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ARRIVEDERCI A SABATO
Tanto per far capire come la pensavamo e la pensiamo sulle polemiche intorno alla festività del 17 marzo, la redazione di liberal oggi non lavorerà. Appuntamento dunque a sabato 19
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 17 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
QUOTIDIANO • VENERDÌ 11 MARZO 2011
A noi questa festa piace tantissimo. L’unità degli italiani è ancora da difendere. Ma anche da compiere
Italia
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L’orgoglio di essere stati Patriottismo e responsabilità per battere il declino di Pier Ferdinando Casini l centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana cade in una fase storica di particolare complessità della vita del nostro Paese. È perciò una grande occasione per una riflessione sul nostro passato e un ripensamento del senso di appartenenza alla comunità nazionale.
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La voglia di essere ancora Un inserto speciale di 14 pagine con interventi di:Adornato, Cardini, Nolte, Revelli, Romano, Sermonti seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
53 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la polemica
la crisi libica
pagina 4 • 17 marzo 2011
Un governo ormai senza politica estera
Signor ministro, nulla sarà più come prima
17 marzo 2011 • pagina 2
di Giancristiano Desiderio ora? Come saranno i rapporti tra Libia e Italia? Tra Roma e Tripoli potrà nuovamente tornare il sereno dopo la tempesta? O è difficile che tutto possa ritornare come prima? Gheddafi sarà per il governo italiano un amico affidabile? Il ministro degli Esteri Frattini ha detto che, tutto sommato, il governo ha fatto bene ad avere un atteggiamento di prudenza: se le forze lealiste e la famiglia del dittatore di Tripoli riconquisteranno tutto il Paese, ogni città e ogni spiaggia (e avranno sotto controllo cose e uomini) i rapporti con il governo Berlusconi e con il nostro Paese ritorneranno ad essere tranquilli e all’insegna del rispetto e della collaborazione... È questo il pensiero del nostro ministro degli Esteri che rivendica come giusta e intelligente, praticamente furba, la posizione prudente che il governo ha assunto e mantenuto durante la crisi libica e il tentativo degli insorti di fare la festa al colonnello Gheddafi. Ma è proprio così?
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È molto probabile che questi siano soprattutto i desideri di Frattini e del nostro governo e, forse, non solo loro. Ma nel fare politica (soprattutto quella estera) è sempre bene non confondere desideri e realtà. Può essere molto pericoloso. E qui per farlo occorre guardare in faccia la realtà delle cose: l’Italia nella crisi libica è rimasta in mezzo al guado o, visto che c’è di mezzo il mare, è rimasta in mezzo al mar Mediterraneo. Il governo ha cercato di restare alla finestra in una situazione di attesa, poi quando le cose cominciavano a mettersi male per Gheddafi lo ha mollato.Tanto che lo stesso colonnello, sia pure per sua propaganda interna, ha subito additato gli italiani come dei traditori e dei sovversivi. È vero che il governo italiano non si è spinto fino al punto di ipotizzare un’azione internazionale per deporre Gheddafi, ma è altrettanto vero che proprio questa incapacità dell’Italia di avere un’iniziativa e di affidarsi all’evoluzione della situazione che oggi la condanna ad occupare una scomoda posizione.
le reazioni Il ministro e le notizie che vogliono Gheddafi a un passo dalla riconquista della Libia
L’Italia sta con chi vince
Il nostro governo si prepara alla giravolta. Frattini: «La prudenza ha pagato. Noi avevamo capito meglio degli altri la situazione a Tripoli: siamo previdenti...» di Osvaldo Baldacci
Tutti sanno che tra gli scenari possibili in nordAfrica, il ritorno di Gheddafi al potere è tra quelli più infausti e difficili. Il più comodo sarebbe stato, è evidente, quello della sua sconfitta e di una evoluzione verso regimi più aperti e democratici. Il più scomodo sarebbe stato quello della presa del potere da parte di forze integraliste e antioccidentali. Ma la terza ipotesi, il ritorno di Gheddafi, non annuncia niente di buono neanche per i vecchi amici del colonnello. Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, ha fatto sapere di non considerare compromessi i rapporti con la Libia. Ma una cosa è non considerare compromessi i rapporti e altra cosa è sapere che ora bisognerà lavorare per raggiungere un altro compromesso con un dittatore che Roma avrebbe volentieri liquidato ma non ha avuto la forza per farlo. Il ritorno di Gheddafi sarà triste sia dentro la Libia sia fuori dalla Libia. Il tempo della tenda libica piantata nei giardini di Roma, dei baciamano da parte del capo del governo italiano appartengono a un altro tempo che nessuno, né il colonnello né Berlusconi, vuole e può riproporre. Gli italiani per Gheddafi sono sempre gli stranieri che lui ha cacciato dalla Libia. Questa è stata sempre la sua propaganda interna. Questa adesso, a maggior ragione, ritornerà ad essere la sua propaganda di regime. Per l’Italia e la sua “quarta sponda” inizia un tempo turbolento in cui Gheddafi non sarà né un nemico né un amico. Sarà un dittatore con il dente avvelanto. Quanto di peggio ci potesse capitare.
l governo italiano ha capito la situazione in Libia prima e meglio degli altri». Se lo dice il ministro degli Esteri Frattini sarà così. «Quella che è stata giudicata come prudenza è in realtà una migliore comprensione della situazione araba» da parte del nostro Paese, ha sottolineato in audizione il titolare della Farnesina, che ha aggiunto: «Sapevamo che non corrispondeva a realtà l’annuncio delle tv di tutto il mondo che davano per certa la caduta di Tripoli nel giro di qualche ora». Per Frattini la “rinuncia” della comunità internazionale a rimuovere Gheddafi «più che una rinuncia è la presa d’atto di ciò che la prudenza italiana ha sempre segnalato, anche quando non era di moda farlo». E lunedì Frattini aveva anche tenuto ad affermare «l’Italia non ha mai avuto alcuna incertezza nelle sue posizioni sulla Libia». Dunque, l’Italia che ha sempre capito tutto, che ha fatto tutto il suo dovere, che non ha mai avuto alcuna incertezza ed è stata sempre coerente nella crisi libica. Se lo dice il ministro sarà vero, allora forse se il governo ha capito tutto della Libia siamo noi colpevoli di non aver capito molto del governo. Proviamo allora a trovare il bandolo della matassa riepilogando le affermazioni degli ultimi mesi, magari ne usciremo più illuminati. Una cosa incontestabilmente vera Frattini l’ha detta, proprio lunedì scorso: l’Italia si è allineata a tutte le posizioni della comunità internazionale e dell’Europa. Per capire meglio il senso di questa posizione rivolgiamoci alle parole stesse di Frattini. Ieri: «A Bengasi si respira il sentimento di una comunità internazionale che ha fatto grandi annunci che non si sono tramutati in grandi azioni». Il 14 mar-
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zo ha ricordato che sulla no-fly zone alcuni paesi come Russia e Germania sono contrari. Il 16 parlando dell’Onu ha spiegato che di fronte alle divisioni e alla mancanza di decisioni formali da parte degli organismi internazionali «l’unica opzione sarebbe la “coalition of the willings”ma l’Italia non l’accetta». Neanche sul pattugliamento navale e sull’applicazione delle sanzioni i vari Paesi sono concordi. In precedenza in più occasioni, il ministro ha fatto notare che nell’Unione europea non c’è una posizione univoca, anzi le tendenze sono divergenti. Quindi dobbiamo comprendere che è a queste (!) posizioni della comunità internazionale che l’Italia è allineata. Ma comunque ci dobbiamo fidare del fatto che almeno ci sia uniformità di pensiero e di azione tra i nostri ministri.
Già il 9 marzo il ministro Frattini diceva «Da tutte le organizzazioni internazionali c’è l’impossibilità di considerare il regime di Tripoli e il suo capo un interlocutore plausibile dopo ciò che è accaduto. C’è un isolamento del regime libico che forse per la prima volta ha unito Occidente e mondo arabo». «Con i colleghi europei siamo tutti d’accordo che la stagione del regime di Gheddafi ormai è finita», ha detto il 10 marzo quello stesso Frattini che ieri ha detto che gli altri finalmente si sono accodati alla prudenza italiana che aveva previsto la sopravvivenza di Gheddafi. Ma non deve averne parlato col ministro della Difesa La Russa che ieri ha lasciato attoniti con una dichiarazione di questo tenore: «Che si aspettava Gheddafi dall’Italia? Un applauso ad ogni civile morto in Libia? II Colonnello, anzi, dovrebbe ringraziarci: abbiamo frenato chi
il fatto
Il raìs promette: «A Bengasi in 48 ore» Tempo quasi scaduto per aiutare i ribelli. La Francia continua a premere: «Non tutto è perduto» di Laura Giannone uarantotto ore e tutto sarà finito», con queste parole Saif al-Islam, figlio del Colonnello e dopo l’intera crisi libica unica figura un domani candidata a succedergli, annuncia i progressi dell’avanzata libica. Che a dispetto di una flotta aerea malmessa e scalcinata (quella che un’operazione No fly zone avrebbe distrutto in pochi giorni, così dicevano le diplomazie internazionali) bombarda senza sosta gli insorti costringendoli a chiudersi in sacche di territorio presidiate dai lealisti. Ieri le bombe sono cadute sulle case di Misurata, 200 chilometri da Tripoli e ultimo importante bastione degli insorti nella Libia occidentale, dove almeno cinque persone sono morte e altre undici sono rimaste ferite. La città non sarebbe ancora caduta nelle mani dei fedelissimi, ma non è detto che riesca a resistere per molto. Intanto, tutte le operazioni sono rivolte alla riconquista di Bengasi, la roccaforte dei ribelli e capitale della dissidenza. Il clan Gheddafi vuole chiudere la partita: ha capito che deve approfittare di questa fase di stallo internazionale per vincere, altrimenti le cose potrebbero complicarsi di nuovo. Il figlio del Colonnello è stato chiaro in proposito: «Qualsiasi decisione prenda l’Onu, ormai è troppo tardi». Ma solo se si chiude in fretta. E così ha invitato tutte le forze armate della Libia orientale fedeli a Papà Muammar ad unirsi all’avanzata del governo verso Bengasi. Il messaggio è stato diffuso ieri
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dalla televisione di stato libica e certamente testimonia la difficoltà, in termini numerici, di un assedio alla città Cirenaica. Bengasi conta 700mila persone, ma molti dei ribelli in questi giorni è lì che si sono rifugiati, promettendo di vender cara la pelle in caso di attacco finale. Gheddafi lo sa. E benché possa contare su una modesta flotta aerea capace però di far danni, è consapevole di non avere un esercito numeroso. Insomma, l’esito non è così scontato e se la guerriglia dovesse prolungarsi più del dovuto, a qualcuno potrebbe venire in mente di intervenire.
Francesi in testa: attraverso un messaggio on-line inserito sul proprio blog, il ministro degli Esteri francese Alain Juppè ha detto che numerosi Paesi arabi sarebbero pronti a partecipare a un’operazione militare multinazionale per fermare l’avanzata delle forze fedeli al raiss verso gli ultimi capisaldi dei ribelli. «Soltanto la minaccia della forza può fermare Gheddafi», scrive Juppè. «È bombardando le postazioni degli oppositori, con le poche decine tra aeroplani ed elicotteri di cui in realtà dispone, che è riuscito a ribaltare la situazione. Noi possiamo, o potremmo, neutralizzare i suoi mezzi aerei attraverso bombardamenti mirati», prosegue, riprendendo un’idea del presidente Nicolas Sarkozy. «È quanto Francia e Gran Bretagna vanno proponendo da due settimane. A due condizioni: ottenere un mandato
Saif al Islam sostiene di aver finanziato la campagna elettorale del presidente francese, ed è pronto a dimostrarlo
voleva assumere iniziative unilaterali. Lo sa, Gheddafi, che l’uso delle basi militari italiane è vincolato, per nostra volontà, alle sole iniziative umanitarie?». Ma Frattini non diceva che Gheddafi è e resterà isolato anche dall’Italia? E poi veniamo a un altro tema chiave, il Trattato Italia-Libia. La Russa è stato tra i più insistenti a difenderlo e poi a dire che non è operativo, lo ha ribadito anche ieri. Ma dalle sue stesse parole risulta evidente che non è operativo da parte di Gheddafi perché lui non è in grado o non vuole fare la sua parte, mentre sembra che l’Italia continui a fare la sua, se applica proprio una delle parti più controverse e criticate di quel trattato, quello che impedisce di mettere le basi italiane a disposizione delle operazioni della comunità internazionale. E anche le affermazioni di Frattini sul trattato, quelle del 15 marzo, appaiono quanto meno curiose: il Trattato di amicizia Italia-Libia «sospeso di fatto per via di preclusioni internazionali (quindi non per scelta italiana, ndr.) non sarà cancellato dall’Italia, che al contrario lo utilizzerà per la Libia del futuro». Senza il Trattato, «la nuova Libia» del dopo Gheddafi «dovrebbe ripartire da zero facendo venir meno la speranza di una nuova collaborazione con l’Italia». Cioè il Trattato resta in ballo, ma Gheddafi non doveva essere isolato? E se invece resta valido in funzione della vittoria degli oppositori, Frattini non ha appena detto che si dà ormai per scontata la permanenza al potere di Gheddafi, e che l’Italia l’aveva capito? Senza contare il fatto che i ministri continuano a dire che il Trattato non è operativo ma non c’è alcun atto formale che vada in questa dire-
in tal senso dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, unica fonte nel diritto internazionale per ricorrere alla forza», ribadisce il capo della diplomazia di Parigi. «E agire non soltanto con il sostegno, ma anche con la concreta partecipazione delle Nazioni arabe. Questa seconda condizione è in procinto di essere soddisfatta», assicura Juppè nel messaggio. «Parecchi Paesi arabi ci hanno infatti assicurato che parteciperebbero a un’iniziativa del genere». Al riguardo il ministro degli Esteri cita in particolare il Libano, insieme al cui ambasciatore al Palazzo di Vetro quelli francese e britannico «hanno appena presentato al Consiglio di Sicurezza una bozza di risoluzione che ci garantirebbe l’atteso mandato». Juppè ricorda poi che Sarkozy e il premier britannico David Cameron hanno «chiesto solennemente» allo stesso Consiglio di esaminare il testo e di «adottarlo» affinchè si possa passare all’azione. «Accade spesso nella nostra storia recente che la debolezza delle democrazie dia mano libera ai dittatori», ammonisce in conclusione. «Non è tardi per rompere con tale regola». E dunque molto presto (anche se non è ancora in calendario...) tutti confermano un vertice Ue-Ua e Lega Araba.
Alla botta francese è seguita la risposta libica di Saif, che via Euronews ha accusato Sarkozy di essere
zione: quanto vale la parola delle istituzioni italiane se i trattati internazionali funzionano in base a dichiarazione televisive e non ad atti parlamentari?
Ma torniamo all’unanime posizione dei ministri italiani. Il Foglio (non proprio antiberlusconiano) il 10 marzo racconta: «Nel governo si sta consumando uno scontro, sempre meno occulto, tra quanti sono più inclini alle pressioni interventiste che arrivano dall’Amministrazione Obama e quanti ritengono “contrario agli
un pagliaccio che ha finanziato parte della sua campagna elettorale per le presidenziali del 2007 con soldi libici. Il secondogenito del colonnello ha dichiarato che ci sono tutte le prove delle sue accuse e che presto saranno pubblicate: «Ora Sarkozy deve restituire il denaro che ha accettato dalla Libia per finanziare la sua campagna elettorale - ha detto Saif all’inviato siriano di Euronews Riad Muasses -. Siamo noi che abbiamo finanziato la sua campagna e abbiamo le prove. Siamo pronte a renderle pubbliche. La prima cosa che domandiamo a questo clown è di restituire i soldi al popolo libico. Noi gli abbiamo dato fiducia e lo abbiamo aiutato in modo che egli potesse lavorare anche per il bene dei libici, ma lui ci ha delusi. Abbiamo tutti i dettagli, i conti bancari, i documenti e le operazioni fatte per trasferire il denaro. Presto tutto sarà pubblico». Se fosse vero, il presidente francese sarebbe davvero nei guai. Saif ha anche invitato i «mercenari ribelli» a lasciare la Libia: «Alle frontiere c‘è una folla che si ammassa per andare in Egitto. Sono i ribelli che hanno contattato Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia. Queste persone assieme alle loro famiglie stanno partendo per l’Egitto. Non vogliamo ucciderli, né vogliamo vendicarci, ma voi, traditori, mercenari, voi avete commesso dei crimini contro il popolo libico. Andatevene, andate in pace in Egitto». E lasciate in pace la Libia.
manniani, spingono in senso opposto». E poi non parliamo della no-fly zone, che a seguire le dichiarazioni del governo italiano potrebbe benissimo una no/yes-fly zone, a giorni alterni. Ma d’altro canto queste dichiarazioni non sono ppi fuori dalla linea di quelle che ci avevano sorpreso nei giorni dell’inizio della crisi libica. Basti ricordare che il 18 febbraio il sottosegretario Al Maghreb Stefania Craxi dichiarava «le critiche al governo di Tripoli sembrano non scalfire il forte rapporto che esiste tra Gheddafi e il suo popolo». Il 24 febbraio il presidente della Commissione esteri del Senato Lamberto Dini diceva «L’Italia non auspica la fine del Colonnello, non abbiamo ragioni per volere la caduta di un leader che oggi intrattiene buoni rapporti con tutta la comunità internazionale».
Il 10 marzo il ministro degli Esteri ha detto: «La stagione del regime di Gheddafi ormai è finita». Ieri: «Solo noi avevamo capito la sopravvivenza» del governo interessi strategici dell’Italia”sia il pattugliamento delle coste di Tripoli e Bengasi sia l’ipotesi di un coinvolgimento militare delle forze occidentali nella guerra civile libica. Da una parte i ministri Franco Frattini e Ignazio La Russa, dall’altra Roberto Maroni, con alle spalle tutta la Lega, e il complemento di quarantadue deputati del Pdl chiamati ieri a raccolta intorno a un documento di Alfredo Mantovano. «Sono preoccupato. Se pattugliamo le coste libiche e poi da lì parte un colpo di cannone verso le nostre navi, che si fa? È la guerra», ha spiegato ieri a Montecitorio Umberto Bossi. … Frattini, in contatto con la diplomazia americana, preme per una missione navale di pattugliamento (poi proposta invano - da Berlusconi e dal governo, ndr.). I ministri della Lega, appoggiati dal blocco dei parlamentari ale-
Stesso giorno Giovanardi: «Le fosse comuni di Tripoli sono una bufala. In Libia c’è una rivoluzione in corso e se Gheddafi dovesse in qualche modo cavarsela e restare al potere dopo un mese tutti i paesi del mondo gli parlerebbero ancora. Come Gheddafi ci sono altri 30, 40 e forse 50 paesi». Storica poi l’uscita di Berlusconi del 19 febbraio: il colonnello Gheddafi «no, non l’ho sentito. La situazione è in evoluzione e quindi non mi permetto di disturbare nessuno». Ancora Frattini il 21 febbraio a Bruxelles: l’Europa non deve interferire nei processi di transizione in atto nei paesi del nord Africa, non possiamo esportare il nostro modello di democrazia, «L’Europa non deve fare questo, perché sarebbe non rispettoso della sovranità e dell’indipendenza dei popoli».
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la crisi libica
La Libia e i progetti di destabilizzazione sciita nel Golfo: i limiti della strategia internazionale secondo l’esperto americano
«Si può ancora fermarlo» «La soluzione del conflitto non è ancora decisa, per questo Europa e Italia dovrebbero continuare il boicottaggio totale del colonnello. Ma nessuno vuole investire denaro per bloccare il tiranno...». Tutti i dubbi di Edward Luttwak di Pierre Chiartano
omunque vadano le cose in Libia «l’Italia e l’Europa dovrebbero continuare a ignorare il Colonnello. Dovrebbero comportarsi come avrebbe dovuto fare negli ultimi 41 anni. Boicottare, ignorare e non avere nulla che fare con Gheddafi. È una persona che non avrebbe dovuto mai essere presa sul serio. Pensiamo solo al gran numero di ebrei libici che sono dovuti scappare con i soli vestiti che avevano addosso e che ora vivono a Roma. Il raìs li ha buttati fuori dal Paese, senza alcuna compensazione per ciò che gli aveva rubato. Mentre lui ha chiesto risarcimenti per dei fantomatici danni del colonialismo».
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Edward Luttwak fuori dalle righe, è quello che ascoltiamo quando ci rilascia un’intervista dal suo ufficio di New York. L’esperto politologo di origine rumena entrato nelle stanze dei bottoni di Washington parla a liberal non solo degli accadimenti sul confine occidentale di quello che, per estensione, po-
tremmo chiamare Grande Medioriente, ma anche di quelli sul limes opposto, il fronte sciita. Quando le agenzie battono la notizia della riconquista di Misurata da parte dei militari del figlio del colonnello con una quarantina di mezzi corazzati T72, il rais assicura che «in 48 ore sarà tutto finito» e Francia e Lega araba minacciano un intervento militare, il consulente del Pentagono rimane scettico.
«Molti Paesi della Lega araba hanno in dotazione un gran numero di mezzi aerei nelle loro forze armate, anche tecnologicamente avanzati, ma dubito che vogliano utilizzarli. Certamente minacciano e fanno dichiarazioni pubbliche, ma non credo andranno oltre». Di fondo c’è che la “guerra” libica è stata più mediatica che reale. I «bombardamenti» più missioni isolate che operazioni su vasta scala. Gli scontri a terra, più scambi di colpi, schermaglie, che ingaggi veri e propri tra unità strutturate. I morti ci sono stati, ma l’impressione rimane quella di un
conflitto confuso e combattuto da pochi, anche se in un primo tempo ha dato l’impressione di una guerra di popolo. Nella Libia orientale, Gheddafi da sempre non era amato. «Obama ha fatto bene a non farsi coinvolgere in un conflitto che comunque sarebbe costato. La Libia è piena di missili antiaerei, anche se molti sono dei modelli antiquati richiederebbero un gran numero di aerei per neutralizzare tutta la difesa aerea del colonnello. Unico presupposto a una no-fly zone». Mai si è parlato tanto di
«La Lega araba difficilmente andrà oltre le dichiarazioni d’intervento»
una zona d’interdizione al volo, senza una reale volontà di metterla in atto: troppo cara solo per neutralizzare un «pazzoide» come il Colonnello.
«Può anche darsi che Gheddafi riesca a riconquistare la Cirenaica, ma sarà un evento momentaneo. Da entrambe le parti non sono molti quelli scesi in campo. Molte unità militari si sono sciolte e la gente libica preferisce stare a guardare piuttosto che scendere in campo». Insomma, Luttwak suggerisce
che per lo tesso motivo per cui le truppe ribelli hanno dovuto ripiegare, anche quelle di del Colonnello «poche migliaia di fedeli» avranno difficoltà a mantenere il territorio conquistato. Troppo lunghe le linee di rifornimento. Dovremmo quindi aspettarci nelle prossime settimane una specie di tira e molla del fronte libico tra lealisti e ribelli. «La divisione del Paese ricalca ancora quella antica tra impero romano d’Occidente e d’Oriente che vedeva perfettamente divise Tripolitania e Cirenaica». Una separazione che affonda le radici nella storia. Ma la questione libica va letta anche attraverso ciò che sta succedendo in altre regioni del Medioriente. Primavera araba a parte, tutta l’area si è messa in movimento e sembra che il futuro di questo pezzo del vicino Oriente sarà molto diverso da come lo vediamo ora. Se in Nord Africa Tunisia, Egitto e Libia hanno fatto vibrare il sismografo politico, dall’altra parte verso il Golfo persico è in atto un altro scontro storico. Quindi
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Per Massimo Cacciari la figura della Farnesina, sotto il profilo etico-umanitario, è stata pessima
«Sono amici dei dittatori, non potevano che agire così»
«La politica estera italiana è stata pietosa. Ma almeno nessuno dei nostri ha mai illuso i ribelli. Sarkozy lo ha fatto. L’Europa è morta» di Luisa Arezzo al baciamano di berlusconiana memoria, alla sospensione del Trattato italo-libico alla recentissima riapertura a Gheddafi da parte del nostro ministro degli Esteri Franco Frattini, consapevole «che il rais non si può cacciare». L’Italia è la regina delle giravolte e certo non sta facendo una bella figura. Ma, secondo il filosofo ed ex sindaco di Venezia Massimo Cacciari, non è certo l’unica ad aver agito per il peggio. Professore, il dittatore marcia su Bengasi e dice che entro 48 ore «tutto sarà finito». Il nostro governo non esce fuori da questa vicenda a testa alta... Ma ne esce peggio la comunità internazionale. Obiettivamente non mi sento in questo frangente di tirare sassi all’attuale governo. Il comportamento di Sarkozy è stato ancor più penoso: ha suscitato vane speranze in quei poveretti che si erano ribellati a Gheddafi. Chiunque essi fossero certamente una ribellione nei confronti di Gheddafi è sacrosanta davanti a tutti gli dei, e dunque perché nutrire false speranze? D’accordo, ma non è che noi abbiamo dimenticato gli insorti. In fin dei conti abbiamo mandato una nave militare a Bengasi per portare aiuti… Il nostro governo ha assunto fin dall’inizio un atteggiamento “così”, da quell’alleato di Gheddafi che era, che resta e che resterà, sempre che il Colonnello ce la faccia a sopravvivere a se stesso. Onestamente, in questa circostanza, la politica estera italiana non ha fatto una figuraccia peggiore di quella delle altre diplomazie occidentali, pronte a minacciare interventi in difesa della libertà… balle totali! Tutti sapevano perfettamente - e Gheddafi per primo - che ormai l’Occidente, dopo i disastri combinati in Afghanistan e Iraq, tutto potrà fare tranne che intervenire in giro per il mondo, anche se ci fossero genocidi. È evidente che gli Stati Uniti, dopo le sciagurate politiche di Bush, non sono più in grado di cominciare una guerra. Cosa che il raiss sapeva benissimo e che gli ha permesso di riarmarsi tranquillamente. Adesso che Dio salvi quei poverini che avevano magari confidato nell’Occidente, nelle grida e negli appelli dei vari mascalzoncelli che ci governano. Tutto sommato il governo italiano ha assunto una posizione di grande prudenza da quell’alleato di Gheddafi e di tantissimi altri dittatorelli in giro per il mondo
D
che è, e alla fine fa una figuraccia minore di quella di molti altri. Professore, il nostro governo ai primi segnali della rivolta è rimasto dietro le quinte e probabilmente lì sarebbe rimasto se non fosse stato pressato dagli alleati. Questa non è una visione diplomatica, è una diplomazia dettata dagli eventi e certamente non figlia di un progetto. Sì. Ma è talmente evidente che le posizioni assunte sono state dettate dalla
Dio salvi quei poverini che confidavano nelle parole dei vari mascalzoncelli al governo necessità di non perdere i contatti con gli alleati… D’altronde, il nostro governo già è sospettato di simpatie con tutti i dittatori del mondo, già è sospettato - con tutti i documenti che sono usciti - di alleanze organiche con Putin e chissà chi altro, come avrebbe
potuto sganciarsi? Tuttavia, qualunque persona dotata di un minimo di intelligenza ha capito che la posizione del governo italiano, a dispetto di quella di altri, era defilatissima. Muammar Gheddafi, però, i nostri tentennamenti iniziali e le nostre prese di distanza successive, mica li ha presi tanto bene... Ci ha chiamato «traditori». Ma questo fa parte delle scene e scenette da manuale. Gheddafi ci metterà meno di 10 minuti a ritrovare un accordo e a riaprire i rubinetti del petrolio se noi glielo venderemo bene e sottobanco contineremo a fare affari con lui, permettendogli di continuare a tiranneggiare il suo popolo, arricchirsi sulle sue spalle e magari arricchire anche qualcuno di noi. Quindi tutte le dichirazioni del ministro Frattini vanno lette alla luce di questa consapevolezza? Nulla di più, nulla di meno. È stata questa la linea fin dall’inizio. Una linea, dal punto di vista etico-umano vergognosa e che viene da lontano. D’altra parte, ripeto, molto più vergognosa è stata la linea di quelli che hanno fanno balenare la possibilità di un intervento e di chissà quale pressione. Promesse vane, diplomazie incerte, pronte a sostenersi a vicenda in un letale gioco a rimpiattino. L’Italia e l’Occidente sono in declino? Certamente sì. È un’onda lunghissima che arriva dal suicidio di due guerre mondiali. Noi stiamo vivendo l’ultima fase della morte dell’Europa come centro del mondo. L’ultimissima fase, dove si perde anche ogni autorevolezza morale. Sta dicendo che questa vicenda libica rappresenta uno spartiacque? Sto dicendo che è l’ultima deriva di quella storia lì. Durante la guerra fredda, sotto l’ombrello del confronto fra due superpotenze, l’Europa ha continuato a mantenere una sua centralità, anche perché le due grandi potenze bloccavano ogni movimento nei paesi terzi. Con l’esplosione di quest’ultimi - India, Brasile e Cina dal punto di vista economico e tutti i paesi islamici dal punto di vista dei movimenti sociali - si determina la definitiva fine dell’Europa. È una cosa normale nella storia dell’umanità e delle civiltà e non è durata solo qualche anno. È una storia che dura da sessanta / settanta anni e che secondo me è giunta al suo punto terminale. Anche perché figure come quelle fatte in questi giorni con la Libia fanno perdere ogni credibilità, anche etica, al nostro continente. Il dramma è che questa crisi definitiva dell’idea europea si accompagna con l’evidente collasso dell’impero americano. Con buona pace di quelli che sognavano, qualche anno fa, la vigilia di un ordine imperiale.
ogni pezzo del puzzle diventa importante per capire il quadro generale. Non ultimo il Barhein, dove pochi giorni fa sono entrati i militari sauditi, su richiesta del governo locale che stava affrontando una rivolta popolare, in gran parte alimentata dagli sciiti. «È stata la Guardia nazionale saudita, costituita da membri di una tribù sunnita, a inviare i suoi mezzi in Bahrein. Riad teme la destabilizzazione sciita della regione e del proprio Stato, dove gli sciiti sono la parte di popolazione più umile che abita in gran maggioranza una delle regioni più ricche di petrolio. Sono loro a lavorare con 50 gradi all’ombra mentre i sunniti vestiti con le loro belle tuniche bianche stanno negli uffici climatizzati». In pratica Luttwak afferma che i regnanti sauditi hanno ragione a temere una destabilizzazione sciita, anche perché non fondano il loro regno su di un equilibrio etnico o religioso, ma si di una predominanza che non fa che fomentare malcontento.
«L’Iran ha tre interessi: il primo è quello per il petrolio che condivide con altri Paesi come Russia e Norvegia. Se ci sono dei problemi in Arabia saudita il prezzo del greggio va alle stelle e il loro reddito nazionale aumenta di molto. Se riescono creare problemi interni ai Saud è un enorme vantaggio. Un milione di dollari investito contro i sauditi potrebbe rendere un miliardo di dollari». A Bassora nel sud dell’Iraq circola il rial, la moneta iraniana, il che spiega perché Teheran stia aspettando pazientemente che gli Usa se ne vadano, ma senza fretta, per allungare le mani sul petrolio di quella regione. Ma c’è di più. «Non è pensabile che Paesi democratici tramino contro la stabilità di Riad, ma chi può impedirlo al regime dei mullah? A Teheran rivendicano una specie di tutela su tutta la popolazione sciita del Golfo e delle aree dove questa confessione islamica è presente. Loro sono sciiti duodecimani», spiega Luttwak chiosando sul numero di imam in attesa di rivelazione cui le varie sette sciite fanno riferimento. «Da sempre l’Iran vorrebbe rovesciare la monarchia saudita» per poter portare a compimento un progetto imperiale sulla regione: diventare il primo produttore di idrocarburi e sedere al tavolo con i grandi della terra dettando legge in tutto il Medioriente. Un progetto portato avanti con pragmatismo e molta pazienza. «Una prima rivendicazione sciita riguarda la casa del Profeta. Nella testa degli iraniani c’è la convinzione che tutto liIslam dovrebbe avere una guida sciita. I sunniti avrebbero violato la successione del profeta, mentre gli iraniani sono i detentori della verità. Rimuovere la casa saudita come i proprietari degli asset della Mecca e di Medina è dunque cruciale».
politica
pagina 6 • 17 marzo 2011
La mozione per l’accorpamento con le elezioni amministrative bocciata per 276 voti a 275. Il gruppo di Moffa, per protesta, non vota
Per un solo voto Salta l’election day. Ma l’esecutivo punta a bloccare comunque il referendum (a rischio) sul nucleare di Francesco Pacifico
ROMA. Con franchezza tutta padana ieri Roberto Castelli si è chiesto «se non riusciamo a fare neanche un innocuo foro nella montagna del Freijus, come riusciamo a fare le centrali nucleari?». E in maggioranza non è il solo a porsi questa domanda in prospettiva di un referendum che rischia di trasformarsi in una consultazione sul futuro del governo. Ieri, con i voti di Pdl, Lega, Udc, Fli e Responsabili, le commissioni Ambiente e Attività produttive della Camera hanno dato il via al decreto legislativo che corregge le norme sulla localizzazione dei futuri siti. Ma le ultime notizie dal Giappone – la centrale di Fukujima senza controllo, i dispersi saliti a quota 20mila – finiscono per fare campagna in un unico senso. E pur senza usare i toni del viceministro che si fa scudo di una Lega smarcatasi su questo tema, nel Pdl ragionano su come far saltare l’appuntamento del 12 giugno. Una soluzione definita ancora non c’è, anche perché c’è dal salvare la faccia dopo aver messo il nucleare in cima al programma di governo. Per non parlare della necessità di difendere un percorso che potrebbe portare commesse pari a 200 miliardi di euro. In ogni caso tutte le mosse passano da un accordo, difficile al momento, con i promotori del quesito. Fatto sta che nel centrodestra stanno diventando un ricordo i toni ultimativi, i «non si torna indietro» pronunciati nelle ore successive alla crisi giapponese. A dare il là a questa inversione a U è stato l’altra sera a “Ballarò”il ministro della Giustizia, Angelino Alfano. «Ho a cuore la salute e prima di ogni altra cosa viene la salute. Nel quadro dell’Unione europea valuteremo l’avvio del nucleare in Italia». In quest’ottica ieri il titolare dello Sviluppo economico, il falco Paolo Romani, ha detto che, «più della scelta nucleare, ora all’ordine del giorno c’è il problema della sicurezza. Ed è su questo che ci stiamo adoperando in coordinamento con l’Europa». In Parlamento, e in risposta a un’interrogazione del “papà” del referendum, Antonio Di Pietro, la responsabile dell’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, ha scandito: «Il tema della sicurezza nucleare non può più essere considerato una questione solo nazionale. Per questo va discusso a livello europeo».
La chiave potrebbe essere proprio l’Europa. Lunedì a Bruxelles i ministri dell’Energia dell’area terranno una riunione straordinaria per discutere il da farsi. In agenda c’è soprattutto l’organizzazione dei test di sicurezza che dovranno essere compiuti nei 143 reattori nucleari situati sul territorio della Ue. Ma non è escluso che si discutano criteri comuni per le gestire nei prossimi anni lo sviluppo dell’atomo. Proprio l’introduzione di nuove regole comunitarie potrebbe togliare dagli impicci Palazzo Chigi. Con toni volutamente pacati – ha persino promesso alle Regioni che non ci saranno forzature sulla scelta dei siti – il sottosegretario allo Sviluppo, Stefano Saglia, ha ammesso: «Se l’Europa decidesse un blocco, ci adegueremmo sicuramente. Il governo non è stato irresponsabile. Avremo i primi impianti intorno al 2020. C’è molto tempo per cambiare idea prima del 2020». Nelle prossime settimane Bruxelles potrebbe chiedere un’armonizzazione nelle normative autorizzative, che potrebbe portare alla nascita di un’unica agenzia per la sicurezza nucleare. Di conseguenza, l’Italia sarebbe costretta a rivedere quanto fatto finora compreso il decreto finito nel mirino dei referendari. A ben guardare nessuno si straccerebbe le vesti, visto che il Belpaese è già in ritardo di un paio d’anni sulla
tabella di marcia, non ha neppure definito la sede dell’authority di controllo e non ha il becco di un quattrino per far ripartire il processo nucleare. Senza contare che in questo modo si eviterebbe di votare a giugno sotto l’effetto della sindrome giapponese. Nel centrodestra non lo dicono, ma sperano anche nell’aiuto di un Pd. Al Nazareno non hanno certezza sul raggiungimento del quorum, ma non hanno dubbi del fatto che la vittoria del Sì potrebbe trasformarsi in un successo senza eguali per Nichi Vendola o Antonio Di Pietro. Ieri mattina Pier Luigi Bersani ha sottolineato: «Chiediamo al governo: fermati un attimo e rifletti».
Di conseguenza, l’imperativo del governo è quello di abbassare i toni. Soprattutto in una fase nella quale la Germania congela la possibilità di non spegnare le centrali più vecchi e la Cina riflette sul suo ambizioso programma nucleare. Così, per tranquillizzare i cittadini, ecco il sottosegretario Saglia lanciare segnali di pace agli enti locali. Soprattutto verso le Regioni, che soltanto dalla Consulta si sono visti riconoscere un minimo ruolo in questo processo: la possibilità di fornire pareri non vincolanti. Saglia ha promesso ai governatori che non c’è «l’intenzione di ricorrere all’esercito per imporre le centrali nucleari nei territori che non le vogliono. Chi fa politica sa che non si fa un impianto nucleare contro il parere dell’autorità regionale». Intenzione che non sembra sufficiente neppure per strappare il sì dei presidenti regionali del centrodestra.
Restano al palo Saverio Romano e gli altri
Troppi viceministri. Va in fumo il supermarket chiesto dai “responsabili” di Marco Palombi
ROMA. Il Quirinale ha detto stop. Non si sa se Giorgio Napolitano sia a suo agio nel ruolo del “Big Ben”con cui Enzo Tortora chiudeva Portobello, ma ieri gli è proprio toccato fermare il presidente del Consiglio arrivato sul colle più alto, se ci si consente la metafora religiosa, per distribuire i pani e i pesci ai fedeli accorsi alla sua corte prima del 14 dicembre.Tradotto in lingua corrente: Silvio Berlusconi è andato dal capo dello Stato per chiedergli il
suo assenso al rimpasto di governo che deve premiare i cosiddetti Responsabili più qualche cavallo imbizzarrito nel suo partito, ma il presidente della Repubblica lo ha invitato a soprassedere. Il fatto è che il povero Cavaliere, a furia di promettere, s’è messo in una situazione da cui è difficile uscire. Che non tutto fosse andato bene nell’incontro tra i due lo testimonia la velocità con cui Napolitano s’è affrettato a smontare la voce di un suo assenso alle richieste di Berlusconi: il premier, ha detto al termine della chiacchierata, «mi ha prospettato problemi ed esigenze di rafforzamento della compagine governativa». Poi, nel caso non fosse stato chiaro, il suo staff ha fatto informalmente “uscire” il contenuto dell’incontro sull’Ansa: Berlusconi ha avanzato diverse ipotesi, ma non abbiamo deciso niente. Doccia fredda, insomma, sull’impaziente Saverio Romano e su tutti gli altri pretendenti. Il problema è che Berlusconi - dicono ancora dal Colle - «non sarebbe salito al Colle solo con i nomi dei nuovi ministri ma anche sottoponendo a Napolitano l’esigenza di mettere mano - aumentandolo - al numero dei sottosegretari» cambiando la legge Bassanini. E qui, se il lettore ha pazienza, sta l’inghippo.
Le cambiali firmate dal presidente del Consiglio per rimanere in sella nel fatidico dicembre scorso sono molte e altre se ne sono aggiunte in seguito: basti pensare all’improvviso ritorno sulla scena pubblica di Claudio Scajola o i rapporti freddi che il nostro intrattiene da qualche me-
politica
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Opinioni a confronto sul futuro delle centrali in Italia e nel mondo
Intanto continua la sfida sulla sicurezza atomica
«Troppi rischi», dice l’ambientalista Mattioli. «Non è vero, gli standard di sicurezza sono altissimi» gli risponde Matteocci di Franco Insardà
ROMA. Forte di una militanza antinuclearista trentennale, Gianni Mattioli non nasconde la sua indignazione: «L’Italia va sempre controcorrente...». Più dal Giappone arrivano notizie drammatiche e più in Italia favorevoli e contrari si scontrano sul futuro dell’atomo. Mattioli, professore universitario di fisica, è un pioniere del movimento ambientalista italiano, impegnato a diffondere la ricerca e l’utilizzo di fonti rinnovabili, non risparmia critiche al governo italiano che «si è battuto in sede europea contro il varo della decisione del 20-20-20 e, per pietà, ci è stato concesso un limite del 17 per cento per l’energia derivata da fonti rinnovabili. Una vergogna». Sulla vicenda giapponese il professor Mattioli ha un’opinione molto chiara: «Si tratta di eventi che essendo governati da leggi di probabilità possono sempre accadere. E questo incidente mette in evidenza la struttura probabilistica dell’evento. Sentire tra gli altri in questi giorni il professor Umberto Veronesi, grande medico, sostenere che in condizioni di routine non c’è alcuna preoccupazione per il funzionamento degli impianti nucleari mi lascia molto perplesso. Mentre la Commissione internazionale per la protezione dalle radiazioni fissa la dose massima ammissibile in quella “cui sono associati effetti somatici ed effetti genetici che si considerano accettabili a fronte dei benefici economici associati a siffatte attività associate a radiazioni”. In Giappone si parla di rilasci molto significativi di radiazioni, se dovesse avvenire la rottura del guscio metallico siamo a Chernobyl».
se a questa parte con Paolo Bonaiuti o ancora il risiko delle nomine nelle grandi aziende pubbliche che vede guerreggiare da settimane Gianni Letta e Giulio Tremonti. Lo gnommero, avrebbe detto il commissario Ciccio Ingravallo, s’è talmente ingarbugliato che il premier aveva pensato di scioglierlo un nodo alla volta: prima facciamo i ministri, aveva proposto, poi le nomine di Eni, Enel eccetera e infine viceministri e sottosegretari, magari aumentandone il numero con un decretino. Bene per Romano e per Bonaiuti, che dopo un decennio di intenso desiderare veniva dato per assurto al ruolo di ministro (alle Politiche comunitarie), o magari per l’ultimo incomodo Scajola, che avrebbe fregato il posto al portavoce del premier all’ultimo secondo, ma tutti gli altri? Gli Scilipoti, le Polidori, i Calearo, i Belcastro, i Cesario, i Pionati? Che fine avrebbero fatto, una volta sistemati i ministri, questi uomini e donne che pure così tanto hanno sacrificato all’onore e alla stabilità della Repubblica? «Le notizie frammentarie di questi giorni - metteva a verbale Scilipoti due giorni fa - non aiutano a favorire quel clima sereno e quella legittimazione politica complessiva che sono la ragion d’essere del nostro gruppo». I Responsabili magari non si presentano bene, ma la sveglia dal collo se la sono tolta da parecchio e quindi martedì sera hanno mandato a palazzo Grazioli il loro capogruppo Sardelli: per stare sereni, che è la missione del gruppo, bisogna avere qualcosa su cui sedersi, meglio se una poltrona, meglio se da sottosegretario, meglio ancora se sono sei e ce le dai subito.
La tesi secondo la quale le centrali sono sicure e l’incidente in Giappone è stato causato da un evento eccezionale e imprevedibile non lo convince: «Anzi mi trova in totale disaccordo e chi la sostiene è un incompetente. Dal 1978 non c’è stato più nessun ordinativo di impianti negli Stati Uniti, l’anno dopo c’è stato l’incidente di Three Mile Island e poi Chernobyl. Nel 1999 gli americani vararono il consorzio di ricerca ”Generation four” proprio per ricominciare da capo, non con aggiustamenti rispetto ai vecchi reattori, ma con un radicale ripensamento delle tecnologie. Oggi però i problemi sono apparsi così difficili che da una parte i risultati ormai si allontanano nel tempo 2035/2040 - e dall’altra studiosi come Carlo Rubbia sostengono che esistono solo parziali garanzie di sicurezza. Un problema tutto aperto se si vuole passare dalla valutazione probabilistica alla certezza della protezione». Proprio sulla sicurezza dissente da questa opinione l’ingegnere Lamberto Matteucci, responsabile del servizio controllo delle attività nucleari dell’Ispra, l’Istituto superiore per la Protezione e la ricerca ambientale che in questi giorni è allertato per monitorare e studiare la catastrofe giapponese. «L’Ispra è un’Autorita di controllo per quanto riguarda la sicurezza nucleare da anni e adesso lo è nelle more in attesa che diventi operativa l’Agenzia. Nell’ambito di questi compiti ce ne è uno che è di supporto alla Protezione civile per la pianificazione e la gestione delle emergenze a seguito di incidenti. C’è un aspetto specifico che riguarda anche
altri Paesi per cui siamo punto di contatto nazionale per l’Agenzia internazionale dell’energia atomica che si attiva nel momento in cui si verificano anomalie negli impianti. Sullo stato degli impianti in Giappone la situazione è degradata, anche se la funzione di contenimento sembra essere garantita, ma va tenuta sotto controllo e richiederà uno sforzo molto grande. Bisogna tenere presente che parliamo di impianti vecchi, mentre la sicurezza è un concetto in continua evoluzione, oggi cioè un impianto non si fa come quello di Fukushima».
Per il professor Mattioli il «ricorso all’energia eolica e a quella fotovoltaica comincia ad avere in alcuni Paesi tassi di contributo sempre più elevati» e il ricorso all’idrogeno caldeggiato dall’economista americano Jeremy Rifkin può essere «una soluzione assai importante, perché permette lo stoccaggio dell’energia prodotta». L’obiezione che l’idrogeno sia stato la causa degli scoppi nelle centrali giapponesi Mattioli la rimanda al mittente: «Quell’idrogeno è trattato ad altissime temperature e reagisce con particolari metalli, mentre nell’uso tranquillo del quale parlavamo prima non c’entrano nulla». Il futuro quindi sono le rinnovabili che, aggiunge Mattioli, nei Paesi maggiormente industrializzati «secondo i dati di agenzie internazionali, come la Iea, il contributo percentuale dell’energia prodotta dal nucleare è andata scemando in questi anni, proprio per questi problemi che si sperava fossero potuti essere risolti dal “Generation Four”. Non mi riferisco soltanto al problema della sicurezza, ma anche alla scarsità di uranio che potrebbe esaurirsi, sempre secondo la Iea, nei prossimi 50/80 anni. L’uranio serve a produrre energia elettrica e il nucleare incide per il 14 per cento, mentre i combustibili fossili per il 66 per cento. Se si volesse dimezzare l’utilizzo di questi ultimi, bisognerebbe triplicare l’uranio con la conseguenza che si ridurrebbe la stima sugli anni di utilizzo. Il risultato sarebbe una guerra dell’uranio simile a quella del petrolio e le vicende di Nigeria e Darfur parlano chiaro...». E allora per Mattioli la strada da seguire è chiara: «La Germania punta nel 2050 ad avere l’80 per cento di energia rinnovabile, Obama stanzia 121 miliardi di dollari, contro gli otto per far partire, dopo tanti anni, una centrale nucleare in Georgia. La vicenda giapponese indica una strada che molti paesi, tra i quali l’Austria e la Svizzera, avevano già deciso di imboccare. Sul Times recentemente è stato pubblicato uno studio sul sorpasso del fotovoltaico rispetto al nucleare. Proprio mentre da noi il governo prevede tagli sconsiderati alle rinnovabili. Da una parte non si considera un intero settore in espansione che potrebbe andare in crisi, mentre dagli stessi ambienti esce fuori “la cricca dell’eolico” e si specula anche sul fotovoltaico». Anche sui costi elevati delle energie alternative il professor Mattioli non è d’accordo perché dice: «Basta pensare che il nucleare parte solo se è assistito da investimenti pubblici. L’energia, purtroppo, è terreno di lobby e il nucleare diventerà anche di scontro politico. Quando il presidente del Consiglio si renderà conto che questo progetto nucleare è irrealizzabile dirà che voleva modernizzare il Paese, ma i comunisti me lo hanno impedito».
Mattioli: «La vicenda giapponese indica una strada che molti paesi, tra i quali l’Austria e la Svizzera, avevano già deciso di imboccare»
mondo
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I reattori 3 e 4 di Fukushima sull’orlo dell’esplosione, si alza una nube rmai è una corsa contro il tempo. Ma l’Apocalisse potrebbe avvenire da un momento all’altro. Mentre il governo nipponico rende noto che sarebbero almeno ventimila le persone disperse dopo il terremoto e il conseguente tsunami che hanno colpito il Giappone oramai una settimana fa. Un disastro senza precedenti, che ha scatenato l’incubo atomico non soltanto in Asia ma in tutto il resto del mondo. Proprio per cercare di frenare quello che sembra un disastro annunciato, ogni dipartimento dello Stato punta a limitare i danni. Fallito a causa dell’eccesso di radioattività il tentativo dell’esercito giapponese di riversare acqua sul reattore tre della centrale atomica di Fukushima, sarà adesso la Polizia Nazionale a provare un altro metodo, sperimentandolo sul reattore numero quattro. Si ricorrerà cioè a un mega-idrante montato su un camion, in grado di sparare tonnellate di liquido in un breve lasso di tempo: lo ha reso noto l’emittente televisiva pubblca Nhk, secondo cui la prova avrà luogo in serata ora locale (stamattina ora italiana). I due reattori interessati dagli esperimenti di spegnimento delle barre di combustibile nucleare surriscaldato sono quelli nei quali la situazione è considerata più critica, oltre che quelli da dove si sprigionano i fumi radioattivi che hanno ormai portato ad evacuare la popolazione in un raggio di 30 Km. I tecnici militari, a proposito degli elicotteri, avevano avvertito in anticipo di non essere in grado di stabilire se il loro uso avrebbe potuto avere successo, giacchè un esperimento del genere mai era stato tentato prima: «Sappiamo come estinguere un incendio boschivo», aveva spiegato uno di loro, «ma non in un impianto atomico».
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Tuttavia, si nota una nuvola bianca sopra l’impianto nucleare. Il tasso di radioattività
Il Giappone aspetta con il fiato sospeso Superate le 13mila vittime accertate, mancano all’appello altre 30mila persone di Massimo Fazzi
scono bene: la Borsa rimbalza e chiude a +5,68%. La Commissione europea ha raccomandato agli Stati membri «di effettuare delle analisi sul livello di radioattività nei pro-
L’imperatore del Sol Levante, Akihito, si è rivolto al suo popolo: «Prego per la sicurezza di tutti. Sono profondamente preoccupato» si è alzato velocemente. I tecnici impegnati nel tentativo di raffreddare l’impianto sono stati fatti uscire per qualche ora, poi sono rientrati. Si teme un ulteriore danno. Due giorni fa c’era stata un’esplosione al reattore 4 e un incendio poi domato. Ordinata l’evacuazione per 30 km intorno all’impianto. Altra forte scossa (grado 6) a Tokyo. La Banca del Giappone immette 3.500 miliardi di yen e i mercati reagi-
dotti alimentari per l’uomo e per gli animali, importati dal Giappone». E il commissario europeo per l’Energia, Guenther Oettinger, aumenta il carico della preoccupazione.
In una dichiarazione rilasciata ieri, infatti, il politico ha dichiarato: «Nelle prossime ore corriamo il rischio di assistere a una nuova catastrofe alla centrale nucleare giapponese di Fukushima, dove la si-
Washington e Onu si dicono pronte a tutto
L’aiuto degli States ROMA. Gli Stati Uniti forniranno ai giapponesi pompe d’acqua ad alta pressione per combattere gli aumenti di temperatura nella centrale nucleare di Fukushima. Lo ha annunciato il Pentagono. Le pompe ad alta pressione saranno trasferite nella base aerea americana di Yokota e da qui saranno consegnate alle autorità giapponesi. Nel giro di una settimana sarà consegnato ai giapponesi un altro quantitativo di pompe ad alta pressione. Gli Stati Uniti dispongono di 38mila militari in Giappone mentre altre 11mila persone sono a bordo delle navi militari della Settima
Flotta di stanza nel Pacifico, compresa la portaerei Ronald Reagan. Tuttavia Tokyo, che non ama le interferenze straniere e soprattutto americane al di fuori dell’isola di Okinawa, ha annunciato che le forze Usa in Giappone non sono ammesse entro 50 miglia dal reattore senza speciale autorizzazione. Nel frattempo, il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha osservato un minuto di silenzio in memoria delle vittime del terremoto in Giappone, mentre il Segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, ha rinnovato al Giappone l’offerta di aiuto dell’Onu.
tuazione è fuori controllo». Oramai sembra evidente che a ergersi fra il Sol Levante e una nuova apocalisse atomica dopo quella di Hiroshima e Nagasaki ci sono soltanto i 55 dipendenti volontari della centrale, che hanno alzato la mano dichiarandosi disponibili a rimanere al lavoro mentre il resto della zona è stato evacuato. E in questo, una volta di più, i giapponesi hanno dato una lezione di stile e di autocontrollo al mondo: le famiglie dei 55 eroi, lungi dall’andare in televisione a piangere per la sorte dei propri cari, si sono dichiarate “orgogliose” per la decisione presa dagli operai.
Che, nella filosofia scintoista regnante nel Paese, si sono assicurati un posto eterno nel Paradiso dei guerrieri. Nel frattempo però sale incontrastato il numero delle vittime: oramai è di quasi 13.000, tra morti e dispersi, l’ultimo bilancio ufficiale del sisma. Lo ha riferito il dipartimento di polizia nazionale, precisando che le vittime confermate sono 4.314, i dispersi 8.606, i feriti 2.282. Sempre ieri, inoltre, un evento estremamente raro ha scosso l’impero nipponico. È infatti apparso in televisione per parlare alla nazione il titolare del Trono del Crisantemo, l’imperatore del Giappone, Akihito, si è rivolto al suo popolo: «Prego per la sicurezza di quante più persone possibile e sono profondamente preoccupato per la natura imprevedibile di quanto sta accadendo». L’apparizione dell’imperatore – figlio del Cielo, che ha rinunciato a un vero ruolo politico dopo la sconfitta del Giappone nella II Guerra mondiale – ha colpito enormemente non soltanto i propri sudditi ma anche la comunità internazionale, che ha subito letto come foriero di catastrofe imminente. Intanto un cablogramma Usa diffuso da Wikileaks e pubblicato ieri dal Telegraph rivela che il Giappone sapeva da oltre due anni che i suoi impianti nucleari non sarebbero stati in grado di reggere l’urto di un potente terremoto. Secondo il documento nel dicembre 2008 un funzionario dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) informò Tokyo che le norme di sicurezza delle sue centrali erano obsolete e che un violento sisma avrebbe posto “problemi seri” agli impianti. Ma la notizia, secondo i cablo di Wikileaks, sarebbe stata insabbiata. Questo verrà verificato nella giornata di oggi, quando il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica dovrebbe raggiungere i sobborghi di Fukushima con i suoi tecnici.
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150 anni d’Italia
Riprendiamoci la nazione Per la prima volta nella nostra storia l’avvenire dei figli rischia di essere peggiore del presente dei padri. Perciò l’Italia ha bisogno di una svolta, sulla via indicata da Ciampi e da Napolitano
Patriottismo e responsabilità contro il declino di Pier Ferdinando Casini l centocinquantesimo anniversario dell’unità italiana cade in una fase storica di particolare complessità della vita del nostro Paese. È perciò una grande occasione per una riflessione collettiva sul nostro passato ed un ripensamento del senso di appartenenza alla comunità nazionale da cui possa venire un impulso per il futuro. Questa ricorrenza si associa infatti all’impietosa presa di coscienza che per la prima volta l’avvenire dei figli non sarà migliore del presente vissuto dai padri. Il sentimento del declino dell’Italia è racchiuso in questa realtà ancor più che nella crudezza dei dati statistici. In secondo luogo, si riverbera negativamente sulle celebrazioni unitarie il sempre più ampio distacco tra la politica e i cittadini, che si è gravemente accentuato con la riforma elettorale che ha abolito l’espressione delle preferenze. Lo Stato nazionale diventa così un facile bersaglio polemico, in quanto ritenuto riserva di caccia di una classe politica inadeguata. Mettono, infine, in discussione le ragioni stesse dell’Unità le rivendicazioni del cosiddetto “federalismo”alimentate dalla Lega Nord cui purtroppo fanno di tanto in tanto eco dal Meridione la-
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mentazioni nostalgiche del Regno delle Due Sicilie.
Ben altro era il clima delle precedenti grandi celebrazioni. Nel 1911, il primo cinquantenario coincideva con il successo politico ed economico del modello giolittiano. Ricordo che i sindaci dei comuni di tutt’Italia si riunirono a Roma per l’inaugurazione del Vittoriano, a testimonianza del vincolo che univa le comunità locali all’idea nazionale. Il centenario del 1961, a sua volta, coincideva con il boom successivo alla ricostruzione post-bellica, aprendo quella stagione di riforme e di speranze che fu il centro-sinistra in contemporanea con la prima distensione delle relazioni internazionali in tempo di guerra fredda. La grande esposizione di Torino l’antica capitale subalpina divenuta metropoli industriale in cui confluivano gli emigrati meridionali alla ricerca dell’emancipazione dalla povertà della terra - fu orientata a valorizzare il contributo di ciascuna delle venti regioni alla realtà nazionale.
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Risorgimento in breve
150 anni d’Italia
Dallo Statuto Albertino alla prima guerra italiana Questi confronti storici, riferiti al presente in cui viviamo, pongono un interrogativo alquanto sconcertante. Non sarà che il declino dell’Italia sia dovuto proprio al venire meno del sentimento della comunità nazionale? A quel sentimento, cioè, che è stato il motore morale di tutte le grandi fasi storiche di crescita del nostro Paese? È forse cambiato qualcosa nell’ultimo mezzo secolo per cui gli italiani non hanno più fiducia in loro stessi? Ad un certo punto della nostra storia, dopo che la Repubblica aveva coronato il Risorgimento in senso democratico, è parso invece a molti che si sarebbe potuto fare a meno della propria identità, della propria memoria, della propria cultura, per diventare tutti cittadini di un mondo nuovo. Questa generosa utopia sessantottina si è rivelata esiziale per l’Italia, che non poteva contare sulle ben più radicate tradizioni nazionali di paesi come la Francia o l’Inghilterra. È soltanto con il presidente Ciampi – il cui testimone è stato pienamente raccolto dal presidente Napolitano – che il nostro linguaggio istituzionale si è riappropriato della parola “patria”.
Proprio in quegli anni, da presidente della Camera, ho avuto l’onore di ricevere nell’Aula di Montecitorio Giovanni Paolo II, il grande pontefice che ha segnato il passaggio dal XX al XXI secolo. Mi colpì nelle sue parole l’affettuoso e vibrato augurio alla nazione italiana. Quella visita rivestiva, peraltro, un significato storico proprio sotto il profilo dell’unità nazionale su cui aveva pesato la questione romana, dal momento che il nuovo Stato italiano era nato anche a detrimento dello Stato della Chiesa. Si dice che la questione romana sia stata risolta dai Patti Lateranensi del 1929 ed è senz’altro vero sul piano politico e giuridico. Ma sono state le dichiarazioni di Giovanni XXIII e di Paolo VI sulla provvidenzialità della fine del potere temporale per la Chiesa cattolica che hanno sancito sul piano della legittimità morale il pieno riconoscimento dell’Italia da parte vaticana. L’ingresso di Giovanni Paolo II nell’Aula parlamentare, che reca iscritto su una sua parete il risultato del plebiscito dell’annessione di Roma all’Ita-
el 1848, il Paese è diviso in numerosi stati che sottendono agli interessi austriaci (il Lombardo-Veneto), a quelli inglesi e a quelli francesi, vuoi con la mediazione della Chiesa vuoi con quella dei Borbone o di altre dinastie minori. Poi c’è il Regno di Sardegna che si espande dalla Savoia al Piemonte alla Liguria e alla Sardegna sotto il segno di Carlo Alberto di Savoia. In questo contesto, un vento di progresso e libertà pervade prima l’Italia e poi l’Europa: Carlo Alberto promulga il celebre Statuto Albertino (un ordinamento legislativo piuttosto avanzato per i tempi), e mira a
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1848 un consolidamento del suo regno a est. Di maggiori libertà costituzionali parlano anche Leopoldo II che regna in Toscana, papa Mastai Ferretti a Roma e addirittura Ferdinando II di Borbone. Questo turbinio di modernità spinge Garibaldi, esule in Sudamerica, a tornare per partecipare alla Prima guerra d’Indipendenza; quella con la quale Carlo Alberto vuole conquistare la Lombardia. La guerra va male: dall’eroismo delle Cinque Giornate di Milano al ritorno in forze degli austriaci. Carlo Alberto all’inizio del 1849 abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele II ma l’«Italia Unita» non è più un tabù.
Non sarà che il declino dell’Italia sia dovuto al venir meno del sentimento della comunità nazionale? lia, fu un ulteriore tassello di quella ricomposizione nazionale fra laici e cattolici che qualcuno oggi vorrebbe resuscitare ma che in realtà è soltanto pretestuosa e fuorviante nella ricostruzione della nostra storia.
Come negare che in questa ricorrenza centocinquantenaria la voce che si è più spesa pubblicamente è stata, accanto a quella del Presidente della Repubblica, proprio quella della Conferenza episcopale italiana? La verità è che il nostro Risorgimento si innerva in una tradizione umanistica liberale e cristiana, in cui tra laici e cattolici vi è un comune sentire. I nomi da lui fatti, da Mazzini a Rosmini, da Gioberti a Cavour, si riuniscono intorno ad una visione di libertà e di progresso in cui la dimensione spirituale è essenziale perché non c’è crescita materiale se non v è crescita morale. Il Risorgimento italiano si è infatti svolto secondo un’idea di nazione assolutamente originale rispetto agli altri processi di nation-building dell’Europa moderna. Per l’Italia, la nazione fu innanzitutto una tradizione storico-culturale prima che un dato etnico; l’identità italiana viene innanzi-
tutto dalla letteratura e dall’arte, dalla civiltà insomma. La nazione è poi sempre stata intesa dai patrioti come un’appartenenza comune che non comportava la rinuncia all’identità municipale ovvero regionale. Come ha scritto Benedetto Croce, i cittadini di tutte le province impararono a riconoscersi come italiani, ma non cessarono mai di sentirsi napoletani, piemontesi, e così via. Infine, l’unificazione nazionale è stata per l’Italia il processo necessario per rientrare a pieno titolo come soggetto a sé in seno all’Europa. La nazione risorgimentale si è sempre accompagnata alla consapevolezza di fare parte di una più vasta realtà politico-culturale, appunto quella europea. Queste radici costituiscono una formidabile piattaforma per l’Italia del XXI secolo chiamata a tre grandi sfide che vi si ricollegano tutte: 1) l’integrazione di una società multietnica, 2) la costruzione di un federalismo solidale, 3) la partecipazione all’Europa sovranazionale. In un certo senso, il programma dell’Italia del XXI secolo è lo stesso del Risorgimento, sotto il profilo ideale. Che cosa ci manca allora e ci impedisce di
riannodare le fila del passato, del presente e del futuro? Ci manca proprio la continuità della memoria storica diffusa. Questa si nutre anche di retorica, perché non c’è soltanto la retorica patriottarda e nazionalistica; c’è anche una retorica sana, fatta dei valori dell’esempio, del sacrificio e del disinteresse. Esiste un’Italia così: la ritroviamo però nel mondo del volontariato, oppure in singole straordinarie esperienze di educatori, ricercatori, imprenditori. Ma il coraggio e la dedizione dei singoli non sono sorretti da quel tessuto connettivo che solo la coscienza nazionale può esprimere.
Abbiamo dovuto ringraziare un grande artista come Roberto Benigni ed un evento nazional-popolare come il festival di San Remo per riappropriarci dell’autentico significato delle parole del nostro inno nazionale. Non c’è un film della nostra pur celebrata cinematografia nazionale che racconti il Risorgimento in chiave epica (a differenza ad esempio dalla cinematografia statunitense). Eppure, ho l’impressione che gli italiani stiano riscoprendo la loro comune identità, nono-
stante tutto. Questa ricorrenza centocinquantenaria sta infatti venendo celebrata più dal basso che dall’alto. Si moltiplicano le iniziative delle associazioni, delle scuole, dei comuni, dei giornali. Si sta suscitando un fervore di interesse e di curiosità. Ad esempio, le lezioni pubbliche di storia attraggono ormai stabilmente un pubblico molto numeroso. Si va fortunatamente oltre l’agiografia e si riesce a riprendere coscienza del nostro percorso storico. Ancor più colpisce il silenzio assordante del governo che sembra quasi vergognarsi della circostanza! Siamo al paradosso che il ministero degli Affari esteri ha più entusiasticamente partecipato l’anno scorso alle celebrazioni del bicentenario dell’indipendenza dei paesi dell’America Latina, rispetto alle iniziative previste per il nostro anniversario! A parte le cerimonie ufficiali sotto l’egida del Presidente della Repubblica e gli interventi di restauro di alcuni importanti monumenti e musei patrocinati dal Comitato nazionale, spiace che non si sia pensato ad un simbolo che unisse tutti gli italiani. Cinquant’anni fa, gli studenti di tutt’Italia ricevettero una pub-
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Risorgimento in breve
L’utopia della Repubblica Romana blicazione storica a seconda del grado scolastico: anche con il ricorso alle nuove tecnologie, non sarebbe stato possibile avere un’idea originale che parlasse a tutti i ragazzi? Voglio sperare che si sia ancora in tempo. E mi permetto di avanzare tre proposte: 1) coniare l’euro del cento cinquantenario perché tutti gli italiani abbiano in tasca un simbolo dell’unità nazionale, 2) inserire l’inno di Mameli nella Costituzione tra i simboli della Repubblica, accanto alla bandiera tricolore; 3) progettare un Museo Nazionale che abbia una sede centrale e sedi interattive in ogni regione.
Ma ancor più voglio sperare che le forze politiche ritrovino lo spirito costruttivo delle grandi stagioni di rinnovamento nazionale, perché è di questo che abbiamo bisogno per riaprire tra cittadini ed istituzioni un canale di fiducia. Quando noi abbiamo posto la questione dei governi di responsabilità nazionale in fondo abbiamo cercato drammaticamente di evocare questo bisogno. L’abbiamo fatto cercato di evocarlo quando Prodi con qualche voto di maggioranza ha perso l’occasione di lanciare un appello alla condivisione, distribuendo almeno le presidenze delle Camere in modo diverso. L’abbiamo fatto all’inizio di questa legislatura quando Berlusconi, preso dal delirio di autosufficienza, non ha capito che di lì a poco si sarebbe ridotto al tema della contabilità parlamentare, esaurendo la sua spinta propulsiva. E a proposito di Costituzione voglio chiarire che non è certo un tabù. La Costituzione può essere modificata. Sono state, però, inquietanti le frasi di Berlusconi che, presentando la riforma della giustizia, ha detto “con questa riforma non ci sarebbe mai stata Tangentopoli o Mani pulite”. Che cosa significa? Che non ci sarebbero stati i ladri o che non sarebbero stati scoperti? Ecco, questo è un un interrogativo molto serio che a mio parere merita di essere approfondito. Torniamo dunque alla nobiltà della politica, quella che si è manifestata nel Risorgimento e nella Repubblica come capacità di trasformazione della società, di emancipa-
150 anni d’Italia a Repubblica romana sopravvisse – il caso di dirlo – dal 9 febbraio al 4 luglio del 1849: cinque mesi agitati da un vento carico di straordinaria novità . Dopo l’attentato al suo primo ministro Pellegrino Rossi, papa Pio IX fuggì a Gaeta: la rottura delle trattative con i governatori di Roma pro- tempore portarono di fatto alla nascita della Repubblica, cui contribuirono in modo massiccio Mazzini per la parte politica e Garibaldi per quella militare. Oltre a promulgare una Costituzione liberale e democratica, l’assemblea costituente approvò delle leggi altrove impensabi-
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Importante testo del Papa consegnato da Bertone al presidente della Repubblica
Benedetto XVI: «Il Risorgimento non fu un moto anticattolico» l cristianesimo «ha contribuito in maniera fondamentale alla costruzione dell’identità italiana attraverso l’opera della Chiesa, delle sue istituzioni educative ed assistenziali, fissando modelli di comportamento, configurazioni istituzionali, rapporti sociali; ma anche mediante una ricchissima attività artistica: la letteratura, la pittura, la scultura, l’architettura, la musica». Nel testo con cui Benedetto XVI fa gli auguri all’Italia per il 150esimo anniversario dell’Unità - un Messaggio inviato dal pontefice al presidente Napolitano - il Papa contesta le ricostruzioni degli storici a causa delle quali «il Risorgimento è passato come un moto contrario alla Chiesa, al Cattolicesimo, talora anche alla religione in generale». Nel testo si legge: «Senza negare il ruolo di tradizioni di pensiero diverse, alcune marcate da venature giurisdizionaliste o laiciste, non si può sottacere l’apporto di pensiero e talora di azione dei cattolici alla formazione dello Stato unitario. Dal punto di vista del pensiero politico, basterebbe ricordare tutta la vicenda del neoguelfismo che conobbe in Vincenzo Gioberti un illustre rappresentante; ovvero pensare agli orientamenti cattolico-liberali di Cesare Balbo, Massimo d’Azeglio, Raffaele Lambruschini». Il processo di unificazione del Paese, sostiene il Papa, «provocò effetti laceranti nella coscienza di molti cattolici, divisi fra appartenenza ecclesiale e fedeltà alla nuova cittadinanza, in quanto pose il problema della sovranità temporale dei Papi». «La costruzione politico-istituzionale dello Stato unitario - scrive Benedetto XVI - coinvolse diverse personalità del mondo politico, diplomatico e militare, tra cui anche esponenti del mondo cattolico. Questo processo - prosegue il testo - in quanto dovette inevitabilmente misurarsi col problema della sovranità temporale dei Papi (ma anche perché portava ad estendere ai territori via via acquisiti una legislazione in materia ecclesiastica di orientamento fortemente laicista), ebbe effetti dilaceranti nella coscienza individuale e collettiva dei cattolici italiani, divisi tra gli opposti sentimenti di fedeltà nascenti dalla cittadinanza da un lato e dall’appartenenza ecclesiale dall’altro».
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1849 li: sulla libertà di pensiero, di istruzione, di impresa e di culto. Addirittura, venne promulgata una legge contro il conflitto d’interessi: «Norme per combattere i monopoli e i privilegi», in base alle quali i più abbienti avrebbero dovuto spogliarsi dei propri beni per adempiere a compiti pubblici. Finì che la Francia sbarcò a Civitavecchia per riportare l’ordine a Roma. Al primo attacco, Garibaldi vinse sui francesi, impartendo loro una straordinaria lezione di intelligenza. Ma arrivarono i rinforzi e, dopo un terribile assedio, la città dovette capitolare .
Dall’alto: l’ex presidente Ciampi; Umberto Bossi; piazza Venezia in costruzione; Benigni e Massimo D’Azeglio
Il XXI secolo ci chiama a tre sfide: l’integrazione di una società multietnica, un federalismo solidale, il compimento dell’Europa zione e di educazione di tutti i cittadini. Attingiamo a questa riserva ideale per superare le attuali contrapposizioni di corto respiro e di marca personalistica. Il miglior auspicio che si possa trarre per questo anniversario è che ci sia un “bagno di storia”, che liquidi definitivamente antichi vizi, come il vittimismo autolesionistico, e nuovi sofismi, come la ricerca del facile capro espiatorio. Non usciremo dalla crisi rinchiudendoci in noi stessi sempre di più, in una logica da cittadella assediata, in cui ci si aggrappa alla propria ricchezza senza accorgersi che è destinata ad evaporare rapidamente se non è sorretta da una circolazione delle persone e delle idee.
Nel passato è la via per l’avvenire: recuperiamo il Dna della nazione italiana che è pluralità, solidarietà e umanità. All’indomani della proclamazione dell’Unità, Massimo D’Azeglio avrebbe pronunciato la famosa frase per cui, fatta l’Italia, occorreva fare gli italiani. A 150 anni di distanza, mi sembra che la frase sia da ribaltare: gli italiani, bene o male, si sono fatti; quel che è da fare, o da rifare, è l’Italia.
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150 anni d’Italia
La nostra generazione ha due compiti: difendere l’unità ma nello stesso tempo realizzarla pienamente perché su di essa pesano grandi nodi storici irrisolti on può che essere motivo di grande amarezza dover constatare come, avvicinandosi la data del 150° anniversario della nascita dello Stato italiano, il mondo politico italiano non abbia trovato di meglio da fare che dividersi sul fatto se il 17 marzo dovesse o non essere considerata una festa. Riflessioni, approfondimenti, analisi sono state riservate alla buona volontà del mondo accademico, lasciando sostanzialmente solo il presidente Napolitano nel tentativo, istituzionale e intellettuale, di ricostruire la centralità, per la nostra presente vita pubblica, dell’evento unitario. Se ciò accade, vuol dire che intorno alla nostra Unità nazionale aleggiano ancora grandi nodi irrisolti. Che essa non è soltanto da celebrare ma è ancora, per tanti versi, da compiere. Perciò siamo qui oggi. Per tentare di dare un piccolo contributo a spezzare una colpevole afasia, coinvolgendo le principali leadership politiche in un comune confronto. E ringraziamo tutti di aver accettato il nostro invito.
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La nostra è stata, per secoli, una nazione senza Stato. Terre e genti legate da quel comune sentire che Carducci ha definito “espressione letteraria”, che ha permesso ai popoli italici di unirsi attraverso la lingua già molto tempo prima di raggiungere l’unione politica. La prima Italia si chiama dunque Dante e Petrarca. L’aspra denuncia dell’assenza di una struttura di comando unitaria ed efficiente (“nave sanza nocchiero”) la violenta stigmatizzazione degli odi civili che corrodevano le membra della penisola, la celebrazione della virtù repubblicana come base della legittimazione politica, hanno disegnato, attraverso i loro versi, la stella polare che ha preparato la nostra Unità. I versi del Petrarca, che ispirarono la pagina finale del Principe di Machiavelli, suonarono a lungo come una profezia: «Virtù contro a furore. Prenderà l’arme, e fia al combatter corto; ché l’antico valore nell’italici cor non è ancor morto». I poeti furono i primi ad alzarsi sopra le divisioni e le discordie che dilaniavano le terre italiane in nome della superiore unità della nazione. Gli italiani si armeranno e si libereranno perché i poeti li avranno prima armati con le parole. Perciò giustamente il presidente Ciampi nel suo messaggio il 31 dicembre del
2005 rilevava: «Siamo eredi di un antico patrimonio di valori cristiani e umanistici, fondamento della nostra identità nazionale». Eppure alla fine dell’Ottocento, ecco il primo dei grandi nodi irrisolti, quando questa storia si é finalmente inverata, siamo imprevedibilmente passati da una nazione senza Stato ad uno Stato senza nazione.
È il paradosso di Porta Pia che ancora pesa sulla nostra storia. Luogo della memoria unitaria, ma anche barricata dell’anima, permanente pretesto di lacera-
re all’interno di una polifonia di proposte, la convergenza dell’umanesimo cristiano e di quello liberale, repubblicano, democratico nell’intessere, attraverso i fili già intrecciati da Dante e da Petrarca, la trama etico-politica della nuova patria comune. Viceversa, liberalismo e cristianesimo, fonte primigenia della nostra identità unitaria, finirono per separarsi, come Romolo e Remo, al momento della realizzazione di un sogno che era stato comune. Perciò oggi, per“compiere”davvero l’Unità d’Italia, bisogna avere il coraggio di torna-
L’Italia da comp zioni. L’eterna lotta tra Chiesa e Stato che faceva soffrire Dante, si depositò in uno scontro che lasciava aperta sia l’incompiutezza dello Stato e della nazione, della quale la religione era fondamento. La questione romana venne, dopo lunghi decenni, con i patti tra lo Stato e la Chiesa, risolta dal punto di vista istituzionale. Ma non lo fu mai del tutto dal punto di vista culturale. Per troppo tempo (e ancora oggi) siamo rimasti chiusi nella gabbia mentale di Porta Pia, trascurando e negando come gli ideali del Risorgimento avessero unito cattolici e liberali. Che esso, dunque, dovesse considerarsi un loro comune, legittimo figlio. Da parte laica ha giocato una sorta di“complesso del vincitore” che ha impedito di riconoscere che, stante l’ostilità della comunità cattolica e le diseguaglianze tra Nord e Sud, unificazione statale e unità nazionale non potevano coincidere. Da parte clericale è arrivato l’errore opposto. Porta Pia è diventato lo specchio deformante dietro al quale nascondere che, se pure la fase finale del Risorgimento era stata sede di scontri anche sanguinosi, il processo unitario si era viceversa nutrito in modo sostanziale del pensiero cattolico. Manzoni, Cattaneo, Gioberti, Rosmini, Mazzini, Ricasoli: sono solo alcuni nomi, non certo esaustivi, del grande movimento che chiamiamo Risorgimento. Ma sono sufficienti a rendere evidente, pu-
re al Dna del movimento risorgimentale, andando oltre le barricate che, da Porta Pia in poi, tengono ancora in gabbia il nostro discorso pubblico, lacerandolo nella pregiudiziale contrapposizione tra laici e cattolici.
Come era inevitabile, ma come non era nel pensiero dei Padri risorgimentali, il mito dello Stato, da Crispi a Giolitti, assunse l’assoluta primazia nel discorso pubblico italiano. Quello della nazione, invece, fu costretto a scorrere, emarginato, nel sottosuolo. Non c’e dunque da stupirsi se proprio esso, dopo la tragedia della Grande Guerra, venisse dal fascismo fatto esplodere “contro lo Stato”dietro l’apparente verità del “Risorgimento tradito”. Sarebbe cieco non rilevare che, con il fascismo, a molti italiani al Sud come al Nord, sembrò per la prima volta realizzata l’unità della nazione. E non si finirà di ringraziare Renzo De Felice per i suoi studi. In ogni caso ben presto la storia impose agli italiani di accorgersi che il mito della“Grande Proletaria”, anticapitalista, antiebraica, antiamericana, negava alla radice l’umanesimo che aveva fondato lo spirito nazionale italiano, che il “nazionalismo” stava alla “nazione” come il terremoto alla terra, che infine non può esistere “nazione” laddove non esiste “libertà”. Anche dopo l’esperienza fascista, la storia italiana apparve
di Ferdinando Adornato
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150 anni d’Italia Risorgimento in breve
Grazie a Cavour, Milano torna italiana dunque segnata dall’eterno ritorno della mancata integrazione tra Stato e nazione. Non per nulla l’otto settembre divenne la metafora del crollo radicale di ogni regola, valore, senso di appartenenza a una medesima comunità istituzionale e morale. Non era la prima volta, non sarebbe stata l’ultima. Il tempo della Resistenza segnò certamente una“rottura epistemologica”. Ciò che suggerì ad una parte della nostra cultura di battezzarla come“Secondo Risorgimento”. Ma, come sappiamo, neanche allora l’Italia riuscì a creare i presupposti di una comunità dai valori condivisi. Già
piere Manzoni, Cattaneo, Gioberti, Mazzini: solo alcuni nomi, ma sufficienti a dimostrare che il Risorgimento nacque dalla convergenza del pensiero liberale e cristiano
nel Cln le divisioni ideologiche, che avrebbero poi dominato l’era della guerra fredda, cominciarono infatti a scandire l’alfabeto della loro alterità. La forza dei Padri Costituenti fu quella di condividere un grande senso dello Stato, di privilegiare sempre la mediazione allo scontro. Ed è ciò che ancora oggi ci permette di guardare oggi alla Carta come a un grande modello di etica pubblica. La loro debolezza era invece quella di rappresentare forze politiche che, una volta sottoscritte le comuni regole, si preparavano a dar voce a valori e filosofie opposte, quasi si trattasse di “due diverse nazioni”.
Ci fu però, nel dopoguerra, un periodo eccezionale, un tempo nel quale l’integrazione tra Stato e nazione sembrò finalmente compiersi: quello della Ricostruzione. E, ciò che conforta la nostra tesi, fu il primo momento storico dall’Unità in poi ad essere guidato dall’attiva collaborazione tra due grandi esponenti del pensiero cristiano e di quello liberale: Alcide De Gasperi e Luigi Einaudi. L’etica della responsabilità e le virtù del civismo repubblicano diventarono un dover essere, l’economia sociale di mercato fu la stella polare di un nuovo paradigma politico. Non che mancassero, ovviamente, disagi, disperazione, criminalità aggressive. Ma nei primi anni ‘50 il pensare positivo si diffuse come un contagio. Lo spirito italiano, anche quando espresso con candida furbizia, sentiva che nessun ostacolo era impossibile da superare se il nostro genio, la nostra fantasia, perfino la sregolatezza della nostra arte di arrangiarsi, venivano messi al servizio della solidarietà comunitaria e sottratti al corporativismo, all’egoismo, alla diffidenza sociale. L’immaginario collettivo, ben disegnato anche dal nostro cinema, era fortemente orientato al bene comune. La nazione si sentiva Stato. E lo Stato al servizio della nazione. Ma fu un lampo. Già nel passaggio da De Gasperi a Fanfani lo Stato si impegnò in una svolta dirigista, mostrando le stigmate di quella che sarebbe poi diventata la soffocante pervasività della politica rispetto alla società, economica e civile. Del resto le campane della guerra fredda erano già suonate e le“due nazioni”, quella atlantica e quella comunista, cominciavano a contendersi, palmo a palmo, le roccafor-
1859 amillo Benso conte di Cavour (è al governo del Regno di Sardegna dal 1850 e primo ministro dal 1852) da anni ha pilotato il regno dei Savoia al fianco dei paesi più progressisti del Vecchio Continente di allora: Francia e Inghilterra. Spedendo un battaglione di bersaglieri in Crimea nel 1855, poi, Cavour aveva ottenuto il privilegio di sedere al tavolo dei vincitori di quella guerra e vantare un credito con Napoleone III. Così nacquero i celebri accordi di Plombières: la Francia si impegnava a scendere in guerra al fianco dell’Italia in caso di aggressione austriaca. La scintilla ci fu nel
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ti dello Stato. Mai però, come detto, venne meno da parte dei duellanti quel comune senso dello Stato che aveva forgiato il compromesso repubblicano. La Costituzione aveva delineato un equilibrio capace di reggere anche gli urti della storia successiva. Si affermò così, pur nella guerra fredda, una sorta di “patriottismo costituzionale”. Per la verità molto costituzionale e poco patriottico. Nella cultura e nella società, infatti, il concetto di patria e anche quello di nazione vennero lasciati in gestione alla destra, che era però fuori dal cosiddetto “arco costituzionale”. Persino il tricolore, manifestazioni ufficiali a parte, era meglio non circolasse troppo, come se richiamare l’Italia come soggetto storico-morale potesse turbare il compromesso costituzionale sul quale si reggeva il sistema. Così, dagli anni Sessanta in poi, l’Italia tornò con tutta evidenza a manifestarsi come uno Stato senza nazione. Anzi, per essere più precisi, uno Stato con “due nazioni”. Una democrazia vincolata dal dettato costituzionale, ma fratturata in due distinte “comunità di valori”; separate non solo dal bipolarismo mondiale tra Usa e Urss ma anche da miti, sentimenti, letture, modelli di vita. Ciascuna riteneva di essere la “right nation” ed era pronta a combattere l’altra come “wrong”. Ma nessuno Stato, anche il migliore, può reggere a lungo senza un costante riferimento alla sua missione, alla sua constituency come nazione. Così era inevitabile che se si confrontavano due nazioni, ben presto sarebbe emersa la necessità psicologica di due Stati.
Non senza efficacia la politologia l’ha appunto chiamata teoria del “doppio Stato”. Accanto, dentro e “sopra” le istituzioni della Repubblica si era formato un“potere parallelo”che, attraverso reti segrete di protezione, corruzione, collusioni mafiose, insomma un complotto permanente, costituiva il reale governo del Paese. Cresciuta nelle fumose elucubrazioni della sinistra antagonista, questa teoria ha finito, lentamente, per conquistare sempre più spazio nella politica e nei media, fino a favorire una vera e propria “storiografia alternativa” che ha letto la storia italiana come un unico grande filo rosso che dalla “Resistenza tradita” porta fino a Tangentopoli. Quanti danni abbia creato questa mitologia alla
1859 e diede vita alla Seconda guerra d’Indipendenza nella quale la Francia mise in campo una forza militare enorme. Del resto, fra Cavour e Napoleone III gli accordi erano che il Regno di Sardegna avrebbe acquisito la Lombardia e la Francia avrebbe avuto indietro Nizza e la Savoia. In realtà Cavour aveva giocato sul filo dell’ambiguità pensando che se fosse riuscito a sfondare militarmente in Veneto… Invece dopo le mitiche battaglie di Palestro, di Solferino, di San Martino, la Francia firmò l’armistizio e girò al Piemonte la Lombarida che aveva appena avuto dall’Austria.
nostra vita pubblica è appena il caso di ricordare. Ciò che è più importante osservare è come, con il tempo, essa si sia talmente diffusa da diventare una sorta di “ideologia nazionale” se è vero che oggi anche forze della destra ad essa fanno ormai permanente riferimento nella denuncia di trame e complotti contro la maggioranza.
Del resto, già negli anni ‘70, il patto istituzionale che teneva comunque unite le“due nazioni”cominciò a perdere la sua forza propulsiva. Aldo Moro lo aveva intuito. Il leader dc fu uno dei pochi politici italiani a capire che i movimenti del’68 avevano creato una rottura profonda nel rapporto tra potere e popolo e che era arrivato il momento di aprire una nuova fase, forse anche costituzionale, nella storia della Repubblica. Aveva così tanta ragione che le Br scelsero proprio lui come capro espiatorio del fantomatico “doppio stato”. La ricerca di Moro restò poi inevasa. E, ovviamente, stagione dopo stagione, la crisi dello Stato, degli strumenti della sua rappresentanza e dei suoi meccanismi decisionali, si fece sempre più evidente. Eppure ogni tentativo di riformare con razionalità l’architettura del rapporto tra potere e popolo è rimasta, negli ultimi trent’anni, una pia illusione. Così nella nostra storia più recente, crisi dello Stato e crisi della nazione si sono intrecciate e aggravate, determinando un convulso passaggio d’epoca che spinse l’Italia degli anni Novanta a un passo dal baratro. Sistema della rappresentanza e meccanismi della decisione totalmente azzerati, leadership politiche travolte, unità nazionale minacciata, assetto istituzionale sclerotizzato.Tutto avrebbe consigliato di ritornare sui passi della storia e di formare un nuovo clima costituente. In fondo, se Seconda repubblica doveva essere, sarebbe stato opportuno convocare una Seconda Costituente. Più di uno provò a proporlo. Ma era chiedere troppo ad un Paese sostanzialmente caduto nell’anarchia. Bipolarismo. È stata questa la parola magica con la quale noi italiani abbiamo pensato di risolvere ogni problema. Come se la costruzione di nuovi contenitori avesse potuto sciogliere d’incanto anche ogni problema di contenuto. Non è andata così. Anzi, i nodi si sono aggro-
vigliati ancora di più. La crisi dello Stato non si è risolta. Nuove diverse leggi elettorali, elezione diretta di sindaci e governatori, spezzoni incompiuti di federalismo, mutamenti costituzionali gestiti “a maggioranza” e ripetutamente bocciati, presidenzialismo virtuale. Finora niente di più. Il tutto condito da un perenne, irrisolto conflitto con la magistratura e dall’apertura di improvvisi squarci di guerra tra “eletti dal popolo” e alte magistrature dello Stato, che avvelena i già complessi e logorati rapporti tra le istituzioni. Intanto il Parlamento marcia verso l’irrilevanza. Dovevamo cercare un nuovo, più moderno equilibrio tra i poteri che sostituisse il patto del ’47 effettivamente desueto. Abbiamo finito per creare più acuti squilibri, smarrendo ogni rapporto di funzionalità tra esecutivo e legislativo. Dovevamo trovare la strada per rendere più vicino al territorio l’esercizio del potere. Abbiamo finito per vivere in un clima di “secessione mentale” tra Nord e Sud. Dovevamo cercare meccanismi di decisione più snelli e veloci. Abbiamo finito per dar vita a governi paralizzati da coalizioni multilaterali. Dovevamo cercare classi dirigenti più moderne, all’altezza delle sfide del XXI secolo. Abbiamo finito per rotolare in mezzo a nuove più arroganti incompetenze a volte segnate da incredibili disordini morali.
Ma se lo Stato piange, la nazione non ride. Il 1989 aveva cancellato lo spartito sul quale le “due nazioni”avevano ispirato la musica del dopoguerra. Il comunismo era crollato. Poteva, doveva essere l’occasione perché, cominciasse una storia nuova nella quale tornare a frequentare una comunità dai valori condivisi. E proprio questo molti italiani speravano potesse essere l’esito del tornante storico segnato dal “bipolarismo”. Ma, ancora una volta, è avvenuto il contrario. Gli anni del bipolarismo sono stati anni di “guerra civile virtuale”. Berlusconiani e antiberlusconiani si sono combattuti a tutto campo, ciascuno rigettando sull’altro l’infamia della demonizzazione. Eserciti scomposti e volgari hanno trasformato l’Italia in una sorta di Beirut dell’anima. Volevamo anticipare il futuro.
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150 anni d’Italia La bipolare macchina del tempo ci ha riportato invece al medioevo. Lo spirito nazionale italiano, mentre il mondo intorno chiedeva il coraggio di “nuove visioni” è stato costretto ad avvitarsi nelle gabbie mentali di un “passato” che non sapeva “passare”. Persino l’ostilità verso il tricolore è riemersa come motivo di contrasto politico. Non più da parte della sinistra in nome dell’internazionalismo, ma dalla Lega in nome delle piccole patrie. Una sorta di socialismo locale della terra e del sangue. La Lega, in questo vero erede del Pci, ripropone lo schema delle “due nazioni” in chiave geografica: quella del Nord contro quella del Sud. Una scissione che coinvolge antropologia, psicologia, modelli di vita. Esattamente come ai tempi di Peppone e Don Camillo. Solo che allora il patto istituzionale teneva insieme atlantici e comunisti. Oggi anche quel patto non regge più. Perciò la “secessione mentale” rischia di diventare “secessione reale”.
Eppure il XXI secolo non consente agli italiani alcuna chiusura né “interna”, né “esterna”. L’Italia non può diventare un Paese in guerra contro “tutti i Sud del mondo”. Soprattutto ora che una parte significativa dei popoli del Mediterraneo si risveglia in nome della democrazia. La globalizzazione, ivi comprese le migrazioni, non si può arrestare, né si può esorcizzare. La si può solo governare. Una vera società moderna e aperta non contrappone la sicurezza all’ integrazione. Viceversa le governa insieme. Questa dovrebbe essere anche la filosofia di una nuova cittadinanza italiana. Può darsi che queste analisi siano viziate da un eccesso di pessimismo. Ma credo che purtroppo non si possa negare quel che abbiamo sotto gli occhi: un Paese nel quale sia Stato che Nazione sembrano ormai solo roboanti concetti, non più fattive realtà. Per secoli siamo stati una Nazione senza Stato, per lunghi decenni uno Stato senza Nazione. Ora sembra che stiamo facendo di tutto per rinunciare a entrambi. Gli italiani hanno però ricevuto in dono dalla storia infinite risorse umane. E se tutti insieme tornassimo a pensare positivo, forse saremmo ancora in tempo a ridisegnare con razionalità lo Stato e ricostruire un nuovo patto di convivenza civica. Ma il punto è: c’è oggi una classe dirigente disposta a mettere da parte gli odi civili e disporsi con senso di responsabilità nazionale a questo compito? Questo, 150 anni dopo l’Unità, dovrebbe essere il compito della nostra generazione. Il grande filo rosso della storia d’Italia, il filo che unisce Gioberti, Mazzini, De Gasperi, Einaudi, Sturzo, La Malfa, Ciampi è lì a nostra disposizione. È il filo dell’umanesimo cristiano e liberale e del riformismo solidale vere colonne sonore della nostra migliore politica. L’Italia di oggi avrebbe bisogno che tutte le correnti politiche che si riconoscono in queste storie, a qualsiasi titolo esse siano collocate nel cattivo bipolarismo di oggi, si unissero in un grande patto comune. Per la ricostruzione dello Stato e la rinascita della Nazione.
Italiani strana gente. Guelfi e ghibellini nella storia, ragionevoli ogni giorno L’8 settembre del ’43, la costituente, il boom degli anni ’50 e il terrorismo sono questioni ancora da sciogliere. Parlano Romano, Cardini e Revelli di Gabriella Mecucci
li italiani «sono abituati a dire le bugie. Le cause storiche di questo atteggiamento sono numerose e oggetto di discussione. È però sicuro che mentre alla luce del sole appaiono divisi - un eterno scontro fra guelfi e ghibellini - nella vita di tutti i giorni agiscono con grande buon senso. È una strana propensione che non permette mai di capire a che punto siamo. Di avere il polso esatto della situazione, ma che impedisce anche di fare troppe sciocchezze». È Sergio Romano a parlare così, ma il titolo del suo recente libro Italia disunita (Longanesi, scritto a quattro mani con lo storico francese Marc Lazar) indica però che spesso a prevalere non è il buon senso sotterraneo, ma il vizio dello scontro.Eppure questo Paese ha raggiunto l’unità nazionale, quella culturale e spirituale, molto prima di altri. Gli italiani sono - come diceva Carducci “un’espressione letteraria”, mentre l’unità statuale è arrivata molto più tardi. Per secoli
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siamo stati “una nazione senza Stato”: un dato drammatico della nostra storia? Sergio Romano pensa che «questo sia un tema forte, sostenuto con particolare convinzione dai cattolici che hanno sempre sottolineato l’unità spirituale che determina l’avere una fede in comune. Naturalmente c’è del vero. Così come è giusto ricordare la lingua di Dante e di Petrarca. Pubblicherò sul Corriere l’Ode di quest’ultimo, quando rientrando dalla Francia, sul Monginevro, saluta l’Italia come la patria, come una vera e propria heimat. E poi c’è Roma, sede dell’impero, sede del papato. Detto ciò, occorre anche sottolineare altro. Come ha dimostrato De Mauro l’italiano è nata presto, ma soltanto come lingua letteraria, non come lingua popolare: a parlarlo era un misero otto per cento degli italiani. E quindi più che un fattore di unione ha finito con l’essere un fattore di divisione». Il 150esimo per Romano non è però «la nascita dell’Italia, che andrebbe ampiamente pre da-
tata, ma la nascita della cittadinanza italiana: un’unità statuale tardiva e carica di contraddizioni». La storia nazionale è caratterizzata - secondo il nostro interlocutore - da una serie di “guerre civili”: «La prima di queste fu la lotta al brigantaggio meridionale, poi ci fu quella del 1919-1921. Una guerra civile a bassa intensità, ma il sangue scorreva e Torino non era così lontana da Leningrado. Seguì la guerra civile del 194345: la Resistenza, la Repubblica di Salò. E, infine, una guerra civile è stata anche quella contro il terrorismo». Sergio Romano si rende conto che questo è un giudizio discutibile e contestato da più parti, ma ritiene che, «seppure non avvenne una vera e propria esplosione, con due eserciti di massa che si fronteggiavano, il terrorismo godette di un certo consenso in più di uno strato della popolazione: le Brigate Rosse o Prima linea non erano insomma isolate come la Rote Armee Fraktion». Ma ciò che a Romano appare sommamente sbagliato è
La Resistenza rappresenta uno degli atti fondativi dell’identità italiana: in questa chiave, fin dall’immediato dopoguerra, è sempre stata rivendicata la continuità del movimento dei partigiani (in alto quelli cattolici sfilano al centro di Roma subito dopo la Liberazione) rispetto al Risorgimento. Lo stesso concetto è ribadito oggi dai nostri intelocutori (nell’altra pagina): Sergio Romano, Franco Cardini e Marco Revelli
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150 anni d’Italia
un certo modo di ricostruire la storia nazionale, foriero di divisione continua: «Un modo per perpetuare l’idea dell’esistenza dei buoni e dei cattivi». A questo proposito è paradigmatico il voler rappresentare il fascismo come “un corpo estraneo” alla storia nazionale, mentre al contrario Mussolini ha «dei padri e dei nonni così come dei figli e dei nipoti». E chi sono gli ascendenti e i discendenti? Romano parla «dell’ ingovernabilità determinatasi nel periodo 1919-21, di cui molti furono i responsabili: si va dall’inettitudine dei vecchi notabili liberali al massimalismo dei socialisti, ad una certa resistenza del cattolicesimo sturziano a costruire un fronte del quale cui facesse parte anche Giolitti». Il fascismo arriva al potere per tutte queste ragioni che gli storici hanno ben analizzato. Eppure si continua a livello politico e giornalistico a «enucleare il fascismo come un male isolato all’interno della vicenda nazionale e ciò determina un elemento di pesantissima divisione: fa nascere l’idea di una irresponsabilità degli italiani buoni e della colpa gravissima di quelli cattivi». Si creano così i due poli di uno “scontro insanabile”: «La guerra civile inglese – conclude Romano – è finita quando Cromwell è stato sepolto a Westminster; non chiedo certo che Mussolini venga messo al Pantheon, ma che venga considerato un pezzo della nostra storia, non una malattia. Vorrei, insomma che fossimo in grado anche noi di chiudere le nostre guerre civili». Negli anni passati sono stati fatti tentativi di arrivare ad “una storia condivisa”, ma «quelli purtroppo erano solo tentativi di storia lottizzata».
Marco Revelli, studioso legato all’anima più radical della sinistra, comincia col dire che per anni ha considerato “un fatto acquisito”l’unità nazionale e ha provato un certo fastidio per “la retorica patriottarda”, ma di fronte ai “micronaziolismi regionali” e alle “trivialità leghiste”, metterà “il tricolore alla finestra”. Eppure anche lui non trascura tutti i limiti e le contraddizioni di quello che defini-
«Bisogna riannodare i lacci della storia» «La Lega? Una follia rispetto al passato» sce un “Risorgimento senza popolo”, nonchè il dramma di una nazione che «è arrivata troppo tardi all’unità statuale - contemporaneamente alla Germania - ma quasi due secoli dopo altri grandi paesi come la Francia, la Gran Bretagna, gli Stati Uniti». In questo pesante ritardo vanno ricercati «alcuni dei grandi limiti della nostra democrazia. Ma chi ha infangato l’idea di patria, la stessa identità nazionale è stato il fascismo confondendo nazione e nazionalismo». Il suo“nazionalismo patologico” «tendeva ad occultare i profondi difetti del nostro processo di unificazione, le nostre tare storiche. I vizi della nostra democrazia hanno invece radici lontane nell’assenza dal Risorgimento delle grandi masse contadine che erano fortemente egemonizzate dalla Chiesa e strumentalizzate dal notabilato agrario: uno stato il nostro che nasce dunque tardi e senza la partecipazione del suo popolo». «Accanto a questo c’è il peso negativo – prosegue Revelli - del potere temporale, di un religiosità tridentina, che ha avuto la Controriforma senza aver avuto la Riforma, e che quindi non mette al centro il principio della responsabilità individuale. Col peso soffocante dell’istituzione Chiesa che grava sul popolo di Dio».
«Basta polemiche politiche fratricide» Le tare che caratterizzano la nostra l’unità nazional-statuale vengono dunque «dal modo in cui venne realizzata sino alle ferite inflittegli dal fascismo. La Resistenza poteva essere un secondo Risorgimento in cui si sarebbero riscattati i limiti del primo, una “rivoluzione democratica”- per dirla con gli azionisti - in cui “il popolo, sarebbe stato presente e attivo”. Il suo esito però non fu questo, al suo interno si mossero ben tre guerre che ne spezzarono l’unitarietà e la capacità di cambiamento radicale». Un suo grande merito fu quello di produrre «la migliore classe dirigente che l’Italia abbia mai avuto, quella che ha governato negli anni dell’immediato dopoguerra, uno dei pochi momenti in cui si registra nel paese una saldatura fra stato democratico e popolo. E anche quando hanno prevalso le due chiese, alme-
no per una certa fase, il personale politico è stato in larga misura all’altezza della situazione». Revelli vede proprio nelle classi dirigenti che si sono succedute nel nostro Paese una dei punti più seri di difficoltà: «I figli migliori dell’Italia hanno spesso conosciuto l’esilio o il carcere. È stato così per Dante e Petrarca sino ai padri costituenti, da Amendola a Terracini, da Sturzo a Nitti, e, prim’ancora, da Mazzini a Garibaldi, da Gobetti, a Gramsci». E oggi? Revelli è categorico: «La seconda Repubblica ha fallito prima di nascere. È stata fondata sul culto del bipolarismo in un Paese che bipolare non è. L’Italia per la sua storia e per la sua natura è un paese frammentato, in cui le culture politiche non sono in nessun modo riassumibili a due. Pensare di imporre per decreto un sistema di stampo anglosassone è stata un’autentica follia». Per Franco Cardini, storico medievista e convintamente cattolico, la contraddizione di fondo nel nostro processo di unificazione non va ricercata nella tardiva unità statale rispetto a quella culturale e spirituale. Ciò che muta profondamente il quadro «è la nascita, alla fine del Settecento, con la Rivoluzione francese, dell’idea di Stato nazionale: da allora la nazione diventa un concetto politico, mentre prima era solo un concetto culturale e antropologico; da allora l’individuo, anzichè essere sottoposto all’obbedienza monarchica, deve obbedienza alla nazione». «In Italia – prosegue - questa idea comincia a diffondersi agli inizi dell’Ottocento. E non vedo alcuna drammatica contraddizione fra la nazione culturalantropologica e il concetto di nazione libera e indipendente, né di stato nazionale». Semmai «la contraddizione, per quanto riguarda l’Italia, si riscontra fra Stato unitario e una storia profondamente policentrica, così come era stata quella della Germania. Germania e Italia arrivano all’unità nello stesso periodo, ma in modo diverso. In Germania si raggiunge un’unità federale sotto il Re di Prussia, quella italiana non solo non è federale, ma non ha l’appoggio popolare: l’unione non è stata altro che la convergenza degli interessi di casa Savoia con una parte del repubblicanesimo democratico. Le masse popolari stavano altrove».
Cardini sintetizza questo processo con una battuta molto efficace: «La Germania si unì nel 1870 con un gesto che è riassuntivo della sua storia, mentre l’Italia lo fa per cooptazione, per ampliamento della corona sabauda, con una serie di atti insomma che hanno poco a che vedere con la sua vicenda storica, caratterizzata dal policentrismo». La questione cattolica ha una grande rilevanza in questo processo non solo perché il principio “libera
Chiesa in libero Stato”toglie alla prima il peso che aveva avuto in precedenza, ma anche perché esiste uno Stato della Chiesa «che in un’Italia federale alla Rosmini e alla Cattaneo avrebbe potuto coesistere in qualche maniera con il processo di unificazione, mentre la soluzione prescelta, prevedeva la sparizione del potere temporale». A questo si aggiunge un problema che è fondamentale per «una grande parte del laicismo massonico: Roma e la questione romana».
Secondo una tale impostazione «non può che essere Roma la capitale del nuovo Stato». Cardini non è d’accordo con questa idea di romanità che poi «riprenderà anche il fascismo. Non si vede perché in uno Stato nazionale nuovo la capitale possa essere solo Roma. Le scelte della monarchia piemontese e di certo radicalismo provocano l’esclusione dalla vita nazionale dei cattolici». Una tara pesante del nostro Risorgimento alla quale va aggiunta anche quella della «colonizzazione del Mezzogiorno e della mancata soluzione della questione sociale che significava prima di tutto fare la riforma agraria». «Qualche cosa in questa direzione lo fece il fascismo - la bonifica delle paludi Pontine, alcuni interventi in Sardegna - ma sono palliativi.Qualcosa di più ardito venne realizzato nella Prima Repubblica, ma perché ormai il grande potere si stava spostando altrove». Eccoli, dunque, i peccati originali dell’Italia unita secondo Cardini che ci tiene a citare anche «la questione più occultata nel racconto del Risorgimento: l’intervento e il peso dei grandi interessi stranieri, le vicende europee e quelle del Meditarraneo». È l’epoca quella in cui l’Italia “abbandona il cavallo francese” perché si rende conto che Napoleone III e la cattolica imperatrice Eugenia avrebbero appoggiato solo un’ipotesi di Italia federale che non prevedesse l’annullamento dello stato pontificio (questi erano i patti di Plombieres). «La corona sabauda e certo radicalismo repubblicano e neogiacobino (non Mazzini) scelsero però la strada delle dittature e dei plebisciti». Insomma, Franco Cardini mette al centro della lettura del nostro Risorgimento le grandi questioni internazionali e identifica nell’abbandono della “ipotesi federale”una delle grandi “tare fondative”. Ma dice con nettezza: «Non difendo il federalismo di Bossi che ha creato un processo sui generis in cui non sono gli Stati sovrani a cedere volontariamente una parte del loro poteri, bensì s’inventano degli staterelli scismatici per tirar fuori poi dal cilindro la proposta federale. Cosa c’entra questo con Rosmini e Cattaneo? Nulla. Quella della Lega è una vera follia storica».
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150 anni d’Italia Risorgimento in breve
L’epopea dei Mille si conclude a Teano
1860 uella tra il 5 e il 6 maggio del 1860 Garibaldi, nelle sue Memorie, la chiama «la notte del gran concetto»: fare l’Italia era un concetto, un’idea da cui la politica del Paese non poteva più prescindere. Garibaldi, dopo molto tentennamento, con l’aperta ostilità di Cavour e la segreta complicità del re, riempì di sostanza quel «gran concetto» con i Mille: il capitale a disposizione della spedizione era di 94.000 lire; tra i volontari c’erano 250 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e altrettanto capitani di mare, 100 commercianti, 10 artisti, qualche prete e una donna, Rosalia Mont-
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masson, moglie di Crispi, in abiti maschili. Erano quasi settentrionali. Partiti da Quarto, i Mille sbarcarono a Marsala e da lì, nel volgere di quattro mesi, giunsero fino a Napoli, dopo aver sconfitto i borbonici prima a Calatafimi (quando Garibaldi disse «O si fa l’Italia o si muore»), poi a Palermo, a Milazzo e sul Volturno. Dopo di che Garibaldi regalò a Vittorio Emanuele II la «sua» mezza Italia il 26 ottobre, a Teano. Deluso per non essere potuto arrivare a Roma, Garibaldi tornò da cittadino semplice a Caprera, da dove seppe, mesi dopo, il 17 marzo del 1861, che il Regno d’Italia era nato ufficialmente.
«Ne sono sicuro, Dante si sta rivoltando nella tomba» Vittorio Sermonti ”legge” per liberal l’Alighieri politico e patriota contestando la retorica antinazionale dei separatisti del nord e del sud: «L’Italia esiste da tremila anni, il Poeta ne parlava già nella Commedia» di Riccardo Paradisi
Dante Alighieri, poeta fiorentino e massimo esponente della cultura italiana. Nella pagina a fianco, dall’alto: il dantista Vittorio Sermonti, uno dei massimi esperti italiani della Divina Commedia; l’incontro fra Dante e Ciacco all’Inferno; Beatrice vestita di verde, incontrata in Paradiso; una raffigurazione del dialogo fra Virglio, Dante e Sardello in Purgatorio; il ponte Nuovo che si trova a Firenze sull’Arno
giovani stanno riscoprendo Dante nelle piazze d’Italia, nei teatri. Spero che questo successo si affermi anche in televisione». Era il 28 Settembre 2005 quando l’allora presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi inviava queste parole, con un videomessaggio, al 77° Congresso della Società “Dante Alighieri” tenutosi quell’anno a Malta. L’auspicio s’è avverato: Dante infine ha avuto successo – e che successo – anche in televisione. Ma a portarlo tra la gente, padre Dante, prima con la radio e poi con la declamazione delle sue terzine nelle piazze e nei teatri è stato, per primo Vittorio Sermonti.
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Studioso di letteratura, scrittore, Sermonti ha dedicato 20 anni della sua vita a far conoscere a un più vasto pubblico di italiani la Divina Commedia, curando personalmente fra il 1987 e il 1992, un lungo ciclo di trasmissioni radiofoniche con la supervisione di due fra i più grandi filologi italiani, Cesare Segre e Gianfranco Contini, tutte dedicate alla Commedìa. Merito suo insomma se Dante è tornato tra noi. «Il merito è soprattutto di Dante a onor del vero – si schernische Sermonti – che continua ad essere insieme misterioso e straordinariamente
popolare. Un melange di popolarità e misteriosità questo che risale a Foscolo, a Leopardi, al romanticismo italiano. Dante ha questa caratteristica: di essere stato, attraverso i secoli, infinitamente popolare e assieme enigmatico. Cantavano i versi di Dante, risulta dalle epistole del Petrarca, osti, tintori e maestri di ginnastica, senza capire magari cosa stessero dicendo. Del resto è nella natura della Commedia di essere così misteriosamente popolare. Insomma io mi sono solo accorto che c’era un grande bisogno di Dante e gli ho dato voce». Nell’introduzione del suo commento dantesco Enrico Bianchi aveva scritto: «Dante è la più pura gloria dell’Italia; gloria che nessuno ci può togliere, per passar di tempo o mutare d’eventi. Egli è stato e sarà sempre segnacolo d’italianità; e intorno a lui e nel suo nome si raduneranno gl’Italiani ogni volta che l’amore della patria fiammeggerà nei loro cuori; e lo sentiranno lontano da sé, solitario e sdegnoso, quando per torti raggiri o con arti indegne vorranno far male a quell’Italia ch’egli tanto amò». E in effetti come dimostra illustra un libro di Fabio Di Giannatale (L’ esule tra gli esuli, Edizioni scientifiche abruzzesi), Dante è stato l’ispiratore di moltissimi esponenti di quell’elite risorgi-
mentale che ha fatto l’Italia.
Il Risorgimento è stato caratterizzato da un vero e proprio mito di Dante. Nell’autore della Divina Commedia, costretto a lasciare Firenze oltre cinque secoli delle guerre d’indipendenza italiane, i nostri patrioti vedevano «il gran padre» di tutti gli esuli politici, come lo chiamò Ugo Foscolo, che per un estremo processo di identificazione tendeva addirittura a sovrapporre la sua biografia a quella di Dante.Tanto che come ebbe a osservare Carlo Cattaneo, «quasi non si scorge se Foscolo parli di Dante o di se stesso». Dante però era soprattutto considerato il padre della nazione perché ne aveva creato la lingua e la poesia: era questo che consentiva di definire la «Commedia», sempre secondo Foscolo, «il libro degli italiani». Mazzini invece voleva vedere in Dante un precursore dell’unità nazionale e della stessa moderna civiltà europea. Dopo aver dedicato all’ «amor patrio» di Dante un suo scritto giovanile, Mazzini continuerà per tutta la vita a occuparsi del poeta fiorentino. Un rapporto d’amore-odio per la verità quello di Dante con l’Italia, ma insomma un rapporto carnale, indiscutibile e inscindibile. Se non altro perché la lin-
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150 anni d’Italia Risorgimento in breve
Garibaldi fu ferito... dai «fratelli» italiani gua che parliamo e che ai tempi dell’unità politica era parlata da un’infima minoranza nella penisola è quella con cui Dante scriveva le terzine della Commedia. Dante insomma è presente nella storia e nell’identità profonda di questo paese: che precede come entità simbolica e concreta la sua formalizzazione politica. «Tutte le riflessioni critiche che possiamo fare sui modi e i tempi dell’unità e della costruzione statuale del nostro paese – dice Sermonti – sono naturalmente legittime anche se negli ultimi tempi si è esagerato molto nel caricare di retorica antinazionale la polemica sul Risorgimento. Senonché c’è una verità elementare che dovrebbe esser detta approfittando magari di questo centocinquantenario: l’Italia, prima di esser stata fatta da alcuni italiani nel 1861, è stata fatta dal Padreterno quanto ha deciso il corrugamento delle Alpi e quando poi l’ha geograficamente configurata come la vediamo oggi. Inoltre, tremila anni fa circa, l’Italia ha cominciato anche a definirsi identitariamente come una contaminazione assoluta di popoli e razze diverse, che prima sono entrate in conflitto tra di loro poi hanno cominciato a sposarsi: il mitologema del ratto delle sabine è plasticamente riassuntivo di quello che è accaduto. Questo ha determinato una koinè etnica che è stata sancita in termini amministrativi prima da Augusto e poi da Diocleziano che ha incluso nell’unità anche la Sardegna e la Sicilia. L’Italia ha quindi assunto, attraverso i secoli, una sua identità linguistica».
L’italiano ufficiale che s’è perpetuato attraverso i secoli è l’italiano del Petrarca «mentre l’italiano di Dante continua ad essere un dialetto di italiani futuri, intendo dire un modo di far suono con la voce che si offre ancora agli italiani dell’avvenire. Insomma quella del Petrarca è una lingua che tende a depositarsi sulla pagina e lì rimanere, a essere una funzione degli occhi e non della voce. Questo è il ritratto della lingua italiana che essendo antichissima fa ancora oggi poco suono». L’unità linguistica del paese, ricorda comunque Sermonti «è sancita da Virigilio, prende suono e voce nella Commedia settecento anni fa e diventa tacita fi-
no a definirsi come lingua nazionale e koinè 150 anni fa, con la scuola pubblica. E ringraziando Iddio c’erano professori napoletani che insegnavano e insegnano a Milano».
Il problema dell’unità nazionale nell’ambito dell’impero universale è esposto da Dante nel De Monarchia: nella monarchia universale teorizzata in quest’opera l’Italia è vista da Dante come il giardin dello imperio (Purg. VI 105) e quindi con una funzione di preminenza nel mondo, per il quale egli proponeva come ideali la romanità e il cristianesimo. Ma l’idea della nazione italiana, compresa nei suoi limiti geografici, era già maturata nella mente dell’abate filosofo Gioacchino da Fiore che ne aveva rilevato il primato fra le nazioni per la presenza della Chiesa Cattolica: idea poi rilanciata da Vincenzo Gioberti. Dante poeta e profeta dell’unità d’Italia dunque e non a caso il suo culto veniva proibito dagli austriaci. Molti patrioti sono stati perseguitati e carcerati solo perché in casa possedevano un suo busto, un suo ritratto. Il rapporto tra Dante e l’Italia come abbiamo già visto è però fatto di antagonismo e di dolorosa polemica. Tanto da essere proprio Dante il campione del lamento per la condizione politica della penisola. Un lamento che fa risuonare in modo compiuto nell’apostrofe dell’Italia descritta come un bordello (Purgatorio, VI, 76, ss) dove vengono messi a fuoco nel Paese la mancan-
1862 Garibaldi l’idea di aver dovuto rinunciare a Roma non era andata giù: per lui un’Italia senza Roma non era Italia. Eppoi pensava che un’identità condivisa andasse fondata su un grande evento catartico. Una guerra, insomma, come era stata quella dei Mille. «A Roma, a Roma» fu il mantra dei progressisti dopo il 1860, anche alla luce di un «tradimento della rivoluzione» consumato dai Savoia nella riconversione piemontese del Mezzogiorno. E dal Mezzogiorno Garibaldi partì per ricostituire il «suo» esercito e andare a conquistare Roma da regalare a Vittorio
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Emanuele II. Salvo che il re stavolta, pur avendo segretamente approvato l’iniziativa del generale, dovette fare marcia indietro: in Calabria, da dove Garibaldi stava salendo verso Roma, fu mandato il generale Cialdini con l’imperativo di fermare Garibaldi a qualunque costo. Il 29 agosto quel «costo» fu una pallottola nel malleolo di Garibaldi. Perché posto di fronte ai soldati italiani, Garibaldì ordinò ai suoi di non sparare per alcun motivo. Ordine che l’esercito regolare non ebbe... La rabbia popolare rischiò di far cadere il governo che per salvarsi dovette «liberare» Garibaldi.
“Il suo culto era diffuso nel Risorgimento” za d’una struttura di comando politico accentrata ed efficiente (“L’Italia è nave senza nocchiere” una cavalcatura dalla “sella vuota” e non corretta “dagli sproni”) e il divampare selvaggio dei particolarismi e degli odi civili : «e ora in te non stanno senza guerra/ li vivi tuoi, e l’un l’altro si rode/ di quei ch’un muro ed una fossa serra». Il colloquio sui mali italiani che avviene in Purgatorio con Sordello ha un suo prologo all’inferno con il colloquio nel canto sesto tra Dante e Ciacco. Ciacco Dell’Anguillara è un fiorentino vissuto nella generazione precedente a quella di Dante. In questo passaggio della Commedia Dante individua nei peccati di superbia, invidia e avarizia le cause della sciagurata guerra civile fiorentina che sta già divampando e cita anche Papa Bonifacio VIII, attribuendogli delle responsabilità sulla rovina di Firenze, dell’Italia e della Chiesa stessa. Nel canto VI del Purgatorio è Virgilio a rivolgersi a Sordello ed egli, riconoscendo l’accento mantovano, lo abbraccia amichevolmente. Da questo episodio si sviluppa la discussione politica che si trasforma in una vera e propria invettiva da parte di Dante contro l’Italia schiava, casa del dolore, nave senza comandante in mezzo alla tempesta. Un’invettiva che s’appunta contro diversi soggetti: tra tutti il clero, che Dante accusa di avere usurpato il potere temporale contro l’imperatore e Alberto I d’Austria, l’imperatore, accusato di aver sempre sottovalutato l’Italia per sopravvalutare la Germania e Firenze della quale Dante parla in modo sarcastico. A Dante fa paura il vuoto di potestas, d’un autorità che regga e regoli la convivenza umana. Nel De Monarchia scrive chiaramente: «Unum oprtet esse
aliorum regolatorem…est igitur Monarchia necessaria mundo»: «È necessario che uno solo dia legge agli altri…dunque al mondo è necessaria la monarchia». «L’italia per Dante è il giardino del’impero – dice Sermonti – il nucleo della storia universale che ha come centro Roma, con tutti i problemi connessi alla disputa tra papi e imperatori e l’annessa teoria politica dei due soli. È vero, Dante è un grande fustigatore del tema dell’assenza d’autorità e di forma in Italia e però legge il dilaniamento, il contrasto all’interno delle cento città d’Italia come una forma disgraziata e brutale di ricerca di identità. Il grido di Sordello ”Ahi serva Italia”. È rivolto soprattutto gli abitanti delle città, che si combattono in terribili lotte fratricide. È una ricerca di piccole identità di chi ha perduto per ragioni storiche un’identità nazionale». C’è anche chi ha voluto ascrivere al profetismo nazionale di Dante la comparsa del primo tricolore italiano nella Divina Commedia. E in effetti il primo “bianco, rosso e verde”lo troviamo proprio nella Commedia, nelle vesti di Beatrice(Purg. XXX, 30-33).
«Questa della Beatrice tricolore è una cosa esaltante e suggestiva. Ma è un elemento che lascerei alla sfera della suggestione. Il tricolore che noi portiamo è una variazione della bandiera francese, non c’entra con fede speranza e carità, né con la coroncina di Beatrice. Non c’entra nulla. Sono tre colori che si combinano bene insieme e in cui si inciampa spesso nella storia e nella iconografia di questo Paese e di molti Paesi del mondo. Non siamo detentori dell’unico tricolore: lo hanno i messicani o gli ungheresi, gli iraniani, in qualche modo persino gli irlandesi…Intendiamoci io parlo spudoratamente di una Beatrice tricolore, ma lo faccio alludendo a una bella coincidenza…Che poi come tutte le coincidenze magari non è del tutto casuale…»
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150 anni d’Italia
lessandro Manzoni quarant’anni prima della proclamazione del Regno d’Italia la salutava «una d’arme, di lingua, d’altare,/ Di memorie, di sangue e di cor». Il Palazzo della Civiltà del Lavoro all’Eur ricorda mussolinianamente gli italiani come «popolo di eroi di santi di poeti di artisti di navigatori di colonizzatori di trasmigratori». Gustave Flaubert nel Dizionario dei Luoghi Comuni proclamava gli italiani «tutti musicisti, tutti traditori». Curzio Malaparte disse, irriverente e machista, che la nostra bandiera «è in mezzo alle gambe». Leo Longanesi lasciava il tricolore: ma consigliando di mettere al posto dello stemma sabaudo la scritta «tengo famiglia». Giorgio Gaber diceva di non sentirsi italiano, ma che «per fortuna o purtoppo» lo era. Little Tony ha proposto: «Figli di Pitagora e di Casadei/ di Machiavelli e di Totò/ cresciuti con una morale cattolica/ e con il rock’n’roll». Montanelli disse che a farci italiani erano «Dante e la geografia»; e che lui aveva passato la vita a cercare di cambiare l’Italia per trasformarla in una cosa che se davvero ci fosse riuscito, sarebbe scappato subito in Spagna. «Di terra bella e uguale non ce n’è», si limitava a proclamare con ingenua estasi Mino Reitano. «È una terra - come dice Alfieri - ove la pianta uomo nasce più robusta che dovunque e gli stessi atroci delitti che vi si commettono ne sono una prova», garantiva Garibaldi.
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Sotto la grande ruota panoramica di Vienna, Orson Welles nel Terzo Uomo spiegava: «In Italia per trenta anni hanno avuto guerra, terrore, omicidio, strage e hanno prodotto Michelangelo, Leonardo da Vinci e il Rinascimento. In Svizzera, con cinquecento anni di amore fraterno, democrazia e pace cos’hanno
Un popolo capace di tutto, perfino di fare il proprio bene Il problema è che spesso se ne dimentica... L’identità italiana attraverso i suoi protagonisti di Maurizio Stefanini prodotto? L’orologio a cucù». «Buongiorno Italia gli spaghetti al dente/ e un partigiano come presidente», era la sintesi di Cotugno tra il mito del saper vivere e il patriottismo costituzionale. Una mostra al Vittoriano che per festeggiare i 150 anni ha voluto invertire il discorso di D’Azeglio facendo partire l’Italia dagli italiani, ha identificato le “icone” dell’identità nazionale in un guerriero: Giuseppe Garibaldi. Uno scrittore: Alessandro Manzoni. Due poeti: Gabriele D’Annunzio e Giosuè Carducci. Un musicista: Giuseppe Verdi. Un drammaturgo: Luigi Pirandello. Un’attrice: Eleonora Duse. Un movimento artistico: il futurismo. Un filosofo: Benedetto Croce. Un cantante: Enrico Caruso. Un direttore d’orchestra: Arturo Toscanini. Un santo: Padre Pio. Un inventore: Guglielmo Marconi. Uno scienziato: Enrico Fermi.
Una scuola cinematografica, il Neorealismo, con quattro registi: Roberto Rossellini, Vittorio De sica, Luchino Visconti, Federico Fellini. Un campione del ciclismo: Fausto Coppi. Un attore comico: Totò. E la Nazionale di Calcio, vincitrice di quattro campionati del mondo.
Se si osserva bene, non è solo una collezione di grandi nomi, ma di prototipi. Garibaldi, ad esempio. La critica ha ormai accertato che è lui all’origine dei Sandokan e dei Corsari Neri dei romanzi di Emilio Salgari; e sono stati poi i Corsari Neri e i Sandokan dei romanzi di Salgari il prototipo cui, probabilmente in modo inconscio, si conformò la grande icona del rivoluzionario del XX secolo, Ernesto Che Guevara. Certo, considerazioni a parte sul diverso tipo di regime cui i due guardarono: non c’è
dubbio che Garibaldi fu ad esempio l’unico generale al servizio della Francia nel 1870 capace di sconfiggere i prussiani. In pratica l’unico generale su cui la macchina da guerra teutonica non riuscì a imporsi, nei cent’anni che vanno dalla battaglia di Lipsia a quella della Marna. Mentre il Che fece tre campagne in vita sua: in quella contro l’esercito pessimo di Batista non era neanche il comandante in capo, in Congo fece un mezzo disastro, e in Bolivia un disastro completo. Diciamo dunque che, nell’epoca della virtualità, è stato un Garibaldi piuttosto virtuale. Ma in fondo, anche gli innumerevoli epigoni del modello della cultura spettacolo e politica spettacolo inventato da Gabriele D’Annunzio, non sono che pallide copie di fronte all’originale. Così come le innumerevoli repliche del mito della Divi-
Risorgimento in breve
Una guerra «inutile» per avere Venezia
na rispetto a Eleonora Duse.Vogliamo poi provare a immaginare il mondo moderno senza la radio di Marconi o senza l’energia nucleare di Enrico Fermi? E magari la santa più popolare del XX secolo è stata Madre Teresa: ma ci sono stati altri santi taumaturghi, dopo Padre Pio? Il bello, poi, è che l’importanza del Futurismo e del Neorealismo in genere sono gli stranieri che debbono spiegarcela.
È vero: forse così si torna un po’ troppo all’Italia di eroi, di santi, eccetera, con aggiunti anche un po’di campioni sportivi e personaggi dello spettacolo. Che non è solo un problema di retorica. Proprio Montanelli, nella sua famosa cavalcata sulla storia nazionale contrappose ad esempio l’Italia della Controriforma a quella del Risorgimento per ricordare che la pri-
1866 orto Cavour (nel 1861), la neonata Italia era già preda dell’incertezza politica. Ma il fatto che l’Austria fosse in guerra con la Prussia per la supremazia sulla Germania spingeva l’Italia ad attaccare il confine veneto dell’Austria, ragionevolmente sguarnito. Giuste intenzioni, salvo che due generali, La Marmora e Cialdini, avevano idee opposte sulla strategia di guerra. Malgrado ciò l’Austria, sapendosi impegnata sul fronte prussiano, per evitare ulteriori conflitti, chiese alla Francia di mediare con l’Italia cedendo spontaneamente il Veneto ai Savoia. L’Italia, invece, scelse la guerra, contandonin un
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triofno immediato. Salvo che il re Vittorio Emanuele II non scelse tra La Marmora e a Cialdini: la strategia di guerra fu disastrosa e si concluse con una tragica sconfitta navale a Lissa, in Dalmazia. Malgrado ciò l’Austria, sul punto di soccombere con la Prussia, chiese e ottenne l’armistizio. A mediare fu chiamata la solita Francia che girò all’Italia Venezia ceduta dagli austriaci. Unico protagonista positivo, sul campo di battaglia, fu Garibaldi che con i suoi «cacciatori delle Alpi» raggiunse addirittura Trento. Finché il re gli chiese di ritirarsi e lui – seccato – rispose con il celebre telegramma: «Obbedisco».
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150 anni d’Italia
ma in realtà nella sua disunione e riduzione a oggetto delle rivalità straniere non era una vera e propria storia, ma solo una serie di Cronache. Che però avevano avuto a protagonisti dei Giganti, da Leonardo a Michelangelo. Al contrario, l’Italia del Risorgimento aveva avuto per la prima volta una latitanza di grandi protagonisti della Storia dell’Arte, a parte il caso di Giuseppe Verdi. E osservava che non era un caso: per la prima volta i grandi cervelli italiani non erano stati distratti dalla corsa alla gloria delle Muse, ma si erano rivolti in modo primario al compito di costruire uno Stato. Così come avevano fatto tanti altri popoli europei, in effetti meno prodighi di geni, e un po’ più di solide istituzioni. Possibile che sia stato questo un tradimento a una missione sovrannazionale cui ci avevano destinato prima la storia della Roma imperiale, poi la storia della Roma pontificia? È quando rimproverò a suo tempo al Risorgimento Dostoevskij; è quanto in questi ultimi tempi di querule mode anti-risorgimentali è tornato a lamentare qualcuno, osservando ad esempio il livello non eccelso di una mostra come quella dei Pittori del Risorgimento. Intendiamoci: non eccelso, se si considera quello che era stato il livello dell’Arte italiana ad esempio nel Rinascimento. Ma avrebbe potuto continuare a esistere una cultura italiana capace di erogare al mondo la sua intensa luce sovrannazionale, se anche il XIX secolo fosse passato senza riuscire a dare a questa cultura una solida impalcatura statuale? La Corsica, ancora di cultura italiana fino al 1859, dopo di allora si francesizza in modo irrimediabile. Marx e Engels a quell’epoca osservano la tendenza dei de-
putati italiani al Parlamento svizzero ad usare il francese o il tedesco. E quella è anche l’epoca in cui una miriade di vernacoli dell’Europa Orientale iniziano ognuno a trasformarsi in lingua letteraria, puntigliosamente orgogliosa della propria autonomia.
Insomma, niente di più probabile che il Lombardo-Veneto si sarebbe germanizzato. Nel Regno di Sardegna si sarebbe imposto il francese, che sia Vittorio Emanuele II che Cavour usavo meglio dell’italiano. Il Regno delle Due Sicilie avrebbe sviluppato una lingua napoletana autonoma dall’italiano; imposta a siciliano, pugliese, calabrese, eccetera, con la stessa “violenza” poi rimproverata all’italiano, se non maggiore, Presumibile che uno Stato Pontificio del XX secolo dalla propria vocazione ecumenica sarebbe stato spinto verso l’inglese. E magari un ridotto di italiano sarebbe sopravvissuto nel Granducato di Toscana: ma ormai ripiegato definitivamente sulla propria identità locale. E sarebbe sopravvissuta senza questo humus l’«arte del saper fare bene italiano»? Anche questa è stata individuata come icona dell’identità nazionale, alla mostra del Vittoriano. «Il made in Italy viene da molto lontano: è il frutto di una lunga e fertile cooperazione tra cultura, arte, artigianato, abilità manifatturiera, territorio, memorie storiche. Questa sezione della mostra vuole essere testimonianza del “saper fare bene” in Italia nei tanti settori in cui il nostro Paese si è da sempre contraddistinto: moda, artigianato, cinema, design, cucina». D’altra parte, non è che l’Italia poi unificata non è che non ab-
Arte e Made in Italy, poesia e furbizia: un filo rosso ci lega da sempre bia ripreso a produrre geni. Sì: Paisiello scrisse l’inno del Regno delle Due Sicilie, Rossini per polemica contro l’unità nazionale se ne stette in esilio in Francia, Verdi forse non divenne risorgimentale che dopo aver visto i primi inni e cori riutilizzati dalla rivoluzione nazionale nel 1848. Ma non è stata l’Italia unita a produrre l’ultimo grande volo della grande opera lirica che proprio il nostro Paese aveva inventato, con i Puccini e Caruso e Toscanini? Certo: dopo la grande triade pre-risorgimentale Foscolo-Manzoni-Leopardi la nostra grande letteratura sembra un attimo insterilirsi. Ma non ha avuto poi l’Italia unita i sei Nobel a Carducci, Deledda, Pirandello, Quasimodo, Montale e Fo? Per non parlare di un libro come Pinocchio: metafora di un percorso iniziatico di maturazione che è anche quello dell’intero popolo italiano, scritta appunto da un combattente di Curtatone e Montanara. Conservatore scettico per sua polemica autodefinizione, Sergio Romano ha di recente ripubblicato una raccolta di tre saggi che per difendere l’Unità Nazionale reca il titolo provocatorio di Finis Italiae e sentenzia ancor più provocatoriamente come «il processo unitario è complessivamente fallito». In realtà, poi si scopre che più della provocazione c’è sotto quel tipico atteggia-
mento italiano da Montanelli attribuito a Machiavelli, e che vari critici hanno rilevato essere in effetti un tratto originario dello stesso Montanelli, e forse della gran parte dei nostri intellettuali. «Ostenta il cinismo, per mascherare l’amarezza». Con la scusa di essere «troppo conservatore per desiderare un evento che avrebbe effetti incalcolabili e imprevedibili», Romano spiega però poi che «bene o male gli italiani, in centocinquant’anni di storia unitaria, hanno creato un patrimonio comune fatto di istituzioni, aziende, opere pubbliche, miracoli economici, catastrofi e ricostruzioni, gare sportive, opere dell’ingegno, battaglie combattute insieme e non sempre perdute». «Questo eterogeneo patrimonio, disordinatamente stipato negli archivi della memoria nazionale, rappresenta, come direbbero i personaggi dei romanzi di Verga, la “roba italiana”. Se lo Stato in cui tutto questo è stato prodotto morisse, la roba andrebbe in gran parte dispersa».
E la roba, appunto, è la Fiat che viene chiamata da Obama al capezzale dell’industria automobilistica americana; e l’Eni cui Enrico Mattei fece scardinare il monopolio delle Sette Sorelle. Sono i Carabinieri che tutti vogliono nelle missioni di peace-keeping perché non ci sono
Risorgimento in breve
La conquista di Roma completa l’Italia
altri soldati al mondo ugualmente in grado di essere poliziotti e soldati allo stesso tempo; ed è la Dieta Mediterranea indicata dagli esperti come alimentazione più sana del mondo. È il patrimonio artistico più ricco del Pianeta, anche se noi ogni tanto lo lasciamo impunemente andare in briciole; ed è la nazionale di rugby che ha vinto la partita del Sei Nazioni con la Francia. È la piccola e media impresa dei distretti industriali che tanti Paesi ci pregano di insegnare ai loro imprenditori; ed è lo Stato che riesce ancora a farsi finanziare dai propri cittadini, anche quando la crisi finanziaria riduce le pretese tigri celtiche o vichinghe al livello di gattini spelacchiati. È Luigi Rizzo e Luigi Durand de la Penne, che da soli sconfiggono un’intera flotta nemica; ed è Paolo Rossi che torna a giocare dopo tre anni di squalifica, segna goal a ripetizione, e ti vince un Mondiale. È l’Italia che frana a Caporetto e si ritrova sul Piave; che scompare l’8 settembre e si ritrova il 25 aprile; che si presenta a un altro mondiale fuori uso per il calcio scommesse e lo vince; che viene sentenziata «Paese economicamente finito» e fa il miracolo economico. Insomma, il Paese che può fare tutto, perfino il proprio bene. Con l’unico, immenso problema che non sempre lo vuole.
1870 nseguita per una quarto di secolo dai rivoluzionari, Roma italiana arrivò per un complesso incastro diplomatico. La Francia (dopo la Repubblica Romana) aveva diritto di premazia sullo Stato Pontificio e non aveva mai consentito l’annessione della città al Regno d’Italia. Ma ne 1870 la situazione politica francese era caotica, se non compromessa, per via dello scontro con i tedeschi da un lato e dall’altro nel conflitto interno tra la Comune e i seguaci di Napoleone III. In estate, parve giutno il momento di «andare a riprendersi Roma». Sondati gli umori francesi
I
(ma caduto definitivamente Napoleone III, a chi si doveva chiedere?) e visto che non arrivano risposte, gli italiani partitono alla volta della Città Eterna. Dove giunsero proprio quando l’ultimo presidio dell’esercito francese era partito. Lo scontro finale avvenne davanti a Porta Pia, il 20 settembre. Al termine dell’ennesimo scontro fratricida, si contarono 49 morti tra gli italiani e 19 tra le milizie pontificie: l’Italia era fatta (mancavano Trento e Trieste, per le quali si ssarebbe fatta la Prima Guerra mondiale), ma senza un evento catartico alla sua radice.
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150 anni d’Italia
Un saggio del grande storico tedesco
Il difficile superamento del passato nell’Europa moderna Italia, Francia e Germania dal 1815 al XXI secolo
Il rischio
dell’Occidente di Ernst Nolte
he un passato debba essere elaborato o “superato” è questione tutt’altro che ovvia. Il passato degli Stati e delle culture, per poter diventare espressamente un postulato, deve discostarsi molto dalle consuetudini cui siamo abituati. Questa situazione si configurò per la prima volta dopo la Rivoluzione Francese ed il regno di Napoleone I, direttamente ad essa correlato: dopo la vittoria della “Santa Alleanza”, dopo il definitivo esilio dell’ex giacobino e generale della rivoluzione, in tutta Europa si condannò l’ex “usurpatore”, il “tiran-
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no assetato di sangue”, quel “mostro terribile”, e gli alleati decisero che in futuro non avrebbero mai più tollerato una rivoluzione contro un sovrano legittimo e, in particolare, che avrebbero impedito l’ascesa al trono di un altro Napoleonide. Questo fu il primo, assolutamente pubblico ed ufficiale “superamento del passato” in Europa. Ma questo passato certo non poteva cadere nell’oblio, anche perché chi ad esso era sopravvissuto lo rivendicava, sottolineando che quel passato un tempo era stato il suo “futuro”. Di fatto le potenze vincitrici non
riuscirono ad impedire lo scoppio di altre rivoluzioni in Francia, la prima già nel 1830, né riuscirono poi ad evitare che, poco dopo la rivoluzione più significativa del 1848, salisse al trono un altro Napoleonide con il nome Napoleone III, che in molte parti d’Europa fu considerato un paladino dello sviluppo.
Ma nel 1870, anche questo secondo imperatore subì, come il primo, una pesante sconfitta nella guerra contro la Prussia. Mentre quest’ultima subito dopo fondò il “Deutsches Reich - l’Impero Tedesco”, gli intellettuali
150 anni d’Italia
francesi, sotto la guida di Ernest Renan cercarono di fornire spiegazioni per l’inaspettata disfatta. Le trovarono nelle antiquate caratteristiche francesi, ovvero nel potere della Chiesa cattolica causa, a loro dire, dell’arretratezza della Francia, contrapposta alla Prussia riformata e dunque moderna. Nei cinquant’anni che seguirono, in tutte le rivendicazioni relative al superamento del passato, il concetto di arretratezza sostituì il concetto di “impazienza rivoluzionaria”.
L’Italia è stata per lungo tempo esempio classico di arretratezza. Era suddivisa in tanti piccoli stati, essenzialmente in Regno dei Borboni a Sud e nelle grandi aree sotto dominio asburgico a Nord. Molti italiani consideravano dominazione straniera anche lo Stato Pontificio, con sede a Roma. Ma nel decennio tra il 1860 ed il 1870 e sotto la guida del Piemonte, il movimento di unificazione poi denominato “Risorgimento”, riuscì a distruggere il Regno dei Borboni, a scacciare quasi completamente gli Asburgo ed infine ad integrare nel “Regno d’Italia”anche lo Stato Pontificio. Applicando una terminologia allora non ancora consueta, si sarebbe potuto dire che lo Stato nazionale italiano fu il prodotto di un ben riuscito e politicamente pragmatico superamento del passato. La Germania si trovava in una situazione migliore, perché in tutto e per tutto parte integrante della “Confederazione Germanica”, a cui appartenevano anche l’Austria e quasi tutti i territori divenuti in seguito Cecoslovacchia. Ma questa “Confederazione Germanica” era poco più di un’aggregazione di Stati indipendenti. Non pochi intellettuali lamentavano “la desolazione dell’assenza di Stato” in cui vivevano ed auspicavano, analogamente a quanto accadeva in Italia, la creazione di un vero Stato nazionale. L’auspicio si
Lo Stato italiano è il prodotto di un vero processo di revisione concretizzò quasi contemporaneamente in Germania ed in Italia, anche se in Germania non fu grazie al trionfo del movimento liberale, ma grazie alla vittoriosa autoaffermazione della Prussia, da molti considerata uno stato federale“feudale”, e grazie al suo Primo Ministro, lo Junker Otto von Bismarck, fortemente “reazionario”. Ma l’osservatore attento avrebbe notato che Bismarck aveva subito una notevole, pur se incompleta, trasformazione, da “prussiano tutto d’un pezzo” a nazionalista piccolo tedesco. L’opinione pubblica liberale in Europa considerò atteggiamento progressista il fatto che l’Austria – contrariamente al Regno di Napoli – non venisse inglobata nello Stato nazionale. Ne fu invece estromessa, e così il pensiero “piccolo tedesco” si impose su quello “grande tedesco”. Tutto questo non aveva analogie in Italia. Furono quindi più che altro i cattolici di pensiero grande tedesco, tra l’altro vittime dello “scontro culturale”, a criticare ancora Bismarck, definendo lui ed il suo Stato “reazionari”. Nell’arco di pochi decenni il nuovo “Impero Tedesco”divenne lo Stato più forte ed industrialmente più progredito d’Europa, rendendo apparentemente superfluo un “superamento del passato”. Nonostante esistesse una notevole tendenza liberale, si lamentava comunque la divergenza tra lo
sviluppo industrial - progressista da un lato e l’arretratezza politica dall’altro, e si auspicava un rimedio, ad esempio la “parlamentarizzazione”del sistema.
La guerra mondiale contribuì a rendere la situazione ancora meno trasparente. Nonostante le profonde differenze, Francia ed Inghilterra si consideravano gli Stati occidentali più evoluti e civilizzati, barbaramente aggrediti dal “reazionario” Patto bilaterale di Germania ed Austria-Ungheria, eppure loro stessi erano alleati con la più grande delle potenze barbare, ovvero la Russia degli Zar. Il “barbaro”Impero Tedesco veniva invece citato quale modello di progresso scientifico. L’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, per sua scelta, al fianco delle potenze occidentali e contro i suoi ex alleati, - anche se spinta da un movimento popolare sotto l’egida del socialista Mussolini e del poeta D’Annunzio, - si fondava sulla considerazione che l’arretratezza del Paese, ancora molto evidente, si sarebbe ulteriormente inasprita se l’Italia avesse separato il proprio destino da quello delle potenze occidentali progressiste. Alla fine l’Italia divenne una delle “potenze vincitrici” e poté integrare nel proprio Stato nazionale le ultime zone “non ancora liberate”. Nel frattempo la situazione mondiale aveva ulteriormente perso chiarezza: Dopo la “Rivoluzione d’ottobre” del 1917, il regime zarista, profondamente reazionario, era stato sostituito dal regime monopartitico bolscevico, il quale si considerava estremamente progressista ed annunciava a gran voce un progetto a dir poco sconvolgente ma già attuato nei suoi primi elementi, ovvero la caduta del capitalismo e la distruzione economica della “borghesia”di tutto il mondo, con l’obiettivo di creare una comunità mondiale ad economia pianificata, senza Stati, classi o culture diversificate. Ovviamente
tutte le“potenze vincitrici”avrebbero contestato un tale nuovo “Stato”, ma tutte, d’altronde, avevano al loro interno forze d’opposizione molto potenti, perfino l’Italia, la quale parlava di una “vittoria monca”. Nella Germania sconfitta, ma anche in Italia, c’erano i sostenitori del nemico, ovvero i partiti comunisti o di sinistra, che - con un termine allora non consueto - potremmo definire pionieri militanti della “globalizzazione”, dunque non semplici ribelli o rivoluzionari. La domanda, se la minaccia bolscevica di annientamento fosse da prendere sul serio, conteneva anche l’essenza di questa situazione mondiale del tutto nuova; in caso di risposta affermativa, bisognava chiedersi quale potesse essere la “reazione”adeguata.
Non sussistendo i presupposti fondamentali enunciati da Marx ed Engels, ovvero la fine del capitalismo nello Stato rivoluzionario, l’ala radical-liberale non prese sul serio tale minaccia, né ritenne necessario modificare la procedura con la quale il sistema partitico europeo aveva fino a quel momento affrontato i propri nemici, cioè la divisione del nemico in questione e l’inglobamento della parte moderata nel proprio sistema. L’alternativa consisteva nel creare un nuovo partito di opposizione, che fosse
L’entrata in guerra del ’15-’18 nacque dalla spinta dei socialisti
militante quanto il nemico e che proprio in virtù di tale militanza riuscisse ad esprimerne le rivendicazioni concrete molto meglio dei partiti esistenti.
Proprio questa fu la “soluzione offerta dal fascismo” che si impose in Italia nel 1922, sotto la guida dell’ex dirigente del partito socialista (tendenzialmente comunista) Benito Mussolini ed in Germania nel 1933, sotto l’egida del “caporale della guerra mondiale” Adolf Hitler. Riguardo a questi due regimi sia solo detto che non erano “autentici” anticomunisti, ma influenzati da varie altre motivazioni, - il nazionalismo radicale, la “conquista dello spazio vitale”, la compattezza anche “razziale” tra partito e popolo, la lotta alle tendenze “distruttive” del liberalismo, - nonché dall’antisemitismo, che nel partito fascista italiano fu per molto soltanto un elemento marginale. In Germania, invece, esso divenne elemento primario, espressione della volontà di estromettere e scacciare gli ebrei. Era necessario avere un nemico concreto, come l’aveva il comunismo, che considerava tale gli imprenditori e la “proprietà privata”. Per questo motivo possiamo definire il nazionalsocialismo “fascismo radicale”. Nell’autunno del 1941, durante la campagna (definita preventiva) contro l’Unione Sovietica, nel corso della Seconda Guerra Mondiale (non ancora completa di tutti i suoi protagonisti), l’alleanza delle “potenze fasciste” sembrava avviata alla vittoria, ma l’inverno troppo precoce (secondo Hitler) o l’entrata ufficiale in guerra degli Stati Uniti modificarono radicalmente la situazione. Il risultato fu la capitolazione di re Vittorio Emanuele nel settembre del 1943, sfociata in una guerra civile tra antifascisti e fascisti, alla quale seguì, nel maggio del 1945, la ben nota catastrofica sconfitta della Germania.
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L’Italia post-Risorgimento era ancora caratterizzata dai tratti molto negativi del passato. Il fascismo e la resistenza presero queste caratteristiche sbagliate e ne fecero una bandiera da abbattere Solo allora, e dopo questo lungo antefatto, Italia e Germania iniziano ad affrontare quello che quasi unanimemente viene definito “superamento del passato”. Per l’Italia può valere - ed essere di aiuto - un termine usato in passato anche per definire il fascismo, ovvero “l’antirisorgimento”, che permetteva di contrapporre al fascismo le più importanti tradizioni nazionali. Ma un liberale radicale come Piero Gobetti riprese questo termine con una nuova interpretazione, collegandosi al concetto di “arretratezza”: l’Italia nata dal Risorgimento, dopo il 1870, era ancora caratterizzata da tratti estremamente negativi del passato - a causa della mancata rivoluzione liberale, della retorica anticheggiante, della demagogia e del suo “trasformismo”. Tutte queste caratteristiche furono particolarmente evidenti durante il periodo fascista. Rigettarle in toto per poi creare un rapporto amichevole con la parte non rivoluzionaria del movimento dei lavoratori, era il compito più importante per l’Italia del futuro. In realtà però, la maggior parte di questo movimento dei lavoratori era assolutamente rivoluzionaria e per alcuni anni il partito comunista, tra l’altro il più forte dell’Europa non sovietica, sembrò in grado di imporre il proprio, definitivo “superamento del passato”, ovvero “l’eliminazione delle forze anticomuniste”. Ma il nuovo sistema determinato dalla Democrazia Cristiana si dimostrò tanto forte da portare al fallimento questo approccio. Sulla scia della comune tradizione europea riuscì perfino ad integrare nel sistema i resti del nemico, come avvenne per esempio con il Movimento Sociale Italiano, che in seguito si modificò a tal punto da poter diventare parte della coalizione di governo con il nome di Alleanza Nazionale.
Nonostante qualche debole tentativo, nessun partito nazionalsocialista trasformatosi fu mai integrato nella scena politica tedesca e le prime prese di posizione sul recente passato espressero un’autoaccusa senza riserve, come quella formulata dal più famoso “nazional-bolscevico” del periodo di Weimar, Ernst Nieckisch, nel suo volumetto dal titolo: Il fallimento esistenziale tedesco. In esso l’autore giunge alla conclusione: «Il risultato di tutta la storia tedesca si dimostra un tragico nulla... e tutta l’esistenza che ha portato a questo, è stata un’esistenza fallimentare». Anche Alexander Abusch ha criticato il passato tedesco in termini molto drastici, individuando però comunque anche un elemento storico positivo, ovvero il movimento marxista dei lavoratori. Quando le ostilità tra le due maggiori potenze della coalizione vittoriosa, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, portarono alla divisione della Germania in due Stati, uno comunista e l’altro anticomunista, Abusch fu per un certo periodo Ministro della Cultura dello Stato comunista dell’est, la DDR. Autore di un’altra importante pubblicazione del 1946, Lo Stato delle SS, fu l’ex appartenente al corporativismo austriaco, Eugen Kogon. La sua dettagliata descrizione delle atrocità del sistema dei campi di stermino divenne un’interpretazione determinante per tutta la storia della Repubblica Federale, sebbene egli si riferisse principalmente al tentativo di attuare la
“soluzione finale della questione ebraica” e ad Auschwitz. Gli alleati attuarono il loro “superamento” del passato tedesco principalmente nel corso dei Processi di Norimberga e con le pene capitali comminate ai protagonisti sopravvissuti del regime nazionalsocialista.
Ma, come d’altronde anche in Italia, non fu possibile distruggere completamente un partito che aveva avuto alcuni milioni di iscritti, e così l’effettiva storia politica della Germania Federale si concretizzò nella tacita alleanza tra antifascisti non comunisti ed ex nazionalsocialisti moderati, e nella persona dei due cancellieri federali Kurt Kiesinger e Willy Brandt. Il risultato di questo superamento del passato, in un primo tempo affrontato esclusivamente dall’ovest e solo in seguito con grande cautela anche dall’est, che auspicava una equiparazione ed il partenariato, fu l’inaspettata riunificazione tedesca “occidentale” del 1989/90. Concludo con una considerazione sul presente. Tra i più fermi oppositori alla tranquilla e “borghese” riunificazione vi era la generazione degli studenti “sessantottini”, e tra loro l’ex “lanciatore di pietre” ed influente presidente del gruppo parlamentare dei Verdi nel Parlamento tedesco, Joschka Fischer. Nel suo “lungo percorso attraverso le istituzioni” - e non senza un effettivo mutamento intellettuale - egli ha affrontato il cammino più faticoso, fino a diventare poi Ministro degli Esteri nel governo socialdemocratico di Gerhard Schröder che nel 1998 ha soppiantato il governo di Helmut Kohl. Allo scopo di “elaborare” la storia del Ministero degli Esteri tra il 1933 ed il 1945, Fischer istituì una “Commissione indipendente di storici”, che nel 2010 - dunque molto tempo dopo l’abbandono della scena politica da parte di Fischer - e facendo riferimento a documenti ben noti, giunse alla conclusione che il Ministero degli Esteri del Terzo Reich era stato «un’organizzazione a delinquere». Questo superamento del passato datato 2010 ha così sorpassato di gran lunga quello attuato dagli Alleati nei primi anni del dopoguerra: essi si erano infatti astenuti dal dare una tale definizione del ministero in questione. Sarà interessante osservare quali sviluppi avrà questo recentissimo superamento del passato. Ritengo poco probabile che la conseguenza possa essere la rinascita del germanocentrismo negativo. Da molto tempo ormai esiste un diverso superamento del passato, vale a dire l’attacco del “mondo sottosviluppato”contro l’“occidente”, il cui atteggiamento sfruttatore e le cui rivendicazioni di superiorità, - delle quali le realtà fascista e nazionalsocialista sarebbero state solo u n a delle manifestazioni più estreme, - sono considerati i primi colpevoli della miseria e dell’arretratezza dei Paesi non occidentali. L’effetto più devastante sarebbe dunque non tanto la rinascita dell’ostilità verso la Germania, quanto l’anti-occidentalismo, che si rivolge anche contro Israele. Ben poche cose potrebbero essere più contrarie agli auspici ed agli obiettivi degli artefici tedeschi di quel superamento del passato. Ma un tale effetto non sarebbe altro che uno di quegli assurdi paradossi di cui il mondo, a tutt’oggi, può enumerare non pochi esempi.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t e
e di cronach
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“Alziamo le mani per fermare la violenza sui bambini”
LE VERITÀ NASCOSTE
La cronaca racconta solo una parte della drammatica realtà che coinvolge i bambini in Italia: da mesi, le pagine dei giornali e la televisione riportano quotidianamente casi di violenze e abusi che li riguardano. Una situazione di reale allarme, che rende necessaria una presa di coscienza collettiva: l’attenzione verso i più piccoli, cresciuta ultimamente sulla scorta dall’emozione che suscitano le storie di bambini e adolescenti vittime di violenza, da sola non può bastare e deve trasformarsi in intervento concreto. Bisogna sempre riportare l’infanzia al centro dell’attenzione di tutti. “Alziamo le mani per fermare la violenza sui bambini” è la campagna lanciata da Telefono Azzurro. Alla campagna è associato il numero 45504, attraverso il quale è possibile effettuare una donazione di 2 euro inviando un sms o chiamando da rete fissa. L’obiettivo è quello di rafforzare la linea 1.96.96 dedicata all’ascolto di bambini e adolescenti in difficoltà, l’unico servizio in Italia a cui i più piccoli possono accedere direttamente e gratuitamente.
Simona Saraceno e Martina Antinucci
DA FUKUSHIMA DURA LEZIONE PER I NUCLEARISTI La tragedia giapponese, con il disastro incombente nella centrale di Fukushima, è una dura lezione per i nuclearisti italiani, troppo sicuri nell’escludere disastri analoghi per un Paese ad alto rischio sismico come l’Italia. Quanto è accaduto spiega meglio di qualunque campagna propagandistica quanto rischiosa possa essere la scelta nucleare perché le centrali, per quanto ben fatte – e il Giappone non ha rivali al mondo nella protezione degli edifici dagli eventi tellurici – sono pur sempre fragili costruzioni di fronte alla spaventosa potenza di un terremoto di elevata magnitudo. Al di là delle considerazioni di carattere meramente economico, che pure da sole non sembrano sufficienti a giustificare un ritorno alla produzione di energia nucleare, il rischio per la collettività rimane intatto in tutta la sua spaventosa evidenza.
Marco Di Lello
CHI PENSA AI DISABILI? Da qualche giorno, nella città di Lecce, sono iniziati i lavori di rifacimento dei bagni pubblici presenti su viale Marconi. Nulla da eccepire sull’intervento in sé, che risultava necessario. Vorrei però segnalare l’assoluta noncuranza che s’è
avuta nel delimitare l’area del cantiere. Una qualunque persona, al più anche un disabile in carrozzina, può avvedersi dell’intralcio e senza troppa difficoltà utilizzare le strisce pedonali e il vicino scivolo della pista ciclabile per superare l’ostacolo. Diverso il discorso per i non vedenti. Nessuna segnalazione idonea per annunciare l’intralcio, ma soprattutto arrivati alle reti che chiudono l’area non c’è possibilità di svoltare a destra o a sinistra. Solo la presenza di qualche persona di buona volontà potrebbe aiutare il malcapitato in difficoltà. A me pare che nella delimitazione del cantiere non siano state rispettate le regole minime di sicurezza per la tutela dei disabili. Mi piacerebbe sapere il parere delle Asl.
Alessandro Gallucci
Vorrei segnalare ai lettori di liberal la notizia di un nuovo sportello linguistico rivolto agli immigrati, un servizio gratuito molto importante per superare il test di italiano e ottenere il permesso di soggiorno. Lo sportello è a cura del prof. Massimo Arcangeli, che tratterà del test e risponderà alle problematiche evidenziate dagli ascoltatori via mail all’indirizzo info@democrazialinguistica.it nel corso della rubrica “Democrazialingui-
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CANTON. Norman si è guadagnato notorietà internazionale imparando ad andare sul monopattino, da solo, a 20 mesi. Pensate sia precoce ma forse non sorprendente? Allora aggiungiamo un piccolo particolare: Norman è un cane. Norman aveva mostrato una certa attrazione verso il monopattino dei figli della sua padrona, Karen Cobb, e mostrava una certa invidia quando i ragazzi scorrazzavano per la via di fronte a casa, a Canton in Georgia. «Perché non provare ad insegnargli ad andare in monopattino?», ha pensato la signora Cobb. E così è stato: Karen ha “spiegato” a Norman come usare il monopattino e lui ha imparato con grande entusiasmo.Va detto che Norman, fin da quando era cucciolo, aveva dimostrato grande intelligenza, guadagnandosi quattro primi premi a vari concorsi di obbedienza e di abilità per cani. A Farmington (New Mexico), invece, i dottori e gli infermieri dell’ospedale locale sono rimasti un po’ perplessi quando si è presentato un paziente ferito al pronto soccorso. Nulla di strano che entri qualcuno ferito ad un arto e si metta pazientemente in attesa, ma il fatto è che in questo caso si trattava di un cane. Un pastore tedesco.
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Cani, “pazienti” e tricicli
Contaminazioni... floreali Questo curioso copricapo ha purtroppo ben poco di tradizionale. Il crescente afflusso di turisti nella valle dell’Omo (Etiopia), infatti, ha spinto la popolazione dei Surma - di cui fa parte il bambino che vedete - a inventare nuovi e vistosi stili di abbigliamento per farsi fotografare dai viaggiatori. Una tendenza che rischia di impoverire il folclore locale di questo popolo
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Lettera firmata
BANDA LARGA E DEFICIT ITALIANO Quando si costruisce una casa, per concedere l’abitabilità occorre che ci siano gli impianti elettrici, idrici e del gas a norma, altrimenti questi impianti non possono essere utilizzati e, di conseguenza, quella casa avrà un valore di mercato molto più basso e, praticamente (almeno ufficialmente...), quasi nessuno se la compra o la prende in affitto. Impianti che alcuni anni fa era normale non ci fossero. Le esigenze sono cambiate, la tecnologia ci aiuta a vivere meglio e le norme di sicurezza per luce, acqua e gas impongono certi standard al di sotto dei quali è impensabile fruire di questi servizi. Perché non dovrebbe essere altrettanto per gli impianti di banda larga che ci fanno accedere ad Internet? Non è oggi la Rete uno strumento di vitale importanza per comunicazione, lavoro, salute, etc? Non esistendo nessun obbligo dei gestori per portare il servizio di banda larga ovunque, questo servizio è a macchia di leopardo, con grossi buchi nelle zone meno popolate, nonché pesanti problemi di qualità e velocità. Situazione in cui tutti i gestori di telefonia sguazzano per guadagnare di più, fino ad arrivare a vere e proprie truffe e frodi contro gli utenti. Saprà il nostro governo non continuare ad essere prono a Telecom Italia e ad emanare un regolamento simile a quello approvato dal governo spagnolo?
Vincenzo Donvito
ULTIMAPAGINA
Quello che sta succedendo alla Borsa di Tokio mostra la faccia senza etica del mercato finanziario
Gli speculatori resistono allo di Gianfranco Polillo ual è il confine tra la speculazione e il semplice buon andamento del mercato? Il quesito fu posto all’Ocse da Giulio Tremonti, qualche tempo fa, mentre il susseguirsi delle “bolle speculative” – l’ultima quella sui prodotti alimentari – infiammava le rivolte popolari, con le conseguenze – specie nel Medio Oriente – che oggi conosciamo. Seguì un tomo ponderoso e una conclusione sorprendente: «È il mercato bellezza, perché la speculazione non esiste». Parole che oggi, guardando a quel che accade in Giappone, hanno il sapore di una bestemmia. Quella grande tragedia non solo non ha fermato gli hedge fund – soprattutto americani ed europei – o la ragnatela di grandi e medi operatori finanziari, ma ne ha alimentato le brame e le speranze. Lauti profitti immediati, man mano che le notizie si tingevano di una crescente disperazione. Si dice che ci sia un’etica negli affari. Se questo è vero, dobbiamo dire che non siamo riusciti a coglierla nei fatti più recenti. Nemmeno la morte, nella dimensione catastrofica alla quale abbiamo assistito con sgomento, è riuscita a fermare il cinismo del dare e dell’avere.
Q
Naturalmente la speculazione fa il suo il suo bieco lavoro. Ha puntato al ribasso, nella speranza di anticipare il decorso del disastro. Maggiore ne sarà la dimensione; più forti saranno gli utili di brevissimo periodo. Il crollo della borsa di Tokio – 10,6 per cento – ne è stata la conseguenza. Momenti di panico finanziario che si sommavano a quelli determinati dalla forza scatenata dagli eventi naturali. Una crisi nella crisi di cui, almeno oggi, è difficile valutare la portata relativa. Sta di fatto che nei momenti più drammatici di quelle giornate si era addirittura pensato a chiudere la borsa, per arrestare il diluvio delle vendite. Poi la ragione, per fortuna, ha avuto il sopravvento. Quali sarebbero state le conseguenze di quella decisione su un popolo già così colpito nei suoi sentimenti più profondi? «Pecunia non olet»: dice un vecchio detto. Ma nel caso in specie, questo non è vero. C’è il sangue di migliaia di uomini che fa la differenza. Speculare sul disastro è stato conveniente? Nel brevissimo periodo, almeno per alcuni, i profitti sono stati ingenti. Chi è entrato tardi nel grande business ha invece pagato pegno. Ieri, infatti, la borsa di Tokio ha chiuso con un rimbalzo, guadagnando il 5,68 per cento. Qualcuno, quindi, è rimasto con il cerino in mano. Le ragioni vanno ricercate, da un lato, nell’eccesso di cupidigia – troppe vendite a ribasso – dall’altro nella risposta più generale del mercato. Di quegli operatori, cioè, che hanno pensieri più lunghi e guar-
dano alle prospettive, piuttosto che farsi incantare dalle sirene del “tutto e subito”. Un mercato buono, quindi contro uno cattivo. Può sembrare una semplificazione eccessiva. Se invece fosse stato un criterio di condotta, negli anni passati, si sarebbe evitato il moral hazard e la crisi sistemica di tutto il sistema finanziario. A dimostrazione del fatto che, molto, spesso il diavolo fa le pentole ma non i coperchi.
Cosa sta succedendo infatti? Il punto di partenza dell’analisi resta la grande potenza economica del Giappone. Le risorse finanziarie del
Paese detenute all’estero, sotto forma d’investimento a breve e medio termine, ammontano, secondo calcoli ufficiosi, a qualcosa come tremila miliardi di dollari. Sono depositati presso le banche di mezzo mondo, sotto forma di titoli facilmente esigibili. Non si dimentichi che il Giappone, dopo la Cina, è il più forte acquirente di titoli di stato americani. Circa 900 miliardi di dollari sono posseduti da investitori, soprattutto privati. Parte di questo capitale sta rientrando in patria, per far fronte alle future esigenze del Paese. E la conseguenza è stata, sui mercati, il forte apprezzamento dello yen. Quei titoli, in altre parole, so-
TSUNAMI no stati parzialmente smobilizzati e il ricavato, in dollari o in euro, trasformati in yen. La domanda di valuta è quindi aumentata determinando il suo apprezzamento. Un evidente paradosso, se si considerano le stime sulle possibili conseguenze economiche del disastro: una caduta del Pil intorno al 5 per cento. Ci si doveva, pertanto, aspettare una svalutazione e non una rivalutazione dello yen. Chi non ha capito quanto può fare la spinta di chi non vive solo di speculazione, acquistando a temine, la moneta giapponese, nella speranza di un calo relativo, ci ha lasciato le penne.
Non bastano le regole a dare equilibrio (e rigore morale) a chi punta a guadagni immediati. In Giappone, per esempio, si lucra anche sugli investimenti che lo Stato dovrà fare per ricostruire
Basta questo per chiudere il cerchio? Ancora una considerazione. Nei mesi passati si speculava molto sulle materie prime e prodotti alimentari. I future erano in continua crescita. Una sorta di moltiplicazione del pane e dei pesci. Prima della relativa scadenza, quegli stessi premi – questa era la speranza – si potevano rivendere a un prezzo più alto. Altra delusione. Il cataclisma giapponese ha gelato il mercato. Petrolio, rame, zucchero, frumento hanno visto i loro prezzi crollare con cali che hanno sfiorato quasi l’8 per cento. L’oro stesso – il bene di rifugio per eccellenza – ha subito un ribasso. La spiegazione? Sempre di breve periodo. Il blocco di una parte rilevante dell’industria giapponese ha determinato un calo della domanda e questa si è ripercossa sui prezzi di vendita. Ancora il mercato buono contro quello cattivo? Forse no: semplice legge del contrappasso.