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ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 12 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
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Apocalisse in Giappone L’asse della Terra si è spostato di 10 centimetri
Nella tragedia, un grande esempio di prevenzione di Carlo Ripa di Meana
Precauzione e politiche responsabili hanno impedito un tributo ancora più grande di vite umane
servizi da pagina 2 Oggi il vertice della Lega araba. Il Colonnello minaccia il ritorno al terrorismo
I dubbi dei costituzionalisti Capotosti e Patrono
Ue:«Gheddafi vada via subito»
«All’Italia serve l’autonomia dei magistrati»
L’Europa apre agli insorti. Clinton: «La Nato è pronta» di Enrico Singer
l Pd aveva un solo modo di affrontare la riforma della giustizia messa in campo finalmente - dal governo: proporne prima una propria. Una proposta organica messa nero su bianco. Ed era, se è vero che alla guida del partito ci sono i riformisti, l’unico modo per tagliare le gambe, politicamente parlando, tanto ai Vendola quanto ai Di Pietro e ai De Magistris.
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C
Parla l’egiziano Walid Kazziah
Va male il “venerdì della collera”
Bombardamenti? Arabia saudita Toccano agli arabi fallite le proteste «L’accordo deve essere Re Abdullah al Saud internazionale, blinda il Paese. ma Usa e Ue E la gente non scende non intervengano» in piazza di Luisa Arezzo • pagina 26
di Antonio Picasso • pagina 28
seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
Berlusconi: «Sarò in Aula al processo Mills». La Cei: «Non stravolgete la Costituzione»
he non sarebbe stato facile far risuonare la tanto invocata voce unica europea di fronte a quanto sta accadendo in Libia era apparso chiaro non appena il presidente del Consiglio della Ue, Van Rompuy, si era ritrovato sul tavolo la lettera di Sarkozy e Cameron che chiedevano il riconoscimento del governo provvisorio creato dagli insorti e si spingevano a ipotizzare anche «attacchi aerei mirati». Mancavano 12 ore all’inizio del vertice straordinario dei Ventisette e da quel momento è cominciato uno psicodramma che si è concluso con l’ennesima mediazione che si può riassumere così. L’Europa alza la voce: chiede al Colonnello di abbandonare il potere, definisce inaccettabile l’uso della forza militare contro i civili, condanna la violazione dei diritti umani, si dice pronta a collaborare con l’Onu e la Lega Araba.
NUMERO
50 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
servizi alle pagine 6 e 7
Le mosse sbagliate dei democrats
E il Pd superò il record di errori di Enrico Cisnetto
I
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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catastrofe in giappone
Prima un terremoto di 8,9 gradi poi uno tsunami di dieci metri. L’asse della Terra si è spostato di dieci centimetri. Travolta una nave, scomparso un treno. Esplode un complesso petrolchimico. Il governo chiede aiuto ai militari Usa, Obama: «Siamo pronti». L’Ambasciata italiana: «Persi i contatti con 28 connazionali»
L’Apocalisse Bilancio devastante: già migliaia i morti e i dispersi, oltre 2mila gli sfollati. Alla centrale atomica di Fukushima è allarme nucleare di Pierre Chiartano
ROMA. Sono le 06.46 in Italia quando dall’altra parte del mondo si scatena l’apocalisse. È uno dei più potenti terremoti mai registrati dalla sismologia mondiale, quello avvenuto ieri nel nordest del Giappone: 8,9 gradi di magnitudo della scala Richter sono i numeri del “calcio” geologico ricevuto dall’isola del Sol levante. Un calcio che ha spostato l’asse terrestre di ben dieci centimetri, secondo gli esperti italiani dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Seguito da uno tsumani di proporzioni immense. L’onda anomala di quasi dieci metri d’altezza è penetrata all’interno della costa per chilometri, investendo in pieno la città di Senday, nella prefettura del Myiaghi, dove c’è stata anche un’esplosione in un complesso petrolchimico. È un muro d’acqua che tutto travolge con forza muta, ma inesorabile. I rumori sono quelli della distruzione che provoca, prima di ritirarsi in mare portandosi die-
tro le vittime, come un animale che rientra nella tana dopo la caccia. Come è successo sulle spiagge di Senday, costellate di centinaia di cadaveri, ormai inanimati testimoni del cataclisma. E come se non bastasse l’acqua ha colpito anche alle spalle: è crollata una diga nella prefettura di Yukushima.
Punteggiata d’incendi appariva invece Tokyo, con quattro milioni di case rimaste al buio, mentre venivano chiusi tutti i porti e gli aeroporti del Paese. L’aeroscalo Narita della capitale ha poi parzialmente ripreso le attività, con il decollo di alcuni voli, nel primo pomeriggio (ora italiana). L’epicentro è stato individuato a circa 373 chilometri dalla capitale, al largo della costa. Il primo ministro giapponese Naoto Kan ha lanciato un appello alla calma alla popolazione, esortando i suoi concittadini a tenersi costantemente informati su quanto riguarda il sisma. Lo ha riferito Kyodo
News. «I danni interessano ampie zone del Paese, soprattutto per quanto riguarda la regione nordorientale», ha affermato il premier nel corso di una conferenza stampa. «Il nostro governo farà il massimo dello sforzo per garantire la sicurezza delle
purtroppo si aggiorna di ora in ora. La maggior parte dei morti inizialmente sono causati dai crolli, come quella avvenuta in una casa di riposo nella prefettura nordorientale di Fukushima. Una nave con cento persone a bordo è stata travolta dallo tsunami assieme a un treno che correva lungo la costa, come pedine di una grande plastico in cui il mare ha spazzato tutto. Lunghi tratti di ferrovia sono inagibili. Ma è chiaro che serviranno ore, se non giorni prima che si compilino le liste delle persone scomparse e che poi queste diventino le liste delle vittime. Anche se l’efficienza giapponese è proverbiale, parlare di numeri in questi frangenti ha poco senso.
Le onde anomale hanno investito terreni agricoli, abitazioni, raccolti, veicoli e provocato incendi in molte aree. Colpite diverse zone sulle coste del Pacifico persone e ridurre al minimo i danni causati dal sisma». E a guardare la potenza del cataclisma e all’ancora relativamente basso numero delle vittime e della generale tenuta delle infrastrutture, si capisce come il Paese sia stato forgiato per affrontare questo genere di eventi naturali. L’elenco delle vittime
È scattata anche l’emergenza nucleare per il blocco del sistema di raffreddamento in una centrale elettrica a Fukushima «ma non si teme un effetto
Chernobyl». Sono state sfollate migliaia di persone nelle aree a rischio contaminazione radioattiva. E l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Iaea) ha reso noto di aver ricevuto informazioni dall’Agenzia per la Sicurezza nuceare e industriale (Nisa) giapponese che l’impianto di Fukushima Daiichi è stato chiuso. Un incendio sarebbe invece scoppiato nella centrale di Onagawa: una volta domato il fuoco, anche questo impianto è stato chiuso, così come quelli di Fukushima-Daini e Tokai. In nessun caso sarebbero state rilevate fughe di radiazioni. In molte zone del Paese sono saltate le comunicazioni e si è parlato solo via internet. Si è trattato di un evento veramente eccezionale secondo tutti gli esperti. Le placche del fondo oceanico si spostano, in questo caso si tratta di un movimento verso occidente. La tettonica giapponese si muove di 80 millimetri all’anno con un movimento di subduzione, cioè si infila
catastrofe in giappone
del Consiglio, Silvio Berlusconi, in una dichiarazione diffusa a Bruxelles. «Siamo rimasti profondamente emozionati nel vedere le immagini del terremoto e del successivo tsunami», ha affermato il premier italiano. La potenza espressa in gradi Richter indica la forza del sisma nel suo epicentro, mentre la scala Mercalli è relativa a ciò che viene percepito in un determinato luogo geografico. Per fare un esempio, l’8,9 Richter a Senday può diventare due (Mercalli) a Pechino.
sotto la un’altra placca. Si tratta di movimenti molto importanti di grandi dimensioni.
Le comunicazioni telefoniche attraverso le linee fisse o mobili erano pressoché impossibili nell’area di Tokyo, dove invece ha resistito l’infrastruttura Internet, tramite la quale la gente ha continuato a scambiarsi informazioni in tempo reale sulla situazione di crisi. I telefoni cellulari sono andati in panne mentre continuavano a registrarsi scosse d’assestamento. Sono state due quelle devastanti: la prima è durata oltre due minuti e la seconda è stata di 7.8 gradi. Il sisma, secondo l’Istituto di geofisica americano, si è verificato a 24,4 chilometri di profondità alle 6,46 ora italiana (14,46 in Giappone) e circa un centinaio di chilometri al largo della prefettura di Miyagi. L’allarme tsunami è stato esteso a tutto il Pacifico, all’Australia, Messico, America Latina ed esteso a tutta la costa ovest de-
gli Stati Uniti. Le onde telluriche sono state avvertire distintamente fino a Pechino. Il Servizio meteorologico degli Stati Uniti aveva lanciato un allarme tsunami per le Hawaii e la costa nordamericana del Pacifico, dall’Alaska alla California. Un ordine d’evacuazione per le aree costiere interessate dall’allarme tsunami era stato emesso. Nel pomeriggio è poi stato revocato allerta per Australia e Nuova Zelanda, Indonesia e Filippine. Mentre Taiwan ha evacuato alcuni residenti dalla costa est, ma ha comunque revocato l’allerta. Invece alle Hawaii, amministrazione aveva ordinato l’evacuazione di tutte le aree costiere. I primi segnali dello tsunami si sono avvertiti sulle spiagge, ripresi dalle tv locali con onde altre 2 o 3 metri. I leader dei 27 riuniti al vertice europeo straordinario sulla Libia a Bruxelles hanno deciso di mobilitare le risorse Ue disponibili per fornire assistenza al Giappone colpito dal terribile si-
sma di ieri. «Abbiamo appreso con grande preoccupazione la notizia del devastante terremo-
E le tragedie umane di queste proporzioni diventano terreno per gli speculatori. Impietosi becchini delle fortune nazionali. Subito dopo la scossa lo yen ha iniziato a perdere terreno contro il dollaro, arrivando fino a 83,30 da 82,74 prima del sisma. Lo yen ha perso terreno anche contro l’euro a 115,01 da 114,35. Il cross euro-dollaro è a 1,3815. La borsa di Tokyo ha chiuso in forte ribasso. L’indice Nikkei ha lasciato sul terreno l’1,72 per cento a 10.254,43 punti. L’indice aveva comunque già aperto in ribasso dell’1,30 per cento, scendendo sotto quota 10.300 per la prima volta dal 1 febbraio, minato dall’instabilità politica in Medio Oriente. Intanto circa 10mila persone sono rimaste bloccate allo scalo di Narita e 1.100 a quello di Senday, dove le piste sono state sommerse dall’onda dello Tsunami. Più di 130 voli, fra nazionali ed internazionali, sono stati cancellati, lasciando a terra oltre 30mila passeggeri. La chiusura degli aeroporti di Narita, Iwate Hana-
Le scosse sismiche di ieri sono state più forti di quelle che colpirono l’isola di Sumatra lo scorso 2004, e appena meno devastanti del terremoto che mise in ginocchio il Cile nel 1960 to e tsunami che hanno colpito oggi il Giappone la regione del Pacifico», affermano i capi di stato e di governo dei 27 in una dichiarazione diffusa al vertice, e per questo «oltre alle singole risposte nazionali, abbiamo chiesto all’Alto rappresentante Ue per la politica estera e di sicurezza comune Catherine Ashton e alla Commissione europea di mobilitare adeguata assistenza». L’Italia è pronta a fornire al Giappone ogni aiuto possibile, come ha assicurato il presidente
In queste pagine le foto del disastro avvenuto ieri in Giappone a seguito della violenta scossa tellurica e del conseguente tsunami che ha penetrato le coste nipponiche per diversi chilometri, seminando distruzione e morte e provocando numerosi incendi
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maki,Yamagata e Aomori – hanno fatto sapere dal ministero dei Trasporti – sarebbe una misura temporanea, eccetto che per lo scalo di Senday.
Gli esperti intanto stilano le classifiche dei terremoti più devastanti. Quello di ieri si pone davanti a quello di Sumatra del 2004 e appena dietro al sisma cileno del 1960. Per quello che valgono queste classifiche, lo scrollone è stato veramente forte. I risultati preliminari degli studi effettuati dall’Ingv indicano che il terremoto di ieri mattina «avrebbe spostato l’asse di rotazione terrestre di quasi 10 centimetri. L’impatto di questo evento sull’asse di rotazione – si legge in una nota dell’Ingv – è stato molto maggiore anche rispetto a quello del grande terremoto di Sumatra del 2004 e probabilmente secondo solo al terremoto del Cile del 1960». Un sisma che ha provocato uno tsunami con onde alte fino a 10 metri che hanno investito terreni agricoli, case, raccolti, veicoli e provocato incendi. Succesivamente alla prima marea, sono arrivate altre onde di 7 metri che hanno colpito sempre il nord del Paese assieme a continue scosse d’assestamento. Gli Usa invece non prevedono molti danni sulle coste del Pacifico visto che le onde sono passate dalle Hawaii senza un grande impatto. Mentre hanno mobilitato la VII flotta per i soccorsi in Giappone. E a Sendai non vi sarebbero stranieri coinvolti dal disastro naturale. Lo hanno assicurato fonti locali all’ambasciata d’Italia a Tokyo. Barack Obama ieri in serata ha telefonato al premier nipponico per tendere una mano al popolo giapponese.
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l’approfondimento
Finora, la catastrofe peggiore come forza era stata quella dell’ottobre 1707, con epicentro al largo dell’isola di Kii e magnitudo 8,6
I samurai della prevenzione Pochi Paesi al mondo sono più soggetti ai danni delle scosse sismiche anche a causa della sovrappopolazione e di una vorticosa urbanizzazione. Ecco quali moderne tecnologie hanno evitato la morte a centinaia di migliaia di persone di Maurizio Stefanini a stessa parola tsunami è rimbalzata in tutte le lingue del Pianeta dal Giapponese. Ma pochi Paesi al mondo sono più soggetti ai terremoti del Giappone; e poche culture al mondo sono state così impregnate dalla sismicità come quella nipponica. Come ci spiegano infatti i geologi, il Giappone sta nel punto in cui la placca delle Filippine e la placca del Pacifico sprofondano sotto la placca euroasiatica. Una zona di sismicità tale che vi si registrano almeno 1.500 scosse all’anno. Va detto che la quantità, in qualche modo, ammortizza la forza d’impatto.
L
Questo che è già stato registrato come Terremoto di Sendai del 2011 con una magnitudo di 8,9 della scala Richter è il più devastante evento sismico mai registrato nel Paese. In una classifica storica, però, non è che al settimo posto: dietro al 9,5 del Grande Terremoto Cileno del 1960; ai 9,3 del Terremo-
to della Kamchatka del 1737; i 9,2 del terremoto dello Stretto di Prince William in Alaska del 1964; i 9 di California e Sud Canada del 1700, di quello di Arica (allora Perù, oggi Cile) del 1868 e di quello della Kamchatka del 1952. Come si vede, tutti attorno alle coste del Pacifico. Finora, il sisma peggiore della storia giapponese come forza era stato quello del 28 ottobre 1707 con epicentro al largo dell’isola di Kii, con magnitudine 8,6. Che però non aveva provocato più di 5.000 morti, e per un susseguente tsunami. Se invece ci riferiamo a una classifica per vittime e danni, il criterio della Scala Mercalli, il peggior sisma della storia nipponica era stato il “Grande Kanto”del primo settembre 1923 (Kanto è la regione attorno a Tokyo): 7,9 di magnitudo, e 142.000 morti. In classifica è l’ottavo dopo gli oltre 800.000 morti del terremoto cinese dello Shannxi del 1556; i 779.000 di quello pure cinese di Tangshan nel 1976; i 250.000 di
quello di Antiochia del 556; i 235.000 di quello ancora cinese di Gansu del 1920; i 230.000 di quello di Aleppo del 1138; e i 222.570 dell’ultimo di Haiti.
Moltissime scosse, poche delle quali però veramente gravi, hanno dunque fatto apprendere ai giapponesi nel corso dei millenni la difficile arte di convivere con i terremoti. Per questo, in particolare, la tradizionale casa giapponese era in legno: senza fondamenta e senza
In termini di vittime, il più devastante fu quello del 1923: 142.000 morti
mura perimetrali, in modo da piegarsi senza spezzarsi. Ma, ecco qua l’interrelazione tra arte di sopravvivere al terremoto e cultura di vita più generale, l’idea di piegarsi senza spezzarsi è appunto anche alla base dell’arte marziale nipponica per eccellenza: il judo, letteralmente “metodo della delicatezza”. In questo tipo di abitazioni il tetto era in stoppie, che volavano via con un vento appena appena forte, ma erano facilmente sostituibili con un
po’ di buona volontà, e almeno se cadevano in testa non facevano troppo male. Tuttavia, la prima regola cui abituarsi, con i terremoti, è che non bisogna mai abituarsi, e prendere sempre tesoro dell’esperienza. La stessa tecnologia edilizia tradizionale aveva il problema che se pure reggeva all’urto diretto dei sismi, era soggetta al loro insidioso colpo di coda collaterale rappresentato dal rovesciarsi dei bracieri sul legname. «È raro che un giapponese vi mostri la casa del suo bisnonno, è quasi sempre bruciata», scriveva nel 1984 lo yamatologo francese Patrice de Méritens. Per questo i giapponesi si sono abituati nei secoli a resistere al freddo quasi senza riscaldamento.
Non è dunque per sadismo se le scuole giapponesi tradizionali fanno fare esercizi fisici a ragazzini seminudi nel freddo del primo mattino, anche se è vero che tutto ciò ha temprato quell’abitudine dei
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Carlo Ripa di Meana commenta i drammatici eventi del Sol Levante
Una grande lezione di saggezza per l’Italia Precauzione e politiche responsabili hanno impedito quello che sarebbe stata una tragedia ancora più grande di Carlo Ripa di Meana stato un terremoto d’intensità devastante, tra i più possenti dell’ultimo secolo. Tutti noi abbiamo assistito con il fiato sospeso alle terribili immagini di onde alte fino a dieci metri che hanno seminato morte e distruzione a Sendai. Il bilancio delle vittime cresce di minuto in minuto e si parla di migliaia di morti e di feriti, ma nonostante la triste conta delle vittime, la costernazione non è l’unico sentimento che ci giunge dal Sol Levante. Dal Giappone arriva una straordinaria lezione di saggezza e di prudenza, di cui il mondo, e in particolare l’Italia deve fare tesoro.
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La rigida politica di costruzioni antisismiche obbligatorie ha ridotto in maniera sensibile il numero delle vittime, e la maggior parte di esse è da ricondurre allo tsunami. Laddove un sisma di tale entità avesse colpito regioni geografiche ancora molto indietro nella prevenzione e nella realizzazione di un sistema edilizio a prova di terremoto, ci saremmo trovati in presenza di un’apocalisse. E solo Dio sa che cosa mai sarebbe accaduto in Italia, dove già il sisma dell’Aquila che aveva in confronto a quello nipponico una forza d’urto assai più modesta, produsse danni incancolabili al territorio e alle persone. Basti pensare che a Tokyo i crolli sono stati limitati, e che in una scuola della capitale, dova al momento delle scosse erano presenti circa seicento studenti, non ci sono state conseguenze mortali. Ma al netto delle ultime notizie, dal Sol Levante arriva anche un’altra lezione di civiltà che riguarda le centrali nucleari. Nonostante le evacuazioni a Fukushima, eseguite in via prudenziale, tutto sembra scongiurare possibili fughe radioattive ed è da escludersi al momento una seconda Chernobyl. Come già confermato dai ricercatori del Cnr, nella peggiore delle ipotesi si tratta di materiale contaminato da radiazioni. Sono dati che ci rassicurano da una parte sul grado di affidabilità raggiunto oggi dalla macchina nucleare, e che dall’altra ci ammoniscono. La creazione di impianti nucleari esige infatti alti livelli manutentivi e massima qualità dei macchinari, non ammette distrazioni e pressappochismi e richiede costanti monitoraggi. Qui non si vuole naturalmente affermare che il destino e l’imprevedibilità delle forze naturali possano essere nautralizzate di un colpo con una sorta di alta ingegneria capace di azzerare le sciagure, e d’altra parte lo tsunami
che ha colpito l’avanzatissimo Giappone è qui a dimostrarcelo. Ma quanto accaduto poco tempo fa nel cuore della Cina, è per certi versi comparabile. E non si può fare a meno di distinguere che l’entità del disastro è stata in quel caso di portata largamente superiore. L’attenzione dimostrata da Tokyo, i rigorosi criteri di cementificazione, la capacità di educare la cittadinanza ai rischi di una terra attraversata da grande rischio sismico, devono far riflettere tutti noi italiani. La nostra Penisola, e in particolare il Centro e il Mezzogiorno sono notoriamente zone esposte al pericolo di terremoti, il sisma dell’Aquila è recente, eppure in modo paradossale l’attenzione è minima proprio nei luoghi maggiormente interessati a possibili sommovimenti. Resta ancora insoddisfacente nel nostro Paese, un’adeguata politica antisismica. Non è sufficiente dar vita a qualche esercitazione di fuga, né si può pensare di occuparsi delle sciagure con il solito atteggiamento fatalistico del posthoc. L’edilizia irregolare e frastagliata che poggia sul nostro Stivale, è e sarebbe stata facile preda di un cataclisma tellurico come quello giapponese, e urge dunque anche da noi il varo di un credibile piano antisismico specie nelle aree ad alto rischio. Pensiamo ad esempio alle fantasmatiche periferie del napoletano, a Scampia e Secondigliano, proliferate in anni di illegittimità, abbandono, leggerezze e complicità. Ma pensiamo anche all’Aquila stessa, travolta un anno e mezzo fa dal terremoto, e condannata chissà per quanto tempo ancora alla logorante attesa della ricostruzione.
Il rigore mostrato da Tokyo in fatto di sicurezza è un monito per tutti
Non dobbiamo rivolgere pertanto alla popolazione giapponese soltanto gli spontanei sentimenti di cordoglio e di dolore, non dobbiamo rivolgere loro la più giusta e incondizionata solidarietà, ma tributare loro anche la nostra ammirazione. L’Italia guardi con umiltà a quanto fatto in anni e anni laboriosi laggiù in Sol Levante. È tempo anche da noi di aprire le porte a una cultura operosa in grado di contrastare il contrastabile, e limitare l’illimitabile. Serve pazienza, sensibilità ambientale, protagonismo politico all’insegna del cambiamento che ponga in primo piano la sicurezza del Paese e dei suoi cittadini. Ce lo insegnano i samurai giapponesi. Il destino sciagurato è un alibi troppo comodo per tutti.
giapponesi a sopportare le sofferenze che li ha resi un po’ ammirati, un po’ compatiti, e un po’ anche temuti. Soprattutto perché in guerra loro applicavano in modo originale il principio del “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”, e applicavano in effetti a prigionieri di guerra e popoli occupati un tipo di maltrattamenti certo peggiore, ma sulla stessa falsariga di quelli con cui erano stati educati.
Altra conseguenza della necessità di ridurre l’uso del fuoco al minimo indispensabile: la grande importanza che nella cucina giapponese hanno i cibi crudi o semi-crudi, appena intiepidito nella salsa di soia. I contadini arrivavano spesso a cuocere al calore dell’aratro dopo la frizione con le zolle. Ovviamente, neanche le case di legno potevano niente contro gli tsunami, le micidiali onde d’urto provocate dai terremoti con epicentro sotto il mare. In pratica, come abbiamo ricordato a proposito del terremoto del 1707, era quasi solo di tsunami che si moriva. È la ragione per cui il giapponese ha sentito il bisogno di descrivere il fenomeno con la parola specifica che si è infatti imposta a livello globale. Ovviamente, la mentalità che si plasma in questa condizione di continua provvisorietà è fortemente ispirata al senso dell’effimero. Non a caso il Giappone ha dato contributi teologici fondamentali a una spiritualità come quella buddhista, che si basa sull’idea dell’impermanenza delle cose terrene, anche se può sopravvivere l’essenza. Non a caso la lingua giapponese conosce il presente e il passato, ma non il futuro. Non a caso l’arte giapponese è affascinata dal senso dell’effimero, esemplificato da quel fiore di ciliegio. “Cogli l’attimo”, consigliavano i latini. I giapponesi sono abituati a farlo a tal punto da organizzare pic-nic per ammirare i ciliegi nei giorni in cui s’accendono di fiori bianchi: «Come se evanescenti masse di nuvole appena colorate dal tramonto discendessero dal cielo per avvolgere i rami degli alberi» scriveva Lafcadio Hearn, lo scrittore che alla fine dell’Ottocento concluse il suo peregrinare geografico-esistenziale proprio in Giappone, della cui cultura divenne uno dei primi cantori occidentali. Hanami è il nome di questo tipo di scampagnata, e oggi ci fanno pure le dirette televisive. Un tipica metafora umana dell’iki, quella quintessenza della bellezza effimera che il fiore di ciliegio esprime, è il rapido sfiorire del volto della donna. Un’altra è la vita del samurai. Per questo geishe, samurai e fiori di ciliegio affollano egualmente dipinti e poemi nipponici, ed era il ciliegio uno dei
simboli più dipinti sugli aerei dei kamikaze. D’altra parte, proprio la necessità di adattarsi in continuazione e ricostruire e la difficoltà di accumulare patrimoni immobiliari durante le generazioni ha abituato reso i giapponesi particolarmente recettivi nei confronti dell’innovazione, e all’appropriazione creativa di tutto ciò che vedono di positivo negli stranieri. Forse non è un caso, se dalla California al Giappone e alla Cina sono proprio la sismiche regioni del Pacifico all’avanguardia dell’economia del Terzo Millennio. Nel dettaglio, dopo che gran parte della loro cultura si era conformata sull’esempio cinese, dall’era Meiji in poi i giapponesi sono poi diventati i primi allievi dell’Europa tra i Paesi non occidentali, e dopo il 1945 sono stati influenzati in profondità anche dagli Stati Uniti d’America. Ma in mezzo già nel Cinquecento avevano imparato dai portoghesi quell’arte della frittura che ha certo arricchito la loro gastronomia del delizioso tempura: da “tempora”, piatto di Quaresima. Ma ha pure aumentato il rischio in maniera esponenziale. Fu ad esempio la combinazione tra incendi e tsunami a provocare la morte di 142.000 persone e la distruzione di 300.000 edifici nel terremoto del primo settembre 1923. Dopo di allora, dunque, il Giappone ha sviluppato al massimo le moderne tecnologie antisismiche, anche perché nel frattempo la sovrappopolazione e la vorticosa urbanizzazione che hanno accompagnato il suo boom economico ne hanno fatto un Paese di grattacieli. Ma l’imprevisto è sempre in agguato. Se si guarda la cartina, e si tiene presente che il punto di intersezione tra le tre placche è sotto Tokyo, ci si rende conto a esempio conto di come Kobe fosse abbastanza defilata da indurre gli abitanti a considerarsi relativamente al sicuro.
Ma il 17 gennaio del 1995 su Kobe si abbatté un sisma di magnitudo 6,9 proprio a un’ora del mattino in cui la maggior parte delle persone stava ancora dormendo, cosicché molti non ebbero il tempo di reagire. Gli edifici costruiti con i moderni criteri antisismici, però, ressero. Furono le tegole di ceramica che in troppe vecchie case in legno avevano sostituito i tradizionali tetti in stoppia a rovinare sugli abitanti, mentre la rottura delle condutture del gas innescava roghi immani. E i danni furono aumentati da un sistema di strada costruito 25-30 anni prima senza troppo criterio, e da un certo numero di edifici a cinque piani cui pure una ventina d’anni prima erano stati aggiunti piani aggiuntivi con un po’ troppa disinvoltura. Insomma, la guardia si era troppo abbassata. Forse quello che è accaduto anche ora.
politica
pagina 6 • 12 marzo 2011
«Sacrificio eccessivo, basterebbe reintrodurre l’immunità», dice il presidente emerito della Consulta. «E resta l’inopportunità dei tempi», per il professore della Sapienza
Giustizia è fatta? La riforma riduce l’autonomia della magistratura in nome dell’equilibrio tra poteri. Prezzo alto, dicono Capotosti e Patrono di Errico Novi e Riccardo Paradisi
In una lettera ai giudici inviata ieri: «Procedete pure»
ROMA. Ne vale davvero la pena? Nella riforma Alfano, sul piatto della bilancia – di quella bilancia adottata da Berlusconi come simbolo della svolta – c’è una riduzione dell’ autonomia dei magistrati. Ma è un sacrificio davvero necessario? Visto che l’obiettivo più o meno esplicito, in questa riforma della giustizia, è il riequilibrio tra i poteri dello Stato, davvero non c’era un’altra via? Quesito rivolto da liberal a due tra i maggiori costituzionalisti del Paese, il presidente emerito della Consulta Piero Alberto Capotosti e il professore di Diritto pubblico comparato della Sapienza Mario Patrono. Ne vengono fuori riflessioni forse lontane dal metodo della politica, ma che la politica non dovrebbe ignorare. Il presidente Capotosti non esita a sciogliere il primo dubbio: l’autonomia dei magistrati prevista finora della Carta è un carattere positivo del nostro ordinamento o è un eccesso che andrebbe superato in nome di altri modelli? «Sono piuttosto altri Paesi a guardare al nostro come a un modello a cui tendere», risponde il presidente emerito della Corte costituzionale, «il nostro sistema è visto da molti come un obiettivo esemplare rispetto alle garanzie di indipendenza della magistratura». E, si badi, della magistratura nel suo insieme, quindi anche dei pm, la parte più “colpita” dalle modifi-
Berlusconi: «Caso Mills, verrò in aula a parlare» MILANO. «È mia intenzione partecipare all’udienza». Con una lettera, letta in aula dai legali Niccolò Ghedini e Piero Longo, indirizzata ai giudici del processo Mills, Silvio Berlusconi ha spiegato ieri mattina di voler partecipare alle udienze anche se impegnato a Bruxelles per un vertice del Consiglio d’Europa. Nella dichiarazione, il presidente del Consiglio “consente” di proseguire con l’udienza, dato che che oggi la sua assenza è dovuta unicamente a «questioni attinenti al calendario» delle udienze. Il processo, nel quale il presidente del Consiglio è imputato per corruzione del legale inglese David Mills a cui avrebbe versato 600mila dollari per rilasciare false testimonianze in due diversi prozione diversa a una cornice di garanzie simile alla nostra». Si tratta comunque di un patrimonio del nostro ordinamento. Si pensa di sacrificarlo in nome di un solo, sostanziale obiettivo: rimodulare il rapporto tra ordine giudiziario e politica. «E non c’è dubbio che sia così», nota Capo-
Capotosti: «Il nostro sistema è visto da altri Paesi come un modello a cui tendere, rispetto alle garanzie di indipendenza dei giudici. Nel ddl Alfano non ci sono ricadute utili ai cittadini» che appena annunciate. «Verrebbe da chiedersi: perché allora il nostro modello non viene importato altrove? Perché è difficile passare da un’organizza-
tosti, «dal momento che gli effetti della riforma sui cittadini sono marginali. Nulla che incida sulle cause civili e di lavoro, quelle che interessano la gran parte de-
cessi, è stato intanto rinviato al prossimo 21 marzo. Per quella data i lavori prevedono la deposizione dei consulenti del pm. È improbabile che Berlusconi sia in aula dato che «dieci giorni sono pochi per organizzarsi», ha spiegato uno dei suoi legali, Niccolò Ghedini che poi ha aggiunto «comunque vedremo...». Per Ghedini, inoltre, il limite temporale fissato dal tribunale è troppo breve per organizzare la difesa. Quello fissato dai giudici della decima sezione penale del Tribunale di Milano è un calendario di 9 udienze. Le date indicate sono tutte di lunedì, come chiesto dai legali del premier la scorsa settimana al presidente del tribunale Livia Pomodoro. Oltre alla data del 21 marzo, la presidente del collegio giudicante, Francesca Vitale ha individuato le date del 9, 16 e 23 maggio, del 20 e 27 giugno e del 4, 11 e 18 luglio. I giudici cercano infatti di evitare la prescrizione.
gli utenti. Le ricadute sono quasi esclusivamente sul processo penale. sia per la riduzione del principio di obbligatorietà, sia per i limiti imposti ai magistrati nel rapporto con la polizia giudiziaria. E anche per la parificazione della responsabilità civile di giudici e pm a quella di altri funzionari pubblici. Immaginiamo peraltro cosa ne può derivare: un indagato potrà citare in giudizio il magistrato che ha ordinato una perquisizione su di lui, ed è chiaro che pm e gip rischiano di essere assai frenati nelle indagini». Si introduce insomma quasi un meccanismo di rappresaglia.
E tutto questo per riportare in equilibrio un rapporto, quella tra politica e magistratura, che certo è alterato ormai da vent’anni. Ma non si poteva ottenere lo stesso risultato ripristinando la garanzia appositamente prevista dalla Carta del ’48,
È solo agli inizi il confronto sulla riforma della giustizia presentata giovedì da Berlusconi e Alfano (a destra) in Consiglio dei ministri. Sullo sfondo restano i processi del premier, a cominciare da quello relativo alla corruzione dell’avvocato inglese David Mills (a sinistra) rinviato ieri al 21 marzo cioè l’immunità? «Lo sostengo da anni», risponde Capotosti. «Quell’istituto ha consentito, dal ’48 al ’93, di allontanare il sospetto di indagini persecutorie eventualmente svolte per motivi politici contro i parlamentari. Agli abusi della Prima Repubblica basterebbe rimediare con semplici accorgimenti: innalzare il quorum, ed evitare che l’immunità sia prerogativa della sola maggioranza; introdurre un termine massimo alla pronuncia della Camera di appartenenza per impedire che le indagini perdano valore; e portare i conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale. Con l’immunità non sarebbe memmeno necessario conseguire e mantenere lo status di ministro, o di presidente del Consiglio, basta rimanere parlamentari». Meglio, molto meglio, dunque, per il presidente emerito della Consulta, sarebbe «ridurre la parte Costituzionale della riforma e privilegiare invece gli interventi per via ordinaria, assai più utili ai cittadini». E se la politica tiene a ripristinare gli equilibri, strade alternative ci sarebbero.
Marconi, che si ponevano seriamente il problema della separazione delle carriere, dell’abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, della responsabilità civile dei togati. Negli anni in cui ero al Csm si discuteva molto dell’obbligatorietà e dell’ipotesi di affidare al Parlamento una scaletta di priorità sui reati da perseguire, per sciogliere il blocco che ostruiva la macchina giudiziaria». È anche vero dunque che questa è una vecchia storia, una storia che Berlusconi eredita dall’elaborazione della cultura politica e giuridica di tradizione liberal-
Patrono: «C’è il nodo di un premier coinvolto personalmente in una disputa con la magistratura. Sbagliato il paragone con gli Usa, dove la cultura dei diritti garantisce il rispetto dei limiti»
Mario Patrono ricorda d’altronde che la riforma appena presentata dal governo «non è affatto nuova». Prima di Berlusconi e Alfano «l’avevano concepita già i socialisti nel lontano 1979, una proposta che il Psi portò avanti fino a Tangentopoli prima di essere travolto giudiziariamente e politicamente. Era la riforma su cui avevano riflettuto eminenti personalità come Federico Mancini e Pio
socialista. L’inopportunità, secondo Patrono, sta nei tempi e nei modi con cui la propone «un presidente del Consiglio coinvolto in prima persona in una disputa con la magistratura». Patrono non ha letto la bozza della riforma: ragiona con liberal, ci tiene a precisare, su quanto è finora emerso dai giornali: «Anche la questione della responsabilità civile dei magistrati non è uno scherzo. Oggi la legge prevede una responsabilità molto limitata ai casi di dolo e colpa grave. Ora però ci sono state sentenze della Ue che ci obbligano a riscriverla. E va
politica
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Presentato il documento conclusivo della 46/ma Settimana Sociale dei cattolici
«La Carta non è intoccabile, ma non va stravolta» «È necessario che i cittadini abbiano un reale potere di scelta e di controllo e che vi sia alternanza» di Franco Insardà
detto che un provvedimento del genere non lederebbe, credo, l’indipendenza della magistratura, considerato che sarebbero gli stessi magistrati a giudicare i loro colleghi».
Ma il punto critico è un altro. La riforma, e qui Patrono è sulle stesse posizioni di Capotosti, non tocca il cuore della cattiva giustizia italiana, ossia i tempi veterotestamentari del processo. «La lentezza è una stigmate che ritarda sia i processi civili sia quelli penali con un costo spaventoso per la comunità e per lo Stato», dice il costituzionalista della Sapienza. Oltretutto la durata eccessiva dei processi rende quella italiana una giustizia di classe. «I meno abbienti non possono sostenere un processo di lunga durata con pagamento degli emolumenti agli avvocati, e questo è un vulnus gravissimo del principio di uguaglianza. In Paesi come Germania e Francia i processi durano un anno, non quindici: basterebbe andare a vedere come fanno». Ma certo la soluzione non è il processo breve di cui pure s’è parlato. «Perché far durare un processo ope legis per un certo numero d’anni avrebbe la conseguenza che gli avvocati di coloro che hanno torto faranno carte false per arrivare alla prescrizione. Dopo di che a chi ha ragione viene impedito di ottenere ragione». Non si afferrano insomma i nodi principali o almeno quelli più dolorosi.
Viene privilegiato il tema dell’autonomia della magistratura e del rapporto con la politica. Ma l’autonomia dell’ordine giudiziario, appunto, è un valore? Sicuramente sì, secondo Patrono. «E non è corretto, affrontando questo argomento, paragonare il nostro Paese con gli Stati Uniti, come pure si fa spesso, dove le magistrature sono elettive». Negli Stati Uniti non ci sono nomine fatte dall’esecutivo. «Sono nomine che vengono piuttosto negoziate con l’associazione dei magistrati, con i corpi intermedi. Lì più che altrove ii poteri dello Stato devono fare i conti con una spiccatissima cultura dei diritti che impedisce a politica e magistratura di andare oltre i confini della propria sovranità. Nessun politico, per intendersi, negli Stati Uniti telefonerebbe a un magistrato, né settori della magistratura si sognerebbero di fare un uso politico della giustizia». Patrono racconta un aneddoto: «Quando andai in anno sabbatico in Nuova Zelanda ebbi un lungo colloquio con il presidente della Corte suprema di quel Paese. Si parlò del Csm italiano, gli dissi che ha la funzione di tutelare l’indipendenza della magistratura. Mi guardò sbigottito e disse: “Siete ancora a questo punto? Ma l’indipendenza della magistratura si difende da sé!”». Ma l’Italia è un Paese che fa ancora fatica ad avere una cultura dei propri diritti.
ROMA. «La Costituzione può ancora dare tanto al Paese e ciò non significa che sia intoccabile». È questo uno dei passaggi del documento conclusivo della 46/esima Settimana sociale dei cattolici italiani, promossa dalla Cei lo scorso ottobre a Reggio Calabria, presentato ieri da monsignor Domenico Pompili, direttore dell’ufficio nazionale per le comunicazioni sociali e sottosegretario della Cei, monsignor Arrigo Miglio vescovo di Ivrea e presidente del comitato scientifico delle Settimane sociali e da due membri del comitato, Edoardo Patriarca e Franco Pasquali. «La Costituzione italiana - si legge nel documento - è frutto di una esperienza esemplare di alto compromesso delle principali culture politiche del Paese. Eventuali modifiche non devono stravolgerne l’impianto fondante definito innanzitutto nella prima parte». Ma alla domanda, quasi scontata, se la riforma della giustizia proposta dal governo stravolgerà la Costituzione Patriarca ha chiarito: «Non spetta al comitato dare un’opinione sul fatto che questa riforma stravolga o meno la Costituzione, ma certo la Carta può ancora dare tanto al Paese, si riconferma il patrimonio e il contenuto dato dai cattolici, ciò non significa che sia intoccabile». Democrazia interna ai partiti, lotta alla criminalità organizzata, legge elettoraleforma di governo e federalismo sono questi le questioni messe a fuoco nel documento, dove si legge che è necessario «dare all’elettore un reale potere di scelta e di controllo. Bisogna anche affrontare la questione del numero di mandati e dell’ineleggibilità di quanti hanno pendenze con la giustizia», per «salvaguardare la democrazia». Inoltre «come sosteneva già don Luigi Sturzo c’è bisogno di una legge, coerente con i correttivi che vanno apportati alla legge elettorale e alla forma di governo, che disciplini alcuni aspetti cruciali della vita dei partiti, prevedendone la pubblicità del bilancio e regole certe di democrazia interna». È necessario, però, che i poteri siano «limitati, si controllino reciprocamente e che alla loro guida vi sia alternanza». Il documento descrive «le forme sociali come plurali e non uniformi», spiegando che «l’ordine sociale deve essere poliarchico, sino a consentirci di parlare anche di un bene comune fatto di più beni comuni, la cui cura non può mai essere affidata a un solo tipo di istituzioni, neppure politiche, né a pochi o ristretti gruppi di individui.La libertà religiosa è il cardine di questa forma di governance, poliarchica e a molti livelli, e di quel consenso etico di fondo di cui ogni società necessita».
Sempre ieri il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, nella “lectio magistralis” tenuta all’università degli Studi di Perugia su “Scienza e fede, vie per la formazione dell’uomo” ha affrontato le questioni bioetiche e quelle del futuro dei giovani. Per Bagnasco «la smania di dominare e manipolare fino all’estremo la vita umana, nel sacrario del suo principio e nel mistero del suo concludersi, alimenta un atteggiamento strumentale che, mentre non rispetta correttamente la natura, umilia anche se stessa».
Il presidente della Cei ha poi spiegato che «L’educazione si colloca nell’ambito della contesa tra “utilitas” e “veritas”: l’utilità non è malvagia in se stessa a condizione che non diventi un assoluto, nel tal caso l’utilità si nega e si elimina da se. Si tratta di essere disponibili alla verità, quella che studia le scienze sperimentali e che richiede l’adesione a ciò che scopre; e quella che è oggetto della fede e che tocca la capacità di giudizio sull’essere e sull’esistere, tocca i comportamenti. Lasciarsi giudicare dalla verità significa dunque essere disponibili a correggere o mutare modi di pensare e di agire che possono essere acquisiti e la cui revisione può costare fatica e sacrificio. Maturando un atteggiamento di umiltà non di arroganza, di rispetto non di dominio. Se il soggetto non è disposto a questo cammino interiore, sarà difficile qualunque approccio alla verità delle cose, dei valori, dei significati». Bagnasco ha messo in guardia sul rischio che «il potenziale della tecnologia non è neutro perché può essere usato sia per il progresso che per la degradazione dell’umanità. È una preoccupazione costante richiamare il primato dell’etica sulla tecnica, della persona sulle cose, il dovere di commisurare il progresso tecnologico con la dignità e i diritti dell’uomo». Poi si è rivolto ai giovani: «Difficoltà ce ne sono sempre nella storia per tutti, anche per i giovani in questo momento, che hanno bisogno di vedere il futuro: un futuro più luminoso, più certo nella loro vita ed è quello che ritengo tutte le persone di buona volontà e di responsabilità devono avere nel loro cuore». Per il presidente dei vescovi italiani il rapporto dei giovani con la Chiesa «si intensifica attraverso la loro disponibilità perché hanno un grande desiderio di bene e di verità e delle potenzialità di generosità e di dedizione che devono trovare degli ideali alti per venire fuori. Questa è una grande fiducia che la Chiesa ha nei loro confronti ed è lo scopo del decennio degli orientamenti pastorali della Cei, che ha messo a tema la sfida educativa».
All’università di Perugia il cardinal Bagnasco dice: «La scienza umilia se stessa se manipola la vita», mentre «I giovani hanno bisogno di vedere il futuro»
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grandangolo Generali e Bulgari sono soltanto i più recenti campi di battaglia
Aiuto, Marianna si sta comprando l’Italia!
La penetrazione francese nella nostra economia è in continuo aumento. Gli interessi dei cugini d’Oltralpe vanno dall’alta moda all’energia, passando per assicurazioni e banche per fermarsi poi sui trasporti locali. Merito della loro “grandeur”, del senso della nazione e della sconfitta dei sindacati. Che hanno accettato l’apertura al mercato di Gianfranco Polillo ignori si chiude. Per i futuri acquisti potete rivolgervi direttamente a rue Pont Neuf n.2, Parigi (Louis Vuitton), ad Avenue de Wagram 22, sempre Parigi (EDF) o direttamente a Monsieur Vincent Bollorè, patron di Generali, di cui possiede lo 0,3 per cento del capitale (destinato, quanto prima a divenire, l’1 per cento) e di cui è vice presidente. Orbita francese, quindi. Di cui l’Italia appare sempre più essere una lontana provincia. Per fortuna che c’è Sergio Marchionne, la bestia nera di CGIL e FIOM, ma l’unico in grado di dare al pendolo un movimento inverso. Non sappiamo se alla fine la Fiat – Chrysler sarà più americana o italiana. Sappiamo però che almeno quel manager scostante e antipatico, che proviene da Paesi lontani, ci ha provato. Ha cercato di far comprendere a tutti – manager, politici e sindacalisti – quanto il mondo sia cambiato. E come l’Italia debba comprenderlo, se non vuole morire. Come, in effetti, sta avvenendo. Qual è, allora, l’alternativa? Vendere. Cercare nuovi acquirenti esteri e lasciare loro l’onere di sviluppare quei prodotti in cui gli antichi mestieri italiani avevano realizzato punte di eccellenze.
che fa moda. Tra i paperoni occupa il settimo posto, con un patrimonio che, secondo la rivista Forbes, ammonta a 26 miliardi di dollari. Su quel piccolo impero, secondo una vecchia tradizione francese, il sole non tramonta mai. Possiede il 47 per cento di Moët Hennessy Louis Vuitton e la maggioranza di Christian Dior, senza contare altre 50 firme: fino allo champagne Moet&Chandon. Tra cui Fendi, Emilio Pucci, Berlutti e StefanoBI, altri marchi una volta italiani: dai vestiti alle scarpe; dai profumi agli accessori. L’operazione appena conclusa gli darà nuovo charme. Soprattutto gli
L’ultimo colpo, in ordine di tempo, lo abbiamo subito con il passaggio di Bulgari nella scuderia di Lvmh, la super maison mondiale del lusso. Sarà controllata da Bernard Arnault, il signore delle griffe che già possiede tutto ciò
permetterà di consolidare le posizioni nei settori più deboli del suo sterminato impero. Bulgari diverrà la punta di lancia del settore gioielli e orologi, affiancandosi, in posizione di leadership, a Zenit, Tag Heuer, Hublot. Prodotti, in-
S
L’ultimo colpo, in ordine di tempo, lo abbiamo subito con il passaggio di Bulgari nella scuderia di Lvmh, la maison del lusso
dubbiamente, di marca, ma non certo in grado di competere con il marchio Bulgari, che ha saputo racchiudere in se l’essenza del lusso e del buon gusto. Qualcosa che non s’inventa, ma fa parte del DNA di un Paese.
La saga di questi orefici era nata con il nonno degli attuali proprietari: Sotirio, un greco dell’Epiro che, all’inizio del ‘900, si era trasferito in Italia per produrre gioielli. Il suo mondo era quello dell’antichità, rivisitato in chiave rinascimentale. Classicismo greco-romano e un pizzico di modernità. Antiche monete incastonate, pietre colorate fuse nell’oro. Il successo arrivò negli anni ’60, quando nel suo atelier – laboratorio di Via Condotti iniziò la processione delle attrici – a partire da Ingrid Bergman – conquistate dal fascino esotico di quelle creazioni. Poi il grande balzo: New York, Ginevra, Montecarlo, Parigi e infine Tokio. La svolta organizzativa si manifestò, invece, negli anni ’80 con il passaggio da una forma quasi artigianale (80 dipendenti e un fatturato di 60 miliardi di vecchie lire) ad una struttura industriale complessa che si estese, sull’esempio di altre grandi boutique come Cartier, ai settori complementari. Non più solo gioielli, ma pelletteria, cravatte, profumi e creme; fino agli hotel ed ai ressort (Milano, Bali, Londra). In questa continua ascesa, che porterà il fatturato a più di 1 miliardo di euro e
i dipendenti a quasi 4.000 unità, cadranno le prime vittime. Bulgari acquista Gerald Gent, Daniel Roth, Manufacture de Haute Horlogerie. Prima di cedere le armi al nuovo patron francese. Dal punto di vista del management non è stato un cattivo affare. Il prezzo sborsato è stato pari a 4,3 miliardi di euro, cui sommare il costo dell’inevitabile OPA, visto che l’azienda è quotata in borsa ed ha un discreto flottante. Il prezzo di acquisto sarà pari a 12,25 euro per azione. Una piccola manna per i for-
tunati possessori. Solo un mese fa il titolo quotava 7,25 euro. Negli ultimi mesi la sua performance è stata di oltre il 100 per cento. Un miracolo se si considera l’andamento complessivo della borsa italiana.
Che, nello stesso periodo ha fatto registrare una perdita di quasi il 9 per cento. E non è tutto. La famiglia Bulgari esce dall’operazione con un riconoscimento importante. Avrà in dote il 3,5
per cento del colosso francese. Una quota che le garantirà di essere il secondo azionista familiare. Il marchio, ovviamente, non scomparirà. I due fratelli Bulgari continueranno a essere presidente e vice presidente. Francesco Trapani, il ceo che ha inventato l’operazione, guiderà la divisione gioielleria – orologi della maison dopo aver conquistato un posto nel consiglio d’amministrazione. Tutto bene, quindi, quel che finisce bene. Ma non sempre il successo dei singoli si traduce in un vantaggio per l’intera nazione. Che resta infatti del “made in Italy”? Non delle piccole e medie imprese che continuano a darsi da fare, con risultati alterni. Ma dei rami alti di un settore che ha diffuso l’immagine del nostro Paese nel mondo. Gianfranco Ferrè parla ormai arabo. Lo scorso febbraio l’azienda è stata ceduta a Paris Group di Dubai, con le sue 250 boutique sparse tra gli Emirati arabi, il Kuwait e l’Arabia Saudita. Gucci è da tempo francese. Appartiene alla Ppr: l’azienda guidata da François Pinault, strappata ad un altro big della moda d’Oltralpe. Di Fendi abbiamo già detto. Ha seguito in anticipo l’esempio di Bulgari. Valentino è controllato dal fondo internazionale Premira (55 per cento europei e 35 americani): un colosso che negli ultimi venti anni ha raccolto qualcosa come 20 miliardi di dollari e che si muove, da tempo, in una logica globale. Bottega veneta, a sua volta, si è unita a Gucci, nell’impero di Pinault. Insomma, con l’operazione Bulgari resta ben poco della grande tradizione italiana. Naturalmente gli stilisti continueranno a lavorare, ma lo faranno sotto i colori di un’altra bandiera. Si poteva evitare?
Per la verità Bulgari ci ha provato. Troppo piccolo per reggere ad una concorrenza internazionale che obbliga tutti – specialmente nel lusso – a ragionare in termini globali aveva cercato di realizzare accordi con altri imprenditori italiani. Ma l’eccesso d’individualismo ha fatto naufragare ogni progetto. La successiva vendita dell’azienda è stato il naturale epilogo di una storia comune a tanti altri e su cui sarebbe necessario riflettere. Nei cento cinquant’anni dell’unità d’Italia dovremmo riconsiderare alcuni aspetti della nostra cultura. Quell’eccesso di cosmopolitismo che ci ha fatto trascurare l’importanza dello Stato – nazione che non è venuto meno, come insegna la stessa storia europea. Se non
c’è questo collante, l’economia può fare poco, se non offrire al migliore offerente i pezzi migliori della propria argenteria.Bulgari e la moda, del resto, non sono casi isolati. In altri settori si sta giocando la stessa partita, con esiti che non lasciano ben sperare. In campo energetico – settore strategico per tanti motivi – è il caso Edison ad accendere i riflettori. Fondata nel 1884 è la più antica società europea, operante nel campo dell’energia. La sua storia, dai tempi della nazionalizzazione dell’energia elettrica, s’intreccia, nel bene e nel male, con quella nazionale. Gli indennizzi allora pagati la spinsero verso la chimica. Il successivo matrimonio con la Montecatini la trasformò nella Montedison, fino alla scalata (metà degli anni 80) del gruppo Ferruzzi e la successiva crisi, in piena Tangentopoli (la vicenda Enimont) che portò Raul Gardini, che ne era a capo, a suicidarsi. Tornata al suo
Arnault possiede il 47 per cento di Moët Hennessy Louis Vuitton e la maggioranza di Christian Dior. Più altre 50 firme antico mestiere, oggi la Edison è il secondo produttore nazionale (15 per cento del mercato) di energia elettrica, con un mix diversificato che comprende centrali a gas, idroelettrico, eolico, solare e biomasse.
Nel settore degli idrocarburi è il secondo produttore nazionale (17 per cento delle forniture di gas). La società è controllata (61,3 per cento del capitale) dalla Transalpina di Energia Srl: una scatola vuota che ha due soli azionisti di riferimento: la Delmi Spa ed Electricité de France (EDF). La Delmi, a sua volta, è controllata da A2A (municipalizzata di Milano e Brescia) per il 51 per cento, più una galassia di soggetti (alcune municipalizzate emiliane, quella di Bolzano e di Trento, in tutto il 35 per cento) e tre soci finanziatori per la restante parte (Mediobanca, Cassa di risparmio di
sanità. David e Golia. Che cos’hanno, quindi, i francesi che noi non abbiamo. Gli elementi sono diversi. Innanzitutto un peso economico maggiore. Il loro reddito prodotto supera di un buon 20 per cento quello italiano. Sopra Vincent Bollorè, Per la verità non è stato patron del gruppo sempre così. Agli inizi deHavas leader nel settore gli anni ’80, la differenza delle comunicazioni. era ben più sostanziosa Sotto, Bernard Arnault (circa il 50 per cento), ma imprenditore e uomo I patti parasociali, che in dieci anni quel divario d’affari francese sostengono questo casi era quasi azzerato. Nel stello di carta, sono in 1991, subito prima la scadenza. EDF vorrebbe, grande catarsi nazionale, pertanto, acquisire il le differenze erano scese controllo diretto della soa un limitato 0,4 per cencietà. I partner italiani, to per poi salire di botto – pressati dall’esigenza di dopo la distruzione opefar cassa, sembrano dirata da tangentopoli – al sponibili. Unico ostacolo 40 per cento. Dall’inizio la Consob, che sta valudel nuovo millennio una tando l’intera questione. nuova rincorsa da parte Se EDF acquistasse il italiana che si è fermata controllo maggioritario, sulla soglia del 20 per secondo la legislazione cento. Il secondo elemenitaliana, dovrebbe scattato è l’esperienza di un re un OPA sull’intero capassato coloniale, che pitale ma i francesi non sembrano esse- nell’attuale fase di globalizzazione, pesa re del tutto disponibili a un esborso fi- notevolmente. Conoscenza dei luoghi, nanziario così rilevante. Quindi: tutti rapporti consolidati anche se a volte fermi in attesa di trovare una soluzione tempestosi, lunghe relazioni non solo che salvi capre e cavoli. Il passaggio di economiche: il tutto unito a un profondo un asset così strategico, tuttavia, se non senso, più che dello Stato, della Nazione. interverranno fatti nuovi è solo questione di tempo. Dopo Bulgari, un altro pez- Quello spirito della grandeur che ha zo di storia italiana sembra essere desti- da sempre educato le elite dirigenti. E, nato a varcare i confini. Vale quindi la infine, una Sinistra diversa. Può sembrapena tentare un bilancio più complessi- re una battuta polemica, ma si legga, in vo. Quant’estesa è oggi la presenza parallelo la storia dei due partiti comufrancese in Italia? Un conto alla buona nisti. Entrambi erano i più forti dell’Occi dice che il rapporto è di sedici contro cidente: sempre in competizione tra loro tre. Gli interessi francesi spaziano dal nel dimostrare la relativa primazia. In lusso, all’energia come abbiamo già vi- Francia il PCF è morto all’inizio degli sto; dalle banche (BNL, MPS, Medio- anni ’80, sconfitto dal socialismo riforbanca, Cariparma, Carige) alle assicu- mista di François Mitterrand. In Italia le razioni (Generali, Premafin). Non sem- vicende sono state, al tempo stesso, ripre il controllo è assoluto, ma comun- tardate (c’è voluto il crollo del muro di que rilevante.Vi sono poi altre operazio- Berlino) e più complesse. Nel primo cani in procinto di essere lanciate, come so la logica di un mercato, seppure quella su Alitalia, già nell’orbita di Air etero diretto dallo Stato, è stata acFrance o contro le stesse FFSS, che re- cettata senza riserve. In Italia centemente hanno firmato un accordo questo non accade, come dicon Veolia, una multi utility transalpina mostra la politica del più operante anche nel settore dei trasporti forte sindacato esistencon un fatturato di diversi miliardi di te, neppure oggi. E euro. Quelli italiani si concentrano inve- allora: perché mece nel settore del cemento, immobili e ravigliarsi? Torino e BPM). EDF, dal canto suo, ha incrementato la sua quota con una partecipazione diretta (0,294 per cento) e una indiretta, tramite due controllate, per una quota complessiva del 19,07 per cento. A completare il quadro è la presenza di Romain Zalesky: altro finanziere francese d’origine polacca.
commenti
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I democrats non sono riusciti ad abbandonare gli schemi del passato l Pd aveva un solo modo di affrontare la riforma della giustizia messa in campo – finalmente – dal governo: proporne prima una propria. Non quattro chiacchiere alla buvette, ma una proposta organica messa nero su bianco. Ed era, se è vero che alla guida del partito ci sono i riformisti, l’unico modo per tagliare le gambe, politicamente parlando, tanto ai Vendola quanto ai Di Pietro e ai De Magistris. Anzi, Bersani aveva una chances ancora più significativa: inserire quella proposta, inevitabilmente di carattere costituzionale, nel cesto di altre necessità di cambiamento della Costituzione, e proporre a Berlusconi – cosa che sicuramente lo avrebbe spiazzato – di convocare un’Assemblea Costituente che potesse sia rammendare i tanti strappi fatti alla Carta in questi anni con riforme a colpi di maggioranza (titolo V della Costituzione) o con forzature della prassi (l’indicazione del premier sulla scheda elettorale, tanto per dirne una).
I
E il Pd superò il record di errori Tutti i passi falsi di un partito tenuto insieme solo dall’anti-berlusconismo di Enrico Cisnetto
Invece, pur avendo avuto tutto il tempo che voleva avanti a sé, il Pd non ha fatto né l’una né l’altra cosa. Infatti, sarebbe stato logico che la riforma “epocale” della giustizia Berlusconi la proponesse il primo giorno della legislatura, essendosi già fatto colpevolmente scappare i cinque anni precedenti. Ma quando così non è stato, sia per metterlo in mora sia perché comunque una riforma era necessaria per il Paese, il Pd avrebbe dovuto cogliere l’occasione. Così non è stato. Anzi, i democratici si sono fatti risucchiare nel gorgo dell’anti-berlusconismo fino a spera-
Le reazioni scomposte alla riforma Alfano sono soltanto l’ultimo segnale di una classe dirigente di sinistra che ha perso il contatto con la realtà del Paese e con gli elettori re che il premier cedesse sotto i colpi sia delle inchieste giudiziarie che riguardano la sua vita privata sia della neoopposizione di Fini. E hanno perso quattro volte. Primo perché Berlusconi è ancora lì e si sono invece consumati sia lo strumento della creazione di una maggioranza alternativa in questo parlamento, sia del ricorso alle elezioni anticipate. Secondo perché hanno via via lasciato il campo alle componenti massimaliste e giustizialiste della sinistra, lasciando che i riformisti si scannassero tra loro secondo la reiterazione di vecchi schemi, come la contrapposizione
D’Alema-Veltroni o quella ex comunisti-ex popolari. Terzo perché non hanno contribuito a chiudere la partita ancora aperta quasi vent’anni dopo Tangentopoli del rapporto tra magistratura e politica, anomalia di cui tra l’altro è figlio, e ben pasciuto, proprio il “nemico” Berlusconi. Quarto perché non si sono precostituiti le condizioni per evitare che una volta tornati al governo, se e quando sarà, non ricapiti loro quanto accaduto nel 2008 con il “caso Mastella”. Anzi, peggio ancora. Per l’ennesima volta hanno fatto la figura degli ottusi conservatori, subordinati alla corporazione dei magi-
strati – che non occorre demonizzare per riformare la giustizia malata – regalando ancora una volta a Berlusconi l’esclusiva del rapporto con quel popolo dei moderati (maggioritario nel Paese) che avrebbe voglia di non votare più il Cavaliere del conflitto d’interesse e delle norme ad personam, oltre che dei comportamenti poco
commendevoli, ma che fatica a trovare l’alternativa e nelle urne continua a usare il criterio del “meno peggio”. Cioè esattamente quello che il premier voleva con la mossa “epocale”, che come ha giustamente osserva-
to Stefano Folli è soprattutto un’operazione politica ben congegnata.
Nei confronti della quale la sinistra si è prestata a recitare il ruolo dell’utile idiota, cadendo nella trappola con le mani e con i piedi. Bersani si aspettava il solito menù di indigeribili norme su misura, e invece Berlusconi gli ha scodellato la grande architettura costituzionale, e chissenefrega se ci vorranno quattro “letture” di Camera e Senato e il vaglio di un referendum, cioè anni (in cui il grado di efficienza del sistema giudiziario rimarrà quello disastroso che è). Nell’immediato il Cavaliere è uscito dall’angolo, dando la sensazione di essere ancora in grado di passare alla controffensiva, e al suo posto ci ha spinto i fessacchiotti. Che hanno visto raddoppiata la loro difficoltà dal fatto che la riforma Alfano, nel merito, appare complessivamente assai ragionevole e soprattutto abbondantemente debitrice della vecchia “bozza Boato”, purtroppo inghiottita nel gorgo del fallimento della bicamerale del ’97-98 presieduta da D’Alema. Cioè una proposta che veniva dalla sinistra, ancorché da un garantista doc. Da questa vicenda occorre trarre due diverse morali. La prima riguarda l’atteggiamento da tenere di fronte alla riforma: se il Pd non trova la forza e la lucidità per capire che mantenere la rigidità tutta politica fin qui mostrata – della serie noi siamo all’opposizione e quindi contrari per definizione – significa regalare punti a Berlusconi, non faccia lo stesso errore l’altra opposizione, quella terzista. La cautela mostrata da Casini è un buon segnale, ma occorre fare di più, rilanciare alla grande secondo il motto “a epocale, epocale e mezzo”. La seconda conseguenza spetta ai riformisti del Pd tirarla. Quelli che hanno già manifestato imbarazzo per la posizione schematica, da riflesso condizionato, assunta dal loro partito, ma anche quei tanti che finora hanno taciuto ma certo non sono contenti di apparire il partito di Palamara subordinato alle leadership vocianti delle componenti minoritarie del centro-sinistra. Ed è molto semplice: così il Pd non può andare avanti.Vittima dell’idea sciocca che si possa far politica con il solo strumento dell’antiberlusconismo, debitore di leadership altrui, povero di proposte, dilaniato al proprio interno. Basta. È venuto il momento che nell’area del centro-sinistra nasca una “cosa nuova”, riformista, liberale ma non liberista, garantista. Chi è interessato alzi la mano. (www.enricocisnetto.it)
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Pier Mario Fasanotti iacomo Leopardi scriveva nello Zibaldone che la matematica «dev’essere necessariamente l’opposto del piacere» in quanto «il piacer nostro non vuole confini», e quella disciplina «analizza quando il piacer nostro non vuole analisi né cognizione intima ed esatta della cosa piacevole». Ma il poeta di Recanati, come vedremo più avanti, sarà tra coloro che prenderanno in seria considerazione il legame stretto tra numeri e verità da cercare. Italo Calvino, in Lezioni americane sosteneva che la pensosità, e dunque potremmo tranquillamente aggiungere anche il calcolo, ha la sua «leggerezza», ossia quell’impalpabile e indefinibile composto che racchiude levità e giocosità, ma non frivolezza. Il filosofo Bertrand Russell non aveva dubbi: «La matematica, vista nella giusta luce, possiede non soltanto la verità, ma anche la bellezza suprema, una bellezza fredda e austera, come quella della scultura». Più tranchant era Novalis: «Senza entusiasmo non c’è matematica». E poi: «I matematici sono gli unici felici». Quanto a quest’ultima asserzione, bene accetti tutti i dubbi e le obiezioni, s’intende. In ogni caso da qualche anno sono in molti a riflettere sul legame, visibilissimo o sotterraneo, tra letteratura e matematica. Rispetto a decenni fa ci sono più roThomas manzi che pongono Mann la trovava in rilievo la
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Tra scienza e cultura
L’UMANESIMO DELL’ARITMETICA Parola chiave Eroismo di Franco Ricordi
Ecco Coco, la figlia di Sting di Stefano Bianchi
divertentissima, per Leopardi era un mezzo per raggiungere la verità e Dante la paragonava alla luce del Sole. Un libro ribalta oggi un antico pregiudizio: letteratura e matematica non sono connessione inconciliabili
NELLA PAGINA DI POESIA
Michelangelo, il tormento in rime di Francesco Napoli
L’epopea degli eroi dei deserti ghiacciati di Maurizio Ciampa Quella famiglia politically correct di Anselma Dell’Olio
tra poesia e matematica. Matematica che Robert Musil definiva «ostentazione di audacia; una delle avventure più appassionanti e incisive dell’esistenza umana».
Emile Breton? A volte meglio di Monet di Marco Vallora
l’umanesimo dell’
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Anche gli animali
confortare l’impressione secondo cui oggi si presta maggiore attenzione alla matematica è il crescente numero dei libri che in questo periodo trattano la materia, cercando di renderla divertente e svelandone meccanismi e significati a prima vista reconditi. La Einaudi ha appena pubblicato un brillante saggio del matematico inglese Alex Bellos, Il meraviglioso mondo dei numeri (580 pagine, 20,00 euro). Già il titolo segnala sentieri accattivanti, lontani dal generare noia. L’autore presta attenzione anche a quel fenomeno curioso che riguarda l’apprendimento matematico degli animali. E racconta del cavallo Hans, diventato famoso ai primi del Novecento. Molti si radunavano in un cortile di Berlino dove Wilhelm von Osten invitava il suo stallone a compiere non solo semplici operazioni di addizione, ma anche frazioni, radici quadrate e fattorizzazioni. Hans rispondeva in maniera esatta. Boati di entusiasmo. Un trucco? Arrivarono alcuni scienziati per verificare. E si convinsero: Hans sapeva far di conto. Ci volle uno psicologo per spiegare l’arcano. Notò che l’Einstein equino reagiva a indizi nel linguaggio corporeo di von Osten. Hans cominciava a battere lo zoccolo per terra e smetteva soltanto quando intuiva una maggiore o minore tensione sul viso del suo padrone, a indicare che aveva raggiunto la risposta. L’animale era dunque sensibile ai minimi segnali visivi. Per esempio: la testa inclinata, le sopracciglia alzate o addirittura le narici dilatate. Sia ben chiaro: von Osten non era neppure consapevole di compiere quei gesti, quindi era in buona fede. Era un credulone felice. Ma Hans non era un aritmetico, era solo bravo a
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aritmetica
interpretare le persone. Sempre in Germania, nel 1943, un tale credeva di aver insegnato a un corvo a distinguere i barattoli a seconda dei pallini impressi sul coperchio. Ad Harvard la signora Irene si ritenne convinta d’aver insegnato ad Alex, un pappagallo grigio africano, i numeri dall’uno al sei in base a una combinazione di colori (un aiutino bisogna pur darglielo). Non mancano gli esperimenti «da baraccone», ma oggi gli scienziati sono convinti che le capacità numeriche degli animali siano molto più sofisticate di quanto si creda. Ne consegue una verità, ossia che «tutte le creature sembrano essere nate con cervelli che hanno predisposizione per la matematica». Non è un caso, infatti, che la competenza numerica sia fondamentale per sopravvivere in un habitat selvaggio. Uno scimpanzé, scrive Alex Bellos, «ha meno probabilità di soffrire la fame se sa guardare un albero e quantificare i frutti maturi di cui potrà disporre per pranzo». La professoressa Karen McComb (Università del Sussex) ha monitorato un branco di leoni nel Serengeti per dimostrare che quelli predatori usano un senso dei numeri per decidere se attaccare o meno altri leoni. Uno scienziato giapponese è convinto che gli scimpanzé possano avere dei limiti nelle loro capacità matematiche, eppure, studiandoli, essi hanno mostrato di possedere altre abilità cognitive di molto superiori alle nostre. Se il cavallo Hans era bravo nel fare le operazioni perché esaminava minuziosamente e velocissimamente il volto del padrone, la scienza moderna studia con profitto il rapporto tra cervello animale e numeri. Le sorprese sono infinite. (p.m.f.)
sanno far di conto
Il viaggio tra i numeri al pari delle prodezze di Lord Jim, del capitano Achab e dei pirati della Malesia? A questo interrogativo fornisce risposte e citazioni variegate e documentatissime Carlo Toffalori, docente di Logica matematica all’Università di Camerino. Ha scritto su questo argomento un denso ma anche divertente saggio. S’intitola L’aritmetica di Cupido (Guanda, 250 pagine, 16,50 euro). L’autore smonta brillantemente il pregiudizio secondo cui esisterebbe una distinzione un po’troppo manichea tra letteratura e matematica, quasi fossero poli inconciliabili o addirittura nemici. C’è chi di fronte all’abilità del calcolo si sente un po’sminuito. Come Amleto quando dice: «O cara Ofelia, io sto a disagio con questi numeri, io non ho l’arte di contare i miei gemiti». Spiega Toffalori che Shakespeare attribuiva al principe di Danimarca non tanto l’avversione per la matematica tout court, quanto l’incapacità di scrivere poesie d’amore nel rispetto delle leggi della metrica. Un’altra intonazione, dunque, rispetto a quel che si diceva per esempio in alcuni circoli di avanguardia culturale negli anni Trenta (in specie in Francia), ossia che «le matematiche sono assolutamente disumane».
Raymond Queneau nel romanzo Odile immaginava il dialogo tra un matematico e un poeta. Il primo: «Lei è senza dubbio di quelli… che si vantano di non capir niente di matematica». Il poeta: «Per quel che mi riguarda». E l’altro: «E non la rattrista?». Risposta: «Dovrei?». In tempi più recenti Andrea Camilleri ha confessato con netto candore: «Io sono una persona che non sa fare“due più due”. Letteralmente». Queste ovviamente sono idiosincrasie, o vezzi, o coraggiosi outing. Non crediamo tuttavia che Camilleri e altri possano buttare a mare quell’aurea regola di vita intellettuale scolpita in una commedia di Publio Terenzio Afro: Homo sum: humani nihil a me alienum puto (Sono un uomo, non c’è nulla che riguardi l’uomo e che io reputi a me estraneo). Il monito dantesco a «seguir virtute e conoscenza» riguardava chiaramente la matematica, come sanno tutti coloro che ricordano gli accenni continui alla scienza contenuti nella Divina Commedia. Si diceva prima che Leopardi identificava un forte contrasto tra matematica e piacere. Giacomo Casanova, con un savoir vivre decisamente superiore all’autore di A Silvia, ci scherzò sopra. Dopo la famosa fuga dai Piombi veanno IV - numero 10 - pagina II
neziani, l’avventuriero si trovò a Parigi ed ebbe urgenza di trovare appoggi. Chi meglio di una donna facoltosa, anche se attempata? Casanova conquistò la marchesa d’Urfé dopo aver indovinato un crittogramma segreto che la nobildonna usava per cifrare le proprie corrispondenze private. Si legge nelle sue memorie: «Madame d’Urfé, tremante di gioia, fece la domanda: io la convertì in numeri, poi in piramide come facevo sempre e le feci estrarre la risposta… chiarissima e sorprendente: davanti agli occhi era apparsa la parola che era necessaria per decifrare il suo manoscritto. Quando la lasciai portai con me la sua anima, il suo cuore, la sua mente e quel po’ di buon senso che restava». Abilità mista al suo essere un po’ gaglioffo: «Mi venne il ghiribizzo di dirle che me l’aveva rivelato un Genio. Questa falsa confidenza mise Madame d’Urfé in mio potere». L’aritmetica può dunque avere insperati effetti afrodisiaci. E, con buona pace di Leopardi, c’è la convinzione di Thomas Mann: «La matematica? Non conosco nulla di più divertente. È un gioco dell’aria, per dir così». In maniera più intellettuale, Edgar Allan Poe, nella Lettera rubata afferma che è proprio nella sintesi tra matematica e poesia che risiedono il genio e l’ingegno. I numeri hanno sede privilegiata in culture come quella assira, ebraica e greca antica. «Essi si identificavano indissolubilmente con le lettere», scrive Carlo Toffalori. Era pratica comune assegnare al bambino appena nato non solo un nome ma anche un numero. Per esempio il re guerriero assiro Sargon II, era noto anche come 16.823. Teneva tanto a quel marchio numerico che quando decise di costruire un palazzo in proprio onore (in un luogo che oggi si trova in Iran) pretese che il perimetro lo eguagliasse, raggiungesse cioè 16.823 cubiti, quindi ottomila metri. Un capriccio, ma anche una convinzione. Le lettere originarie ebraiche come alef, bet, ghimel, dalet, eccetera, corrispondendi alle nostre A, B, C, D, alla fine coincidono con il loro numero, ossia uno, due, tre, quattro. Eppure una pesante diffidenza verso la matematica venne espressa da due grandi del pensiero, laico e cristiano. Voltaire usò l’arma dell’ironia quando elogiò i matematici «persone sempre utili al pubblico». Mentre Agostino di Ippona fu più netto: «Il buon cristiano dovrebbe stare attento ai matematici e a tutti i falsi profeti. C’è il pericolo che i matematici abbiano stretto un patto col diavolo per annebbiare lo spirito e mandare l’uomo all’inferno». In un altro testo l’alfiere della Patri-
stica si scagliò contro «quegli altri vagabondi che chiamano matematici». Agostino odiava gli astrologi e precisava che erano matematici che «non rispondono se non dopo aver consultato le costellazioni» e che «pretendono di sottomettere le nostre azioni ai corpi celesti, di venderci alle stelle e di riscuotere da noi il prezzo stesso con cui siamo venduti».
C’è invece una sorta di venerazione verso la matematica nel Convivio di Dante: «… e lo cielo del Sole si può comparare a l’Arismetica... ché del suo lume tutte si illuminano le scienze». Con una considerazione finale che rimanda al mistero: «…’l numero, quant’è in sé considerato, è infinito, e questo non potemo noi intendere». L’autore del libro edito dalla Guanda propone, giustamente, di considerare la Divina Commedia come opera «euclidea». Il Poeta elogiava la geometria (quella di Euclide, ovviamente) e la definiva «bianchissima, senza macula d’errore e certissima per sé e per la sua ancella, che si chiama Perspettiva». Leopardi, a parte il citato contrasto tra matematica e piacere, riconosceva alla prima un’importanza centrale nel pensiero dell’uomo: «… fecondità anzi infinità di risultati e combinazioni che deriva dall’aritmetica» e da quei pochi «elementi». E quegli «elementi», ossia i numeri, sono entrati copiosamente nelle opere letterarie. In Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll abbondano giochi di parole, enigmi numerici e sentieri che riconducono al calcolo. La stessa cosa vale quando si parla d’amore. Shakespeare non si sottrae a metafore matematiche: «Quando saremo due non avremo metà». E in un sonetto (il numero 36) ribadisce: «… noi due dobbiamo restare due, se pur i nostri indivisi amori son uno».Versi sui quali varrebbe la pena di meditare, al pari di questo, riferito alla concorrenza sentimentale: «… l’uno tra tanti val come nessuno». I numeri servono anche allo scrittore che scava nel drammatico problema dell’identità. Pirandello, in Uno, nessuno e centomila, narra le vicende di un uomo qualsiasi, il signor Moscarda, che dinanzi alla banale osservazione della moglie circa il suo naso s’infila in pensieri estenuanti sull’io e sull’essere, per arrivare a scoprire di esistere non di per sé, come persona libera e autonoma, ma solo attraverso la forma che i conoscenti gli conferiscono. Da «uno», come prima si sentiva, diventa «nessuno», quindi «centomila»: un granello tra milioni di granelli. Indistinto.
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parola chiave
hi è o fu più felice - scriveva Leopardi - gli antichi con il loro eroismo o noi con il nostro egoismo?». Il pensiero dello Zibaldone ci indica la giusta via da seguire, se vogliamo tentare una nuova interpretazione di questa parola, che ci sembra una delle chiavi politiche e anche culturali della nostra epoca. Si intravede subito nel suddetto pensiero come l’autentico antidoto contro l’egoismo universale possa essere rappresentato soltanto dall’eroismo, da un atteggiamento per il quale il singolo si sacrifica nei confronti degli altri, della patria ovvero della società civile. Ma l’egoismo del mondo globalizzato è ancor più universale, evidentemente, e non ci si rende conto che la posta in gioco sia la sua stessa sopravvivenza. Pertanto la parola eroismo può essere considerata essenziale nel tentativo di affrontare un secolo, il XXI, che certamente si propone a rischio per l’umanità intera. È certo peraltro che l’atteggiamento eroico nei confronti della società, per lo meno in Italia, non è mai stato particolarmente appagante: forse in modo particolare nel Belpaese che abbiamo vissuto dal dopoguerra in poi; dopo la tragedia del fascismo, che certo aveva esaltato le virtù dell’eroe anche in senso bellico, è venuta meno quella forza tragica e anche la stima che si poteva riservare alla figura dell’eroe, con il rischio di farlo apparire per un prepotente, ovvero un brutale guerriero, insomma un fascista.
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Tuttavia, anche nell’immaginario artistico e spettacolare, la figura dell’eroe non è venuta meno: e se a teatro anche in Italia assistiamo ben volentieri alla sorte riservata agli eroi dei grandi drammi antichi e moderni, va notato come invece al cinema, arte del XX secolo, è sempre meno così: i grandi eroi non sono prodotti del cinema italiano, tranne rare eccezioni; provengono quasi sempre da oltreoceano, dall’America che con Burt Lancaster ma anche con attori e attrici meno avvenenti, è in grado di rappresentare ancora oggi personaggi la cui statura e dimensione possono essere considerati eroici. Si pensi ai film dei fratelli Cohen, come Fargo o il recente Il Grinta, ovvero a un film come Una storia di violenza, con Viggo Mortensen. Nel cinema e anche nel teatro italiano, soprattutto negli ultimi trent’anni, tutto questo non avviene. E crediamo di poter suggerire una ragione: il minimalismo, quel prodotto devastante che è seguito al crollo delle ideologie, ha completamente avocato a sé le prerogative italiane della narrazione culturale, quindi del riguardo del pubblico e della critica, soprattutto nell’ambito spettacolare. Gli attori americani sono «forti», come Harrison Ford, e si trovano spesso a che fare con vicende da cui promana il loro eroismo. E questo avviene anche se non sono proprio dei fustoni, come ad esempio Robert De Niro in Taxi driver
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EROISMO L’unico antidoto all’egoismo universale si può ricercare in un atteggiamento di sacrificio nei confronti del prossimo, della società e della patria. Un sentimento “epico” di cui si è persa la traccia...
Un popolo di minimalisti di Franco Ricordi
Se Gassman e Sordi nella “Grande guerra” disegnavano due antieroi che poi diventavano eroi, oggi nel nostro Paese non c’è più spazio nemmeno per personaggi come loro. Salvo qualche eccezione, lo dimostrano il cinema e il teatro degli ultimi trent’anni, specchio dei nostri tempi. In America invece... ovvero Dustin Hofmann in Little big man. Nel cinema italiano, e di conseguenza anche nel teatro a noi contemporaneo, ha preso il sopravvento l’esaltazione del personaggio minimale, che si lamenta per la crisi dell’ideologia o che reagisce a essa attraverso una sorta di contaminazione degli ambiti. Manca in ogni caso la forza tragica, il coraggio che deriva dalla causa per la quale l’eroe si sacrifica, forse proprio perché ci hanno insegnato che per la patria o per altri ideali non val la pena sacrificarsi. La grande commedia all’italiana del cinema post-bellico, con i suoi eccellenti attori come Mastroianni,
Tognazzi, Gassman, Sordi, Manfredi, manteneva in ogni caso la forza di un ideale di grandezza anche eroicomica che, nonostante la guerra mondiale, la narrazione ha sublimato: anche un film come Profumo di donna, con Vittorio Gassman, creava un grande personaggio - quell’anziano colonnello cieco che non a caso il cinema americano ha voluto far suo con un remake di Al Pacino. Ma dopo quella stagione, con l’avvento del minimalismo, il teatro e il cinema italiani hanno perduto questa dimensione eroica, comica o tragica, che peraltro avvicina la narrazione artistica al significato più profondo della parola
eroismo. La creazione del grande personaggio è sempre stata prerogativa della letteratura di ogni tempo, e anche il Don Quijote di Cervantes può essere considerato un grande eroe, pur nel suo tragicomico patetismo. È chiaro che non vogliamo esaltare certi personaggi guerrafondai alla Rambo o ancor peggio dimensioni di poliziotti cattivi (le solite storie, anche se a volte avvincenti). Ma è evidente come la narrazione italiana, condizionata da uno sfalsato impegno politico di sinistra che si è andato dileguando (i personaggi di Brecht come Galileo o Madre Courage e poi la stessa figura dello Zanni di Dario Fo hanno certamente la grandezza dell’eroe, seppure in chiave marxista), abbia ormai completamente perduto la grandezza tragica o anche comica dell’eroe, e certe propaggini minimaliste che se si vuole derivano anche da Cechov, e spaziano fino a Pinter, sembrano sempre più influenzare l’ambito tematico del nostro cinema e del nostro teatro. E se per quest’ultimo il confronto con i grandi classici può sempre rappresentare uno stimolo a un ritorno del grande personaggio eroico, nel cinema tutto ciò sembra più difficile. E con tutta la stima che possiamo nutrire per attori come Castellitto e Moretti, che sono certamente i maggiori del nostro nuovo cinema, la percezione minimalista promana più che mai dal loro ambito creativo, e si avverte sempre più scendendo verso la narrazione che caratterizza la generazione dei trentenni, pur nella disperazione della loro società senza aspettative. Forse soltanto Benigni, nella sua follia metafisica, è riuscito proprio nella Vita è bella a costruire un personaggio che attinge un senso eroicomico degno della grande tradizione. Ma ci appare davvero come una eccezione che conferma la regola.
Pertanto, essendo il teatro e il cinema specchi dei tempi, potremmo concludere che, nel nostro Paese, si sta perdendo sempre più il vero significato della parola eroismo: se Gassman e Sordi nella Grande guerra disegnavano due antieroi che poi diventavano eroi, ecco che oggi non c’è più spazio nemmeno per gli antieroi; proprio perché è venuto meno il senso che Thomas Carlyle, il filosofo che ha più approfondito la quintessenza dell’eroismo in ogni campo, vale a dire la possibilità di intendere la grandezza del sacrificio della propria vita a beneficio dell’altro. E certo possiamo essere orgogliosi del fatto che Carlyle, quando è chiamato a indicare i due più grandi poeti-eroi, si soffermi proprio su Dante e Shakespeare. Gli stessi che sono stati indicati recentemente da Harold Bloom come le due colonne del canone occidentale. Così, tornando alla questione sollevata da Leopardi, essa andrebbe oggi riscritta: «chi è più felice l’America con il suo eroismo o l’Italia con il suo minimalismo?». Per noi la risposta è scontata, ma trattandosi anche di questione di gusti, a ognuno il suo parere.
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Pop
musica
L’ESTETICA dello smaterassabile di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi i muove come un’elefantessa in una cristalleria. D’altronde, che non voglia fare la figura della raccomandata è sin troppo chiaro: «Li amo da morire, ma credetemi: loro non c’entrano. Io sono quel che sono, vengo da dove vengo e non posso far nulla per cambiare le cose: ma voglio continuare a fare musica e non ucciderò certo il mio sogno». Loro, sono Gordon Matthew Sumner in arte Sting e l’attrice Trudie Styler. Lei si chiama Eliot Paulina Sumner, in arte Coco, «figlia di», nata a Pisa nell’estate del 1990 e sorella di Joseph (cantante dei Fiction Plane), Kate e Bridget (attrici), Jake (regista) e dell’ultimogenito Giacomo Luke. Giura di rispettarlo, l’ingombrante papà, ma di aver scoperto il rock dei Police quando non esistevano più. Acquistò un greatest hits e fu lieta di scoprire che i loro primi pezzi erano punk: «In quel momento, ai miei occhi, mio padre s’è guadagnato parecchi punti». Oggi, quando lo nomina le viene la tachicardìa. Povera Coco. Che quando canta, guarda caso, gli somiglia un po’(è riuscita ad ammetterlo, di recente, aggiungendo di avere in comune con lui la voglia di tranquillità). E se ti metti ad ascoltare un paio di sue canzoni, ad esempio Turn Your Back On Love e Please Rewind, ci scopri dentro proprio i Police reggae & punk di Can’t Stand Losing You. Meglio non dirglielo, però, e apprezzare piuttosto la sua cocciutaggine da enfant prodige. La ragazza, infatti, suona la chitarra dall’età di quattro anni, a sette ha ricevuto in regalo da mamma Trudie Are You Experienced di Jimi Hendrix («Ha cambiato il rock, l’ha arricchito e mi ha cambiato la vita»), a nove ha scoperto Never Mind The Bollocks dei Sex Pistols e il canzoniere di Ian Dury and the Blockheads, che la tata non mancava mai di farle ascoltare. A quattordici, ha
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Jazz
zapping
l più atroce modello di masculo contemporaneo è il canterino ghorgeggiante. Apri la pagina facebook di una giornalista di tendenza e trovi scritto: «Ma quanto è smaterassabile il cantante dei Modà?» con foto di Francesco Silvestre. Ora, per manifesta incompetenza sulla smaterassabilità dei masculi niente possiamo dire sulla foto. Ma sul fatto che uno come Silvestre, uno che gorgheggia sentimento anni Sessanta tutto su toni acuti e su giri armonici per quarte, come del resto Sangiorgi dei Negramaro, il cantante delle Vibrazioni, e una legione di imitatori, qualcosa ci sarebbe da dire. E cioè che un masculo che canta dolcemente sugli acuti fa educato e sentimentale, anzi sentimentalmente corretto. Dolce. Un verso come «abbracciami e fammi sentire che/ sono solo mie piccole paure» (Vieni da me, Vibrazioni) è il trionfo con istinto materno. La versione post dell’evergreen cuoreamore, ma con qualche chitarra rock in sottofondo per dare un pizzico d’energia. Un etero-metrosexual da imballo più che da sballo, con un bel pizzico di revival anni Sessanta. «Piangerai come pioggia tu piangerai/ e te ne andrai/ Come le foglie col vento d’autunno triste tu te ne andrai/ certa che mai ti perdonerai. Ma si sveglierà il tuo cuore in un giorno d’estate rovente in cui il sole sarà/ E cambierai la tristezza dei pianti in sorrisi lucenti/ tu sorriderai» cantano Emma e i Modà dello smaterassabile Silvestre, con tutti i verbi al futuro e un’allure Bobby Solo. Ora, se abbiamo attraversato mezzo secolo di rock, pop, disco, punk, sperimentale, alternativo per arrivare a questo, vuol dire che la musica italiana più che smaterassabile è tranquillamente tumulabile, pensi. Ma poi ti viene il sospetto. Il sospetto che la tua è solo invidia per il tuo generalmente basso coefficiente di smaterassabilità. E sotto la doccia provi a ricantare «sono solo mie piccole paureeee».
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Ecco Coco la figlia di Sting iniziato a comporre musica: «I testi delle mie canzoni nascono come pensieri: scrivo ciò che sento e ciò che vivo», tiene a precisare. «Per quanto riguarda invece la parte melodica, nasce solitaria nella mia testa: butto giù tutto, nero su bianco, e poi provo e riprovo a suonarlo». Diciassettenne, Coco ha firmato un contratto discografico e formato la sua band, I Blame Coco («do la colpa a Coco»), arruolando il chitarrista Jonas Jalhay, il bassista Rory Andrew, il tastierista Jonny Mott e il batterista Alexis Nunez. Con loro, nel giro di pochi mesi ha inciso The Constant: «Lo registravo e intanto continuavo a studiare. Finivo alle tre del mattino e dopo quattro ore dovevo alzarmi per andare a scuola». Disco godibile, ispirato all’electropop della scena scandinava, The Constant paga anche pegno al technopop anni Ottanta che risuona in
Self Machine, Quicker, In Spirit Golden e Party Bag. Altrove, invece, affiora il reggae che Coco ascoltava fra un assolo di Jimi Hendrix e una stonata dei Sex Pistols: nel ritmo in levare di No Smile, nell’atmosfera tropicaleggiante di Playwright Fate, in certi passaggi che ricordano Sly & Robbie e Lee Scratch Perry, e nella cover di Only Love Can Break Your Heart di Neil Young (1970, periodo After The Gold Rush). Poi, in punta di piedi, arrivano le ballate: c’è quella un po’ melodrammatica, ma ben riuscita, intitolata Summer Rain; e quella ancor più melodica e maestosa: It’s About To Get Worse. E se Caesar è un incrocio fra punk e Blondie, il brano che intitola il disco mostra una buona vena rockettara (stile «dimenticate mio padre e ascoltate la mia band»), e la conclusiva Quicker - Rack N Ruin Rework un’onda d’urto inconfondibilmente techno. I Blame Coco, The Constant Universal, 16,99 euro
A lezione di canto (nella capitale) da Sheila Jordan el deserto del jazz romano di questi ultimi mesi giunge una notizia che farà piacere non solo ai molti appassionati, ma anche a musicisti e agli studenti della St. Louis Music School. Hanno dato infatti la loro adesione alle Masters Class che si terranno in questo istituto nei prossimi mesi, Danilo Perez, John Pattitucci, Joe La Barbera, Dave Liebman e la cantante Sheila Jordan, i quali, oltre a tenere lezioni di strumento, improvvisazione, musica d’insieme e di canto da parte di una straordinaria vocalist come la Jordan, si esibiranno con musicisti italiani nel corso del festival che avrà luogo aVilla Carpegna. La sezione ritmica, formata dal pianista panamense Danilo Perez, dal contrabbassista John Pattitucci e dal batterista Joe La Barbera di evidenti origini italiane, accompagnerà tutte o quasi le esibizioni
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di Adriano Mazzoletti non solo di musicisti italiani, ma anche di uno dei più importanti sassofonisti americani Dave Liebman che approdò al jazz quando, ancora studente, ebbe la possibilità di ascoltare John Coltrane al Village Vanguard e all’Half Note. Mentre frequentava la New York University, dove si laureò con una tesi in Storia americana, ebbe modo di seguire i corsi del pianista Lennie Tristano e del sassofonista Charles Lloyd finché entrò a far parte del complesso di Elvin Jones, quello stesso batterista che aveva
ascoltato con John Coltrane. Da quel momento Liebman venne considerato il miglior allievo di John Coltrane. Le lunghe frasi regolari e quelle veementi e rabbiose sono tipiche del suo maestro, ma quelle calibrate ed espressive debbono molto alla musica europea e fanno di questo musicista una voce importante del jazz contemporaneo. Chi invece può essere considerato un caposcuola è Sheila Jordan, nata a Detroit nel 1928 che alla fine degli anni Quaranta fece parte di un trio vocale pre-
cursore di quello costituito anni dopo da John Hendricks, Dave Lambert e Annie Ross. Con questo trio la Jordan trascriveva gli assolo di Charlie Parker cantando versi da lei stessa creati. Come fecero in seguito John Hendricks, ma anche King Pleasure e gli altri esponenti del cosiddetto vocaleese. La sua lunga e prestigiosa carriera ha attraversato la storia del jazz dalla seconda metà del secolo scorso a fianco dei maggiori esponenti di questa musica; da suo marito il pianista Duke Jordan a Dizzy Gillespie, George Russell, Carla Bley. Oggi a ottantré anni, che festeggerà il 18 novembre, Sheila Jordan continua a incidere dischi spesso con musicisti dell’avanguardia anche europea, esibirsi in pubblico e insegnare l’arte del canto jazz ad allievi di mezzo mondo. Esempio straordinario non solo di longevità, ma anche di creatività.
arti Mostre MobyDICK
ualche amico malizioso mi chiede: «Ma come mai tu parli bene delle mostre di Goldin?» (è noto ai più, l’abile, talvolta demonizzato curatore di mostre dal successo-monstre e che pertanto passano, tra i male informati, come corrive e dannose e dannabili. Numerose ed effettivamente lampeggiano per tutt’Italia, in questo momento, per esempio, da Rimini a Genova, da Passariano a San Marino). Troppe mostre? E che male c’è, se son belle e ben curate? Dunque, sarebbe facile rispondere, a chi (per ignavia e per non doverne ammettere l’evidente qualità) le mostre non va a vederle, «a priori», bel cretino: «Semplice, ne parlo bene perché io le mostre le vedo, e non sono vittima di pre-giudizi e spero di saper giudicare ancora con una certa obiettività». Perché, è ovvio, dietro quella domanda, c’è un’ulteriore malizia, come a dire: «Eh certo, tu ne parli bene perché lui ti fa scrivere sui suoi cataloghi».Allora rispondo, volentieri: «Io scrivo sui suoi cataloghi perché i suoi progetti li condivido», purtroppo conosco molti colleghi cui rifiuto il mio consenso. Inevitabile che allora condivida spesso scelte e risultati. E siccome ho un po’di rispetto per il mio lavoro, devo dire che nei cataloghi di Linea d’Ombra ci si trova sempre in ottima compagnia, con illustri colleghi (se si può osare) di musei importantissimi e testi sempre di grande livello (a differenza di tanti altri, abborracciati, per mostre inqualificabili, che però nessun critico integerrimo stronca o sdegna). Sì, trovo pure intelligenti i suoi testi, anche se talvolta deborda un po’, nelle sale, in pannelloni-narcisi e iper-firmati ma son davvero leggerezze veniali. Questo per dire che, per deontologia professionale, avendo scritto un testo per la mostra di Rimini, non faccio la gaffe, ovviamente, di elogiarla e non mi pronuncio. Però, al di là di compromissioni e conflitti d’interessi, io non riesco a non polemizzare con i fes-
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Pompiers vs Impressionisti
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Design
di Marco Vallora si e per un attimo me ne impipo della deontologia, giuro che non lo faccio per fedeltà di scuderia: ma davvero, di qui non si scappa, mi rispondano loro, gli integerrimi. Insomma, quando vado a vedermi queste mostre, calunniate da indegni puritani, viene istintivo gonfiarsi di rabbia e domandare (in realtà me ne impipo anche di Goldin, in quel momento, e guardo i quadri): ma onestamente chi altri dei tanti millantati curatori, riesce a
portare in Italia dei Bazille così rari e meravigliosi, o dei Seurat così ben scelti, e poi Courbet a gogò e le davvero incredibili Bagnanti di Manet, e poi Monet (con quel folle Cesto d’uva che pare Bonnard) e Cézanne (non facile avere ospiti insieme Madame Cézanne sulla poltrona rossa e Victor Choquet) e pure Degas, quell’inarrivabile padre di Degas che ascolta Pagans, che suona la chitarra, da restarci ora davanti, dimenticando tutto il resto.
E che dire di quella sala-cesello di congedo, in cui si rispondono, fraterni, una disincarnata veduta estrema di Cézanne, con la strada che svolta, riflessa in quella, stesso titolo, di Gauguin, vigilate dal verde capolavoro assoluto di Pissarro, la Veduta di Pontois? Infine, una prova del nove dirimente: ma è possibile che per un’improbabile mostra, che nessuno ha il coraggio di contestare, perché Villa Medici è Villa Medici, che fa incontrare, boh, Ellswort Kelly con Ingres, ebbene, la sede ufficiale, coronata, della Francia in Italia, il luogo sacro del soggiorno-simbolo di Ingres a Roma, si prestino soltanto delle cacatine schizzate (che essendo di Ingres, sono pur sempre gioiellini, ma indiscutibilmente cacatine) e a Rimini, per un curatore che non ha alle spalle né musei di scambio né ministri mitterrandiani, giunga quello spettacolo che è l’inflessibile Autoritratto scrutante di Anversa (che stia prendendosela con qualcuno di Villa Medici?) e altre primizie, come i Tragici Greci? Integerrimi, spiegatemelo! Tra l’altro, l’idea di paragonare i cosiddetti pompiers da salons agli innovatori impressionisti, non è così banale, anzi, e magari scopri pure, per l’ennesima volta, che la pretenzione avanguardistica è proprio molesta, e che i Gervex, i Bouguereau, i Bonnat, gli Henner, non sono poi così da buttar via, come vorrebbero i Nostri Soliti, anzi. Magari scopri pure che preferisci un Uragano di Emile Breton a una prevedibile marina di Monet, un Addormentato di Carolus-Durand a una sfarinata bambinaccia di Renoir (che ci si sia bevuti il cervello?). Queste son mostre che hanno qualcosa da dire. Certo, uno può anche cedere e reagire: basta, che nausea, con gli impressionisti! Ma quando hai di fronte non foss’altro che l’Airone di Bazille, ma che sciocchezza mai: che sia grazia a quella cosa che non esiste che è l’Impressionismo!
Quelle irrinunciabili icone del nostro quotidiano ono gli oggetti indispensabili della nostra vita, piccoli eroi nascosti sotto l’apparente banalità del quotidiano. I gesti che riconducono a loro sono quelli di ogni giorno: svegliarsi, preparare un caffè, versare il latte, prendere delle uova, lasciare una nota sul frigo, scegliere un abito nell’armadio, indossarlo. La giornata è appena iniziata e ne abbiamo usati già molti: i tappi per le orecchie, il filtro del caffè, la bustina del tè, il cartone del latte, il contenitore delle uova, la gruccia appendiabiti, la zip, la penna biro. Questi e molti altri sono oggetti così abituali da apparire addirittura insignificanti. In realtà, senza di loro, la vita non sarebbe la stessa: la matita, la lampadina, il nastro adesivo, la plastica a bolle, la spina elettrica, i cartoni per le bibite e quelli per le uova, gli elastici, il metro pieghevole, l’ombrello tascabile, le mollette per il bucato, la lattina, il rossetto. Hidden He-
S
di Marina Pinzuti Ansolini roes. The Genius of Everyday Things è una mostra itinerante nata dalla collaborazione tra il Vitra Design Museum e la Hi-Cone, azienda americana che dagli anni Sessanta produce e distribuisce in tutto il mondo i Multipack Carrier, indispensabili per trasportare, con il minimo ingombro, bottiglie e lattine. Cinquanta gli oggetti selezionati per la mostra; tutti li usano, pochi ne conoscono la storia. Imprese affascinanti e bizzarre, fatte di invenzioni, leggende, errori fatali e fortune economiche. Il primo cavatappi brevettato risale alla fine del ‘700 per opera del pastore evangelico inglese Samuel Henshall. Oggi sembra ne esistano 50 mila modelli diversi. Nel 1848 il chimico tedesco Boettger inventa i fiammiferi «svedesi» e nel 1882 il farmacista tedesco Paul Beiersdorf brevetta e commercializza il cerotto, venduto indifferentemente per le piccole ferite e per i fori delle gomme di bicicletta. Nel 1908, il berlinese Negwer, concentrato sulla necessità di proteggere l’udito degli abitanti dall’inquinamento acustico delle città in crescita, inventa i tappi di cera. Alla fine degli anni Trenta, l’ungherese Laslzlo Biro inserisce una piccola sfera in un’asticella colma d’inchiostro; è l’inizio di uno studio complesso che porterà alla creazione della penna più usata nel mondo. Nel 1949, due fisici tedeschi brevettano il primo «ciuccio» per bambini realizzato in silicone e lanciato sul mercato americano con
l’accattivante definizione di baby pacifier. A volte il nome del loro inventore, quello della ditta che li ha prodotti, o quello con il quale sono stati commercializzati hanno, con il tempo, identificato l’oggetto stesso: fischer, band-aid, biro, scotch, kleenex, bic, post-it, thermos. Ogni «eroe» è provvisto di scheda tecnica, con la storia e i suoi personaggi, l’evoluzione, gli aneddoti, le fotografie, i documenti, le immagini e i filmati pubblicitari. La mostra, nel suo percorso didattico, può essere comodamente visitata on line attraverso il sito www.hidden-heroes.net. I curatori, inoltre, invitano i visitatori a segnalare altri oggetti che potrebbero andare ad ampliare la selezione. Opportunità curiosa e stimolante; chi di noi, in realtà, non ha il suo irrinunciabile, quotidiano, piccolo eroe nascosto?
Hidden Heroes. The Genius of Everyday Thing, Eindhoven, Designhuis, fino al 21 maggio
il paginone
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L’epopea degli eroi dei deserti ghiacciati di Maurizio Ciampa he straordinaria idea quella di Fridtjof Nansen: farsi portare dal ghiaccio invece che mettersi contro la sua massa per aprire un varco. L’idea era all’altezza del personaggio, un uomo di grande intelligenza e attentissimo osservatore. Fu l’esploratore e scienziato norvegese a capire per primo che la distesa artica non era terra, ma un immenso mare percorso da correnti. Certo ci voleva del coraggio: dovevi aspettare che la morsa del ghiaccio avvolgesse completamente l’imbarcazione con il rischio di schiantarne la struttura. La nave cominciava a oscillare, tremare, sussultare sotto la pressione degli enormi blocchi. Il rumore si faceva assordante. Ma Nansen era «ritto in piedi, a osservare quel tumulto di blocchi di ghiaccio, simili a giganteschi serpenti, che là fuori, contorcono i loro enormi corpi sotto il cielo, stellato e silente». Nansen si concede il lusso di guardare anche nell’ora in cui il pericolo gli sta addosso. Qualcosa in quel bianco e gelido infinito lo attrae irresistibilmente. Questo non lo esime da un atteggiamento che credo si possa definire severo. L’uomo è d’irriducibile tempra, uno strenuo lottatore: non ar-
C
retra neppure di fronte alle avversità più perentorie. Lo possiamo immaginare, fermo sulle sue gambe, il volto scolpito dal freddo, a poppa o a prora della sua nave, la Fram (in norvegese vuol dire Avanti), mentre gli scricchiolii della superficie ghiacciata si sommano prima in un diffuso e sinistro crepitio, poi si liberano in un’interminabile successione di fragorosi boati. Nansen non fa una piega, guarda «non senza disprezzo, l’orrido tumulto che la natura sta causando senza uno scopo, poiché noi non ne verremo sopraffatti, né ci lasceremo intimorire».
Appena dietro l’affermazione eroica, pronunciata con impressionante fermezza, c’è un curioso rimprovero: l’uomo pensa evidentemente che ogni manifesta-
l’ordine della natura va semplicemente assecondato. Questo pensa progettando la Fram, pensa che la nave con cui solcare i mari artici non vada costruita come un elaborato artificio della tecnica, ma deve far parte, e quasi celarsi, nel paesaggio. «Un guscio di noce» ecco l’idea: la chiglia della nave deve prendere la forma di un «guscio di noce» portato, con un lentissimo movimento, dalle correnti sottomarine: «Doveva scivolare come un’anguilla fuori dagli amplessi del ghiaccio». E in effetti scivolava, ma troppo lentamente. Due anni dopo il primo impatto con il ghiaccio, gli «amplessi» sono ancora in corso, mentre il Polo Nord pare una meta assai lontana. Ancora una volta, l’ardimentoso esploratore-scienziato non si lascia intimorire: il 14 marzo del
L’esplorazione dei poli appare come un compendio di ogni possibile esplorazione ed è una vera epica dell’ardimento, talvolta mescolata con l’istinto predatorio e l’immancabile desiderio di conquista territoriale, moventi
umano». Perché si dispone a patire, per sua libera scelta, indicibile fatica e dolore, in qualche caso, andando incontro alla morte? «Ero arrivato a una sofferenza tale che non m’importava di morire - scrive Apseley CherryGarrard che nel 1911 partecipa alla spedizione di Robert Scott in Antartide -, se solo avessi potuto farlo senza provare dolore… sarebbe così facile morire, una dose di morfina, un crepaccio amico, e un dolce sonno. Il problema è andare avanti…». «Andare avanti» sembra un imperativo cui gli esploratori non si possono sottrarre. Avanti (Fram) si chiamava la nave che ha portato Nansen in prossimità del Polo Nord. E non si è fermata lì: nell’inverno del 1911 la stessa nave accompagnerà Roald Amundsen nella conquista del Polo Sud, bat-
Amundsen raggiunse la meta con la stessa nave che portò Nansen in prossimità del Polo Nord, pochi giorni prima che in quei paraggi trovassero la morte l’inglese Robert Scott e i suoi compagni zione di vita debba avere un senso, e l’«orrido tumulto» non pare averlo. Nella distesa artica non c’è posto per ciò che appare gratuito, non c’è posto per lo spreco.Tutto ha uno scopo secondo Nansen;
1895, con un solo compagno, cani e kajak, lascia la nave per raggiungere il Polo. Ci arriveranno vicini. Ovviamente prendendo a riferimento una scala di misure da esploratori artici: Nansen, il compagno e i loro cani si fermano a 350 chilometri di distanza dal Polo Nord. Si può ritrovare lo straordinario racconto di Fridtjof Nansen in La spedizione della
Sopra, da sinistra in senso orario: Amundsen e il suo gruppo; ancora Amundsen con bombetta e al Polo Sud; Robert Falcon Scott e il suo gruppo, Fridtjof Nansen da giovane e nel 1922. Nelle foto piccole: la “Fram” a bordo della quale Nansen seguì l’itinerario indicato nella mappa. Accanto: la distesa antartica di Capo Evans anno IV - numero 10 - pagina VIII
Fram (pubblicato da Carte Scoperte, curato da Davide Sapienza), ma per chi volesse allargare il proprio sguardo all’incessante via vai che si è mosso attorno ai poli a partire dal Seicento e soprattutto negli ultimi due secoli, c’è l’ampia antologia Alla fine del mondo. Le grandi avventure polari, curata da Jon E. Lewis e pubblicata di recente da Newton Compton. Qui c’è quasi tutto: diari, lettere, resoconti di viaggio, un fiume di narrazioni avventurose, racconti d’incredibili imprese, anche tragedie, e non poche.
quasi naturali dell’azione degli uomini, delle loro imprese e dei loro viaggi. Ma al di là di questi elementi riconoscibili e spesso dichiarati, che cosa muove chi s’inoltra nel deserto di ghiaccio? Difficile dirlo. Una forza sotterranea e misteriosa sembra spingere l’esploratore dei poli «oltre i limiti mentali e fisici del genere
tendo sul tempo, di poche settimane, la spedizione inglese guidata dal capitano Robert Falcon Scott. Gli inglesi moriranno a soli 18 chilometri da un deposito di cibo e combustibile che avrebbe potuto salvarli. Nel luogo della loro morte, i soccorritori, giunti oltre sei mesi dopo, alzano un tumulo coperto dalle slitte rovescia-
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Fridtjof Nansen, Roal Amundsen, Robert Falcon Scott, Edward Adrian Wilson, Bill Streever. Sono i leggendari esploratori dei poli che, mossi dalla passione e dall’attrazione per l’ignoto, si sono spinti oltre i limiti mentali e fisici del genere umano. A cent’anni dalla “presa” del Polo Sud, una serie di libri rievocano le loro imprese te, con una croce ricavata dagli sci, e un messaggio: «È un piccolo omaggio per perpetrare il loro valoroso e riuscito tentativo di raggiungere il Polo. Lo hanno fatto il 17 gennaio 1912, dopo che la spedizione norvegese li aveva preceduti. Il tempo inclemente e la mancanza di combustibile sono stati la causa della loro morte». Si celebra quest’anno il centenario dell’impresa di Roald Amundsen, che riporta alla memoria la tragica morte di Robert Falcon Scott e dei suoi compagni. C’è un inusitato intreccio di vita e di morte, di gloria e di disfatta, in quel viaggio dentro i limiti dell’umano che è la spedizione polare.
Le edizioni Nutrimenti fanno uscire (a cura di Filippo Tuena, che nel 2007, per Rizzoli, ha pubblicato un bel romanzo, Ultimo parallelo, dedicato alla tragedia della spedizione inglese) i Diari antartici. È un libro prezioso, che raggruppa i diari di quattro diverse spedizioni: quella di Robert Falcon Scott del 1901, quella del leggendario sir Ernest Shackleton del 1908, il «viaggio invernale» dell’11 di Edward Adrian Wilson, infine quella di Falcon Scott del 1911 con il drammatico epilogo di cui ho detto. Sono testi di grande bellezza da cui emergono la passione e l’attrazione per l’ignoto. Questa probabilmente è la forza sotterranea che spinge avanti questi uomini, esponendoli al rischio e alla morte. «Non eravamo altro che minuscoli puntini neri che arrancavano lenta-
mente e faticosamente lungo l’immensa distesa bianca - scrive Shackleton nel 1908 -, investendo tutte le fievoli energie per strappare alla natura quei segreti che da sempre manteneva inviolati». Poi c’è la grandiosa epopea del freddo. «Il freddo resiste», osserva il biologo americano Bill Streever in un libro (Gelo pubblicato da poco da EDT) che ha tutte le caratteristiche di un’avventura: «È tempo di comprendere e fare nostra la storia naturale e umana del freddo. Anche in un mondo che si riscalda, un mondo soffocato dall’anidride carbonica e dal metano, il freddo resiste, mi morde i polmoni e insieme mi rende forte, vivo e sano in un pomeriggio di primavera artica, il sole basso su un orizzonte coperto di ghiaccio e il termometro a -40°». Gelo ha la forma di un diario che segue il filo di un anno di vita, da un’estate all’altra, partendo da Anchorage, in Alaska, dove Bill Streever vive e lavora, e muovendosi poi nell’immensa distesa delle terre fredde. Il libro registra scrupolosamente il decorso del tempo e delle temperature, ragionando sull’azione del gelo e intrecciando minute osservazioni sulla vita così come si svolge nell’estremo Nord con considerazioni scientifiche e il racconto di miti e di avventure. Davvero singolare, spesso avvincente. Quello che può colpire il lettore, quello che mi ha colpito, è il lungo sguardo di Streever, che, come si è detto, è un biologo, ma si sposta
con grande agio nei più diversi territori del sapere. Devo dire che lo invidio: vorrei poter guardare alle cose che mi circondano come Streever è capace di fare, ricostruendone, con geometrica passione, il profilo e riportando alla luce, con i gesti dell’archeologo, i molti strati che le compongono. Va poi aggiunto, e non è secondario, che non gli viene mai meno l’attenzione alla luce, al colore, al sapore delle cose. Anche sciare in compagnia del figlio si trasforma in un esercizio d’attenzione plurima dove tutti i sensi vengono mobilitati: «Attra-
va di quei posti… È un territorio di grandi contrasti ambientali che comprende vaste aree incontaminate e grandi zone industriali».
La linea tortuosa di una frontiera, una «strada alla fine del mondo», che s’insinua tra regioni selvagge, del tutto incontaminate, e territori in cui l’intervento umano è marcato. Erin e Hig la esplorano con una domanda che è per loro drammaticamente pressante: come convivono uomo e natura? Questa domanda inseguirà i nostri due eroi lungo tutti i 6000 e passa chilometri del loro singola-
Le avventure polari sono il compendio di ogni possibile esplorazione, una vera epica dell’ardimento mescolata con l’istinto predatorio e il desiderio di conquista, moventi naturali dell’azione degli uomini versiamo una serie d’impronte di alce, la tana di un castoro, orme di volpe. Mi guardo in giro e mi metto in ascolto in cerca di uccelli, ma non vedo né sento niente. L’aria è immobile. Se ci fermiamo il mondo sembra ovattato… La neve ha inghiottito il suono. Quando ci muoviamo, i nostri sci strisciano sulla neve, la torturano, la fanno gridare a ogni scivolata… Ciò che sentiamo è il rumore dei cristalli di ghiaccio frantumati e spaccati. Questo cigolio è il suono dei legami di idrogeno che si slegano sotto il peso e sotto il movimento dei nostri sci».
È solo un esempio, ma sono davvero tante le pagine che catturano. «La storia naturale e umana del freddo» di cui Streever, all’inizio di Gelo, segnala l’urgenza, nell’arco del libro arriva effettivamente a distendersi, ad articolarsi in una trama accattivante e persuasiva, una narrazione che in più di un passaggio provoca
autentiche scosse di stupore. Mentre il «freddo», accerchiato da più lati, mostra la sua ombra: il riscaldamento globale e le trasformazioni del clima che minacciano il nostro pianeta. A contatto con il «gelo» l’uomo può soccombere, ma senza il «gelo» potrebbe non sopravvivere. Nella stessa geografia estrema procede La strada alla fine del mondo di Erin McKittrick (edito da Bollati-Boringhieri), anche lei biologa e attiva ambientalista. E anche qui, come in Gelo, si sviluppano il diario di un anno, da un’estate all’altra, 385 giorni, e 6712 chilometri percorsi a piedi, sugli sci o in canotto, tra Seattle e il mare di Bering. Non un viaggio solitario, ma in coppia, Hig e Erin: «La costa nord-occidentale del Pacifico era in assoluto il luogo che amavamo di più. Montagna, vallate, coste battute dal vento, oceano e ghiacciai, la varietà di animali selvatici, l’ospitalità dei villaggi più remoti, tutto ci piace-
re viaggio. Una risposta verrà alla fine: non tornare indietro, lasciarsi alle spalle il mondo che conoscono e fermarsi là dove sono arrivati il 27 giugno del 2008, in un giorno di vento e di pioggia. Il punto di non-ritorno si chiama Unimak Island, sovrastata da quattro grandi vulcani, sul lungo frastagliato dito dell’Alaska disteso tra l’Oceano Pacifico e il mare di Bering. Si fermano lì Erik e Hig, a cinque chilometri da un piccolo paese che si chiama Seldovia, in un bosco di abeti rossi fra i mirtilli selvatici e i ciliegi. Non lontano c’è un laghetto e poco più in là un ruscello. Dalla casa («quaranta metri quadri di luce e di spazio»), che si costruiscono prima che arrivi l’inverno, si vede il mare e dietro le montagne. Lì crescerà Katmai, il bambino di Erik e Hig, cui sapranno che cosa raccontare, a partire dal desiderio di una vita diversa che li ha portati fin lì, in una striscia di terra alla fine del mondo.
Narrativa
MobyDICK
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libri Laurence Cossé L’INCIDENTE edizioni e/o, 185 pagine, 17,00 euro
o stato di panico assume varie velocità. Il soggetto che ne è invaso non sa bene misurare il proprio tempo. È quel che capita a Louise, detta Lou Lou, quando si sente come «un topo in trappola». All’origine di tanta paura una sbadataggine, anche se moralmente odiosa. Che tuttavia in altre circostanze potrebbe provocare sensi di colpa, ma non il ribaltamento della propria esistenza. Laurence Cossé, narratrice di grande successo in Francia (nota in Italia per La libreria del buon romanzo, e/o editore) in questo lungo racconto ci spinge in un vortice partendo da una situazione storica particolarissima. Il 31 agosto 1997 Diana Spencer, principessa del Galles e moglie separata dell’erede al trono Carlo, muore assieme al suo compagno Dodi al-Fayed all’interno di una Mercedes lanciata a velocità pazzesca (oltre i 150 km l’ora) nel tunnel de l’Alma, a Parigi. L’auto, guidata da un autista ubriaco, si è sbriciolata contro il tredicesimo pilastro della galleria. I due «fidanzati», usciti dall’hotel Ritz, volevano seminare i fastidiosissimi paparazzi. Che c’entra la giovane Lou Lou? Era lei che si trovava al volante della Fiat Uno bianca, che procedeva a velocità assai moderata e per un caso divenne l’«autoostacolo»: la Mercedes ne urtò la fiancata, l’autista perse definitivamente il controllo. Unico sopravvissuto, ma in condizioni gravi, la guardia del corpo che si trovava a fianco del guidatore. Lou Lou, dopo il tamponamento e l’urto laterale, non si ferma. Sotto choc si rifugia in casa. La sua Uno è in garage, con il fanalino posteriore rotto e una ben visibile graffiata sulla portiera. A questo punto inizia il tormento, destinato a crescere a dismisura, anche perché a poco a poco i giornali rivelano l’esistenza di una Fiat Uno bianca all’interno del tunnel della morte. Lou Lou non si confida con il convivente, decide di simulare, pren-
L
sua mente corre, come un uccello che sbatte contro le pareti di una stanza, da un’ipotesi all’altra, in un crescendo di emozioni contrastanti. Anche perché l’inchiesta ufficiale e ciò che scrivono i giornali non cessano di attirare l’attenzione mondiale sulla morte della principessa. Quel che è accaduto occupa per molto tempo le prime pagine dei quotidiani e le vetrine televisive mondiali. E i cronisti, da molti accusati d’essere vampiri o sciacalli, continuano a fare il loro mestiere. L’opinione pubblica si è intanto schierata, assieme ai familiari delle vittime, contro i paparazzi, additati come i veri responsabili morali della fine di Lady D. La prima cosa che Lou Lou deve fare è riparare la Fiat. Va da un meccanico di origine slave, che sarà poi chiamato «l’indiano» a causa del suo aspetto enigmatico e duro, e il problema viene risolto. O quasi. Laurence Cossé, con un linguaggio stringato, preciso e soprattutto svelto, descrive lo sbandamento di una donna aggredita dalla paura «che le si appiglia alle spalle come un gatto selvatico». Tutto questo perché Lou Lou non si è fermata nel tunnel dell’Alma, quindi c’è il reato di omissione di soccorso. Ma è nella seconda parte del romanzo il colpo di scena che dà una svolta drammatica alla vita di Lou Lou. Si presenta improvvisamente il meccanico, l’«indiano», e la costringe a seguirla. Il suo obiettivo è quello di far soldi vendendo l’informazione a un giornale a proposito dell’«auto-ostacolo» e del suo proprietario. La donna, sotto minaccia irreversibile, diventa prigioniera, sballottata di qui e di là, prima chiusa nel bagagliaio di un’auto, poi fatta riposare, legata mani e piedi, in un sordido albergo. Lou Lou ha una reazione improvvisa, violenta e astutissima. Che non riveliamo, ovviamente. Da topo in gabbia diventa fuggiasca. L’autrice del romanzo d’avventura interiore - i fatti ci sono e sono tanti e drammatici, ma tutti riflessi in un’anima bloccata dalle catene del panico - descrive dall’inizio alla fine quel che appare il nucleo centrale del dramma: «L’intero pianeta - pensa Lou Lou - mi guarda storto».
Sulla strada di Dodi e Diana
Autostorie
L’auto-ostacolo sulla quale urtò la Mercedes nel mortale incidente è il plot del racconto immaginato da Laurence Cossé di Pier Mario Fasanotti de una pausa nel ristorante dove lavora. Il rapporto sentimentale viene messo a dura prova e le circostanze ne rivelano aspetti che prima forse covavano sotto. La donna segue in modo ossessivo, e di nascosto, le cronache giornalistiche e l’andamento dell’inchiesta che comincia a porre in rilievo dubbi sulle cause dello schianto mortale della Mercedes di Lady D. Lou Lou è ben consapevole che prima o poi la polizia arriverà a identificare il proprietario della Uno bianca, la sua. La
I campioni del rally, tutti figli del San Martino ra le più abili firme del giornalismo automobilistico, Beppe Donazzan affianca all’impegno quotidiano lavori di ampio respiro. Redatti con scrittura asciutta, ma così fluida da avvincere il lettore dalla prima all’ultima pagina. Come nel caso di quelle che narrano di un rally divenuto leggendario (Tutti figli del San Martino, Limina editore, 138 pagine, 19,90 euro), inventato all’inizio degli anni Sessanta nella zona dolomitica che fa da cornice a San Martino di Castrozza e su strade «scelte per le difficoltà: strette, sinuose, in salita e in discesa, con caratteristiche da vera e propria mulattiera». Tanto da convogliare schiere di appassionati, anche giovanissimi, a trascorrere notti all’addiaccio per ammirare le acrobazie dei piloti e come testimonia lo stesso autore. Ricordando che «si partiva da casa con ore e ore di anticipo e si andava a cercare la posizione più bella. La più spettacolare. Per sentire i motori che urlavano giù in basso; poi le sciabolate dei fari che rischiaravano la notte, il passaggio a pochi metri, quindi la parte finale che era possibile vivere ascoltando la sinfonia delle cambiate e il rumore dei sassi spa-
T
di Paolo Malagodi rati all’interno dei passaruota». In un crescendo di emozioni che nei rally, più che in altri eventi motoristici, accomuna gli spettatori ai piloti. Tra i quali svetta - con tre vittorie nel San Martino dal 1971 al 1973 - Sandro Munari, un veneto timido e taciturno di grande talento che sapeva trarre il massimo dalla Lancia Fulvia; macchina «non facile da portare al limite e per fare i risultati era necessario andare al massimo. La guidava con i due piedi, pedale del freno pestato con il sinistro, accelerava con il destro, in simultanea. Una tecnica raffinata ed efficace soprattutto sui tornanti e in condizioni di bassa aderenza». Ambiente in cui si è distinto, anni dopo, quel Miki Biasion nativo di Bassano del Grappa e che confessa di essere anche lui un figlio del San Martino: «È iniziato tutto lì, su quelle salite, su quelle discese. Su quelle curve ho imparato a fare le derapate, a disegnare le traiettorie migliori, a frenare il più tardi possibile, ad accelerare nella maniera più efficace, cercare di andare più velocemente.
Il mitico percorso dolomitico e i piloti che lo hanno domato raccontati in due libri
Noi veneti non abbiamo mai avuto circuiti; ed è per questo che automobilismo da corsa significa rally e il San Martino, in quegli anni, era il nostro sogno». Coronato da una luminosa carriera che ha visto Biasion conquistare due volte, nel 1988 e nel 1989, il mondiale della specialità al volante di una Lancia Delta integrale e vincendo, primo italiano su una macchina italiana, il Safari Rally in terra africana, dopo una durissima gara costellata di incidenti. «Nella tappa verso nord si era spaccato il turbo e una zebra era finita sotto le ruote, per fortuna le protezioni anteriori avevano resistito bene al grande colpo. Ma dopo quattromila chilometri di pietraie, polvere e guadi in cuor mio mi aggrappavo alla frase di un masai: tu piccolo italiano vincerai il Safari, aveva profetizzato». Come racconta, in un libro scritto a quattro mani con Beppe Donazzan (Miki Biasion, storia inedita di un grande campione, Giorgio Nada editore, 224 pagine, 20,00 euro), lo stesso pilota veneto. Che lascerà le competizioni nel 1995, ma senza staccarsi completamente dall’ambiente, rimanendo un convinto assertore del valore dei rally per lo sviluppo delle auto che guidiamo sulle strade di tutti i giorni.
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poesia
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Michelangelo, il tormento in rime di Francesco Napoli on so se Michelangelo Buonarroti (1475-1564) abbia mai pensato di riordinare e poi eventualmente pubblicare il suo ricco e vario rimario. Forse sì, se la curatela di Luigi del Riccio e Donato Giannotti, suoi fedeli amici, tra il 1542 e il 1546 provvede a sistemare una parte della sua opera poetica. Per quali scopi? La critica, a riguardo, appare ancora divisa: semplice raccolta di un materiale sparso oppure allestimento di un «canzoniere» non v’è certezza. Più sicuro è che la prematura morte di Luigi del Riccio ha interrotto l’operazione. Dunque la tradizione ci ha consegnato un corposo brogliaccio in versi, fatto di oltre trecento componimenti, tra compiuti e abbozzati, affine a questa tormentatissima anima che, intorno al 1503, smise per un certo tempo di scolpire per darsi «alla lezione de’ poeti e oratori volgari» e scrivere «sonetti per suo diletto», stando a un biografo.
N
Quando però si leggono le rime di uno
Nel mio ’rdente desio, coste’ pur mi trastulla, di fuor pietosa e nel cor aspra e fera. Amor, non tel diss’io, ch’e’ no’ ne sare’ nulla e che ’l suo perde chi in quel d’altri spera? Or s’ella vuol ch’i’ pèra, mie colpe, e danno s’ha prestarle fede, com’a chi poco manca a chi più crede.
scrittore noto soprattutto in quanto artista, e che potenza d’artista, si presentano due strade di lettura che possono condurre lontano dal testo verso quello che è intorno e fuori del testo stesso. Esiste cioè il pericolo di leggere le rime in una prospettiva psicologica, di considerarle in sostanza il documento della storia di un’anima, un diario intimo che nel caso di Michelangelo può essere tanto più suggestivo quanto più martoriata e insieme sublime è la personalità che testimonia. Dall’altra, c’è ancor più chiaro, almeno oggi, il pericolo di concepire le rime come un elemento integrativo e funzionale dell’attività artistica dello scrittore; di considerarle cioè, in primo luogo, come il diario poetico di un artista, una sorta di metadiscorso fatto in versi sull’arte che ci rinvia inevitabilmente, al di là del valore proprio del mezzo linguistico usato, all’arte ben più conosciuta della sua scultura e della sua pittura. Una considerazione immediata che mi viene da fare a riguardo è che sin dalla prima maturità, e fino alla morte, Michelangelo affida alla poesia l’espressione più privata del suo inquieto carattere. Recuperando sul piano letterario l’eredità dei grandi padri della tradizione volgare - i ben noti a lui Dante e Petrarca - all’interno di un tessuto linguistico di forte colore fiorentino - scabro, irregolare e spesso oscuro - nella sua opera poetica Michelangelo alterna e combina i
il club di calliope
registri più diversi con una libertà insolita nella poesia cinquecentesca, imprimendo al patrimonio retorico tradizionale il sigillo di una sensibilità stilistica straordinariamente «concreta». Le Rime, restituiteci nella loro effettiva essenza originaria e integrale, senza cioè le interpolazioni seicentesche di Michelangelo Buonarroti il Giovane, suo discendente, che ne curò una prima edizione alquanto «contraffatta», formano un insieme ricco e composito: corrispondenze d’amore e d’amicizia, tra tutte quella vissuta nella Roma di Paolo III con Vittoria Colonna, poetessa e donna di inquieta religiosità, in qualche misura consentanea ai tormenti del maturo Buonarroti di quegli anni, con la quale intreccia un intenso dialogo spirituale; ottave rusticali e allegoriche, epitaffi, pre-
di una morte che cresce dentro di noi con lo svilupparsi stesso della ricerca dell’arte. «Chiunche nasce a morte arriva/ nel fuggir del tempo; e ’l sole/ niuna cosa lascia viva», dove è subito notevole l’immediatezza del precipitare della nascita verso la morte («nasce a morte»), seguita da un’idea di generazioni intere di morti, svanite come «al sole ombre, al vento un fummo». Questa ripetizione ossessiva di uno stesso concetto, del destino di mortalità, che incombe su tutti, arriva alla fine in una visione scheletrica, unica materia che resta a quei morti: «Ogni cosa a morte arriva». Tale gusto delle antitesi lo ritroviamo anche su un piano psicologico e sentimentale. Qui il tormento si evidenzia nel tema vecchiaia-amore o, meglio, vecchiaia-giovinezza che non è un’opposizione di età diverse, ma appunto la coesistenza, sempre immanente, di un elemento di rinnovamento che nasce su una base sempre più degradata. La si coglie nel madrigale qui riprodotto, genere poetico che ha sempre un valore di omaggio amoroso, che fa parte di un gruppo di poesie composto per una donna bella e crudele, la quale, «trastulla», cioè deride e si fa gioco dell’«ardente desìo» del poeta, naturalmente mostrandosi «di fuor pietosa e nel cor aspra e fera».
Michelangelo Buonarroti
La sua opera poetica è stata amata da Thomas Mann («commuove questa debolezza senza scampo del gigante ben oltre il limite consentito dall’età») o da Ungaretti che fulmineamente intravede «quell’umile speranza/ che travolgeva il teso Michelangelo/ a murare ogni spazio in un baleno»; è stata tradotta da Wordsworth e Rilke, musicata da Britten o Shostakovic, e continua direi a sorprendere e affascinare il lettore moderno pur restando per la critica e la storia letteraria un oggetto alquanto controverso. Non per Vittorio Sereni che chiosa mirabilmente il canzoniere di questo gigantesco artista, un canzoniere fatto di «versi che hanno accompagnato la sua esistenza in lotta perpetua con l’inespresso e l’inesprimibile».
(Madrigale 169 dalle Rime)
ghiere, riflessioni intense e tortuose sull’amore, il peccato, l’arte, la vecchiaia e la morte.Vi si legge un gioco continuo di antitesi, variamente correlate, tessute innanzitutto sul piano morale e religioso. Frequente e fortissimo è in questo ambito il senso del tempo, della caducità delle cose, del loro inevitabile perire e precipitare verso la morte, del contenere anzi la morte nella loro stessa fisicità: senso della fugacità del tempo che in Michelangelo accresce l’angoscia di un’opera che non potrà compiersi,
DAMMI IL FUOCO DELL’ALTRA VERITÀ
LUISI, LA SEMPLICITÀ CHE È DIFFICILE A FARSI in libreria
di Loretto Rafanelli
Dammi, dammi un amore che obblighi al silenzio, che abbia ossigeno e ventate secondo l’uso del corpo e della mente, che possa entrare dalla cuna celeste al ritmo veloce del fuoco. Dammi il fuoco dell’altra verità - aggiungi aggiungi e più riceverai! Venga tutta la verità benedetta degli astri essenziali, degli atomi radianti risana cellule e radici in questa legge mortale. Giovanna Sicari
uciano Luisi, nome storico della poesia italiana, con L’ombra e la luce (Carabba, 14,00 euro), ci dona un libro di sicura forza e di rara delicatezza, nella «equilibrata classicità» che gli è riconosciuta; un poeta che guarda alle semplici cronache dell’uomo con grande umiltà, che vigila su se stesso con una «serena disperazione», mosso com’è dalla riflessione sulla morte ma pure ancorato a una solida speranza («sognando un lontano domani/ come se fosse infinita/ la vita»). I versi di Luisi fanno pensare al battito estremo di un «ricercatore di verità», sia quando parla della vita tragica degli immigrati sui barconi («…desiderato figlio… ti depongo… sulla fragile bara del mare e sono braccia i miei occhi che ti seguono»)
L
o dei tanti sfortunati che vivono ai margini, sia quando le sue liriche divengono preghiere, dove egli si appella a Dio nella luce di una fede profonda ma laica. Il suo è un accorato appello al recupero di una umanità perduta, alla forza dell’amore, che contrappone al destino. Le poesie più intime segnano ed emozionano, per la dolcezza e per quel sincero porsi nel complicato pulsare dell’età avanzata, in quello strenuo afferrare la luce, in quel «guardare scorrere calmo il fiume della vita». Egli esprime nella sua poesia quella onestà di cui parlava Saba, e una frase di Bo riguardo il grande triestino, può valere bene per lo stesso Luisi: «adotta il più semplice dei linguaggi… il modo più semplice per entrare in contatto con gli altri».
Televisione
MobyDICK
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ratelli d’Italia/l’Italia s’è desta» (ma dati i tempi sarebbe più pertinente «è mesta») risuona per ogni dove. Ormai ci siamo. Fino in ultimo ci hanno tenuto con il fiato sospeso a cercar di capire se potevamo lasciarci andare a un po’ di sano orgoglio nazionale e festeggiare, o continuare a vergognarci e far finta di nulla. Comunque, a dispetto di troppi, «l’Italia è fatta» e allora non ci resta che Fare gli italiani-Teatro. Un grido s’è levato a febbraio dall’ex capitale sabauda e non s’accheterà fino a novembre. La cultura, ancora una volta, ci salverà da questo mare di indifferenza. Curata da Mario Martone e Giovanni De Luna e organizzata dalla Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Fare gli Italiani-Teatro è una stagione teatrale che scorre parallela alla mostra omonima in programma alle Officine Grandi Riparazioni dal 18 marzo. In comune le due iniziative hanno la stessa impostazione storiografica e contenutistica per offrire al pubblico una rassegna di spettacoli, dibattiti e approfondimenti volti a realizzare un’ampia narrazione che sviscera gli aspetti più significativi degli ultimi 150 anni della nostra vicenda nazionale. Nelle intenzioni dei curatori «il nemico da battere è un senso comune appiattito sul presente, fatto di stereotipi e luoghi comuni, una sorta di storia-usa e getta che svuota il passato di ogni complessità, lo priva di spessore. Fino a ren-
«F
Farsi italiani nella sabauda
Torino di Enrica Rosso
nomi eccellenti della scena contemporanea, impossibile elencarli tutti. Lavoro e Industria: a febbraio, con la prima nazionale di 18mila giorni di Andrea Bajani. Prima Guerra Mondiale: con Fabrizio Gifuni in scena alle Fonderie Limoni dal 15 con il suo L’ingegner Gadda va alla guerra e Una casa d’altri di Giuseppe Bertolucci dal 18 alla Cavallerizza Reale. Ancora a marzo altri due blocchi: Questione meridionale e Città italiane per prosegui-
derlo evanescente». Per raggiungere lo scopo hanno messo a punto un percorso articolato per nuclei tematici composti da spettacoli ad argomento storico, sociale e politico e da incontri di approfondimento realizzati in collaborazione con Il Circolo dei Lettori di Torino. Dieci le distinte sessioni in cui sono stati suddivisi i 22 rimarchevoli spettacoli che radunano parecchi
spettacoli La locandina della rassegna “Fare gli italiani Teatro” curata da Martone e De Luna. Sotto, Fabrizio Gifuni
re con Risorgimento (segnaliamo Sull’ordine e il disordine dell’ex macello pubblico, ideato e diretto da Enzo Moscato), Seconda guerra mondiale, Partiti e movimenti politici (con il bel testo di Antonio Tarantino Gramsci a Turi in scena a maggio), Dopoguerra, Sport e Movimenti migratori (decisamente forte si annuncia Sono incazzato nero della compagnia Progetto Cantoreggi). Ad aprile, con uno scarto di pochi giorni, un importante appuntamento collaterale: il 29 al Teatro Gobetti Festa grande di aprile di Franco Antonicelli dedicato al giorno della Liberazione, un altro nodo cruciale per la costruzione della democrazia spesso vissuto in automatico e svuotato del suo originale, fondamentale senso. E dato che la storia si fa soprattutto sulla scena del mondo, segnaliamo al Museo diffuso della Resistenza, della Deportazione, della Guerra, dei Diritti e della Libertà, dal 23 marzo al 27 novembre, la mostra TurinEarth, tesa a met-
tere in luce la stratificazione del tessuto demografico del capoluogo piemontese, praticamente un elogio delle differenze.
Fare gli italiani-Teatro, Torino, febbraio-novembre 2011, biglietteria telefonica 89.24.24 orario 24/24, info: www.teatrostabileditorino.it - www.museodiffusotorino.it
Televisione
DVD
LA VITA IN DIRETTA SOTTO IL CIELO DI BAGHDAD ario Balsamo e Stefano Scialotti si erano recati in Iraq per riprendere i concerti dei venti musicisti che nel novembre del 2002 aderirono alla missione di pace Il cielo sopra Baghdad. Ma il contatto instaurato con i locali, gli suggerì di cambiare soggetto in corsa. Ne venne fuori, con mutamento di prospettiva evidente anche nel titolo, Sotto il cielo di Baghdad, bel documentario dedicato alle difficili condizioni di vita che affliggevano, ieri come oggi, i cittadini iracheni. Uno spaccato di vita più utile dei tromboneschi assalti che negli ultimi anni hanno convogliato in Medioriente un clima di tensione e intolleranza.
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PERSONAGGI
LE RELAZIONI PERICOLOSE DI NELLY E MUAMMAR n milione di dollari per una prestazione artistica di quarantacinque minuti. Non deve procurare trasalimenti il coming-out di Nelly Furtado. La cantante canadese ha svelato su Twitter di aver ricevuto l’incredibile compenso per uno show allestito in un hotel italiano nel 2007. Ravveduta per i recenti fatti di sangue che hanno coinvolto il prodigo tiranno, la Furtado si è detta decisa a devolvere la stessa somma a un ente benefico. Indiscrezioni di Wikileaks dicono però che Nelly non è stato l’unico grande nome del pop a esibirsi per il raìs. Tra le prime sospettate, Beyoncé e Usher.
U
di Francesco Lo Dico
All’armi siam leghisti... Current, per non dimenticare he il concetto dell’unità d’Italia non piaccia a coloro che, con azzardo storico, si definiscono padani, è noto. Per sondare i vecchi e nuovi umori di certa «gente del Nord» è davvero istruttivo seguire le inchieste di Current (Sky). Una s’intitola Camicie verdi. L’autore è Claudio Lazzaro, documentatissimo e assolutamente non fazioso. Insisto nell’assenza di faziosità perché i filmati, i discorsi e le dichiarazioni dei leghisti sono quelli e basta. La parola a loro. Superfluo interpretare (semmai, da italiani, ci si deve indignare). Tutti i comizi degli esponenti della Lega sono attraversati da una sintassi che dire ballerina è poco. Chi sventola le bandiere verdi (verde è anche il colore di molti Paesi musulmani, non glielo hanno mai detto?) è orgoglioso di non usare il «politicamente corretto». Che per i leghisti significa il turpiloquio. «Con la bandiera italiana mi pulisco il culo»; «Il tricolore? Cara signora, lo metta al ces-
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so!»: frasi di Bossi. Eppure il senatore Pdl La Loggia era ottimista e probabilmente lo è ancora: «Bossi piace soprattutto al Sud». Mario Borghezio, europarlamentare Lega: «Noi siamo la Padania che produce, che mantiene l’Italia che non fa un cazzo dal mattino alla sera». Le camicie verdi sono nate come apparato di sicurezza per Bossi, poi trasformate in gruppi di intervento, soprattutto contro gli extra-comunitari che hanno «invaso» certe periferie di città. «Per fare secondo pulizia», Borghezio. Il termine «pulizia» rimanda alla spazzatura umana, quella che appunto sarebbe di origine mediterranea e asiatica, considerata unica responsabile di stupri e violenze. Al-
tri, nell’ex Jugoslavia, inneggiarono alla «pulizia etnica». Il procuratore di Verona, Guido Papalia, parlò di «organizzazioni paramilitari». Marce, fiaccolate, slogan. E striscioni con, in maiuscolo, «Secessione». Sempre Borghezio, il secondo dopo Bossi come popolarità: «Noi che siamo celti o longobardi non siamo la merdaccia mediterranea. La Padania dev’essere bianca e cristiana… col cuore crociato… noi non diventeremo mai islamici». Ancora Borghezio che durante una riunione sventola un giornale che in prima pagina mostra il volto di un giovane picchiato. S’arrabbia, teatralmente: «Ma quale integrazione? I preti e i loro amici
vengono a rompere le palle a noi, unici a sentire il dovere di proteggere la Padania!». Qualche anno fa, l’attuale ministro per le riforme costituzionali Calderoli: «Quando arrivano (gli emigranti, ndr) vanno rispediti indietro, altro che andare a riprenderceli sotto le coste libiche!». E Borghezio: «…banda di islamici di merda che ci tolgono anche i canti di Natale!». Il programma di Current rispolvera la memoria, per molti così scomoda. Bossi di anni fa: «È mia ferma intenzione di impegnarci a lottare contro l’Italia colonizzatrice». Di Berlusconi disse nel ‘96: «La magistratura di Palermo ha più o meno le prove che 16 holding occulte fanno parte dell’impianto societario della Fininvest… i quattrini a Fininvest venivano da cose oscure, da Cosa nostra…». Berlusconi, nel ’95: «Non mi siederò mai a un tavolo in cui ci sarà il signor Bossi, persona totalmente inaffidabile». Sappiamo com’ è andata. Ma la memoria rimane. Deve rimanere: per capire meglio. (p.m.f.)
Cinema
MobyDICK
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di Anselma Dell’Olio
i sarà pure una recensione non encomiastica di I ragazzi stanno bene, il film di Lisa Chodolenko su una coppia di lungo corso e i loro due figli adolescenti, ma non ci è riuscito di trovarne nemmeno l’ombra. Ha avuto quattro candidature all’Oscar: miglior film, sceneggiatura originale, protagonista femminile (Annette Bening, premiata per questo film col Golden Globe), attore non protagonista (il mai abbastanza visto Mark Ruffalo) e agli Independent Spirit Awards ha vinto per la migliore sceneggiatura originale. Eppure, se avesse trattato di un marito e una moglie, e non di due donne sposate da vent’anni, le critiche non sarebbero state unanimi. Nic (Bening) è un’ostetrica/ginecologa e Jules (Julianne Moore) è la classica moglie perennemente in cerca di se stessa, che si è sempre occupata di focolare e figli. È più emotiva, sensuale e artistica del medico serio, concreto, realista, il pilastro economico che permette l’agiata vita da borghesi bohèmienne della famiglia. E proprio come un buon marito lavoratore soggetto agli stress della professione, beve qualche bicchiere di troppo, con battibecco d’ordinanza col coniuge. I figli Joni (Mia Wasikowska) e Laser (Josh Hutcherson) decidono di scoprire chi è il donatore di sperma che è il loro padre biologico. In realtà è Laser il più curioso; a quindici anni osserva il rapporto di ruvida giocosità maschia del suo amico Clay con il padre, e ne sente la mancanza. Chiede aiuto alla sorella, ormai maggiorenne, che alla fine dell’estate partirà per il primo anno di università. Joni acconsente; dopo le telefonate di prammatica del banco del seme per chiedere il permesso al donatore, i due ragazzi incontrano Paul.
C
I due giovani sono subito incantati dall’uomo: tollerante, permissivo, easy posthippy. Ha una virile motocicletta, dolcissimi riccioli neri e un sorriso malandrino ma rassicurante. Non si è mai sposato, confessa di aver donato sperma solo perché gli sembrava più fico che donare sangue, e quando Joni e Laser gli parlano delle loro due mamme, lui risponde da buon alternativo cresciuto ma non troppo «Oh, cool, mi piacciono le lesbiche». Ma va? È la classica vite volante destinata a inceppare l’ingranaggio di una famiglia tranquilla e routinier, sull’orlo di importanti cambiamenti: i figli crescono, Joni se ne va a studiare in un’altra città e Laser è in preda a sconvolgimenti ormonali e alla ricerca dell’identità sessuale (mai semplicissimo per un maschio, specie se i genitori sono due donne). La vita delle mamme non ruoterà ancora a lungo intorno ai figli; fra pochi anni non avranno più bisogno di loro. La più fragile è irrisolta è Jules, la cui irrequietezza congenita è aggravata dall’inevitabile sparizione del ruolo. L’arrivo di uno scapolo molto attraente in mezzo a questa miscela già combustibile, dà il fuoco alle polveri del racconto. Paul coltiva un orto biologico che fornisce il suo ristorante di soli cibi organici, naturali e locali: è più equo, solidale e bohèmien di loro. Jules e Nic hanno sempre sulla bocca le frasi giuste per ogni problema, i termini terapeutici perfetti, l’atteggiamento comprensivo verso i turbamenti giovanili. Lui è più sciolto, loro più prescrittive. Alla ce-
Quella
famiglia politically correct
na per farli conoscere, appena Paul sente che Jules fa l’architetto di esterni, le offre un lavoro: mettere a posto il disastrato giardino della sua casa. La neo-imprenditrice è contenta, perché Nic le aveva solo rimproverato di essersi lanciata nell’ennesima, fallimentare impresa che lascerà morire dopo essersi attrezzata di tutto punto. I birilli sono tutti pronti per far saltare il tran-tran quotidiano, con le liti e la ruggine tra una rodata coppia, i figli che contestano regole che sentono superate, e la difficoltà di mantenere la fiamma sessuale dopo molti anni insieme. Ci sono tutte le premesse per una sitcom da tv satellitare (si pensi a Hung su
Positive critiche unanimi per “I ragazzi stanno bene” di Lisa Chodolenko, il film su una coppia di lesbiche alle prese con i figli e con il padre donatore. Da vedere, ma se la coppia fosse stata etero e non lo avesse firmato una regista consacrata, forse qualcuno avrebbe avuto qualcosa da ridire
Sky), specie con l’introduzione dei giochi erotici delle due donne: si eccitano guardando video pornografici con maschi motociclisti gay nerboruti con un solo difetto, secondo loro: sono troppo glabri. L’effetto sarebbe comico, e invece: Les amours des autres sont abominables. Paul, però, è irsuto al punto giusto. Il primo scontro avviene quando il papà biologico accompagna Joni a casa sulla moto rombante. «È contrario alle regole della casa andare in moto!», tuona la più severa Nic. Joni ribatte che è maggiorenne: non sono più affari suoi. L’intromissione di testosterone maturo nella loro vita destabilizza per diversi motivi, e non staremo qui a rovinare il film raccontando il più importante.
Se questo film fosse arrivato senza il crisma di un autore consacrato, è possibile che qualcuno avrebbe avuto qualcosa da ridire. Ma Lisa Chodolenko è una stimata regista sin dagli esordi, laureata a Sundance e La Quinzaine des Realisateurs a Cannes già con il suo debutto, High Art (1998), sul rapporto morboso e ambiguo tra un’ambiziosa stagista di una rivista fotografica e una fotografa lesbica distrutta dalla celebrità e dalla droga. Il film ha rinnovato la stima per Ally Sheedy e lanciato Radha Mitchell e una fassbinderiana Patricia Clarkson. Era alla Quinzaine pure l’opera seconda, Laurel Canyon (2003), che ha il merito d’aver proposto la figura della rock and roll mamma di una certa età, un misto tra Joni Mitchell e Carol King, solo producer e non cantautrice. Jane (la mai deludente Frances McDormand) è una discografica cinquantenne bisessuale, disinvolta e di successo, che porta a letto i suoi musicisti (qui il suo protetto è il misterioso Alessandro Nivola di Junebug). Mentre cercano casa, ospita nella sua favolosa dimora-studio nel canyon del titolo, mecca della cultura musicale pop disinibita di Los Angeles, suo figlio (Christian Bale) e la fidanzata (Kate Beckinsale), due giovani medici serissimi e in carriera. Nei tre film Chodolenko mette a confronto lo stile di vita borghese al cubo con quello artistico, agiato e spregiudicato. Non tende a tifare per uno più dell’altro, anche se nel nuovo film sembra voler propagandare la normalità della famiglia gay, insistendo sui problemi comuni a tutti, forse una punta troppo. (Sarà la stranezza, ma urtava i nervi sentire le protagoniste chiamarsi spessissimo «mamma» qui e «mamma» lì, con insistenza petulante). Dopo una vita da spirito libero, lo scapolo-papà sente l’attrazione per il calore di una famiglia, per di più bella e fatta e biologicamente sua, ma il maschio invadente profana il nido lindo e sacro di ben due madonne e viene cacciato. La regista, però, che lo sappia o no, ha sovvertito la conclusione di rigetto del «mascalzone», scegliendo un attore per il terzo incomodo così simpatico e amabile, che entra nelle nostre simpatie e non ne esce più. Mark Ruffalo riprende il personaggio accattivante e scomodo di You Can Count On Me, il film di Kenneth Lonergan che vale la pena di cercare, e ricorda il suo carismatico, sensualissimo poliziotto di In the Cut di Jane Campion. La scena di seduzione tra Ruffalo e Meg Ryan è da deliquio erotico; nessuna femmina dovrebbe morire senza averla vista. Apologia del matrimonio gay o meno, la più bella frase di I ragazzi stanno bene è il commiato da Laser di Joni, in partenza per il college: «Mi dispiace molto lasciarti solo con quelle due». Da vedere.
ai confini della realtà I misteri dell’universo
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ttore Majorana è il più famoso dei fisici italiani del Novecento, sia per la sua straordinaria capacità di lavoro nella fisica teorica, sia per l’enigma posto dalla sua misteriosa scomparsa: imbarcatosi su una nave diretta da Napoli a Palermo il 25 marzo del 1938, non giunse a destinazione. Sulla sua vita e sulla sua scomparsa sono stati scritti numerosi libri, fra i quali va citato quello di Sciascia e soprattutto quello di Erasmo Recami. Recami, che è mio collega all’Università di Bergamo dopo essere stato molti anni all’Università di Catania, ha avuto accesso a tutti i documenti della famiglia di Majorana, nonché a molti altri documenti custoditi in sedi varie, e ha stabilito contatti con chi era vicino a Majorana. Essendo lui stesso un fisico teorico, autore di fondamentali teorie sulla superluminalità (processi aventi velocità superiore a quella della luce), è inoltre più di altri in grado di apprezzare i contributi scientifici di Majorana, alcuni dei quali hanno mostrato solo recentemente la loro potenza. Ha pubblicato nel 1987 con Mondadori il libro Il caso Majorana, giunto ora alla sesta edizione e riedito da Di Rienzo (ordinabile solo on line: www.direnzo.it).
MobyDICK
E
Il motivo di questa nota è che recentemente sono state fatte ipotesi nuove su Majorana, non valide secondo Recami e altri, e sono inoltre emerse alcune possibili nuove fonti di informazione. Iniziamo per chi non abbia familiarità con questa storia, con una breve rassegna della vita di Majorana e delle ipotesi fatte sulla sua scomparsa. Majorana nacque a Catania in una famiglia di accademici, alti professionisti e uomini importanti in politica. Quando era piccolo si notò subito la sua straordinaria intelligenza e capacità nel calcolo. Spesso gli chiedevano di fare a mente dei calcoli complicati e lui si nascondeva sotto il tavolo. Anche da fisico si cimentava spesso con Fermi in complicate elaborazioni matematiche, Fermi usava il regolo, lui faceva tutto a mente e di solito arrivava primo. Potremmo qui ricordare come Eulero, che era cieco, fosse in grado di fare mentalmente calcoli assai elaborati, tipo le caratteristiche dell’orbita del pianeta Urano scoperta da poco, e come Von Neumann, guardando dalla porta aperta di un ufficio dove due matematici si arrabattavano per calcolare un certo integrale definito, dopo un’occhiata diede subito la risposta. Più volte si sentì Majorana dare dell’asino a Fermi che non vedeva immediatamente la soluzione di un problema su cui lavorava alla lavagna. Eppure fu con calcoli a mente che Fermi e Von Neumann conclusero che l’esplosione della prima bomba atomica non avrebbe portato a una reazione a catena che distruggesse il pianeta. Majorana era persona di notevole religiosità, fece gli studi liceali presso i gesuiti, una volta laureatosi in fisica fece parte con altri giovani, divenuti poi grandi della fisica, del cosiddetto gruppo di Panisperna, dal nome della via di Roma dove avevano un laboratorio. Labo-
Ettore Majorana? Un Galileo mancato di Emilio Spedicato ratorio rudimentale ma alimentato dalle straordinarie idee di questi giovani fisici, che lavoravano sul problema del nucleo degli atomi, compresa la radioattività, la possibilità di mutazioni del numero atomico e quindi del tipo di elemento da cui si partiva. Fra i contributi di Majorana importante è l’idea di neutrone, ovvero di una particella elettricamente non carica, di massa simile a quella del protone. Nel 1935 il laboratorio di via Panisperna, usando neutroni prodotti dal de-
Majorana. Qui potremmo ricordare che anche il grande matematico Gauss mai pubblicò importanti risultati, soprattutto di geometria non euclidea, poi ritrovati da altri. Fermi disse che se Majorana avesse continuato nel suo lavoro di fisico, sarebbe arrivato al livello di Galileo o addirittura di Newton. Nel 1937 Majorana ottenne la cattedra di fisica a Napoli senza concorso, per meriti speciali, un fatto che oggi non è più possibile per gli italiani ma resta valido per le chiamate
Un genio spesso depresso, ma troppo religioso per suicidarsi. Allora perché non sbarcò mai a Palermo da quella nave partita da Napoli? Dal 1938 a oggi numerose ipotesi sono state fatte sulla scomparsa di uno dei «ragazzi» di via Panisperna che dava dell’«asino» al collega Enrico Fermi... cadimento radioattivo, riuscì a produrre la fissione nucleare, fatto di cui i fisici non si accorsero subito, tranne la Noddak. Si credette di avere scoperto il primo nuovo elemento oltre ai 92 della tavola di Mendelejev, chiamato nettunio, con numero atomico 93, collocato subito dopo l’uranio. Va detto che nel 1933 Heisenberg aveva ottenuto il premio Nobel per vari lavori fra i quali uno già derivato da Majorana, che non si era dato da fare per pubblicarlo, relativo a quelle che ora si chiamano forze di scambio Heisenberg-
di certi stranieri. Aveva passato un periodo di depressione. Come persona era buono, allegro, colto, dotato di sensibilità umana non disgiunta da disincantato umorismo, mite, bisognoso di affetto.
Nel 1938, al momento della sua scomparsa, quasi tutti i colleghi di via Panisperna stavano per lasciare l’Italia, o perché ebrei o perché contrari alla politica governativa. Majorana non considerò mai l’ipotesi di andarsene anche se - è accertato - non simpatizzava per gli ideali totalitaristi fascisti e nazisti. Salì
sulla nave per Palermo e non fu più visto. Su questa misteriosa scomparsa sono state fatte sinora varie ipotesi. Fra queste: che si sia suicidato, cosa però contraria ai valori religiosi che coltivava; che sia stato rapito, o anche ucciso, per intervento della mafia che allora ebbe molti rapporti con gli Stati Uniti, per impedire la possibilità che lui collaborasse con i tedeschi e li aiutasse a fare la bomba atomica prima degli americani; che si sia chiuso in un convento, forse di gesuiti, forse fuori dall’Italia (tre fonti indipendenti scoperte da Recami hanno suggerito l’Argentina) dove si sarebbe dato all’insegnamento e alla meditazione. Questa è l’ipotesi favorita di Recami. Fra il nuovo materiale documentario possiamo qui citare, cosa poco nota, che Leo Pincherle, fisico ebreo del gruppo Panisperna, andò in Inghilterra dove fu il principale inventore del radar per conto della Decca, ed era molto amico di Majorana. Leo ha registrato una cassetta, in possesso di un nipote, con ricordi di Ettore: definito un genio ma spesso depresso. E possiamo anche ricordare come la famiglia Majorana avesse legami di amicizia con la famiglia nobile dei Neroni a Ripatransone, e che Brunide Neroni, figlia del grande basso Luciano, ne scriverà un ricordo.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Federalismo fiscale: ingiusto tassare le seconde case dei non residenti SVEGLIATI, DONNA! Alla vigilia dell’anniversario dell’Unità d’Italia è doveroso riflettere sul ruolo che la donna italiana ha perso proprio ai suoi 150 anni. Un’immagine che si è involuta con le dinamiche socio-politiche del nostro “Bel” Paese e che, facendo il giro del mondo, ha mostrato l’estrema miseria di un certo modello di virilità. Dov’è la donna emancipata che gestiva lavoro, figli e pensava anche al futuro Suo e quello della comunità? Che fine ha fatto il Suo ruolo internazionale e l’eco mondiale che ha fatto molto per il ruolo strategico internazionale dell’Italia? Il presente è fatto di donne“al potere” che non riflettono né la Resistenza italiana, né l’alta idea di politica e né le lotte etiche quotidiane di molte Italiane contro la manipolazione del proprio corpo! Bisogna recuperare un punto di vista femminile differente che faccia della libertà femminile un segno distintivo di emancipazione morale. Perché la situazione Italiana è grave, sordida e affaticata da una cultura diffusa che resiste alla critica radicale dei costumi. A livello internazionale, poi, se nella storia la Lei Italiana delle istituzioni aiutava a far splendere la luce sugli angoli bui e dimenticati del mondo facendo capire alle civiltà non evolute o dittatoriali che non ci poteva essere una democrazia compiuta senza donne considerate non come una cosa accessoria, oggi queste operazioni rivoluzionarie si sono ridimensionate con l’avvicendarsi delle questioni “nostrane” del Paesello. Le donne di Governo sono più prese dal difendere il “Super Uomo”dalle maldicenze contro di lui, anziché guidare le rivendicazioni femminili per l’affermazione della dignità e libertà della donna in Libia o in altri paesi in rivolta civile. Io vedo un ritorno indietro della politica femminile italiana: un disinteresse riferito dall’episodio “Sakineh” e dalla mancanza di una più profonda intermediazione della diplomazia femminile italiana nella vicenda che avrebbe portato alla liberazione della donna musulmana. Sakineh, ad oggi, è in attesa del suo sacrificio. Di più c’è l’assassinio di molte donne libiche che lascia un tragico silenzio e vuoto incolmabile nel mondo di quelle Italiane impegnate nella causa di liberazione. Mi sembra che tutto ad un tratto le donne al Governo di oggi abbiano dimenticato il peso del proprio ruolo. Lo si vede dalla loro apparenza “apparecchiata” che non lascia trasparire appiccicume. Appiccicume che dipende dal sudore! Dobbiamo ricominciare a pensare al Nostro ruolo riaprendo la stagione della rinascita che sia unitaria, trasversale: di tutte le donne. Dobbiamo essere Noi, però, a guidarla per i nostri impatti trasformativi sulle cose. Noi che facciamo sì che il paesaggio da neve si faccia primavera. Alessandra Ricciardelli RESPONSABILE REGIONALE PARI OPPORTUNITÀ, UNIONE DI CENTRO REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
La facoltà impositiva concessa ai comuni con il federalismo fiscale municipale, a seguito della riduzione dei fondi statali, costringerà sempre più gli stessi a mettere maggiormente le mani nelle tasche dei cittadini. In una recente trasmissione televisiva è stata accennata la possibilità che nel mirino dei comuni entreranno le case dei non residenti che subiranno un maggior prelievo fiscale. È stato fatto l’esempio delle seconde case a Cortina d’Ampezzo e in altre località turistiche, come se tutte le seconde case dei non residenti possano considerarsi un lusso o un segno di ricchezza. A parte le poche decine di grandi località turistiche, le seconde case dei non residenti, in migliaia di piccoli e medi comuni del nord, del centro e del sud non possono essere considerate né un lusso né un’ostentazione di ricchezza. Si tratta nella quasi totalità di vecchie abitazioni ereditate dai genitori che i proprietari non hanno venduto perché sperano di ritirarsi al paese natio quando andranno in pensione. Per questo sogno pagano l’Ici, la luce elettrica, l’acqua e anche il servizio di nettezza urbana, anche se vi abitano per qualche settimana l’anno. Mettere ulteriori tasse o aggravare quelle esistenti significa punire severamente chi nutre affetto per il proprio paese d’origine.
Luigi Celebre
QUELLE “UTILI IDIOTE” BOMBE Magdi Allam ha affermato che «le libere elezioni nei paesi islamici, non corrispondono automaticamente alla democrazia sostanziale, ma sono soltanto la dimensione formalistica della democrazia. Nel caso delle rivolte popolari in Egitto, Tunisia e Libia stiamo commettendo l’errore di concepire aprioristicamente positiva la prospettiva dell’avvento al potere dei movimenti estremistici islamici anche se questo fosse il risultato delle libere elezioni». Eppure, nonostante l’avvertimento, non solo di un ex musulmano che conosce la concezione politica e “democratica” dell’Islam, ma di molti altri autorevoli conoscitori della Mezzaluna, i soloni dei palazzi di vetro stanno pensando ad un intervento armato per liberare la Libia. A complicare lo scenario mediorientale, dal Pakistan è giunta la notizia dell’omicidio del ministro cattolico delle minoranze Shabbaz Bhatti. Un altro omicidio perpetrato da chi per motivi “corano teologici” odia i cristiani e soprattutto non vuole separare la religione dalla cosa pubblica. Pertanto, come non definire “utili idiote” quelle bombe che in nome dell’ingerenza umanitaria, se “pioveranno”, regaleranno ai veri registi della rivoluzione, che non sono i giovani apparsi in tv, bensì gli astuti fondamentalisti islamici che li mano-
vrano, le sorti del Paese? È mai possibile che soli pochi osservatori si siano chiesti perché le sole rivoluzioni più o meno riuscite, si siano concretizzate unicamente nei Paesi laici moderati che al primo posto dei loro programmi avevano messo la lotta al radicalismo islamico? Se non per una mera questione di par condicio, perché i guerrafondai occidentali che vorrebbero colpire il tiranno laico, non hanno il coraggio di fare altrettanto con i ben peggiori regimi “confessionali” comunisti ed islamici di Cuba, Korea del Nord, Iran e Cina? È intelligente appoggiare rivoltosi armati fino ai denti (a proposito, chi li arma?) che usano la bandiera della laicità per ingannare gli allocchi occidentali al fine di realizzare l’inconfessato sogno di espansione islamica?
LE VERITÀ NASCOSTE
Investe un pupazzo: licenziato URBANA-CHAMPAIGN. Succede anche questo. Alcune settimane fa, in quel dell’Illinois - Stati Uniti - un autista di autobus è stato licenziato per avere investito un pupazzo di neve. Sì, avete letto bene: un pupazzo di neve. La singolore vicenda è accaduta all’interno del campus dell’Università dell’Illinois dove un fantoccio di neve era stato fatto da alcuni anonimi goliardi proprio in mezzo alla strada creando un evidente intralcio al traffico. L’autista dell’autobus allora ha pensato bene di liberare la carreggiata investendo il pupazzo di neve che si è sbriciolato in mille candidi fiocchi. Il suo comportamento non è stato ritenuto professionale, soprattutto in considerazione del fatto che l’autobus aveva invaso la carreggiata opposta per eliminare il fantoccio. Una manovra che è stata ritenuta ovviamente pericolosa, considerando anche il fatto che il fondo della strada era ghiacciato. Inoltre, alcuni accusatori hanno sostenuto che l’autista non poteva sapere esattamente che cosa ci fosse dentro al pupazzo: «Poteva essere anche un ragazzo che faceva finta di essere un pupazzo di neve», ha sostenuto qualcuno. Anche se questa sembra un’opzione ancora più improbabile.
Gianni Toffali - Verona
UNA RAGIONE PER BOCCIARE LA SCUOLA PUBBLICA Le critiche alla scuola statale sono giustificate. Basta considerare che viene normalmente insegnata la cosiddetta teoria di Darwin, molto criticata da sempre da gran parte degli studiosi, non solo italiani. Abbiamo anche notato con stupore che alti esponenti della politica di sinistra partecipano con troppo entusiasmo all’esaltazione di questa teoria. Se poi ricor-
L’IMMAGINE
diamo che, per esempio, tutta la cultura ebraica si oppone totalmente al darwinismo, possiamo dedurre che le famiglie ebree non possono gradire tale inculcamento nella mente dei loro figli. Lo stesso dicasi per una numerosa parte delle famiglie cristiane, non solo cattoliche.
Piero
INVIO ON LINE DEI CERTIFICATI MEDICI L’invio dei certificati on line rappresenta l’ennesimo aggravio burocratico per il medico di famiglia che fatica a essere tale, distratto e strattonato lontano dai sui compiti per occuparsi di codici, numeri, diciture e ora anche di modalità di invio dei certificati di malattia, spesso alle prese con sistemi informatici in avaria, call center occupati. Indaffarato cioè a sanate le antinomie di una burocrazia che scarica su di esso compiti impropri e che vorrebbe anche trasformarlo da medico in “telegrafista” o “spedizioniere”, avendolo già dirottato sul binario del formalismo imperante che soffoca la sostanza del suo essere medico: prevenire e curare, non giocherellare sui computer con astruserie che ben poco attengono al rapporto medico-paziente di cui tanto si parla e si tromboneggia.
Un medico di famiglia
DOPO IL FEDERALISMO, LE RIFORME VERE
Sempre imbronciato L’inverno sta per finire, i fiori si preparano a sbocciare... eppure questo bucaneve (Galanthus elwesil) non sembra affatto contento dell’arrivo della bella stagione. A mano a mano che i suoi petali crescono, la strana varietà di pianta sviluppa un “visetto” triste, con tre macchie che somigliano a un paio di occhi e una bocca rivolta all’ingiù
Dopo aver incassato il federalismo municipale, ora sono necessarie le riforme vere, quelle che i cittadini toccano con mano. La Lega non ha più alibi, bisogna togliere le Province e tutti i carrozzoni che stanno intorno.Via tutte le Comunità montane, via i Consorzi, via gli Ato; più poteri ai Comuni e alle Regioni. Con i risparmi si incentivi la ricerca, la scuola, le infrastrutture, si aiutino le aziende e si diminuiscano le tasse, magari con il quoziente familiare. Questo i cittadini si aspettano.
Ivan Porlini
la crisi libica
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Unicredit congela i diritti dei soci. Il Colonnello minaccia un ritorno al terrorismo
La vocina della Ue: «Gheddafi si dimetta» L’Europa apre al dialogo con gli insorti La Clinton: «Il piano della Nato è pronto» di Enrico Singer he non sarebbe stato facile far risuonare la tanto invocata voce unica europea di fronte a quanto sta accadendo in Libia era apparso chiaro non appena il presidente del Consiglio della Ue, Herman Van Rompuy, si era ritrovato sul tavolo la lettera di Nicolas Sarkozy e David Cameron che chiedevano il riconoscimento del governo provvisorio creato dagli insorti a Bengasi come unico rappresentante legittimo del popolo libico e si spingevano a ipotizzare anche «attacchi aerei mirati» per costringere Gheddafi a farsi da parte. Mancavano dodici ore all’inizio del vertice straordinario dei capi di Stato e di governo dei Ventisette e da quel momento è cominciato uno psicodramma che si è concluso con l’ennesima mediazione che si può riassumere così. L’Europa alza la voce: chiede al colonnello di abbandonare immediatamente il potere, definisce inaccettabile l’uso della forza militare contro i civili, condanna la violazione dei diritti umani, si dice pronta a collaborare con l’Onu e la Lega Araba per mettere fine alla crisi. È un vero ultimatum. Ma sulle iniziative concrete per realizzare tutti questi sacrosanti impegni non si pronuncia. Prende tempo e, soprattutto, è ancora divisa.
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L’unica misura adottata - e sottolineata nel comunicato finale della riunione di ieri a Bruxelles a dimostrazione che non ci sono soltanto parole - è il blocco degli interessi economici libici, oltre a quello della vendita di armi. Anche il nuovo ricatto del raìs di Tripoli, che ha minacciato di far venire meno il suo sostegno nella lotta contro il terrorismo e l’immigrazione clandestina, non è stato preso nemmeno in considerazione. In fondo non ci si poteva aspettare molto di più nel giorno in cui gli Stati
Il Vecchio Continente assiste e spera in una soluzione
Da Bruxelles solo parole mentre il dittatore si riprende il Paese di Vincenzo Faccioli Pintozzi uelle che vengono dal Consiglio europeo sono parole dure. «Il Colonnello Muammar Gheddafi deve cedere immediatamente il potere e lasciar perdere la repressione». Addirittura, i Ventisette capi di Stato e di governo riuniti nella capitale dell’Europa unita (e del Belgio) arrivano a dirsi “pronti” a trattare con gli insorti, il gruppo dei ribelli che da Bengasi ha lanciato la propria sfida al potere. Ottimo, soprattutto alla luce dei più pessimisti che - usi a seguire i fatti europei - si attendevano parole di circostanza, auspicii, ammonimenti et similia. Resta però il dubbio che non si tratti di quella presa di posizione ferma e inamovibile che sembra all’occhio inesperto. Da Bruxelles, infatti, non arrivano misure concrete per fermare la furia vendicativa del Colonnello e dei suoi avieri mercenari, che se ne infischiano di aprire il fuoco sulla popolazione civile inerme (che tanto non è la propria). E i soldati lealisti, fedeli al raìs e al suo terzogenito Saif, avanzano inesorabili verso i porti petroliferi, costeggiano l’importantissimo snodo di Ras Lanouf e lanciano l’offensiva che permette loro di riprendersi la cittadina che - caduta - era stata il simbolo del presunto crollo di Gheddafi. Certo, l’Europa non ha un esercito: e questo vecchio, annoso problema si ripropone ogni qual volta si spera che l’Unione prenda più peso sullo
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scenario mondiale. Tuttavia ha un alleato potente, gli Stati Uniti, e può contare su un Patto atlantico sempre più ancorato al continente. Dunque, perché non si muove in quella direzione? A pensare male si commette peccato ma ci si avvicina al vero.
E non è, allora, che a Bruxelles si siano usate soltanto parole (per quanto dure) in attesa di una risoluzione della guerra civile in corso? Pur biasimando tutti i metodi della dittatura, infatti, sembra che la posizione continentale sia colpevolmente attendista, un tentennamento nella speranza inconfessata che fra i due contendenti qualcuno goda, smetta di sparare e offra a 27 leader che vivono molto vicino ai propri confini una soluzione precotta. La non ingerenza, in questo caso, rischia però di trasformarsi nella peggiore delle coperture omertose, se non addirittura di mostrarsi con il volto orribile della complicità. Quella in corso, infatti, è una guerra vera e propria. Mentre sul continente si attende, in Africa si muore. Certo, nessuno può dire con certezza da che parte stiano i buoni, o come siano fatti. Ma siamo tutti convinti che, invece, il cattivo sia ben riconoscibile. E le parole di circostanza inviate nella letterina dall’Europa al Colonnello rischiano di finire nel dimenticatoio sotto la scrivania di Tripoli.
Uniti hanno annunciato, per bocca del segretario di Stato, Hillary Clinton, che soltanto martedì prossimo, 15 marzo, presenteranno alla Nato il loro piano sulla no fly zone o sulle altre opzioni che sono sul terreno. A questo punto ci si potrebbe perfino consolare perché, alla fine di un summit teso e contrastato, la Ue ha trovato almeno una posizione che è stata sottoscritta da tutti e che esprime una condanna definitiva per Gheddafi. Ma quello che sarebbe ingenuo nascondersi è che, anche in una situazione tanto drammatica e urgente, ognuno ha voluto fare il suo gioco pensando più ai propri interessi che a quelli dell’Unione europea che pure, ufficialmente, insegue un posto da grande potenza nel mondo. Jean-Claude Juncker, primo ministro lussemburghese e caparbio “mister euro”, lo ha detto senza troppi giri di parole: «Gli europei farebbero bene a prendere le decisioni che devono prendere durante il vertice Ue e non un giorno prima». Il riferimento all’iniziativa di Sarkozy e di Cameron era evidente. Come è evidente che, sia il presidente francese che il premier britannico, sapevano benissimo che, ieri, una buona parte degli altri leader europei non li avrebbe seguiti nella loro fuga in avanti che, in una certa misura, hanno anche dovuto ridimensionare. Nicolas Sarkozy ha spiegato che i bombardamenti mirati ai quali si è detto pronto sono «puramente difensivi» e da attuare nel caso in cui Gheddafi «usi armi chimiche o compia raid aerei contro la popolazione civile». Ma, puntualizzazioni a parte, Parigi e Londra il
segnale lo hanno comunque voluto lanciare scommettendo sulla vittoria finale degli insorti che, una volta alla guida della nuova Libia, non dovrebbero dimenticare chi, per primo, li ha riconosciuti ricevendoli all’Eliseo o si è proclamato disponibile a difenderli offrendo, addirittura, i suoi cacciabombadieri. Se fosse vero soltanto la metà di quello che raccontano in privato i diplomatici che hanno partecipato alle trattative, la scommessa sarebbe anche truccata perché Francia e Gran Bretagna sapevano già quale sarà la decisione americana.
Il piano che gli Usa presenteranno alla Nato il 15 marzo, dopo che Hillary Clinton sarà tornata dalla sua missione in Egitto e Tunisia, dove incontrerà anche esponenti dell’opposizione libica, insomma, era già noto a Parigi e a Londra quando Sarkozy e Cameron hanno deciso di scrivere la loro lettera a Herman Van Rompuy. Non bisogna dimenticare che proprio Francia e Gran Bretagna sono i due Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu che stanno preparando la bozza di risoluzione sulla no fly zone che dovrà essere votata dai dieci componenti del Consiglio che, oltre agli altri tre permanenti – Usa, Russia
In televisione, il figlio Saif rilancia: «Usano i bambini per attaccare»
Intanto il raìs continua nell’avanzata militare
Ripreso il porto di Ras Lanuf, i lealisti si preparano per attaccare Bengasi, capitale “de facto” dei ribelli di Massimo Fazzi
Ognuno ha voluto fare il suo gioco pensando più ai propri interessi che a quelli dell’Unione europea che pure, ufficialmente, insegue un posto da grande potenza nel mondo e Cina che hanno il diritto di veto – è composto dai cinque nuovi membri non permanenti che sono entrati dal gennaio di quest’anno: Colombia, Germania, India, Portogallo e Sud Africa. In sostanza, Sarkozy e Cameron sono convinti che un intervento umanitario diretto e in armi sarà comunque sottoposto all’approvazione delle Nazioni Unite e che passerà, soprattutto se oggi – nel suo vertice al Cairo – la Lega araba si pronuncerà a favore della no fly zone come già ha fatto l’Oci (l’Organizzazione della conferenza islamica) e il Consiglio di cooperazione dei Paesi del Golfo. Ieri a Bruxelles anche il fronte degli europei che sono più cauti a imbarcarsi in iniziative militari – con l’Italia in prima fila – ha molto insistito sul mandato internazionale dell’Onu e sul consenso della Lega araba che sono condizioni indispensabili per attuare «le misure necessarie per stabilire in Libia uno Stato di diritto», come è scritto nel comunicato finale del vertice europeo. Ma Parigi e Lon-
dra hanno spiazzato tutti.
La stessa Angela Merkel è apparsa contrariata. Ha dichiarato che Gheddafi «non può più essere considerato un interlocutore», ma ha preferito non commentare le ipotesi di Sarkozy sui bombardamenti mirati anche fuori dall’ambito Nato, a dimostrazione che l’asse franco-tedesco è davvero a geometria variabile: forte quando è in gioco il cosiddetto “Patto per l’Eurozona” – che il vertice europeo ha affrontato dopo la discussione sulla Libia – e fragile quando bisogna difendere i propri interessi fuori dai confini dell’Unione, che si tratti dei rapporti con la Cina o con i Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo. Ma dall’ultima mossa di Nicolas Sarkozy, più che la Germania, è l’Italia che ha qualche cosa da temere. Perché la scommessa di Parigi, come quella di Londra, sul Consiglio nazionale di transizione libico guarda anche al futuro dei contratti del petrolio e a chi, dopo Gheddafi, sarà chiamato a distribuirli.
ROMA. Mentre il mondo si interroga sul destino della Libia e su quello della sua popolazione, il Colonnello ha le idee ben chiare in mente. Grazie all’ausilio di mercenari stranieri, la lenta riconquista del Paese da parte delle forze fedeli a Gheddafi continua. E ieri violenti combattimenti hanno segnato un giorno di più la Libia. Mentre dal vertice straordinario dei capi di governo dell’Ue arrivavano segnali di non sintonia su come fronteggiare la crisi in Libia e il dramma umanitario, i lealisti di Moammar Gheddafi hanno continuato infatti a incalzare le forze ribelli. Dopo un’intera giornata di bombardamenti a tappeto da terra, dal mare e dal cielo, con una manovra a tenaglia sono riusciti a entrare Ras Lanuf, centro petrolifero strategico della Cirenaica, e si combatte strada per strada. Gli stessi ribelli hanno confermato la situazione sul campo. Inoltre, sempre ieri, un raid aereo è stato lanciato vicino alla città libica di Uqaylah, a est della linea del fronte dove ribelli e governativi combattevano per il per il controllo della città portuale petrolifera di Ras Lanuf. Secondo altre fonti, che non hanno potuto essere confermate da fonti indipendenti, ci sono stati raid aerei anche contro Brega, un’altra città petrolifera ancora più a est. Ma la ditta Gheddafi non ha usato soltanto le armi convenzionali, e hanno scatenato un’ulteriore offensiva sul campo della propaganda. Accendendo la televisione di Stato, ieri, si vedeva a canali unificati il delfino del dittatore, il figlio Saif, che in un messaggio ha affermato: «Hanno armato dei bambini per combatterci, con noi invece ci sono quattromila giovani volontari e non i mercenari di cui parlano. Ho parlato con uno di questi rivoltosi e mi ha detto che erano venute persone da fuori che lo avevano armato dicendogli di fare il jihad». Ovvero sia la guerra santa dell’islam, il grande spauracchio che sta paralizzando l’Occidente. Il figlio del Colonnello, rivolgendosi ai ribelli, ha poi sostenuto che «questa gente usa chiunque per combattere. L’altro giorno ho visto che a Misurata usavano anche gli animali». Secondo lui «dietro questa rivolta ci sono persone che vivono all’estero, a Londra o negli Stati Uniti. Sono loro che guidano i ribelli. La Libia produceva due milioni di barili al giorno, ora ne produce solo 600mila. Chi ci sta guadagnando? I paesi del Golfo, non certo il Paese».
d’affari se ne vanno e chi ci rimette? Non certo gli uomini armati, ma noi». Sempre nell’ambito della propaganda, i cittadini libici abbonati ai servizi di telefonia cellulare hanno ricevuto messaggini in cui si dice che le due principali città della Cirenaica in mano agli insorti - Agedabia e Bengasi- «saranno presto riconquistate». Ma la crisi in Libia non limita i suoi effetti nel campo petrolifero.
Essa, infatti, «avrà ripercussioni sulla sicurezza alimentare nella regione». Lo ha segnalato ieri la Fao, sottolineando che quell’area - fortemente dipendente dalle importazioni di cereali - patirà il blocco del flusso di beni e di servizi e dei grandi movimenti di popolazione. Secondo Daniele Donati, capo del servizio Operazioni d’emergenza della Fao, «in Libia, dove la produzione agricola nazionale è concentrata nelle aree vicine a Bengasi e a Tripoli, la riduzione delle riserve alimentari e la perdita di manodopera nelle aree rurali sono fattori che, nel lungo periodo, rischiano di danneggiare la sicurezza alimentare». Ha aggiunto Donati: «Le turbolenze sui mercati dei semi e dei fertilizzanti sono una grave minaccia per la produzione agricola e per le attività che generano reddito». Nel frattempo, nella capitale si vive nel terrore. Monsignor Giovanni Innocenzo Martinelli, Vicario Apostolico di Tripoli, ha descritto all’agenzia Fides la situazione nella capitale libica, parlando di «paura ad avventurarsi per le strade. A Tripoli si vive in un silenzio assoluto, direi quasi assurdo. La gente sta chiusa in casa. Oggi i negozi sono chiusi per rispetto del venerdì di preghiera islamico. Ieri alcuni negozi avevano timidamente riaperto i battenti. Si vuole dare l’impressione di una vita normale, ma la situazione non è certo normale». «Vediamo quale sarà oggi la fisionomia della nostra comunità che si riunirà per celebrare la messa della prima domenica di Quaresima, ma c’è paura ad avventurarsi per le strade, poi ci sono persone che abitano lontano e non è sempre facile raggiungere la chiesa. Ho però fiducia che la gente verrà, perché sta prendendo coraggio, perché il fatto di pregare insieme infonde forza». «Ormai i fedeli rimasti - conclude il presule - sono gli africani e i filippini, in gran parte infermiere. A Tripoli vi sono circa duemila infermiere filippine, in tutta la Libia saranno probabilmente circa cinquemila. Vi sono poi i professori di inglese, alcuni sono rimpatriati, altri sono rimasti perché le scuole sono aperte, per lo meno in alcune zone di Tripoli. Cerchiamo di incoraggiarli a vivere questi momenti difficili alla luce della fede».
A Tripoli si vive nel terrore, la gente ha paura ad uscire di casa e i negozi sono chiusi e sbarrati. Tutti aspettano di vedere come finirà lo scontro
Infine, per chiarire ancora di più il concetto ha concluso: « La città di Bengasi e la zona limitrofa è in mano ai ribelli e registra perdite economiche considerevoli. Tutti gli uomini
la crisi libica
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America ed Europa non devono prendere direttamente le armi. Ma solo sostenere il cambiamento
Bombardamenti arabi
«Sì alla no-fly zone e agli attacchi mirati proposti da Sarkozy. Ma non devono gestirli gli occidentali. Possono farlo Arabia Saudita ed Egitto su mandato internazionale». L’egiziano Walid Kazziha indica la strada “più conveniente” di Luisa Arezzo
alid Kazziha è un intellettuale. Insegna Scienze politiche all’American University del Cairo e ha scritto dei testi fondamentali per la comprensione del mondo arabo, come Revolutionary Transformation in the Arab World e Palestine in the Arab Dilemma. È una voce moderata ma con una chiara visione mediorientale degli eventi. Gli abbiamo chiesto: Cosa ne pensa di un eventuale intervento militare atto a rovesciare il regime di Gheddafi? Un intervento aereo mirato, piuttosto che una no fly zone, sono delle soluzioni adeguate. Il problema è che se a condurre queste operazioni fossero gli Stati Uniti - che in Medioriente non sono esattamente ben visti dopo l’invasione dell’Iraq - oppure gli europei - che in Nord Africa scontano ancora un’avversione post-coloniale - le cose potrebbero non andare nel senso sperato. Direi che da un lato ci sono, a livello interna-
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zionale, molti supporter dei ribelli contro Gheddafi pronti ad intervenire e dall’altro la maggior parte dell’intellighenzia araba (editorialisti e opinione pubblica compresi) che vorrebbero vedere i ribelli libici capaci di affrancarsi dal pugno di ferro del Colonnello in modo autonomo. Il punto è che tutti, in queste ultime ore, hanno capito che gli oppositori del regime da soli non potranno farcela. E dunque l’intervento esterno comincia ad essere preso in considerazione. Intendiamoci, non un’invasione via terra che porterebbe subito alla memoria i tempi passati, ma una no fly zone o dei bombardamenti mirati contro i lealisti di Gheddafi e capaci di non provocare vittime fra i civili. E dunque? Dunque io guardo con grande attenzione all’incontro di oggi della Lega araba che potrebbe avallare delle forme di intervento a livello internazionale e proporsi come diretta esecutrice del piano anti-Gheddafi. Quali sono i paesi che sa-
rebbero pronti a scendere operativamente in campo contro il Colonnello? L’Arabia Saudita sono certo che metterebbe a disposizione aerei, soldi e infrastrutture. Ma anche l’Egitto: le sue forze armate sono assolutamente in grado di fare questo lavoro. Senza considerare che tutto vogliono tranne che ritrovarsi un confine con la Libia in fibrillazione. L’operazione potrebbe essere breve e mirata, considerando il fatto che al via dell’intervento molti di quelli ancora
«Gli Usa? Dopo l’Iraq non sono ben visti. La Ue? Ha un passato coloniale»
fedeli al raiss lo abbandonerebbero per unirsi ai rivoltosi. Le circostanze in questo momento preciso sono favorevoli e sarebbero bene accette dalla popolazione. Ripeto, se condotte dagli arabi in modo chirurgico e se gli occidentali non entrassero nel paese dopo la caduta del regime. È stato chiarissimo. La questione va risolta con il supporto (e i fondi) internazionali ma dentro le “mura di casa”. Esattamente. E se si deve agire
è bene farlo subito, perché i ribelli stanno perdendo terreno ogni giorno che passa e da soli non riusciranno ad abbattere il regime. E se questo non dovesse cadere il caos in Libia sarà totale. Lei come giudica il gioco a rimpiattino dell’Occidente su: intervenire sì, intervenire no? Solo ieri l’Europa ha detto che bisogna ancora attendere e la Clinton ha posticipato ogni scelta a dopo il 15 marzo. L’Occidente esita moltissimo, vuole capire la reale forza di Gheddafi e vedere se riesce a riconquistare il terreno perduto. Ma soprattutto penso che l’Occidente sia preoccupato dal petrolio... Questo però è un interesse legittimo, non crede? Sì, ma l’Occidente sta prendendo un abbaglio. Comincia a pensare che se Gheddafi torna in sella, dopo qualche mese “punitivo” relazioni e affari tornerebbero come prima. Non è vero. La Libia non avrebbe più un regime stabile, perché or-
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L’opinione di Gamal Nkrumah, editorialista arabo e figlio del primo presidente del Ghana
Fallito il piano per salvare il raìs dell’Unione Africana e di Chavez Gheddafi poteva contare su degli amici e su una strategia per restare al potere. Ma non doveva sparare al suo popolo di Gamal Nkrumah ono ancora molti gli assi nella manica del Colonnello. E benché il confronto con i ribelli sia ancora in divenire, alcuni cominciano a pensare, sia in casa che all’estero, che Gheddafi potrebbe riprendere il controllo del Paese e restaurare il suo regime di paura e terrore. Ma qualsiasi sia la sua strategia, una cosa è comunque chiara: nulla sarà più come prima. A cominciare dalla Cirenaica, il luogo più caldo della rivolta, dove i ribelli affrontano la lotta tenendo in mano armi e Corano e dissacrando il Libro Verde del Raiss. L’Occidente, così come molti Paesi arabi, guardano con giusto sospetto questa enclave islamista, ma ciò non toglie che se il Colonnello dovesse recuperare terreno molti di loro sarebbero di fatto condannati. E che la regione rischierebbe il caos più assoluto. Per evitare questa deriva e cercare di trovare una mediazione, è sceso in campo il presidente venezuelano Chavez. Il Consiglio politico dell’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America (fondata nel 2004 assieme a Fidel Castro), conosciuta universalmente come Alba, ha istituito una Commissione internazionale umanitaria per la pace e l’integrità della Libia.
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Uno dei suoi obiettivi è la promozione del dialogo fra il governo centrale e l’opposizione. E questo al fine di evitare un intervento militare nel Paese e cercare una soluzione “pacifica”. Nonostante questo, però, l’offensiva armata contro i ribelli è continuata, provocando la morte di centinaia di civili ma anche la riconquista da parte del Colonnello di molte aree. Una strategia guerresca in totale controtendenza alle aspettative di Hugo Chavez che, seppur d’accordo con Tripoli e i ribelli sulla necessità di non far entrare il piede dello straniero sul suolo libico, in nome della pacificazione tutto avrebbe voluto piuttosto che una montagna di cadaveri. In questo contesto, si inserisce la politica attendista dell’Europa e degli Stati Uniti, entrambi impegnati nonostante le dichiarazioni interventiste - a capire cosa fare. L’unico vero monito, al momento, sono i 2mila marines schierati sulle unità navali statunitensi al largo di Tripoli e la minaccia di una No fly zone. Una presenza che rassicura i ribelli, ma solo alla distanza. Perché nessuno in Libia crede alla buona fede occidentale e americana in particolare. Il leader della Lega araba, Amr Moussa, si è unito al coro anti-Gheddafi dicendo che se il raiss vuole fare pace con il suo popolo deve immediatamente cessare i bombardamenti e paventando, viceversa, un appoggio alla No fly Zone. Dunque, al-
meno al principio, Moussa ha condiviso la strategia di Chavez (e non bisogna dimenticare che il venezuelano, che certo non guarda con antipatia ai regimi autoritari, si distingue da Gheddafi per un aspetto fondamentale: è stato eletto democraticamente dal suo popolo). Una strategia condivisa anche da un terzo attore: l’Unione africana, punto contraria sia alla No fly zone che ad altre azioni militari sponsorizzate dall’Occidente. Tre voci che però al Colon-
«C’è un fattore che nessuno sta prendendo in seria considerazione: l’esplosione di un conflitto razziale»
nello non sono bastate. Cos’altro potrebbe fare Chávez per convincere Gheddafi e i suoi amici che tiene alla Jamahiriya così come fecero i suoi radicali predecessori anti imperialisti nel Terzo Mondo? Gheddafi, che si è venduto sul mercato come campione del laicismo, guadagnandosi così la simpatia di leader della sinistra non musulmana del Terzo Mondo come Chávez, sta perdendo con le sue azioni assassine anche l’appoggio di chi, per davvero, sta cercando - seppur per interessi diversi - di aiutarlo. C’è però da dire una cosa: se i ribelli vogliono conquistare la fiducia di questi interlocutori al momento più ostli, devono smetterla di declamare la retorica militante islamista. Il mondo invece, deve aver chiara una cosa che ancora sta facendo finta di non vedere: la rivolta libica è scaturita dalla scintilla innescata dal più grande scoppio di violenza razzista in Nord Africa. Come hanno giustamente denunciato l’Osservatorio sui Diritti Umani da New York e Amnesty International da Londra, le forze libiche anti-Gheddafi brandiscono fucili, urlano slogan razzisti e perseguitano i neri africani. Lo stesso Gheddafi, assoldando mercenari africani, sta soffiando sul fuoco razziale, mentre i ribelli flirtano con le derive scioviniste e xenofobe.
L’Occidente minimizza il problema ascrivendolo al fattore contingente, ma si sbaglia. Perché sfortunatamente la società tribale libica ha una forte propensione al razzismo e il rischio di una resa dei conti razziale esiste e potrebbe far precipitare la situazione dopo un’eventuale caduta del regime. La sfilata dei neri africani nelle vesti di soldati di fortuna sui canali satellitari Pan-arabi è un segnale d’allarme inequivocabile. La guerra razziale potrebbe essere molto vicina. Soprattutto se l’economia libica continuerà a precipitare ai livelli odierni. Gli investitori internazionali sono sempre più nervosi perché questo clima di incertezza è ancora lungi da finire. Il leader libico e i suoi lacchè stanno subendo una crisi di liquidità di proporzioni mai viste prima, accentuata dal ricorso alla forza contro la popolazione. In questa profonda destabilizzazione, che il trio Chavez- Lega Araba e Unione africana non riesce a recuperare (soprattutto per colpa di Gheddafia), il fattore xenofobia è pronto ad esplodere. Le Nazioni Unite e l’Occidente non lo dovrebbero sottovalutare.
mai il muro della paura è crollato. Esiste, in Libia, una figura alternativa a Gheddafi? Non ancora, ma sono convinto che da questa rivolta, così come successo in Tunisia ed Egitto, emergeranno dei volti nuovi. Certo, dopo il crollo del regime ci sarà un periodo di forte instabilità, ma il popolo è determinato ad uscirne fuori. Il Cairo eTunisi ne sono esempio eloquente. C’è una grande differenza fra questi paesi e la Libia. I primi due hanno potuto contare su un apparato statale solido, i militari e una classe dirigente preparata. Tutte cose che la Libia non possiede. Nel lungo periodo sono sicuro che verranno fuori e saranno in grado di emanciparsi verso forme democratiche. Potrebbero anche essere aiutati dalle esperienze positive egiziane e tunisine. Di contro, è chiaro che per questi due paesi che stanno percorrendo i primi, anche se non deboli, passi verso forme di democrazia avere nel mezzo un tiranno come Gheddafi può essere molto pericoloso e potenzialmente destabilizzante. La Libia attraverserà una grande fase di instabilità, ma nel giro di qualche mese, direi tre o quattro, le cose potrebbero migliorare. Anche se l’Occidente stenta a credere che la liberazione possa mettere in moto processi virtuosi e teme invece scada in guerra civile. Teme anche che possano avere il sopravvento tensioni religiose e islamiste... Gli islamici ci sono, certo, ma non sono la fazione principale. E poi, esattamente come in Egitto, ci sono moltissimi giovani a guidare la rivolta e questi ultimi non sono figli dell’islamismo. Io ho sentito i loro slogan, sono gli stessi usati dagli egiziani: parlano di libertà, di fine dell’oppressione, di autodeterminazione del proprio futuro. I giovani sono alternativi al fondamentalismo. Tutta l’attenzione internazionale è rivolta alla Libia: la minore pressione internazionale può creare dei problemi alle nuove democrazie arabe? I giornalisti vanno dove c’è la notizia. E in questo momento è in Libia. Ma sbaglia a pensare che i giornali arabi si comportino allo stesso modo: io li leggo tutti i giorni e le posso dire che ci sono pagine e pagine su Egitto e Tunisia e solo qualche trafiletto sulla Libia. Questo non è un buon segnale, non ha appena detto che i giornalisti vanno dove c’è la notizia? Sì. E per gli arabi la notizia è che dei Paesi stanno cercando di costruire una democrazia. È questo che li galvanizza, è questo che fa muovere le piazze. Il caso libico è tutta un’altra storia.
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la crisi libica Forze di polizia ovunque: il popolo è rimasto a casa
La rabbia saudita (per ora) può attendere
Cade nel vuoto l’appello a scendere in piazza e a Riad il “Venerdì della collera» fallisce. Anche perché il trend economico virtuoso che l’Arabia sta attraversando è tutto a favore di re Abdullah. I cento dollari al barile per il petrolio giovano a qualsiasi riforma e iniziativa di contenimento dell’opposizione di Antonio Picasso n Arabia Saudita la stabilità non è a rischio». Così titolava giovedì scorso il quotidiano Arab News, testata panaraba pubblicata a Londra e finanziata da capitali del Golfo. Nell’articolo, poi, venivano riportate le dichiarazioni degli ambasciatori indiano e britannico, presso la monarchia saudita, che confermavano questa linea. Per alcuni aspetti, la fallita “giornata della collera”, celebrata ieri nel Paese, rappresenta un’ulteriore dimostrazione di questa immagine di tranquillità che la monarchia vuole trasmettere. Le manifestazioni in programma a Riyadh, Gedda e Hofuf, area orientale del Paese dov’è concentrato il grosso della comunità sciita, si sono rivelate sostanzialmente un flop. Le poche centinaia di partecipanti ai cortei rappresentano una cifra di gran lunga inferiore alle attese. I precedenti accaduti negli altri Paesi, di manifestazioni organizzate fuori dalle moschee, il venerdì, giornata della preghiera collettiva per l’Islam, hanno portato a rivolte vere e proprie. Ieri, al contrario, l’Arabia ha vissuto una giornata di calma apparente. Le previsioni disattese possono essere state dettate dal cordone di sicurezza
«I
che la Polizia saudita ha sciolto intorno alle aree più a rischio. Riyadh, ieri, era una città blindata. Ad Hofuf, nel governatorato orientale di Al-Ahsa, circa un mese fa era stata arrestato un noto imam sciita, Tawfiq al-Amer, incarcerato per aver chiesto la riforma costituzionale della monarchia. Dopo il suo fermo, centinaia di giovani era-
I segnali della dissidenza giovanile sono percepibili anche nel cuore del wahabismo. I blogger locali sono scesi in guerra no scesi per le strade chiedendo di AlAmer, il quale è stato rilasciato dopo alcuni giorni. Ieri però ai cortei locali hanno preso parte solo duecento persone. Del tutto differente il clima che si respira a Jeddah. La città rappresenta un’isola felice di modernità e
cosmopolitismo, rispetto al quadro di arretratezza culturale e rigore religioso che invece caratterizzano la quotidianità del Paese. Sempre Jeddah è la sede del King Abdullah University of Science and Technology (Kaust), il mega ateneo internazionale invidiato da tutti i Paesi del Golfo. Qui la manifestazioni giovanili hanno avuto ragion d’essere. In questa enclave di progresso, non era possibile censurarle. Il fatto che le autorità locali non abbiano neppure tentato di impedire gli eventi organizzati dal locale potrebbe dimostrare un crescente livello di tolleranza.
Del resto, chi frequenta il Kaust è membro dell’elite della società nazionale. Per quale motivo, allora, dovrebbe combattere un sistema di cui fa parte? Detto questo, i segnali della dissidenza giovanile sono percepibili anche nel cuore del wahabismo. I blogger locali e i social network sono già sul piede di guerra. Nei giorni scorsi, alla chiamata di Facebook per le manifestazione di ieri avevano risposto in 17mila. Il clima è pesante in tutto il Paese. Resta da capire, quindi, se il contenimento della “giornata della collera” sia da
considerare un successo, oppure un’arma a doppio taglio. In tal caso, la repressione potrebbe generare rancori ancora più repressi. Il fallito colpo della dissidenza, però, potrebbe avere altre motivazioni. Gli sciiti locali, prima di tutto, possono sentirsi isolati. Non solo grazie al tempestivo intervento delle forze governative. In Bahrein e in Yemen, le altre comunità consorelle stanno pagando caro il prezzo di essere scese in piazza. Le minoranze sottomesse a Mamana e Sana’a, infatti, speravano nell’appoggio da parte dell’Iran. Probabilmente lo stesso hanno fatto gli sciiti sudditi di Riyadh. Gli Ayatollah di Teheran, però, non si stanno muovendo a sufficienza per appoggiare iniziative sovversive all’estero. Al momento sono troppi i problemi in casa persiana, affinché si possano investire risorse all’estero. Va detto inoltre che il trend economico assolutamente virtuoso che l’Arabia sta attraversando risulta del tutto favorevole a re Abdullah. I cento dollari al barile per il petrolio - ieri il Brent è sceso di tre punti, ma solo per effetto del terremoto in Giappone – giovano a qualsiasi riforma e iniziativa di contenimento dell’opposizione. Non a caso,
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Tutti i timori della Cina per le rivolte arabe. Censura e repressione contro la dissidenza
Pechino guarda a Ovest e teme una sollevazione anche sul suo territorio di Wei Jingsheng egli ultimi mesi, la Rivoluzione dei gelsomini in atto nei Paesi arabi è cresciuta fino a un’altezza tale da superare i confini nazionali ed espandersi a livello mondiale. Anche i giovani cinesi hanno imparato da quella lezione e lo scorso 20 febbraio hanno chiamato la Cina alla propria Rivoluzione del gelsomino. Tuttavia, il Partito comunista (nervoso per l’accaduto) si è dimostrato pronto. Il Partito ha enfatizzato l’utilizzo di tecnologie all’avanguardia per “mantenere la stabilità”. I giovani purtroppo si sono dimostrati dotati di poca esperienza e hanno sottostimato le capacità dei comunisti: l’evento si è concluso senza troppe attività rivoluzionarie. Anzi, al contrario, si è chiuso con l’arresto e la detenzione di molti dei leader del movimento. A prima vista, il gioco non è valso la candela. Tuttavia, questa percezione non è corretta. È naturale che ai giovani manchi esperienza. Tuttavia, gli stessi giovani sono pieni di energia e pronti a sacrificarsi per le loro idee. Questa prontezza di sacrificio confuta il pensiero di coloro che guardano i ragazzi dall’alto in basso e sostengono che le nuove generazioni siano peggiori delle vecchie. Mostra al contrario che ogni generazione ha i propri coraggiosi e talentuosi. L’esperienza può essere poi imparata e accumulata. Una persona che cade può imparare come rialzarsi. Come le onde sul fiume Yangtze: le più vicine alla riva sono spinte da quelle più lontane. Fino a che avremo degli eredi, potremo sperare di riuscire.
N
l’86 enne sovrano, rientrato a fine febbraio nel Paese dopo una lunga convalescenza, ha approntato un manovra per migliorare il mercato immobiliare e incentivare l’occupazione. Costo dell’operazione: 26 miliardi di dollari. Riyadh ha a disposizione una liquidità monetaria senza pari nel Medioriente allargato. È facile quindi immaginare un intervento preventivo contro qualsiasi focolaio di rivolta.
«Si è trattato di una mossa salutata positivamente da tutta la popolazione», ha dichiarato l’ambasciatore britannico presso la Corona saudita, sir
Resta da capire se il contenimento della “giornata degli irosi” sia da considerare un successo o un’arma a doppio taglio Tom Phillips. Re Abdullah si conferma essere un astuto campione di riforme, seppur di bassa portata, ma in aperta controtendenza con le sclerotizzazione culturale e religiosa che affligge il resto della Casa reale. Al tempo stesso, non si può scartare l’eventualità che sia in corso anche una repressione silenziosa e mirata nei confronti delle potenziali teste pensanti dell’opposizione. Già all’inizio della settimana, in previsione delle manifestazioni che si sarebbero tenute ieri, i dieci membri del Consiglio degli Esteri ha denunciato qualsiasi assembramento di ordine politico. «Le riforme non possono essere realizzate mediante manifestazioni, bensì nel rispetto della Sharia e del precetti del Profeta», si leggeva nel co-
municato degli Scolari. Da notare come, in ultima istanza, l’idea di alcune revisioni in senso riformista non siano completamente escluse. Del resto, anche l’Alto Commissariato Onu per i diritti umani ha lanciato un appello alle autorità locali affinché consentano libere manifestazioni e non ricorrano alla forza. La situazione è indubbiamente tesa. Tuttavia, le minimizzazioni che si leggono sui giornali vicini al sovrano suggeriscono che, forse, le autorità siano orientate nello scegliere una linea più morbida rispetto a quelle adottate in Egitto o peggio ancora in Libia. L’idea che Riyadh sia la prossima in questa catena di rivolte sconcerta ancor più della crisi nordafricana. Ciononostante, le ricchezze a disposizione e la lungimiranza che ispira re Abdullah potrebbero fugare simili timori. Si tratterebbe, insomma, di aprire quanto basta per decomprimere le tensioni.
Più volte è stato indicato come da questa crisi l’Arabia Saudita possa trarre l’opportunità per consolidare la sua supremazia in seno alla Lega araba. La proposta di inviare in Libia un contingente militare esclusivamente arabo, composto soprattutto da egiziani e tunisini, era nata proprio alla corte di re Abdullah. In questi ultimi giorni è stata ripresa dai giornali qatarioti, al-Hayat soprattutto, ma anche dal Segretario generale del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Gcc), Abdul Rahman bin Hamad al-Attiyah. Chiudendo la partita con Gheddafi e abbozzando un iniziale processo di riforme, Riyadh spera di poter risolvere i suoi problemi interni e affermarsi come potenza regionale dell’intero mondo arabo. Il progetto è possibile. I due ostacoli maggiori e vincolati fra loro sono l’opposizione della comunità sciita – re Abdullah non potrà permettersi di schiacciarli senza suscitare ondate di indignazione – e soprattutto la rivalità con l’Iran. Questo è il vero ostacolo degli al-Saud.
Tuttavia vanno presi in considerazione anche i punti di vista dei critici. Se esaminiamo la Rivoluzione dei gelsomini nelle nazioni arabe, possiamo ricavarne molto in termini di esperienza. Comparando i successi e i fallimenti di questa rivolta vedremo la differenza fra il popolo arabo e quello cinese. Credo che la prima questione riguardi la scelta sbagliata dei tempi. In Egitto, Tunisia e Libia il risentimento è andato accumulandosi per anni, arrivando a un livello tumultuoso. Questo risentimento è alla
fine esploso in un effetto-domino, innescato da un singolo incidente. Inoltre, la Rivoluzione dei gelsomini è stata scatenata in Cina soltanto dalle notizie di rivolte nei Paesi arabi: non è nata da un sentimento interno alla società. Di conseguenza il movimento si è limitato a galleggiare sulla superficie, senza un fondamento solido nelle masse. Eppure la società cinese è molto simile a quella egiziana, con dei furti diffusi ed estremi da parte dei burocrati capitalisti.
Soffre inoltre di inflazione e disoccupazione di massa. Tuttavia, la popolazione non ha concentrato ancora il pensiero sul fatto che i propri dolori vengono dal Partito comunista. Invece di fare questo, si sono focalizzati su questioni minori e sulle persone ad esse collegati. Questa atmosfera è molto diversa da quella del 1989. A quel tempo, anche se il popolo non aveva obiettivi molto alti – limitati nei fatti a richiedere minore corruzione nel governo – raggiunse traguardi riconosciuti in tutta la Cina. Anche se non era organizzata, si trattava di una situazione in attesa da molto tempo. Quella sollevazione era molto simile alle recenti rivoluzioni arabe. La gente spera sempre di risolvere differenze e dispute in modi pacifici, razionali e non violenti. Tuttavia questo deve essere fatto dopo che sono state stabilite delle regole che definiscano il termine “ragionevole”. I metodi di cui sopra, infatti, funzionano soltanto con persone ragionevoli.Trattare con tiranni irragionevoli rende impossibile essere a propria volta ragionevoli. Soltanto distruggendoli come si fa con un nemico si avrà una società che rispetta la ragione. Anche dopo aver stabilito un sistema sociale democratico, si potrà usare la forza – polizia e militari – contro banditi irragionevoli e malviventi. Immaginare di poter eliminare la forza per sempre è irrealizzabile proprio come il comunismo, una fantasia che ottiene risultati opposti. Fare una cosa del genere significa scatenare violenze diffuse, mentre i dittatori tornano a sedersi sopra la popolazione.
il personaggio della settimana
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Una lettura ragionata del secondo volume su Gesù di Nazareth: da Gerusalemme alla risurrezione
Anatomia di Cristo Benedetto XVI scrive pagine intense, che portano di nuovo l’attenzione sulla figura del Nazareno: l’avvento, il messaggio, il processo e il tradimento di Giuda sono i fattori che dominano la Storia di Luigi Accattoli o riempito la giornata di ieri con la lettura, difilato, del volume del Papa Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione presentato l’altro ieri alla stampa (Libreria Editrice Vaticana, 345 pagine, 20 euro). È un’esperienza straordinaria che consiglio a chi ama Papa Benedetto e a chi si proponga di comprenderlo: qui è il suo cuore, qui il suo tesoro. Nè potremmo chiedere di meglio a un Papa che ci parli di Gesù. I giornali e i telegiornali hanno detto degli aspetti emergenti e provocanti di questa lettura. A un giorno di distanza mi propongo una rassegna dei contenuti che non trascuri – se possibile – nessuno degli aspetti essenziali di questo dono molto adatto alla Quaresima che è appena iniziata: il volume tratta infatti – come specifica il sottotitolo – dell’ultima settimana della vita di Gesù, che ruota intorno alla Cena e al Venerdì Santo. L’autore innanzitutto. Come per il primo volume pubblicato da Rizzoli nel 2007 – andava “dal battesimo nel Giordano fino alla trasfigurazione”; e ne è annunciato un terzo sui Vangeli dell’infanzia – la copertina riporta una doppia firma: Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Si tratta di un’opera che aveva iniziato a scrivere da cardinale e che completa da Papa, ma soprattutto quella doppia firma sta a dire che il Papa qui si spoglia del ruolo magisteriale e parla come cristiano comune. Qui egli espone – diceva nella premessa al primo volume – la sua «ricerca personale del volto del Signore», non compie un “atto magisteriale” e “dunque ognuno è libero di contraddirmi”.
H
Trovo doppiamente attraente il Papa che parla a titolo personale. Ci vedo un aiuto a guardare avanti, al domani dell’umanità nel quale il vescovo di Roma avrà un ruolo di portavoce dei cristiani, riconosciuto da tutte le famiglie confessionali e a nome di tutte potrà parlerà di Gesù al mondo. «Non ho voluto scrivere una Vita di Gesù», egli torna a precisare nelle prime pagine del nuovo volume. L’intenzione è piuttosto quella di «illustrare la figura e il messaggio di Gesù» per aiutare il lettore a “trovare il
Gesù reale”, inteso come il“Gesù dei Vangeli”e insieme della storia, perché ricavato da una lettura delle fonti neotestamentarie che vorrebbe essere a un tempo storico-critica e teologica. Un avvicinamento alla figura di Nostro Signore, dice ancora, «che possa essere utile a tutti i lettori che vogliono incontrare Gesù e credergli». Il libro inizia dall’ingresso di Gesù in Gerusalemme, accolto dalla folla festante, seduto su un’asina, come “un re della pace e un re della semplicità, un re dei poveri”. Non è un rivoluzionario politico, «non si fonda sulla violenza, non avvia un’insurrezione militare contro Roma».
Già dal primo capitolo il Papa teologo trova il modo di chiarire la nostra prospettiva storica su Gesù: «Si è calmata l’onda delle teologie della rivoluzione che, in base ad un Gesù interpretato come zelota, avevano cercato di legittimare la violenza come mezzo per instaurare un mondo migliore – il ‘Regno’. I risultati terribili di una violenza motivata religiosamente stanno in modo troppo drastico davanti agli occhi di tutti noi. La violenza non instaura il regno di Dio, il regno dell’umanesimo. È, al contrario, uno strumento preferito dall’anticristo (…). Non serve all’umanesimo, bensì alla disumanità». Sul rovesciamento del sogno messianico di Israele il Papa scrive pagine trascinanti: «Gesù non viene come distruttore; non viene con la spada del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si dedica a coloro che a causa della loro infermità vengono spinti ai margini della propria vita e ai margini della società. Egli mostra Dio come Colui che ama, e il suo potere come il potere dell’amore». La vocazione cristiana, che viene da quel rovesciamento, è un dono. Il Papa ne parla nel capitolo sulla Lavanda dei piedi: «Pietro e Giuda sono due modi diversi di reagire a questo dono. Entrambi lo accolgono, ma poi uno rinnega, l’altro tradisce. Pietro, pentitosi, crede nel perdono». Anche Giuda si pente, ma non «riesce più a credere ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione (…) vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento». Qui il Papa sembra riflettere su tanti post-cristiani dei nostri giorni: «In Giuda incontriamo il pericolo che pervade tutti i tempi», il pericolo cioè che
anche chi è stato una volta illuminato, «attraverso una serie di forme apparentemente minute di infedeltà, decada spiritualmente e così alla fine, uscendo dalla luce, entri nella notte e non sia più capace di conversione».
Continuamente Ratzinger-Benedetto insiste sulla rispondenza tra il Gesù dei Vangeli e il Gesù storico: «Il messaggio neotestamentario non è soltanto un’idea; per esso è determinante proprio l’essere accaduto nella storia reale di questo mondo: la fede biblica non racconta storie come simboli di verità metastoriche, ma si fonda sulla storia che è accaduta sulla superficie di questa terra». Insiste su tale rispondenza – essenziale per la figura di Gesù attestata da tutte le Chiese storiche – nel capitolo su L’ultima Cena: «L’idea del formarsi dell’Eucaristia nell’ambito della ‘comunità’è anche dal punto di vista storico assolutamente assurda. Chi avrebbe potuto permettersi di concepire un tale pensiero, di creare una tale realtà? Come avrebbe potuto essere che i primi cristiani – evidentemente già negli anni 30 – accettassero una simile invenzione senza fare obiezioni? (…) Solo dalla peculiarità della coscienza personale di Gesù poteva nascere questo». Ci sono passaggi nei quali il volume ha l’andamento dell’indimenticabile Via Crucis del 2005: «Nel Getsèmani Gesù ha sperimentato l’ultima solitudine, tutta la tribolazione dell’essere uomo. Qui l’abisso del peccato e di tutto il male gli è penetrato nel più profondo dell’anima. Qui è stato toccato dallo sconvolgimento della morte imminente. Qui il traditore lo ha baciato. Qui tutti i discepoli lo hanno lasciato. Qui Egli ha lottato anche per me». Quando Benedetto medita sui discepoli che si addormentano, le sue parole sembrano alludere a quella spina nella carne costituita per lui e per tutti dallo scandalo della pedofilia: «La sonnolenza dei discepoli rimane lungo i secoli l’occasione favorevole per il potere del male». Nel capitolo 7, Il processo a Gesù, troviamo le pagine importanti su chi sia il responsabile della condanna: esse sono state anticipate di una settimana rispetto alla presentazione del volume e hanno incontrato l’altrettanto importante gradimento degli ambienti ebraici italiani e in-
e di cronach
12 marzo 2011 • pagina 31 Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
ternazionali. In esse il Papa sottolinea che a volere la morte di Gesù non è stato “il popolo” degli Ebrei come tale, ma l’aristocrazia del tempio (con qualche eccezione, tipo Nicodemo), e – nel contesto dell’amnistia proposta da Pilato – la “massa” dei sostenitori di Barabba. Un altro riferimento importante al mondo dell’ebraismo si incontra nel capitolo 2 intitolato Il discorso escatologico di Gesù. Qui il Papa cita con approvazione Hildegard Brem il quale, commentando un passo di Paolo, afferma: «La Chiesa non deve preoccuparsi della conversione dei Giudei, perché occorre aspettare il momento stabilito da Dio ‘quando la totalità dei gentili avrà raggiunto la salvezza’ (Rm 11,25). Al contrario, i Giudei sono essi stessi una predica vivente, alla quale la Chiesa deve rimandare, perché richiamano alla mente la passione di Cristo».«Nel frattempo Israele – precisa il Papa – conserva la propria missione. Sta nelle mani di Dio, che al tempo giusto lo salverà ‘interamente’, quando il numero
mensione dell’essere uomini». Ancora: «La risurrezione di Gesù (…) è una sorta di ‘mutazione decisiva’ (…) un salto di qualità. Nella risurrezione di Gesù è stata raggiunta una nuova possibilità di essere uomo, una possibilità che interessa tutti e apre un futuro, un nuovo genere di futuro per gli uomini». Il Papa insiste nel descrivere i discepoli, testimoni della risurrezione, “sopraffatti dalla realtà”che sperimentano e da essa indotti ad attestare “con un coraggio assolutamente nuovo”che “Cristo è veramente risorto”. «Di fatto – argomenta il Papa professore – l’annuncio apostolico col suo entusiasmo e con la sua audacia è impensabile senza un contatto reale dei testimoni con il fenomeno totalmente nuovo ed inaspettato che li toccava dall’esterno e consisteva nel manifestarsi e nel parlare del Cristo risorto. Solo un avvenimento reale di una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l’annuncio apostolico, che non è spie-
Anche questa volta la copertina riporta una doppia firma: Joseph RatzingerBenedetto XVI. È un modo per dire che chiunque può criticare il libro dei pagani sarà completo». Questa pagina è decisiva per intendere la nuova preghiera per gli ebrei dettata da Benedetto per la liturgia del Venerdì Santo secondo il vecchio rito. Il massimo impegno il Papa esegeta e teologo lo pone nel capitolo 9, intitolato La risurrezione di Gesù dalla morte. Qui è rilevante la ricerca di un linguaggio nuovo per parlare di una realtà sorprendente: «La risurrezione di Gesù è stata l’evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò – una vita che ha inaugurato una nuova di-
gabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche». È ben comprensibile l’insistenza di Benedetto XVI su questo asserto centrale nella tradizione di tutte le Chiese: «La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull’uomo, sull’essere dell’uomo e sul suo dover essere – una sorta di concezione religiosa del mondo –, ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religio-
sa fallita». Qui è detta, in chiaro, la distanza tra il Papa teologo e i teologi secolarizzati, o demitizzanti, o liberali come si chiamavano un tempo.
Sul ruolo delle donne nella Chiesa il volume ha queste righe incoraggianti: «Come già sotto la croce – a prescindere da Giovanni – si erano ritrovate soltanto donne, così era a loro destinato anche il primo incontro con il Risorto. La Chiesa, nella sua struttura giuridica, è fondata su Pietro e gli Undici, ma nella forma concreta della vita ecclesiale sono sempre di nuovo le donne ad aprire la porta al Signore, ad accompagnarlo fin sotto la croce e a poterlo così incontrare anche quale Risorto». Ma se Gesù è risorto davvero, se davvero ha vinto il male, perché la sua vittoria non si fa più manifesta? Perché manca la prova indubitabile che induca l’intera umanità ad accettare l’annuncio cristiano? Già nel primo volume il Papa rifletteva su questo aspetto drammatico dell’esperienza cristiana, che nell’ultimo capitolo del nuovo volume evoca così: «È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell’umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all’umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di ‘vedere’. E tuttavia – non è forse proprio questo lo stile divino? Non sopraffare con la potenza esteriore, ma dare libertà, donare e suscitare amore». Non mancano pagine che guardano con fiducia al futuro della fede: «Anche oggi la barca della Chiesa, col vento contrario della storia, naviga attraverso l’oceano agitato del tempo. Spesso si ha l’impressione che debba affondare. Ma il Signore è presente e viene nel momento opportuno (…) La fede nel ritorno di Cristo è il secondo pilastro della professione cristiana (…), Questo implica la certezza nella speranza che Dio asciugherà ogni lacrima, non rimarrà niente che sia privo di senso, ogni ingiustizia sarà superata e stabilita la giustizia. La vittoria dell’amore sarà l’ultima parola della storia del mondo». www.luigiaccattoli.it
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