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DOMANI IN EDICOLA 16 PAGINE SPECIALI

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 16 MARZO 2011

unità d’ITALIA

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Giappone combatte con i reattori senza riuscire a raffreddarli. E Bruxelles lancia l’allarme: «La situazione è fuori controllo»

La paura non dà energia Ennesima scossa a Tokyo e nuova esplosione a Fukushima. L’Europa decide la revisione di tutti gli impianti nucleari. Mentre in Italia la politica cavalca l’emotività contro l’atomo POLITICA & RETORICA

Non ripetiamo l’errore di Chernobyl di Carlo Ripa di Meana utti hanno ricavato dal terremoto e dal maremoto in Giappone il massimo del terrore: la rottura di uno dei reattori nucleare, lo scoppio, e poi le fughe, le perdite di materiale radioattivo. Bisogna partire da qui: sì, si sono verificati eventi drammatici in passato, ma in condizioni estreme, come a Three Mile Island o a Chernobyl; eppure è proprio di fronte alle tragedie che bisogna essere razionali. Per quello che riguarda l’Italia bisogna partire da alcuni dati. Intanto, il referendum che negò l’utilizzo del nucleare risale al 1987. Da allora paghiamo un ritardo che costa carissimo in termini di dipendenza energetica.

Il dibattito italiano

Il referendum scinde l’atomo dei due poli

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segue a pagina 2

Nucleare sì o no? Destra e sinistra si dividono e litigano

di Pierre Chiartano

ROMA. Ormai è un vero e proprio domino nucleare. Potremmo definire così ciò che sta accadendo in Giappone nelle ultime ore. Dopo l’apocalisse sismica e l’onda assassina dello tsunami, si è innescato un gioco pericoloso con i reattori della centrale di Fukushima. Un gioco in cui gli uomini sono ormai spettatori, dopo aver tentato il possibile. Un gioco che, visto dall’Europa, corre sul filo delle agenzie stampa che, come “servi muti”, riportano notizie all’apparenza incoerenti rispetto alla logica comune. Il rischio è altissimo, ma le radiazioni calano. C’è pericolo di una contaminazione gigantesca, ma non parlate di «Chernobyl» per carità. Le immagini delle esplosioni causate dal rilascio d’idrogeno del sistema di raffreddamento hanno fatto il giro del mondo. E non tranquillizzano, perché continuano.

Marco Palombi • pagina 4

a pagina 2

Governare il futuro: due tesi a confronto

Franco Battaglia Jeremy Rifkin «Insisto, «No, senza nucleare non soltanto l’idrogeno possiamo riuscire ci può salvare a sopravvivere» dal disastro» Franco Insardà • pagine 6 e 7 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

52 •

WWW.LIBERAL.IT

Il popolo di Bengasi lasciato solo: Gheddafi all’attacco I ribelli ormai stanno per essere assediati e chiedono disperatamente aiuto agli arabi e all’Occidente Luisa Arezzo • pagina 12

LO SCENARIO PEGGIORE

LE MOSSE DI TEHERAN

Il vero rischio? L’Iran pronto Un’altra Bomba al rush finale di John R. Bolton

di Michael Ledeen

nche se il risultato finale rimane incerto, il vento in Libia sembra spirare a favore di Muammar Gheddafi. Nonostante questo dato di fatto, l’indecisione del presidente Obama ha limitato senza ombra di dubbio le opzioni americane, rendendo ancora più rischioso (e sempre meno destinato al successo) ogni potenziale intervento. Il rischio è che il Colonnello riprenda il suo programma nucleare e sviluppi la bomba. a pagina 12

l regime iraniano sta attaccando su tutti i fronti, aiutato dalla caduta dell’odiato Mubarak e dalla paralisi che sembra aver colpito l’Occidente. Il mancato sostegno alle rivoluzioni democratiche in Medioriente ha convinto i mullah di Teheran di non avere opposizioni reali, e per questo ora cercano di segnare il proprio punto nel minor tempo possibile, sia in casa che fuori casa. Preparano insomma un piano per radicalizzare tutta l’area. a pagina 14

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• CHIUSO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’allarme nucleare

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la polemica Quando l’ambientalismo specula sulla tragedia

Non si governa l’energia con le emozioni di Carlo Ripa di Meana segue dalla prima Insomma, mentre tutti avanzavano, l’Italia ha sospeso gli investimenti accumulando grande ritardo: prima di tutto tecnologico, e poi produttivo, perché sono state smontate quelle centrali che c’erano. Senza contare che due generazioni di studiosi, per non perdere le proprie specificità, sono andati all’estero a studiare. Ora, la tragedia giapponese, della quale comunque non abbiamo ancora intormazioni certe in termini di perdite radioattive, ha creato grande terrore dell’umanità. Ragione per la quale è difficile prendere una posizione equilibrata nel dibattito che si è aperto nel mondo. Basti pensare che se da un lato c’è chi è contrario per principio al nucleare civile, dall’altro c’è chi continua a produrne tranquillamente (come la Francia di Sarkozy) e ancora chi sta nel mezzo (magari per ragioni elettorali, come Angela Merkel che ha fermato due centrali perché troppo «vecchie»).

La razionalità, quindi, che è buona consigliera di questa complessità nella quale si muovono le viscere profonde dei popoli (e le loro paure irrazionali), deve far sì che non arrivino abbandoni e ripensamenti. Anzi; la tendenza a riflettere sulla possibilità di catastrofi in successione (terremoti, tsunami), dovrà contribuire a perfezionare il sistema di sicurezza. Beninteso, anche se nessuno potrà davvero pronunciare la frase che tutti vorremmo sentire, cioè «al 100% impianti sicuri», poiché nella vicenda umana e del nostro pianeta tutto è possibile. Proprio per questo la sfida da accettare non si limita all’utilizzo delle squadre di decontaminazione o usando sempre nuove tecnologie ma cercando di circoscrivere nel possibile umano la gravità dei fatti senza negarla. In Giappone, uno degli impianti esploso per primo era vetusto, risaliva agli anni Cinquanta. Questi impianti adesso andranno in pensione. Tra l’altro non tutta l’Europa orientale nonostante gli aiuti forniti, dopo l’unificazione tedesca e l’ingresso di molti paesi ex-comunisti nell’Unione Europea - ha modificato la tecnologia utilizzata a Chernobyl. Ossia quella tecnologia che in Unione Sovietca ha prodotto l’incidente e altrove ha accompagnato la vita delle centrali modello Chernobyl verso la rapida sostituzione con centrali all’occidentale, di matrice americana e francese, la più avanzata negli aggiornamenti. L’Italia deve resistere con la mente lucida, con conoscenza dei fatti, allineandosi alla tecnologia più esigente e più sperimentabile: lo può fare con più facilità e rapidità degli altri paesi perché dal punto di vista nucleare deve ricostruirsi da zero. Guai se dessimo spazio ancora una volta all’irrazionalità che ci ha fatto perdere tempo; che ha indebolito il nostro Paese; che ci ha consegnato all’illusione delle energie rinnovabili, con una spesa mostruosa e con risultati energetici irrisori. Soprattutto per l’eolico, il solare, che richiede ampie distese, il fotovoltaico, che consuma il territorio. Il paradosso da superare è semplice e grave: la nostra bolletta è la più cara di Europa, e ci costringe a vivere di importazioni per il nostro fabbisogno energetico, come se noi fossimo al sicuro, come se le Alpi potessero mettere al sicuro l’Italia del nord-est.

il fatto I reattori sul punto di fondere. La Borsa giapponese crolla e trascina tutti i mercati

Revisione nucleare

Ancora una grave esplosione a Fukushima e due nuove, forti scosse a Tokyo. Intanto i ministri Ue decidono di controllare tutti gli impianti nucleari. Vecchi e nuovi di Pierre Chiartano

ROMA. È un domino nucleare. Potremmo definire così ciò che sta accadendo in Giappone nelle ultime ore. Dopo l’apocalisse sismica e l’onda assassina dello tsunami, si è innescato un gioco pericoloso con i reattori della centrale di Fukushima. Un gioco in cui gli uomini sono ormai spettatori, dopo aver tentato il possibile. Un game che, visto dall’Europa, corre sul filo delle agenzie stampa che, come “servi muti”, riportano notizie all’apparenza incoerenti rispetto alla logica comune. Il rischio è altissimo, ma le radiazioni calano. C’è pericolo di una contaminazione gigantesca, ma non parlate di «Chernobyl» per carità. Le immagini delle esplosioni causate dal rilascio d’idrogeno del sistema di raffreddamento hanno fatto il giro del mondo. E non tranquillizzano, perché continuano. E sembra che una delle ultime abbia danneggiato il «guscio» di un reattore. Il Giappone, per voce del ministro degli Esteri, Takeaki Matsumoto esorta la comunità internazionale a non cadere nel panico. Allusione diretta all’invito di evacuazione che la Francia ha rivolto ai propri cittadini. «Informiamo costantemente l’Aiea, la stampa internazionale, i diplomatici e i cittadini stranieri presenti nel nostro Paese sulla situazione», ha aggiunto. Quanto agli aiuti dall’estero, il ministro ha sottolineato che «per il momento è stato chiesto all’Aiea l’invio di una equipe tecnica e, dunque, sarà utilizzato il know-how dell’Aiea». E la terra ha tremato di nuovo

ieri prima con una scossa di magnitudo 6.2 e poi con un’altra da 6.4, tanto per ricordare ai giapponesi che i fronti dell’emergenza sono ancora tutti aperti.

Ma le deflagrazioni si susseguono – ieri altre due a Fukushima Daiichi – e la lotta per impedire la sindrome cinese, la fusione totale delle barre che così verrebbero in contatto col terreno e con l’aria, sembra ormai una lotta impari. Sono tre i reattori con le barre d’uranio “scoperte”su cui buttare l’acqua dell’Oceano. E già la decisione di pompare acqua di mare sui reattori era un chiaro segno di quanto fosse “disperata” la situazione. Mentre la lista delle vittime sale, come era prevedibile, assieme ai dati sugli scomparsi che diventano purtroppo definitivi. I numeri sono quelli di una vera strage e andranno ben oltre le 10mila vittime degli ultimi bilanci. E se è stata l’acqua nera di fango e mare a provocare il maggior numero di vittime, ciò che domina queste ultime ore del dopo-tsunami è la paura di una contaminazione nucleare. Come se una paura dovesse scacciare l’altra. Anche sui dati di radioattività c’è l’altalena delle notizie. Il motivo è intuibile. Le esplosioni liberano vapori carichi di radiazioni, dove le barre sono scoperte prendono un carico aggiuntivo di isotopi e poi si spargono al vento. Ragione per cui dopo il picco iniziale i livelli tendono ad abbassarsi. E se passa un elicottero della Us Navy


l’allarme nucleare

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l’approfondimento

«Un disastro senza informazioni» «Non si sa quale sia la vera entità delle perdite radioattive»: parla Federico Troiani dell’Enea rancesco Troiani, coordinatore della ricerca nucleare dell’Enea e fino allo scorso anno presidente di Nucleco, la società partecipata da Sogin ed Enea che si occupa di gestire le scorie nucleari a bassa e media intensità, è uno degli esperti italiani più quotati. Gli abbiamo chiesto di valutare per liberal la crisi nucleare in atto alle centrali di Fukushima. Dottor Troiani, il livello delle radiazioni nei pressi della centrale nucleare di Fukushima, è «considerevolmente aumentato» e per questo motivo la popolazione entro un raggio di 30 chilometri dall’impianto dovrà rimanere nelle proprie abitazioni. Ma di quale aumento stiamo parlando? I dati che io monitoro sono quelli forniti da: Aiea, Organizzazione mondiale della sanità, Nisa (Agenzia di sicurezza nazionale giapponese) e Tepco (la compagnia elettrica di Tokyo, di fatto il gestore, e che aggiorna di ora in ora la situazione dei reattori). Ma rispetto a questi ultimi due bisogna dire che fino a sabato i dati erano illegibili perché pubblicati solo in giapponese. Adesso in Giappone si parla di livelli radioattivi dieci volte più del normale... È proprio questo il punto: quando si parla di valori che aumentano di dieci, cento, mille volte, bisognerebbe dire rispetto a che cosa, rispetto a quale valore di riferimento. E questo invece non è stato fatto. Dunque l’informazione è carente? È frammentata e non ci permette di valutare correttamente l’evoluzione della situazione. Il vero nocciolo della questione è se i contenimenti primari e i vessel dei quattro reattori, ma quello più a rischio è il numero 2, non siano stati

F

di Luisa Arezzo danneggiati. Se fosse così la situazione potrebbe rientrare. Viceversa, in presenza di seri danneggiamenti, non si può escludere la fuoriuscita radioattiva. I dati che abbiamo non ci permettono di sapere cosa ne è delle strutture di contenimento. Non ci sono nè numeri nè fatti oggettivi. Facciamo un passo indietro: quali sono i dati certi? I reattori sono tutti a rischio? Sappiamo che nei giorni scorsi le esplosioni hanno interessato i reattori

motore diesel messo dentro per generare corrente. Non lo sappiamo. Ma certamente l’incendio potrebbe trasformarsi in una fonte di emissione radioattiva. Rispetto ai dati, gli unici che abbiamo al momento sono quelli della Nisa di lunedì mattina, dunque al netto degli ultimi incidenti. Questi dati peraltro molto ermetici - parlano di 231 microsivert all’ora intorno all’unità 2. Dunque valori non ambientali ma comuqnue gestibili. Ci faccia un esempio concreto:

Il nocciolo è un oggetto di 4-5 metri di base e dieci metri di altezza. Se fondesse parzialmente la fusione sarebbe gestibile. Viceversa equivarrebbe a Chernobyl 1 e 3, che ieri c’è stata un’esplosione sul 2 e un incendio sul 4. Però: non si è capito dove sia avvenuta l’esplosione nel 2. I giapponesi dicono all’interno del sistema di contenimento del reattore, di fatto una sorta di anello, però devo riconoscere di avere qualche dubbio in proposito, perché normalmente si sgasa dall’alto e non da quel punto. Certo, potrebbero aver valutato necessario agire in altro modo, però qualche dubbio rimane. Sul 4 invece, la notizia dell’incidente è stata confermata solo dall’Aiea e non dai giapponesi, quindi direi che è credibile ma non certa. Secondo l’Agenzia sarebbe in corso un incendio, ma non dice cosa stia bruciando. Certamente si è sviluppato nel locale piscina degli elementi, ma quest’area non è un localino, ci sono diverse stanze. Potrebbe essere stato provocato da un un trasformatore o da un

a 160 chilometri al largo di Fukushima, l’equipaggio viene contaminato, come è successo lunedì. In questi giorni i meteorologi avranno un gran lavoro da svolgere: predire dove il vento porterà le particelle radioattive. Ieri infatti in tarda mattinata (in Italia) arrivavano notizie rassicuranti. I livelli di radioattività nell’impianto nucleare di Fukushima, pesantemente danneggiato, erano calati nettamente. Lo comunicava l’Agenzia internazionale per l’energia atomica. L’Aiea affermava che all’ingresso principale della centrale di Fukushima, all’una di notte di ieri, era stato rilevato un livello di radiazioni di 11,9 millisievert l’ora. Sei ore più tardi, il livello era sceso a 0,6 millisievert. L’Aiea utilizza questa unità per misurare le dosi di radiazioni assorbite dai tessuti umani. Un attimo di speranza, prima di un’altra esplosionee di un incendio. Gli Usa intanto hanno reso noto che segni di radioattività di basso livello sono stati rilevati (alle sette del mattino, ora locale) nella base militare di Yokosuka, nella baia di Tokyo.

cosa significano 231 microsivert all’ora? Intanto che ci troviamo davanti a un valore importante e non trascurabile. Per fortuna, però, la popolazione lì non c’è, è stata evacuata. Comunque: se uno sta dieci ore esposto a 231 micro-

di uranio isolate singolarmente – per evitare che s’inneschi una reazione a catena – e tra loro da scudi di materiali in grado di bloccare la radiazioni come, ad esempio, zirconio e berillio. Il nocciolo genera energia sotto forma di calore. Quindi ci troviamo davanti alla più antica macchina per energia: un enorme bollitore che produce vapore acqueo che fa girare delle turbine. Solo che il calore è prodotto dall’atomo. E si tratta di un calore enorme, contenuto non solo dagli scudi, ma anche da complessi sistemi di raffreddamento a fluidi che evitano il surriscaldamento delle barre e il rischio di esplosione. Ma a Fukushima si è

mente catastrofiche a causa della fusione del nocciolo, il crollo della Borsa nipponica come uno tsunami finanziario ha raggiunto i mercati mondiali.

Il crollo dell’indice Nikkei, che la notte scorsa (ricordiamo che Tokyo è otto ore avanti rispetto all’Italia) ha perso oltre dieci punti percentuali dopo il 6 per cento lasciato sul campo nella seduta di ieri, si ripercuote anche sui mercati europei che sono tutti in deciso calo. Il peggiore è stato Francoforte che perde il 4,34 per cento, mentre a Piazza Affari cede il 2,97 per cento. Ribassi pesanti anche per Parigi e per Londra. Insomma, non c’è spazio per tirare il fiato per il popolo del Sol Levante. Ma una nota di colore l’introduce una vicenda tutta italiana, come la tournee del Maggio fiorentino. Ieri il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, si era detto pronto a raggiungere in Giappone l’orchestra, giovedì, per assecondare la voglia di normalità espressa dal governo di Tokyo. Poi qualcosa ha fatto cambiare idea a Renzi: «contiamo nelle prossime 48 ore di riportare via tutti da Tokyo, e, possibilmente, di lasciare l’orchestra a Shangai e il coro in Italia. Che per il governo ci sia emergenza o meno, noi li riportiamo a casa». E ci sarebbero ancora circa 2mila italiani nel Paese, di cui la metà a Tokyo, che hanno ricevuto l’invito della nostra ambasciata a lasciare il Giappone.

L’indice Nikkei ha perso altri dieci punti percentuali, dopo i sei post-disastro. Per il Commissario dell’Unione europea all’Energia «siamo davanti a un’apocalisse»

La rilevazione proviene dalla portaerei George Washington. Sono state introdotte limitazioni «a livello precauzionale» alla permanenza esterna del personale, anche nella base aerea di Atsugi. Il nocciolo è il cuore di una centrale nucleare. È costituito da barre

verificata una forte perdita di liquido refrigerante e se il pompaggio di acqua marina non fosse sufficiente a raffreddare il nocciolo, il reattore potrebbe esplodere. Andrè-Claude Lacoste, responsabile dell’Authority per la sicurezza nucleare francese, ha stimato la gravità della situazione nei reattori nucleari di Fukushima tra 6 e 7 su una scala di 7. Tanto per intenderci: 7 è il livello con cui è stata classificata Chernobyl. E se cresce l’ansia nucleare per le conseguenze potenzial-

sivert, assorbe 2 millisivert, ovvero l’equivalente di una radiografia. La “dose”di una tac è di 6/7 millisivert. Il punto è che più si resta nell’area radioattiva, più la cosa si fa seria, soprattutto se la concentrazione aumenta. Certamente, il fatto che abbiano evacuato il personale interno al reattore 2 significa che è scoppiata un’emergenza nell’emergenza... Dunque la situazione potrebbe essere tragica? Preferisco dire che la situazione è molto seria ma che non siamo ancora (e sottolineo l’incertezza temprale) in una situazione di drammaticità. Questa roba non è una tisana, ma nemmeno motivo di suicidio. Se evolve in peggio bisogna vedere come evolve in peggio. Qual è il rischio peggiore? Il pericolo maggiormente paventato è che possa avvenire una fusione in larga scala del nocciolo, perché delle microfusioni sono gestibili. Il nocciolo è un oggetto di 4-5 metri di base e dieci metri di altezza. Se rimane scoperta la parte alta e fonde solo quella, ci troveremmo davanti a una fusione parziale e gestibile. Una fusione totale, come quella di Chernobyl è preoccupante, ma lo sarebbe ancor di più se la fusione totale andasse poi a danneggiare le strutture di contenimento. Se questo accadesse, allora l’evoluzione potrebbe essere, in base a quale sarà il grado di resistenza, maggiormente preoccupante. La Tepco dice che il contenimenti primari sono attivi, se questo fosse vero non ci troveremmo in quella situazione. Ma qualsiasi previsione è veramente difficile da azzardare.


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l’allarme nucleare

Gli scienziati di centrosinistra sono per il sì, i governatori di centrodestra sono per il no: la politica energetica a parti invertite

L’atomo trasversale

La tragedia giapponese ha riacceso anche in Italia il dibattito pro o contro il nucleare. Ma questa volta, a differenza di quanto avvenne ai tempi del disastro di Chernobyl, gli schieramenti attraversano (e spaccano) i partiti e i poli di Marco Palombi le – semplicemente il piano del governo è velleitario». quando, dentro la sinistra italiana, si riaprì il dibattito sul nu- conomico e insicuro, senza con- gretario del Pd Pierluigi Bersani polo di sinistra - non gradì, così cleare e c’è da scommetterci che tare l’insoluto problema della 72 personalità della ricerca, del- come la componente ecologista Nel centrodestra la situazione il (finora solo paventato) nuovo gestione delle scorie radioattive. la cultura e della politica: da del partito («Un appello figlio di è insieme più semplice e più Umberto Veronesi a Giorgio ideologie del passato», lo sco- complessa. La contrarietà ideofungo atomico giapponese non farà che ribadire il già detto: Tra i firmatari, insieme a sto- Salvini, da Margherita Hack a municò in fondatore di Legam- logica al ritorno al nucleare è sulla questione non ci sono rigi- rici oppositori del nucleare co- Edoardo Boncinelli, da Franco biente Ermete Realacci), ma praticamente assente, ma a livelde divisioni politiche, ma ci si me Ugo Bardi, spiccava il nome Debenedetti all’ex presidente Bersani si limitò a non aderire lo locale sono molti gli amminiconta – se è consentita l’espres- di Nazareno Gottardi, ex ricer- dell’Enel (e di Legambiente) né sconfessare, forse anche per- stratori contagiati dalla cosiddetsione – su una fragile linea di fa- catore dell’Euratom, la struttura Chicco Testa, più una pattuglia ché il suo vicesegretario Enrico ta sindrome Nimby (“non nel glia. Era il marzo scorso quando europea sull’atomica. Due mesi di parlamentari democrats (En- Letta non è insensibile al fasci- mio cortile”). Un esempio tipico 24 scienziati scrissero una lette- dopo, a maggio, risposero con rico Morando, Tiziano Treu, Pie- no dell’atomo: «Il nostro non è può essere considerato il goverra aperta contro i progetti sull’a- un appello pro-nucleare al se- tro Ichino, Andrea Margheri, un no ideologico – mise a verba- natore leghista del Veneto, Luca tomo del governo che ringalZaia: «Il Veneto non dovrà Erminio Quartiani e luzzì la tradizionale opposiFrancesco Tempestini). CONTRO-NUCLEARE DI DESTRA avere nessuna centrale nuPRO-NUCLEARE DI SINISTRA zione gauchiste alla riapercleare. La mia regione non L’energia da fissione nuha le caratteristiche per accleare non ha colore politura dei reattori in Italia: cettare basi nucleari». Non tico, scrivevano, al con«Quanto alle fonti di enerfosse chiaro, l’ex ministro – trario «quasi ovunque, gia, l’Italia non ha petrolio, che ad ogni buon conto votò nel mondo industrializnon ha metano, non ha carin Consiglio dei ministri il zato, è vista come un’inbone e non ha neppure uraddl a favore del ritorno all’asostituibile opportunità nio. La sua unica grande ritomo - ha ribadito ieri di esche contribuisce alla risorsa è il Sole, una fonte di sere «sempre stato contrario duzione del peso delle energia che durerà per 4 miENRICO LETTA MARGHERITA HACK RENATA POLVERINI UGO CAPPELLACCI all’insediamento di una cenfonti fossili, compatibile liardi di anni, una stazione trale in Veneto. È zona sismicon un modello di svilupdi servizio sempre aperta ca e il collaudo che abbiamo po ecosostenibile», men(…) Una corretta politica visto in Giappone è stato ditre la sinistra italiana è rienergetica deve basarsi sulla sastroso». Non che il presimasta vittima di un certo riduzione degli sprechi e dei dente del Veneto sia solo in «spirito antiscientifico, consumi e sullo sviluppo delquesto “sì, ma no”alle centraelitario e snobistico». La l’energia solare e delle altre base del Pd - che resta roli: praticamente tutti i goverenergie rinnovabili». Il nutondamente antinuclearinatori sono ufficialmente cleare, sostenevano questi UMBERTO VERONESI TULLIO REGGE LUCA ZAIA ROBERTO FORMIGONI contrari – visto che le poposta come il resto del poscienziati, è obsoleto, antie-

ROMA. Era la primavera scorsa


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Lo tsunami emotivo gioca brutti scherzi: psicosi collettiva per una profezia sul prossimo sisma

E in Rete impazza il fantasma di un terremoto a Roma

Tornano in auge le teorie di Bendandi, ma avverte il geologo Cavinato (Cnr): «Le scosse non sono prevedibili. Il problema è la prevenzione: se ne fa poca» di Riccardo Paradisi o tsunami che ha colpito il Giappone lo scorso 11 marzo ne ha generato un altro. Uno tsunami emotivo che non investe paesaggi, case e centrali nucleari ma percorre il pianeta con la rapidità delle immagini satellitari e attraversa le anime di milioni di uomini in tutto il mondo, risvegliando nell’inconscio collettivo la grande paura.

L

Sicchè se a livello mondiale s’è riattivato come il fuoco sotto al cenere l’attesa del 2012 - data individuata dagli antichi maya come lo start-up della fine della presente e era e di questo mondo - in Italia tornano in auge teorie e previsioni di terremoti su Roma che sarebbero stati elaborati da una curiosa figura di ricercatore parascientifico il cui nome, da giorni, sta rimbalzando sulla rete con velocità e intensità impressionante, generando una vera e propria psicosi internettiana. Parliamo di Raffaele Bendandi, figura a suo modo inquietante visto che almeno un paio delle sue previsioni sembrano siano andate a segno. Nato nel 1893 e morto nel 1979, Bendandi diventa presto noto come “l’uomo dei terremoti”in base ad una sua stravagante teoria, e come tale mai riconosciuta scientificamente dai sismologi, basata sul fatto che la Luna e gli altri pianeti (insieme al Sole) sono la causa dei movimenti della crosta terrestre. È studiando questi movimenti che Bendandi scrisse nel 1923, davanti ad un notaio di Faenza, che il 2 gennaio 1924 si sarebbe verificato un terremoto nelle Marche. Il terremoto accadde davvero, anche se due giorni dopo la data prevista, ed è passato alla storia come il terremoto di Senigallia. Dopo questo episodio fu il Corriere della sera a definire Bendandi come l’uomo dei terremoti. Il regime fascista però riduce al silenzio l’autodidatta di genio, sembra per le pressioni degli ambienti accademici che lo dipingono come un ciarlatano e che in fondo, sostengono i suoi eccentrici discepoli, ne invidiano la capacità previsionale. Tornato libero di parlare Bendandi sembra riuscire a prevedere con una certa precisione anche il terremoto del Friuli. Bendandi muore nel 1979 e di lui non si parla più per lungo tempo. Fino a quando su internet, prima del sisma che ha colpito il Sol levante e in riferimento alle paure apocalittiche del 2012, si torna a parlare di lui soprattutto in quel calderone spesso irrazionale che è internet. E comincia a girare la leggenda metropolitana che tra le carte del ricercatore ve ne sarebbero state alcune che contengono previsioni su due terremoti devastanti per Roma profetizzati per il 21011 e per il 2012. Precisamente per l’11 maggio 2012 per il 3-4 aprile 2012. Fantascienza si direbbe, irrazionalismo, se non fosse che di cultori di questo genere ne esistono parecchi. Giampaolo Cavinato geologo e

ricercatore del Cnr lo spiega col fatto che esiste purtroppo uno scarsissimo livello di divulgazione scientifica: «Certi argomenti diventano interessanti solo in caso di grandi calamità naturali come quelle che hanno colpito il Giappone. Durante il resto dell’anno ci si dimentica in fretta di cose importanti che si apprendono in questi momenti e che si riferiscono alla prevenzione, alla fenomenologia del sisma, alla sua sostanziale imprevedibilità». Già, perché i terremo-

Lo tsunami emotivo percorre il pianeta e le anime con la rapidità delle immagini satellitari ti restano un fenomeno imprevedibile. «Ognuno come ricercatore avrebbe il desiderio di avere qualche capacità previsionale – dice ancora a liberal Cavinato – l’unica possibilità lontanamente previsionale è quella fondata sulla statistica. Ci sono delimitate zone individuate come particolarmente sismiche e ci sono degli studi di inferenza storica del fenomeno sismico. La ciclicità con cui riappare. Si può ragionare su questi dati, non su altri. Per il resto non sappiamo cosa avviene in profondità nella crosta terrestre. E non sappiamo che cosa possa produrre sistemicamente il cataclisma avvenuto in Giappone: un piastrone lungo e largo di 10mila chilometri che si inflette in diversi punti lungo i margini del Giappone, che dalla parte opposta si inflette sulla Russia occidentale e poi in Alaska. Ecco noi non siamo in grado di misurare e quantificare dove si sta accumulando questa energia». A scanso di equivoci comunque Cavinato esclude che in Italia si potrebbero avere terremoti così forti. In Giappone, per dire, è stata rilasciata un’energia trentamila volte superiore a quella dell’Aquila. In Italia peraltro abbiamo faglie attive ma che si

muovono alla lunghezza di qualche chilometro». Restano il paio di previsioni più o meno indovinate da Bendandi. Cavinato non esclude che il metodo di Bendandi, fondato sull’attrazione gravitazionale, assieme a qualche fortunata coincidenza, possa aver regalato qualche intuizione a questo strano ricercatore ma insomma pensare che potesse fare previsioni a distanza di trenta-quarant’anni è davvero assurdo. Peraltro non si capisce perché Bendandi non avrebbe previsto il terremoto dell’Irpinia o quello dell’Aquila». Sarebbe però importante ragionare in termini di prevenzione piuttosto che di profezia. «Un fronte quello della prevenzione – ammonisce infatti Cavinato – in cui l’Italia è terribilmente indietro. Insomma ci si dovrebbe preoccupare di ciò di cui è razionale preoccuparsi e su cui è possibile intervenire monitorando attentamente per esempio la natura del terreno e del fondamento dove sorgono le costruzioni e intervenendo sulle strutture che non sono antisismiche.

Tornando alle profezie di Bendandi ci sono ragionevoli motivi per non preoccuparsi più di tanto. Tanto più che la stessa Paola Lagorio, presidente dell’Associazione “La Bendandiana” ricorda come: «Nei documenti relativi al 2011 non si trova nessun riferimento a luoghi o date precise, come quelle che sono state riportate su Internet. Le notizie su un presunto terremoto previsto per l’11 maggio 2011 a Roma sono destituite di ogni fondamento». Insomma una bufala a cui la paura ha messo le ali.

lazioni non vogliono i reattori né i depositi per le scorie vicino a casa – ma quelli del centrodestra sono contemporaneamente costretti a dare il loro sostegno al progetto atomico predisposto a suo da tempo da Claudio Scajola. Anche il ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo, che ufficialmente è pro-nucleare e ufficiosamente un po’meno, s’è buttata sulla questione della sicurezza per fare qualche distinguo: «A noi sta a cuore l’indipendenza energetica dell’Italia, ma prima e di più sta a cuore la salute e la sicurezza dei cittadini e non sarà mai assunta alcuna decisione che la possa metterle a rischio».

È sul territorio, però, e ad altezze di carriera politica meno vertiginose, che il centrodestra si mostra più complesso: nel Lazio, ad esempio, sono usciti allo scoperto due importanti dirigenti provenienti da An che chiedono al governo un ripensamento. Il deputato Fabio Rampelli ha sostenuto che «l’Italia dovrebbe puntare sul nucleare pulito (le cosiddette centrali di quarta generazione, ndr) trasformando la nostra apparente debolezza, data dall’assenza di reattori nucleari sul nostro territorio, in forza». Della stessa idea il presidente del Pdl romano Andrea De Priamo: «Sono personalmente convinto che l’Italia debba puntare su un mix di fonti, partendo dall’idroelettrico, dall’eolico, dal solare e dalle biomasse fino alla ricerca sul nucleare pulito di quarta generazione da fusione nucleare». Resta invece saldamente nel campo dei favorevoli l’Udc: «Bisogna essere seri e non si può cambiare opinione a seconda degli eventi, se pur drammatici come quelli del Giappone», ha detto ieri Pier Ferdinando Casini: «Il progresso ha dosi di rischio: in Giappone sono crollate anche le dighe, ma nessuno dice che non bisogna più costruire dighe». Detto questo, il problema attuale non è la posizione di questo o quel partito, di questo o quel politico o scienziato: il progetto del governo, infatti, vale solo quanto la carta su cui è scritto (più qualche consulenza, che ci scappa sempre). L’esecutivo - per capirci sull’importanza annessa da palazzo Chigi alla cosa - ieri non si è nemmeno presentato in commissione alla Camera per esprimere un parere sul suo stesso decreto in materia, mentre la neonata Agenzia per la sicurezza nucleare è ancora in altissimo mare: «Il lavoro è fermo - ha spiegato il presidente Umberto Veronesi - Siamo cinque persone e stiamo ancora mettendo su le basi che permetteranno all’Agenzia di funzionare. Certo, non abbiamo ancora una sede e succede che dobbiamo trovarci a discutere attorno al tavolo di un bar». I nostri splendidi destini energetici, insomma, si discutono davanti ad un caffè: d’altronde siamo in Italia.


l’allarme nucleare

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JEREMY RIFKIN

Ripartiamo dall’idrogeno di Francesco De Felice

ROMA. La posizione di Jeremy Rifkin sul nucleare è notissima. L’economista di fama mondiale è presidente della Foundation on Economic Trends e autore di veri e propri bestseller sull’impatto dei cambiamenti scientifici e tecnologici sull’economia, la forza lavoro, la società e l’ambiente. Da tempo sostiene che occorre «aprire la strada all’economia dell’idrogeno e alla terza rivoluzione industriale». Rifkin parte dalla premessa che «è ormai evidente che ci stiamo avvicinando al tramonto dell’era del petrolio nella prima metà del ventunesimo secolo. Il prezzo del petrolio sui mercati globali continua a salire e si può prevedere che il punto massimo verrà raggiunto nei prossimi decenni. Allo stesso tempo, il drammatico aumento delle emissioni di anidride carbonica derivante dalla combustione dei carburanti fossili sta aumentando la temperatura della terra e minaccia di causare un cambiamento senza precedenti nel clima globale e nella chimica del pianeta, con conseguenze indicibili per il futuro della civiltà umana e degli ecosistemi del pianeta». Secondo l’economista americano il continuo aumento dell’energia «derivante da carburanti fossili ed il crescente peggioramento del clima terrestre e dell’ecologia sono fattori scatenanti, che condizioneranno tutte le decisioni economiche e politiche che prenderemo nei prossimi cinquant’anni». Rifkin analizza i grandi mutamenti economici fondamentali nella storia mondiale che «si verificano quando nuovi regimi energetici convergono con nuovi regimi di comunicazione. Quando tale convergenza avviene, la società viene ristrutturata in modi completamente nuovi. Sarebbe stato impossibile organizzare l’aumento vertiginoso del ritmo, della velocità, del flusso, della densità e della connettività dell’attività economica reso possibile dal motore alimentato dal vapore prodotto dalla combustione del carbone utilizzando i vecchi codici e le vecchie forme di comunicazione orale». Dalla combustione del vapore e della stampa, al telefono entrato in funzione nello stesso momento dell’introduzione del petrolio e del motore a scoppio, fino alla «grande rivoluzione della comunicazione è avvenuta negli anni novanta. I Pc, internet, il World Wide Web, e tecnologie di comunicazione wireless hanno collegato il sistema nervoso centrale di oltre un miliardo di persone sulla terra alla velocità della luce. E sebbene il nuovo software e le rivoluzioni nel campo delle comunicazioni abbiano iniziato ad aumentare la produttività in ogni industria, il loro vero potenziale si deve ancora realizzare pienamente. Tale potenziale si trova nella loro convergenza con l’energia rinnovabile e la tecnologia del deposito di cellule di combustibile all’idrogeno (hydrogen fuel cell storage) per creare i primi regimi di energia distribuita. Gli stessi principi progettuali e tecnologie intelligenti che hanno reso possibile internet e vaste reti di comunicazione decentralizzate, saranno utilizzati per ri-

configurare le reti energetiche del mondo, così che le persone possano allo stesso tempo produrre e condividere l’energia con i propri simili, proprio come ora producono e condividono informazioni, creando una nuova forma decentralizzata di utilizzo dell’energia». Partendo da queste premesse il presidente della Foundation on Economic Trends sostiene che «la creazione di un regime di energia rinnovabile, tecnologia di cellule di combustibile all’idrogeno (hydrogen fuel cell technology) e griglie di energia intelligente apre la porta alla Terza Rivoluzione Industriale e dovrebbe avere un potente effetto di moltiplicatore elettronico nel ventunesimo secolo come quello che si ebbe a seguito dell’introduzione della tecnologia generata dal carbone e dal vapore nel diciannovesimo secolo, e dal petrolio e dal motore a combustione interna nel ventesimo secolo». Rifkin avverte, però, che «una società basata sull’energia rinnovabile è impossibile a meno che l’energia non possa essere conservata sotto forma di idrogeno. Il motivo di ciò è che l’energia è intermittente. Il sole non splende sempre. Il vento non soffia sempre, l’acqua non scorre sempre quando c’è un periodo di siccità, ed i raccolti agricoli sono variabili. Quando l’energia rinnovabile non è disponibile, l’elettricità non può essere generata e l’attività economica subisce un arresto. Ma se una parte dell’elettricità che viene prodotta quando l’energia rinnovabile è abbondante viene utilizzata per estrarre dall’acqua l’idrogeno e quest’ultimo viene poi immagazzinato per poterlo utilizzare successivamente, la società avrà una fornitura continua di energia. L’idrogeno si può anche estrarre dalle biomasse quando i raccolti agricoli sono abbondanti, ed immagazzinato allo stesso modo». E riferendosi all’impegno assunto dall’Unione europea nel 2007 per produrre il 20 per cento della propria energia entro il 2020 utilizzando fonti di energia rinnovabile Rifkin ricorda che «la Commissione europea riconosce che un maggiore affidamento alle fonti di energia rinnovabile deve accompagnarsi allo sviluppo della capacità di deposito di cellule di combustibile all’idrogeno e nel 2003 ha istituito una piattaforma per la tecnologia dell’idrogeno, un programma di ricerca e sviluppo da due miliardi di euro che ha portato l’Europa in prima linea nella corsa verso un futuro all’idrogeno».

La creazione di un regime di energia rinnovabile, tecnologia di cellule all’idrogeno ed energia intelligente apre la porta alla Terza Rivoluzione Industriale

L’economista ricordando che l’Unione europea è nata «riunendo le nazioni europee intorno ad una politica energetica comune, prima con la Ceca e subito dopo con la creazione dell’Euratom». Ritiene che «se l’Unione europea può efrendere fettivamente operativo un regime di energia all’idrogeno distribuita in tutto il continente e creare un’infrastruttura di logistica integrata, con una griglia di trasporto, comunicazione ed energia ininterrotta così che 500 milioni di consumatori si possano impegnare nel commercio e nello scambio in tutti i 27 stati membri con efficienza e facilità, sarà in grado di diventare l’economia più competitiva del mondo».

Le opposte tesi che si confrontano nel mondo

Un futuro o due?


l’allarme nucleare

16 marzo 2011 • pagina 7

FRANCO BATTAGLIA

No, il nucleare va usato di Franco Insardà

ROMA. Franco Battaglia, docente di Chimica ambientale all’università di Modena, è da sempre sostenitore della necessità di utilizzare il nucleare come fonte di energia, al punto che un suo studio si intitola : “La ineluttabile necessità del nucleare”. Il professor Battaglia non si sottrae a confronti, spesso aspri, per argomentare le sue tesi e, a poche ore dalla tragedia giapponese, in un editoriale pubblicato su il Giornale, sosteneva la sicurezza delle centrali. Professore ne è ancora convinto? Il futuro per preservare la nostra civiltà è il nucleare che è la tecnologia più sicura. Quell’articolo va contestualizzato ed era una critica a chi metteva il carro davanti ai buoi. In quel momento la situazione era che i 55 reattori nucleari giapponesi, rispetto alle scosse di terremoto, si sono comportati perfettamente e 11 si sono spenti automaticamente. La mia è stata una sorta di reazione rispetto all’allarme fuoriluogo che veniva sbandierato dai media. Il problema però si è posto a Fukushima. Parliamo di una centrale investita dallo tsunami che ha interrotto l’energia elettrica agli impianti di raffreddamento. Oggi, non sabato, sappiamo che i reattori sono a rischio fusione. È scattata la paura di una nuova Chernobyl. Se mi avessero messo con le spalle al muro e avessi dovuto scegliere tra il terremoto o un’altra Chernobyl avrei risposto: cento Chernobyl. Ci spiega il perché. Occorre basarsi sul rapporto Unscear, un comitato scientifico composto da membri di venti nazioni sotto l’egida dell’Onu istituito a metà degli anni ’50 con il compito di studiare gli effetti delle radiazioni atomiche in questi 25 anni. Che cosa dice questo rapporto? Quell’incidente, che definirei piuttosto un atto criminale del comunismo sovietico dal momento che fu fatto un esperimento contravvenendo a qualsiasi divieto e disinnescando i sistemi di sicurezza. A causa dell’esplosione morirono tre persone, due sotto le macerie e uno d’infarto, ma furono inviati a spegnere l’incendio un centinaio di persone sprovviste di protezioni contro le radiazioni, di questi ne morirono 28 ai quali vanno aggiunti altri 19 fino ad oggi. Quindi il totale dei morti causati da Chernobyl è di 52 e il rapporto dell’Unscear dice testualmente che: “non si è osservata in questi 25 anni alcuna incidenza in alcuna patologia legata alle radiazioni”, con la sola eccezione dell’aumento di incidenza dei tumori alla tiroide, calcolata in seimila casi, con quindici decessi. È chiaro che anche una singola morte va evitata, ma ricordiamoci che la diga del Vajont ha provocato quasi duemila morti in una sola notte. Professore, si mette a fare il ragioniere... Si tratta di guardare le cose in modo freddo e razionale, analizzando le cifre che sono mille volte inferiori ai tanti decessi causati da altri incidenti. I fatti sono questi, il resto sono chiacchere. Intanto si parla di disastro nucleare in Giappone. lLa verità è che lì è successo ben altro, ma gli viene dato poco rilievo dalla stampa. A che cosa si riferisce?

Ci sono migliaia di morti causati dallo tsunami che ha travolto dighe, navi, treni e case. C’è un Paese in ginocchio, ma sulle prime pagine dei giornali campeggia il problema nucleare che non ha causato morti. Intanto l’economista Jeremy Rifkin ha dichiarato che il nucleare ormai è morto. Ognuno può avere delle opinioni, ma le teorie scientifiche sono altra cosa. Quando si dice che la Merkel ha chiuso due centrali nucleari bisognerebbe spiegarne i motivi e capire perché le altre diciassette sono in funzione. Stesso discorso si deve fare per l’Italia per chi si oppone al nucleare, considerando che nel raggio di duecento chilometri da Milano ci sono 22 reattori, otto dei quali producono energia solo per l’Italia. E la posizione di Rifkin sull’idrogeno e le energie rinnovabili? Rifkin è un economista, non un fisico e bisognerebbe informarlo che le esplosioni nella centrale giapponese sono state causate proprio dall’idrogeno. Secondo l’economista americano il parco nucleare mondiale è vecchio e dà solo il 5 per cento del’energia. È così? La prima cosa è vera, infatti in quella centrale giapponese erano in costruzione due reattori che avrebbero dovuto sostituirne quattro costruiti negli anni ’70. Il nucleare produce energia elettrica e il rapporto non si può fare con l’energia primaria. Il dato vero è che il nucleare produce il 15/16 per cento dell’energia elettrica mondiale, la prima in Europa e la seconda negli Stati Uniti. Lei è d’accordo quindi con il governo che vuole andare avanti con il piano per le centrali nucleari in Italia? Il governo, però, dovrebbe fare una campagna di informazione per diffondere i dati dei quali parlavo prima, facendo conoscere il rapporto dell’Unscear. Intanto c’è polemica anche sui reattori francesi che dovrebbero essere installati in Italia, considerati già vecchi. Non è vero, parliamo di reattori di generazione 3+, gli ultimi disponibili, quelli di quarta generazione non lo sono ancora. Quelli giapponesi, invece, erano di seconda, ma il problema si è creato per la mancanza di energia elettrica, non per l’obsolescenza dell’impianto. Il futuro che immagina Rifkin è legato, invece, alle rinnovabili. Lei invece? Il mondo ha bisogno che l’energia sia erogata nel momento, nel luogo e con la potenza richiesta: se non ha queste caratteristiche è inutile. Per questo motivo il fotovoltaico contribuisce per lo 0,001 per cento. E la soglia del 20, 20, 20 prevista dalla Ue? Non è realizzabile, perché oggi i reattori nucleari evitano l’immissione del 20 per cento di CO2. Per immetterne il 20 per cento in meno bisognerebbe raddoppiare il parco nucleare europeo, ma le centrali in costruzione sono solo due. Il rapporto con l’eloico non esiste, perché a ogni reattore corrispondono 5000 turbine, e i costi del fotovoltaico sono dieci volte maggiori. E l’idrogeno di Rifkin? Si immagina il pericolo che si correrebbe con serbatoi di idrogeno, compresso a trecento atmosfere. Una follia.

Si parla solo delle centrali, mentre sono state spazzate via dighe, strade e ferrovie. Meglio cento Chernobyl piuttosto che il terremoto o lo tsunami


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lla fine dell’anno scorso sono comparse quasi contemporaneamente importanti opere di Ungaretti, di Montale e di Saba. Ungaretti scherzando diceva che i tre poeti erano considerati in Italia «la Santissima Trinità». Il “Meridiano “ Mondadori che raccoglie tutte le traduzioni poetiche di Giuseppe Ungaretti era da molto atteso e costituisce un evento importante per la storia della poesia del Novecento. A cura di Carlo Ossola e di Giulia Radin, è un volume di 1.620 pagine, 70 delle quali sono prese dalla introduzione di Ossola con un’ampia cronologia, naturalmente con testo a fronte e con molte note dello stesso Ungaretti.

A

Il grande critico ripercorre la cronistoria dell’immaginario italiano attraverso le o

Anni fa in televisione fu trasmessa una riduzione dell’Odissea e molti ricorderanno come all’inizio di ogni puntata apparisse il volto vecchio ma vivace di Ungaretti che leggeva frammenti di Omero nelle sue traduzioni. Ma nel volume nell’ordine si incontrano traduzioni dalla Anabasi di Perce, I Canti d’innocenza e d’esperienza e Visioni di William Blake, sonetti di Gongora, frammenti di Essenin e di Paulhan, 40 sonetti di Shakespeare, la Fedra di

Il Novecento e la luce

Racine, Il pomeriggio d’un fauno di Mallarmé insieme a Cantico di S. Giovanni, poeti brasiliani anche contemporanei, e ci sono anche – forse inaspettate – traduzioni in francese dal Leopardi dello Zibaldone. Chiudono testi di Machaux, di Pound, di Mendes, di Frenaud e di Francis Ponge, di tre poesie di Rimbaud e di frammenti tradotti dal greco di Lucrezio e di Omero.

«O famelico tempo, la zampa del leone corrodi / e fa’ che la terra divori la propria genitura; / i denti aguzzi strappa dalle mascelle delle tigri / e ardi la fenice longeva e consumale il sangue»: questa la prima quartina del sonetto XIX di Shakespeare. E ancora Sonetto XXVIII: «Come potrei dunque tornare a uno stato felice, / quando sono rescisso dal beneficio della quiete, quando l’oppressione del giorno, la notte non allieva / quando il giorno, da notte, e la notte sono oppresso dal giorno // Quando entrambi, nemici l’uno al regno dell’altra, / di darsi la mano consentono per impormi tortura, / il primo, con

di Leone Piccioni gli affanni, lei col pianto che io apra agli affanni / un varco da lontano più ancora lontano da te». Sono tutte opere di grande impegno ma forse la cosa che più colpisce è la traduzione della Fedra di Racine. Me ne scriveva in una lettera del 17 agosto del ’49: «Ho il manoscritto della Fedra da rivedere. E non è cosa da nulla; e deve essere consegnato a fine agosto al più tardi. Vedrà che cosa stupenda è riuscita. Quasi l’originale, e a volte forse meglio o più ingenuo, più umano. Se è amatore di statistiche: otto mesi di lavoro m’è costata e, in media, cinque ore al giorno: 1200 ore dunque; e ce ne vorrebbero altre».

Di Eugenio Montale(18961981) è stato ristampato il Diario del ’71 e del ‘72 un centinaio di poesie, spesso brevi, fatte di aforismi, con un notevole scorrimento di ironia contro se stesso, con una trascrizione del mondo e dell’umanità che potrebbe parere solo descrittiva e neutrale, mentre è cosparsa di spine di

Ritornano i versi di Saba, Ungaretti e Montale: nelle loro invenzioni c’è il dolore di un secolo rose e di spilli di ghiaccio che non si possono nascondere attorno ad altre cose. Non è più il canto poetico degli Ossi o delle Occasioni, ma viene segnata in questi versi una patina insieme liscia e fortemente pungente, che è poi una sorta di cronistoria della vita stessa del poeta. Il volume è curato da Massimo Gezzi con una introduzione di una

settantina di pagine di Angelo Iacomuzzi ed una postfazione di Andrea Zanzotto. Le poesie una per una sono commentate e i commenti, sempre utili e interessanti, prendono più di 420 pagine. Un centinaio di poesie con 420 pagine di commenti la dice lunga sulle difficoltà interpretative (o rimandi mitologici, storici, oppure derivati

Qui sopra, Leone Piccioni. In alto, da sinistra, Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti e Umberto Saba. Più a destra, un ritratto di William Shakespeare

dalle altre opere di Montale) delle poesie stesse. Ma spesso anche qui Montale sa liberarsi di queste sovrastrutture. Ecco, la poesia a questo punto: è solo l’inizio: «A questo punto smetti / dice l’ombra. / T’ho accompagnato in guerra e in pace e anche nell’intermedio / sono stato per te l’esaltazione e il tedio, / t’ho insufflato virtù che non possiedi, / vizi che non avevi. Se ora mi stacco / da te non avrai pena, sarai lieve / più delle foglie, mobile come il vento… A questo punto smetti, strappati dal mio fiato / e cammina nel cielo come un razzo». O più scherzosamente: «Gettavi i pesci vivi e pellicani famelici. / Sono vita anche i pesci fu rilevato, ma / di gerarchia inferiore // A quale gerarchia apparteniamo noi / e in quali fauci…? Qui tacque il teologo / e si asciugò il sudore». Sono state queste citazioni dal Diario del ‘71. Non mancano certo occasioni per il Diario del ‘72. Ecco Gli uomini si sono organizzati: «Gli uomini si sono organizzati (come se fossero


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opere dei tre grandi che l’autore del «Porto sepolto», ironicamente, chiamava «la santissima trinità» I Sonetti di Shakespeare tradotti da Ungaretti

La musica delle emozioni di Nicola Fano hi c’era, se lo ricorda di sicuro. Poco prima di morire, Giuseppe Ungaretti fu chiamato dalla Rai (ah, la Rai di allora!) a leggere alcuni versi dell’Odissea (lo ricorda qui accanto Leone Piccioni). Quei filmati facevano da introduzione alla trasmissione del mitico sceneggiato di Franco Rossi con Bekim Fehmiu. La visione dell’Odissea era un evento: non era come quel che si racconta di Lascia o raddoppia? nel bar degli anni Cinquanta, ma certo la vita familiare si fermava alla domenica sera per la puntata di Odissea. Nella mia memoria di bambino, però, è scolpita la gioia palese di quell’Ungaretti che leggeva Omero: non ci si capiva nulla; era solo musica delle parole. Pura musica delle parole. È attraverso quella visione (il vecchio Ungaretti sembrava uno spirito infernale: furioso e magnifico, con due occhi che ti trafiggevano, che sembravano sottlineare ogni parola) che molti di noi hanno scoperto il senso della poesia. La sua forza prima di tutto evocativa per via della musica delle parole. Alla stessa convinzione si giunge leggendo i Sonetti di Shakespeare: testi probabilmente non destinati alla pubblicazione ma di grande valore privato (dovevano essere messaggi «personali») ancorché spesso incomprensibili. Conta la musica, più che il senso. E quanti in essi hanno cercato segni della biografia del poeta o tracce delle sue idee e delle sue passioni hanno finito per sbattere contro un muro. Bisogna lasciarsi andare di fronte alla musica, alla follia delle immagini, all’azzardo degli accostamenti. Esattamente come noi bambini del 1969 restavamo affascinanti dalla voce incomprensibile di quel genio (a noi) ignoto di Ungaretti.

C

Il bello dello Shakespeare poeta è che è incomprensibile, letteralmente. E più ci si ostina a inseguirne un possibile senso, più ci si allontana dalla realtà. La traduzione di Ungaretti (sonora, fedele, sapiente: da poeta a poeta) sgombra il campo dal senso e si butta sulla musica. Del resto, Ungaretti, con la sua vitalità, con i suoi versi assoluti e quasi sfacciati nel metterti in faccia la vita è forse il più shakespeariano tra i nostri grandi novecenteschi. Non a caso, anche Montale si provò a tradurre i Sonetti ma il risultato non è all’altezza di quello ungarettiano. La riprova è nella versione montaliana di Amleto: il rigore fa premio sulla vitalità. Manca il teatro, in altre parole. E invece nei Sonetti riscritti da Ungaretti la vita è sporca come deve essere: la grande qualità dello Shakespeare è il suo volare basso, «buttare via le parole», come direbbe un attore. Che non vuol dire disprezzarle, naturalmente, ma esaltarle per ciò che sono: il suono delle emozioni.

Anche Montale affrontò i versi dell’autore inglese, ma il risultato non fu lo stesso: troppa «accademia» e soprattutto poca vita vissuta

dei poeti mortali, senza di che non si avrebbero – giorni, giornali, cimiteri, scampoli / di ciò che non è più // Gli uomini si sono organizzati come se fossero immortali, / senza di che sarebbe stolto credere / che nell’essere viva ciò che fu». Fino alla splendida chiusura della raccolta: «Raccomando ai miei posteri / (se ne saranno) in sede letteraria, / il che resta improbabile, di fare, / un bel falò di tutto che riguardi / la mia vita, i miei fatti, i miei non fatti. / non sono un Leopardi, lascio poco da ardere / ed è già troppo vivere in percentuale. / Vissi al cinque per cento, non aumentate / la dose. Troppo spesso invece piove / sul bagnato». Di questa raccolta Ungaretti scherzosamente diceva: «Non la leggo, sennò mi sciupo!».

L’editore Einaudi ha fatto ques’anno un bel regalo con una edizione fuori commercio riservata ai clienti dell’organizzazione rateale con il Canzoniere di Umberto Saba (1883-1957) nella ultima edizione del ’48 che il poeta visionò personalmente. La poesia di Saba nasce con forti di-

pendenze dalla grande poesia italiana di Leopardi e di Foscolo, con un interesse particolare anche per la poesia di Carducci e di D’Annunzio. A D’Annunzio Saba mandò da giovane le sue poesie cercando un incoraggiamento. Non ebbe risposta. Con il passare degli anni Saba diventa sempre più unico padrone del suo linguaggio, del suo stile, della sua posizione di fronte alla vita, al dolore, all’amore facendo spesso zampillare l’acqua freschissima della sua memoria, dei suoi incanti, della sua benevola ironia. Ho incontrato più volte Saba e mi sono legato di grande affetto per lui e per il suo lavoro (conservo alcune lettere belllissime scritte poco prima di morire). Vogliamo anche qui brevemente antologizzzare: da Trieste e una donna: «Anima, se ti pare che abbastanza / vagabondammo per giungere a sera, / vogliamo entrare nella nostra stanza, / chiuderla e farci un po’ di primavera?». E ancora da Cose leggere e vaganti: «Un marinaio di noi mi parlava, / di noi fra un ritornello di caverna. / Sotto l’azzurra blusa una fraterna / pe-

Figurarsi la meraviglia a leggere le tradizioni shakespeariane di Ungaretti! Le trovai nel sottoscala di una vecchia libreria in una vecchia edizione dello Specchio. na a me l’uguagliava. // La sua staria d’amore a me narrando, / sparger lo vidi una lacrima sola. / Ma una lacrima d’uomo, una, una sola, / val tutto il vostro pianto».

La p roduzione poetica letteraria di Saba va ben oltre la data del ’48 che chiude il Canzoniere. Devono venire ancora anni duri per Saba, per le sue emozioni, per le sue stanchezze, per una certa fatica del vivere. In Sei poesie della vecchiaia (1953-1954) si legge: «I vecchi del villaggio hanno (se l’hanno) / il tabacco. Hanno il vino rosso. A po-

chi / passi il temuto cimitero. Ed io / (non quello temo ai vinti unico pio) / avrei dovuto guarire, sottrarmi / un farmaco letale, caricarmi / di pesi sempre più gravi (ed è questa / - lo so – la legge della vita); darmi / promettevano in cambio essi una festa; // essi, i miei buoni amici. Perché tutto / ti concedono i buoni, e non la morte». Nell’ultima parte della vita di Saba apparve anche un breve racconto di grande luminosità ed emozione: Ernesto. Tanta luce da Saba assorbita nella splendida marina di Trieste, nascevano pagine ricchissi-

me e nuove nelle quali pareva di avere a che fare con un giovane e non un vecchio poeta. Del resto come poeta Saba non fu mai vecchio. «Ho in casa, come vedi, un canarino / giallo screziato di verde sua madre / certo, o suo padre, nacque lucherino // è un ibrido. E mi piace meglio in quanto / nostrano. Mi diverte la sua grazia, / mi diletta il suo canto, / Torno, in sua cara compagnia bambino // ma tu pensi: i poeti sono matti / guardi appena; lo trovi stupidino, ti piace più Togliatti» (a un giovane comunista in Quasi un racconto 1951).


politica

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Via libera alla riforma del Patto di stabilità. Ma Germania e Francia non riescono a imporre ai loro partner più rigore

Trichet boccia l’Europa Alla Bce non piace la nuova governance: «Regole insufficienti, troppo potere all’Ecofin» di Francesco Pacifico

ROMA. Dopo quasi tre anni, 30 milioni di posti di lavoro in meno nel mondo e un conto salato superiore ai mille miliardi di euro, l’Europa si dà una nuova governance. E lo fa sotto i peggiori auspici. Quelli di Jean-Claude Trichet. Ieri mattina, di fronte ai ministri dell’Ecofin pronti a votare la riforma, ha scandito: «I miglioramenti previsti sono insufficienti». Ora la parola passa all’Europarlamento, che vede in questo nuovo assetto uno sbilanciamento verso l’Ecofin. Timore non diverso da quello espresso in più occasioni dal presidente della Bce, da tempo convinto che si sia lasciato troppo spazio discrezionale ai governi poco virtuosi. E che si possano prevenire nuove crisi soltanto facendo scattare in maniera automatica sanzioni contro i Paesi in rosso sul deficit o sul debito.

Simile era anche la posizione della Germania, pronta a far cambiare registro alle economie più zoppicanti anche mettendo in discussione la loro parte di fondi europei. Ma nell’accordo finale non c’è traccia di automatismi per rafforzare le strette sul debito.

paese) e la crescita, che potrebbe rendere ancora più leggere le strette che sono ipotizzabile nei prossimi anni. Tremonti non lo dice, ma chi lo conosce sa che potrà avere un’arma in più per respingere le richieste di spesa che periodicamente gli presentano i suoi colleghi. Invece il direttore del Tesoro, Vittorio Grilli, ha sottolineato che dalla nostra parte c’è anche il fatto che la richiesta di aggiustamento di bilancio «deve derivare da discussioni e conclusioni specifiche dei ministri della Ue». Per capire gli effetti della riforma si aspetta di vedere come apriranno questa mattina le principali Borse europei. La giornata di ieri non è stata certamente un test attendibile visto che i mercato del Vecchio continente sono stati tirati giù prima da Tokio (-10 per cento la chiusura sull’onda dell’allarme nucleare) quindi da Wall Street (in apertura per cento per il Dow Jones e -XX,XX per il Nasdaq). E benefici rileventanti non li ha portati neanche il petrolio, di fatto tornato sotto controllo dopo il terremoto nipponico. Ieri il Wti ha aperto a a New York attorno ai 97-98 dollari al barile, mentre il Brent ha segnato un calo più netto: cinque dollari per tornare a quota 108. Quest’alleggerimento potrebbe essere passeggero. Nel suo ultimo bollettino mensile l’Agenzia internazionale per l’energia ha annunciato sia che la produzione in Libia potrebbe restare ferma per alcuni mesi sia che un conseguente rialzo dei prezzi potrebbe mettere a rischio la ripresa economica. Eppure qualche segnale positivo si inizia a vedere. In una giornata tanto tesa l’euro ha contenuto i danni chiudendo nei confronti del dollaro a 1,3975 contro gli 1,3987 di ventiquattr’ore prima. E lo stesso hanno finito per fare anche le principali piazze finanziare. A fine seduta il Dax di Francoforte ha perso il 3,19 per cento, il Cac40 di Parigi il 2,51, il Ftse 100 di Londra l’1,38, mentre a Milano il Ftse Mib è sceso del 2,01. E positivo è stato anche l’esito dell’asta

Salta l’asse per la competitività Merkel-Sarkozy. Junker se la ride: «Non diventeremo piccoli tedeschi». Stretta più leggera sul debito per l’Italia Questo la dice lunga sulla moral suasione della locomotiva tedesca sul resto d’Europa. Non a caso il lussemburghese Jean Claude Juncker ha commentato: «Non dovremo diventare tutti dei piccoli tedeschi». Il presidente dell’Eurogruppo ha sottolineato che «non è passato il piano Sarko-Merkel, quello spirito di Deuville che Parigi e Berlino avrebbero voluto imporre al resto d’Europa. Perché rispetto alla proposta sostenuta da Francia e Germania è sparito l’elemento dell’obbligatorietà e quello sanzionatorio». Non nasconde la sua soddisfazione nemmeno Giulio Tremonti. Il ministro, forse pensando a un debito pubblico che lunedì ha toccato il nuovo record di 1.879,926 miliardi, ha parlato di «un accordo molto buono per l’Italia». In via XX settembre sono convinti che le nuove regole del Patto di stabilità, compresa la parte che impone dal 2015 tagli al deficit di 0,5 per cento annuo e al debito di un ventesimo, si traduca in manovra meno pesanti di quelle fatte in questi anni, in grado di riportare l’Italia in tempi brevi verso il pareggio di bilancio. Senza contare varianti come il peso del debito privato (quasi nullo nel Bel-

In alto l’Eurotower, la sede della Banca centrale europea. Il suo presidente, Jean-Claude Trichet, ha provato fino alla fine a modificare la governance, chiedendo sanzioni automatiche contro chi sfora su deficit e debito. Adesso spera in un intervento del Parlamento europeo, che teme lo strapotere dell’Ecofin

Tutte le Borse sono in crisi, non solo quella giapponese

Il vero Tsunami Ue? Quello della finanza

Il terremoto e la crisi araba pesano sui mercati e sulle scelte della Ue (e degli Stati Uniti) di Gianfranco Polillo orse in forte ribasso sull’onda dei due fatti che stanno sconvolgendo il panorama internazionale: il disastro giapponese da un lato, il genocidio libico dall’altro. Tokio ha chiuso con perdite rilevanti: meno 10,55 per cento. Le altre ne hanno seguito la scia, seppure con perdite molto meno consistenti, fino ad un massimo del 2,86 per cento (Hong Kong). Nell’emisfero Occidentale bisognerà aspettare il gong di chiusura, ma a metà mattinata le perdite erano ancora più elevate. Allo tsunami che ha sconvolto il Celeste Impero, sta, quindi, seguendo un piccolo cataclisma finanziario. Ma è presto per dire come alla fine andrà a finire. Nel breve periodo gli esiti sono scontati. Due i fattori che contribuiscono a rendere incandescente la situazione dei mercati. Da un lato l’entità della catastrofe naturale, dall’altro l’improvvisa stretta sui prezzi del petrolio che ha nuovamente sospinto l’economia internazionale sul crinale della stagflation. Un termine che si sperava archiviato nel

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ricordo di quei terribili anni Settanta, quando l’inflazione conviveva con la stagnazione. E le prospettive delle principali democrazie occidentali erano punteggiate dai fenomeni del terrorismo politico. Speriamo che almeno questa seconda sciagura ci sia risparmiata, anche se non è detto, dati i precedenti che hanno caratterizzato la politica estera del Colonnello libico.

Quanto durerà la stretta sull’energia? Questa è la prima incognita, legata tra l’altro allo stato di salute delle centrali nucleari giapponese ed al panico che quegli incidenti stanno diffondendo in tutto il mondo. Già Angela Merkel ha deciso che chiuderà i siti più obsoleti. Ma quanti seguiranno quell’esempio? Molto dipenderà dalle prossime ore. Se i tecnici giapponesi, con l’aiuto internazionale, riusciranno a contenere il disastro di Fukushima, vi sarà uno spiraglio di speranza. Se la situazione, invece, dovesse precipitare, il black out potrebbe risultare ben più consistente. In questa seconda


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

eventualità sul mercato dei carburanti fossili (petrolio, gas e carbone) si riverserebbe una maggiore domanda con una conseguente impennata dei relativi prezzi, già stressati dalle vicende mediorientali. La contromisura dovrebbe venire dagli altri paesi dell’Opec, che potrebbero aumentare – come già ha fatto l’Arabia Saudita – la produzione, con l’obiettivo di calmierare il mercato. Scelta non solo economica, ma densa di implicazioni politiche. In una fase d’incertezza, come l’attuale, non contano solo le considerazioni di tipo mercantilistico. È in gioco un

Settanta e Ottanta, a prima potenza mondiale. Poi la lunga stagnazione – effetto di una politica economica poco lungimirante – ha ristabilito le giuste distanze, facendo riemergere l’orgoglio americano. Ma i fondamentali di allora non sono venuti meno. Sono stati utilizzati soprattutto per conquistare un primato assoluto nel campo delle esportazioni, a discapito di una domanda interna che non dava segni di ripresa. Uno stato stazionario: questo è stato il Giappone in questi ultimi venti anni. Quasi l’inveramento di una profezia cara a tutti gli economisti classici. Una popolazione vecchia e benestante. Una cultura dell’essenziale e del rigore. Senza grandi stimoli verso il variegato mondo di un consumismo esasperato. E allora perché affannarsi? A difendere la bandiera erano le grandi industrie che primeggiavano sui mercati internazionali. La qualità, senza rivali, del “made in Japan” al punto da tollerare le imitazioni, a più basso prezzo e minor contenuto tecnologico, della costellazione di Stati che forma la penisola indocinese. Lo stesso debito pubblico – un record tra i Paesi del G20 – era un problema relativo. La maggior parte è in mano giapponese. Una sorta di rendita che contribuisce a rendere meno problematico il tema dell’invecchiamento demografico. Da domani questo grande potenziale produttivo dovrà essere in parte rivolto alla ricostruzione del Paese. Una sorta di new deal, senza l’assillo dei connessi problemi finanziari, dato il forte attivo della bilancia dei pagamenti. Sono queste le considerazioni che fugano il pessimismo. Il mercato finora non le ha raccolte. Spera solo di comprare al meglio, per poter avere, domani, un rendimento più elevato.

Il vero problema a questo punto è dare vita a una sorta di nuovo «new deal» per i Paesi in difficoltà; liberandoli dai vincoli pensanti della finanza equilibrio strategico e ciascun Paese è costretto a misurarsi con questa drammatica variabile.

Nel medio periodo – ma saremo ancora vivi? come si chiedeva Keynes – può prevalere un certo ottimismo. Il Giappone è un gigante ferito. Ma resta sempre la terza economia del mondo, con un livello di efficienza complessiva che non ha eguali in nessun altra Nazione. Può quindi risorgere facilmente. Ha le risorse necessarie. Una tenuta che le ha consentito di affrontare situazioni ben più gravi. Ha subito – si pensi a Hiroshima o Nagasaki – mutilazioni anche più dolorose. Non solo ha superato quei momenti drammatici, ma è progredito a passi da gigante fino a candidarsi, come avvenne tra gli anni

che si è tenuta ieri sui titoli di Stato spagnoli, emessi da un Paese da tempo nel mirino delle agenzie di rating e della speculazione. I bond a 1 anno e quelli 18 mesi hanno visto rispettivamente scendere i rendimenti al 2,128 (-11 per cento) e al 2,436 (-15). Madrid si avvantaggia sia delle ultime stime del Banco di Spagna – secondo la quale il sistema ha necessità di rifinanziarsi per 15 miliardi, meno di quanto ipotizzavano alcuni analisti – sia soprattutto delle decisioni prese a livello europeo sabato scorso, compresa quella di aumentare la taglia del fondo anticrisi. Più in generale il nuovo patto di stabilità europeo prevede che dal 2015, quindi dopo un periodo di transizione di tre anni, i Paesi con deficit superiore al 3 per cento del Pil dovranno tagliarlo dello 0,5 per cento annuo mentre quelli con un indebitamento superiore al 60 per cento dovranno ridurre le loro esposizioni eccedenti di un ventesimo annuo. Se questo è il principio fondante, l’applicazione però presenta non poche eccezioni. Per avere l’avallo delle economie del Sud Europa e non sottostare a un modello tedesco incentrato che taglia le tasse e dà soldi all’economia reale soltanto se c’è rigore, la Commissione ha accettato non poche proposte arrivate dalle nazioni più deboli. Le modalità di rientro non saranno automatiche come chiesto da Angela Merkel e Nicolas Sarkozy, ma saranno valutate caso per caso dall’Eurogruppo. Non a caso la Commissione parla di semiautomatismo, «perché se l’Ecofin si esprimerà con un voto rovesciato», la proposta di Bruxelles sarà bocciata. Una scelta, questa, che ha fatto imbufalire Trichet, il quale ha spinto per modificarla. Ma ci è riuscito soltanto in parte: le sanzioni saranno automatiche soltanto se uno Stato violi ripetutamente gli obblighi assunti in sede europea. È prevista una “procedura per squilibrio eccessivo”, che comporta la possibilità di multe: 0,1 per cento del Pil, mentre la sanzione finanziaria prevista per la procedura per deficit eccessivo è dello 0,2 del Pil. Per il resto la Commissione potrà emettere “allarmi preventivi” sulla base di una serie di indicatori che riguardano gli squilibri delle partite correnti, di competitività. Soprattutto si terrà conto di non pochi fattori rilevanti. Determinante, per esempio, sarà il debito privato come chiesto dall’Italia. Ipotesi contro la quale si è battuta più la Spagna (dove si sente ancora il peso della bolla immobiliare) che la Germania.

Da considerare anche i livelli di crescita potenziale, le condizioni cicliche, l’inflazione, gli squilibri macro-economici, il consolidamento di bilancio nei tempi in cui l’economia regge o tira, gli investimenti pubblici, l’attuazione delle politiche europee di crescita e di riequilibrio della finanza pubblica. In quest’ottica benchmark diventano i fattori di rischio insiti nel debito, le riserve accumulate e altri asset governativi, il peso della spesa pubblica e i costi per fare fronte all’invecchiamento della popolazione. Via libera poi a cinque regolamenti e a una direttiva. I primi riguardano sorveglianza e coordinamento delle politiche economiche e di bilancio, procedure per deficit eccessivo, prevenzione e correzione degli squilibri economici nell’Eurozona. La direttiva, invece, focalizza i requisiti che devono essere rispettati dai governi nazionali per il quadro di riferimento delle politiche di bilancio.

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la crisi libica

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Le truppe di Gheddafi riprendono i raid aerei contro i ribelli. Che accusano: «Senza copertura aerea non possiamo vincere»

Il Raìs “ringrazia” il G8 Il ministro degli Esteri di Parigi getta la spugna. La no fly zone non si farà di Luisa Arezzo lla fine il G8 una decisione sulla Libia l’ha presa. Ed è stata quella di non decidere assolutamente nulla. E mentre la sua mancanza di accordo e prospettive si palesava al mondo grazie a un documento finale dal quale veniva stralciato ogni riferimento alla No fly zone, Gheddafi recuperava terreno. E adesso marcia, lancia in resta, verso Bengasi, ultima roccaforte dei ribelli. Che accusano: «Senza copertura aerea non possiamo vincere». Hanno ragione e lo sappiamo tutti, anche i Grandi della Terra che ieri, diciamolo, non sono proprio riusciti a sembrar tali. Dopo giorni di minacce contro il Colonnello, ben ripartite a livello internazionale (una volta bisognava aspettare l’Onu, poi il vertice della Nato, poi della Ue, poi della Lega Araba, poi dell’Unione Africana e così via...), la situazione comincia ad assuemere il sinistro bagliore del più bieco cinismo: visto che il raiss sta mettendo all’angolo gli insorti, non è il caso di complicare ulteriormente la situazione. Soprattutto a li-

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vello di affari. E poco importa che il Colonnello abbia già fatto sapere che in caso di vittoria cercherà di vendere l’oro nero ad altri, che l’Occidente la pagherà e che l’Italia è avvertita come un traditore (e infatti il nostro ministro degli esteri, Franco Frattini, si è premurato di far sapere che il Trattato con la Libia è solo sospeso, non cancellato...).

A destra: gli insorti a Bengasi; sotto, Muammar Gheddafi. Nella pagina a fianco Hillary Clinton, da ieri in Egitto

Tutti sanno che le infrastrutture sono rivolte verso l’Europa e che è impossibile per chiunque riconvertirle in tempi brevi. Insomma, dopo qualche mese di tensione e magari una levata dei prezzi, gli affari potrebbero tornare ad essere quello che sono: affari per l’appunto. Questa, però, è solo una riflessione a margine. I fatti dicono

Allo studio della comunità internazionale adesso ci sono nuove sanzioni: fra queste, lo stop a tutti i voli commerciali da e verso la Libia e un ampliamento della “lista nera” del regime che adesso, allo studio dei Grandi, il posto della No fly zone (categoricamente escluso dalla Russia, membro permanente del Consiglio di Sicurezza) è stato preso dalle sanzioni. Fra queste, se-

condo alcune fonti diplomatiche, c’è lo stop a tutti i voli commerciali da e verso la Libia, oltre che l’ampliamento della “lista nera” del Palazzo di Vetro contro gli esponenti del regime di Tripoli. Lo stop ai voli commerciali sarebbe stato proposto

L’ex ambasciatore americano all’Onu lancia l’allarme: «Il Colonnello è pronto a riprendere il suo programma militare nucleare»

Il vero rischio? Una Tripoli “atomica” di John R. Bolton nche se il risultato finale rimane incerto, il vento in Libia sembra spirare a favore di Muammar Gheddafi. Nonostante questo dato di fatto, l’indecisione del presidente Obama ha limitato senza ombra di dubbio le opzioni americane, rendendo ancora più rischioso (e sempre meno destinato al successo) ogni potenziale intervento. Ancora una volta il suo modo di fare preferito si è palesato con una combinazione di retorica e studiata inazione. Questo potrebbe sposarsi con l’obiettivo della Casa Bianca noto come “Obama, no drama”, ma non costituisce una politica estera. Il conflitto in atto in Libia colpisce in maniera profonda diversi interessi nazionali importanti degli Stati Uniti. La nostra svogliatezza (o la nostra incapacità crescente) nel pro-

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teggere questi interessi non danneggia soltanto i nostri interessi odierni in Libia, ma ferisce anche quelli futuri nel resto del mondo. Questi interessi sono tre. Per primo c’è Gheddafi, che non ha mai affrontato quello che gli spetta per i numerosi atti di terrorismo contro americani innocenti, incluso l’esplosione del volo Pan Am 103 nel 1988 e il bombardamento della discoteca La Belle, a Berlino, avvenuto nel 1986.

Per sua stessa ammissione, Gheddafi si è comprato una maggiore legittimazione diplomatica (per normalizzare le relazioni ufficiali con Washington e altre capitali) aumentando gli investimenti all’estero, accettando nel 2003-2004 di eliminare i programmi nucleari e chimici della Libia e pagando alcuni risarci-

menti alle vittime del suo terrorismo. È chiaro che smantellare queste armi di distruzione di massa abbia rappresentato una politica corretta: immaginate a che rischio saremmo esposti oggi se, nelle mani di Gheddafi, ci fosse la bomba atomica. Tuttavia, nessuno poteva credere che gli Stati Uniti avessero emesso una carta “Per sempre fuori dalla galera” per il dittatore. Ogni obbligazione ancora fluttuante dopo gli accordi firmati con Tripoli è stata spazzata via quando Gheddafi ha usato i benefits di questo accordo per sopprimere in maniera brutale l’opposizione al suo regime autoritario. E le vittime americane del terrorismo libico aspettano ancora di essere vendicate. Inoltre, con la continua e mai diminuita minaccia del terrorismo internazionale, dovremmo ricor-

dare agli altri assassini in fieri che “civis americanus sum” rimane il nostro faro. La deterrenza potrebbe non essere efficace contro gli attentatori suicidi, ma gli Stati che li sostengono recepiranno il messaggio. Il secondo punto da considerare è che sia una vittoria di Gheddafi che una protratta guerra civile di basso livello – e sono entrambi scenari possibili – rendono di nuovo la Libia una base per il terrorismo.

La stessa storia del raìs in questo ambito no lascia dubbi sul fatto che potrebbe ribaltare quelle tecniche terroristiche che conosce molto bene. In alternativa, uno stato di anarchia all’interno del Paese – ottenuto con la disintegrazione di un’effettiva autorità nazionale – potrebbe creare delle condizioni idea-


la crisi libica

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Le forze del raiss hanno anche bloccato la strada che collega Ajdabiya con Bengasi dove ormai si assiste anche a una fuga di ribelli e civili.

Quest’ultimi stanno scappando a bordo di auto e gli insorti su pick up e camion. Ma anche alcune ambulanze provenienti da Ajdabiya si dirigono verso Bengasi. «Hanno lanciato molte bombe. Bombardano le case ed i civili, per questo siamo fuggiti», ha detto all’Afp uno degli insorti, Fahti, precisando che: «quando siamo partiti alle 15:30 (le 14:30 in Italia) stavano ancora bombardando». La fonte ha anche rivelato di aver visto lungo la strada almeno tre auto colpite dalle bombe con dentro cadaveri di donne e bambini. Al momento, le vittime certe dei bombardamenti, sarebbero almeno tre. Intanto, i ribelli si dicono pronti a tutto, a certamente a resistere fino alla fine se mai si arrivasse alla battaglia finale di Bengasi. L’unico Paese occidentale che

Gheddafi». A ribadirlo, sempre il capo della diplomazia di Parigi. «Vorrei ricordare che siamo stati rimproverati di aver riconosciuto troppo tardi il governo di transizione tunisina» - ha replicato ai giornalisti Juppe - e dunque non è proprio il casi di criticare visto che anche «il Consiglio europeo considera il Cnt come interlocutore politico». Intanto, sul fronte immigrazione, l’imbarcazione con a bordo oltre 1.800 africani fuggiti dalla Libia e respinta dalle autorità italiane, si trova attualmente ferma in acque internazionali. A confermarlo, Antonio Giummo, ufficiale della Capitaneria di Porto di Agusta, in Sicilia.

La Mistral Express - questo il nome dell’imbarcazione, proveniva da Tripoli con a bordo 1.715 marocchini, 39 libici e altre 82 persone di varie nazionalità e aveva chiesto il permesso di attracco nel porto italiano, negato dal Viminale. La Commissione europea, ha riferito il

Lo stop aereo sarebbe stato proposto per fermare il flusso di denaro fresco verso la capitale libica e per impedire a nuovi mercenari di raggiungere la Libia da altri Paesi africani per fermare il flusso di denaro fresco verso la capitale libica e, secondo alcuni, per impedire a nuovi mercenari di raggiungere la Libia da altri Paesi africani.

Evidentemente quanto basta ai ministri del G8, che nel loro documento si sono limitati ad «accogliere con soddisfazione il fatto che il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sta considerando come una questione urgente un ampio spettro di misure per assicurare la protezio-

ne della popolazione libica dagli attacchi da parte delle forze di Gheddafi». Peccato che l’urgenza di cui parlano i ministri e i tempi «rapidissimi» citati ieri in mattinata da Frattini, potrebbero essere comunque troppo lenti e troppo lunghi per gli insorti messi con le spalle al muro da Gheddafi, che ben ha chiarito le sue intenzioni nell’intervista rilasciata ieri al Giornale: «I ribelli - ha detto non hanno speranza» e vanno schiacciati al più presto. Se-

guendo questo obiettivo, le truppe del Colonnello hanno ieri continuato a bombardare due città strategiche.

Ajdabiya, estrema difesa dei rivoltosi lungo la direttrice che conduce alla “loro” capitale, Bengasi, è ormai definitivamente nelle mani del raiss (anche se Al Jazeera dice «Non ancora»; così come Marsa elBrega, dove si combatte casa per casa e dove la situazione appare ormai senza scampo.

ieri ha continuato strenuamente a riconoscere l’esigenza di una no fly zone (anche se “ormai superata dagli eventi», ha detto Alain Juppé, ministro degli Esteri francese) è stata, per l’appunto, la Francia di Sarkozy. Che ha ribadito con forza, davanti alle critiche di molti, la sua scelta di riconoscere il Consiglio nazionale di transizione di Bengasi perché «è la sola istanza che raggruppa gli uomini e le donne che si battono contro il dittatore

li per il terrorismo internazionale: porre delle basi giusto al di là del Mediterraneo, e aumentare ancora l’instabilità in Medioriente. Sarebbe molto meglio per Washington e per i suoi alleati della Nato agire adesso contro questo potenziale caos, invece che guardarlo svilupparsi e poi ritrovarselo in atto. Ovviamente non c’è nessuna garanzia che un regime successivo a Gheddafi non sostenga il terrorismo ma - dato che dobbiamo scegliere fra lui e l’incertezza - la seconda ipotesi sembra quella più sicura.

Al terzo punto ci sono gli scenari che vedono Gheddafi vincente: in questo caso tutto fa pensare che non ripartirà nell’ambito della smilitarizzazione nucleare. Anche prima che l’opposizione inziasse a minacciarne il regime, la comunità internazionale rimproverava al dittatore il non aver compiuto i passi previsti dal programma. Uno fra tutti, il mancato invio del materiale nucleare in nuce negli Stati Uniti. Dopo aver ascoltato Obama chiederne la cacciata, e aver visto che non fa molto per mettere in pratica il suo proposito, Gheddafi concluderà come è logico che Washing-

I passi che l’America può percorrere per proteggere i nostri interessi strategici iniziano a divenire sempre più limitati dall’inazione della Casa Bianca, che non sembra decisa a muoversi ton gli dà retta soltanto quando brandisce la minaccia nucleare. E in effetti persino la logica bizzarra di quel dittatore gli permetterà di capire che le armi

nucleari sono la carta vincente per proteggere il proprio regime e per esercitare un’influenza sproporzionata nell’area, proprio come la Corea del Nord e

portavoce Marcin Grabiec, «sta seguendo da vicino la situazione e ricorda agli stati membri dell’Unione di verificare se a bordo della nave ci sono dei rifugiati». L’ambasciatore marocchino a Roma, Hassan Abouyoub, ha detto a RadioPlus che si tratta solo di un problema amministrativo che verrà risolto «attraverso una procedura eccezionale», che consentirà ai cittadini del Marocco di rientrare in patria. Per gli altri, si vedrà.

l’Iran stanno facendo da tempo con successo. La minaccia di un Iran dotato di armi nucleari già pone un rischio enorme per la sicurezza del Medioriente. Se a Gheddafi sarà permesso lo stesso – una volta tornato in controllo della produzione e della distribuzione del petrolio libico – la minaccia di una proliferazione nucleare nell’area aumenterà in maniera esponenziale. E questo sarebbe un disastro per la politica di non proliferazione globale degli Stati Uniti e un enorme pericolo per Israele e i nostri alleati arabi. I passi che l’America può percorrere per proteggere i nostri interessi strategici iniziano a divenire sempre più limitati. Le opzioni includono una “no fly zone” (ora appoggiata persino dalla Lega araba) e possibilmente una zona chiusa al traffico dei veicoli militari di Gheddafi. A questo va aggiunto il riconoscimento del governo d’opposizione libico. Tuttavia, qualunque mossa si decida di fare va fatta il prima possibile, se si vuole avere una realistica possibilità di vittoria. Sfortunatamente, mentre l’orologio avanza e i nostri interessi si disintegrano, Obama rimane essenzialmente passivo.


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Hezbollah, Siria, Fratelli musulmani: sono tutti alla corte di Khamenei, che preme per l’espulsione occidentale e la fine di Israele

Il rush di Teheran

Confortati dall’apatia di Europa e Stati Uniti, i mullah stanno preparando un piano molto accurato per cogliere i frutti migliori dalle rivoluzioni in atto in Medioriente. Al primo posto ci sono un Egitto islamico e la repressione dell’Onda l regime iraniano sta attaccando su tutti i fronti, aiutato dalla caduta dell’odiato Mubarak e dalla paralisi che sembra aver colpito l’Occidente. Il mancato sostegno alle rivoluzioni democratiche in Medioriente ha convinto i mullah di Teheran di non avere opposizioni reali, e per questo ora cercano di segnare il proprio punto nel minor tempo possibile, sia in casa che fuori casa.

I

Lo scorso giovedì, un buon numero di dimostranti “in potenza” si sono riversati per le strade di molte città iraniane soltanto per ritrovarsi circondati da un numero molto maggiore di guardie di sicurezza. Fra questi si contavano le solite Guardie rivoluzionarie, i basiji, uomini e donne in borghese, gli hezbollah del Libano (oltre a un’aggiunta di membri delle Forze Quds); ma anche dei nuovi membri, fra cui i giovanissimi delle scuole religiose che vengono pagati (parliamo di 50 dollari a testa, una cifra considerevole) per picchiare chiunque cammini per strada. Que-

di Micheal Ledeen sto è il metodo cinese: supera di molto i tuoi oppositori, arresta moltissime persone, previeni ogni possibile assembramento pubblico colpendo per primo nelle strade che portano alle grandi città, intasa il traffico e le comunicazioni. In questo modo i dimostranti non sanno quali strade siano sicure. E se qualche giornalista straniero si permette di riportare la verità, buttalo fuori e basta. Queste tattiche sono riuscite a prevenire un equivalente iraniano di piazza Tahrir, ma non sono riuscite a sconfiggere il Movimento verde; il regime è stato costretto a fare un passo indietro nel proprio assalto ai leader “verdi”, Mir Hossein Mousavi e Mehdi Karroubi, che sono stati prima messi in isolamento nelle proprie case e dopo, passate un paio di settimane, sono stati trascinati in qualche villa “sicura” del regime alla periferia di Teheran per essere “interrogati”. Si dice, la fonte è una persona vicina a Mousavi, che questi interrogatori siano stati molto

duri e mirati a ottenere una confessione: il regime vuole che loro ammettano il sostegno straniero ai verdi, ma non riesce nel proprio intento (d’altra parte Mousavi avrebbe dovuto inventarselo, questo aiuto, per biasimare il cosiddetto Occidente). Invece si sono ritrovati con una risposta sconcertante: «Avete due opzioni – avrebbe detto Mousavi – che sono impiccarmi o spararmi. Non ci sono altre alternative per voi». Non hanno scelto nessuna del-

Contro i leader democratici, il regime usa il “metodo birmano”

le due. Anzi, mentre continuavano le battaglie per le strade, hanno riportato nel silenzio Mousavi e la moglie Zhara Rahnavard a casa. Nella serata dello scorso giovedì, inoltre, si sono riaccese le luci in casa Karroubi. Per il momento, quindi, il regime ha adottato la “soluzione birmana”: i leader dell’opposizione non verranno uccisi, il regime ha abbandonato la speranza di poter ottenere un efficace processo-spettacolo o una confessione sotto tortura,

e i Mousavi e i Karroubi verranno tagliati via dal mondo, in un confine solitario e “domestico”. Questo è un metodo conosciuto e usato da molto tempo nei regimi tirannici.

Tutto questo suggerisce però che i Verdi saranno chiamati a cambiare la propria strategia, come ha suggerito lo stesso Mousavi prima dell’ultimo ciclo di dimostrazioni. Convinto dell’importanza di una campagna non violenta, Mousavi ha comunque evidenziato un’ampia serie di azioni da mettere in pratica contro il regime per ottenerne l’implosione. Lui non crede che si potrà ripetere una versione iraniana della presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno, e da molto tempo dice che il Movimento deve integrare nelle proprie fila i lavoratori e in questo ha ottenuto un certo successo, come dimostrano le diverse manifestazioni in cui la gente grida “Noi lavoratori siamo affamati”. I lavoratori vengono sempre più spesso sfamati da un regime che ha condannato metà della popola-


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Tutti temono una presa di potere degli estremisti islamici al Cairo, ma questo «non accadrà»

«Se l’Occidente non agisce ora, il sogno democratico morirà»

Parla Tarek Heggy, il maggior intellettuale egiziano: «In questo modo passa il messaggio che i dittatori violenti resistono nonostante tutto» di Enrico Singer Occidente commetterà uno sbaglio enorme se non impedirà a Gheddafi di schiacciare nel sangue, con i suoi aerei e i suoi mercenari, la rivolta di chi ha il coraggio di combattere contro il regime. Tarek Heggy, il più importante intellettuale liberale egiziano, non ha dubbi. Il messaggio che l’Europa, gli Stati Uniti e la stessa Onu rischiano di lanciare a tutto il mondo arabo è il peggiore possibile. «Significa ammettere che a Tunisi o al Cairo i dittatori se ne sono andati perché erano dei moderati, mentre il raìs di Tripoli può rimanere al suo posto perché è un duro che non esita a massacrare chi si ribella». In sostanza è come premiare la repressione violenta che non si ferma, davvero, con le parole. Nemmeno con quelle, formalmente molto dure, che il G8 ha pronunciato ieri da Parigi senza adottare, però, misure concrete. È un premio per la repressione e un esempio negativo per gli altri Paesi musulmani – dall’Iran all’Algeria – dove i movimenti di protesta sono pronti a esplodere da un momento all’altro, ma dove chi detiene il potere guarda a quanto accade in Libia proprio per decidere come resistere. La “primavera araba”, insomma, potrebbe subire un brutto colpo. Con un corollario altrettanto perverso perché il fondamentalismo islamista – che Gheddafi dice di voler combattere, come dicevano anche Ben Ali e Mubarak – si annida più facilmente in sistemi politici non democratici dove può presentarsi alla gente come un’alternativa alla corruzione e ai privilegi. Così, il doppio risultato negativo dell’atteggiamento dell’Occidente potrebbe essere quello di rafforzare sia le dittature che il fondamentalismo.

L’

Tarek Heggy, 61 anni, ha una formazione da giurista e una carriera da dirigente nell’industria petrolifera, ma, soprattutto, ha pubblicato quindici libri in cui ha indagato la società egiziana e, più in generale, quella araba, individuando le «prigioni mentali» che ne ostacolano lo sviluppo economico e culturale. Adesso sta per lanciare un suo partito, come ha annunciato a Roma durante un incontro organizzato dalla fondazione Magna Carta e dall’associazione Summit. «Si chiamerà il partito dell’Altro», una forza politica fondata su tre pilastri: il rifiuto dell’ideologia, il rispetto delle minoranze (copta, beduina, nubiana), i diritti delle donne. «Un partito per tutti coloro che oggi non sono rappresentati in Egitto», dice Heggy che sul futuro del suo Paese rimane ottimista perché le elezioni del prossimo autunno saranno comunque una svolta. Ma che lo è molto meno per la situazione generale. In Egitto il fondamentalismo dei Fratelli musulmani si è nutrito negli anni del regime illiberale.

«Sotto la dittatura di Mubarak la “fratellanza”poteva forse rappresentare anche il 40 per cento dell’elettorato. Conoscevo addirittura degli egiziani copti, quindi dei cristiani, che pur di non votare Mubarak, sostenevano i candidati dei Fratelli musulmani che alle prossime elezioni finiranno col rappresentare al massimo il 15 per cento perché non hanno proposte concrete da offrire: quando si tratta di affrontare la disoccupazione, la crescita economica o lo svi-

«Prima della caduta di Mubarak, persino i copti votavano per i Fratelli musulmani: era soltanto un voto di protesta» luppo scientifico e tecnologico non possono dire che la soluzione è nel Corano. La loro forza era nell’essere sempre contro qualche cosa – prima di tutto gli “infedeli”, Israele, l’Occidente – ma adesso che bisogna costruire non hanno argomenti». Heggy fa anche un esempio: «Il nostro Paese sta vivendo una situazione simile a quella della Spagna dopo la caduta di Franco. Allora tutti pensavano che i comunisti sarebbe-

ro andati al potere, ma poi alle elezioni hanno ottenuto meno voti di quanto previsto. E questo accadrà anche per i Fratelli musulmani».

Ma se in Egitto almeno la prima parte del cambiamento è già avvenuta, in Libia la partita è ancora aperta con le milizie di Gheddafi che recuperano terreno e le parole di Tarek Heggy suonano come un avvertimento di fronte alle incertezze e alle divisioni che si sono rinnovate anche ieri a conclusione dei due giorni d’incontri dei ministri degli Esteri del G8 a Parigi che dovevano preparare il vertice degli otto Grandi, che si terrà il 26 e 27 maggio a Dauville, e chi sono ritrovati sul tavolo due crisi di dimensioni impressionanti: quella della guerra civile in Libia e quella della sicurezza nucleare scatenata dal terremoto in Giappone. Le formule della diplomazia cercano di attenuare i contrasti, naturalmente. Così, sulla no fly zone si dice che tutto è rinviato al Consiglio di sicurezza dell’Onu perché a Parigi la Russia di Vladimir Putin e la Germania di Angela Merkel – rappresentata dal suo ministro degli Esteri, Guido Westerwelle – non hanno accettato che nel comunicato finale se ne parlasse come volevano Francia e Gran Bretagna. E l’Italia? Il ministro Frattini ha detto che in Libia «serve un cessate il fuoco e la creazione di una zona umanitaria per proteggere i civili» perché la no fly zone, da sola, «non basterebbe a porre fine alle violenze» e ha giudicato sbagliato criticare la lentezza della comunità internazionale, ma ha ammesso che «i carri armati sono più veloci del Consiglio di sicurezza dell’Onu e che, agli occhi dell’opinione pubblica, è una realtà tragica». Tarek Heggy per definire se stesso ama usare questa frase: «Sono un vulcano di rabbia perché gli arabi non perdono mai l’occasione di perdere l’occasione». C’è da augurarsi che questa stessa definizione non si debba estendere anche agli europei. Che si stanno dividendo anche nella valutazione dei pericoli del nucleare civile imposta dalle notizie che arrivano dalla centrale di Fukushima. Con una singolare inversione dei ruoli perché se, sulla Libia, è la Merkel che frena la fuga in avanti di Nicolas Sarkozy che vorrebbe mirati bombardamenti contro Gheddafi, sull’atomo che Parigi difende – «di uscire dal nucleare non si parla nemmeno» – è la Cancelliera che si lancia in una moratoria definita «sorprendente» anche dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung che nota come due delle più vecchie centrali tedesche si trovano in Sassonia-Anhalt e in Baden-Württemberg dove si vota il 20 e il 27 marzo e dove la maggioranza rischia di subire una pesante disfatta.

zione urbana a una condizione di pauperismo che sfonda al ribasso la linea della povertà. Possiamo aspettarci un aumento di questo tipo di manifestazioni, specialmente se le organizzazioni dei lavoratori occidentali raccolgono fondi per aiutare i propri fratelli e sorelle iraniane proprio come fecero per sfondare le unioni del blocco sovietico durante la fase decisiva della Guerra Fredda. Possiamo aspettarci in oltre nuovi sabotaggi, specialmente contro la spina dorsale dell’economia iraniana: raffinerie di gas e petrolio, impianti estrattivi e gasdotti. Il popolo iraniano sa che il suo governo invia grandi somme di denaro a organizzazioni terroristiche straniere e ai fondamentalisti islamici in giro per il mondo: questo aumenta il risentimento di coloro che, nel Paese, vivono in miseria. Il regime può continuare in questo modo fino a che il prezzo del petrolio continua a salire.

E così, all’inizio di questa settimana, Khamenei ha organizzato una sessione celebrativa per la pianificazione del prossimo futuro: fra gli invitati a Teheran si sono visti i leader di Hezbollah, il primo ministro siriano e i maggiori dirigenti della Fratellanza musulmana, fra cui almeno un Fratello egiziano. Il leader supremo ha spiegato la propria strategia: sforzi a tutto campo per il Bahrein, mirati a espellere tutte le forze militari americane; stessa storia per la Somalia dove, nell’oblio generale, 50 lavoratori stranieri sono stati uccisi nell’ultimo paio di settimane; per l’Egitto, un mix di sangue e furbizia. I Fratelli devono infatti tenersi lontani nel breve periodo dai poteri governativi formali, ma devono fare di tutto per fare in modo che la nuova Costituzione trasformi il Paese in una Repubblica islamica. I Fratelli devono inoltre fomentare la guerra religiosa con i cristiani, preludio fondamentale all’utilizzo della forza per garantire la “sicurezza interna”. Infine, un coordinamento molto curato per la “spinta finale” contro Israele, il grande trionfo per cui Khamenei e Ahmadinejad pensano che saranno ricordati per sempre. Ambizioso? Scommettiamo! D’altra parte, Obama e i suoi sono determinati a tenersi lontani dall’area: quando verrà scritta la storia ufficiale di questo periodo, persino i più cinici saranno sconvolti dall’enorme numero di incontri segreti e canali non ufficiali sono stati usati. Potremmo aiutare la rivoluzione democratica in Iran e cambiare il mondo. Invece, tolleriamo i tiranni senza ottenerne nulla in cambio e chiudiamo gli occhi davanti alla loro guerra contro gli americani. Gli unici che vengono uccisi.


ULTIMAPAGINA Il deputato repubblicano quarantenne eletto con il 79% delle preferenze

Paul Ryan l’anti Obama scelto dai di Martha Nunziata l fatto che di Paul Ryan si sarebbe dovuto parlare presto, molto presto, era praticamente scontato a tutti i commentatori, americani e non, che si occupano di politica statunitense. Ryan, 41 anni compiuti lo scorso 29 gennaio, non è solo l’economista di riferimento del Partito repubblicano: da ieri è, ufficialmente, il più serio candidato del Tea Party in grado di sfidare il presidente Obama nella campagna elettorale per la Casa Bianca del 2012. Un sondaggio interno ai Tea Party, infatti, lo sistema al primo posto nella classifica di gradimento dell’elettorato conservatore americano: Ryan ha raccolto il 79% dei consensi da parte dei quasi due milioni di statunitensi che hanno partecipato al sondaggio, precedendo, in questa speciale classifica, il governatore del New Jersey, Chris Christie (che peraltro, in un altro, recente sondaggio, della Quinnipiac University, un ateneo privato del Connecticut specializzato in economia e giurisprudenza, era risultato terzo, come indice di popolarità, in tutti gli States, dietro alla first lady Michelle, e all’ex primo cittadino Usa Bill Clinton, ancora molto amato, mentre il presidente Obama si era dovuto accontentare del quarto posto).

I

Nei primi posti della classifica, che ha messo in fila i 15 possibili candidati del Gop alle primarie presidenziali, trovano posto anche Jim de Mint, il duro senatore della South Carolina, noto per i suoi frequenti attacchi nei confronti della politica antiterroristica di Obama, da lui giudicata troppo morbida, Michelle Bachmann, la fondatrice dell’ala oltranzista, alla Camera, del Movimento, il Tea Party Caucus, e il Governatore della Louisiana Bobby Jindal, il secondo deputato di origine indiana nella storia del Senato ame-

A sinistra, Barack Obama. In alto, il deputato del Gop, Paul Ryan

ricano (la prima fu la democratica californiana Dalip Singh Saund, nel 1957). Nelle prime posizioni della classifica, ripresa, tra l’altro, e analizzata, con un altro sondaggio, dal Wall Street Journal, trovano posto tutti nomi nuovi, o relativamente nuovi, dell’establishment repubblicano, a conferma che il bisogno di una classe politica che non si identifichi con il passato, ma che abbia la capacità, soprattutto, di guardare al futuro, è molto sentita (anche in ambito democratico, peraltro). Ecco perché Sarah Palin, la paladina degli ultra-conservatori, è scivolata all’ottavo posto,

TEA PARTY con il 64% di preferenze: pesa, sulla popolarità della Palin, che appena un anno fa sembrava destinata ad incarnare il perfetto sfidante Repubblicano da opporre ad Obama, la sua scomparsa dalla scena politica nazionale per dedicarsi al contestato reality show. Solo quindicesimo, infatti, è il governatore dell’Arkansas Mike Huckabee: noto soprattutto per le sue posizioni oltranziste («I responsabili di Wikileaks andrebbero condannati a morte per aver divulgato delle informazioni riservate», disse qualche settimana fa), il pastore battista di North Little Rock non attraversa un gran momento di popolarità nemmeno tra i più giovani

Laureato in economia ed eletto sei volte al Congresso di Washington, Ryan adora la scrittrice libertaria Ayn Rand e non sembra iscritto al partito del ”no” a qualsiasi progetto della Casa Bianca e tra gli appassionati di cinema, per le sue aperte critiche all’attrice Natalie Portman, vincitrice dell’Oscar per The Black Swan, ripresa, dallo stesso Huckabee, nel corso del programma che porta il suo nome e che va in onda su Fox News, per il fatto di essere rimasta incinta al di fuori del matrimonio.

Classifiche a parte, l’ascesa verticale di Paul Ryan era solo una questione di tempo: stimatissimo economista fin dai tempi dell’università, che si è pagato da solo, con lo stipendio da consulente di marketing dell’azienda di famiglia, Ryan è diventato famoso nel 2009 quando, pochi mesi dopo l’elezione di Obama,

mentre il Presidente stava lavorando alla riforma sanitaria, progettò il piano per la rinascita economico-finanziaria degli Stati Uniti, quella che è stata definita, da lui stesso, la Roadmap del futuro americano. Un progetto in continua evoluzione (www.roadmap.republicans.budget.house.gov), ma fondato, essenzialmente, sulla riduzione del debito pubblico, e sul taglio netto alle spese statali, senza le quali, secondo Ryan, il rischio di una bancarotta di stampo greco è tutt’altro che campato in aria. Un progetto radicale, che prevede l’azzeramento del debito federale entro il 2063, da realizzare attraverso una serie di tagli alla spesa, compresa quella militare, l’innalzamento dell’età della pensione, incentivi per l’acquisto di assicurazioni sanitarie complementari, e riduzione del sistema di prelevamento fiscale a due sole aliquote. Un programma ambizioso sì, ma anche tutt’altro che utopistico, se è vero che lo stesso Obama ha riconosciuto come dal solo Ryan siano arrivate proposte diverse dall’absolutely no del partito repubblicano. E un attestato tangibile della stima nei suoi confronti è arrivata con la nomina nella Commissione bipartisan che sta studiando proprio i sistemi di riduzione del debito dello Stato federale americano. Negli ambienti frequentati dagli analisti economici la parola che più spesso viene associata a Ryan è wonk, cioè secchione, con il facile umorismo sulla sua passione per lo studio, unita, peraltro, a quelle, meno comuni, per la caccia, la pesca e il tiro con l’arco. Ryan è solito schivare i complimenti, e recentemente, a chi gli pronosticava un futuro da Presidente ha risposto: «Molti americani possono essere un buon Presidente, ma solo io posso essere un buon padre per i miei figli». La realtà, però, sondaggi e classifiche a parte, è che il futuro del partito repubblicano, e non solo, passa da lui. Chiamatela, se volete, la rivincita dei secchioni.


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