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he di cronac
Gli uomini sono sempre sinceri. Cambiano sincerità, ecco tutto Tristan Bernard
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 22 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
«I Tornado italiani non hanno sparato» dice uno dei nostri piloti. Lite Calderoli-La Russa sull’impegno in Libia
La guerra senza governo La maggioranza si spacca. Ma minaccia: «Guida Nato o niente basi» Frattini lancia un ultimatum all’asse Parigi-Londra. La Lega pone quattro condizioni per votare sì. Intanto Gheddafi bombarda Misurata e usa “scudi umani”. Gli Usa: «Alto il rischio del terrorismo» Sarebbe stato colpito da un pilota “ribelle” 1 2 Ora è decisivo chiarire le finalità della missione
Giallo sulla morte di un figlio del raìs
Un esecutivo diviso (e poco serio) mette a rischio il Paese
I ribelli denunciano: «Il raìs non ha mai smesso di bombardarci». E al Cairo un gruppo di libici aggredisce il segretario dell’Onu Ban Ki-moon Pierre Chiartano • pagina 6
LE ARMI, LA POLITICA
Parla il generale Vincenzo Camporini
Osvaldo Baldacci • pagina 3
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«L’Alleanza atlantica rischia di saltare»
Errico Novi • pagina 4
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Se l’America Conferma: il Pd non è in prima non può allearsi con Vendola fila,i bellicisti e Di Pietro si fanno pacifisti
«Gli Usa rischiano l’isolazionismo, mentre Francia e Gran Bretagna puntano al controllo del Mediterraneo: occorre evitare questa deriva» Luisa Arezzo • pagina 8
I consigli dell’ex ambasciatore americano all’Onu
«Caro Obama, esci dall’incertezza» «La mancata assunzione di un ruolo leader nelle operazioni è stato un errore strategico. Ora, più decisione e meno fiducia negli alleati»
Giancristiano Desiderio • pagina 4
Riccardo Paradisi • pagina 5
EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XVI •
Con Bossi e Berlusconi non contiamo più niente di Savino Pezzotta onfesso che quanto sta avvenendo in questi giorni è per me fonte di profondi turbamenti e di grandi interrogativi. È certamente casuale la concomitanza della rivolta in Libia e del terremoto in Giappone con il suo carico di preoccupazioni per le contaminazioni radioattive. Entrambi gli eventi, tuttavia, pongono interrogativi soprattutto sul valore della vita umana e su quanto siamo disposti a pagare per salvaguardarla. In relazione alla produzione di energia tramite le tecnologie nucleari è necessaria una pausa di riflessione che punti a ricercare tutti le garanzie per la sicurezza.
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John R. Bolton • pagina 9 NUMERO
55 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
a pagina 10 IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il fatto Il ministro della Difesa smentito da quello degli Esteri, entrambi attaccati da quello della Semplificazione: ieri Cdm animato
Le divisioni della guerra
La Lega scrive una mozione per «condizionare il sì alla missione». Frattini contro l’asse Londra-Parigi: «Senza Nato, ritiriamo le basi» di Marco Palombi
ROMA. Il problema è che il nostro ministro della Guerra (copyright Calderoli) ama aprire la bocca per dire cose marziali e ardimentose: dopo aver annunciato che la partecipazione italiana alla coalizione antiGheddafi è chissà perché «senza caveat», cioè non ha limiti d’ingaggio, ieri ha voluto far sapere una cosa sensata in modo pessimo: «Ho dato mandato di limitare le informazioni» ha scandito - sarà il capo di Stato maggiore Abrate a «decidere, ovviamente informandomi prima, le notizie che vanno date». Si aspetta di sapere se in carta velina oppure secondo l’uso odierno. Tra le notizie che Ignazio La Russa, però, si dovrà acconciare a non bloccare c’è il fatto che la Lega è abbastanza irritata dal suo protagonismo militaresco: prima Calderoli l’ha bacchettato a mezzo stampa e ieri Umberto Bossi e
gli altri gli hanno comunicato il loro dissenso viso a viso in Consiglio dei ministri, lui invece alla fine sosteneva di «non vedere particolari divisioni».
Ne l me rit o, comunque , niente di che: un’oretta di discussione a palazzo Chigi –
Ora il problema dei leghisti è solo quello di evitare l’arrivo di immigrati clandestini nel Nord del Paese preceduta da un incontro a quattr’occhi tra Silvio Berlusconi e Umberto Bossi attorno al tema «non possiamo dividerci, non potevamo agire diversamente» – per sancire che si va avanti così, sperando di strappare qualcosa agli altri
partecipanti a questa guerra, in particolare per alleviare le pene di Lampedusa. In realtà non si capisce bene quale sia la materia del contendere visto che il Carroccio si rifiuta di dire ufficialmente (e soprattutto nelle sedi deputate come un Cdm) quel che biascica a mezza bocca in privato: non bisognava attaccare la Libia perché adesso arriveranno un sacco di clandestini e magari pure qualche terrorista. Ognuno, d’altronde, ha il rapporto che crede con la storia. Il presidente del Consiglio, per dire, ha scelto di chiudersi in un pensoso silenzio, cosa che non faceva nei non lontani tempi dei baciamano, e intanto spera che la Nato assuma il comando dell’azione militare così almeno potremo nasconderci là dietro e si risolve pure il problema del protagonismo interessato di Nicolas Sarkozy (in
caso contrario, ha minacciato Franco Frattini, ci riprenderemo il controllo delle basi).
Oltre a sottolineare il problema degli immigrati, però, i leghisti a palazzo Chigi non è che abbiano fatto molto. Ad esempio, l’ha riferito lo stesso Calderoli, hanno continuato a sottolineare che la partecipazione dell’Italia ai raid è avvenuta al di fuori del mandato parlamentare: venerdì scorso le commissioni Esteri e Difesa avevano autorizzato solo l’utilizzo delle basi, dice il ministro. Forse, però, è informato male: la Lega venerdì, infatti, non s’è presentata in Parlamento (come pure i cosiddetti Responsabili, che però hanno dato la colpa a «problemi logistici») e nemmeno il presidente della commissione Esteri della Camera, Stefano Stefani, ha voluto fare eccezioni. Le Camere, in
realtà, avevano approvato una mozione che ricalcava la famosa risoluzione dell’Onu che prevede di difendere con ogni mezzo “necessario” i civili libici dalla guerra intestina scatenata da Muhammar Gheddafi. Però, visto che hanno fatto finta di nulla ieri mattina, i leghisti hanno deciso di spostare la loro guerriglia mediatica a domani, di nuovo in Parlamento. Tra 24 ore infatti il governo si presenterà a Montecitorio e a palazzo Madama per riferire sull’intervento militare contro Tripoli, ascoltare il dibattito delle Aule e alla fine, probabilmente, esprimersi sui testi di indirizzo proposti dai gruppi. È lì che la Lega – il cui elettorato, forse per antica abitudine, è decisamente non interventista – tenterà di mettere la sua bandierina sulla vicenda: presenteremo una risoluzione autonoma con «quattro proposte irrinunciabi-
la crisi libica
22 marzo 2011 • pagina 3
LA COALIZIONE
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Ora è decisivo chiarire le finalità della missione Fermare il massacro dei libici ma anche garantire la partecipazione di tutti alla transizione politica
opo tre giorni di bombardamenti sulla Libia che quasi hanno sorpreso l’Occidente, è giunto il momento di fare il punto della situazione e soprattutto chiarire le finalità della missione. A noi stessi e davanti all’opinione pubblica, perché onestamente quanto è accaduto finora ha destato delle comprensibili perplessità, probabilmente risolvibili. Il fatto è che si è parlato a lungo di no-fly zone, e poi ci si è ritrovati davanti a bombardamenti apparentemente più generalizzati. Il problema doveva essere Bengasi e invece abbiamo visto esplosioni un po’ ovunque, a partire da Tripoli. E di fronte all’unanime condanna di Gheddafi da parte della comunità internazionale la settimana scorsa, ora sono un pugno di nazioni a impegnarsi negli attacchi. Per fare chiarezza occorre ripartire dalla risoluzione dell’Onu. Un punto fermo che deve essere chiaro tanto a chi sta operando gli attacchi quanto a quelli come russi, cinesi, arabi, africani, che si dissociano.
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li», è ancora Calderoli a parlare, «se poi il Pdl convergerà lo vedremo». Questi i punti: «In primis va garantito il rispetto degli attuali accordi in essere con la Libia su gas e petrolio. Inoltre, lo sottolineo, è necessario l’assoluto rispetto della risoluzione Onu che qualcuno sta interpretando male. Io l’ho letta decine di volte e sono convinto che vada ben interpretata». I punti tre e quattro riguardano i migranti: «Ogni paese della coalizione deve prendersi carico di un numero di profughi proporzionale al numero dei propri abitanti e l’attuale blocco navale, oltre a finalità militari, deve filtrare l’arrivo di immigrati da quello dei profughi». Bizzarro che sulle stesse posizioni, tra le file del Pdl e relativo coro greco, si trovino anche antichi cantori delle avventure mesopotamiche di George Bush jr.
A sinistra pure, per quanto l’interesse della cosa sia residuale, è ripreso il solito balletto. Mentre il Partito democratico, impaurito da possibili accuse di anti-atlantismo e quant’altro, si limita all’ordinaria amministrazione di criticare il governo laddove può (soprattutto su gestione dei 15mila immigrati arrivati in questi mesi e rapporti con Gheddafi), Nichi Vendola dopo un iniziale tentennamento ha individuato uno spazio politico da sfruttare e ha pensato bene di mettere il cappello sul movimento pacifista che verrà, specialmente se l’intervento militare durerà ancora a lungo:
«La risoluzione Onu – ha sostenuto - poteva essere letta in molti modi. Si è scelta la strada più rischiosa riproducendo il ciclo paradossale di impedire il massacro di civili attraverso massacri di civili». Nessuno sa se ci sono stati massacri di civili dovuti agli attacchi occidentali, però Vendola ne è sicuro. L’attuale posizione del governatore della Puglia è l’ennesima variante su un tema musicale eterno («no alla guerra, no a Gheddafi»), ma con un
Vendola cerca visibilità e spazio politico contestando i raid. Senza proporre soluzioni alternative guizzo di poesia: bisognava trattare, bisognava fare come in Libano e mandare una forza di interposizione e il fatto che Gheddafi non l’avrebbe mai permesso non è affatto un problema, per lui. Antonio Di Pietro, invece, è davvero il Bossi del centrosinistra: in Parlamento, venerdì scorso, Italia dei Valori s’è astenuta, l’ex pm sbraita di “nuovo colonialismo”, di politica estera “improvvisata e supina”, di governo passato in due mesi “dai baciamano alle bombe”, ma non si capisce quale sia la sua posizione sulla guerra in Libia. È favorevole? È contrario? Probabilmente aspetterà di capire cosa gli dice il suo fiuto, essendo il naso il vero organo politico del padre padrone di Idv.
La risoluzione Onu invita i paesi membri a compiere ogni azione tranne l’occupazione per fermare la repressione di Gheddafi. E in questa sintesi ci sono già due concetti chiave. L’obiettivo è deve essere quello di fermare la carneficina, impedire che la repressione di Gheddafi si trasformi ulteriormente in massacro. Già adesso le cose non sembrano le migliori, non abbiamo motivo di diffidare degli 8000 morti annunciati dagli insorti, semmai appare una stima per difetto, cui aggiungere cosa potrebbe succedere con una battaglia casa per casa in una grande città come Bengasi, e quale sarebbe il prezzo della vendetta di un Gheddafi redivivo pronto a lasciare liberi i suoi mercenari. Quando parliamo di “pericolo profughi” proviamo a ricordarci anche a quali pericoli sono esposti quelli che stanno in Libia. L’Onu, poi, parla di ogni azione necessaria tranne l’occupazione militare. Il pensiero di tutti è alla no-fly zone: soprattutto, questo resta l’obiettivo principale. Ma non bisogna ignorare che per arrivare alla no-fly zone bisogna raggiungere la superiorità ae-
di Osvaldo Baldacci rea ed eliminare i rischi per i velivoli alleati: questo vuol dire colpire preventivamente la contraerea e gli impianti radar. È quanto sta avvenendo, ed è il motivo per cui si colpisce anche Tripoli e non solo la Cirenaica. Bisogna scardinare le catene di comando e comunicazione, e partono tutte dalla capitale.
A questo proposito bisogna anche dire che il quartier generale di Gheddafi diventa un obiettivo legittimo, come lui stesso, il Colonnello, dato che accentra in sé ogni potere, specie militare. È un passaggio su cui bisogna andare molto cauti, ma senza ipocrisie. Sta a Gheddafi fermare il tutto: basta che sospenda le sue attività militari, ma che lo faccia sul serio, con un ritorno verificabile dei suoi soldati nelle caserme. Le dichiarazioni di cessate-il-fuoco fin qui palesemente false sono solo propaganda che peggiora la situazione. La drammaticità assunta dagli eventi con bombardamenti sulle colonne di mezzi militari libici è dovuta proprio a questa azione militare incessante da parte del regime che si è spinto all’estremo per cercare di anticipare l’azione internazionale. Le cose sono andate troppo avanti, e pensare di imporre solo un astratto divieto di sorvolo quando ormai i mercenari di Gheddafi hanno conquistato o assediano molte città non avrebbe alcuna efficacia. Per
salvare la libertà e la vita degli insorti bisognava colpire anche l’esercito, facendogli perdere quella superiorità che aveva ovviamente già in partenza ma tanto più rafforzata dalle vittorie degli ultimi giorni. Colpire artiglieria e carri armati non è andare oltre il mandato Onu, ed è necessario per impedire stragi non solo tra gli insorti e soprattutto tra i civili, ma anche tra le stesse fila dei miliziani di Gheddafi, perché togliergli i mezzi blindati vuol dire renderli meno propensi a uno scontro.
Se ora però davvero il rais richiamasse i suoi pretoriani, allora la coalizione deve a sua volta sospendere gli attacchi e limitarsi a quel controllo militare passivo, mentre lo sforzo dovrebbe tornare ad essere concentrato sulla diplomazia, con un urgente tavolo di trattativa tra le forze in campo, per salvaguardare la Libia e tutti i suoi abitanti con i loro diritti. Una diplomazia che faccia nascere un dopo Gheddafi (lui ormai è impresentabile), magari garantendo al rais l’uscita di scena senza ulteriori vendette.
la crisi libica IL GOVERNO
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La maggioranza irresponsabile Da incoscienti dividersi di fronte a una crisi epocale come questa di Errico Novi
olti attori internazionali rilevano «l’eccessivo protagonismo» della Francia e del suo presidente nella crisi libica. Più modestamente in Italia facciamo i conti con le velleità da primattori di figure non sempre decisive. Finché si pronuncia un sottosegretario all’Interno come Mantovano, va bene. Anche perché Mantovano ha un tono garbato e una competenza fuori discussione. Diverso significato ha per esempio una minaccia come quella del deputato “responsabile” Maurizio Grassano, pronto a «votare contro» la partecipazione dell’Italia all’intervento in Libia. Si tratta di individualismi narcisistici e un po’ insensati. Che però si inseriscono in una cornice già ben definita dal dissenso leghista. Ne viene fuori un quadro confuso, dilettantesco e poco rassicurante per la credibilità del Paese. Perché di fronte a un evento così drammatico e determinante per gli equilibri geopolitici, ci sarebbe bisogno di una maggioranza coesa. Soprattutto capace di parlare con una voce sola. E non di un coro stonato. Non certo di voci «diversamente argomentanti», secondo l’incredibile neologismo del leader dei“responsabili”Saverio Romano.
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Tale spirito di responsabilità continua a latitare. Si vedrà in concreto se davvero, in aula, il Carroccio replicherà i distinguo già espressi nelle commissioni. Ma già ora si può dire che il governo e la sua coalizione stanno offrendo una prova molto deludente. Soprattutto, danno l’impressione complessiva di sottovalutare la portata di quanto accade. Proprio questa dissociazione dalla realtà compromette, più di tutto, l’immagine dell’Italia. La confusione della maggioranza rischia di pesare persino più della nostra pregressa amicizia con Gheddafi. Ci rende afasici, indecisi. Azzoppa un’Italia che non declina verso il dichiarato dissenso della Germania ma nemmeno partecipa convintamente all’azione multilaterale.
Tutto questo non è accettabile. Hanno ragione le opposizioni a lamentarsi. Da Bersani, quando sostiene che tali oscillazioni «indeboliscono» l’Italia, a Casini quando obietta che il governo non può pretendere un’opposizione responsabile e mostrarsi diviso al proprio interno. Certe contorsioni sono incomprensibili. A maggior ragione dal punto di vista dell’opinione pubblica internazionale. E diventano addirittura patetiche quando tracimano negli sberleffi pacchiani rivolti a Sarkozy da Calderoli, che in un’intervista a Repubblica dà del «galletto» al presidente francese. Alla Lega piace il recinto rassicurante della piccola patria. Quindi la proiezione sul grande scacchiere delle relazioni internazionali le provoca una vertigine, e un’insofferenza, insostenibili. Ma proprio qui emerge l’inadeguatezza di una coalizione di governo in cui l’anomalia leghista è parte decisiva. Può esser forte, ascoltato, un esecutivo che si regge su un alleato come il Carroccio? Di fronte all’atteggiamento dei lumbàrd in questa difficile prova, l’interrogativo non è retorico. Dall’altra parte nel governo si distingue un La Russa apparso, nelle prime fasi dell’operazione, fin troppo entusiasta. È un eccesso anche quello. Adesso il ministro della Difesa sembra tornato a toni più misurati, e oltretutto coerenti con le retrostanti contraddizioni politiche. Proprio La Russa ieri ha parlato in conferenza stampa con il leghista Maroni, e ha ricordato che non aderire all’intervento comprometterebbe anche le richieste italiane di una gestione internazionale dei flussi migratori. Ci sarebbe da augurarsi che la Lega sappia cogliere almeno sotto questa luce la delicatezza della situazione. Ma le nuove dichiarazioni di Stefano Stefani, esponente del Carroccio e presidente della commissione Esteri, secondo cui questa è una «guerra da matti», non autorizzano grandi speranze.
LA DESTRA
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Senza gli Usa in prima fila, i bellicisti si fanno pacifisti Il curioso caso di Ferrara, Feltri e Sgarbi: un tempo “interventisti” (ma solo dietro a Bush), oggi isolazionisti
a differenza la fanno gli Stati Uniti d’America. Se la cara vecchia America avesse condotto in prima persona le operazioni belliche contro Gheddafi e avesse giustificato l’intervento militare in nome della libertà e della democrazia Vittorio Feltri, Giuliano Ferrara e Vittorio Sgarbi per fare i nomi più rappresentativi del no alla guerra alla Libia ora e in questo modo - non avrebbero avuto nulla da ridire.
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Anzi, per dirla proprio tutta, dal momento che la presenza militare, politica e ideologica degli americani avrebbe subito scatenato la speculare posizione antiamericana della sinistra, degli antagonisti e insomma, ci siamo capiti, di tutto quel mondo occidentale ma anticapitalista e antioccidentale, Vittorio Feltri, Giuliano Ferrara e Vittorio Sgarbi avrebbero difeso a spada tratta e con gusto la posi-
di Giancristiano Desiderio zione bellicista americana. Ma siccome l’ideologia americana non c’è, ecco che i bellicisti sono diventati imbelli se non addirittura pacifisti. Con l’America siamo andati in giro per il mondo: dai Balcani, all’Iraq all’Afganistan per richiamarci a tre casi più recenti e significativi. Quando l’America ci copre le spalle ci sentiamo più sicuri. È così e nasconderlo non è proprio possibile. Ma possiamo pensare di muoverci per tutelare i nostri interessi e per cacciare un dittatore sanguinario che non accetta la fine della sua ora - come è evidente nel caso del colonnello libico soltanto se gli Stati Uniti d’America ci danno il permesso?
Questa guerra cade un secolo esatto dopo la guerra libica fatta dal governo Giolitti - e Giolitti non era di certo un guerrafondaio - contro i turchi in pieno Mediterraneo. Può darsi
che non sia una bella guerra, ove mai ci fosse una guerra bella, e può darsi che non sia chiarissimo l’orizzonte.
Ma una cosa è senz’altro sicura: non si può immaginare oggi un conflitto libico in cui l’Italia sia bellamente affacciata alla finestra. L’Italia, dietro mandato dell’Onu, e sia pure dietro la Francia, è al posto che le hanno assegnato la storia e la geografia. Ci sono cose che si scelgono e ci sono altre che bisogna saper accettare ossia che la necessità ci insegna a saper scegliere volenti o nolenti. Esiste una prova provata di quanto veniamo dicendo. Ed è proprio la posizione di Giuliano Ferrara che critica “Obama l’umanitario”. Dice in sostanza il giornalista di RadioLondra che ciò che è sbagliato nell’intervento in Libia sono i tempi e i modi: bisognava agire prima e senza alcuna “maschera ideolo-
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LA SINISTRA
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Conferma: il Pd sbaglia alleanze
Con Vendola in coalizione anche Bersani avrebbe un’opposizione interna di Riccardo Paradisi
uando il segretario del Pd Pierluigi Bersani, con qualche buona ragione, sostiene l’inopportunità e l’inammissibilità d’una divisione in seno alla maggioranza sull’intervento militare in Libia dà l’impressione di essere vittima d’un combinato disposto di proiezione e rimozione, due meccanismi che insieme concorrono al destino ondivago della sinistra italiana. Guardare criticamente al campo avversario per non dover fare i conti con le gravi contraddizioni del proprio è infatti un modo per nascondere e al tempo stesso rivelare il senso di identificazione e rispecchiamento in quello che sta avvenendo nel governo di centrodestra.
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gica”. La posizione di Ferrara, insomma, è nostalgicamente americana: ci fosse stato Bush al posto di Barack Obama il problema africano e arabo di Gheddafi che spara sui suoi connazionali sarebbe già stato risolto con un intervento tempestivo e in ragione della difesa dei diritti della libertà democratica occidentale. Geddafi avrebbe fatto la fine di bin Laden che da dieci anni è in una caverna e chissà quando ne uscirà e se ne uscirà.
La posizione di Vittorio Feltri, invece, è un po’ diversa. In assenza dell’America - e quindi di un’Antiamerica attiva - il direttore di Libero ritiene che la causa della libertà altrui legata a interessi nostri non è una buona causa per “menare
le mani” e bisogna starsene buoni buoni a casa propria. Punto e basta. Questa è la posizione di Feltri che è di puro isolazionismo. Quasi filo-leghismo. E, questa di Feltri, una logica uguale e contraria rispetto a quella dell’intervento prima in Iraq e poi in Afganistan.
Perché Feltri si è calato l’elmetto in testa e ha fatto la guerra in Iraq a modo suo ossia scrivendo pagine e pagine di giornali per spiegare agli italiani e al suo “pubblico” la giusta causa di quella guerra fatta per la libertà e contro Saddam? Perché c’erano gli ameri-
cani. Oggi che gli americani non ci sono o non comandano al resto del mondo la missione da fare, Feltri si ritira in buon ordine nella sua Bergamo alta e spiega e illustra le ragioni dell’interesse della pace. Ciò che manca tanto a Ferrara quanto a Feltri - tralasciamo volutamente la posizione di Vittorio Sgarbi che non aggiungerebbe nulla di nuovo al discorso se non la paura di fare gli americani senza gli americani - è l’idea che la vecchia Europa possa combinare qualcosa di buono in una zona del mondo, il bacino mediterraneo, in cui tutto sommato soprattutto l’Italia non può far finta di non esserci.
Il punto critico di tutta la vicenda è proprio questo: l’Italia non può concedersi il lusso di isolare se stessa dal mare e dalle terre che il destino le ha dato in sorte di abitare. Nel Mediterraneo l’Italia deve imparare a nuotare anche senza gli americani, le piaccia o no. L’intervento non è stato tempestivo e non è neanche ideologicamente neutrale - ammesso e non concesso che esista qualcosa del genere al mondo - ma si prenda atto che per una volta l’Europa non è stata a fare la bella statuina.
L’opposizione decisa e frontale – legittima naturalmente – della sinistra radicale di Nichi Vendola e della galassia ecologista al coinvolgimento bellico dell’Italia nella crisi libica dovrebbe infatti far riflettere più autocriticamente il segretario del Partito democratico sui possibili scenari del proprio avvenire. Come è noto all’annuncio del coinvolgimento di otto tornado della nostra aeronautica nella guerra libica Vendola ha sciolto ogni riserva sul suo pacifismo: «Se fossi in Parlamento – ha detto il leader di Sel – voterei no ai bombardamenti su Tripoli». Una dichiarazione che mette il Pd di fronte a quello che potrebbe essere lo scenario d’una coalizione di governo che avesse il suo baricentro a sinistra, che avrebbe cioè organicamente aggregato alla maggioranza la decisiva variabile vendoliana. Un’obiezione peregrina? No una riflessione da cui il Pd non può sottrarsi adducendo i soliti argomenti. Rispondendo per esempio che Vendola non è un esponente del partito o che oggi, di fronte alla crisi e alla guerra nel mediterraneo, il punto in discussione non sono le alleanze dei democrat. Nel primo caso perché sono stati autorevoli esponenti del Pd a immaginare un coinvolgimento
di Vendola nel partito nel secondo perché il maggiore partito d’opposizione che si candida ad essere alternativo all’attuale governo non può permettersi d’eludere un problema a cui ha il dovere di rispondere se vuole essere credibile. E su questo punto particolare, cogente e dirimente, il Pd non ha ancora dato una risposta che sia univoca. Dibattendosi ancora tra la vocazione maggioritaria e la geometria delle alleanze e in seno a questa seconda opzione nell’amletismo tra la scelta per l’alleato di centro o il richiamo dell’intesa col massimalismo goscista, nel timore atavico di non essere scavalcati a sinistra. Risolvendosi solo episodicamente da questa impasse con salomoniche e pilatesche soluzioni d’alleanza a trecentosessanta gradi in vista d’un governo d’emergenza nazionale da Fini a Vendola passando per Antonio Di Pietro. Oppure uscendosene con deliri d’autosufficienza secondo cui il Pd – un partito a permanente rischio scissionista e dilaniato dalla competizione interna sulla leadership – sarebbe da solo centro aggregatore di alleati magnetizzati da una proposta politica così forte da non poter essere rifiutata. Dispiace ricordarlo ma a Bersani è capitato di dire anche questo.
Ma anche Bersani sa bene che un progetto forte dipende anche dagli interlocutori che si scelgono e dalle scelte di cultura politica che si vogliono fare. Un partito fermo nel guado dell’indecisione è invece solo destinato – se per avventura dovesse di nuovo trovarsi a capo d’una coalizione di governo allargata alla sinistra radicale – nei paradossi in cui incorsero i governi Prodi. Con la sinistra radicale in piazza a contestare l’interventismo internazionale dell’Italia e a minacciare un giorno si e l’altro pure di togliere sostegno al governo. Un panorama non molto diverso da quello attuale insomma e da ogni scenario politico istituzionale condizionato da questo bipolarismo.
Lo scontro tra diplomazie
Il con flitto sarà lu ngo (per non spa ccar e i n due l a Lib ia)
di Mario Arpino
on cambieremo mai, siamo incorreggibili: siamo entrati o no «guerra»? La risposta è semplice: si continua ad applicare il codice militare penale di pace, i buoni francescani di Assisi non devono mettersi in marcia contro la guerra assieme ai centri sociali e si può persino lasciare nel cassetto la convenzione di Ginevra per i prigionieri. Ma è anche più complicato, perché, in caso di incidente, continueremo con l’intervento di due magistrature. Dopo il vertice-trappola di Parigi il presidente Sarkozy – stranamente più insofferente degli altri ai maltrattamenti del Colonnello verso il popolo di Cirenaica – ha messo tutti di fronte al fatto compiuto, facendo sì che l’Armée de l’Aire arrivasse per prima. Noi pure, da domenica, «facciamo la nostra parte» anche con il velivoli da difesa e da attacco, con buona pace di coloro che si dicono convinti che i cacciabombardieri non servano. Salvo chiamare in soccorso quelli america-
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ni, come avviene regolarmente in Afghanistan. Quanto durerà la grande giostra non è prevedibile. La Libia è grande e non può certo essere occupata come il Kosovo, anche perché, per fortuna, la risoluzione 1973 lo esclude. Altrimenti a qualcuno sarebbe potuta venire l’idea. C’è, però, qualcosa che non quadra. Primo, questo grande fer-
Diventa fondamentale, ora, il ruolo politico che giocherà la Lega Araba vore umanitario da parte dei paesi della Lega Araba, che in altre occasioni non hanno mai pronunciato parola, è altamente sospetto. Non è che la decisa avversione del Colonnello per gli estremisti islamici – le cui stragi la Lega Araba non ha mai condannato – gli sta ora giocando contro? Secondo, non si pensa per caso di dividere la ricca Cirenaica dalla più modesta Tripolitania, magari con una bella inter-
posizione di truppe arabe dopo il cessate il fuoco? Sarebbe una delle solite infauste partizioni già sperimentate dall’Onu (Corea, Bosnia, Libano, Kosovo, etc.) che, alla fine, altro non fanno che perpetuare le situazioni di crisi. Terzo, chi può avere interesse a sostituirsi all’Italia nel business energetico in Cirenaica? È alquanto improbabile che siano i paesi arabi della Lega. La quale, per inciso, sta già prendendo le distanze, sostenendo che era in favore della no-fly zone, ma non dei bombardamenti. C’era da aspettarselo. Ma i piloti in azione non devono pensare a nulla di tutto questo, anche se, come noi, qualche considerazione la staranno pur facendo. Loro devono solo concentrarsi per svolgere bene la propria missione, come fanno e continueranno sempre a fare, certi del nostro sostegno e della nostra ammirazione. Ogni altra cosa appartiene alla politica: se ha ponderato bene sul “prima”, certamente non mancherà di riflettere anche sul “dopo”.
I ribelli annunciano che il raìs avrebbe dislocato civili nei luoghi d’interesse militare con la «speranza» di provocare una strage
Gli scudi umani di Gheddafi
Il Colonnello bombarda Misurata. Giallo sulla morte del figlio Khamis di Pierre Chiartano
ROMA. Odissey Dawn, terzo giorno. Colpito il bunker di Gheddafi che ha deciso di usare degli scudi umani per difendersi. Ed è giallo sulla morte del figlio del colonnello, Khamis. Mentre i ribelli «avrebbero riconquistato Misurata». Le forze aeree della coalizione hanno picchiato duro in Libia, l’Odissea per Muammar Gheddafi è appena cominciata che la diplomazia ha già cominciato a frenare. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu si è riunito ieri in serata a porte chiuse, per discutere dell’intervento armato in Libia. La riunione è stata reclamata dalla Cina, che ha la presidenza questo mese, sulla base di una lettera della Libia e una richiesta della Russia. Quando dalla politica parlata si passa ai fatti, la musica cambia. E la “guerra” libica sta mettendo allo scoperto tutte le fragilità europee. Lo spartito dell’intervento sembra già scritto e non c’è più tempo di certi “riguardi diplomatici”. Emergency ha ragione quando afferma che «nessuna guerra è umanitaria», ma ci accontenteremmo fosse utile: se venisse individuato un obiettivo preciso. E gli inglesi, col solito pragmatismo ci aiutano a capire. «Abbiamo impedito una carneficina a Bengasi appena in tempo». Il primo ministro britannico, David Cameron, ha difeso davanti alla Camera dei Comuni la scelta di intervenire militarmente in Libia. Il primo ministro ha aperto il suo intervento dichiarando che le forze britanniche impegnate nei raid hanno «largamente neutraliz-
«Siamo libici, aiutateci!»: rivolgendo questa preghiera, 124 immigrati sono sbarcati ieri mattina sulle coste catanesi nella speranza che venisse riconosciuto loro il diritto d’asilo politico. Il guaio è che i clandestini non sono libici ma egiziani, come le autorità hanno verificato dopo poco
zato» le difese aeree del regime. E il risultato è ora una no-fly zone in atto. «Credo che la Libia debba sbarazzarsi di Gheddafi, ma spetta ai libici farlo» ha dichiarato il premiere britannico. «Gheddafi ha risposto alla risoluzione dichiarando il cessate il fuoco. Ma presto si è visto che non lo stava applicando, visto che i carri armati si muovevano verso Bengasi» ha aggiunto, sottolineando che il colonnello «ha mentito» alla comunità internazionale. Un tema, quello della menzogna, che tende a scuotere un pubblico calvinista. Il presidente Usa, Barack Obama, domenica aveva messo fuori gioco la Nato, chiarendo quando sia fragile anche in quel contesto la possibilità del vecchio Continente di contare. E
come la volontà e gli interessi nazionali stiano riemergendo: in particolare quelli di Parigi e Londra. Ma non sono i soli. Vedremo gli sviluppi. Nicolas Sarkozy si era quasi buttato da solo sul cornicione di un Mediterraneo in fiamme, accogliendo all’Eliseo i rappresentanti del governo ribelle di Bengasi con un certo anticipo su tutti. Poi la controffensiva di Gheddafi aveva fatto venire i sudori freddi a molti. Washington – con l’occhio fisso al Bahrein – si era sentita quasi tirata per la manica. E la risoluzione 1973 dell’Onu era arrivata appena in tempo. Le preoccupazioni della Lega araba per un’interpretazione un po’ troppo estesa del mandato Onu non ha fatto che alimentare ulteriori divisioni in
seno all’Europa. Anche se ieri in giornata il segretario generale, Amr Moussa ha fatto una mezza marcia indietro: «Siamo impegnati a rispettare la risoluzione 1973 del consiglio di Sicurezza dell’Onu e non abbiamo alcuna obiezione verso questa decisione, soprattutto dato che non chiede alcuna invasione del territorio libico», ha spiegato Moussa, il quale aveva affermato domenica che le operazioni in Libia differivano dalla creazione di una zona di interdizione al volo. Ieri all’Onu, Putin ha fatto il suo spettacolo.
Mentre a Misurata le forze lealiste avrebbero sparato sulla folla, sul terreno centinaia di ribelli si sono radunati ieri mattina ad alcuni chilometri da Aj-
dabiya, dove mancano acqua e sono saltate le linee di comunicazione. I ribelli sono armati di batterie antiaeree e di alcuni razzi katiusha, ma non sanno quale strategia adottare, per il timore di colpire i civili. D’latra parte lo stesso Gheddafi starebbe usando i civili come scudi umani proprio nei villaggi intorno a Misurata. I ribelli, comunque, ringraziano le forze straniere per i raid aerei ma avvertono: «Non vogliamo che truppe di terra straniere intervengano nel conflitto». Affermazione che fa tirare un sospiro di sollievo a molti, anche perché, al Cairo, Ban ki-Moon si è beccato i fischi di un gruppo di gheddafiani. I Tornado italiani specializzati nell’individuazione e distruzione dei cen-
la crisi libica
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Parla uno dei piloti dei Tornado «Da noi nessun missile»
Il re del Bahrein accusa l’Iran
ROMA. S’infiammano le polemiche sulla partecipazione dei militari italiani alla missione in Libia: da un lato il ministro della difesa La Russa ribadisce che gli italiani sono impegnati nelle operazioni di guerra a tutti gli effetti; dall’altra il ministro degli esteri ribadisce che il «governo è contro la guerra» e «si limita a rispettare la risoluzione Onu. In quest’ambito si inserisce la dichiarazione di Nicola Scolari, uno dei piloti dei tre Tornado italiani impegnati nella missione di domenica notte: «Nella missione condotta in Libia abbiamo solo pattugliato la zona nei pressi di Bengasi ma non abbiamo ritenuto di lanciare i missili contro i radar». «Nella nostra missione - ha aggiunto Scolari - abbiamo verificato sulla Libia se vi fosse la presenza di radar accesi e qualora ne avessimo avuto conferma li avremmo di-
MANAMA. Dopo la repressione
tri radar hanno sparato i loro missili tipo Amraam per accecare gli occhi della difesa aerea del colonnello. L’Italia naturalmente spinge verso la Nato. «Le operazioni dovranno essere sotto comando e controllo Nato, altrimenti l’Italia potrebbe riservarsi l’uso delle proprie basi solo per operazioni a comando condiviso», ha dichiarato il ministro degli Esteri, Franco Frattini, al suo arrivo a Bruxelles per la riunione con i colleghi dei 27. Ma i giochi in Libia sembrano fatti. Il tubo del gas c’è e sbocca in Sicilia. Sul petrolio del dopo-Gheddafi le nostre rivendicazioni saranno più deboli. Pagheremo tutto più caro. Anche da altri Paesi europei arrivano critiche alla scelta, di Barack Obama, di tenere fuori la Nato dal comando delle operazioni in Libia.
L’altro fronte aperto riguarda i termini dell’applicazione della risoluzione 1973, dopo le critiche della Lega araba sui raid aerei. La richiesta italiana di un «stretta messa in pratica della risoluzione dell’Onu», andrebbe bene all’udienza di un processo, non certo nell’ambito di un’operazione tardiva, impegnativa e dagli esiti incerti. Adesso si deve picchiare duro. Per il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, le critiche della Lega araba dimostrano che la Germania aveva «buone ragioni» per temere questa offensiva. Ancora una dimostrazione che l’Unione “economica”non produce ancora un interesse comune in politica estera. È giallo invece sulla sorte di Khamis Gheddafi, sesto figlio del leader libico, quello che da anni si occupa del reclutamento dei mercenari. Sarebbe morto per le ferite riportate in uno scontro avvenuto alcuni giorni fa con un pilota dell’aviazione libica passato all’opposizione. Il soldato avrebbe aperto il fuoco contro il figlio del colonnello vicino alla caserma di Bab al-Aziziya, nel centro di Tripoli. La notizia è stata riportata oggi dal sito dell’opposizione libica al-Manara.
strutti». «Il nostro gruppo - ha raccontato Scolari - è di base a San Damiano a Piacenza. I nostri sei Tornado sono schierati a Birgi da alcuni giorni. Siamo specializzati nella soppressione delle difese aeree nemiche, attraverso dei missili che eventualmente dirigiamo sui radar: siamo in grado di neutralizzare queste minacce, anche se mobili. In questo modo ha concluso - i bombardieri sono liberi di entrare in zone di guerra».
delle proteste, il re del Bahrein, Hamad, bin Isa Al Khalifa, ha annunciato che «è stato sventato un complotto straniero contro il piccolo Paese del Golfo» con una chiara allusione all’Iran che avrebbe fomentato la maggioranza sciita del piccolo paese contro il sovrano sunnita. Il reha anche ringraziato le truppe dei Paesi confinanti giunte per contribuire a riportare l’ordine pubblico dopo le proteste di piazza e gli scontri delle ultime settimana. Il sovrano ha sottolineato che se il complotto fosse riuscito nel suo Paese, avrebbe potuto presto estendersi agli altri Paesi del Golfo. Domenica, dopo gli ennesimi scontri, il Bahrein aveva espulso dopo l’ambasciatore anche l’incaricato d’affari iraniano.
DIARIO DELLE OPERAZIONI
Continuano gli attacchi chirurgici su Tripoli. Ma il problema adesso è la Cirenaica
Anche la Norvegia diventa operativa di Antonio Picasso
In visita al Cairo, il segretario dell’Onu Ban Ki-moon è stato aggredito da un gruppo di libici
Il alto, il sesto figlio di Gheddafi, Khamis. Il segretario dell’Onu Ban Ki-moon. Nella pagina a fianco, i clandestini sbarcati ieri
eri, con il ricorso alla popolazione civile, perché faccia da scudo umano contro i bombardamenti, si è chiuso il primo cerchio fenomenologico della crisi libica. La scelta di Gheddafi rappresenta la più immediata reazione all’azione militare iniziata sabato. Molti di questi fedelissimi al regime, si sono dichiarati volontari, nell’offrirsi in difesa del Colonnello. Tuttavia, non tornano i conti. Nel mentre che la popolazione di Misurata dichiarava di volersi immolare sull’altare del raiss, pare che i fedelissimi di quest’ultimo le sparassero addosso. Bilancio: undici morti. Non per i bombardamenti, ma su ordine di Gheddafi. Nel frattempo, non sono mancate le notizie eclatanti ma non confermate. Da segnalare quella sull’uccisione di Khamis Gheddafi, sesto e ultimo figlio del Colonnello. Secondo il comitato di Bengasi - evanescente governo ad interim - l’ufficiale di 29 anni e comandante della 32esima brigata, l’unità di élite che ha lanciato l’offensiva contro i ribelli, sarebbe morto sabato scorso, in un scontro diretto con un pilota dell’Aeronautica che cercava di disertare.Tripoli ha subito smentito la questione. Il caso ricorda la morte della figlia adottiva del Colonnello, vittima del bombardamento Usa nel 1986. Gli attacchi chirurgici, portati avanti unicamente per via aerea, hanno provocato la distruzione di alcuni edifici governativi di Tripoli. Tra questi anche un bunker nei pressi della residenza di Gheddafi. Tripoli, a questo proposito ha parlato di 70 vittime degli attacchi aerei. Scudi umani colpiti? Secondo Parigi però, i raid non avrebbero provocato morti in seno alla popolazione. La cronaca del terzo giorno di Odissey Dawn vede impegnati anche i nostri Tornado, un paio di F-16 e un elicottero. Questi vanno ad aggiungersi ai contributi di Spagna e Norvegia. New entry di ieri nell’operazione. Gli aerei italiani, però, sono stati impegnati come per la mappatura del territorio. Il loro compito è rilevare
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l’apparato tecnologico ancora a disposizione delle truppe di Gheddafi. La relativa distruzione spetta alle altre forze della coalizione. In realtà anche Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno specificato che il loro compito è di abbattere le risorse militari nelle mani del raiss, evitando di eliminare quest’ultimo. Nel pomeriggio di ieri, il Capo di Stato Maggiore britannico, il generale sir David Richards, si è visto costretto a intervenire in merito alle supposizioni per cui ai Sas, le forze speciali di Londra, fosse stato dato l’ordine di uccidere Gheddafi. «Questo non rientra nell’incarico affidato dall’Onu», ha detto il comandante. Gli ha fatto eco il contrammiraglio Usa, William Gortney. «La No fly zone è di fatto realizzata», ha dichiarato.
In termini ancora più generali, la war room di Barack Obama ha precisato che in Libia le operazioni dovrebbero limitarsi ad azioni aeree e navali, senza un successivo intervento di terra. In tempi brevi, inoltre, è previsto il passaggio del comando. Parigi e Londra stanno facendo a gara per acquisirlo indipendentemente dal vincolo della Nato. Con la prima apparentemente in vantaggio. Il ministro La Russa, tuttavia, preme affinché il contenzioso venga risolto in seno all’Alleanza atlantica. «O il comando va alla Nato, oppure l’Italia riprende il controllo delle sue basi», ha ammonito Frattini a margine del vertice straordinario di Bruxelles. Per questo, il governo di Oslo nel tardo pomeriggio ha sospeso il proprio contributo. Il capitolo resta aperto. Nessuno vuole passare da azionista di minoranza. La gestione politica delle operazioni prevede infine l’avvio di una missione umanitaria, sotto l’egida dell’Onu e organizzata dall’Unione europea. Bruxelles ha espresso la sua disponibilità a sostenere l’iniziativa anche con un ulteriore contributo militare. Lo scenario è quello di una Libia simile al Kosovo dopo la guerra del 1999.
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la crisi libica
«Ecco chi vincerà l’Od «Gli Usa rischiano di tornare all’isolazionismo. Parigi e Londra vogliono il Mediterraneo. Il pericolo è che la Nato salti: occorre evitare questa deriva» Vincenzo Camporini, ex capo di Stato Maggiore della Difesa
di Luisa Arezzo
I l ministro degli Esteri Franco Frattini
Dall’alto, Mike Mullen, capo delle forze Usa impegnate in Libia, Alain Juppé e Liam Fox, i ministri della Difesa di Francia e Gran Bretagna.
lancia un chiaro avvertimento ai partner della coalizione internazionale che sta attuando su mandato Onu la No-fly zone sulla Libia: «È la Nato che deve prendere il comando: per condividere responsabilità gravi e metterle in comune, ognuno deve sapere ciò che fanno gli altri. La Nato ha l’esperienza e la responsabilità, e quello dell’Europa e del Mediterraneo è il suo teatro “classico”». Altri però, Francia e Gran Bretagna in primis (e senza dimenticare le incertezze di Obama) non la pensano così. Risultato, non si capisce quale sarà la linea di comando di “Odissea all’alba”. Cerchiamo allora di fare chiarezza assieme al generale Vincenzo Camporini, già capo di Stato Maggiore della difesa e consigliere militare del nostro ministro degli Esteri. Generale, continua il pressing dell’Italia e di una parte della Ue affinché la Nato assuma il comando dell’operazione, ma le cose non sembrano andare nel verso sperato... Per gestire questa missione bisogna definire una catena di comando e controllo che in qualche modo razionalizzi l’impiego delle risorse militari, cosa che finora non è accaduta, perché alcune operazioni sono state condotte sotto linee di comando puramente nazionali. Questo non è più possibile e bisogna in qualche modo ridurre ad uno questo sforzo multiplo, anche per una questione di razionalità. La posizione italiana è molto chiara e chiede l’utilizzo della Nato per la gestione della crisi. Una posizione non condivisa da altri Paesi che preferiscono diverse soluzioni. Eppure, come ha detto il ministro Frattini, sotto il profilo tecnico è la Nato ad avere tutte le strutture ben collaudate in grado di gestire operazioni militari. Davvero non si capisce perché bisognerebbe reinventare qualcosa di nuovo. Il presidente Usa ha però escluso la possibilità che la Nato si faccia carico dell’intervento. Io guardo con grande preoccupazione alla posizione americana. Mi sembra infatti che, sull’onda di altri impegni militari gravosi (vedi l’Afghanistan) e di un’opinione pubblica poco propensa ad aprire nuovi fronti di guerra, stia tornando a una politica di tipo isolazionista. La Francia invece non si pronuncia sull’argomento, ovviamente perché
cerca di assumere la gestione dell’operazione, mentre la Gran Bretagna resta ambigua: apre alla Nato ma poi nicchia... La Francia, dopo un primo periodo offuscato e limitato a iniziative di carattere declamatorio, guarda invece al Mediterraneo con grandissimo interesse. Perché vuole riaffermare, e con decisione, una sua posizione centrale. Per la Gran Bretagna la questione è diversa, visto che storicamente ha sempre avuto un forte interesse nel Mediterraneo. Ma non dimentichiamo che questa operazione la si può“leggere”anche nell’ottica del trattato franco-britannico siglato lo scorso autunno e che vede dichiarato in modo esplicito la volontà dei due
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Capisco i mal di pancia della Lega Araba, sempre divisa al proprio interno, ma non capisco il voltafaccia di Putin che ha detto sì alla risoluzione e poi ha bocciato i raid
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paesi a collaborare su base bilaterale - al di fuori e al di là di qualsiasi istituzione o struttura multilaterale, internazionale o sovranazionale - per gestire le vicende del mondo con una modalità che ricorda molto quella delle potenze degli anni Trenta. Rispetto all’intervento militare in queste ore si è posto un secondo problema: quello della Lega Araba, che nonostante abbia riaffermato il proprio sostegno all’operazione dà segno di evidente irritazione... La Lega Araba ha due referenti da accontentare, e non sempre la vedono alla stesso modo. Perché una cosa sono i governi dei paesi arabi e un’altra cosa sono le masse arabe. Non dovendo scontentare nessuno la Lega deve assumere degli atteggiamenti che qualche volta possono apparire, se non contraddittori, certo non perfettamente in sintonia. Diciamo che la Lega Araba si vuole lasciare delle vie di scampo. La Russia ieri ha rilasciato delle dichiarazioni molto pesanti: Putin ha detto che questa missione equivale a una crociata... Il perché non lo so.Trovo abbastanza singolare il cambio di atteggiamento della Russia, che ha accettato la formulazione
della risoluzione del Consiglio di Sicurezza, abbastanza ambigua e comunque abbastanza elastica da consentire comunque tutto quello che al momento si sta facendo. Il fatto che la Russia abbia accettato questa formulazione per poi accorgersi a posteriori che probabilmente andava al di là di quelle che erano le sue intenzioni mi dice che oggi Putin vuole fare retromarcia. Quali passi sono necessari per definire chi governerà la missione? Ed entro quando sarà chiaro quale sarà la vera catena di comando? Al momento la possibilità che si affermi la linea italiana è abbastanza scarsa. Io sono pessimista al riguardo. Però una cosa la posso dire: la posizione italiana risponde a criteri di logica tecnica e di logica politica, mentre le altre posizioni rispondono esclusivamente a posizioni ed interessi specifici. Generale, ma se il comando non dovesse passare sotto l’ombrello Nato, non sarebbe una grave sconfitta per l’Alleanza? Io sono molto preoccupato per il futuro della Nato. Rischia di essere ridotta soltanto a una scatola degli attrezzi da usare quando serve. Così come sono molto preoccupato per il futuro della politica di sicurezza e difesa dell’Unione europea che è stranamente assente e sorprendentemente invitata da uno dei membri che non detiene la presidenza a una riunione dove si prendono decisioni. Constatare che ci sono debolezze nelle strutture politiche europee dovrebbe indurre a fare qualcosa per correggere la situazione, e invece lo si accetta supinamente, anzi in qualche modo di favoriscono ulteriori scivolate. Di scivolate ce ne sono anche in Italia. La maggioranza è divisa sull’operazione libica... È nella natura delle cose. Ogni volta che c’è stato un intervento di carattere militare abbiamo assistito a posizioni dissonanti in seno alle varie maggioranze. Insomma, nulla di nuovo sotto il sole. Generale, molti lamentano poca chiarezza circa gli obiettivi finali della missione... Tuttavia a me sono chiari: l’obiettivo è il ricambio della governance libica, con l’uscita di scena di Gheddafi e del suo gruppo dirigente e l’instaurazione di una nuova dirigenza.
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Odissea del comando»
Per l’ex ambasciatore Usa all’Onu la mancata assunzione americana di un ruolo leader in Libia è un errore strategico
Quattro consigli a Obama Cosa ci vuole? «Più decisione, obiettivi chiari, controllo e minor fiducia negli alleati» opo circa un mese passato a manifestare disinteresse o ferma opposizione all’istituzione di una no-fly zone contro il dittatore libico Muammar Gheddafi, il presidente Obama ha compiuto un’inversione a 180°. Con l’approvazione di una no-fly zone e di un più ampio mandato per proteggere i civili, l’America e gli altri paesi della coalizione hanno avviato un intervento militare in Libia. Con la speranza che tale impegno sia sufficiente a far capitolare Gheddafi e coloro che gli sono fedeli. Dopotutto, il rovesciamento del 2003 e la successiva cattura del dittatore iracheno Saddam Hussein fu sufficiente a convincerlo a rinunciare al suo programma nucleare, e uno shock e un timore simili potrebbero funzionare ancora. Se anche così fosse, però, non si possono trascurare i gravi errori politici che hanno preceduto quest’ultimo successo. Un’immediata e risolutiva vittoria in Libia, infatti, sarebbe figlia solo della forza delle armi e non di una strategia politica o diplomatica, inciampata in una serie di occasioni prima dell’inversione di Obama dell’undicesima ora. Per evitare di ripetere questi errori, che potrebbero dar luogo ad una crisi dal potenziale ancora peggiore, consideriamo i seguenti elementi da non ripetere. Primo: non aspettare che sia troppo tardi. Se l’America fosse intervenuta all’inizio del conflitto in modo immediato e decisivo avrebbe potuto ribaltare l’equilibrio a favore dell’opposizione, porre fine al regime ed evitare molte vittime. Invece, tentennando per un mese sull’opportunità o meno di usare la forza, Obama ha aumentato
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di John R. Bolton sia i rischi che le gravi conseguenze di fallimento o di impasse. Secondo: non accettare obiettivi di missione confusi e imprecisi. Sia Obama che i suoi consiglieri e i nostri alleati sono confusi sul fatto che far crollare Gheddafi sia il nostro obiettivo ultimo. E invece dovrebbe esserlo! L’obiettivo dichiarato da Obama di «proteggere la popolazione civile libica» risulta più ambiguo della richiesta di un categorico cambio di regime. Come Washington ha enfatizzato per settimane, la minaccia più sottile al popolo libico è lo stesso Muammar Gheddafi.
Come si possono proteggere i civili mentre si permette al dittatore di rimanere al potere in qualche parte della Libia? Inoltre, venerdì scorso, Obama ha posto la condizione che Gheddafi si ritiri da tre città libiche tornate sotto il suo controllo. Ma se Gheddafi non dovesse ritirarsi, e invece osservasse un “cessate il fuoco”, Obama sarebbe veramente pronto a continuare ad usare la forza per cacciare Gheddafi da queste città? E perché queste città e non altre in cui Gheddafi ha usato indiscriminatamente la forza militare? Terzo: aver mancato di definire una vera linea e autorità politica. Scegliendo di non sottoscrivere alcun impegno politico prima dell’approvazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e della Lega Araba, Obama si è illuso che avrebbe potuto smorzare le critiche americane. Non è così: una decisa leadership militare aumenta la possibilità di un successivo consenso. Nascondendosi
dietro ad altri piuttosto che assumersi la leadership, Obama rischia di confondere il popolo americano e gli alleati oltre che mettere a rischio l’incolumità dell’esercito Usa. Di più: asserendo che presto il comando (sia politico che militare) dell’operazione verrà trasferito agli alleati, Obama ha commesso forse il suo errore più grave e più grande. Perché una volta che il controllo dell’intervento verrà ceduto non c’è alcuna garanzia che possa essere recuperato o esercitato, seppur saltuariamente, in
«Una volta ceduto il comando di Odissea all’alba l’America deve sapere che non c’è più alcuna garanzia che esso possa essere recuperato o esercitato» modo efficace. E le ripetute dichiarazioni di Obama secondo cui «gli Stati Uniti non hanno cercato questo risultato» non fa che sottolineare la sua difficoltà a capire che il comando è assolutamente necessario per confidare nella vittoria. Che strano modo di mandare i nostri militari in battaglia. Quarto, non scommettere sui partner che potrebbero non avere la capacità militare di conseguire gli obiettivi. Obama ha detto che il ruolo americano sarà limitato alla prima fase dell’operazione. Ne consegue che il ruolo
operativo dell’America diminuirà dopo la prima fase di attacco. Ma che succede se gli alleati si dimostreranno incapaci di sostenere il necessario sforzo militare? E ancora: Obama ha fatto male a negare l’eventualità di una operazione terrestre sul suolo libico solo perché tutti, al momento, sono contrari a metterla in atto.
A voler leggere fra le righe, sembra proprio che il Presidente si stia limitando a fare una campagna contro le politiche adottate da George W. Bush in Iraq, ma così facendo, restando sempre a rimestrare in vecchie questioni di politica interna, rischia di non giocare alcun ruolo effettivo sotto il profilo strategico-militare. Il primo intervento di fuoco sulla Libia, principalmente americano, è stato preciso, utile e per fortuna senza “incidenti” collaterali. Il peso dell’assalto militare potrebbe portare a una veloce uscita di scena, forse fisica certamente politica, di Gheddafi. Questo potrebbe essere il nostro obiettivo, a dispetto dell’incertezza su chi e quale regime andrà a sostituirlo. Per evitare di fare errori, la gestione di Obama della crisi libica sia prima che dopo la decisione di usare il pugno di ferro contro il raiss conferma la comune impressione che egli sia un leader tutto sommato debole, incapace di prendere sulle sue spalle le pesanti responsabilità a livello internazionale e militare. In tutto il mondo sia gli amici che gli avversari hanno potuto toccare con mano questa debolezza e non esiteranno ad agire di conseguenza in futuro. Questo è gravissimo pericolo per gli Stati Uniti.
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la crisi libica
La maggioranza italiana spaccata non sembra voler cogliere tutti i nodi posti in modo drammatico dal comportamento di Tripoli
Missione responsabilità Il problema che si è aperto in Libia ha una genesi antica e affonda nei dubbi sul rapporto tra moderazione e forza. Ma se il governo continua a dividersi (o a inseguire Bossi), la Francia finirà per sostituirci nel cuore del Mediterraneo di Savino Pezzotta
In commissione attività produttive della Camera avevo chiesto che non si accelerassero i tempi, ma si facesse valere il principio di precauzione. Pur non essendo mai stato contrario al nucleare e avendo a suo tempo votato contro nel referendum sulla chiusura delle centrali, resto ancora di questo avviso. Per queste ragioni mi sono astenuto. Oggi vedo anche i più accaniti nuclearisti puntare alla riflessione e questo è un fatto che considero positivo.
Vorrei avanzare a questo punto una riflessione sulla vicenda libica. L’uso della forza mi ha sempre creato problemi e un istintivo moto di repulsione. Come cristiano sono da un lato interrogato dal comandamento del “non uccidere”, e, dall’altro, dalla contingenza storica. Anche quando ritenuto necessario, per un cristiano l’uso delle armi e della forza non è questione pacifica e il discrimine non sta tra azione o non azio-
ne, ma tra ciò che è vero e ciò che è apparente. La sua tensione interiore deve essere sempre orientata verso la pace vera e la non violenza, ma questo comporta sia il non uso della forza che iniziative per la giustizia. Da un punto di vista concettuale l’idea pacifica del cristiano non è neutrale, ma intrinsecamente collocata all’interno di una dialettica tra l’idea di un giusto uso della forza (guerra giusta) e il suo rifiuto assoluto. Questa dicotomia è stata in parte superata dal Concilio Vaticano Secondo, che colloca l’uso della forza - anche quando è necessaria - nel campo del male e pertanto tiene aperta la questione del suo superamento. Di fronte all’uso della forza, il cristiano deve sempre porsi interrogativi e avere la consapevolezza che questa dimensione comunque appartiene al male e al fallimento della ragione. La ricerca della pace e il superamento dell’uso della forza resta in ogni circostanza il suo
obiettivo di fondo. Essere miti in circostanze come quelle che stiamo attraversando non è facile, ma è l’unica via possibile. Non sono un pacifista, ma un pacifico che cerca di percorrere le vie della mitezza.
Di fronte all’intervento militare in Libia ci si deve chiedere se sia stato fatto tutto il possibile per evitarlo e, allo stesso tempo, sapere che non si poteva permettere a Gheddafi di
Quell’eterno conflitto tra «non uccidere» e contingenza storica
massacrare una parte della popolazione libica, in particolare quella che lotta per la libertà. Si poteva e si doveva intervenire con la forza della diplomazia prima che la situazione precipitasse. Ci sono state troppe titubanze e ambiguità nei paesi occidentali e nel nostro Governo che non ha avuto nemmeno il coraggio di utilizzare il trattato con la Libia per tutelare il diritto degli insorti contro la dittatura. La necessità di intervenire
per far cessare i massacri era auspicata da molti e la risoluzione dell’Onu altro non è che la logica conseguenza del rifiuto di Gheddafi di porre fine alla violenza e di rispondere alle legittime richieste della popolazione di far rispettare i diritti umani e il diritto umanitario. L’Onu ha deciso di autorizzare l’uso della forza militare con l’obiettivo primario di proteggere la popolazione - «i civili e gli insediamenti urbani civili», compresa la città di Bengasi -, escludendo categoricamente il dispiegamento di «una forza di occupazione straniera di qualsiasi forma e in qualsiasi parte del territorio libico». Il divieto di volo riguarda «il decollo, l’atterraggio e il sorvolo nel territorio libico di velivoli registrati in Libia o gestiti da cittadini o compagnie libiche». La sola eccezione è per voli a scopo umanitario. A usare la forza sono autorizzati gli stati membri, che potranno agire “singolarmente” o attraverso organizza-
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Nel discorso di domenica gli echi di quello di Wojtyla sul Kosovo
Il sì di Benedetto XVI? Per proteggere i popoli Dopo essersi opposto alla guerra in Iraq, il Vaticano non condanna i raid pur di fermare un massacro di Luigi Accattoli erché la Santa Sede si oppose alle due guerre del Golfo (1991 e 2003) e non si oppone oggi all’attacco contro la Libia? Basta a fare la differenza il voto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu che stavolta autorizzava ad agire contro Gheddafi mentre era mancato per gli attacchi dei “volenterosi” a Saddam Hussein? No, dicono in Vaticano: non è la copertura Onu – pure importante – a indurre a una diversa valutazione, ma il fatto che oggi i “volenterosi” agiscono per fermare un massacro in atto, non essendoci altre vie per ottenere tale obiettivo, mentre un’analoga necessità e urgenza non si riscontrava nei due casi iracheni.
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Più che con le due
sponsabilità di proteggere» che aveva formulato il 18 aprile 2008 parlando al Palazzo di Vetro. «Rivolgo – ha detto domenica – un pressante appello a quanti hanno responsabilità politiche e militari, perché abbiano a cuore, anzitutto, l’incolumità e la sicurezza dei cittadini e garantiscano l’accesso ai soccorsi umanitari». All’Onu aveva affermato che «ogni Stato ha il dovere primario di proteggere la propria popolazione da violazioni gravi e continue dei diritti umani» e aveva aggiunto che «se gli Stati non sono in grado di garantire simile protezione, la comunità internazionale deve intervenire con i mezzi giuridici previsti dalla Carta delle Nazioni Unite e da altri strumenti internazionali». Una tale azione della comunità internazionale – aveva specificato – «non deve mai essere interpretata come un’imposizione indesiderata e una limitazione di sovranità: al contrario, è l’indifferenza o la mancanza di intervento che recano danno reale».
Anche Bagnasco ha chiesto che tutto si svolga «rapidamente, in modo giusto e equo»
guerre del Golfo il paragone va fatto con l’attacco della Nato alla Serbia nel 1999 a protezione del Kosovo. Benedetto ieri ha parlato con toni simili a quelli che aveva usato Giovanni Paolo il 25 marzo 1999 dopo l’avvio dei bombardamenti su Belgrado, invocando cioè garanzie umanitarie ma senza condannare l’iniziativa. In ambedue i casi c’è un governo che usa armi da guerra contro una componente della nazione e c’è – per la comunità internazionale – l’urgenza di un intervento di “protezione”. «Auspico di cuore che quanto prima tacciano le armi e riprendano il negoziato e le trattative» aveva anche detto Giovanni Paolo dodici anni addietro, ma non si può dedurre nulla dal fatto che parole simili non siano venute l’altro ieri da Benedetto perché – a differenza di allora – stavolta non c’è stata nessuna trattativa interrotta e l’auspicio che “tacciano le armi”era implicito nell’invocazione del Papa perché «un orizzonte di pace e di concordia sorga al più presto sulla Libia e sull’intera regione nord africana». Il cardinale Angelo Bagnasco è stato chiaro sulla necessità che il tempo lasciato alle armi sia breve: «Speriamo che si svolga tutto rapidamente, in modo giusto ed equo, col rispetto e la salvezza di tanta povera gente che in questo momento è sotto gravi sventure». Per il presidente della Cei la giustificazione umanitaria dell’intervento è evidente: «Il Vangelo ci indica il dovere di intervenire per salvare chi è in difficoltà». Come d’abitudine quanto resta implicito nelle dichiarazioni del cardinale lo troviamo svolto a tutte lettere nell’editoriale pubblicato domenica da Avvenire con il titolo «Una nuova ingerenza umanitaria. Incognite e doveri»: «I raid aerei in Libia sono un vero e proprio atto di guerra, ma è la risposta alla guerra che un regime sanguinario ha scatenato contro il suo popolo». E ancora: «Quella iniziata alla porte di casa nostra è una guerra animata dal nobile motivo dell’ingerenza umanitaria, ma non esente da ombre e rischi». Il Papa l’altro ieri non si è richiamato al principio di «ingerenza umanitaria» ma a quello più ampio della «re-
Per completare il quadro dell’atteggiamento ecclesiastico e vaticano sulla crisi libica, va citata la voce critica venuta dal vicario apostolico di Tripoli, Innocenzo Martinelli: «L’operazione è partita troppo in fretta, mentre sarebbe stato opportuno tentare ancora la via diplomatica. Spero in una resa, ma credo che Gheddafi non cederà». Sommando le voci possiamo concludere che gli ambienti della Chiesa Cattolica guardano con preoccupazione al conflitto. Non lo condannano in linea di principio, in quanto sostanzialmente rispondente ai criteri di solidarietà internazionale sviluppati lungo l’ultimo ventennio, ma si augurano che sia breve ed esprimono una critica simile a quella della Lega Araba e dell’Unione Africana per la fretta con cui si è andati all’uso delle armi.
zioni o accordi regionali in stretta cooperazione con il Segretario Generale delle Nazioni Unite. Credo che ci si debba attenere con rigore a queste determinazioni. Dalle notizie che riceviamo in queste ore sembra che si sia andati oltre e non è un caso che la Lega Araba abbia protestato.
Proprio perché si deve rispondere a un’urgenza e a una necessità umanitaria, non devono predominare gli interessi economici da difendere. Abbiamo il dovere di accompagnare le speranze, vincere le paure e non inimicarci le popolazioni arabe. Un equilibrio difficile che non deve essere ritenuto impossibile. Per questo bisogna tenere vivi gli interrogativi etici in una valutazione attenta dell’evolversi della situazione. Il problema che dobbiamo sempre avere presente non è solo il destino di Gheddafi e del suo regime, ma le future relazioni con l’intera regione che va dal Marocco all’Iran e le prospettive che contribuiamo ad aprire per i 350 milioni di abitanti che per il 30% hanno meno di 30 anni. Un esercito di giovani che sono stati dominati da regimi autoritari e che abitano in territori insidiati dall’aridità e che in molti casi nascondono risorse enormi. È un’area attraversata da forti fermenti: ecco perché la vicenda libica va gestita con saggezza, lungimiranza e senza desideri di egemonia. L’Europa si presenta divisa e lascia trasparire anche in questa vicenda drammatica tutta la sua debolezza. L’Italia ha sicuramente perso di peso, e tra i paesi europei è quella che rischia di più. Il governo Berlusconi si era eccessivamente esposto nei confronti del regime di Gheddafi, un’esposizione che non gli ha consentito di capire che le cose stavano mutando e che una fase in Libia era finita. Sono stati commessi troppi errori che dovremo pagare a caro prezzo, a dimostrazione che la cosiddetta realpolitik non è quasi mai vincente e spesso genera danni. In tutte le vicende politiche il realismo è un connotato da non sottovalutare, ma la capacità della politica e di chi esercita funzioni politiche primarie è quella di leggere i “segni dei tempi”che quasi sempre trascendono il contingente e consentono all’azione politica di essere qualcosa in più che l’amministrare. La cosiddetta “politica del fare” non è in grado di rispondere alla complessità se non è orientata dalla “politica dell’essere”. In questo momento in cui i cacciabombardieri colpiscono e creano situazioni di dolore e sofferenza, dobbiamo sperare e agire perché il futuro della Libia sia democratico. Ma comunque si risolva la vicenda - e preghiamo perché accada in
fretta - per l’Italia è una storia a perdere. Il nostro Governo non è stato in grado di assumere l’iniziativa, si è accodato all’ultimo momento e non ha nemmeno tentato di svolgere un’azione diplomatica di pacificazione. Con il trattato abbiamo finito di pagare prezzi politici molto alti e non si è nemmeno stati capaci di utilizzarlo in senso propositivo. Dopo aver compiuto gesti umilianti per avere petrolio, gas e per trattenere gli immigrati, ora corriamo il rischio che al tavolo del petrolio si siedano altri e che la Francia torni ad esercitare nel meditteraneo un ruolo importante, presentandosi come garante dei processi politici che si sono avviati, anche se a bombardare i civili e le persone che manifestavano sono stati i jet francesi. L’Italia non può sottrarsi alla risoluzione dell’Onu, ma non può limitarsi a questo. Oggi deve farsi protagonista di un progetto politico e di pacificazione democratica che offra prospettive ai paesi che con lei condividono lo spazio politico, economico e culturale mediterraneo. Il grande storico Fernand Braudel ha scritto che «… il Mediterraneo è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia». Ora si deve ricercare un nuovo arricchimento. Non possiamo vivere di Paure. Quello che ora serve è una proposta politica chiara che spinga l’Europa ad agire unitariamente per consolidare quello che il Presidente della Repubblica ha definito il “Risorgimento Arabo”.
Per queste ragioni è necessario che i raid aerei terminino nel più breve tempo possibile per evitare sofferenze ai civili. L’Europa deve predisporre un piano di accoglienza anche temporanea per tutti quelli che fuggono dalla Libia. Il nostro governo e l’Ue si prodighino a far sì che in Libia possa finalmente trionfare la democrazia, il rispetto dei diritti umani e la pace. È fondamentale dare corpo alla proposta avanzata domenica scorsa sul Corriere della Sera dall’economista Alberto Quadrio Curzio, che si articola su due punti: trasferimento temporaneo, in attesa della restituzione ad uno Stato legittimo, dei capitali libici congelati dai paesi Ue a una nuova società amministrata dall’Ue e dalla Lega Araba; dare vita a una banca di sviluppo nuova che attiri parte dei capitali dei fondi sovrani di paesi della Lega Araba. La Banca andrebbe cofondata dall’Ue e dalla Lega Araba e localizzata a Roma dove la Lega Araba da anni ha una sede. Sono proposte ispirate dal buon senso ma richiedono una forte volontà politica. L’Italia dovrebbe in questa prospettiva assumere un ruolo di protagonista e di proposta.
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Il meccanismo è semplice: gli assicuratori si assicurano a loro volta per il pericolo di dover pagare i premi ai clienti assicurati
ppure, c’era anche chi aveva scommesso sul terremoto in Giappone. E meno male che è stato così: il paradosso dei Cat Bonds... Ben otto erano quelli emessi per il rischio di terremoto in Giappone, e l’esposizione era di oltre un miliardo e mezzo di dollari. Anzitutto da parte delle tre grandi riassicuratrici: Flagstone Re Scor, Swiss Re e Munich Re. In particolare, Swiss Re ha un bond da 150 milioni emesso nel giugno del 2008 e uno da 106,5 milioni del dicembre 2010 corrispondenti al Vega Capital Ltd. program; più altri 120 milioni con il Successor X Ltd. series 2010 program del marzo 2010. Mentre Munich Re aveva trasferito 260 milioni di dollari nell’ottobre 2007 attraverso un bond chiamato Midori, dopo aver riassicurato la East Japan Railway Company per terremoti nell’area della Grande Tokyo: che però non dovrebbe essere stato interessato. Più altri 300 milioni di dollari attraverso il bond Muteki, dopo aver riassicurato l’assicuratrice di cooperative agricole Zenkyoren nel maggio del 2008. E Flagstone Re Scor aveva piazzato nel dicembre 2009 l’Atlas VI, con 103.7 milioni di dollari sui terremoti giapponesi in genere.
E
Ma c’erano di mezzo anche un paio di piccoli riassicuratori delle Bermuda. Uno era Reinsurance Holdings S.A. (Fsr): con due serie di bond colValais Re program, pari 104 milioni di dollari, nel giugno 2008; più altri due bond col Montana Re program nel novembre 2009, per 175 milioni di dollari). L’altro era Platinum Underwriters Bermuda Ltd. (Ptp): 200 milioni di dollari col bond Topiary dell’agosto 2008.Tutto, appunto, parte dalle compagnie di riassicurazione, quelle cioè da cui gli assicuratori si assicurano per il rischio di dover pagare i premi ai clienti assicurati. Oltre alle sigle già citate: Berkshire Hathaway, Hannover Rück, Reinsurance Group of America, Transatlantic Re, Everest Re, Partner Re, XL Re... Ogni settembre si tiene a Monaco un tradizionale rendez-vous, dove i riassicuratori incontrano i propri clienti per fissare i prezzi, e nell’occasione presentano il settore a giornalisti e studiosi. Il fatto che le logiche dei riassicuratori possano non essere quelle dell’economia in generale è dimostrato ad esempio che nel 2008 mentre la crisi dei subprime
si scatenava in tutta la sua virulenza, a Monaco si registrava invece un“clima di euforia”grazie agli ultimi uragani del Golfo del Messico. Dalla conferenza stampa: «Dopo la pessima annata del 2005, i riassicuratori hanno ottenuto dei risultati record nel 2006, il 2007 si situa a un buon livello e il 2008 pure si prospetta eccellente, malgrado le catastrofi naturali e l’impatto della crisi finanziaria». Motivo: se «le creazioni di sidecar si sono sensibilmente ristrette», in compenso «le cartolarizzazioni continuano a espandersi». Di cosa stiamo parlando? Il “sidecar” è quando una compagnia riassicuratrice si appoggia a sua volta a una riassicuratrice ulteriore: come appunto un motociclista, che per non perdere l’equilibrio si fornisce di una terza ruota. Le “cartolarizzazioni” sono rappresentate invece dai cosiddetti Cat Bond: che sono poi il motivo per cui i disastri naturali e quelli finanziari invece di deprimere il settore lo esaltano. Cat Bond: letteralmente,“i titoli del gatto”. Se per associazione di idee vi è venuto in mente il Gatto Nero di Edgar Allan Poe, sappiate che non siete affatto fuori strada. Anzi! Investire in Cat Bond, in effetti, è un po’metaforicamente come fare “psss psss”al micio oscuro che la superstizione vorrebbe foriero di jatture, per invitarlo a passarci davanti. E di Edgar Allan Poe è anche quel famoso racconto che Federico Fellini portò sullo schermo in un celebre episodio di Tre passi nel delirio, su un Toby Dammit che
Giappone Ora la catastrofe si chiama Cat Bond Sono le obbligazioni utilizzate dagli investitori per proteggersi dai disastri naturali. Contro il rischio terremoto, ne erano stati emessi otto di Maurizio Stefanini
liere Antonius Block del “Settimo sigillo” di Ingmar Bergman. Insomma, qui si tratta di giocare a scacchi col destino, di domare se non proprio gli uragani le loro conseguenze, e di scommettere sulle calamità. “Cat Bond”, in realtà, non è che un eufemismo per Catastrophe Bond: i Bond della Catastrofe. L’ultima frontiera dei Derivati.
«La caratteristica dei Cat Bonds», spiega un opuscolo illustrativo, «è che essi permettono di diluire rischi anche molto difficili da quantificare su una larga fascia
A settembre di ogni anno, a Monaco, si tiene un tradizionale meeting dove i riassicuratori incontrano i clienti per fissare i prezzi. Nell’occasione, presentano il settore anche a giornalisti e studiosi aveva la mania di scommettere la sua testa col diavolo, fino a quando non si trovò a perderla. Sempre dagli Stati Uniti, dove Poe era nato e dove anche i Cat Bond sono stati inventati, possiamo pure evocare la leggenda di Pecos Bill, che cavalcava gli uragani mettendo loro briglia e sella e agitando il lazo. Ma c’entra anche quel famoso quadro che lo svedese Albertus Pictor dipinse attorno al 1480 nella chiesa di Täby, vicino a Stoccolma, con quell’immagine di un uomo che gioca a scacchi con la morte, ispiratrice della storia del cava-
di investitori. In questo modo, ci si può coprire da eventi da cui sarebbe altrimenti molto difficile proteggersi. Questa metodologia, va sotto il nome di Art (Alternative Risk Transfer) e non è affatto escluso che trovi ampia applicazione anche nel mondo delle aziende e finendo per essere utilizzata anche per i rischi finanziari più complessi». Un esempio può essere il Cat Bond che nel gennaio del 2004 Electricité de France ha messo sul mercato per un importo di 190 milioni tramite Cdc-Ixis e Swiss Re, allo scopo di premunirsi
contro i danni derivanti da bufere di vento. I sottoscrittori del bond ricevono un certo tasso di interesse, che li remunera del rischio. Ma il capitale loro rimborsato alla scadenza, o ad altre date intermedie a seconda delle tranches, verrà progressivamente ridotto se la velocità dei venti in Francia sarà più forte di certi valori prefissati, misurati con particolari indici. Più ci sono catastrofi, più Cat Bond vengono emessi, più gli interessi offerti sono alti. Più la finanza è in crisi, più investire in Cat Bond può essere allettante per mancanza di alternative. L’ideale per i riassicuratori è un margine di danni abbastanza alto, ma non al punto da ingoiare i profitti con i rimborsi da pagare ai sinistrati: una forchetta ideale stimata tra i 50 e i 100 miliardi di danni per catastrofi all’anno. Se le catastrofi sfasciano di meno, il business non rende perché la gente non è incentivata nè a assicurarsi, né a comprare bond. Se sfasciano di più, è più quello che si paga di quello che si incassa. Per capire l’importanza di questa brillante anche se lievemente sinistra, trovata, non c’è che da paragonare l’Uragano Andrew del 1992 al Katrina del 2005. Andrew, il secondo più potente uragano che colpì gli Stati Uniti nel corso del XX secolo, oltre a costare probabilmente la rielezione di George Bush padre in seguito alle polemiche sul modo in cui il suo governo aveva fatto fronte al disastro, aveva provocato anche 26,5 miliardi
di dollari dell’epoca di danni, equivalenti a 38,1 miliardi di dollari del 2006. E ben 63 compagnie assicuratrici andarono fallite: il più caro degli uragani che fino ad allora si fossero mai abbattuti sulle coste Usa. Katrina, con l’alluvione di New Orleans, arrivò a 81,2 miliardi di danni, a parte il tragico saldo di 1836 morti, contro i 65 di Andrew. Ma mentre Andrew gettò il mondo dei riassicuratori nel panico, Katrina ha invece pompato il boom di “cartolarizzazioni” del 2006. La ragione? Proprio dopo Andrew e sulla base di ciò che era successo Richard Sandor e Ken Froot, due economisti della Wharton Business School della University of Pennsylvania, pubblicarono uno studio in cui proposero l’invenzione dei Cat Bonds. Caso estremamente raro nella storia dell’economia di uno strumento finanziario nato non dalla prassi ma dall’elaborazione di due teorici, dopo qualche anno di discussione i primi Cat Bond furono messi in vendita nel 1996. Alla Chicago Board of Trade: la stessa istituzione costituita nel 1848 da 82 commercianti di cereali che volevano ovviare ai cronici imbottigliamenti dei carri carichi di granaglie in quella città al centro di una zona fertilissima, a cui nel 1851 si era dovuta l’invenzione del primo contratto a termine, forward, sul mais. Pure a Chicago nel 1865 erano stati inventati i futures: pompati da quel mercato del cotone, da quel boom delle ferrovie e da quel busi-
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e di cronach
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ness della ricostruzione del Sud degli Usa distrutto dalla guerra civile, su cui pure sarebbe cresciuta la banca creata nel 1844 da tre fratelli droghieri emigrati dalla Baviera e di nome Lehman: storie che si inseguono e si raggiungono... Pure a Chicago erano nati nel 1972 i futures sulle valute, nel 1973 quelli sull’oro, nel 1975 sui tassi di interesse, nel 1977 sui titoli del debito pubblico Usa, negli anni ’80 sugli indici azionari e perfino i futures sui futures. Il bond sulle catastrofi, in fondo, non è che un logico sviluppo, in questa città abituata a sfidare il futuro, generatrice di una Scuola di economisti propugnatori del rischio e dell’intrapresa, malgrado i venti impetuosi che la tormentano per gran parte dell’anno. Promotori dei primi Cat Bond, oltre alla Aig, furono anche l’assicuratrice di militari e dipendenti federali Usaa, la tedesca Hannover Re e la St. Paul Re. I due giri di boa che hanno assicurato il decollo sono stati l’attacco alle Torri Gemelle e Katrina, ognuno dei quali ha portato a un raddoppio del business. Le società di riassicurazione hanno costituito degli Special Purpose Vehicle (Spv) con sede a Cayman, Bermude o Irlanda, apposta per gestire questo tipo di attività.
Ma la cartolarizzazione ormai non riguarda più solo le catastrofi: investe anche l’auto e la vita. Gli Stati Uniti fanno sempre la parte del leone, con almeno 8 miliardi di dollari di capitale assicurati contro uragani ed terremoti. Ma anche il Giappone aveva assicurati capitali per 1,9 miliardi: non solo contro i terremoti, ma anche contro gli
uragani. Taiwan ha emesso Cat Bond in quantità contro il rischio di terremoti. E, come abbiamo visto, in Europa è stata la Francia a premunirsi contro i rischi del maltempo sui suoi servizi di approvvigionamento elettrico. Sempre in Francia Axa ha inventato il “mortality bond” Osiris: dal dio-mummia egizio, che dopo essere stato ucciso dal fratello cattivo Seth, essere stato fatto risorgere dalla moglie Iside ed aver generato da lei Horus col suo cadavere era stato poi mandato a regnare sui morti. «Ritrovarci tutti davanti a Osiride», era stato l’obiettivo della prima rivoluzione della storia: quella che nel XXIII secolo a.C. aveva posto fine alla VI dinastia faraonica e all’Antico Regno, chiedendo una “democratizzazione” dei riti funerari tali da consentire l’immortalità dell’anima anche ai poveracci non in grado di pagarsi le dispen-
In queste pagine, un’immagine della Borsa di Tokyo (in alto); uno scatto dell’incendio alla centrale nucleare di Fukushima (a sinistra); una fotografia scattata in Giappone subito dopo il devastante tsunami che dieci giorni fa ha messo in ginocchio il Paese
diose cerimonie richieste fino ad allora. Più modestamente, il mortality bond Osiris “democratizza”a pro della assicuratrici sulla vita il rischio di una nuova guerra mondiale o di una nuova pandemia stile spagnola del 1918: un evento, quest’ultimo, la cui probabilità statistica è di una volta ogni 200 anni. Nella sua classe più rischiosa paga infatti uno spread di 500 punti base sul tasso Euribor a tre mesi, col rischio però di perdere tutto il capitale se il tasso di mortalità supera un certo livello: certo, a quel punto anche l’acquirente del bond avrebbe grosse probabilità statistiche di trovarsi incluso nel tasso di mortalità aumentato, e dunque la perdita dei quattrini sarebbe l’ultimo dei problemi. Gli esperti garantiscono comunque che un acquirente di Osiris «sarebbe passato indenne attraverso le guerre di Corea e del Vietnam». Anche Swiss Re ha emesso un paio di mortality bond tra dicembre 2003 e aprile 2005: Vita Capital eVita Capital II. Obiettivo, diminuire il rischio di esposizione per eventi come pandemie, attacchi nucleari o cadute di satelliti. Mentre Bnp Paribas ha studiato nel novembre 2004 un survivor bond come strumento per cartolarizzare il rischio di longevità: lo hanno offerto ai fondi pensione, ormai sempre più oberati da anziani indistruttibili che continuano a riscuotere senza avere la minima intenzione di togliersi di mezzo. Sempre Axa ha pensato a un prodotto legato a un portafoglio europeo di rischio Rc Auto, in cui gli investitori perderebbero il loro capitale in coincidenza con un “andamento anomalo”del settore.
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cultura
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Nomi e volti di 120 garibaldini sono quasi del tutto scomparsi. E la vegetazione si è impadronita dei marmi, corrodendoli
La notte dei Mille Sulle loro tombe, al cimitero genovese di Staglieno, grava ormai l’ombra dell’oblio di Marco Ferrari ono loro gli eroi che hanno fatto l’Italia, i Mille, i garibaldini, gli uomini dalle camicie rosse. Celebrati, ricordati con concerti, conferenze e convegni per il 150° anniversario della nascita dello Stato italiano. Ma sulle loro tombe grava l’ombra dell’oblio. Il Campo dei Mille si trova nel punto più alto del cimitero monumentale di Staglieno, a Genova, ombreggiato dai cipressi.
S
Sulle lapidi i nomi e i volti di 120 garibaldini sono quasi del tutto scomparsi. La vegetazione si è impadronita dei marmi, li ha corrosi e resi spugnosi. Il muschio corre sui dati di una vita, di un episodio, di un eroismo. All’ingresso una grande siepe si è invaghita di una lapide, qui e là le fotografie sono scomparse, i portalumi distrutti, terreni che cedono, marmi che traballano. Non un fiore o una corona o una bandiera rammenta che questo sacrario raccoglie i patrioti che hanno creato una nazione, unificando i territori, la lingua e la cultura. Sul retro della lapidi dominano roseti, sterpaglia e erba. Poco lontano, poi, sfrecciato auto e camion delle autostrade, in alto svetta il ponte-canale dell’acquedotto e in basso il limaccioso torrente Bisagno. La grande lapide con i nomi dei Mille è oramai in gran parte illeggibile, annerita. Ancora si riesce ad intravedere qualche identità, ma altre sono quasi del tutto
scomparse. La lapide con i nomi dei veterani ancora è leggibile per quasi la metà, l’altra parte è crollata. Se la passano un po’ meglio le spoglie di Giuseppe Mazzini, contenute in un tempietto a due colonne, dotata persino di una corona, poco distante da quelle della madre, e di Nino Bixio nel Pantheon. Se nessuno si è ricordato di loro, ecco che proprio in extremis, prima della festa tricolore del 17 marzo, il Comune di Genova è corso ai ripari presentando il rinnovato Campo dei Mille, nel cimitero monumentale di Staglieno con i vialetti ripuliti e gli alberi potati. «I luoghi della memoria del Risorgimento tornano a vivere» ha spiegato l’assessore comunale ai Servizi Cimiteriali, Paolo Veardo. Tra gli illustri ospiti del cimitero Giuseppe Mazzini, Michele Novaro, che musicò l’inno d’Italia, Nino Bixio e persino il cantautore Fabrizio De André. Un intervento, quello del Comune, destinato a durare nel tempo: l’Associazione Alpini si è impegnata a mantenere pulito il Campo dei Mille e il Boschetto, mentre la Soprintendenza e gli studenti di Conservazione Artistica e Storia dell’Arte dell’Università schederanno tutte le opere risorgimentali. Il Rotary Club, in particolare, si prenderà cura del restauro della tomba di Novaro.
«Alcune parti di pregio del cimitero - dice l’assessore Veardo - potrebbero inoltre essere re-
staurate da artisti americani, che hanno dimostrato grande interesse per la necropoli». Nel Paese che affonda la cultura, ecco un’altra occasione persa: il Comitato nazionale per le celebrazioni dell’Unità d’Italia si è scordato del luogo dove riposano i suoi eroi.
Da Genova si risponde a questa dimenticanza con una controproposta: il professor Franco Sborgi, direttore del Diparti-
L’Associazione Alpini s’è impegnata a tenerlo pulito, mentre la Soprintendenza, insieme con l’Università, schederà tutte le opere risorgimentali mento di Italianistica, Romanistica, Arti e Spettacolo della Facoltà di Lettere e Filosofia propone di candidare il Cimitero Monumentale a luogo riconosciuto dall’Unesco, al pari dei Palazzi dei Rolli, per rendere più facile accedere ai fondi europei per una sistematica opera
di riqualificazione. Già entro l’estate sarà a disposizione il tempietto laico e nel 2012 si procederà a una nuova regolamentazione degli ingressi con un bookshop, un punto per le visite guidate e la separazione dei settori storico-culturali da quelli più prettamente religiosi,
grazie a un fondo straordinario di circa un milione di euro. «Nel cimitero storico di Staglieno ci sono oltre un milione di lapidi - ha spiegato Veardo - il cui mantenimento dovrebbe essere a carico delle famiglie dei defunti. Quando non è possibile risalire ai parenti il comune si attiva ma le risorse sono limitate». E l’idea di far pagare un biglietto di ingresso al momento non è una soluzione percorribile, anche se molte comitive di turisti americani visitano regolarmente il più vasto museo europeo della scultura in esterno, con circa 7 mila monumenti funebri, una necropoli marmorea dove trionfa il neoclassicismo, con i suoi quartieri che riflettono la divisione sociale della città ligure.
Da tempo, nella penuria di risorse, Comune di Genova, Università e Soprintendenza stanno operando congiuntamente a
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Le note dolenti dell’identità italiana, a partire dalla morte dell’ideologia risorgimentale
Riecco «Finis Italiae», quell’unità (quasi) fallita
Sergio Romano rimanda in stampa il pamphlet sui tic e sulle contraddizioni della formazione del nostro Stato di Massimo Tosti ra in qualche modo prevedibile che nel clima delle celebrazioni per il 150° anniversario dell’Unità Nazionale prevalesse un’interpretazione retorica (e un po’ dolciastra) degli accadimenti che condussero a quel risultato “memorabile” (tanto per usare un aggettivo molto caro a Benigni, fino a oggi cantore ufficiale dell’evento). Con l’eccezione dei leghisti, tutti concordi nell’osanna al Risorgimento (anche coloro che ne avevano sempre osteggiato i valori), e nel richiamare il bagaglio culturale e linguistico che aveva favorito la formazione di uno Stato che era già Nazione. È singolare che nella ristretta cerchia dei critici (o degli scettici) si sia iscritto uno storico autorevole e conservatore come Sergio Romano che ha affidato dubbi e riserve a un librettino intitolato Finis Italiae (Le Lettere). Una lettura da suggerire incondizionatamente agli entusiasti sbandieratori del tricolore e ai commossi interpreti dell’Inno di Mameli (del quale, fino all’altro ieri, conoscevano meno strofe dei calciatori). Il suggerimento nasce dall’acutezza delle osservazioni (storicamente ineccepibili) dell’autore. Che la lingua fosse un collante è una specie di balla spaziale: al momento dell’Unità - ricorda Romano - l’italiano era parlato dall’8 per cento appena della popolazione. Il rimanente 92 per cento comunicava unicamente attraverso i dialetti. E sappiamo che ancora sessant’anni fa, non erano i nostri connazionali che si esprimevano correttamente nella lingua di Dante Alighieri (al quale, sempre Benigni, fa risalire tutti i meriti della nostra vera o presunta coscienza nazionale). Tant’è che i militari di leva venivano spediti nelle regioni più lontane da quelle di provenienza, proprio nel tentativo di agevolare la comunicazione fra lombardi e siciliani, fra pugliesi e piemontesi. Se proprio dobbiamo trovare il nome di un maestro che ha insegnato (o sdoganato) la lingua dove ’l sì suona, sarebbe più realistico attribuire il merito (per usare una sineddoche) a Mike Bongiorno. Perché è stata la televisione a diffondere (nel bene e nel male) l’idioma italiano.
E
Staglieno. Una palazzina che ospita il centro di restauro lapideo è stata data in comodato d’ uso alla facoltà che tiene qui i suoi corsi e l’Università di Genova è stata la prima ad entrare nell’associazione dei cimiteri monumentali europei.
Il progetto per la catalogazione del cimitero è stato promosso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici e per il Paesaggio della Liguria, dalla Soprintendenza per il patrimonio storico artistico ed etnoantropologico, dalla Regione Liguria e dal Comune di Genova. La ricognizione e catalogazione di monumenti funerari ed arredi a Staglieno è consistita in una fase preliminare ed in due fasi operative. Fra il 1992 ed il 1993, durante la fase preliminare, sono state analizzate 1.672 sepolture con schedatura di tipo inventariale. La prima fase di catalogazione vera e propria,
conclusa nel 2004, ha riguardato 1.208 opere scelte con criterio topografico all’interno del cosiddetto Boschetto Irregolare e della Valletta del Pornasso ed è consistita in un’analisi diretta degli oggetti per individuare nuovi campi di catalogazione di oggetti particolari ed in una schedatura di tipo non ministeriale attraverso il software Archea di Elsag con scansione di documenti, immagini, bozzetti, schizzi, vecchie foto, eliocopie di progetti.
La seconda fase ha toccato, fra le altre, le opere del cimitero dei protestanti, la galleria delle Edicole ed il Campo dei Mille. «Una città di esseri muti, rigidi - ha scritto lo spagnolo Pio Baroja - di una bianchezza immacolata, si innalza tra i fiori e le fronde del cimitero o nelle deserte gallerie, il cui pavimento ripete il passo del visitatore con paurosa eco».
contagio della Riforma, il Paese non era neppure unito religiosamente: «Al Nord il suo cattolicesimo ha preso sul serio la Controriforma e ha adottato uno stile ecclesiastico più rigoroso e sorvegliato. Al sud prevale ancora un cattolicesimo paganeggiante e teatrale, dove la fede va in scena nelle piazze, nelle strade e nelle chiese come uno spettacolo corale».
Anche l’unificazione politica non fu una bazzecola. «L’Italia è stata unificata da Cavour contro la volontà degli Stati preunitari e in particolare dello Stato pontificio, vale a dire della istituzione che era in grado di esercitare una forte influenza sulle coscienze degli italiani». E, per sovrapprezzo, mentre gli altri Paesi europei (Francia, Spagna, Gran Bretagna) «furono unificate da un sentimento di fedeltà verso la dinastia regnante, l’Italia non ha un buon ricordo della sua breve dinastia unitaria e ha tante lealtà quanti sono i piccoli Stati monarchici o repubblicani di cui è stata costellata la penisola». Sono rimasti i campanili. Il municipalismo e il localismo non è estirpabile. «Tanto per fare un esempio», scrive Romano, «il palio, per Siena, è una sorta di 14 luglio, molto più entusiasmante di qualsiasi festa nazionale». Sono rimaste glorie, monumenti, culture di ogni piccola capitale: sopravvissuti a centocinquanta anni di unità. E ciascuno celebra i propri padri. «Se Recanati ha Leopardi, Vicenza ha Zanella e Fogazzaro, se Asti ha Alfieri, Dronero ha Giolitti e Stradella ha Depretis, se Macerata ha Matteo Ricci, Rovereto ha Rosmini, se Bomba ha i fratelli Spaventa, Molfetta ha Salvemini, se Barletta ha De Nittis, Messina ha Antonello e Ferrara ha Boldini, se Pesaro ha Rosmini, Busseto ha Verdi e Lucca ha Puccini». E poi si sono aggiunte le corporazioni (retaggio anche queste del nostro brillantissimo Medio Evo, che ci pose all’avanguardia dell’Europa) ma che oggi sono altrettanti schermi di difesa contro lo Stato. Ciascuno con l’obiettivo egoistico di salvare la propria casta, senza riguardi per eventuali danni procurati agli altri. Niente da fare, allora? Anche se «il progetto unitario è complessivamente fallito», gli italiani, osserva Romano hanno creato un patrimonio comune: istituzioni, aziende, opere pubbliche, miracoli economici, catastrofi e ricostruzioni, gare sportive, opere dell’ingegno, battaglia combattute insieme e non sempre perdute. Un patrimonio che, alla maniera di Verga, Romano definisce la «roba» italiana. Che non è il caso di buttar via. Ma parrebbe di capire - senza gonfiare troppo il petto. Non è proprio il caso.
Una lettura necessaria, da consigliare ai commossi interpreti dell’Inno di Mameli e agli sbandieratori del tricolore
E questo non è un problema legato soltanto all’analfabetismo ancora diffusissimo a metà dell’Ottocento. A quell’epoca - sottolinea Romano - «i due più vecchi Stati della Penisola, la Repubblica di Venezia e lo Stato Pontificio» gestivano «i loro affari in una lingua diversa dall’italiano: una versione elegante e signorile del veneto nel primo, il latino nel secondo». E, a proposito di Vaticano, nonostante la Chiesa avesse combattuto con successo il
ULTIMAPAGINA L’ex governatrice dell’Alaska sarà interpretata da Julianne Moore nella nuova miniserie targata Hbo
Sarah Palin, dalle alci alla di Francesco Lo Dico ensavamo che la vetta solitaria del kitsch l’avesse raggiunta Shu Uemura quando trasformò Shirley MacLaine in una improbabile geisha giapponese. Ma cinquant’anni dopo il mondo dei make up artists hollywoodiani si stringe in un fraterno abbraccio attorno all’intreprido truccatore che avrà il compito di realizzare un camouflage da guinness dei primati: dalla sofisticata bellezza di Julianne Moore alla pesante fisiognomica di mamma orsa Sarah Palin. Che pure di ogni cosa potrà essere tacciata, tranne che di sciatteria. Non è facile rintracciare qualcuno che per trucco e parrucco abbia messo in conto spese del Grand Old Party qualcosa come 150mila dollari. Teatro dell’evento sarà la nuova miniserie che il network americano Hbo dedicherà all’ultima corsa verso la Casa Bianca che due anni fa vide trionfare Barack Obama. E in sorte alla magnifica interprete di The hours, un’espressione per ogni lentiggine, è piovuta dal cielo l’ex governatrice dell’Alaska già candidata alla vicepresidenza degli Stati Uniti in ticket con John McCain nel 2008.
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Dell’originale plot del serial, uno dei primi squisitamente politici in cui riferimenti a persone e cose sono puramente voluti, si conosce ancora poco se non il fatto che è un riadattamento del libro di Mark Halperin e John Hellemann, Game Change, acuto pamphlet che mette a fuoco i più alti esiti della castroneria politica americana.Viene da sè dunque che un prolisso capitolo del volume enumeri le imprese della simpatica bracconiera del suprematismo bianco, da alcuni mesi somma voce del Tea Party che chiede la testa di Obama in quanto «arabo, socialista e discendente di negri e islamici». Quanto rovello filosofico per una semplice abbronzatura, direbbe a Sarah un altro mago dell’understatement che non a caso ne apprezza i modi spicci e le forme di assodata tradizione mediatica. Assai prominenti ovunque, ma tendenti a diradare a un dipresso del lobo frontale. E d’altronde Sarah è donna d’azione. Forse l’unica eroina d’azione di cui si annoverano soltanto le parole epiche. E bene farà Julianne Moore a mandare a memoria nozioni che hanno fatto la storia recente. Innanzitutto la geografia, per la quale rimandiamo la musa di Haynes alla lettura di Borges. Se l’effetto è quello di un’acuta labirintite, la reviviscenza è a buon punto. In televisione Sarah ha infatti collocato l’Iraq in un fantasioso iperuranio ignoto persino a Platone (vuoi vedere che Atlantide...), ha coniato un’America a 57 stati, si è opposta con tutte le sue forze all’idea strampalata che l’Africa sia un continente e ha rivelato all’umanità basita un retroscena che nemmeno Wikileaks: il vero alleato di Washington è la Corea del Nord. Per meglio intendere il profondo cuore del personaggio, si rimanda poi la Moore a una capatina in Alaska. Da dove, garantisce miss Palin, si gode di un panorama esclusivo: nientemeno che la Madre Russia. Numeri da circo che hanno indotto autorevoli osservatori repubblicani, a chiedere una moratoria per Palin. Un avvilito Ross Douhat ha chiesto dalle colonne del New York Times una separazione consensuale tra la cacciatrice delle alci e le file repubblicane. Dana Milbank si è ripromes-
FICTION sa sul Washington Post di tacere il suo nome per un mese intero. Il notista politico di Fox News, Carl Cameron, ha rivelato che nel 2008 lo staff di McCain era molto preoccupato perché Sarah non aveva «il livello di conoscenze necessario per un candidato».
E alq uanto imbranati, sono stati i tentativi della volitiva madrina del Tea Party di ripulire la sua immagine, ormai stabilmente entrata nella Hall of Fame della redneck, la proverbiale zoticheria a base di armi e intolleranza sudista. Anche in questo caso, Julianne scoprirà quanto la realtà superi la fiction. Uno. Sarah ha dato per morta la senatrice Gabrielle Giffords con tanto di condoglianze su Facebook. Per i più maligni un augurio, visto che su un piantina politica da lei elaborata pochi mesi prima aveva disegnato sulla testa della donna un delizioso mirino. Due. Dopo aver rimproverato Obama per l’uso del gobbo, miss Palin viene pizzicata a un congresso del Tea Pary con degli appunti scritti sul dorso della mano. Rude, ma genuina. Tre. Al debutto come conduttrice di Real American Stories, manda in onda due interviste: una non autorizzata, l’altra taroccata. C’è n’è abbastanza per rimpiangere l’intraprendente guerriera dei ghiacci, quella che calvalcava sul permafrost del confine russo, inguainata in lingerie di foca. Dovè finita l’amazzone che al grido terribile di Refudiate! era capace di lanciarsi contro un cornuto di caribu islamico e di scotennarlo con la sola imposizione dei molari? A Julianne un caloroso in bocca al lupo. Con l’aria che tira, se la ritroverà presto alla Casa Bianca.
La fiction è un riadattamento di “Game Change”, libro di Mark Halperin e John Hellemann che ricostruisce le elezioni presidenziali del 2008 poi vinte da Barack Obama contro John McCain