussi dell’anima e intermittenze del cuore ripercorsi senza nostalgia e sempre sostenuti dall’amore per il prossimo di Maurizio Ciampa tro della Malinconia. E la Malinconia è un morbo dell’anima che il monaco conosce. La cella che abita può trasformarsi in un covo di fantasmi della mente, se non diventa il luogo di una lotta, di un tenace combattimento spirituale. Ma il movimento geometrico della scrittura di Enzo Bianchi procede oltre, come se guardasse in un’altra direzione. Dove? Forse non è immediatamente riconoscibile, ma al fondo del «ricordare» di Ogni cosa alla sua stagione risuona una domanda sull’oggi, su come oggi tutti noi viviamo, su quello che abbiamo perduto e sulle menomazioni di cui soffriamo, la «nuova povertà» dei nostri sensi e delle nostre esperienze. Nessun ripiegamento dunque, ma uno sguardo terso e fermo, dove il «passato» consente di decifrare il «presente». Il libro di Enzo Bianchi non si rifugia nel guscio della Nostalgia, e tantomeno indulge in consi-
derazioni malinconiche. Certo vi si legge la pressione dell’inquietudine per la vecchiaia che s’avvicina. Affiora nella domanda che sostiene l’intero sviluppo del libro: «Che ne è dei miei giorni?».
Ma questa inquietudine viene consapevolmente assunta, per quanto possa ferire, diventando una modalità d’attenzione, «una nuova forma di vivere». La vecchiaia - dice Enzo Bianchi - può anche essere «un’ora bella», un’ora, un tempo in cui non viene meno, ma si rafforza e si moltiplica la «capacità di stupore». E lo stupore è anche del lettore di questo libro prezioso, stupore per le pagine bellissime che gli capita di attraversare. Pagine e indimenticabili figure umane: la «selvatica» Teresina del Muchet, il «burbero» Pinen, il padre di Enzo Bianchi, Cocco ed Etta, la postina e la maestra del piccolo paese, che si fecero carico, con sacrificio personale, della sua educazione, e i ragazzi, gli amici dell’infanzia e dell’adolescenza, Bertino, Nanni, Roberto, perduti e ritrovati nell’arco fugace di questo libro. Poi c’è la vita del pae-
se, vita durissima, «grama», implacabile nei suoi ritmi, distorta dalle privazioni. Ci sono le stagioni e c’è la terra che domina la vita, la sovrasta, ma anche la protegge, la custodisce. Una sottile trama di elementi diversi in cui la memoria dell’autore s’incunea con grazia, memoria amorevole che accarezza con gesti delicatissimi le persone che hanno accompagnato la sua vicenda segnandola. In Ogni cosa ha la sua stagione la memoria prende talvolta la forma inusitata del ringraziamento. Ad esempio verso gli amici: «Quel che io sono stato con loro, lo sono ancora oggi e vorrei che nulla andasse perduto della nostra amicizia, del nostro essere cresciuti insieme: anche a Bertino, Nanni e Roberto sono profondamente grato per quello che hanno rappresentato nella mia vita perché nessuno cresce e si fa uomo da solo». Giunti quasi alla fine dell’itinerario di questo libro si capisce che cosa lo ha mosso e di quale materia sono intessuti i ricordi di Enzo Bianchi: di amore verso gli altri. Enzo Bianchi scrive per amore verso chi ha attraversato la sua vita, per restituire l’amore ricevuto e conservarne la traccia. Questo rende così vive le linee dei ritratti che il libro compone: il legame, la relazione d’amore, ora mediata dalla memoria, ma non per questa indebolita. Non solo amore verso gli umani, ma verso la terra e il tempo che la rivela: «Ogni cosa alla sua stagione». Non vorrei dimenticare che questo libro è il libro di un cristiano. E, in qualche modo, può accadere di dimenticarlo: le pagine sulla tavola, quelle sulle stagioni, l’«elogio del vino» e la sapienza con cui Enzo Bianchi guarda alla terra, possono far pensare a una diversa attenzione. Mi pare di poter dire che sarebbe un errore. Il cristianesimo di Enzo Bianchi e della sua comunità è fatto di questi elementi, è fatto di tempo, di uomini, è fatto della terra che i monaci lavorano e della convivialità e della fraternità di cui sono capaci. E l’amore verso gli altri che, per intero, attraversa il libro, l’amore che alimenta il ricordo e lo sostiene, nasce - non va dimenticato - nella cella di un monastero, che non è un luogo chiuso se consente di abbracciare il mondo.
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l percorso teatrale di Valter Malosti sotto la lente d’ingrandimento delle monografie di scena del TeatroValle fino al 9 marzo. L’emozione e il corpo dell’attore sono gli strumenti chiave di una ricerca teatrale personalissima che non lascia nulla al caso. Imprevedibile nelle scelte dei testi, che spaziano dai classici ai contemporanei, con una spiccata predilezione per le primizie, funambolico negli adattamenti, vertiginosamente attratto dalla musica e dalle arti visive, rigorosissimo nelle regie, lui stesso interprete carismatico, ha collezionato negli anni una pioggia di premi davvero notevole. Ancora fino a domani sarà possibile assistere a La scuola delle mogli di Molière nella traduzione e adattamento dello stesso Malosti. Ecco, lo spettacolo parte proprio da qui: una volta di più il direttore artistico della compagnia Teatro di Dioniso traccia e rintraccia un ritmo indiavolato che va oltre il dire. Uno spettacolo fremente, rapido, guizzante per partitura vocale. Un travolgente castello di parole, un fiume in piena, un ribollire di preziosità linguistiche, tanto più affascinanti quanto più impertinenti, affastellate in ibrida successione («È la scelta migliore come moglie/ me la giro secondo le mie voglie» e ancora «Agnès, ascolta, lascia il bricolage e volta il tuo bel visage» oppure «L’inferno ha calderoni bollenti per buttarci le mogli delinquenti»). Il tutto veicolato da una fulgida interpretazione capocomicale, doppiato da un incalzante commento musicale pressoché sovrapposto, che spazia in totale onnivora libertà: da quelle originali di Carlo Boccadoro a Gaber, Puccini, Lennon, Mizutani, Piaf, Verdi, Lynch, Morricone… Carmelo Giammello firma
I
Teatro
MobyDICK
Monografia di un istrione di Enrica Rosso
spettacoli
una scena surreale, con tanto di cervo impagliato a latere, di bell’impatto visivo, costringendo gli interpreti (tutti ben assestati nei loro ruoli) a una circolarità interrotta solo dalla rossa casa carillon in cui è rinchiusa la bella Agnès; una scatola magica che si apre a comando e che svela atmosfere altre. Costumi giocosi di Federica Genovesi. Gli appuntamenti che seguono, ripropongono spettacoli meno recenti, ma tutti ugualmente importanti. Il 7 marzo doppia dedica a Giovanni Testori con due atti unici: il primo andato in scena nel 2008 e adattato dal romanzo Passio Laetitiae et Felicitatis, interpretato da Laura Marinoni e Silvia Altrui impegnate a restituire il flusso impervio della scrittura di Testori, con la sorpresa finale di un capitolo inedito scoperto nell’archivio dedicato all’autore dall’inarrestabile Malosti. Nella medesima serata si proseguirà con Maddalene da Giotto a Bacon, un progetto di e con Malosti; un materiale poetico notevole (schede-versicoli, così le definiva l’autore lombardo), accompagnato dal violoncellista Lamberto Curtoni. L’8 marzo omaggio a Fellini con Giulietta vox nell’adattamento di Vitaliano Trevisan, reading del pluripremiato spettacolo datato 2004, protagonista Michela Cescon, abile esecutrice di una partitura tesa a restituire una sognante Giulietta. Il 9 ultima data della monografia del regista torinese, si chiude in bellezza con un’operina musicale del 2007: il pregevolissimo Shakespeare Venere e Adone con il danzatore Yuri Ferrero nel ruolo di Adone e un memorabile Malosti in quello della capricciosa dea dell’amore. Un’altra sfida tra strumenti acustici e voce immersa in un magnifico, ricchissimo, delirio sensibile.
Monografia Valter Malosti, Roma, Teatro Valle fino al 9 marzo, info: www.teatrovalle.it - tel.06 68803794
Televisione
DVD
DIRITTO DI ASILO IN UN PAESE MIGLIORE i intitola Sotto il Celio azzurro, il documentario che il bravo regista Edoardo Winspeare (Sangue vivo, Il miracolo, Galantuomini) dedica a quattro esemplari maestri d’asilo italiani. In una piccola scuola materna nel cuore di Roma, il quartetto di insegnanti si prende cura di 45 bambini di 23 Paesi diversi con grande amore per il proprio mestiere e grande capacità di resistenza alle mille difficoltà quotidiane. Senza piagnistei, né facili deduzioni ideologiche, Winspeare tratteggia l’elegante ritratto di quattro educatori umili e silenziosi, testimoni di un’Italia migliore.
S
PERSONAGGI
MOBY CONTRO LE MAJOR: TRATTANO MALE LA MUSICA rima i Radiohead che mettono in vendita il nuovo album a sette dollari, poi Moby. La schiera di star che denunciano lo strapotere delle major si accresce ogni giorno. Il noto compositore newyorkese, padre di ricchissime hit come Why Does My Heart Feel So Bad? non ha usato perifrasi di fronte agli studenti dell’Università della California. «Penso davvero che, come istituzione, la maggior parte delle major dovrebbe proprio morire», ha detto l’artista nel corso di una conferenza. «Hanno trattato male la musica», ha spiegato, «e perciò o si reinventano o muoiono serenamente».
P
di Francesco Lo Dico
Bookstore: troppo poco pathos, Monsieur Elkann che serve? A non molto se continua a essere condotta così. Mi riferisco alla trasmissione Bookstore (su La 7, sabato ore 9,55) condotta da Alain Elkann con il suo consueto eloquio stile Fiat-international e lo spontaneissimo controllo di un pathos che invece, parlando di libri e dei temi che dai libri derivano, dovrebbe proprio manifestarsi. Certo, l’intenzione è nobile. Il percorso è accidentato, come sappiamo da decenni di vera o pseudo divulgazione culturale. Quindi dobbiamo concedere a tutti i conduttori una scusa. Elkann tuttavia non ha il polso e l’arguzia che aveva Corrado Augias in Babele (peccato che non esista più). Il contorno scenico è sobriamente moderno. Il meccanismo è consumato, e scivola nella pigrizia e nell’automatismo programmatori. Si invita un gruppetto di scrittori, i cui ultimi romanzi o saggi sono stati appena pubblicati, e con loro si avvia il discorso partendo dalle opere di ciascuno di loro. C’è Antonio Pennacchi di cui Mondadori ha
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di Pier Mario Fasanotti edito il suo primo romanzo (Mammut), storia all’interno di una fabbrica. C’è Aurelio Picca (Se la fortuna è nostra, Rizzoli), trascrizione e reinvenzione dell’affabulazione del nonno contadino. C’è Giorgio Ficara, critico e saggista, che presenta il romanzo Riviere (Einaudi), vicenda su sfondo ligure. C’è Alessia Gazzola, autrice di L’allieva (Longanesi), giallo medico legale molto apprezzato dai lettori. Pronti e via. Ma Elkann, in omaggio all’attualità, apre il collegamento con New York dove Riccardo Viale, direttore dell’Istituto di cultura italiano, riferisce di un convegno su Montale tradotto negli States. Apprezzabile, ma che c’entra? E soprattutto: perché spendere tempo sulla quantità (esigua) di scrittori italiani in America? Elkann prende a prestito la secchezza inquisitoria di Enzo Biagi e chiede: «Ma lei fa qualcosa?». Già, come se uno come Viale avesse l’incarico di proporre testi da far tradurre. Li fa conoscere e basta. Comun-
que vien fuori una notizia, ossia che a Manhattan ci sarà dal prossimo autunno una riedizione sui generis del Salone del libro di Torino. Domandina qui e domandina là, alla fine spunta il problema dell’identità
nazionale in riferimento alla lingua e alla letteratura. Per fortuna, a dare un po’ di colorito all’algido Elkann ci pensa il sanguigno Pennacchi, il quale, a chiare lettere, sostiene che tra letterati e popolo c’è sempre stato uno iato spaventoso. Ficara obietta, Picca spiega se stesso, Gazzola si limita a elogiare i romanzi inglesi. Pennacchi insiste: i capolavori letterari popolari sono pochissimi in Italia. Ma non si va a fondo dell’argomento, anche perché c’è il collegamento con Bologna dove Philippe Daverio - ecco uno che sa divulgare! - ci informa della nuova destinazione del palazzo Fava, oggi spazio espositivo di notevole importanza. Ringraziamo. Ma riprendere il filo del discorso è difficile. Anche per un funambolo. In ogni caso qualcosa di interessante sbuca fuori. Elkann, credo per cortesia, cerca di coinvolgere Alessia Gazzola. Ma le fa solo un dispetto: la giovane giallista era meglio invitarla in un altro contesto. Questa è la differenza tra scaffale e temi che ci sono sopra.
MobyDICK
poesia
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Campana, una vita in versi di Filippo La Porta on Dino Campana ho scoperto per la prima volta che la poesia può diventare altro, può farsi prosa. Ogni adolescente prova a scrivere dei versi, ma nel mio caso (e di molti altri coetanei) la tentazione poetica ha assunto preferibilmente la forma della prosa lirica, molto adatta per esempio a luoghi esotici e descrizioni di viaggio (che poi è anche viaggio nell’inconscio e nella memoria). Certo, Campana non è stato il primo, e anzi a sua volta venne influenzato dai Poemetti in prosa di Baudelaire e soprattutto dalle Illuminazioni di Rimbaud, ma almeno limitatamente all’area italiana, e nell’ambito della rivista La Voce (che prediligeva il frammento rispetto alla forma rotonda e «pacificata» del romanzo), la prosa lirica contenuta nei Poemi orfici (1914) ha un suo rilievo notevole. Si tratta di un prosimetro (composto di poesia e prosa, come la Vita nova dell’amato Dante), in cui la musicalità della lingua, identica nei versi e in prosa, è affidata al valore fonico dell’iterazione, delle serie aggettivali, dei parallelismi, delle allitterazioni. Così l’incipit (La notte) «Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminta nell’Agosto torrido…».
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Di lì il poeta, come in un sogno, si avventura nel silenzio del meriggio, in una «irrealtà spettrale» dove incontra una donna «ebete e sola nella luce catastrofica», e poi altre «antichissime femmine», matrone, zingare, passeggiatrici, ruffiane, sacerdotesse, ancelle, matrone, altrettante figure della sensualità e del nulla, dentro un rito magico-funereo. Credo che il più acuto, fedele interprete di Campana sia Carmelo Bene. Prendiamo la prosa ebbra di Crepuscolo mediterraneo, con i suoi «palazzi marini», il suo «porto fumoso di molli cordami», i suoi «vini d’oriente dal profondo splendore opalino», con i suoi «piccoli balconi», con la sua «esplosione di gioia barocca».Sembra qui di ritrovare puntualmente le immagini deliranti e i colori mediterranei di Otranto da Nostra signora dei turchi di Bene (e anche se, ovviamente, si tratta ancora di Genova, pur vista come città barocca, e non del Salento: ma anche nella poesia intitolata sopra riportata si parla della «torre orientale», forse il campanile di S. Agostino con le piastrelle policrome e arabeggianti…). E, proprio come Benem anche Campana - eroe e martire - mescola momenti autenticamente visionari a suggestioni liriche kitsch, riferimenti culturali alti (Nietzsche, il D’Annunzio alcyonio) ma digeriti in fretta, e inoltre ci presenta una struttura sempre incompiuta, provvisoria e uno stile monocorde, a volte ossessivamente ripetitivo. La lettura di Bene, il suo flusso salmodiante, mette in evidenza l’autonoma musicalità del significante, la liberazione da ogni commento rigido. Il suo teatro respinge l’in-
In libreria
terpretazione scenica, l’immedesimazione dell’attore, la centralità del testo, in favore dell’evento che accade in quel momento, della pura trasmissione dell’emozione. Così come la voce di Campana si riduce qualche volte a un confuso balbettio che non rinvia ad alcun significato. Mi sembra che il tema del viaggio, viaggio esotico o verso il nulla di tenebra, sia centrale nella sua opera. In Viaggio a Montevideo Campana sembra ricalcare il Battello ebbro di Rimbaud: prima registra ancora dettagli realistici, la prima parte del viaggio, il passaggio di fronte ai «colli di Spagna» che svaniscono nel verde, poi la «nave già cieca» attraversa i «dorati silenzi» per arrivare in una baia «tranquilla e profonda assai più del cielo notturno» di isola tropicale e scoprire «nella luce incantata/ Una bianca città addormentata/ Ai piedi dei picchi altissimi dei vulcani spenti/ Nel soffio torbido dell’equatore» e poi la «capitale marina» del continente nuovo, dove le dune si scioglievano «verso la prateria senza fine».
La vita di Campana è un romanzo drammatico e picaresco: nato a Marradi, studi irregolari, collegio salesiano, in prigione già a 18 anni per la sua «impulsività morbosa»,manifestata in famiglia, a 21 il primo ricovero in manicomio, poi emigra in Francia, America del Sud, Belgio, entrando e uscendo da cliniche. Dopo la tempestosa relazione amorosa con Sibilla Aleramo, riformato durante la guerra, finirà i suoi giorni in un ospedale psichiatrico. Non ha tanta importanza stabilire se Campana sia più vicino a Carducci o alle avanguardie (al cubismo), se sia uno scapigliato in ritardo orecchiante dei temi decadenti o un poeta tutto novecentesco parente di Apollinaire e magari anticipatore dell’ermetismo.In lui,pure immerso nella letteratura,colpisce una qualità primaria dell’esperienza stessa - sensoriale, onirica, mentale - al di là di ogni filtro culturale e stilistico. In una lettera a Carrà del 1917 dice di D’Annunzio che gli pare «troppo letterato anche nei migliori e peggiori momenti» (la «massima cloaca di tutta la letteratura presente passata di tutti i continenti»).La sua Genova è città piena di vita ma anche generatrice di morte. La poesia qui riprodotta, che chiude gli Orfici, termina con una immagine corrusca, di donna siciliana che appare nella luce, «Piovra de le notti mediterranee», mentre il «debole cuore» del poeta batte un «più alto palpito» e la notte tirrena si scopre «infinitamente occhiuta devastazione» (segue poi un colophon, dei versi di Whitman che richiamano l’immagine del poeta innocente assassinato: si torna all’inizio della Notte). L’autobiografia tragica si trasfigura nei versi, ma senza sublimarsi. Campana vive per intero sulla pelle, dolorosamente, gioiosamente, la curva barocca e luttuosa del proprio destino.
GENOVA Poi che la nube si fermò nei cieli Lontano sulla tacita infinita Marina chiusa nei lontani veli, E ritornava l’anima partita Che tutto a lei d’intorno era già arcanamente illustrato del giardino il verde Sogno nell’apparenza sovrumana De le corrusche sue statue superbe: E udìi canto udìi voce di poeti Ne le fonti e le sfingi sui frontoni Benigne un primo oblìo parvero ai proni Umani ancor largire: dai segreti Dedali uscìi: sorgeva un torreggiare Bianco nell’aria: innumeri dal mare Parvero i bianchi sogni dei mattini Lontano dileguando incatenare Come un ignoto turbine di suono. Tra le vele di spuma udivo il suono. Pieno era il sole di Maggio. Sotto la torre orientale, ne le terrazze verdi o ne la lavagna cinerea Dilaga la piazza al mare che addensa le navi inesausto Ride l’arcato palazzo rosso dal portico grande: Come le cateratte del Niagara Canta, ride, svaria ferea la sinfonia feconda urgente del mare: Genova canta il tuo canto (…)
Dino Campana
1975-2010: voci d’Italia, il catalogo è questo
intento di Francesco Napoli nel suo Poesia presente. In Italia dal 1975 al 2010 (Raffaelli editore) è dichiarato esplicitamente nel primo capitolo, «Una questione di metodo»: «Periodizzare è… il primo passo necessario per quel processo di storicizzazione che se per il Novecento ha visto tanti e buoni esercizi in grado di tracciare quadri sufficientemente esaustivi, risulta forse improbo per i periodi più recenti, improbo ma ormai da azzardare». È un progetto apparentemente ambizioso vista la varietà di voci e la complessità d’insieme della nostra poesia contemporanea, ma, chiusa l’ultima pagina di questa «antologia storica» (i poeti antologizzati sono ventisette), si sente che l’intento è riuscito. La ricostruzione il più possibile completa e imparziale del percorso storico che vede protagonista la nostra poesia recente inizia dal Novecento e la «prima bandie-
L’
di Giovanni Piccioni ra da piantare» per segnalarne l’inizio è quella di Ungaretti e della centralità dell’Essere; una poesia che associa lingua e metafisica. Un’istanza che sembra riaffiorare in alcuni dei migliori esponenenti della poesia italiana d’oggi. La fine del Novecento, invece, coincide con la morte di Pasolini e l’opera di alcuni esordienti (fra i quali Conte, Cucchi, De Angelis, Kemeny eViviani) nei primi anni Settanta: la seconda, convenzionale bandiera risale allora al 1975. A quest’altezza si producono una serie di fenomeni fra i quali la fine di ogni scuola dominanate a favore di una pluralità di voci nuove e sicure e lo «sfarinamento» della koinè stabilita dalla Neoavanguardia in un «pulviscolo assolutamente unico e fino allora mai visto per la nostra poesia», che non ne compromette affatto i risultati. La rottura, precisa
Napoli, si consuma con la Neoavanguardia; prevale ora una «multilinearità» delle visioni e dei modi di far poesia. «La poesia era ed è tuttora più viva che mai». Il libro di Napoli si articola in due capitoli introduttivi: «Una questione di metodo» cui abbiamo accennato e «Introibo. I maestri per la continuazione», in cui viene messo in luce il magistero che Sereni, Zanzotto, Luzi Pasolini, Bertolucci e Caproni esercitano su quanti iniziano il loro cammino negli anni Settanta. Prosegue antologizzando a partire dagli anni Settanta, decennio per decennio, i poeti delle diverse generazioni. Le pagine antologizzate sono precedute da significative e caratterizzanti introduzioni critiche, che analizzano le varie formazioni generazionali. Una sistemazione storico critica come questa di Napoli, che sorprende per il modo sicu-
ro, sintetico, acuto e al tempo stesso esaustivo con cui chiarisce le ragioni di una stagione ancora in corso, ricchissima e complessa, è utile e necessaria per chi vuole avvicinarsi o approfondire la nostra poesia odierna. Di un tale lavoro se ne sentiva il bisogno, rispetto a tanti giudizi a volte parziali o approssimativi. Siamo di fronte a tesi e conclusioni originali e condivisibili e a scelte antologiche che nulla trascurano. Nella sua sinteticità Napoli ci offre la ricostruzione della nostra poesia attuale, fino agli esiti cronologicamente più vicini e a quelli più saturi di prospettiva. Da Piersanti a Rondoni, il primo e l’ultimo dei poeti antologizzati, le voci scelte restano nella memoria. Il suo è un atto di fiducia e di amore per la nostra poesia come si manifesta nelle parole conclusive dell’ultimo capitolo, Alle soglie: «Nulla mi toglie dalla testa che in Italia c’è, ancora e valida poesia presente».
Babeliopolis
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ingolare, ma anche significativo che nei fascicoli dedicati ai «Capolavori delle grandi civiltà» allegati al Corriere della Sera, accanto alle Piramidi, al Colosseo, a San Pietro, alla Torre Eiffel, al canale di Panama, alla Muraglia Cinese, al Partenone, al Ponte di Brooklyn, all’Empire State Building, ci sia anche… Atlantide. Sì, a fianco di realizzazioni architettoniche concrete c’è anche una realizzazione di una architettura filosofica, una fabula o meglio un mito. Chissà quale sintonia hanno trovato i realizzatori di quest’opera tanto variegata tra un’isola (e una città) che si definisce in modo esplicito inesistente e tante concrete realizzazioni dell’ingegno che sono ancora sotto i nostri occhi, pur avendo una età millenaria. Sta di fatto che questo mito, che si basa esclusivamente su alcune parti dei dialoghi platonici, Timeo e Crizia, aleggia sull’umanità da ben 2400 anni accrescendosi sempre più: invece di cadere nell’oblio, come una calamita ha attirato di tutto: altri filosofi, ma anche geografi e sognatori, storici e teorici folli, avventurieri e dilettanti di ogni tipo, visionari e chiaroveggenti, scrittori di fantascienza e occultisti. Tutti l’hanno cercata sopra e sotto il mare, tutti l’anno situata non solo oltre le Colonne d’Ercole ma nei punti più strani del pianeta, tutti hanno portato il loro contributo alla creazione di un mito che man mano si è accresciuto e ancora si accresce e che non viene demolito da nessun commento scettico, razionale e scientifico. Infatti, con questo suo mito Platone ha voluto semplicemente descrivere in senso positivo e negativo la sua concezione di società ideale e di come essa si autodistrusse nel volgere di una sola «notte tremenda» a causa dell’ira degli dèi. Una società che era diventata «empia» avendo perso la «scintilla divina» che custodiva in sé. Non è dunque che, come pure ha scritto Viviano Domenici sul Corriere, Platone si volle sbarazzare di questo mito ingombrante perché non ci si credesse troppo, ma al contrario la sommersione dell’isola fra maremoti e terremoti ha un senso preciso ed esplicito: si è trattato di un castigo divino. È questo che si deve tener presente e molti dimenticano (a parte il fatto che lo tsunami del 2004 in Estremo Oriente con i suoi quasi trecentomila morti e le terre sommerse in pochissime ore a causa di un movimento insolito, ma non eccessivo, delle placche tettoniche, ha dimostrato come simili eventi, a voler essere scientificamente pignoli, non siano affatto impossibili).
MobyDICK
ai confini della realtà
S
Ora cade a proposito un saggio fuori dall’ordinario, Il mito della terra perduta. Da Atlantide a Thule, pubblicato dall’Editore Bevivino nella collana «Secretum». Fuori dal comune non tanto per l’argomento, dato che non è il primo né sarà l’ultimo libro dedicato a esso, ma perché lo ha scritto il professor Davide Bigalli, ordinario di storia della Filosofia all’Università di Milano, e dagli accademici normalmente non ci si aspetta che affrontino certi temi che in genere vengono considerati mere curiosità culturali. Invece il professor Bigalli ci offre un libro dottissimo, zeppo di estratti da opere quasi introvabili e di citazioni innu-
Quella nostalgia delle
origini di Gianfranco de Turris merevoli che partendo ovviamente da Platone giungono sino ai nostri giorni, sino agli autori che nel Novecento si sono occupati di questo tema. Insomma, come l’idea di Atlantide abbia attraversato tutta la cultura occidentale, le sue metamorfosi e le sue derivazioni. Ci sarebbe da augurarsi che ce ne fossero di più di docenti come il professor Bigalli… Il quale giustamente, e non poteva esse-
mondo». Il titolo del saggio però parla genericamente di «terre perdute», e in questa vasta ricognizione sta la sua originalità che segue tre direttive che si riferiscono ai tre modi di affrontare, nell’arco dei secoli e delle culture, questo argomento. C’è il tema generale, appunto, della terra perduta, vale a dire «un mondo originario, sperduto nella immensità del passato, al quale l’umanità
Già Mircea Eliade aveva indagato a fondo quel sistema di pensiero che induce a rimpiangere luoghi perduti fino a renderli miti. È il caso di Atlantide, l’isola platonica diventata idea che ha attraversato, in tutte le salse, la cultura occidentale. Un nuovo studio torna a occuparsene re diversamente dato che è uno studioso di storia delle idee e non un qualsiasi divulgatore storico e/o scientifico, afferma che Atlantide «appartiene al mondo del pensiero», è «un consapevole mythos, volto a delineare, in una remota antichità, modelli di civiltà, dove le costruzioni politiche, a misura che si distaccano dall’immagine ideale, corrono a catastrofe divenendo esemplari di una contro utopia». Nello stesso tempo, l’autore fa notare, credo per primo, come questo mito, quando su quella ideale/filosofica/simbolica prevale la parte della narrazione, del racconto, dell’elaborazione fantastica (del resto il termine greco mythos proprio questo vuol dire) «diventa un esemplare non-luogo, il regno di una alterità che non può rinchiudersi né venire raggiunta per entro i termini di realismo geografico. Diventa un altro
tende a tornare»; da questo tema ne deriva un altro, quello appunto di Atlantide, cioè di «un mondo… distrutto dalla propria hybris»; e poi c’è il tema dell’Eden, del paradiso perduto, di «un luogo di diletto e felicità, nonché di una condizione di innocenza e perfezione, al quale l’umanità intende ritornare».
Pur se il Paradiso Terrestre è situato a Oriente, «il luogo di diletto e felicità» aveva i suoi siti anche a Occidente. Le Isole Fortunate e l’Isola dei Beati ne sono un esempio. Lo storico delle religioni Mircea Eliade con la sua teoria della «nostalgia delle origini» o anche «nostalgia del paradiso perduto» ha indagato a fondo questo sistema di pensiero, che si riverbera anche ai nostri giorni e che spiega molto in profondo alcune scelte di civiltà (o solo di politica contin-
gente) altrimenti incomprensibili. È un peccato che il professor Bigalli non lo abbia tenuto presente. Il mito della terra perduta spazia, comunque, non solo nella storia del pensiero occidentale, ma si confronta anche con le teorie geografiche ed etnografiche (pur se allora non si usava questo termine) nate dalle scoperte di Colombo e Vespucci, dalla conquista del Sud America da parte degli spagnoli e così via: che cosa erano quei nuovi mondi e quei nuovi popoli, ci si chiese? Non si trattava per caso dell’Altantide? Oppure quegli abitanti non erano per caso i discendenti dei sopravvissuti alla distruzione dell’isola platonica? E così di tempo in tempo si giunge ai nostri giorni, all’Ottocento e al Novecento, secoli in cui ritroviamo Atlantide in tutte le salse possibili, da quelle teosofiche a quelle pseudoscientifiche, da quelle esoteriche a quelle politiche, con la «nascita» di altri continenti perduti o scamparsi (Mu, Lemuria), con la diffusione dei nomi di Agartha e Shamballah, con curiose variazioni sul tema come quella della Terra Cava, simbolo per Bigalli sia dell’interiorità umana, sia della nostalgia di un paradiso perduto. E quando certe teorie vengono respinte ecco che i loro autori parlano del complotto della scienza ufficiale per negare qualcosa che vorrebbero tenere celato ai più. Una teoria quella del complotto, oggi diffusissima, che per Bigalli si può spiegare solo con un meccanismo psicologico, risarcitorio e vittimistico per gli scacchi subiti nella vita reale. Come si vede, un libro questo Il mito della terra perduta che affonda le sue radici e spinge i suoi rami in molte e inaspettate direzioni.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
La più grande malattia dell’uomo è la velocità ROMA. REPUBBLICA. VENITE Goffredo Mameli il 9 febbraio del 1849 inviava un messaggio di tre parole a Giuseppe Mazzini: “Roma. Repubblica.Venite”. Centosessantadue anni or sono, l’Assemblea costituente riunita nel Palazzo della Cancelleria proclamava la Repubblica Romana. Una Repubblica, che pur avendo poca vita, fu un punto di riferimento dei patrioti del Risorgimento, un esempio luminoso da additare ai posteri. La Repubblica nasceva per volontà popolare espressa dalla Costituente, composta da 200 deputati, eletti il 21 gennaio da tutti i cittadini che avevano compiuto il 21esimo anno di età. I moti del 1848 non avevano lasciato insensibili i democratici dello Stato pontificio che dal 1846 era retto da Pio IX. Gli eventi precipitarono il 15 novembre 1848 quando, mentre saliva lo scalone del palazzo della Cancelleria, venne ucciso con una pugnalata Pellegrino Rossi che dall’agosto presiedeva il governo pontificio. Chiamato da Mameli col famoso telegramma, Mazzini non giunse subito a Roma perché si fermò in Toscana, dove cercò di convincere Giuseppe Montanelli e Francesco Domenico Guerrazzi a compiere la fusione tra Repubblica Romana e Granducato di Toscana. La Repubblica cadde per gli assalti degli eserciti austriaci e francese guidato dal generale Oudinot. Caddero sugli spalti di Roma il fiore della gioventù italiana: Colomba Antoniotti, Dandolo, Masina, Manara, Saverio Morosini, Goffredo Mameli. Cadde la Repubblica e si insediò, fatto unico nella storia, la Commissione finanze per consegnare l’erario e i conti. In proposito Bolton King scrisse: «Il governo fu degno dei suoi difensori; aveva mantenuto l’ordine più perfetto durante l’assedio; le finanze erano state amministrate con capacità e rettitudine. La Commissione delle finanze poté presentare agli ufficiali francesi la relazione dei conti della Repubblica, pura d’ogni nota di privato impiego del pubblico denaro, e sì regolare in ogni sua parte, da destare ammirazione e rispetto in quegli animi non amici del governo romano». Luigi Celebre C I R C O L O LI B E R A L MI L A Z Z O
LE VERITÀ NASCOSTE
La vita frenetica di oggi ci costringe a essere sempre in movimento, a svolgere mille attività diverse contemporaneamente e a fare tutto nel più breve tempo possibile. In questa accelerazione senza fine dimentichiamo i nostri ideali, perdiamo per strada sogni, speranze e desideri. Andiamo talmente di fretta, talmente di corsa, che fermarsi diventa difficile. Perché oramai, per inerzia, siamo portati a correre. Lavoriamo di corsa, pensiamo di corsa, agiamo di corsa, come se non ci fosse mai tempo per niente. Oggi la più grande malattia dell’uomo è la velocità! Tutto deve essere veloce, assennato, frenetico. Eppure, non riusciremo mai a stare dietro al tempo e alle cose da fare, per quanto ci si sforzi. Questo continuo velocizzare le attività umane ci porta come conseguenza, a rincorrere sempre. E alla fine ci troviamo sempre e comunque indietro. Un modo per migliorare la qualità della nostra vita quotidiana è quello di prendere maggiore coscienza delle decisioni che prendiamo. Concedersi il lusso di prendere del tempo per pensare alle nostre azioni non è vergognosa indulgenza ma, al contrario, è una necessità. Agendo e facendo cose che abbiano un vero significato e un ben preciso scopo, non fa altro che arricchire la nostra vita, noi, e tutti coloro che ci stanno intorno.
Lettera firmata
DILAGA L’ESERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONE NELL’AMBITO FINANZIARIO Dopo il crac della “Egp” che ha fatto volatilizzare circa 200 milioni di euro, attualmente sotto indagine sia della Procura della Repubblica di Roma (pm dott.Tescaroli) che della Consob e della Banca d’ Italia, il fenomeno si allarga. Ultimamente si è scoperto che la Sifir spa esercitava la propria attività senza che il suo legale rappresentante, Sergio Bianchi, avesse i requisiti di onorabilità previsti dal Testo unico bancario (n. 5771 degli intermediari finanziari non bancari). Sergio Bianchi (n.q.), come parte integrante nei contratti, sottoscriveva con gli ignari clienti i contratti di finanziamento con tassi vicino alla soglia dell’usura. Il Bianchi, a seguito di sentenza passata in giudicato di bancarotta fraudolenta e interdizione dai pubblici uffici, non poteva svolgere tale attività di intermediario finanziario non bancario. Alcune associazioni di consumatori (in tutela dei risparmiatori) si stanno attrezzando per intervenire in sede civile per avere i rimborsi fino a nove anni addietro da oggi (oltre tale termine interviene la prescrizione) nelle cause già azionate.
Marina Lilli Venturini, presidente Associazione nazionale donne elettrici
IL CAMBIAMENTO È NELL’ARIA Seguo da tempo l’evoluzione del progetto politico denominato Terzo Polo. Mi sembra un percorso interessante, che manca però di una piattaforma politica ben definita, che un potenziale lettore come il sottoscritto potrebbe prendere in considerazione. Siamo in presenza di un’involuzione sistematica di tutta la proposta che ruota attorno al riformismo liberale e mi sembra sia giunto il momento di definire nel dettaglio i contenuti di questo Polo alternativo al berlusconismo e alla sinistra. E poi passare nel più breve tempo possibile al rilancio in grande stile di tutta l’operazione. In questa fase di fughe in avanti e indietro, di proclami che nascono all’alba e muoiono al tramonto, bisogna secondo me non tentennare ed agire, agire, agire, chiamando a raccolta le menti migliori delle forze democratiche di centro. Ma fate in fretta, perché la situazione è matura ed il cambiamento è nell’aria. Date vita a questo benedetto Terzo Polo!
Diego Lorenzi
MITRA PER I PROFUGHI L’assessore regionale leghista ai Flussi Migratori, Daniele Stival, ospite di una trasmissione televisiva, viene captato dai
L’IMMAGINE
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
ta in Giappone una competizione decisamente insolita, in cui i partecipanti dovevano dimostrare la propria capacità di… scavare dei buchi. La cosa stupefacente è le dimensioni che questa gara ha raggiunto: questa infatti è la 11esima edizione e i partecipanti sono stati diverse migliaia da tutto il Paese. L’iniziativa era nata inizialmente come un modo per attrarre turisti fuori stagione, e infatti si svolge nel terreno di un campeggio fuori Tokio. Il regolamento è abbastanza semplice: 30 minuti per scavare una buca, da soli o in squadra. Ci sono diversi premi: oltre a quello (prevedibile) per la squadra che scava la buca più profonda, anche il premio per quella più creativa (c’è chi ha costruito una copia delle piramidi con il terreno scavato), e anche un riconoscimento per la squadra con il costume più originale. Tra i gruppi partecipanti, oltre a gruppi di amici, anche molte famiglie, ma si segnalano anche gruppi “rosa” di sole donne, e anche alcuni gruppi di bambini delle elementari. Per la cronaca, il gruppo vincitore ha scavato in mezz’ora una buca profonda circa 3,23 metri, guadagnandosi il primo premio da 100.000 Yen (circa 890 euro).
microfoni mentre dichiara che l’unico modo di fermare l’ondata di profughi dal Nord Africa è usare il mitra. E scoppia la polemica. I leghisti non si smentiscono mai: ogni tanto sparano la loro sciocchezza, tranne poi dichiarare il giorno dopo che stavano scherzando, o che sono stati fraintesi. La realtà è che non hanno rispetto di null’altro che non sia il loro misero orticello padano. E quindi di fronte ad una tragedia e a decine di migliaia di morti, questo è tutto quello che sanno dire. Dichiarazione che poi non mi stupisce molto, poiché l’affinità con la violenza che esprimono a parole ben si sposa con le nefandezze del dittatore africano, con cui infatti sono andati a nozze, assieme a Berlusconi in tutta una serie di accordi internazionali.
IL “BUDGET DEL RICOVERATO”
MARTEDÌ 8 - ORE 11 - ROMA CAMERA DEI DEPUTATI - SALA DE GASPERI Conferenza stampa Liberal/Udc Pier Ferdinando Casini e Ferdinando Adornato presentano Marisa Grasso Raciti, neo Coordinatrice dei Circoli Liberal Città di Catania
VINCENZO INVERSO COORDINATORE RESPONSABILE DEI CIRCOLI LIBERAL
TOKIO. ll 6 febbraio scorso si è svol-
AdP
APPUNTAMENTI MARZO
GIOVEDÌ 10 - ORE 15 - ROMA PIAZZA COLONNA - PALAZZO WEDEKIND Evento liberal con gli onorevoli Adornato, Bersani, Casini, Tremonti
In Giappone, la gara dei buchi
Adesso ti prendo! La fama di mangiatrici di carogne le precede. Ma quando ne hanno l’opportunità le iene (fam. Hyaenidae) non disdegnano certo un pasto fresco. Quella nella foto, per esempio, ha dovuto cimentarsi in una decina di attacchi prima di riuscire finalmente ad agguantare il povero fenicottero rosa nelle acque altamente alcaline del Lago Nakuru, in Kenya
Il “budget del ricoverato”(come l’ho definito) ai nostri giorni consiste nel limitare, pare, nel nome del risparmio il diritto alla vita e alla salute disumanizzando il rapporto sociale, come pare avvenga nelle nostre strutture ospedaliere. Certamente maggiormente vengono penalizzate le persone deboli o in età avanzata, in quanto la patologia abbisogna di prestazioni sanitarie molto costose; ma in nome del superiore concetto del risparmio si pensa che per costoro le speranze di vita sono residue e allora devono essere “eliminati”? Ogni persona ha diritto alle cure mediche fino all’eventuale compimento naturale della vita e non bisogna pensare di spendere meno perché il “malcapitato”è in condizioni di salute precarie, quindi considerato morto! Bell’esempio per la comunità, specie per i giovani.
Felice Previte
pagina 24 • 5 marzo 2011
la paralisi politica
Oramai la stampa serve soltanto a candidarsi a seggiole e poltrone. Mentre il premier parla di nuovi posti (ma evita di farne)
Ministri di scambio Misiti, Calearo e ora Romano e Vitali: è nata una nuova figura politica... di Marco Palombi
ROMA. “Mi sia consentito dire / il nostro è un partito serio / disponibile al confronto / nella misura in cui / alternativo / alieno a ogni compromesso…”. Era il 1978 quando Rino Gaetano scrisse Nun te reggae chiù fissando in maniera definitiva il linguaggio di certa politica italiana (o forse tutta): «La maggioranza è stretta / ma coesa / parte la fase due / riforme e rilancio dell’azione di governo / assunzione di responsabilità…». La musica ancora non c’è ma ieri Saverio Romano ha pubblicato il testo di questo sicuro successo (titolo provvisorio: Quando sarò ministro) sotto forma di intervista al Corriere della Sera: l’ex deputato dell’Udc, oggi vulcanico coordinatore di un partito dal nome complesso (Pid - Popolari d’Italia Domani), si candida a mezzo stampa alla guida del ministero dell’Agricoltura, che come ognun sa se vale assai per i vaccari splafonatori della Lega e ancora di più nel Mezzogiorno della clientela. È il rimpasto, croce e delizia del Cavalier Berlusconi Silvio, che lo prolunga ogni giorno: quando verrà sostituito il buon Andrea Ronchi al dicastero delle Politiche comunitarie (vacante, peraltro, da novembre)?
Chi potrà, tra vecchi e nuovi ascari della maggioranza, fregiarsi del titolo di sottosegretario o, magari, addirittura, di viceministro? Il presidente del Consiglio osserva il panorama e rimanda: intanto i “papabili” trattengono il fiato e sperano di poter aggiornare i biglietti da visita. Molti albergano in quel bizzarro gruppo parlamentare che va sotto il nome di Iniziativa Responsabile, che è composto di ben sei correnti più l’antimignottocrate Paolo Guzzanti, il leghista espulso Maurizio Grassano e gli oriundi del PdL: una sorta di inquietante animale d’allevamento, il cui valore sta solo nel peso. I Responsabili, dicono loro, devono essere rappresentati al governo: «Del resto senza di noi l’esecutivo non sarebbe andato avanti», sintetizza Francesco Pionati. Il fatto è che ogni famigliola e circoletto “responsabile” lavora per sé. Lo stesso ex volto del Tg1 s’è lasciato scappare una
È lite sulla nuova proposta
Da Ghedini, no al nuovo scudo: «Non ci serve» ROMA. La proposta di legge sui termini di prescrizione è avvolta nelle nebbie: che sia sul tavolo della maggioranza è certo, meno certo è il suo destino parlamentare. Se non altro perché Niccolò Ghedini, l’anti-Vitali, ha ripetuto che «non serve a Berlusconi». Strano, giacché il Lodo Vitali garantisce attenuanti generiche e conseguente accorciamento dei tempi di prescrizione a tutti gli incensurati che abbiano più di 65 anni: i quattro processi aperti a carico di Silvio Berlusconi soddisfano tutti queste occorrenze. Ma, posto che Vitali ha confermato di voler andare avanti, Ghedini ha obiettato: «La parte di quella proposta che riguarda la prescrizione non ha alcuna efficacia nei processi che vedono interessato il presidente Berlusconi. Dopo la modifica operata nel 2005 dalla legge cosiddetta ex Cirielli, la concessione delle attenuanti generiche per tutte le contestazioni operate nei confronti del presidente sarebbe del tutto neutra per la prescrizione» ha detto l’onorevole legale del premier. Che ha pure spiegato: «Nel processo Mills non vi è la possibilità di diminuire la prescrizione per effetto di circostanze eneriche. Nei processi dei diritti e Mediatrade vi è la stessa situazione. È altrettanto palese che qualsiasi ipotesi prescrizionale per il caso Ruby non può neppure essere ipotizzata». Conclusione: una norma del genere «non ha alcuna incidenza» nei processi che vedono coinvolto il premier. Dunque, è inutile portarla avanti, a conferma palese e sfacciata del fatto che la maggioranza non ha a cuore la riforma della giustizia bensì la sorte processuale del proprio capo. Tuttavia, una decisione della Cassazione presa nella serata di giovedì, rischierebbe di influire sul caso Ruby. Secondo la Suprema Corte è il giudice ordinario che stabilisce se un reato ha natura ministeriale e, una volta esclusa la ministerialità, non è obbligato ad informare la Camera di appartenenza dell’imputato-ministro: insomma, il conflitto di attribuzione sollevato da Pdl e Lega sarebbe già risolto.
Qui sotto, quattro dei tanti aspiranti a qualche poltrona di governo: Saverio Romano, Luigi Vitali, Massimo Calearo e Luigi Cesaro. Ognuno di loro ha un credito aperto con il premier Berlusconi certa soddisfazione in Transatlantico quando ha saputo del “veto” di Umberto Bossi a Saverio Romano per il ministero dell’Agricoltura (il senatur lo vuole per uno dei suoi): «E mica stiamo qua a tirare la volata a lui», è sbottato.
Quel “lui”, d’altronde, rivendica a sé e alla sua pattuglia sicula il ruolo di “rompighiaccio” o “apripista”: tradotto in italiano, Romano s’intesta la primazia nella transumanza a sostegno di Berlusconi (avvenuta fin da settembre, tiene a ricordare) e se ne aspetta riconoscenza. E mica per ripagare il salto della quaglia, ma per non fare vita troppo facile: «Non si tratta di un premio, ma di una assunzione di responsabilità – ha spiegato - Se tu dai un contributo all’azione politica devi anche poterla interpretare, sarebbe troppo comodo stare con una gamba dentro e l’altra fuori».Visto? Sarebbe troppo comodo non dover portare il peso di un bel ministero. Luigi Vitali invece, il pragmatico avvocato che ha presentato il ddl sulla “prescrizione breve” per aiutare il Cavaliere, s’è candidato senz’altro ad un sottosegretariato: «Alla Giustizia mi ci vedrei bene», ha detto a La Repubblica. D’altronde una leggina ad personam la produsse – sempre in materia di prescrizione – anche nel 2005 e sarebbe irriconoscente privarlo del giusto premio ai suoi risultati: la vita, però, è ingiusta e difficilmente Vitali potrà trovare uno strapuntino a via Arenula a questo giro. Stanno in silenzio, invece, molti altri speranzosi d’ascesa: dice infatti la vox populi del Transatlantico che ormai non c’è più solo la Lega con cui fare i
la paralisi politica
5 marzo 2011 • pagina 25
La Lega è sempre più al centro dei gangli del potere istituzionale
Montezemolo, Maroni e Monti: ora che farete?
Il rinvio delle elezioni riporta le lancette alla scadenza naturale del governo nel 2013. Bisogna muoversi ora di Enrico Cisnetto on si vota più. Sicuramente non entro l’estate, con buona probabilità neppure nella seconda parte dell’anno – in autunno non si è mai votato per le politiche – e forse neanche nel 2012, visto che a quel mancherebbe solo un anno alla scadenza naturale della legislatura. Il patto di ferro Berlusconi-Bossi ancora una volta è stato più forte di tutto e di tutti. Infatti, il passo indietro fatto dalla Lega – o meglio dalla coppia Bossi-Calderoli, e non è proprio la stessa cosa – sull’accettazione della proposta avanzata da Berlusconi di proroga di quattro mesi della delega per discutere gli altri aspetti del federalismo (la legge delega scadrà il 21 maggio) rispetto a quanto già ottenuto con la votazione in Aula dello scorso mercoledì 2 marzo e il varo in Consiglio dei ministri del giorno successivo, ha messo una pietra sopra alla possibilità di elezioni anticipate, almeno nel breve periodo e con tutta probabilità entro l’anno. Perché se da un lato lo slittamento conferma il ruolo determinante della Lega all’interno del Governo – sarebbe bastato dire di no, e il Pdl se sarebbe dovuto fare una ragione – nello stesso tempo Berlusconi ha portato a casa quello che voleva: evitare le urne in coincidenza con il processo Ruby e quello Mills. D’altra parte, alle elezioni o ci porta (portava) la Lega, o come è ormai dimostrato e ho più volte sostenuto, niente e nessuno sono in grado di detronizzare il Cavaliere. È Bossi il vero ago della bilancia, in grado di decidere il mantenersi o meno degli attuali equilibri. E ancora una volta, pur avendo minacciato più volte le urne in mancanza delle condizioni per l’attuazione del federalismo, ha scelto di sostenere l’alleato. Peccato, però, che si tratti – con tutta evidenza – di una scelta mal digerita dalla base leghista, che con sempre più fatica giustifica usi e costumi del capo del Governo. Cosa che crea non pochi mal di pancia dentro il vertice stesso della Lega, che pur essendo un partito “leninista” trattiene con crescente e visibile difficoltà i malumori verso una leadership tanto adorata quanto motivo di preoccupazione. Sia per la “tenuta” di Bossi, sia per quel grumo decisionale, tutto di stampo familiare, che intorno a lui si è formato.
N
conti, ma anche il blocco “terrone” dei responsabili che, giustamente, non si perde in pubbliche parole. Ancora non sa se riuscirà a farsi un po’di governo, e in che ministero, Aurelio Misiti, deputato parabolico partito da Italia dei Valori, transitato per l’Mpa e infine approdato al voto di fiducia al governo per non far precipitare il paese nel baratro e anche per via di certe “incomprensioni” con Raffaele Lombardo. Attende positive nuove in qualunque di-
Tornando alla questione dei posti pesanti, quelli da ministro, il risiko ormai s’è fatto complicato davvero. La poltrona libera sarebbe quella delle Politiche comunitarie, ma tutti voglio invece l’Agricoltura, momentaneamente occupata da Giancarlo Galan: l’ex Doge potrebbe andare dunque al posto di Ronchi o anche sulla seggiola del dimissionario Sandro Bondi, per lasciare spazio al “rompighiaccio” Romano oppure a un leghista (Bricolo,
La vox populi del Transatlantico sostiene che ormai non c’è più solo la Lega con cui fare i conti, ma anche il blocco “terrone” dei responsabili che, giustamente, non si perde in pubbliche parole rezione anche Bruno Cesario, statista campano eletto col Pd e adesso fondatore del Movimento di responsabilità nazionale con Scilipoti e Massimo Calearo, quest’ultimo in predicato addirittura di viceministero allo Sviluppo economico e/o di delega al Commercio estero (per il primo dei due posti concorre anche Anna Maria Bernini, che dovrebbe ricevere dalle mani del capo nientemeno che la delega alle Telecomunicazioni). Tra i papabili figurano anche il buon Pionati, in qualità si presume di leader di Alleanza di centro, l’ex Fli Catia Polidori, indimenticata autrice di una straordinaria prestazione a sostegno del governo nel dì cruciale del 14 dicembre, come pure Elio Belcastro di Noi Sud. Un posticino, di sicuro, dovrebbe toccare anche a La Destra di Francesco Storace: il siciliano Nello Musumeci dovrebbe assurgere alla carica di sottosegretario alla Protezione civile.
Dozzo o Fogliato) che gestisca padanamente la faccenda delle quote latte. Solo che adesso gira voce che Bossi faccia casino solo per ottenere la presidenza dell’Enel, che però potrebbe servire anche per promuovere Galan, lasciando così liberi i Beni culturali per Paolino Bonaiuti, che li sogna da anni, e che a sua volta potrebbe lasciare spazio come portavoce di palazzo Chigi a Daniela Santanchè o Maria Vittoria Brambilla. In questo caso, peraltro, può essere pure che l’ex veltroniano Calearo diventi addirittura ministro. Di che? Ma delle Politiche Ue che tanto nessuno le vuole. La brutta notizia è che gira voce che Berlusconi voglia trattenere l’orgasmo del rimpasto fino a maggio e il nervosismo monta. Come cantava Rino Gaetano: “Onorevole, eccellenza / cavaliere, senatore / nobildonna, eminenza / monsignore, vossia, cherie / mon amour. Nun te reggae chiù”.
Per ora i malumori non sono esplosi, ma basta parlare con qualsiasi dirigente per venire a sapere che i leader maggiormente esposti sul territorio, governatori e sindaci in primis, faticano a star zitti. Per costoro le elezioni anticipate avrebbero rappresentato una valvola di sfogo, e per qualcuno persino un’occasione per ripensare in modo profondo la collocazione politica della Lega e le relative alleanze. Ma Bossi e il fido Calderoli hanno spento queste aspettative. Ora la domanda è: fino a quando le diversità rimarranno sottotraccia? Maroni, che nel governo è il più forte e autorevole dei leghisti, rimarrà silente o vorrà prima o poi giocare una partita diversa da quella che il ruolo gli ha assegnato fin qui? Quale che sia la risposta a questi quesiti, una cosa è certa: l’ipotesi delle elezioni è per ora accantonata. Ed è da qui che deve ripartire il “Nuovo Polo per l’Italia”. Per organizzarsi in modo definitivo. Fino a questo momento, considerando imminenti o potenzialmente molto vicine le elezioni, i fautori dell’alternativa al bipolarismo hanno sempre fatto prevalere l’istanza del“non c’è tempo per organizzarsi”, non procedendo nei fatti alla costruzione di quel soggetto politico nuovo, dotato di programma e di organigramma, che pure essi stessi prefiguravano. È stato così per il “partito della Nazione” evocato da Casini, è stato così per il “terzo polo” (che per fortuna ha subito cambiato nome): evocati ma mai costruiti. Oggi le cose sono cambiate e non solo c’è il tempo, ma anche le condizioni politiche per chi vuole percorrere attivamente questa strada. Non ultimi quei soggetti ancora esterni all’arena politica (da Montezemolo a Monti), che fossero effettivamente interessati a giocare la partita dell’alternativa al sistema. Proprio perché le elezioni non sono più dietro l’angolo, questo è il momento di parlare e prendere posizione apertamente. Davanti a noi c’è un lasso di tempo – un anno o addirittura due – sufficientemente lungo per costruire non un cartello elettorale come si profilava fin qui il trio Casini-Fini-Rutelli, ma una vera e propria forza politica organizzata e priva di quelle caratteristiche deteriori, prima fra tutte il leaderismo, che hanno segnato i soggetti protagonisti del bipolarismo all’italiana. Adesso non ci sono più alibi. (www.enricocisnetto.it)
L’unica incognita è la base leghista, che spesso mal sopporta gli abusi del Cavaliere e le sue sparate sulla giustizia
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la paralisi politica
L’ennesima fiducia che ha introdotto le nuove tasse municipali, lo stallo sulle riforme e il blocco parlamentare fermano il Paese
Cambio di stagione
Dopo la crisi radicale del 14 dicembre, oggi c’è una nuova fase nella vita del governo: il “lungo galleggiamento”. Ecco perché dobbiamo ripartire a fare un’opposizione responsabile, con lo slogan: «Veri responsabili cercasi» l governo e la maggioranza parlamentare hanno superato un altro scoglio. La risoluzione sul federalismo municipale con relativa fiducia è stata promossa, e si sono presi altri quattro mesi per sistemare le cose. Così, allo stesso modo era passato il decreto Milleproroghe, nonostante le pessime figure raccolte con i rilievi del presidente della Repubblica.
I
E la maggioranza sembra sopravvivere (vedremo di giorno in giorno) anche alle bufere giudiziarie che investono non solo il leader ma sempre più spesso molti altri esponenti politici della medesima area. Inutile negare che nel Parlamento la maggioranza nonostante tutto si va in qualche modo rafforzando e, superato il punto critico, ora appare più stabile. Mai abbastanza, dato che i numeri sono quelli che sono e i doppi incarichi sono molti di più. E mai abbastanza anche perché i maldipancia sono tornati a farsi sentire con forza, dato che le promesse sono state tante e forse troppe per poterle mantenere tutte. C’è poi il problema di procedere secondo un indirizzo chiaro, una strategia definita, e questo è un po’ più difficile quando la maggioranza si basa in modo decisivo su parlamentari-contractors (absit iniuria verbis) il cui unico elemento di coe-
di Osvaldo Baldacci sione è il mantenimento in vita del governo e il sostegno al premier Berlusconi. Ma a parte questo quali sono le loro “responsabili”linee politiche? Quale storia, tradizione, programma li accomuna? È chiaro che di fronte a questa eterogeneità ogni provvedimento è esposto a conti e riconti (quanti dei responsabili che hanno votato la fiducia sul federalismo si erano opposti al federalismo nel recente passato?), salvo trovare la compattezza solo quando torna in gioco la sopravvivenza della legislatura berlusconista. Precarietà permanente, dunque, ma anche la necessità di prendere
Il Parlmento è esautorato dall’abitudine di «governare per decreto»
atto che il voto è più lontano. Prove muscolari e spallate in Parlamento non sembrano poter scuotere nell’immediato l’assetto portante delle attuali alchimie politiche. E allora l’opposizione, che legittimamente in questa situazione chiede di andare al voto, deve però comportarsi sapendo che il voto è lontano. Deve cioè riprendere a fare l’opposizione. Opposizione su cui c’è qualcosa da dire, se si è imparato qualcosa dalle esperienze del recente passato. L’opposizione, a mio avviso, deve essere saggia (purtroppo la parola responsabile è inflazionata) e intraprendente. Mi sembra
di notare un certo declino dell’opposizione alla Di Pietro. Era inevitabile: dire solo no non è un modo di accreditarsi alla guida del Paese. D’altro canto l’antiberlusconismo militante contiene già nel nome il suo limite: ha bisogno di Berlusconi e del berlusconismo. Con all’orizzonte la fine di quella stagione, finisce anche il suo opposto. Allo stesso tempo con la latitanza dell’azione politica della maggioranza sono sempre meno le cose a cui è possibile dire di no. E quindi si resta senza niente da dire. Forse non è neanche un caso che tra i neosostenitori del governo ci siano numerosi ex dipietristi.
Una opposizione vera non deve fare lo stesso errore, ma deve offrire un’alternativa. Una vera e propria alternativa di governo e anzi di sistema. Altrimenti si sarà sempre nell’ombra di un Berlusconi comunque irraggiungibile se si scende sul suo terreno. Il problema è ribaltare il tavolo e dare carte nuove. Bisogna soddisfare la sete che gli italiani hanno di un sistema politico diverso. Non può essere un caso se, nonostante il bombardamento mediatico, nel Paese cresce e si consolida una terza posizione che è anche politica, ma prima di tutto culturale e sociale. È a questi mondi dell’informazione, della cultura, delle
La lezione che arriva dalle primarie di Milano, Torino e Napoli
Nuova classe dirigente? Ormai il sistema è bloccato
Le difficoltà a trovare nuovi candidati-sindaco ci dice che il ricambio oggi è ancora più difficile che ai tempi della “partitocrazia” di Enzo Carra scoltiamo il leopardiano venditore di almanacchi, oggi bisognano «lunari nuovi» e nuovi politici, politiche nuove. È curioso che nel momento in cui la stagnazione e la mancanza di ricambio delle classi dirigenti è più grave e più sentita di quel che era stato in altre epoche non venga sollevato con tutta la serietà che merita questo problema. Eppure è così: se a Torino si incammina verso il Palazzo di Città l’ex segretario diessino Piero Fassino, a Napoli – per il momento – sono in lizza un magistrato e un prefetto. Del primo non si conoscono le esperienze amministrative e forse non ne ha, il secondo è certamente un ottimo organizzatore. Come Fassino del resto, che fu già segretario organizzativo del vecchio Pci. Questo non vuol dire che candidature così non abbiano un senso e che non possano avere successo. Si vuol soltanto dire che queste candidature sono prova dell’enorme crisi della politica, incapace di selezionare donne e uomini, possibilmente giovani, per incarichi che richiedono energie e idee nuove.
A
Il nostro venditore di almanacchi si trova oggi alle prese con una crisi del mercato per cui è lecito, anzi necessario, ristampare all’infinito copie di quelli fuori catalogo già diversi anni fa. E per carità non si obietti che in tal modo rispunta il vuoto disegno del giovanilismo a tutti i costi. Il male è più infido e ha minato la stessa fiducia che la politica nutre, o dovrebbe nutrire, verso se stessa. È soltanto un’analogia, ma quando la Democrazia cristiana ormai sconfitta si era rassegnata a passare la mano presentò alle elezioni
per il Campidoglio un’onesta figura di prefetto. La scelta degli uomini prevista per legge con l’elezione diretta del sindaco e rafforzata dalle primarie, almeno nella coalizione di centrosinistra, a questo dovrebbe portare. A una successione di donne e di uomini sulla scena pubblica meno affannosa e possibilmente senza
Di giovani abbiamo parlato quasi esclusivamente per i bunga bunga del nostro premier
rete. Qui però di reti ne vediamo tante e le trappole, quelle sono le solite. Non è soltanto responsabilità dei partiti o degli schieramenti politici ma anche del soggetto che un tempo fu definito società civile. È sempre più frequente, infatti, imbattersi in potenziali candidature a primo cittadino nelle più importanti città italiane ritirate dai titolari per la paura di non riuscire. Come se ci si dovesse candidare soltanto a patto di essere eletti. Eppure in politica, come nella vita, il rischio va affrontato, non si può pensare di aggirarlo. E invece siamo nell’abnorme situazione in cui nessuno vuole rischiare al governo, nelle regioni, nelle amministrazioni comunali. Nelle elezioni è l’ora, la grande ora, dell’assicurazione kasko per la politica. E c’è anche chi si assicura contro i processi.
Proprio in questo stato di cose sarebbe indispensabile aver coraggio: non rottamare, ma esordire. I gruppi dirigenti dovrebbero preoccuparsi di garantire una sola cosa: le regole e i modi per il loro ricambio. Così non è. Di giovani, in queste ultime stagioni, abbiamo parlato quasi esclusivamente per i bunga bunga del nostro presidente del consiglio (e magari fosse che qualcuna di loro sostituisse alcune delle presenti in Parlamento). In ogni caso, c’è la minaccia di un formidabile ritorno all’indietro. Dalle dittature del Maghreb, per esempio, si può davvero passare all’instaurazione di Emirati Wahabiti. E la nostalgia per il re senusso che si intravede in molti commenti di questi giorni vale il pur recente baciamano di Berlusconi a Gheddafi. In una specie di depressione universale si guarda al passato come a un passo avanti. Da noi la partitocrazia che aveva in sé una certa capacità di autorigenerarsi è stata sostituita da un sistema sterile che non sa e non vuole preparare la propria successione. Se questo fu il nuovo che avanza c’è da sperare soltanto che non vi siano altri salti all’indietro.
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imprese, del sindacato, delle realtà sociali e religiose che una vera e forte opposizione deve guardare oggi. È con loro che deve parlare. E deve parlare in un modo diverso da come è stato fatto fin qui dal potere: se si parla a colpi di propaganda, slogan, spot, promesse e obiettivi utopistici, beh, in questo è molto più bravo Berlusconi, e dopo di lui la sua altra faccia, l’antiberlusconismo dogmatico. In fondo entrambi non fanno altro che indicare nemici e soluzioni facili e illusorie.
In questo gioco, il Terzo Polo sarà sempre terzo. L’opposizione repubblicana deve invece rendersi credibile agli occhi di chi la aspetta presentando progetti chiari, precisi, concreti. Presentando una visione onesta e allo stesso tempo affascinante dell’Italia che vogliamo. E indicando con chiarezza la strada da percorrere per ottenere quei risultati. E il modo migliore per farlo è farlo in Parlamento. È evidente come l’attuale sistema stia svuotando il Parlamento dei suoi poteri. E ora che il Presidente della Repubblica ha dato un altolà ai decreti ci sarà sempre meno azione di governo. A questo sembrano essersi rassegnati anche i parlamentari, che fanno languire ogni iniziativa parlamentare. In pochi con Casini si lamentano dello scarso lavoro in Aula. Su questo l’opposizione deve essere incalzante. Inondare le Camere di proposte di legge, pretendere che siano calendarizzate, superare le difficoltà che vengono poste dalla mancanza di copertura finanziaria: molte importanti riforme su temi sensibili infatti non hanno bisogno di soldi, e in altri casi è doveroso pretenderli ed eventualmente mettere il governo davanti alla responsabilità di dire di no. Non per avere un’inflazione di leggi: si possono fare provvedimenti anche per semplificare e per ridurre, accorpare, tagliare leggi inutili. Con questa azione parlamentare, politica, accompagnata a una attenta critica ai provvedimenti malfatti del governo (critica che deve essere ben comunicata) si va a disegnare uno scenario efficace e credibile dell’Italia che si vuole, si dimostra di credere nelle istituzioni e in un sistema diverso, più pienamente democratico, e allo stesso tempo si incalza il governo non governante e la maggioranza raccogliticcia, spesso mettendo in evidenza prima di tutto e con puntigliosità le promesse e i proclami mai mantenuti. È sorprendente come ogni giorno venga detto e ripetuto tutto e il contrario di tutto, vengano rilanciati sempre gli stessi programmi, le stesse promesse. La parola non viene mai mantenuta (basterebbe ricordare che anche negli ultimi mesi e persino giorni Berlusconi si è ritrovato a citare il se stesso del 1994: ma se ripete le stesse cose di 17 anni fa, vuol dire che non le ha ancora fatte). E nessuno chiede conto delle cose dette e non fatte. L’opposizione deve creare con le sue proposte in aula una specie di puntaspilli parlamentare dove inchiodare la maggioranza ad ogni sua promessa mancata. A parole infatti non molte cose dividono il Nuovo Polo dalla maggioranza, ma è sui fatti concreti che scatta la separazione. Contro il diluvio di parole, devono essere i fatti a parlare. In modo da dire al governo «quello che dirai potrà essere usato contro di te».
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grandangolo I “fuori casta” puntano su istruzione e modernità per il riscatto
“English”, la dea che salverà i dalit da povertà e ignoranza
In mano impugna una penna, simbolo di alfabetizzazione e riscatto sociale. Ai piedi c’è un computer, per significare che soltanto tramite l’informatica si potranno pareggiare i conti con le alte sfere della società. E le fattezze sono quelle della statunitense Statua della libertà. È la nuova entità, lanciata a Banka, che cerca di salvare i paria dell’India di Maurizio Stefanini a posa è la stessa della Statua della Libertà, ma nella mano sinistra slanciata verso l’alto invece della torcia simbolo della libertà stringe una penna: simbolo che sa leggere e scrivere. L’aspirazione alla libertà e all’uguaglianza viene invece dal libro che porta sotto braccio sulla destra: non la Dichiarazione di Indipendenza degli stati Uniti come nel modello di riferimento, ma la Costituzione indiana, il cui “padre” fu uno di loro. Il dalit, o come si dice in italiano paria o intoccabile, Bhimrao Ramji Ambedkar. Ai piedi, invece delle catene spezzate, c’è un computer: icona della modernità, e anche simbolo del boom economico indiano, con l’eccellenza dei suoi informatici. In testa invece della corona a sette punte rappresentante i sette mari e i sette continenti c’è un bel cappello: allo stesso modo del bel vestito al posto della toga, un emblema della volontà di rottura rispetto agli oppressivi codici di abbigliamento imposti ai dalit dalla tradizione indù. Quella di New York, infine, rappresentava metaforicamente la libertà che illumina il mondo.
L
La sua versione riveduta e corretta a cui sta venendo costruito un tempio nel villaggio di Banka è invece Goddess English: non nel senso di dea Inglese, ma di Dea dell’Inglese, la lingua. Un antico idioma di dominatori in passato odiati, ma che furono anche fautori di quella modernizzazione di cui i dalit si sono
valsi per risvegliarsi infine dall’avvilimento millenario cui li condannava la teoria indù del karma, che vedeva in quel loro inferno in terra una punizione per i peccati commessi in qualche reincarnazione precedente. In seguito, l’inglese è diventato in India anche uno strumento di integrazione nazionale e eguaglianza, nel momento in cui attaccandovisi l’80% di indiani che non parlava l’hindi riuscì a impedire che venisse proclamata lingua unica l’idioma di una minoranza. Infine, l’inglese si è rivelato un efficacissimo strumento di
Chandra Bhan Prasad, ideatore della novità, spiega: «Serviva un simbolo per rilanciare con forza il movimento dei senza casta» promozione economica e sociale: che rende i laureati indiani in grado di riciclarsi subito in qualunque parte del mondo, e permette perfino all’India di profittare della globalizzazione attraverso la delocalizzazione di call center e uffici da Stati Uniti, Regno Unito e mon-
do anglofono in genere. Ovviamente, a condizione di impararlo. Ma se si fa possedere, l’Inglese può diventare davvero per i paria uno strumento di affrancamento senza eguali. Senza contare che simboleggia il sogno di una società dove tutte le differenze di casta sono abolite. Con tipica mentalità indù, alcuni dalit quindi questo potente Inglese hanno iniziato a trasfigurarlo in una Dea, da pregare e a cui offrire i sacrifici. Appunto, Goddess English.
Non a caso, d’altronde, Banka si trova nell’Uttar Pradesh: letteralmente, la “Regione Settentrionale”. Grande un po’ più dell’Italia e con gli abitanti del Brasile, il quinto Stato dell’Unione Indiana per estensione e il primo per popolazione oltre che la più popolosa “regione amministrativa” interna a uno Stato di tutto il pianeta, patria della lingua hindi ma con idioma ufficiale quell’urdu che in effetti non è che una versione dell’hindi per musulmani, l’Uttar Pradesh ha come Chief Minister una dalit: la 55enne Mayawati Naina Kumari. La prima Paria, donna e intoccabile assieme, a essere diventata Primo Ministro di uno Stato dell’Unione Indiana. Anche il suo nume ispiratore è Bhimrao Ramji Ambedkar, che consigliava agli intoccabili di convertirsi al buddhismo, per sottrarsi al sistema di discriminazioni dell’induismo. Figlia di un impiegato al ministero delle Telecomunicazioni assunto grazie alle quote riservate per gli
intoccabili, lei stessa ebbe un diploma di insegnante e una laurea in legge grazie alle stesse quote. Ma il posto che aveva ottenuto a scuola lo ha poi lasciato a 28 anni per diventare politica professionista, partecipando alla fondazione del Bahujan Samaj Party: il “Partito della Maggioranza della Società”, rivolto allo strato più basso tra gli intoccabili. E nel maggio 2007 ha spazzato via tutto, appunto come l’elefante del suo simbolo, con 207 seggi su 402 nell’Assemblea di questo Stato. È l’unico Stato in India che oggi sia governato da un partito solo, e non dalle solite, pletoriche coalizioni. Strategia vincente, la cosiddetta “coalizione arcobaleno”. Cioè, un’alleanza diretta tra paria e bramini, superando i vecchi patteggiamenti settoriali con l’appello a un programma concepito per includere: cosa tanto più sorprendente, se si pensa che aveva iniziato a fare politica minacciando di colpire le caste alte a colpi di scarpa. In insulto terribile, per la tradizione indù….“Gli altri partiti promettono e non mantengono. Noi facciamo quello che diciamo”, recita il suo slogan, con cui ha provato a corere anche come Primo Ministro a livello nazionale. Anche se il suo Terzo Fronte non è poi riuscito ad affermarsi più di tanto, nella polarizzazione tra il Congresso dei Nehru-Gandhi e il Bjp dell’integralismo indù. Ma bisogna forse aver pazienza. Nel frattempo, l’Uttar Pradesh ha realizzato il miracolo che gli stati Uniti hanno avuto con il negro Obama
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Le dalit in politica calano nei sondaggi
Mentre le Kumari assistono impotenti
alla presidenza e Perù e Bolivia con le presidenze degli indios Alejandro Toledo e Evo Morales. «Ci voleva un simbolo del rinascimento dalit», ha spiegato nel proporre la nuova dea lo scrittore Chandra Bhan Prasad: primo dalit a ottenere una rubrica su un giornale indiano di lingua inglese. La sua biografia lascia intendere che in Goddess English ci sia molto del suo vissuto, ma la miglior teologia indù ammette che la Divinità è una realtà monistica in grado però di esprimersi in infinite manifestazioni. Se qualcuno sente il bisogno di una Dea dell’Inglese, dunque, la Divinità non avrà troppi problemi a presentarsi anche brandendo in mano una penna. D’altra parte, anche Ambdekar la pensava allo stesso modo. «Ambedkar diceva che l’inglese è come il latte di una leonessa, solo coloro che lo bevono potranno ruggire», spiega ancora Prasad. Quello dell’istruzione è effettivamente un problema centrale. Tra i dalit il livello di alfabetizzazione è del 55%: almeno il 10% al di sotto della media nazionale. Questo perché soprattutto nelle campagne i membri di altre caste continuano ad avere i pregiudizi tradizionali sul fatto che è contaminante non solo toccare un dalit, ma anche toccare la stessa cosa che lui ha toccato.
Da sempre, i venditori ambulanti di acqua e bibite accanto ai bicchieri per gli altri clienti hanno anche ciotole di noce di cocco per dalit. Da spezzare subito dopo la consumazione per dare la garanzia che non ci sarà occasione di impurità. Quindi nelle scuole i dalit vengono messi a sedere e a mangiare a parte, spesso anche in classi a parte, e molti rinunciano direttamente. Inoltre, spiega Prasad, il grado di consapevolezza sull’importanza dell’inglese come strumento di promozione sociale varia a seconda delle realtà: altissimo nelle città grandi, basso nelle città piccole, quasi nullo nei villaggi.“Ma tra vent’anni”, avverte lo scrittore,“nessuno che non sappia l’inglese potrà più avere in India un
lavoro decente”. Per questo, anche un tempio può servire a sensibilizzare. A Bamka quasi la metà dei 7-8000 abitanti sono dalit, e la novità a creato tra di loro grande fervore, al punto che un po’ dappertutto si possono ascoltare preghiere e inni rivolti alla potente Dea dell’Inglese. Purtroppo, si tratta ancora di preghiere e inni fatti in Hindi: Jai Angrezi Devi Maiyaa Ki, “Lunga Vita alla Madre Dea dell’Inglese”. D’altra parte, il tema dei dalit è in questo momento di grande attualità proprio
Ambedkar, padre dell’India, diceva che l’inglese è come il latte nuovo di una leonessa: «Solo chi lo beve potrà ruggire a lungo» perché tra il giugno e il settembre del 2011 l’India farà il suo primo censimento completo delle caste dopo ottant’anni, e il primo dall’indipendenza. Nel 1931 c’era ancora l’impero Britannico, che quelle tradizioni non proprio occidentali le conservava però con cura particolare, in nome di quel tipo di politiche che poi Hobsbawm avrebbe appunto definito di “invenzione della tradizione”. Il rapporto degli indiani con le caste è complesso. L’idea che l’uomo debba essere inserito per tutta la vita nella categoria sociale in cui è nato è una precisa conseguenza dell’induismo, con il concetto di karma: il modo in cui ci si è comportati in una vita, che determina la successiva reincarnazione, come premio o castigo. Ma per influenza dell’ambiente il sistema delle caste si è infiltrato anche tra religioni indiane diverse dall’induismo: non solo il buddhismo, che condi-
vide lo stesso concetto di karma anche se interpretato in un altro modo, ma anche il jainismo, il sikhismo, lo zoroastrismo, l’islamismo, perfino il cristianesimo. E ciò, anche se molti appartenenti a caste sfavorite si sono nel corso dei secoli convertiti a islamismo, sikhismo, buddhismo e cristianesimo per protesta. Oggi la Costituzione dà al Presidente indiano e ai governatori degli Stati la facoltà, poi effettivamente utilizzata, di compilare elenchi di “caste” e “tribù”“catalogate”: a fine di discriminazione positiva, come poi ribadito dalla Commissione Mandal che nel 1980 impose di aumentare la quota minima di posti pubblici e iscrizioni all’Università da riservare ai membri di questa caste e tribù svantaggiate, dal 27 al 49,5%. Ci sono perfino seggi riservati in Parlamento: 79 sui 543 uninominali della Camera eletta dal Popolo sono infatti riservati ai dalit e 41 ai tribali adivasi. Ma, come negli Stati Uniti per le politiche di discriminazione positiva a favore dei neri, anche India queste leggi provocano continue polemiche, che si tradussero ad esempio nelle grandi proteste del 2006.
Per questo il dibattito in Parlamento è stato particolarmente acceso e trasversale: sostenitori delle caste basse opposti alla “schedatura” si contrapponevano infatti a sostenitori delle caste alte che vogliono farla finita con la discriminazione positiva. Ma il 9 settembre si è avuto infine un voto a favore del censimento, che verrà effettuato casa per casa, come annunciato dal ministro dell’Interno Chidambram (ma il suo Vice Ajay Maken è ad esempio contrario). Ufficialmente, proprio per poter meglio tarare queste stesse politiche di discriminazione positiva, che finora si sono sempre basate su stime. È ad esempio una stima che i dalit siano 160 milioni e gli adivasi 70 milioni, ma sull’ammontare delle altre caste svantaggiate si va dai 320 milioni calcolati dall’istituto statistico nazionale ai 520 milioni risultati dalla stima della Commissione Mandal.
DELHI. Il 4 giugno del 2009 Meira Kumari è divenuta il nuovo presidente del 15° parlamento indiano, Lok Sabha. È la prima volta che una donna fuori-casta occupa una posizione di responsabilità come quella di speaker della Camera bassa. Quando il suo nome è stato proposto da Sonia Gandhi, la Meira ben volentieri ha dato le dimissioni da ministro delle Risorse Idriche che aveva assunto la settimana prima. Questa scelta serviva nel difficile tentativo d’introdurre in Parlamento una quota riservata alla donne ed in oltre è una affermazione della volontà del partito d’impegnarsi socialmente. Nel passato è stato sempre il Congress a scegliere una donna come premier, Indira Gandhi, ed una donna come presidente, Pratibha Patel. Kumar, 64 anni, proviene da una famiglia che ha sempre appoggiato il partito del Congress. Suo padre, Jagjivan Ram, è stato vice primo ministro. Lei ha vinto le elezioni in ben tre posti differenti: Bijnore in Uttar Pradesh, Karol Bagh in Delhi e Sasaram in Bihar. La speaker del Lok Sabha ha fatto parte del governo di P V Narasimha Rao come vice-ministro ed è arrivata a comandare un dicastero nel 2004 quando la United Progressive Alliance (UPA) ha formato il Gabinetto. Meira Kumar ha avuto anche varie responsabilità nella gerarchia del Congress come Segretario Generale. La sua scelta da parte del Congress potrebbe essere un colpo mancino per il Bharatiya Janata Party (BJP) che sembra voglia mettere una donna come vice-capo dell’opposizione in parlamento ed anche per la signora Mayawati del Bahujan Samajwadi Party che sta emergendo come simbolo dei Dalit. La Kumar si è laureata nel 1973 e per 12 anni è stata in servizio nella ambasciate di Madrid, di Londra ed anche nel ministero degli Esteri di New Delhi. Ha lasciato il suo posto per essere eletta al Parlamento dal seggio di Bijnor nel 1985. Sia lei che la sua “rivale”, lungi dall’essere unite dall’amore per il riscatto sociale, stanno assistendo impotenti alla creazione della Dea Inglese, che di fatto prende il loro posto come simbolo dei fuori casta. Recenti sondaggi le indicano in forte calo, e secondo gli analisti indiani entrambe le loro stelle sono in discesa «a meno che non riprendano le antiche lotte per la loro gente».
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il personaggio della settimana Alcuni parlano di una vendetta politica da parte del premier Hasina, che lo considera un rivale
Il Nobel per la pace in guerra con Dhaka
Il Bangladesh ha costretto Muhammad Yunus a lasciare la Grameen Bank, la “banca dei poveri” su cui si sono addensate nel tempo nubi nerissime. L’inventore del microcredito nell’occhio del ciclone di Vincenzo Faccioli Pintozzi on deve essere cosa da tutti i giorni, licenziare un premio Nobel per la pace.Tanto più se il licenziato è considerato da molti un benefattore dei poveri, un geniale economista e in generale una brava persona. Ma il governo del Bangladesh questo brivido l’ha provato, e nei giorni scorsi ha costretto il premio Nobel per la pace Muhammad Yunus a lasciare la sua banca di microcredito, la Grameen Bank. D’altra parte, l’esecutivo di Dhaka ha diritto di parola: nei suoi forzieri riposa infatti il 25 per cento del pacchetto azionario che garantisce il capitale sociale della banca. E questo, nei fatti, lo rende l’azionista di maggioranza di un sistema di crediti basato sul microfinanziamento che si aggira intorno ai 955 milioni di dollari complessivi per circa otto milioni di poveri (nella maggioranza dei casi donne). Il sistema - illustrato dal suo inventore nel best seller Il banchiere dei poveri è semplice quanto (a prima vista) geniale: si tratta di concedere piccole somme di denaro senza richiesta di garanzie a persone che lavorano sul proprio territorio. Non avendo filiali e
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costi di gestione, si permette a chi necessita di pochi soldi di ottenerli senza ricorrere agli strozzini, figure incardinate nelle società dell’Asia meridionale. Un giro di denaro, come visto, imponente che ha scatenato una guerra all’ultimo sangue nella dirigenza della banca. Guerra, in ogni caso, molto facilitata dalle tantissime nuvole che si addensano sul capo del fondatore: da molti considerato un capo usuraio, e molto poco di più. In ogni caso, all’inizio della settimana - dopo la richiesta rivolta dal governo al banchiere - la Banca centrale del Bangladesh ha inviato una lettera in cui si sostiene che l’economista, che ha 70 anni, ha continuato a rimanere alla testa della Grameen Bank anche dopo aver superato il 60esimo anno, età limite prevista nel Paese per il pensionamento.
Secondo i suoi sostenitori, invece, la verità è che il governo non intende perdonargli l’annuncio (poi ritirato) di voler entrare nella scena politica con un movimento proprio. In una terra sconvolta da sommovimenti ai vertici numerosi e ripetuti, la discesa in campo di un candidato di questo peso avrebbe sconvolto i già fragilissimi equilibri interni, allontanando di fatto dalla vita pubblica moltissime persone oggi potenti e ai vertici. Ecco perché la Grameen Bank, più o meno “Banca Rurale”, è divenuta un campo di battaglia su cui si sfidano il Nobel per la Pace e il premier Hasina. E dire che non era così: anzi, all’inizio era stata pensata all’incirca come il viatico per un modo estremamente miglioro. Yunus raccontò questa storia nel libro sovracitato, che nell’originale francese del 1997 è intitolato “Vers un monde sans pauvreté”. All’epoca, almeno il 10 per cento degli abitanti del Bangladesh era ormai uscito dal bisogno grazie all’intuizione del “banchiere dei poveri”: una massa di 12 milioni di persone sparse tra 36.000 villaggi. Il bello è che la “trovata” si era già allora trasformata in un vero e proprio impero creditizio, diffuso in 57 Paesi, e comprese aree marginali di nazioni teoricamente
in testa agli indici mondiali di qualità della vita: dagli slums delle metropoli Usa alle isole dell’estremo nord norvegese. L’importante, spiegava Yunus, è partire dai bisogni reali delle persone, aver fiducia nelle loro capacità, ma essere inflessibili sulle restituzioni.
«Tutta la forza di Grameen deriva dalla sua quasi totale capacità di recupero. Il tasso di recupero non esprime soltanto la solvibilità del cliente, ma la determinazione e la disciplina che hanno reso possibile quel risultato. I poveri sanno che quella è la loro unica occasione, al di là della quale non ci sono alternative». Proprio per l’invenzione del “credito bonificato” nel 2006, anno in cui il microcredito era ormai arrivato a interessare 133 milioni di famiglie, aYunus diedero il Nobel per la Pace. Con quel riconoscimento, sostanzialmente, la comunità internazionale ha voluto certificare la correttezza e la bontà del sistema. Lenin Raghunvashi, attivista per i diritti umani che opera nel nord dell’India, la pensa diversamente. Intervistato da liberal sul sistema di credito inventato dal licenziato, spiega: «Il micro-credito è un sistema di sfruttamento degli esseri umani, crudele come il nazismo e improntato soltanto su criteri di profitto. Non c’è alcun interesse al miglioramento della condizione sociale dei poveri: si pensa soltanto a fare soldi. I mercati sono essenziali, ma dovrebbero basarsi su dei valori etici. La micro-finanza, invece, non ne ha». Il commento è molto duro, ma si basa su un’ondata di suicidi relativi a rate non pagate che ha sconvolto negli ultimi mesi il sub-continente. Secondo uno studio compiuto dal governo indiano, sono gli stessi agenti degli Istituti di microfinanza [Imf, in pratica le “filiali”della Grameen nda] a incitare i debitori a suicidarsi se non riescono a saldare le rate del prestito concesso: in questo modo sarà l’assicurazione a pagare per loro. Nell’ultimo mese e mezzo, si sono verificati almeno 45 suicidi che possono essere collegati con sicurezza alla
e di cronach
5 marzo 2011 • pagina 31 Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
pratica del micro-credito. Sujata Sharma, direttore dell’Autorità statale per lo sviluppo dei distretti rurali, conferma tutto: «Sono gli agenti dell’Imf a incitare i poveri al suicidio. Sanno che c’è un Fondo di protezione assicurativo a tutela di chi concede prestiti, che interviene in caso di morte improvvisa del debitore. Non vogliono aspettare tanto tempo o stare dietro a debitori poveri, quindi presentano la morte come un’alternativa molto pratica». Inoltre, lo stesso studio dimostra in maniera evidente che il micro-credito non soltanto non aiuta lo
do lo studio, questi sei motivi sono matrimoni, funerali, riti particolari di carattere religioso, spese mediche non coperte dallo Stato; pagamento di vecchi debiti e educazione dei minori. D’altra parte gli Imf non si impegnano nella richiesta di progetti di sviluppo. Il sistema si basa su un sistema apparentemente geniale: invece di fondare filiali bancarie e concedere denaro in cambio di garanzie, gli Imf affidano un certo quantitativo di contante ad agenti scelti sul territorio (spesso appartenenti alle classi alte dei vari villaggi) che si im-
Fondamentalmente perché, anche a voler pensare che il banchiere dei poveri si sia sempre comportato in maniera impeccabile, ha comunque sbagliato nel non valutare correttamente l’impatto sociale dell’affidare la gestione del recupero crediti a persone di caste elevate. Conoscendo molto bene il sistema in questione, dal quale viene anche lui e di cui ha quindi esperienza diretta, avrebbe dovuto prevedere che lo squilibrio delle società in questione avrebbe procurato moltissimi problemi a chi non poteva saldare le rate.
Un attivista indiano spiega a liberal: «Altro che genio, è un criminale che ha messo i poveri nelle mani di usurai senza scrupoli, verso il suicidio» sviluppo delle classi inferiori delle società asiatiche, ma anzi è spesso la causa di un peggioramento della situazione dei poveri. Come si legge nel testo, «analizzando i cicli di spesa di quei settori, si nota un aumento impressionante delle spese inutili. Davanti alla possibilità di ottenere denaro senza alcuna garanzia, i poveri sono stimolati a contrarre debiti che per loro diventano enormi». I soldi ottenuti, inoltre, «non vengono usati per lo sviluppo di progetti economici. Anzi, i primi sei scopi di spesa dell’intero giro del micro-credito dimostra la futilità del prestito». Secon-
dominano il sistema e tendono a degradare gli esseri umani». Nei nostri villaggi, sottolinea Raghunvashi, «stiamo combattendo per convincere la gente a non cadere nella trappola. Cerchiamo di assistere i poveri per ottenere prestiti bancari, ma solo se hanno un progetto di lavoro.Vogliamo che si crei un collegamento fra chi dà i soldi e chi li usa, in modo da trasformare un lavoratore in un proprietario. Dandogli così piena dignità». Insomma, ripudiando il metodoYunus e tutto quello che rappresenta.
Per assurdo, alla luce di quanto sta
pegnano poi a recuperare il denaro. Secondo Raghunvashi, che ha vinto nel 2007 il Premio Gwangju per i diritti umani [considerato il premio Nobel asiatico nda], «si tratta di membri delle caste alte, arroganti e violenti, che agiscono in cambio di una commissione pari al 20 per cento del prestito». In un villaggio dell’Uttar Pradesh, racconta l’attivista, «c’erano quattro membri dell’Imf. La gente era arrivata a chiedere prestiti a uno per ripagare l’altro: un circolo vizioso che alla fine ha condotto al suicidio. Molti di questi agenti sono inoltre indù delle case più alte, che
avvenendo in questi giorni, l’idea del micro-credito sembra essere più praticabile proprio nei ricchi Paesi occidentali, dove però l’aumento dei prezzi al consumo e il galoppo dell’inflazione rende piccole cifre indispensabili per le unità singole e familiari. E dove, soprattutto, non esiste una pressione sociale “dall’alto verso il basso” simile a quella imperante nel sub-continente. Senza poi considerare la contraddizione in termini, e il gioco di parole, di un Premio Nobel per la Pace in guerra con il proprio governo per salvare la propria creatura e soprattutto la propria onorabilità. Prima che, come accaduto a tanti altri benefattori dell’umanità prima di Yunus, la sua opera e il suo nome vengano per sempre collegati a un dramma sociale che nulla ha a che fare con la finanza e molto, moltissimo con la povertà più estrema disponibile al mondo.
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
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ULTIMAPAGINA
I dati degli avvocati divorzisti americani dicono che Facebook è responsabile di due separazioni su dieci
Maledetto il giorno che ti ho di Francesco Lo Dico on è legarsi a una donna che l’uomo teme: è il separarsi da tutte le altre, sibilò la buonanima di Helen Rowland. E alcuni decenni dopo, l’avvisaglia di naufragio fu gorgogliata con tacitiana compostezza da Ambra Angiolini: «Tu stavi con Francesca ma Francesca amava Davide. Abbiamo cominciato in quattro e adesso siamo solo io e te». È la solitudine dei numeri terzi, il vero titolo del matrimonio moderno, una galleria fantasmatica dove soffia il Grande Freddo della nostalgia. A metà tra la Gita Scolastica nel rimorso à la Pupi Avati, e il carosello lacrimoso delle Parole che non ti ho detto, l’eterno ritorno della carrambata, ha trovato su Facebook il palcoscenico perfetto. A tal punto che questa simpatica macchina del tempo, spesso lascia spiaccicate sull’asfalto fior di coppie.
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Chiacchere da bar, confessioni imbarazzate, silenzi strategici, risatine alla macchinetta del caffé, cominciano ad avere un contorno più preciso. L’indagine condotta dall’American Academy of Matrimonial Lawyers, è un vero avviso ai naviganti: a Manhattan e dintorni Facebook è responsabile di due divorzi su dieci. E per meglio recepire l’entità della cosa, gli avvocati divorzisti spiegano che l’ottanta per cento delle loro parcelle, viene ormai a seguito di sfortunate attività clandestine dei loro clienti sui social network. La rete, insomma, ratifica la crisi dell’amore nell’era della sua riproducibilità tecnica. Il canovaccio è quello scontato della telenovela: aggiungi un amico, l’amico ti aggiorna sui vecchi tempi, e a te non importa nulla ma sopporti in vista dell’obiettivo più nobile. Finalmente chiedi della vecchia fiamma, lui ti suggerisce l’amicizia (ma non negare, gliel’hai suggerito tu per di più schermendoti come un vecchio cenobita distante dall’arengo
mondano) e il gioco è fatto. Quattro ricordi in padella, affettato misto di allusioni e ammiccamenti, e fotocamera con vista (il meno possibile) sulla disumana calvizie. Dessert di sospiri, macedonia di rimpianti, e il caffé è servito. Al tavolino di un bar stavolta, eccitati come ladri ma con il volto travisato da un manto di genui-
riller di Polanski, solo un po’ più sanguinoso. La moglie o il marito, entrano nel sogno con tutte le disturbanti credenziali di un progetto di vita comune, e l’ascia di Jack Torrance a suggerire la probabile conclusione dello stesso. Ben il 66 per cento degli avvocati divorzisti americani cita la piattaforma di Palo Alto co-
TAGGATO me prova per le cause in cui due coniugi vogliono interrompere la propria unione. «Grazie a Facebook ci si incontra con i vecchi amici del liceo o dell’università e la condivisione di storie personali può portare in breve tempo a un forte senso di intimità che può poi portare al contatto fisico», sintetizza lo psicologo Steven Kimmons, con amorevole spirito eufemistico. Il movente è sempre quello, dunque, dell’equa suddivisione del fardello: quando un coniuge intende divorziare dall’altro la colpa in genere è di tutti e tre. Non va meglio dall’altra parte dell’Oceano, dove Secondo lo studio di avvocati britannico Divorce-Online, conferma che i social network sono causa di divorzio in un caso su cinque. Ma in parallelo, la bacheca di Facebook spesso funge da galante succedaneo alla mitica “civile discussione, che dopo tanti anni è il minimo”.
Ben il 66 per cento dei legali matrimoniali statunitensi cita la piattaforma di Palo Alto come prova per le cause in cui i due coniugi vogliono interrompere la propria unione na e antica purezza: «Due chiacchiere con te dopo così tanto tempo. Non mi sembra vero, ». E infatti non è vero per niente. Il passo dall’affollato social network a una più recondita camporella è breve, il tutto nobilitato dalla sublime tenerezza di sentirsi ancora fanciulli senza un filo di torbidi intenti. Il destino, il concilio con gli dei, il sublime kantiano, il fanciullino di Pascoli, Silvia rimembri ancor, e lei donzelletta che veniva dalla campagna.
Quanta letteratura, per riempire il libretto delle giustificazioni di una chat. Attimi di felicità, dove risuona la struggente melodia di Morricone. In pratica, un bel film strappalacrime di Tornatore, che galeotto il portatile diventa in un secondo un th-
Ne sa qualcosa Emma Brady, giovane che ha appreso le intenzioni del marito direttamente dalla sua bacheca, dopo anni di felice matrimonio: «Neil Brady ha messo fine al proprio matrimonio con Emma Brady», ha scritto sul suo status. È la legge del social network, bellezza. Il divorzio è l’apostrofo rosa tra le parole “t’aggiungo”.