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Non é vero che abbiamo poco tempo: la verità é che ne perdiamo molto Lucio Anneo Seneca
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 15 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
A parole si va forte: Mosca mette al bando il raìs
Il mondo è fermo Gheddafi vince Ue, Usa e Lega araba si paralizzano a vicenda su chi deve guidare la no-fly zone. Risultato: nessuno si muove e il Colonnello marcia verso Bengasi continuando a far strage del suo popolo. Vediamo se oggi a Parigi il G8 deciderà qualcosa
Allarme fusione al reattore 3. Tokyo chiede aiuto a Washington e nel pianeta si diffonde il panico
di Luisa Arezzo
ROMA. Le forze leali a Muammar Gheddafi stanno intensificando gli attacchi su entrambi i fronti della battaglia in Libia, a ovest verso la Tunisia e soprattutto a est, marciando verso Bengasi, dove si deciderà la lotta contro i ribelli. Ribelli che hanno dichiarato di aver ripreso la città di Brega la scorsa notte - poche ore dopo averla lasciata - ma la notizia, non verificabile, appare più che altro un tentativo di mostrarsi ancora in grado di rispondere agli attacchi del regime. Perché le verità è che le truppe di Gheddafi avanzano. E Bengasi, roccaforte dell’opposizione, non è più così lontana.
Sindrome Fukushima Le conseguenze (italiane) del disastro
Non si può governare l’energia con la paura di Francesco Pacifico lla Borsa dei sentimenti le quotazioni dell’atomo sono a dir poco schizofreniche. Fino alla scorsa settimana – e con il greggio sopra i cento dollari al barile, la benzina oltre gli 1,6 euro al litro e i campi petroliferi libici senza più un padrone – guai a dissentire da Emma Marcegaglia, quando sottolineava che «il tema del nucleare va posto in maniera laica: siamo l’unico paese Ocse che non lo utilizza». E infatti quasi nessuno l’ha fatto. Poi cambiano le emergenze e anche le priorità sembrano diverse. E così l’atomo è tornato a essere una tecnologia pericolosa, obsoleta e costosa, per colpa della “sindrome giapponese”. a pagina 2
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Il parere dell’ex presidente della Banca Mondiale
di Pierre Chiartano
ROMA. Il Giappone zoppica nel lunedì dopo l’apocalisse. E lotta per evitare una sindrome cinese, cioè la fusione totale del nocciolo di un reattore nucleare. Il gigante d’efficienza, il modello di potenza economica, il Paese che ha prodotto un popolo che sta affrontando con assoluta dignità e disciplina un disastro di proporzioni mai viste prima, sembra ferito seriamente. L’energia scarseggia e l’elettricità è stata razionata in una vasta area, inclusa Tokyo. Un’altra scossa di magnitudo 6.2 ieri ha fatto di nuovo tremare la capitale e gli esperti affermano che potrebbe arrivarne presto un’altra ancora più forte. Mentre le continue esplosioni nelle centrali fanno tremare il mondo. E aumentano le vittime, con la macabra compilazione delle liste degli scomparsi. a pagina 2
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
La sete di petrolio sta affondando l’Occidente di Paul Wolfovitz
51 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
L’impotenza delle chiacchiere di Mario Arpino i no-fly zone sulla Libia si continua a parlare in tutti i fori. L’Unione Europea si è pronunciata nel vertice di venerdì 11, ha detto molte cose, ma di realmente operativo non c’è davvero nulla. a pagina 7
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LA POLITICA DEI RINVII
Finora l’oro nero ha causato soltanto guai: a noi, alla Libia e a tutta l’Africa pagina 8
DIPLOMAZIE E BUROCRAZIE
Qualcuno fa il tifo per il dittatore di Osvaldo Baldacci a Libia non è Cartagine, ma certo ci sono spunti che fanno effetto a richiamarli alla memoria. E chissà se non possano essere utili a capire un futuro sempre più buio. a pagina 7
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IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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l’allarme nucleare
la polemica Un dibattito all’insegna dell’allarmismo
Non si governa l’energia con la paura di Francesco Pacifico lla Borsa dei sentimenti le quotazioni dell’atomo sono a dir poco schizofreniche. Fino alla scorsa settimana – e con il greggio sopra i cento dollari al barile, la benzina oltre gli 1,6 euro al litro e i campi petroliferi libici senza più un padrone – guai a dissentire da Emma Marcegaglia, quando sottolineava che «il tema del nucleare va posto in maniera laica: siamo l’unico paese Ocse che non lo utilizza». E infatti quasi nessuno l’ha fatto. Poi cambiano le emergenze e anche le priorità sembrano diverse. E così l’atomo è tornato a essere una tecnologia pericolosa, obsoleta e costosa. Con la “sindrome giapponese” che ci impone di considerare le centrali di Fukushima i Onagawa e Tokai come le Chernobyl del nuovo secolo. E poco importa che gli scienziati si astengano dall’emettere sentenze.
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Il prossimo 12 giugno si voterà sul referendum proposto dall’IdV per abrogare le norme volute dal governo Berlusconi per la «realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare». Ci sono già tutti gli elementi per l’ennesima guerra di religione: come se la sicurezza, quando mancano soldi e regole sulle future centrali, sia il principale ostacolo nel tentativo di recuperare il tempo perduto. E l’Italia sembra sprofondare indietro di vent’anni. Dimentica che, per il nostro fabbisogno energetico, siamo dipendenti per l’85 per cento dalle fonti esteri. Considera una bestemmia ricordare che le imprese pagano in bolletta il 35 per cento in più rispetto ai concorrenti europei. E si convince che siano più lontani i confini di Francia, Slovenia o Austria dove gli impianti, alcuni persino obsoleti, fanno bella mostra di sé. Chiariamo, è vero che l’Italia, Paese fortemente sismico, non è soggetto a scosse forti come quelle giapponesi. E che le vecchie centrali (Trino, Caorso e Montalto) si sono sempre costruite in luoghi geologicamente stabili. Ma come diceva il premio Nobel Carlo Rubbia «non esiste un nucleare sicuro, esiste un calcolo delle probabilità, per cui ogni cento anni un incidente è possibile». Eppure, il dibattito, se ci sarà, sarà all’insegna degli isterismi: vedrà protagonisti attori prestati alla politica e divulgatori televisivi di bell’aspetto, non i cattedratici.
Il riformista Bersani, schierando il Pd sul fronte del Sì perché non convinto «dal piano del governo», rischia di rifare lo stesso errore commesso dalla segreteria del Pci nel 1987. Allora si preferì mettere alla berlina la destra riformista dei Napoleone Colajanni e dei Giovan Battista Zorzoli per non perdere consensi rispetto a un Psi che dopo Chernobyl si era scoperto ambientalista soltanto per colpire negli anni della Staffetta la Dc. Con il risultato, oggi come allora, di dare fiato alle istanze più massimaliste. Negli anni Sessanta il fisico Alvin Weinberg parlava di un «patto col diavolo», attraverso il quale «noi nuclearisti possiamo fornire energia a condizione che le società future assicurino una stabilità politica e istituzioni quali mai si sono avute finora». Per il momento il governo ha messo in campo l’ottuagenario Umberto Veronesi, alla guida dell’Agenzia sulla sicurezza nucleare.
il fatto Il Giappone sempre più in difficoltà chiede aiuto agli Usa contro il rischio atomico
Sindrome Fukushima
È allarme rosso nella centrale del Nord Est, dove le «barre sono parzialmente fuse». E intanto la Germania decide di chiudere i primi due impianti «troppo vecchi» di Pierre Chiartano
ROMA. Il Giappone zoppica nel lunedì dopo l’apocalisse. E lotta per evitare una sindrome cinese, cioè la fusione totale del nocciolo di un reattore nucleare. Il gigante d’efficienza, il modello di potenza economica, il Paese che ha prodotto un popolo che sta affrontando con assoluta dignità e disciplina un disastro di proporzioni mai viste prima, sembra ferito seriamente. L’energia scarseggia e l’elettricità è stata razionata in una vasta area, inclusa Tokyo. Un’altra scossa di magnitudo 6.2 ieri ha fatto di nuovo tremare la capitale nipponica e gli esperti affermano che potrebbe arrivarne presto un’altra ancora più forte. Mentre le continue esplosioni nelle centrali atomiche fanno tremare il mondo.Aumentano le vittime, come prevedibile, con la macabra compilazione delle liste degli scomparsi. Intere cittadine, villaggi di pescatori cancellati dall’onda nera di fango e mare. Migliaia di persone inghiottite nel buio. Non abbastanza i pochi minuti di preavviso del pur efficiente sistema anti-tsunami nipponico. Solo chi era in posizioni sopraelevate si è salvato. Superstiti sotto il fango non ce ne sono. Per far capire il senso e le dimensioni della tragedia citiamo, ad esempio, la cittadina di Minamisanriku, dove sono stati avvistati mille cadaveri e all’appello mancano 50mila persone. Il prezzo in vite umane sarà altissimo. Mentre continua il tam tam di agenzie sull’allarme nucleare che, soprattutto in Italia, verrà anche utilizzato nelle dibattito su nucleare-sì, nucleare-no. Ma diventa un po’ un problema
per tutti quei Paesi che hanno fatto una scelta a favore dell’energia prodotta dall’atomo, e che vedevano il Giappone come detentore dello lo stato dell’arte in fatto di sicurezza nucleare. Nel chiacchiericcio mediatico si riesce a fare una gran confusione, persino tra «fusione» nucleare e fusione delle barre del reattore dovuta al surriscaldamento, quella che in gergo viene chiamata «sindrome cinese» che ha fine giornata veniva data per innescata a Fukushima.
«Non ci sono conseguenze immediate per gli europei. I livelli di radiazione in tutti gli Stati membri sono al momento normali» è la valutazione della Commissione Ue sul rischio nucleare proveniente dal Giappone. E dal Sol Levante cercano di tranquillizzare i propri cittadini e gli attori internazionali. A inzio giornata, ieri, si dava per conclusa l’emergenza per due dei reattori della centrale nucleare di Fukushima danneggiati dal terremoto. Lo affermava l’agenzia Kyodo citando la Tepco, la società che gestisce gli impianti.Tutto correva seguendo il livello dell’acqua che si alzava e si abbassava lasciando le barre scoperte. Ma il terremoto non rischia solo di danneggiare le infrastrutture e l’ambiente, perché il sisma si è propagato anche alla Borsa. Lunedì mattina l’indice Nikkei perdeva il 5 per cento, costringendo la Banca centrale giapponese a bruciare dei preziosissimi yen – da utilizzare per la ricostruzione –
l’allarme nucleare
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la testimonianza
«Il vero pericolo sono le piogge radioattive» Il racconto di Lorenzo Guerrini, ricercatore italiano, che da otto mesi vive in Giappone ROMA. «Il timore maggiore è legato alla fuoriuscita di materiale radioattivo da uno dei reattori della centrale di Fukushima, dal momento che il liquido di raffreddamento, in seguito alla rottura dei condotti è venuto a contatto con l’uranio. Per questo motivo il vapore acqueo è contaminato e sul Giappone c’è una nube tossica che potrebbe cadere al suolo in caso di pioggia». Lorenzo Guerrini è un ricercatore italiano che, dopo una serie di contratti a termine con il Cnr e un dottorato in medicina molecolare, otto mesi fa è arrivato in Giappone per fare il postdoc in un laboratorio di immunologia alla Tokyo medical university. Lui milanese di 33 anni ha sposato una pittrice giapponese, conosciuta in Italia dove frequentava l’Accademia di Brera. Dove potrebbe cadere la pioggia radioattiva? Dipende dal vento. Se dovesse spirare verso Est potrebbe dirigersi verso l’oceano, altrimenti le precipitazioni ci saranno sul Giappone. Con quali conseguenze? La pioggia radioattiva è pericolosa se colpisce direttamente le persone, perché in questo modo si rimane esposti al materiale radioattivo nel tempo. Quali precauzioni hanno adottato le autorità nipponiche? Hanno invitato le popolazioni che risiedono vicino alla centrale a evitare di uscire da casa, o di respirare protetti da asciugamani bagnate. Il problema al Nord è però un altro. Quale? In quelle zone una casa o un tetto sotto cui ripararsi non ce l’hanno e questa situazione aumenta i problemi legati alla nube tossica e alle conseguenti
di Franco Insardà piogge radioattive. Senza dimenticare che per raffreddare il terzo reattore si potrebbe utilizzare acqua marina, provocando così un’ulteriore emissione di vapore radioattivo. Che cosa succede in caso di contaminazione? Dal punto di vista biologico c’è l’alterazione delle molecole. Quando si tratta di proteine non è molto pericoloso, dal momento che hanno una emivita che va dai minuti ai giorni. Il problema diventa molto serio quando viene danneggiato il Dna, perché in questo caso l’informazione genetica viene trascritta in maniera alterata e soprattutto è trasmessa alle altre cellule generate da quella danneggiata. Con quali conseguenze? Tumorigenesi dovute alle radiazioni. E questo è, ovviamente, il motivo dell’allarme. Il problema potrebbe essere limitato se le nuvole vanno verso il mare e se il nocciolo non fonde. In quest’ultimo caso non dovrebbe esserci un’ulteriore emissione di materiale radioattivo, bisognerà fare attenzione alla prima pioggia e alla data di produzione del cibo che si mangia. Se la centrale sfugge al controllo allora la situazione si complica parecchio. Lei milanese si è ritrovato al centro di una simile tragedia: come l’ha vissuta? In vita mia avevo avvertito solo una piccola scossa a Milano, qualche anno
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fa, che rispetto a quelli che ci sono in Giappone era davvero poca cosa. Invece venerdì scorso? Tutta un’altra situazione. La scossa era talmente violenta che si faceva fatica persino a stare carponi. Ero in istituto a Tokyo e grazie all’esperienza dei colleghi giapponesi sono riuscito a tenere sotto controllo la situazione e a intraprendere quelle poche azioni che fanno la differenza. Quali? Mettersi sotto a un tavolo per evitare
I giapponesi hanno reagito in maniera eccezionale, a Tokyo poche ore dal terremoto non c’era neanche un calcinaccio per strada
per stabilizzare il mercato alla riapertura nel dopo-terremoto. Più di 180 miliardi di dollari immolati sull’altare della speculazione finanziaria. Il governo di Tokyo come i suoi cittadini sanno cosa c’è in gioco, devono resistere, devono assolutamente tornare alla normalità. L’immagine di un Paese colpito, ma che funziona deve prevalere. Sotto questa luce va dunque letta una notizia altrimenti stravagante: la tournee del Maggio Musicale fiorentino in Giappone voleva continuare a meno di un ordine di rientro dall’Italia. Poi è comparsa una petizione e un gruppo su Facebook per chiedere la sospensione delle esibizioni e il rientro dei musicisti in Italia, probabilmente promossa da amici e parenti degli orchestrali. Infine l’ordine di spostarsi in Cina. Per i giapponesi far proseguire le esibizioni dei musicisti italiani, diretti da Zubin Metha, rifletteva la voglia di reagire al disastro, così come la voglia di condividere le sofferenze del popolo nipponico ha spinto la famiglia imperiale a chiedere che le proprie residenze non vengano esentate dalle interruzioni di energia che si avranno in molte aree del Paese. Una lezione di stile che certa classe politica italiana dovrebbe imparare. Per tutto il weekend si era parlato di sicurezza nucleare, rivedendo come alla moviola le immagini dell’esplosione della sovrastruttura del reattore a nord di
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Tokyo, quando ieri arriva un aggiornamento che distrugge un po’ di fiducia. A Fukushima erano avvenute delle deflagrazioni: esattamente al reattore tre e al numero due, dove è entrato in avaria il sistema di raffreddamento. Le esplosioni, avvenute alle 11 ora locale, le 3 del mattino in Italia, sono state generate dall’idrogeno. Nel secondo reattore le barre d’uranio sarebbero rimaste scoperte, senza più alcuna protezione e quindi in grado di irradiare direttamente l’atmosfera circostante. Sono undici i feriti, e almeno uno dei militari impegnati nell’impianto è risultato contaminato da ra-
Anche se il governo e l’agenzia preposta alla sicurezza atomica continuano a ripetere come un mantra che «non ci sarà una nuova Chernobyl» che tutto «è sotto controllo», gli Usa hanno spostato una portaerei, che era in missione umanitaria, facendola allontanare dall’area, dopo aver accertato livelli di radiazioni anormali a 160 chilometri dalla costa. Intanto il governo ha fornito 230mila pastiglie di iodio nei centri di evacuazione come misura precauzionale nell’ambito dell’emergenza nucleare. Lo riferisce l’agenzia Onu per il nucleare. L’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), citando le autorità giapponesi, ha dichiarato che a ieri erano stati evacuati circa 185mila residenti nelle zone vicine agli impianti nucleari danneggiati. Decine di migliaia di soldati e squadre di soccorso sono stati spostati nelle zone più colpite. Nella prefettura di Miyagi, dove mancano all’appello 10mila persone, i soccorritori hanno trovato 2mila corpi. Milioni di persone sono ancora senza acqua, cibo, elettricità o gas; centinaia di migliaia i senzatetto. Le buone notizie invece sono per noi. I ventinove italiani presenti nell’area colpita dallo tsunami «sono stati identificati, stanno tutti bene e sono al sicuro». Lo ha confermato l’ambasciatore italiano a Tokyo,Vincenzo Petrone. Il diplomatico ha poi riferito che «tutti i 254 segnalati come non rintracciabili sono stati ritrovati».
Altre esplosioni nelle centrali nipponiche. Si lotta per evitare una sindrome cinese. La portaerei Usa in missione umanitaria si allontana dalla costa per l’allarme radiazioni diazioni. Secondo quanto ha reso noto l’Agenzia internazionale dell’energia atomica (Aiea), le strutture di contenimento del reattore non sarebbero state danneggiate. Nelle altre due centrali in cui la situazione era più critica, quelle di Onagawa e Tokai, sono stati rimessi in funzione gli impianti di raffreddamento. E come per un malato grave cui la prognosi rimane “riservata” anche per le centrali terremotate la questione è aperta. È la linea di galleggiamento nucleare.
che le bottiglie di soluzione cadano in testa, indossare le scarpe prima di uscire (nei laboratori giapponesi si tolgono ndr), per evitare di ferirsi e per correre più agevolmente. E aprire la porta prima di rifugiarsi al coperto, per evitare che la serratura possa incastrarsi nel telaio. Come giudica i soccorsi. Efficientissimi, considerato anche l’intensità delle scosse e il successivo tsunami. Tenga presente che l’allerta tsunami viene evidenziata in tv sulla cartina del Giappone con i contorni evidenziati da diversi colori, a seconda della pericolosità. Loro sono preparati a gestire anche questo evento e questo fa capire anche l’anomalia e la violenza di quest’ultimo: il più forte di sempre. Oggi qual è la situazione? Il Paese è in ginocchio e tutti considerano questa tragedia seconda solo alla Seconda guerra mondiale. Tokyo, dove abito, ha reagito in maniera eccezionale, gli edifici sono tutti agibili e già la sera stessa di venerdì non ho visto neanche un calcinaccio a terra. Quanto tempo starà ancora in Giappone? Il mio contratto dura due anni, ma potrebbero non essere sufficienti per la ricerca. Spero che, grazie ai risultati che otterrò, mi venga rinnovato. Il livello della ricerca nel laboratorio dove sono è stratosferico ed è una esperienza che mi sta arricchendo da tutti i punti di vista. Tornerà in Italia o si considera un cervello in fuga? Sono stato ricercatore del Cnr con contratti a termine, spero con le pubblicazioni e le ricerche di partecipare e vincere qualche concorso in Italia.
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l’allarme nucleare
Dall’incidente di Three Miles Island in poi, l’emotività ha sempre avuto un grande peso nelle scelte energetiche mondiali
Paura atomica
Il disastro giapponese riapre una ferita antica: il rapporto tra nucleare e immaginario è sempre stato governato dal timore di incidenti. Ma, da Chernobyl in poi, è chiaro che non si governa l’energia sotto la spinta dell’emotività onviene far bene l’amore» è un filmetto del 1975 di Pasquale Festa Campanile, da un suo romanzo e con un Christian De Sica al suo primo ruolo da protagonista. Un inconsueto cocktail tra fantascienza e commedia sexy all’italiana, nel ritratto di un mondo del futuro ridotto dalla crisi energetica a tornare a cavalli e biciclette, in cui uno scienziato semifolle interpretato da Gigi Proietti inventava un modo per produrre elettricità dai rapporti sessuali, riuscendo così a far riaccendere le lampadine spente da decenni. «Sindrome cinese» è invece un prodotto hollywoodiano del 1979 che farà avere a Jack Lemmon la Palma d’Oro di Cannes. Parla di una giornalista (Jane Fonda) e di un cameraman che girando un documentario su una centrale assistono ad un incidente al sistema di raffreddamento del nocciolo, anche se l’emergenza è poi dominata: ma lo scoop è censurato dalla stazione tv, e il cameraman licenziato porta allora il filmato da un ingegnere nucleare che conferma il ri-
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Di Maurizio Stefanini schio di aver fuso il nocciolo del reattore nucleare e di contaminare l’intera California meridionale con una gigantesca fuga radioattiva: la “sindrome cinese”, per l’idea che una simile esplosione possa perforare la crosta terrestre fino a spingersi dagli Usa alla Cina.
Ovviamente, se il primo è un titolo dimenticato e il secondo è diventato un classico della storia del cinema è dovuto innanzitutto al diverso investimento
Il film «Sindrome cinese», nel 1979, moltiplicò i movimenti di protesta Usa
che c’era dietro le due pellicole, e al maggior impatto che il grande cinema di Hollywood ha sempre avuto rispetto alle sexy-commedie italiane degli anni Settanta. Ma c’è anche un’altra cosa. Il fatto è che «Conviene far bene l’amore» era stato pensato da Pasquale Festa Campanile sotto l’impressione dell’austerity seguita allo shock petrolifero, con le domeniche a piedi in cui gli europei erano costretti ad andare in bicicletta. E nel tempo di portare
bile fuso si raccolse sul fondo del recipiente a pressione. quella storia sullo schermo, le strade dei week-end avevano fatto in tempo a tornare intasate di traffico. Al contrario, «Sindrome cinese» uscì nelle sale Usa il 16 marzo 1979. Esattamente 12 giorni dopo, ci fu l’incidente di Three Miles Island: una centrale nucleare della Pennsylvania in cui un blocco della portata di alimento ai generatori di vapore nel circuito di refrigerazione secondario provocò un arresto di emergenza, senza però che la valvola di rilascio si richiudesse, né che gli operatori se ne accorgessero. Il circuito di raffreddamento primario dunque si vuotò parzialmente, il calore residuo del nocciolo del reattore non poté essere smaltito, e il nocciolo stesso fuse parzialmente. Quell’unità dovette dunque essere chiusa ed è ancora oggi sotto monitoraggio, anche se va ricordato che non ci fu nessun morto. Inoltre, né a The Miles Island e neanche nel ben più letale disastro di Chernobyl la sindrome cinese si verificò. Anzi, in Pennsylvania il combusti-
Con tutto ciò, fu proprio da Three Miles Island che prese impeto mondiale quel movimento anti-centrale nucleari che dopo Chernobyl avrebbe portato in Italia a quei referendum che portarono alla nostra fuoriuscita dalla produzione del nucleare: non dal nucleare, visto che continuiamo a comprare l’energia prodotta dalle centrali nucleari francesi. In effetti, una prima protesta pionieristica c’era stata nel 1963 in California, ed era riuscita a bloccare un progetto per una centrale nucleare a Bodega Bay, un villaggio di pescatori nei pressi di San Francisco. Nel 1972 si era creata una Clamshell Alliance che in 13 anni avrebbe portato 4000 persone a protestare contro un progetto di centrale nucleare in New Hampshire. E tra 1977 e 1982 oltre 200 persone furono arrestate nel corso delle proteste organizzate dalla Abalone Alliance contro un altro progetto di centrale nucleare in California. Ma è nel maggio del 1979,
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Un grande esperto in materia analizza le conseguenze del terremoto sugli impianti nipponici
Ipotesi di una catastrofe (che ancora si può evitare)
Dallo scenario peggiore (esplosione dei reattori 1 e 3) a quello migliore (rilascio controllato delle emissioni in atmosfera): ecco cosa ci aspetta problemi ai tre reattori della centrale di Fukushima sono dipesi dal blackout elettrico che ha mandato in avaria i sistemi di refrigerazione dei reattori, spentisi automaticamente dopo il terremoto di magnitudo 9. Quando i reattori si fermano il combustibile continua a emettere calore ed è tenuto stabile dal sistema di raffreddamento alimentato da generatori diesel. Senza refrigerazione, però, la pressione è aumentata e si è formato dell’idrogeno che, entrato in contatto con l’ossigeno, ha generato l’esplosione che ha scoperchiato la sovrastruttura dell’edificio del Reattore 1. Altre due esplosioni, sempre per lo scarico controllato di vapore e gas di contenimento che ha reso instabile l’idrogeno, sono avvenute ieri nel Reattore 3, con una bassa fuga radioattiva. Cerchiamo di capire cosa potrebbe accadere nel bene e nel male.
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Nel male: nel Reattore 1 si sta pompando acqua di mare con acido borico sulle barre di combustibile per tenere sotto controllo la temperatura del nocciolo ed evitarne la fusione. I minuti in cui le barre di combustibile si sono trovate senza liquido freddo potrebbero innescare la fusione completa del nocciolo, senza o con il rilascio di grandi quantità di materiale radioattivo in atmosfera. Nel primo caso non ci sarebbe nessun danno, nel secondo sarebbe un disastro. Nel Reattore 2, invece, il livello di liquido refrigerante sta scendendo, con il rischio di aumentare la parte scoperta delle barre di uranio. Si potrebbe ipotizzare un pompaggio di acqua marina borica del reattore. Nel peggiore degli scenari, comunque, l’incidente non sarà “troppo grave”, con bassi rilasci di radioattività in atmosfera. Nel Reattore 3 la situazione è purtroppo identica al Reattore 1, ma qui alcune barre di combustibile sembra si siano rotte. Nel peggiore dei casi si potrebbe contaminare l’acqua di raffreddamento e il vapore liberato per evitare l’accumulo di calore. Un incidente gravissimo, anche se è difficile poter dire l’impatto che la fusione del nocciolo e il rilascio di radioattività potrebbero avere. Certamente è l’incidente più “grave” possibile e con potenziali effetti disastrosi. La centrale di Fukushima si trova a 250 km a nord di Tokyo. Molto dipenderà dalla velocità e dalla direzione del vento. Qualcosa di più preciso si potrà sapere tra 23 giorni. Oggi, il vento soffia verso Est, sull’Ocea-
di Davide Urso no Pacifico, in direzione dello tsunami che sembra essere passato. E nei prossimi giorni è prevista pioggia, che farebbe cadere al suolo gli elementi radioattivi. La somma del trascinamento radioattivo dell’acqua e del fallout avrebbe un’estensione piuttosto ampia. I disastri più che sanitari sarebbero ambientali e servirebbero al-
La fusione del nocciolo potrebbe avere effetti terribili. Ma molto dipenderà dal vento meno dieci anni per far ritornare i territori contaminati fruibili per l’uomo. Comunque sia, nel peggiore degli scenari, la quantità di radioattività rilasciata sarebbe molto inferiore a quella di Chernobyl.
Nel bene: gli 11 reattori coinvolti dalla violenza del terremoto si sono automaticamente spenti (3 a Fukushima-1, 3 a Onegawa, 4 a Fukushima-2 e 1 a Tokai), mentre continuano a funzionare regolarmente le altre 43 centrali nucleari in Giappone. L’Aiea ha reso noto che i 3 reattori della centrale di Onagawa sono sotto controllo e che i livelli di radioattività vicino la centrale stanno scendendo. I danni sanitari e ambientali saranno dunque nulli. Il sistema di raffreddamento del reattore 2 della centrale di Tokai, 120 km a nord di Tokyo, funziona perfettamente. Per i Reattori 1 e 3 di Fukushima, il doppio sistema di contenimento dei reattori (guscio in acciaio dentro una struttura blindata di cemento armato di grande spessore) e i contenitori che proteggono il nocciolo e che prevengono il rilascio incontrollato di radioattività hanno retto perfettamente ad un tale terremoto, allo tzunami e alle forti esplosioni. I vessel dei reattori non hanno subito danni. Per il Reattore 3, il sistema di contenimento primario è rimasto intatto e la sala di controllo del reattore è operativa senza danni ingenti.
Ciò ha permesso di rilasciare vapori contaminati in modo controllato per ridurre la pressione e i rischi di fusione. Se non ci fosse stato il blocco dei sistemi ausiliari (il generatore diesel non ha funzionato per mera mancanza di elettricità) non sarebbe successo nulla.
due mesi dopo Sindrome cinese e Three Miles Island, che il governatore della California Jerry Brown, quello ora rieletto, si mette alla testa di 65.000 manifestanti anti-nucleari che sfilano a Washington. A settembre saranno 200.000, e nel giugno del 1982 un milione. Da notare però che Isaac Asimov, pur restando un difensore del nucleare civile, immagina una terra resa inabitabile da un avvelenamento radioattivo innescato sulle rovine di Three Miles Island proprio nel 1985: un anno prima di Chernobyl.
N a t ur a lm e nt e , i pr o bl e mi Ciò dimostra che, pur essendo Fukushima una centrale vecchia di 40 anni, i sistemi di sicurezza nella loro ridondanza, separazione e segregazione hanno tenuto benissimo ad uno dei più gravi cataclismi ambientali della storia. La quantità di materiale radioattivo rilasciato dal Reattore 1 subito dopo l’esplosione è stata assai limitata. La buona notizia è che il livello di radioattività e di pressione all’interno dei reattori sta diminuendo. Grazie agli altri standard di sicurezza, l’Autorità nucleare giapponese ha classificato l’incidente al livello 4 della scala Ines (nessuna contaminazione radioattiva dell’ambiente circostante, ma danni a cose e persone a diretto contatto con la zona del reattore). La scala va da 1 (anomalia) a 7 (incidente grave). Per gli unici due incidenti della storia nucleare, Chernobyl è stato classificato di livello 7 e Three Mile Island di livello 5. La società Tokyo Electric Power, gestore della centrale di Fukushima, ha dichiarato che l’emergenza nucleare per i Reattori 1 e 2 si può definire finita. I livelli di radioattività vicino l’impianto sono appena il doppio dei limiti previsti dalla legge giapponese. Tali limiti, se confermati, non avranno conseguenze sulla salute dei cittadini. I protocolli di sicurezza in caso di incidente nucleare sono i più avanzati al mondo. E l’immediata evacuazione da parte delle autorità giapponesi di circa 140.000 residenti nell’area della centrale è al momento una precauzione normativa ma necessaria. Infine, una scossa di assestamento di magnitudo 6,2 (la stessa che ha colpito L’Aquila) ha interessato la centrale nucleare, senza provocare il minimo danno.
del nucleare civile erano stati discussi anche in testi di tipo analitico. Al 1975 risale ad esempio Non-Nuclear Futures: The Case for an Ethical Energy Strategy, di Amory B. Lovins e John H. Price, che contestava l’idea stessa di una società ad alto consumo di energia. Del settembre 1976 è quel Flower’s Report di una Commissione ufficiale britannica sull’inquinamento, che consigliava di soprassedere sull’energia nucleare fino a quando i possibili problemi non fossero stati risolti «oltre ogni ragionevole dubbio». Pure del 1976 è The Nuclear Power Controversy di Arthur W. Murphy: membro di una commissione ufficiale Usa sull’energia e docente emerito alla Columbia University, non però di materie scientifiche bensì giuridiche. Ma si tratta di libri a circolazione essenzialmente elitaria, il cui impatto è stato certamente molto minore da quello di Sindrome Cinese e dei due incidenti di Three Miles Island e Chernobyl. Dopo i quali, le cifre dei partecipanti alle iniziativa antinucleari sono passati dalle centinaia alle centinaia di migliaia. È vero che nella paura del nucleare civile ha finito per confluire la paura del nucleare militare, i cui titoli solo a livello hollywoodiano sono miriade: Il dottor Stranoamore, L’ultima spiaggia, Il pianeta delle scimmie, The day after… Al contrario, c’è un testo che fin dal 1956 presentò il rischio dell’esaurimento del petrolio: ma si trattava di una pubblicazione accademica per un convegno, che dal suo autore Marion King Hubbert fu ribattezzata “Picco di Hubbert”. È vero che a livello di saggistica i titoli sul rischio dell’esaurimento energetico negli ultimi anni sono diventati numerosi: fino al famoso libro del 2002 di Jeremy Rifkin sull’Economia all’idrogeno. «Picco di Hubbert» è stato pure intitolato un episodio della serie tv West Wing Tutti gli uomini del Presidente. Per il momento, però, il Picco di Hubbert non è ancora arrivato a Hollywood. Né, ha suscitato ancora marce di protesta. Forse perché dalle auto alle biciclette non siamo stati ancora costretti a tormare…
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la crisi libica Un guerrigliero armato fino ai denti mostra le munizioni con cui l’esercito lealista del raìs «si riprenderà Bengasi». In basso, due componenti della resistenza anti-regime. Lo scontro in atto in Libia sembra essere, secondo fonti non confermabili, molto cruento. Da una parte c’è un piccolo esercito male addestrato e armato con gli scarti; dall’altra, i mercenari che Gheddafi ha ingaggiato tempo fa
Il raìs tende la mano a India, Cina e Russia: «Vi darò il petrolio». E Mosca mette al bando la sua famiglia
L’avanzata del Colonnello I lealisti del regime marciano verso Bengasi. E il dittatore promette salva la vita ai militari che lasceranno gli insorti. Al Jazeera: «Usa, Gb e Francia dicono sì alla “no fly zone” in Cirenaica». Ma non ci sono conferme. Oggi il G8 a Parigi e forze leali a Muammar Gheddafi stanno intensificando gli attacchi su entrambi i fronti della battaglia in Libia, a ovest verso la Tunisia e soprattutto a est, marciando verso Bengasi, dove si deciderà la lotta contro i ribelli. Ribelli che hanno dichiarato di aver ripreso la città di Brega la scorsa notte - poche ore dopo averla lasciata - ma la notizia, non verificabile (è stata confermata solo da Hadi Shalluf, esponente dell’opposizione e leader del neonato partito per la giustizia e la democrazia), appare più che altro un tentativo di mostrarsi ancora in grado di rispondere agli attacchi del regime. Perché le verità è che le truppe di Gheddafi avanzano. E Bengasi, roccaforte dell’opposizione, non è più così lontana. Mentre la comunità internazionale parla, ma non agisce. Ad Ajdabiya, ultimo feudo dei ribelli prima di Bengasi, ieri i bombardamenti hanno proseguito tutto il giorno. Quattro colpi di obice, secondo al-Jazeera, avrebbero raggiunto un ospedale militare alle porte del-
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di Luisa Arezzo la città, ma non avrebbero fatto vittime. Il comandante militare degli insorti, il generale Abdel Fattah Yunis, ha ribadito l’intenzione di difendere la città fino alla fine. Ajdabiya, ha detto, è una città «vitale, strategica». Ma le forze del regime stanno attaccando anche Zuara, vicino al confine con la Tunisia, dove una persona sarebbe morta e sette sarebbero rimaste ferite.
Intanto, Gheddafi ha fatto sapere - grazie a un annuncio mandato in onda dalla televisione di stato libica - che i soldati che hanno disertato per unirsi agli insorti saranno «graziati» se deporranno le armi e si arrenderanno. E questo perché sono tantissimi i militari - anche se il numero preciso non è quantificabile - che si sono uniti agli insorti dall’inizio della rivolta. E adesso che il Colonnello sente odore di vittoria, sa che un sal-
vacondotto può diventare una merce di scambio appetibile. E nella stessa ottica va letta la sua provocatoria dichiarazione, sempre di ieri, destinata a cercare di rompere l’isolamento internazionale. Il raiss ha offerto a Russia, Cina e India di sostituirsi all’Occidente e alle sue compagnia
nello sfruttamento delle ricchezze petrolifere libiche. Nessuno, al momento, sembra aver risposto all’appello, ma nulla è evidentemente da escludere. Va però detto che sul fronte diplomatico, la maggiore novità riguarda la decisione del presidente russo, Dmitry Medvedev, di firmare un decreto che proibisce l’ingresso e il transito sul territorio russo a Gheddafi e alla sua famiglia. Il capo del Cremlino ha firmato il decreto sull’attuazione della risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu numero 1970, datata 26 febbraio 2011. Il decreto proibisce anche qualsiasi operazione finanziaria in Russia da parte del rais e del suo entourage. Nella lista delle persone interdette all’ingresso e alle operazioni finanziarie, precisa l’agenzia Interfax, figurano anche la figlia Aisha e i figli Hannibal e Saif. Si continua intanto a discute-
re dell’imposizione di una no-fly zone. I ribelli sembrano sicuri stando ad Al-Jazeera - che Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia abbiano sostenuto l’ipotesi di una zona d’interdizione al volo sulla Libia al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite tenutosi ieri a porte chiuse. Ma a Washington, al momento, non sembrano così convinti di farlo. Un portavoce del Pentagono, Geoff Morrell, ha dichiarato alla Msnbc che «si tratta di una decisione che non è stata ancora presa», anche se è un’opzione «tenuta in considerazione».
Comunque, se Francia e Gran Bretagna sono favorevoli alla No fly-zone, Italia e Germania sono più caute, e in seno alla stessa amministrazione di Barack Obama non mancano le perplessità. Se il segretario di Stato, Hillary Clinton, è parso favorevole, tutt’altro che entusiasta si è dimostrato il capo del Pentagono, Robert Gates. E oggi si a Parigi, i ministri degli Esteri del G8, cercheranno di trovare la quadra al complesso mosaico di posizioni. Durissi-
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Ue, Nato, Lega Araba, Ua: tutti ne parlano, nessuno fa nulla
La comunità internazionale non deve perdere altro tempo
No fly zone? Tanto fumo e niente arrosto
Se Gheddafi vince, domani sarà peggio. Per tutti
di Mario Arpino
di Osvaldo Baldacci
i no-fly zone sulla Libia si continua a parlare in tutti i fori. L’Unione Europea si è pronunciata nel vertice di venerdì 11, ha detto molte cose, ma di realmente operativo non c’è davvero nulla. C’è la posizione di Lady Ashton, convinta che per intraprendere nuove sanzioni sia prima necessario attendere i risultati di quelle attuali. Cioè diversi anni, visto che la Libia è da sempre abituata a convivere con le sanzioni. E quell’altra, secondo la quale per muovere passi concreti occorre prima attendere il risultato del vertice straordinario della Lega Araba, riunitosi al Cairo sabato 12, e sentire l’Unione Africana. Anche la Nato è in stand-by, visto che si attendono piani del suo principale azionista per martedì 15. Sebbene le posizioni di Robert Gates vengano a volte smentite da Barak Obama - sempre cauto il ministro repubblicano e spesso interventista il presidente democratico - in questo caso qualcosa è stato detto. A conclusione della sua visita in Bahrein, Gates ha infatti anticipato che non è in discussione «…la questione se noi o i nostri alleati possiamo fare o meno la no-fly zone sulla Libia. Noi la possiamo fare», ha dichiarato ai giornalisti.
a Libia non è Cartagine, ma certo ci sono spunti che fanno effetto a richiamarli alla memoria. E chissà se non possano essere utili a capire un futuro che si fa buio. Le cose cui mi riferisco sono avvenute tra la fine della prima guerra punica e l’inizio della seconda, nel III secolo a.C. L’esercito carataginese era un’armata di mercenari e - terminata la guerra in Sicilia con Roma - Cartagine si trovò a dover affrontare una gigantesca e sanguinosissima rivolta di mercenari, eccitati dalla violenza e rimasti disoccupati. Qualche anno dopo, come è noto, Cartagine si riprese, e il suo espansionismo guidato da Annibale arrivò all’assedio della città spagnola di Sagunto, alleata dei romani. Famoso l’aforisma «Mentre a Roma si discute Sagunto cade». Ma va anche ricordato che dopo Sagunto venne la grande marcia di Annibale con le sue eclatanti vittorie e dieci anni di saccheggi in Italia. Ecco, anche oggi Gheddafi ricorre a un esercito di mercenari per ristabilire senza pietà il suo potere, e anche oggi Roma e Bruxelles e New York discutono mentre il Colonnello riafferma spietatamente la sua presa sulla Libia. Se continua così, può vincere, e dopo? Mentre discutono, i politici della comunità internazionale dovrebbero tener conto senz’altro dei diritti umani violati e dell’emergenza umanitaria, ma anche del dopo, che rischia di essere ancor peggiore di quanto sta accadendo ora. Per fermare l’emergenza non bastano le tenui e tentennanti condanne verbali internazionali, né le timide sanzioni di lungo termine. Occorre fare qualcosa di più. Altrimenti i mercenari di Gheddafi avranno senz’altro la meglio sui ribelli, che per ora sembrano essere solo dei giovani volenterosi e assetati di libertà e democrazia. La spietata determinazione del regime può avere la meglio su insorti lasciati soli. A quel punto vedremo il regime distante dalla sua gente doversi appoggiare sempre più ai mercenari in un rincorrersi di vendette e di massacri. Vedremo questi mercenari diventare sempre più padroni del Paese e scatenare i loro istinti se non saranno pienamente soddisfatti.
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Il Consiglio di Sicurezza, intanto, non si muove senza nuove proposte, che sembra stiano arrivando congiuntamente dal nuovo asse franco-inglese e, separatamente, dalla Lega Araba. Ma non vanno nella stessa direzione. I ministri degli Esteri arabi stranamente questa volta qualcosa l’hanno deciso. A smuoverli è stata la frusta del presidente di turno, l’omanita Yussef bin Alawi bin Abdallah, che ha sollecitato all’intervento agitando in faccia ai delegati un’argomentazione convincente. «O interveniamo noi – è stato il senso – o rischiamo che intervengano gli stranieri (i non arabi, ndr) e saranno guai per tutti». Ciò conferma quanto anticipato nell’intervista rilasciata a Luisa Arezzo da un arabo moderato, il professore egiziano Walid Kazziha, secondo cui attacchi mirati e no-fly zone sulla Libia potrebbero anche essere utili, purchè non eseguiti dall’occidente (liberal, 12 marzo). Resta da vedere chi altro sarebbe in grado, anche disponendo dei mezzi, di organizzare una simile campagna, tanto complicata quanto necessariamente coordinata. I radar volanti, gli F16 e gli F15 potrebbero essere giordani, egiziani, sauditi e degli Emirati Arabi Uniti, rischierati su qualche base in Egitto e in Tunisia. I sauditi avevano esperienza di comando e controllo e di no-fly zone, avendo lavorato con la Coalizione durante la guerra per la liberazione del Kuwait e, precedentemente, pattugliando il Golfo durante il conflitto Iran-Iraq. Ma, da allora, sono trascorsi davvero molti anni. Occorrerebbe la costituzione di un comando integrato, una pianificazione precisa e, preliminarmente, un lungo addestramento congiunto. Al momento, tutto poco credibile e Gheddafi avrebbe comunque tutto il tempo necessario per fare piazza pulita. È con questi pensieri in mente che va letta la proposta che il presidente della Lega, l’egiziano Amr Mussa, ha avuto incarico di presentare al Consiglio di Sicurezza. Altra decisione è stata quella di contattare il Consiglio Nazionale Transitorio in Libia e di compiere ogni sforzo diplomatico per appoggiare i ribelli. Ricordiamo che la Libia, sospesa dalla Lega Araba con provvedimento dello scorso 2 marzo, non è stata autorizzata a partecipare al summit, pur avendo già dei rappresentanti al Cairo. Se l’intento dell’Unione Europea fosse stato quello di ritardare ogni decisione, la scelta dei compagni di viaggio non avrebbe potuto essere migliore.
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L’attuale rivolta non è islamista, e in Libia l’islamismo ha una storia particolare. Ma è evidente che se l’occidente lascerà sole le rivendicazioni in qualche modo liberal-democratiche in corso, non farà altro che favorire l’attecchire dell’islamismo peggiore proprio di fronte al nostro territorio. Questa è una responsabilità che bisogna tener ben presente, ben più grave dell’altro rischio più sbandierato, quello dell’immigrazione di massa. Rischio vero anche quest’ultimo, ma che si può scongiurare solo creando in Libia e negli altri Paesi condizioni tali per cui non ci sia voglia di fuggire. Al contrario, permettere che si instauri un regime sempre più incattivito e ostile, e fondato su diverse migliaia di mercenari africani – perfetti per favorire i contatti con i Paesi di emigrazione e mantenere il controllo delle rotte dei mercanti di uomini – non farà che incentivare i flussi di migrazione, anzi, di giustificata fuga. Facile poi prevedere come questo regime chiuso, isolato, inevitabilmente considerato come un pariah dalla comunità internazionale non vorrà e non potrà fare affari con chi non l’ha sostenuto. Come farà l’Italia a commerciare con la Libia, se questa sarà una rocca del terrore con un Gheddafi annidato sul suo trono solitario? Che vantaggio ne avremo? E anzi, non aiutare gli insorti ci danneggia non solo moralmente, ma anche politicamente per il futuro: perché se una vittoria di Gheddafi congelerebbe la Libia rendendocela inutile, certo l’Italia non avrebbe grandi vantaggi da una Libia che si è liberata non grazie a noi ma nonostante noi. Questa tentennante posizione in mezzo al guado non sembra proprio far intravedere alcun vantaggio neanche economico per il nostro Paese.
mo il commento di Michael Novak, direttore di liberal da Washington, che ha detto: «Michelle Obama il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca ha detto di essere sempre stata fiera di essere americana. Ebbene, ieri, per la prima volta nella mia vita, un presidente degli Stati Uniti mi ha fatto vergognare di esserlo. Dei ribelli pronti a tutto in nome della libertà sono stati abbandonati ai colpi di mitra e ai bombardamenti del loro folle e sanguinario dittatore». Meno tranchant e rivolto all’Europa, anche il commento di Rocco Buttiglione, presidente dell’Udc: «Mi chiedo se non si avverta un certo sconcerto a vedere come mentre l’Europa e l’Italia annaspano tra titubanze e tentennamenti i mercenari di Gheddafi riconquistano con il fuoco e con il sangue la Libia».
Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, invece, ha ribadito il no della Turchia a un’azione militare Nato in Libia. La Turchia, unico Paese musulmano all’interno della Nato, nelle scorse settimane aveva preso posizione anche contro le sanzioni Onu ai danni della Libia, poi varate dal Consiglio di sicurezza. Erdogan ha riferito di aver contattato Gheddafi e, pur non essendo riuscito a parlargli di persona, di aver proposto la nomina di un presidente della Repubblica che goda dell’appoggio della popolazione e possa essere accettato da tutte le parti in causa. Il premier ha aggiunto di aver avuto «indicazioni positive» dall’interlocutore, che sarebbe stato un imprecisato «figlio» del colonnello, probabilmente il secondogenito Seif al-Islam. Mentre Gheddafi avanza, ieri anche il Bahrein ha vissuto una giornata ad alta tensione: diecimila persone (un terzo è composto da donne) hanno invaso piazza della Perla, a Manama, capitale del piccolo regno, in una giornata che rischia di far salire il livello dello scontro tra i manifestanti - che chiedono riforme e democrazia - e le forze dell’ordine, dopo lo sbarco nel piccolo regno di oltre mille soldati sauditi, nel quadro della forza comune del Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg). E questo anche perché gli Emirati Arabi Uniti - altro Stato membro del Ccg insieme a Qatar, Oman e Kuwait - si preparano a inviare i propri soldati nel Paese, per «preservare l’ordine e la stabilità». Illuminante l’editoriale di Reem Khalifa sul quotidiano Al Wasat: «Non capiamo l’indifferenza della comunità internazionale, che non dà peso a quello che succede. Al contrario di quanto fanno le altre monarchie del Golfo, che, preoccupate, hanno deciso di intervenire». L’Occidente, anche qui, sta facendo la sua brutta figura.
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la crisi libica
I giacimenti libici? Più che una risorsa si sono rivelati una condanna. Per il popolo, per gli africani (i suoi proventi hanno finanziato molte guerre civili) e per l’Occidente er molto tempo si è creduto a un solo postulato: che le risorse naturali fossero fondamentali per lo sviluppo economico. La Corea del Sud - che ha dimostrato di essere il successo economico più considerevole degli ultimi cinquant’anni - un tempo era considerata destinata al fallimento e senza speranze perché non aveva risorse naturali. Insomma, le cose non stanno come si credeva.Viceversa, è diventato sempre più evidente che il petrolio, così come le altre risorse planetarie, dal gas ai diamanti, sono spesso una maledizione piuttosto che una benedizione. E in nessun posto come in Libia il petrolio è stato una maledizione così devastante. Per la maggior parte dei paesi poveri e in via di sviluppo, i profitti petroliferi producono una massiccia diseguaglianza fra i cleptocrati corrotti che governano e la maggioranza della popolazione che riceve - nella migliore delle ipotesi - solo una minima parte degli utili. Nella peggiore delle ipotesi, la lotta per i profitti petroliferi produce sanguinose guerre civili. In Libia, tuttavia, la maledizione del petrolio ha provocato molta più corruzione endemica di quella che provoca negli altri paesi in via di sviluppo. Condannando la popolazione libica a una prigionia di paura e morte che dura da 42 anni e che è responsabile di migliaia di vittime e feriti, oltre ai massacri più recenti a cui assistiamo praticamente “in diretta”. In cima a questi orrori, la maledizione del petrolio libico ha recato un ingente danno in primo luogo alla Libia stessa. Visto che è responsabile della morte di centinaia di cittadini europei ed americani per mano del terrorismo libico, e della morte di centinaia di cittadini africani per mano delle guerre civili. Ma ha lasciato una macchia quasi indelebile anche sulla reputazione dell’intera comunità internazionale, comprese le Nazioni Unite, gli Stati Uniti,
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l’Inghilterra e l’Europa. Naturalmente, la Libia è stata oggetto anche di una massiccia corruzione. Sebbene il paese guadagni abbastanza per fornire ad ogni cittadino un reddito pro capite annuale di 10.000 dollari, la gran parte della popolazione vive in miseria. Ma questo non è che l’inizio. La maledizione del petrolio ha dato vita a un governo che non pensa minimamente al suo popolo. Persino la Cina ha dovuto riconoscere alla sua popolazione sufficiente libertà per consentire il funzionamento di un’economia moderna. Il colonnello Gheddafi, invece, non ha un simile bisogno, e può permettersi di tenere i libici rinchiusi in pareti di terrore dove non esistono fonti di reddito diverse dal governo e dove non esiste alcuna economia privata al di fuori delle poche piccole economie artificiali controllate dai suoi uomini.
Gheddafi non ha nemmeno bisogno dei libici per il suo esercito visto che ha trovato mercenari pronti ad eseguire i suoi spietati ordini in modo più fidato. Come ha osservato Max Fisher su The Atlantic: Gheddafi ha trascorso anni «cercando assiduamente di decentralizzare i suoi eserciti in piccole e isolate unità di truppe di sicurezza, di mercenari irregolari e milizie civili». Ciò prospetta l’orribile possibilità che il suo esercito «possa continuare a combattere anche dopo la caduta di qualsiasi politico o generale, o di Gheddafi stesso». Nell’oscuro mondo del terrorismo è difficile sapere quanto del benessere che il Colonnello ha sottratto alla popolazione libica è andato a sostegno delle reti terroristiche a lui collegate, inclusa l’organizzazione di Abu Nidal, l’Ira irlandese e il gruppo Abu Sayyaf nelle Filippine, affiliato ad Al-Qaeda. Sappiamo che la Libia ha pagato circa 1 milione di dollari per uccidere il principe saudita Abdullah nel 2003, mesi prima che Gheddafi iniziasse la sua “riabilitazione” internazionale riconoscendo i suoi
Per l’ex presidente della Banca Mondiale l’Onu gli Usa e l’Europa
La maledizion di Paul Wolfowitz tentativi di rincorsa all’atomica. Se le affermazioni attribuite da un giornale svedese all’ex ministro della giustizia di Gheddafi fossero vere, potremmo essere vicini alla prova che il Raiss ordinò personalmente il bombardamento del volo Pan Am 103, in cui morirono 270 persone
innocenti, per la maggior parte americani e inglesi.
E potremmo scoprire molto di più quando i documenti del regime verranno aperti. Non c’è stato bisogno di nessun documento, invece, per venire a conoscenza che l’agente di Gheddafi, Abdelbaset al-Megrahi non aveva eseguito il bombardamento di Lockerbie di sua ini-
la crisi libica in primo luogo della guerra civile liberiana in cui morirono più di 200 mila persone), incontrò per la prima volta Foday Sankoh (la sua controparte nella sanguinosa guerra in Sierra Leone che fece tra le 50 mila e le 100 mila vittime), e insieme furono investiti del sostegno di Gheddafi nel corso delle loro carriere sanguinarie.
Con una storia come questa è difficile capire perché gli Stati Uniti e l’Inghilterra, seguiti da molti altri paesi civili, si siano spesi così tanto per riabilitare il regime di Gheddafi dopo la sua rinuncia agli armamenti nucleari. Quel programma era una violazione agli accordi e il
In futuro, gli storici si scervelleranno sul perché i Paesi occidentali non siano riusciti a determinare la fine del raìs e del suo regime
a, flirtando per anni con Gheddafi, si sono rovinati la reputazione
ne del petrolio ziativa. Ciò nonostante, Gheddafi è stato capace di comprarsi il perdono per il caso Lockerbie usando i soldi del popolo libico per risarcire le famiglie delle vittime – 1,3 milioni di dollari (1 miliardo di sterline) soltanto per le 180 vittime statunitensi. Tuttavia quello che Gheddafi ha fatto agli americani e agli europei è niente in confronto a quello che ha «Sebbene il paese guadagni abbastanza per fornire ad ogni cittadino un reddito pro capite annuale di 10mila dollari, la gran parte della popolazione vive in miseria. E non è che l’inizio». Con queste parole Wolfowitz comincia una lunga analisi sui disastri che l’oro nero ha provocato in Libia. Nelle foto, “ribelli“ e un giacimento petrolifero
fatto agli africani. Attraverso l’addestramento, le armi, i soldi – e occasionalmente il sostegno militare diretto – che ha fornito, egli è responsabile della morte di centinaia di migliaia di africani nelle guerre civili di Liberia, Sierra Leone, Uganda, Ciad e altrove. È stato nel campo di addestramento libico che Charles Taylor (l’assassino responsabile
despota libico vi rinunciò per timore. Era necessario che le relazioni migliorassero – e la pressione da parte delle famiglie delle vittime di Lockerbie per concludere un accordo a compensazione aiuta a spiegare alcuni degli ulteriori passi che sono stati compiuti. Ma non vi era alcuna ragione per procedere ad un completo ripristino di relazioni senza il benché minimo progresso sui diritti umani. Non bisognerebbe minimizzare l’entusiasmo da parte dei corpi diplomatici e dei servizi segreti di ripristinare le relazioni con qualsiasi paese in cui ne intravedano l’opportunità. Ma sono in pochi in Medioriente, soprattutto in Libia, coloro che credono che le pressioni da parte delle società petrolifere inglesi e statunitensi non abbiano influito.
Per le Nazioni Unite e per l’Unione Africana non è andata meglio. Nel 2009 Gheddafi è stato scelto come presidente dell’Unione Africana, nonostante i suoi spregevoli primati. Senza dubbio i soldi hanno svolto un ruolo fondamentale in questa decisione, sebbene – ad essere sinceri – probabilmente alcuni leader africani erano stati anche oggetto di minacce. Inoltre – ad onore dell’Unione africana – l’offerta di Gheddafi per un secondo mandato è stata rifiutata l’anno successivo. Alle Nazioni Unite, quasi incredibilmente, la Libia venne nominata
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alla presidenza della Commissione per i Diritti Umani nel 2003, ancor prima delle mosse di conciliazione di Gheddafi. Una reputazione così macchiata resterà tale molto a lungo. L’ultima possibilità per cancellare queste macchie – o almeno per lavarle via in qualche modo – è stata mancata grazie al recente spettacolo di quasi totale inerzia da parte degli Stati Uniti, dell’Europa e della “comunità internazionale”. Bisogna riconoscere che il governo inglese ha superato gli Stati Uniti nel condannare la violenza, ma anch’esso non è poi riuscito a provocare una risposta effettiva ai disastrosi eventi che stanno accadendo in Libia. Gli storici futuri si scervelleranno sul motivo per cui i paesi occidentali, verso cui Gheddafi ha sempre dimostrato ostilità – in special modo gli Stati Uniti – non siano riusciti a rivendicare la fine del suo regime, con tutto che i suoi fedeli, ministri e ambasciatori stavano abbandonando la nave in avaria. Gli eventi degli ultimi mesi hanno dimostrato l’inesattezza dell’opinione secondo cui la stagnazione dei dittatori arabi ha fornito una genuina stabilità. Ed il coraggio degli arabi pronti a rischiare la propria vita per la libertà, in particolar modo in Tunisia, Egitto e ora – in maniera ancor più commovente – in Libia, dovrebbero aver dissipato le notizie insensate – che abbiamo sentito anche nel recente passato sugli asiatici – secondo cui agli arabi non interessa niente della libertà.
Quello che ancora non sappiamo è se gli arabi saranno in grado di usare in maniera saggia la libertà appena conquistata – in particolar modo nelle caotiche circostanze in cui questi cambiamenti hanno avuto luogo. Nessuno sa come sarà il nuovo regime che sostituirà Gheddafi. Ma se continuerà ad avere la linea politica e la responsabilità che il coraggioso popolo di Bengasi e delle altre città liberate hanno dimostrato, potrebbero esserci possibilità di cancellare per sempre la maledizione del petrolio. Un modo per riuscirci potrebbe essere di fare in modo che una sostanziale parte dei profitti petroliferi finisse direttamente nelle tasche dei cittadini libici. Il governo sarebbe allora costretto a mantenersi onestamente, fornendo servizi reali in cambio delle tasse che pagherebbero i suoi cittadini. Sarebbe un bell’esempio per tutto il mondo in via di sviluppo.
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politica
Non si placa la polemica all’interno del partito di maggioranza: neanche la mediazione di Verdini (vero obiettivo degli attacchi) è andata a buon fine
Scajola 2, la vendetta Oggi un nuovo incontro con Berlusconi ma, per rientrare nei ranghi, l’ex ministro vuole fare il coordinatore del Pdl di Riccardo Paradisi
ROMA. È servito a poco, se non a nulla, l’incontro di sabato scorso tra Silvio Berlusconi e l’ex ministro Claudio Scajola. Incontro definito «cordiale nella forma ma duro nei contenuti» e dove non s’è verificato nessun appianamento, nessuna stretta di mano risolutiva d’una vertenza politica che sta mettendo in seria vibrazione tutto il Pdl.
Scajola insomma è ancora molto arrabbiato. E intenzionato a dar battaglia seria dentro un Pdl che non sente più come il suo partito. Non solo perché, come ha continuato a ripetere in questi giorni di polemica ad alzo zero, non è più il movimento della gente come lo era Forza Italia, essendosi ridotto a un partito di eletti, ma soprattutto perché all’ex uomo macchina azzurro, all’organizzatore instancabile che molti successi – assieme a molti guai – ha portato in dote al Cavaliere, continua a non andar giù d’essere stato l’unico capro espiatorio della stagione degli scandali. Il fatto che a pagare per le opacità o presunte tali della classe dirigente Pdl sia stato solo lui – Il mezzanino con vista Colosseo gli è costato le dimissioni – a Sciaboletta, come lo chiamano gli amici, non garba affatto. Tanto più che quelli che sono saldamente rimasti in sella nel Pdl, malgrado cicloni e inchieste, sono stati anche i primi a definire inopportuno un rentrè di Scajola in posizioni di rilievo nel partito. Per schiaffi del genere uno come Scajola non porge l’altra guancia. E il guaio per il Pdl e per il Cavaliere è che l’ira dell’ex ministro non è lo sfogo isolato d’un pezzo da novanta che si sente ingiustamente marginalizzato e tradito. Se fosse solo questo la vicenda polemica sollevata da Scajola sarebbe circoscrivibile e archiviabile. Invece la rabbia dell’ex ministro è la torcia che rischia d’appiccarsi su una prateria inondata di benzina. Scajola infatti ha dalla sua parte molti deputati e senatori Pdl già scontenti della gestione di questi anni ma ora spaventati e preoccupati dal fatto che nel previsto rimpasto di governo a essere pre-
Il presidente della Commissione europea in visita a Roma «allude» alla riforma Gelmini
Barroso: «Non è intelligente tagliare cultura e ricerca» di Andrea Ottieri
ROMA. Il presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, ricevendo la laurea honoris causa in giurisprudenza in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico 2010-2011, non ha perso l’occasione per lanciare una stoccata alla politica economica italiana: «Non è intelligente tagliare la scienza, l’istruzione e la cultura», ha detto, sottolienaando il ruolo fondamentale dell’Istruzione nello sviluppo del Paese. Una dichiarazione, accolta da un lungo applauso della platea che evidentemente non possono non essere messe in relazione con le proteste per l’entrata in vigore della riforma Gelmini cui la ministro proprio domenica scorso aveva risposto in tono sprezzante, come suo solito. Infatti, ospite di Fabio Fazio e della sua trasmissione tv Che
le. Perché il consolidamento finanziario è importante ma per puntare alla crescita e a una maggiore occupazione non si può tagliare in settori come scienza istruzione e cultura». Sullo stesso tema, è tornato poi Barroso visitando il Maxxi di Roma: «La diversità culturale e la creatività sono la principale ricchezza dell’Europa», ha detto. E ha aggiunto: «Stiamo vivendo un momento economicamente difficile, ma l’educazione e la cultura, lo ripeto ad ogni occasione, non devono essere i settori che pagano per questa crisi». Il Presidente si è trattenuto al Museo per circa un’ora, accompagnato dal Presidente della fondazione Maxxi Pio Baldi, dalla Direttrice del museo Anna Mattirolo e da Stefania Vannini, responsabile Dipartimento Educazione del Maxxi.
Sempre ieri, a parte la bacchettata di Barroso, è arrivata una mezza promozione della riforma da parte di Gianfranco Fini. «Rende più competitiva la nostra università» ha detto il presidente della Camera. Che però ha aggiunto: «Il punto è il sottofinanziamento. La riforma sarà ancora più efficace se ci sarà la ripresa economica e di conseguenza con maggiori investimenti pubblici». E sul tema delle risorse ha insistito anche la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia: «Bisogna investire nella crescita, nell’università e nella scuola. Dobbiamo e possiamo fare di più, questo è uno dei pochi campi in cui il governo deve continuare a investire soldi». A un’altra battuta spiritosa (almeno nelle intenzioni) della ministro Gelmini («Ci sono più bidelli che carabinieri ma le scuole sono sporche»), hanno replicato i sindacati. «Se le scuole italiane sono sporche si vede che la gestione non è adeguata – ha detto il segretario generale della Uil, Luigi Angeletti – E chi la gestisce la scuola? Non noi. I bidelli non sono troppi». Mentre per il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni, è noto «che molte scuole sono incustodite per la mancanza di bidelli e che gli insegnanti italiani hanno gli stipendi più bassi d’Europa».
Il ministro aveva difeso in tv da Fazio la propria legge spiegando che «non taglia le risorse ma solo gli sprechi della scuola» tempo che fa, Gelmini non solo aveva definito la propria riforma priva di tagli economici («salvo che nei confronti degli sprechi») e le proteste frutto di una moda radical-chic per di più da parte di chi «manda i propri figli alle private», e via generalizzando, dimostrando una scarsa conoscenza sia del tessuto sociale italiano sia di chi protesta. Il presidente della Commissione europea, invece, ha detto: «La nostra responsabilità è ricostituire la fiducia sia nella zona euro che nell’Europa in genera-
miati saranno gli ultimi arrivati, la pattuglia dei cosiddetti responsabili, ai quali il premier ha promesso quei posti nella cabina di regia che la vecchia guardia, usa a obbedir tacendo, s’è vista sempre negare perchè di sicura fedeltà. È questa situazione potenzialmente esplosiva che nel Pdl fa ritenere realistica e non semplicemente tattica la minacciosa prospettiva che Scajola ha ventilato sul sito della fondazione Cristoforo Colombo presieduta da Antonio Martino. «La componente che viene da An è rimasta una realtà quasi distinta da Forza Italia». E ancora: «Se abbiamo pensato ai gruppi parlamentari ”Azzurri perla Liberta” è stato solo per manifestare un sentimento a nostro avviso troppo spesso inascoltato. Giungeremo a questo solo se, con la condivisione di Berlusconi, non ci sarà altro modo per riuscirci».
Un avvertimento serio tanto che oggi è stato fissato un nuovo incontro a palazzo Grazioli fra Scajola ed il presidente del Consiglio. Incontro dove Scajola tornerà a porre le richieste già formulate: poter fare o il coordinatore unico del partito o tornare al ministero dello Sviluppo al posto di Paolo Romani che lo ha sostituto dopo le sue dimissioni di un anno fa. In alternativa Scajola potrebbe fornire il nome di uomini a lui fedeli – tra i 23 deputati e i 12 senatori che lo sostengono – da inserire nel rimpasto di governo. Ma questa seconda soluzione sarebbe vista dagli scajoliani come una arretramento. Anche se tra il minacciare gruppi
politica
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A colpi di appalti e poltrone continua la guerra sotto la Madunina
Formigoni punta sull’Expo per riprendersi Milano Il governatore attacca la gestione della Fiera guidata dal berlusconiano Cantoni per indebolire la Moratti di Francesco Pacifico
ROMA. Domenica sarà una giornata speciale per Roberto Formigoni. Con Giorgio Napolitano che salirà appositamente da Roma per inaugurare il Palazzo Lombardia, la nuova sede della Regione, il governatore potrà sfoggiare davanti alle tv nazionali il segno più tangibile di 15 anni di buon governo. Non poco in una fase d’appannamento, dove tutti danno scontata l’equazione Nord uguale asse tra Umberto Bossi e Tremonti. Senza dimenticare che se a Milano è il Carroccio la determinante per la ricandidatura di Letizia Moratti è la Lega, sotto il Po in pochi sembrano ricordare quattro mandati all’insegna di vittorie schiaccianti e della nascita di un sistema sanitario che, parificando pubblico e privato, è diventato gioco forza benchmark nella gestione della salute. parlamentari autonomi e farli c’è di mezzo il proverbiale mare. Nel caso specifico le pressioni sui potenziali membri dell’ala del dissenso azzurro.
Ma vanno registrati anche i messaggi distensivi che arrivano proprio da quella componente di An finita nello spettro della critica di Scajola al Pdl, alla quale le posizioni di Scajola tornano funzionali a scongiurare quell’ipotesi di coordinatore unico, magari con l’incarico affidato a Denis Verdini che rischierebbe di segnare un depotenziamento della destra nel partito. «Per me Scajola – dice il coordinatore Pdl La Russa – è una risorsa, un soggetto importante come tanti altri. Il problema però non e cosa deve fare lui piuttosto che un altro, ma è la volontà di costruire un partito che non sia solo per l’oggi o finalizzato a come superare i prossimi due giorni, due mesi o due anni». Sulla stessa linea il capogruppo al Senato Maurizio Gasparri anche se nelle sue parole è chiara e netta la critica verso ogni deriva scissionista che porta con sé la minaccia di Scajola: «Parliamo di un esponente qualificato di questo partito che va coinvolto. Ma l’idea di un gruppo autonomo sarebbe fare il gioco della sinistra». Significativo anche il parallelo con Fini: «Già Fini con i suoi errori ha dato alla sinistra delle speranze infondate, che non è riuscita a cogliere perché abbiamo sempre respinto i voti di sfiducia e le manovre che qualcuno transfuga dal centrodestra ha appoggiato». E non a caso è proprio dai finiani che
arriva la lettura più spietata del caso Scajola: «Esso dimostra – dice il falco Briguglio – non solo che l’idea di gruppi parlamentari che si staccano tenta ormai personalità rappresentative del Pdl, ma anche che il partito di Berlusconi rischia di implodere perchè ormai assediato dalle richieste di posti di governo sia dall’interno che dai gruppi fittizi creati dal Premier in Parlamento. Un problema politico - prosegue - che Berlusconi non riuscirà a risolvere aumentando il numero di poltrone, mai sufficiente a risolvere le conseguenze derivanti dallo snaturamento della maggioranza dopo l’espulsione di Fini. La rissa intorno a ministeri e sottosegretariati - incalza Briguglio - diventerà un dramma quando dovrà essere affrontata la questione delle candidature alle prossime elezioni politiche». Ma le prossime elezioni politiche sono lontane, anche per la fallita spallata dello scorso 14 dicembre.
Ora Berlusconi ha un problema immediato che si chiama Claudio Scajola. Un problema talmente grosso che qualcuno non esclude nemmeno l’ipotesi più remota: ossia che per far posto all’ex ministro il Cavaliere non escluderebbe del tutto le rimozioni o del capogruppo alla Camera Cicchitto, o del coordinatore Verdini. Del resto il Cavaliere non sarebbe molto soddisfatto né della conduzione del partito nè di quella del gruppo parlamentare alla Camera. E si sa che il Cavaliere è sempre capace di trasformare un problema in un’occasione.
L’uomo, si sa, è ambizioso. E pur professando fedeltà al Capo, con l’erosione che la magistratura sta facendo del berlusconismo non ha nascosto di sentirsi in corso per il dopo: ha l’esperienza, i contatti, una struttura alle spalle che sa coniugare affari e consenso come la Compagnia delle opere. Elementi non certo sufficienti a rompere quel muro prima creato dalla diffidenza di Berlusconi, poi dall’ostilità del duo Bossi-Tremonti. Ma la strada per Roma potrebbe diventare più breve di quanto si creda, soprattutto se passerà per l’Expo del 2015. Formigoni, se vuole tornare a essere il signore di Milano, deve riconquistarne la gestione oggi appannaggio della Moratti. E parliamo di un evento con un giro d’affari da 70 miliardi di euro e che adesso imbarazza il centrodestra milanese. Per non parlare della riqualificazione dei terreni che verranno occupati per l’esposizione, processo che potrebbe far scattare una cementificazione dalle cubature e dagli importi ingentissimi, che vede coinvolti nomi dell’imprenditoria come i Cabassi e i Ligresti. Chi controlla questa partita ha in mano il presente e il futuro della città, ma questa mano il governatore l’ha persa: aveva proposto una newco ad hoc per l’acquisizione e la successiva valorizzazione dei terreni, ha dovuto accettare la soluzione voluta dalla Moratti. Cioè quella secondo la quale i privati (Fondazione Fiera Milano e Cabassi) danno in comodato al pubblico d’uso le aree e poi trattano con Palazzo Marino possibili compensazioni in termini di volumetrie sulle nuove costruzioni. La sua piccola vendetta – contro il sindaco, contro Tremonti che lesina i fondi, contro Berlusconi che ha messo in capo a Fondazione Fiera l’ex banchiere Giampiero Cantoni al posto del formigoniano Luigi Roth – il governa-
tore l’ha incassata ieri. Quando sono stati resi noti gli esiti di un’ispezione avviata dal Pirellone proprio sugli ultimi cinque anni dell’ente di Largo Domodossola. Nel documento finale firmato dall’avvocato Pio Vivone, Roth e una serie di operazioni immobiliari non escono molto bene. Ma arrivano non pochi moniti per il suo successore. Intanto si segnala «la necessità di ordinare meglio la funzione di vigilanza e controllo sulla Fondazione», magari attraverso «un apposito nucleo incardinato presso la direzione centrale affari istituzionali e legislativi della Regione». Quindi si critica la decisione di rivalutare più del dovuto nell’ultimo bilancio le aree che ospiteranno l’esposizione. Che infatti passano da 14,7 a 58 milioni. Soprattutto si ricorda che l’obiettivo dell’ente
Il Pirellone pronto a tornare alla carica con un newco per gestire i terreni che ospiteranno l’esposizione, crocevia di tutti i futuri business «deve essere quello di favorire la migliore riuscita dell’evento che costituisce, se è permesso dire, il core business (la mission) della Fondazione fieristica». Se la missione della Fiera è accompagnare lo sviluppo dell’imprenditoria lombarda, allora non è meglio un veicolo ad hoc (la newco formigoniana) per gestire i terreni e venderli al meglio? Almeno di questo è ancora convinto Formigoni, che però attende tempi migliori per rilanciare la sua proposta.
Qualcosa potrebbe cambiare se oggi l’Agenzia delle entrate, in un parere chiesto proprio dal Pirellone, dimostrerà che lo schema voluto dal Comune – i privati oltre a dare in comodato d’uso le aree riconoscono un simbolico contributo per la costruzione delle opere di collegamento – non è conveniente. Allora sì che si potrebbero far saltare tutte le intese e gli equilibri trovati. Al momento poi non è stato ancora firmato l’accordo di programma indispensabile per far partire le ruspe, mentre l’unico ente a metterci finora qualcosa è stato guarda caso la Regione.
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religione e politica
Un incontro alle porte di Roma con le associazioni cristiane, per riflettere su morale e moralismo in politica e nella vita
Tra Dio e Cesare Gli elettori cattolici sono disorientati dalla situazione attuale: serve una nuova rotta di Paola Binetti on c’è dubbio che se gli italiani sembrano disorientati davanti all’attuale quadro politico i cattolici sembrano esserlo ancora di più, perché tutto contribuisce a mettere in crisi un sistema di valori e di convinzioni, di comportamenti e di aspettative che con il tempo si era consolidato, precisando in cosa consistesse il vero, il buono e il bello nella politica e della politica. Riflettere sulla bellezza dell’agire politico in un momento in cui tutto sembra evocare sensazioni ed immagini dai toni ben diversi è stata la provocazione lanciata a Sacrofano, in occasione di un incontro tra alcuni politici dell’Unione di Centro e una folta rappresentanza di diverse Associazioni del Mondo cattolico. Il seminario, caratterizzato da una forte interazione tra tutti i partecipanti, è riuscito a formulare una serie di domande che raccolgono aspettative e timori, de-
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in agguato nell’agire umano si colloca la sfida politica che richiede una rinnovata capacità di confronto tra i cattolici impegnati in politica. Un confronto che può e deve nascere all’interno dei diversi schieramenti e tra gli schieramenti, con la disponibilità ad un agire solidale che può arrivare a rimettere in discussione tabù e stereotipi. Non a caso la domanda che è continuamente rimbalzata lungo tutto il seminario girava intorno alla ipotesi di una ritrovata unità politica dei cattolici, per un incoraggiamento ad andare oltre la diaspora. Nel bilancio politico di una seconda Repubblica totalmente in affanno, davanti a soluzioni che sono state tutt’altro che soddisfacenti i questi anni, è una domanda chiave. È vero che alla mancanza di unità politica dei cattolici - propria della prima Repubblica - ha supplito in momenti chiave della vita del Paese il comune riferimento alla dottrina
Non è facile definire nella concretezza dell’agire politico e nella complessità dei fenomeni sociali che caratterizzano la nostra vita il vero: serve un costante sforzo di elaborazione culturale sideri e preoccupazioni che serpeggiamo tra i cattolici, ma non solo tra di loro, e rivelano le radici di una disaffezione verso la politica, che non di rado si ostina a mostrare il suo lato peggiore. Non è certamente facile definire nella concretezza dell’agire politico e nella complessità dei fenomeni sociali che caratterizzano la nostra vita ciò che è vero, buono e bello: il passaggio dai principi generali alla loro applicazione pratica richiede un costante sforzo di elaborazione culturale a livello personale.
Una elaborazione che non può mai rimanere fine a se stessa, ma che esige una specifica assunzione di responsabilità e un passaggio concreto all’azione, senza tentennamenti e senza deleghe, anche quando il rischio di sbagliare sussiste e va accolto come un segno della nostra fragilità. Proprio in questa dialettica tra necessità di una azione creativa, ispirata ai valori cristiani, e margine dell’errore sempre
sociale della chiesa. Un pensiero, che senza essere strettamente politico, ha offerto a tutti noi con grande lucidità, e spesso in deciso anticipo sui tempi, le chiavi interpretative più efficaci per orientare il nostro agire in materia economica e sociale, culturale e scientifica. Orientarlo senza condizionarlo né tanto meno strumentalizzarlo. Ci ha aiutato a resistere al conformismo del politically correct, che fosse di destra o di sinistra, per rompere schemi, denunciare privilegi, sollecitandoci a misurarci con questioni, che sembravano sovrastare le proprie capacità. Un invito costante a non sottrarci né alla responsabilità personale né a quella sociale. La dottrina sociale della Chiesa è stato il collante fortemente motivante per ognuno di noi e ci ha permesso di non separare la questione sociale da quella antropologica, rivelando lo stretto intreccio che le cosiddette questioni eticamente sensibili mantengono con tutta la trama dell’agire politico in ambito
economico e sociale. Vita, famiglia, educazione, integrazione sociale e contrasto alla povertà non sono questioni isolate, estrapolabili dal contesto del nostro agire politico, così come del resto ogni tema o problema ha una sua dimensione etica, che richiede un preciso approccio anche sul piano morale. Il recupero di questa valutazione etica dei fatti, implica una ricerca del vero e del bene, anche oltre gli stretti confini del nostro individualismo ed è ciò che conferisce bellezza all’agire politico. Ma per realizzare tutto ciò non basta il solo coinvolgimento personale e vale la pena chiedersi se non si possa fare di più, prima e meglio, per esempio rilanciando una più ampia convergenza dei cattolici in una realtà politica capace di intercettarne e valorizzarne la cultura e la sensibilità, le proposte e la spinta innovatrice. Tra i contenuti affrontati durante il seminario il riferimento alla Dottrina sociale della Chiesa è stato costante, una sorta di filo di Arianna indispensabile per orientarsi nel labirinto di una politica confusa e troppo spesso distratta rispetto alle necessità reali delle persone, soprattutto quelle che si trovano in maggiore difficoltà. Il tema del lavoro e della famiglia ha occupato un ruolo di primo piano nel dibattito: ne hanno parlato Buttiglione e lo ha rilanciato Bonanni; ci si è soffermato Carrara e lo ha sviscerato monsignor Crepaldi.
Ma soprattutto i partecipanti hanno rivelato in controluce l’abitudine a ragionare sui problemi che li coinvolgono nell’ambito professionale e in quello familiare senza perdere di vista i contenuti chiave della Dottrina sociale della Chiesa. Non a caso si trattava di persone che provenivano in grandissima parte dal mondo dell’associazionismo cattolico, dove la dimestichezza con la dottrina sociale della Chiesa costituisce fortunatamente un elemento essenziale della loro
formazione politica. La Dottrina sociale della Chiesa ci propone una serie di valori profondamente umani che aiutano a scoprire il Dio “dal volto umano”, di cui parla Ratzinger nel suo recentissimo libro. Da un lato c’è la chiarezza dei principi ispiratori che fin dai tempi della Rerum Novarum, esige il coraggio di riforme coraggiose per realizzare gli ideali di giustizia sociale, a cui si ispira la visione cristiana della società. Dall’altro quell’appello accorato e ripetutamente riproposto a tutti noi per non sottrarci alla responsabilità che ne consegue. Leone XIII fonda la dottrina sociale della Chiesa, sollecitando i cattolici a prendere posizione a favore dei processi di cambiamento necessari per garantire un maggior grado di giu-
stizia sociale e chiede per questo di accantonare interessi personali evitando possibili conflitti di interesse. La Rerum Novarum ancora oggi rappresenta una sorta di manifesto che obbliga i cattolici ad uscire dal conformismo compiacente, per sfidare l’ingiustizia mettendo in atto una politica in cui la giustizia e la solidarietà non sono solo parole belle e consolanti, ma un mandato imperativo a cui i cattolici non possono sottrarsi. Quaranta anni dopo, in concomitanza con la grave crisi economica del 1929, Pio XI nella Quadragesimo anno formula il principio di sussidiarietà: «Deve tuttavia restare saldo il principio importantissimo nella filosofia sociale; che siccome non è lecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, cosi è ingiusto rimettere ad una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare». In antitesi ad uno statalismo accentratore, che risorge continuamente sotto mutate spoglie, ma anche in decisa contrapposizione con una indifferente gestione della cosa pubblica, il principio di sussidiarietà individua in una solida formazione umana e nella re-
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sponsabilità sociale un binomio tipico dell’impegno dei cattolici in tutto il vasto orizzonte dell’agire sociale. Alcuni anni dopo Giovanni XXIII affida il suo insegnamento in fatto di dottrina sociale a due encicliche: la Mater et Magistra (1961) e la Pacem in terris (1963). Il punto più interessante sotto il profilo sociale riguarda una nuova visione dello sviluppo economico, che non può limitarsi ad affrontare il tema dei bisogni essenziali delle persone, ma deve promuoverne la dignità. Con grande chiarezza sottolinea l’indissolubile rapporto che esiste tra diritti e doveri. Nella Populorum Progressio di Paolo VI la questione sociale diventa prima di tutto questione culturale. Lo studio, la formazione, sono diritti a cui tutti gli uomini possono e debbono aspirare per una piena realizzazione di se stessi e la società deve poterli garantire a tutti, a prescindere dalle condizioni economiche in cui si trova una famiglia. «Nel disegno di Dio, ogni uomo è chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione. Fin dalla nascita, è dato a tutti in germe un insieme di attitudini e di qualità da far fruttificare: il loro pieno svolgimento è frutto a un tempo dell’educazione ricevuta dal-
l’ambiente e dello sforzo personale… col solo sforzo della sua intelligenza e della sua volontà, ogni uomo può crescere in umanità, valere di più, essere di più». Nel 1991 a cento anni dalla Rerum novarum, Giovanni Paolo II sente il bisogno di rilanciare la Dottrina sociale della Chiesa: «La“nuova evangelizzazione”, di cui il mondo moderno ha urgente necessità e su cui ho più volte insistito, deve annoverare tra le sue componenti essenziali l’annuncio della dottrina sociale della Chiesa, idonea tuttora, come ai tempi di Leone XIII, ad indicare la retta via per rispondere alle grandi sfide dell’età contemporanea, mentre cresce il discredito delle ideologie. Come allora, bisogna ripetere che non c’è vera soluzione della “questione so-
ciale” fuori del Vangelo e che, d’altra parte, le “cose nuove”possono trovare in esso il loro spazio di verità e la dovuta impostazione morale». Nella sua analisi l’ingiustizia rappresenta una vera e propria patologia sociale che umilia gli uomini, ne offende la dignità, e genera sofferenza. Sono molto nette le responsabilità che il Papa assegna alla Chiesa in materia di dottrina sociale: non stancarsi mai di ricordare il valore della dignità dell’uomo e la necessità di rispettarne i diritti. Giovanni Paolo II lancia il tema dell’ecologia umana: «La prima e fondamentale struttura a favore dell’“ecologia umana” è la famiglia, in seno alla quale l’uomo riceve le prime e determinanti nozioni intorno alla verità ed al bene, apprende che cosa vuol dire amare ed essere amati e, quindi, che cosa vuol dire in concreto essere una persona. Si intende qui la famiglia fondata sul matrimonio, in cui il dono reciproco di sé da parte dell’uomo e della donna crea un ambiente di vita nel quale il bambino può nascere e sviluppare le sue potenzialità, diventare consapevole della sua dignità e prepararsi ad affrontare il suo unico ed irripetibile destino». La famiglia e la vita di famiglia sono al pari del lavoro punti chiave della dottrina sociale della Chiesa, al punto che potremmo considerarli le coordinate principali intorno alle quali si va strutturando l’intero impianto dottrinale di questa nuova scienza. Per Benedetto XVI: «La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che, secondo l’insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge». Il Papa non pensa alla carità come ad una forma evanescente di buonismo affermato a parole ma povero di fatti, pensa piuttosto ad un impegno sociale a cui non ci si può sottrarre, neppure se e quando ci si ritiene inadeguati. È un piano di lavoro che coinvolge politici ed economisti, medici e insegnanti, tutti legati in una straordinaria catena di reciproca solidarietà, perché a tutti chiesto di partecipare in modo attivo e in condizioni paritarie. Poco più avanti, passando da un obiettivo più generale - ma non generico! - ad uno drammaticamente concreto, come la crisi che stiamo vivendo, chiede a tutti di non fermarsi davanti alle difficoltà. È proprio dei cristiani, mossi dalla carità, non rassegnarsi alle grandi ingiustizie, mettere in gioco energie e risorse che cambino lo stato delle cose, anche se e quando questo dovesse entrare in conflitto con gli
interessi di alcuni. Nel corso del seminario di Sacrofano le citazioni tratte dai documenti del Magistero sono state abbondanti e pertinenti, e spesso sono servite anche a smascherare atteggiamenti di comodo di un potere politico decisamente autoreferenziale e poco incline a misurarsi con a verità dei fatti.
Più volte è emerso come la bellezza dell’agire politico stia in gran parte nella libertà personale con cui ognuno contempla il panorama dei valori da realizzare, anche quando questi appaiano ardui e difficili. Non basta in altri termini la chiarezza dei principi, se non c’è il coraggio di osare, di mettersi in gioco, uscendo allo scoperto con iniziative positive concrete. Non serve l’arroganza dell’intelligenza di chi pretende di sapere quale sia la soluzione giusta e un caso di divergenza si arrocca in un isolazionismo amaro di denuncia. Con forza è emersa la necessità di una rete di condivisione, di ascolto reciproco e di collaborazione, che mostri come si può declinare la carità nell’agire politico. Unità che non vuol dire uniformità. C’è una bellezza del tutto particolare nelle contraddizioni che marcano la punteggiatura del diverso agire politico di tante associazioni. Il pensiero critico, sollecitato dalle diverse interpretazioni che di uno stesso fatto possono maturare in contesti associativi diversi, mostra come il laico cattolico non sia quasi mai “politicamente corretto”, perché davanti alle diverse proposte di mediazione che la cultura del tempo propone, e a volte impone, mantiene fermo l’oriz-
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ad ognuno di noi, come un invito che richiede umiltà: c’è bisogno di studiare, di riflettere e di confrontarsi con gli altri- e un rinnovato ottimismo. La bellezza dell’agire politico per un cattolico affonda le sue radici nel bisogno di amare il mondo appassionatamente. È la lezione del Vaticano II, che ha indicato con chiarezza due rischi da evitare: da un lato il clericalismo, nella duplice accezione di un clero che si sostituisce ai laici nell’esercizio della loro responsabilità e di un laicato che si nasconde dietro un clero compiacente per sottrarsi all’esercizio delle sue responsabilità; dall’altro una scissione drammatica tra clero e laicato, che ignora come entrambi siano vincolati ad una piena fedeltà alla Dottrina e al Magistero della Chiesa, di cui fanno parte a pieno titolo, pur con ruoli e responsabilità diverse. Ma in tempi di bipolarismo è stato messo in evidenza anche un altro rischio: quello di una laicità debole, che subisce la dittatura della maggioranza. È “normale”ciò che pensa e ciò che fa la maggioranza, di qui la rincorsa ad allinearsi, a destra o a sinistra. Il bisogno di consenso spinge le persone ad adattarsi continuamente ai modelli di comportamento del proprio gruppo. La coerenza non è più un rapporto con la propria coscienza ma un rapporto con gli standard del gruppo di appartenenza. È un approccio di tipo ricattatorio seduttivo, per cui il consenso viene garantito solo a chi si adegua alle regole stabilite: il conformismo appare più laico, mentre l’autonomia è continuamente compromessa dalla ricerca del consenso. I grandi partiti
Non basta la chiarezza dei princìpi, se non c’è il coraggio di osare, di mettersi in gioco, uscendo allo scoperto con iniziative positive concrete. Serve una rete di condivisione e di ascolto reciproco zonte dei suoi valori di riferimento. La sua posizione, strutturalmente scomoda, è sempre centrata verso la pienezza del valore, mentre la mediazione politica si accontenta di garantire il livello minimo essenziale di eticità. Monsignor Crepaldi ha lasciato ben chiaro come i cosiddetti temi eticamente sensibili costituiscano la soglia minima invalicabile dell’identità cristiana, ma che l’orizzonte di senso politico a cui il cristiano deve aspirare è molto più vasto e profondo. I cristiani hanno sempre sofferto la fatica di dover comporre le istanze della loro vocazione con le provocazioni della cultura del tempo; eppure non si sono mai sottratti al confronto, e questo sforzo ha permesso loro di penetrare meglio il significato delle cose, il valore dei valori in gioco, il senso della loro vita. Da Sacrofano i partecipanti sono usciti con la convinzione che la complessità che ci sta davanti è bella perché è affidata a tutti e
sono destinati a divorare i piccoli, a schiacciarne l’identità, ad obbligarli ad allinearsi, senza neppure discutere.
La sfida delle associazioni all’UDC durante il Seminario è stata diversa e ha prodotto una richiesta coraggiosa ai vertici del partito, nazionale e locale. Rinunciare a giocare in ogni tornata elettorale, mille parti diverse in commedia, sperando di vincere in luoghi diversi, con alleanze diverse, con programmi diversi. All’UDC è stato chiesto un recupero consapevole di quei valori che affondano le loro radici nella dottrina sociale della chiesa. In cambio i partecipanti hanno garantito l’aiuto necessario a rafforzarne l’identità, per non farla schiacciare né a destra né a sinistra. Una sorta di alleanza virtuosa tra UDC e associazioni, in attesa di dichiarare conclusa la diaspora dei cattolici e poter riconoscere la bellezza dell’agire politico in una rinnovata e consapevole unità..
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È essenziale che la Chiesa resti fuori dalla Cosa pubblica. Al cristiano basta l’amore per praticare la retta via nella società
Il fattore Pilato
Nel suo secondo libro su Gesù di Nazareth, Benedetto XVI medita sull’incontro con il governatore romano per dire che, per la prima volta, il Messia lancia un regno non politico. Oggi, grazie alla fede, si deve ritornare a quella separazione l Papa vuole una separazione radicale tra chiesa e politica: nel libro su Gesù afferma che quella separazione è “essenziale” al cristianesimo e che essa diviene possibile solo «attraverso la perdita di ogni potere esteriore» da parte della comunità dei suoi discepoli. È un elemento dell’ardore teologico giovanile che riaffiora nel linguaggio più controllato del Ratzinger ottantaquattrenne (il compleanno è il 17 aprile) e che segnala un’originalità del Papa teologo – anzi una sua unicità – che è ancora tutta da intendere. Quell’ardore teologico – che era divampato alla scuola di Agostino e di Bonaventura e che attraverso Bonaventura aveva recepito qualche lapillo proveniente dalla perenne fornace di Gioacchino da Fiore – non si era mai spento in Joseph Ratzinger. Ma aveva imparato a convivere con le preoccupazioni pastorali e di governo di cui quel teologo riformatore aveva dovuto farsi carico nei decenni, per richiesta
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di Luigi Accattoli prima di Paolo VI e poi di Giovanni Paolo II e infine per mandato del Conclave del 2005.
Fanno parte di quell’ardore un acuto sentimento del mistero del male e un’altrettanto viva percezione dell’amore divino che dal male ci riscatta. Ne viene una forte idea della presenza del“peccato”nella Chiesa – sempre tentata di tradurre in potere mondano il potere spirituale che le è stato conferito – e del peccato individuale che insidia gli uomini di Chiesa ogni volta che in loro si raffredda l’obbedienza all’amore di Dio dal quale sono stati chiamati a svolgere il loro “ministero” comunitario. «Quanta sporcizia nella Chiesa» aveva esclamato il cardinale Ratzinger nella Via Crucis del 2005 ed ecco che già lì riaffiorava una parola tematica dell’opera giovanile Introduzione al cristianesimo (1968) poi più volte ripresa e parafrasata
lungo le tribolate stagioni dello scandalo della pedofilia del clero. Parola che infine si è fatta clamorosa nel libro intervista Luce del mondo pubblicato il novembre scorso, dove “sporcizia”c’è tre volte e c’è anche“peccaminosità della Chiesa”, che pure figurava nel volume del 1968 (vedila nel paragrafo “La Santa Chiesa Cattolica”, all’interno dell’ultimo capitolo).
“Peccaminosità della Chiesa” era un’espressione forte che era poi tornata in un saggio contenuto nel volume Il nuovo Popolo di Dio (Queriniana 1992, p. 279) con la formulazione ancora più audace di “Chiesa peccatrice”. Insomma la Provvidenza ha portato al Papato, per vie tutte sue, il teologo che si era rivelato più deciso, addirittura spregiudicato, nella denuncia del legame tra Chiesa e peccato mai “in questo tempo” pienamente superabile. Lo stesso si può dire per l’affermazione “Dio è tutto e solo amore” (angelus del 7 giugno 2009) e “in realtà basta amare” (omelia di Lourdes, 13 settembre 2008) che riprendono il concetto dell’amore come “princi-
pio trascendentale” cristiano, che era anch’esso in Introduzione al cristianesimo e che aveva trovato la formulazione più viva nel volumetto Tempo di avvento, alla p. 63 dell’edizione Queriniana 2005: «L’amore basta e salva l’uomo. Chi ama è un cristiano». Tracciate queste coordinate possiamo leggere con piena avvertenza quanto Joseph Ratzinger-Benedetto XVI scrive sul drammatico rapporto tra Chiesa e potere nel capitolo sette, intitolato Il processo a Gesù, del volume Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione pubblicato giovedì scorso dalla Libreria Editrice Vaticana.
E dovremmo fare attenzione a quella doppia firma sul frontespizio del volume, che caratterizzava già la “prima parte” dell’opera su Gesù di Nazaret che era apparsa nel 2007. Quella doppia firma sta a dire che non si tratta di un atto magiste-
riale e che in quest’opera il cristiano Ratzinger dà conto della propria ricerca del volto del Signore rivendicando la piena libertà che è da riconoscere in tale materia a ogni battezzato. Una libertà che gli permette di esprimersi correndo dei rischi e che comporta – per chi legge – il diritto di “contraddirlo”, come precisò nella premessa al primo dei due volumi.
Il brano al quale mi riferisco è breve ma ha una funzione chiave per intendere il pensiero dell’uomo Ratzinger chiamato a fare il Papa: «Gesù nel suo annuncio e con tutto il suo operare aveva inaugurato un regno non politico del Messia e aveva cominciato a staccare l’una dall’altra le due realtà, fino ad allora inscindibili. Ma questa separazione di politica e fede, di popolo di Dio e politica, appartenente all’essenza del suo messaggio, era possibile, in definitiva, solo attraverso la croce: solo attraverso la perdita veramente assoluta di ogni potere esteriore, attraverso lo spogliamento
Il testo sarà presentato domani da Grasso, Carelli, Calabresi e Del Covolo
L’8xmille compie 40 anni: una storia da raccontare L’ultima fatica letteraria di monsignor Viganò analizza “volti e storie” della pubblicità cattolica di Martha Nunziata hiesa e pubblicità - Storia e analisi degli spot 8x1000, l’ultima fatica letteraria di mons. Dario Edoardo Viganò, è un excursus storico attraverso quarant’anni di politiche comunicative della Chiesa cattolica, un saggio sull’evoluzione della televisione italiana, intesa come strumento essenziale di comunicazione, ma, soprattutto, un’analisi attenta sulla presenza dell’informazione ecclesiastica in televisione, riferita in modo particolare agli spot dell’8x1000. Il tutto preceduto da un’agile ma profonda riflessione sulla storia italiana dal 1970 ai giorni nostri, elemento necessario alla comprensione del quadro storico e politico dal quale origina l’istituzione stessa dell‘8x1000. Chiesa e pubblicità (che sarà presentato domani, alle 11, presso l’Aula Paolo VI della Pontificia Università Lateranense di Roma, in un dibattito al quale parteciperanno, oltre all’autore, mons. Enrico del Covolo, Rettore dell’Ateneo, Aldo Grasso, Matteo Calabresi, il regista della campagna 8x1000 Stefano Palombi, il Sottosegretario della Cei mons. Mauro Rivella ed Emilio Carelli, direttore di SkyTG24) offre un punto di vista particolare sulle dinamiche della comunicazione, all’interno del media contemporaneo per eccellenza, la televisione. Come scrive lo stesso autore, «l’argomento e al contempo l’aspirazione del libro è l’analisi delle strategie comunicative dell’8x1000, con una particolare propensione per le campagne condotte per la televisione a partire dalle pionieristiche esperienze dei primi anni novanta». Monsignor Viganò, del resto, professore ordinario di Comunicazione presso la Pontificia Università Lateranense, e docente di Semiologia del cinema e degli audiovisivi e di Teorie e Tecniche del Cinema alla Facoltà di Scienze Politiche della LUISS di Roma, è uno dei più eminenti studiosi contemporanei del rapporto tra media e mondo cattolico. Dalla sua esperienza di accademico, perciò emerge un testo che è storico e tecnico insieme, nel quale la parte tecnica è costituita, soprattutto, dall’analisi semiotica del metalinguaggio pubblicitario, in particolare di matrice televisiva. L’approccio semiotico, in questo senso, appare necessario «per la comprensione del funzionamento del testo e la sua decostruzione nei vari livelli che lo compongono»: in pratica una sorta di “scatola degli attrezzi” necessaria per comprendere un fenomeno ormai diffusissimo.
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Monsignor Dario Viganò. Nella pagina a fianco, Benedetto XVI e la copertina del secondo libro su Gesù di Nazareth radicale della croce, la novità diventa realtà. Solo mediante la fede nel Crocifisso, in colui che è privato di ogni potere terreno e così innalzato, appare anche la nuova comunità, il nuovo modo in cui Dio domina nel mondo».
Con questo testo siamo alla pagina 193 del volume. Esso va letto in collegamento a un altro, che troviamo alle pagine 213-219 dove il Papa teologo riflette sulle parole di Gesù a Pilato «Il mio Regno non è di questo mondo» e ambedue andrebbero collegati agli scritti del teologo Ratzinger che riflette su “date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio”: in particolare quelli contenuti nel volume Chiesa, ecumenismo e politica (San Paolo 1987). Guardando all’insieme della riflessione ratzingeriana su Chiesa e politica, riproposta ora con ardimento, possiamo concludere che il “distacco tra dimensione religiosa e dimensione politica”– “realizzato”da Gesù “con il suo annuncio” – “ha cambiato il mondo” (questa espressione si trova a p. 191) ma “diventa realtà” solo attraverso la rinuncia a ogni forma di potere mondano da parte della comunità cristiana. Vedo al centro del libro su Gesù una decisa provocazione che il Papa muove alla Chiesa. Una provocazione evangelica che non è destinata a risultare meno incisiva perché proposta con la firma Joseph Ratzinger, le cui parole possono essere contraddette ma non vanificate. www.luigiaccattoli.it
Il libro si apre con un vero e proprio capitolo di storia, che analizza gli anni che vanno dal 1974 al 1984, il decennio che l’autore definisce “cruciale”per lo sviluppo del nostro paese. È in quegli anni, infatti, che si concentrano eventi tanto diversi tra loro quanto fondamentali, ognuno per la propria parte, nella rivoluzione culturale che attraverserà l’Italia. Sono quelli gli anni del“compromesso storico”tra Democrazia Cristiana e PCI, del referendum sul di-
vorzio, della crisi petrolifera e della conseguente austerità; sono gli “anni di piombo”, destinati a sconvolgere profondamente l’Italia nei suoi valori più saldi e a contribuire all’allontanamento dei giovani dalla vita politica. Sono, però, anche gli anni nei quali giunge a termine «la prima fase di un processo epocale che, nel corso degli anni Settanta, ha interessato l’economia e la società italiane, ovvero la comparsa, sulla scena dell’informazione, delle televisioni private».
È in quello stesso periodo, infine, che viene ratificata la revisione del Concordato del 1929, il nuovo documento che sancisce i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica, il cosiddetto Accordo di Villa Madama, siglato nel 1984 e reso esecutivo con la Legge 121 del 25 marzo 1985. E’ proprio con la prima intesa applicativa e integrativa dell’Accordo di Villa Madama che viene creato un nuovo Istituto per il sostentamento del clero: l’articolo 47 degli Acta Apostolicae Sedis stabilisce, infatti, che il contribuente possa scegliere se destinare l‘8x1000 della propria Irpef allo stato o alla Chiesa cattolica (in seguito anche alle altre confessioni religiose che hanno stipulato accordi con lo Stato). Con la nascita di questo meccanismo diventa cruciale, per la stessa Chiesa, la“raccolta pubblicitaria”. Ed è questo sistema, analizzato fin dal suo dirompente ingresso sulla scena televisiva, negli anni ’80 (gli anni d’oro, come li definisce lo stesso autore) che costituisce il cuore del libro. La pubblicità, intesa come“linguaggio e immaginario del nostro tempo”, conosce infatti il suo momento iniziale, e insieme di massimo splendore quando, sul finire degli anni ’70, termina il “monopolio di Carosello”, la cui ultima puntata andò in onda il primo gennaio 1977. Al vecchio format si sostituisce, nel tempo, la nuova struttura degli spot televisivi, sempre meno promozionali, in senso stretto, e sempre più emozionali. La capacità di suscitare reazione nel pubblico, del resto, diventa il primo obiettivo dei pubblicitari: la presentazione del prodotto è il contorno, l’ambiente televisivo nel quale si muove l’azione. Questo, in misura minore, vale anche per le storie portate sul piccolo schermo dai registi delle campagne dell‘8x1000, definite, dall’autore, l’espressione di una strategia di marketing non convenzionale, destinata a sublimarsi nel fenomeno della“convergenza digitale”, l’ultima frontiera della“crossmedialità e portabandiera dell’intermedialità”. La diffusione della tecnologia digitale nei maggiori media di massa, infatti, stravolge le modalità di esperienza e di consumo dei testi culturali, compresi gli spot dell‘8x1000. Che, tuttavia, restano fortemente attuali, e per la possibilità garantita ai donatori di verificare, step by step, attraverso internet l’effettiva rispondenza dei progetti realizzati alla raccolta dei fondi, e perchè, come conclude Viganò «alla fine rimangono i fatti, le storie, i volti: sono questi il vero strumento, l’autentica testimonianza della missione evangelica cattolica».
e di cronach
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ULTIMAPAGINA Show (contestato) di Borghezio e della leader dell’estrema destra francese Marine Le Pen contro gli immigrati
Altri due «clandestini» a di Marco Palombi ampedusa è isola di sbarchi, si sa. Solo che ieri non hanno toccato terra solo i migranti in fuga dal Nordafrica in fiamme e senza pane, ma pure in ostinata e contraria navigazione due eurodeputati (e un cantante, Claudio Baglioni, che però lì ha una casa): la francese Marine Le Pen – erede politica di Jean Marie, cui tutti pronosticano un grande futuro – e il leghista Mario Borghezio, che invece non può vantare nemmeno un bel passato. Per evitare inutili ipocrisie, va chiarito subito che i due erano lì per lucrare un po’ di visibilità e qualche voto su un’emergenza umanitaria globale: entrambi i loro movimenti, non è un segreto, devono gran parte del loro consenso alla denuncia dell’immigrazione in generale e di quella dai paesi musulmani in particolare. «Una passeggiata xenofoba», l’ha giustamente definita il capogruppo Udc in Senato, Gianpiero D’Alia. Le Pen (che è recentemente stata eletta presidente del Front National, partito fondato dal padre) e Borghezio sono atterrati sull’isola all’ora di pranzo: in aeroporto hanno trovato ad attenderli Bernardino De Rubeis – il sindaco di Lampedusa, uomo non estraneo alle intemperanze verbali pericolosamente vicine al razzismo care ai suoi ospiti – che li ha accompagnati nel locale Centro di identificazione ed espulsione.
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È difficile raccontare a parole, a questo punto, la sorpresa del primo cittadino nel constatare che Marine Le Pen, invece di dare fuoco a tutto, s’è addirittura intrattenuta a parlare con un volontario somalo: tanta liberalità ha spinto De Rubeis ad informarne immantinenti, una volta uscito, le agenzie di stampa presenti che, altrettanto impressionate, hanno dedicato un titolo alla notizia. Purtroppo non si sa con chi si sia invece intrattenuto Mario Borghezio, che forse – al contrario della francofona Le Pen - non ha trovato un traduttore che lo aiutasse. Al termine della visita la coppia, nonostante le emozioni a cui s’era sottoposta all’interno del Cie e vincendo la tradizionale ritrosia, s’è sottoposta alle domande dei cronisti che ansiosi attendevano di poterne, per così dire, riportare il pensiero. La signora, che sondaggi recenti accreditano di oltre un 20% dei consensi in vista delle presidenziali 2012, ha subito tracciato il solco della soluzione (manca ancora, mentre andiamo in stampa, la spada che lo difenda): «Invece di accoglierli a Lampedusa, l’Italia dovrebbe inviare le navi con acqua e alimenti e assistere i migranti in mare, evitando che sbarchino nell’isola». Evitando però pure di spiegare – non volendo considerare il diritto interno o internazionale, vale a dire le leggi che ci siamo liberamente dati – che poi bisognerebbe respingerli
LAMPEDUSA dritti dritti magari in mezzo alla guerra civile libica. La figlia di Jean Marie comunque, la donna che ha avviato la dédiabolisation del Front National, non ha di questi problemi, anche se è buona di cuore: «Questa è un’immigrazione economica che nulla ha a che vedere con la guerra. E in questo momento l’Europa non gode di buona salute, abbiamo cinque milioni di disoccupati». Insomma, metaforizzando, «mi piacerebbe accogliere tutti sulla barca europea, ma questo non è possibile: non c’è posto per tutti, andremmo a fondo». La signora Le Pen, in realtà, pur prendendo lo stipendio a Strasburgo, è contraria pure all’Europa: nel suo programma c’è l’uscita dall’euro e la chiusura delle frontiere francesi anche per i cittadini comunitari (motivo: sennò la barca francese affonda). A ciascuno il suo profugo, è il pensiero lepenista: una sorta di antropologia tribalreligiosa virata nel seppia del piccolo mondo antico: dei profughi “musulmani”, ha spiegato, si devono occupare gli stati “musulmani” del Golfo coi dollari del petrolio. «Se l’Italia vivesse una crisi simile la Francia aprirebbe le porte», ha rassicurato tutti ieri, non spiegando invece cosa si fa se questi profughi, colpevolmente non informati delle sue teorie, continuano a venire verso nord. Sembra impossibile ma, per quanto meno fotogenico ed attraente, al confronto della sua compagna, ieri Borghezio sembrava Churchill: ha ribadito che l’Unione europea non può voltarsi dall’altra parte e chiarito
che quando si muovono centinaia di migliaia di persone bisogna darsi da fare. «Solo gente indegna può fregarsene dei traffici di bambini e di donne», ha scandito anche se non è chiaro a cosa si riferisse.
I giornalisti siciliani, cresciuti evidentemente pensando che Borghezio solitamente dia in escandescenze sbavando e scalciando come un ossesso, ne sono rimasti affascinati: Allora lei è un moderato? Gli hanno chiesto stupiti. Il nostro però, che non ha dimenticato le migliaia di
I due sono stati accolti con un sit-in e a suon di fischi. Intanto è arrivato nell’isola un altro barcone carico di disperati calci in culo promessi (e qualche volta dati) a questi signori abbronzati, ha voluto chiarire: «Quando usavo toni diversi sull’immigrazione facevo politica, oggi abbiamo a che fare con un milione e mezzo di persone». Effettivamente troppi calci in culo anche per uno volenteroso come il nostro. Passeggiata finita, Le Pen e Borghezio volano via, giù al nord. A terra restano il sindaco soddisfatto, alcune centinaia di contestatori, e, ovviamente, i migranti, gente esperta di barche che affondano.