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Bisogna fare cose folli, ma farle con il massimo della prudenza Henry Millon De Montherlant

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QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 23 MARZO 2011

di Ferdinando Adornato

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Stragi del dittatore a Misurata, Zintan e Yefren: decine di morti. Oggi e domani dibattito alle Camere

Berlusconi soffre con Gheddafi

Obama apre al coordinamento Nato. Parigi: «Polemiche artificiali» Il Cavaliere: «Addolorato per la sorte del raìs». Casini: «Noi invece per quella delle sue vittime». Anche Napolitano chiede il comando dell’Alleanza: ma per ora dominano solo le controversie Stefano Silvestri: come risolvere il contenzioso italo-francese 1 Responsabilità nazionale: se non ora quando…

«C’è una soluzione: fare come in Albania»

Dalla storia del Paese le indicazioni per il futuro

«Comando francese e comitato di direzione paritetico: ecco la soluzione per uscire dall’impasse della guida»

di Francesco D’Onofrio

Luisa Arezzo • pagina 4

La Libia divisa?

Annuncio di Maroni mentre Lampedusa sta scoppiando pagina 5

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Un vaso di coccio tra Sarkozy e il Colonnello

Accordo con le Regioni per 50mila profughi Vertice con gli enti locali sull’emergenza. E intanto, altri seicento immigrati sbarcano nell’isola siciliana

Uno scenario possibile che molti temono: ma non basta dire Tripolitania e Cirenaica. La situazione di oggi somiglia di più alla Spagna del ‘36...

Marco Palombi • pagina 2

di Giancristiano Desiderio

di Maurizio Stefanini

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Il pacifismo (facile facile) del giorno dopo di Riccardo Paradisi

l 1948, il 1936, o il 1991? Ormai, per la Libia è del tutto svanito lo scenario stile 1989, quello che era stato subito evocato sulla spinta dell’ondata di rivolte arabe, e sopratutto dell’iniziale successo dei “rivoluzionari” in Tunisia e Egitto. Quella libica, infatti, non è una Rivoluzione di Velluto come quella dell’allora Cecoslovacchia di Havel: per la verità non lo è stata neanche in Tunisia e Egitto, perché i morti si sono comunque contati a decine. Non è Tienanmen: il regime ha sparato a altezza d’uomo sui dimostranti, ma questi sono riusciti a impadronirsi di varie città, e poi c’è stato mezzo esercito che si è schierato con l’insurrezione. Ma non è neanche la Romania di Ceausescu: lungi dallo scappare per essere acchiappato e fare una fine ingloriosa, il tiranno si è abbarbicato al potere, ha resistito, è passato alla controffensiva, e rischiava pure di vincere, senza l’intervento multinazionale.

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Incontro con il vescovo di Tunisi, Lahham Maroun

«La primavera araba non è di al Qaeda» «In Tunisia la situazione si sta assestando. I problemi potrebbero nascere in Libia. Se la crisi non si risolverà in fretta, possono tornare i fantasmi dell’anticolonialismo, un argomento sul quale i libici sono molto sensibili e che il regime e gli estremisti cercheranno di sfruttare con abilità. Se andrà così, la Libia rischia di diventare un nuovo Iraq»

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Osvaldo Baldacci • pagina 10 EURO 1,00 (10,00

CON I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

56 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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la crisi libica

Esecutivo ancora in ordine sparso: nessuna chiarificazione tra Pdl e Lega. Oggi discussione in Senato, domani alla Camera

Simpatia per il diavolo

Berlusconi: «Addolorato per il raìs». Casini: «Noi per le vittime». Maroni: «Accordo con le Regioni per gestire 50mila migranti» di Marco Palombi uando si allontana dal territorio protetto dello Stivale, senza i suoi media, il suo partito, la sua claque, Berlusconi pare subito quello che è: un vaso di coccio in mezzo a parecchi vasi di materiali assai più duri. Nel retropalco della guerra contro Gheddafi - laddove Usa, Francia, Inghilterra e altri combattono per la guida della coalizione militare e per le sfere di influenza nel dopoguerra al nostro premier pare non concessa neanche l’entrata. Come si sa, l’ipotesi a cui ora si appella l’esecutivo è il passaggio del comando sulle operazioni alla Nato: proposta legittima, forse persino sensata, ma magari da avanzare prima di accodarsi silenti alla scia dei Mirage di Sarkozy.

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Quanto la situazione sia complessa e veda esclusa l’Italia lo dice - nonostante una presa di posizione di Stati Uniti, Turchia e Canada sul ruolo dell’Alleanza atlantica a noi congeniale - tanto la sprezzante risposta di Parigi sulle “polemiche artificiali”quanto la sparata britannica sul fatto che l’invasione di terra “non si può escludere del tutto”. Insomma, la

coalizione procede in ordine sparso, non ha chiaro l’obiettivo finale (cacciare Gheddafi o limitarsi a fermare gli attacchi ai civili), né come realizzarlo: il problema è che lo fa quasi sempre partendo dalle nostre basi, che l’Italia è la linea del fronte di questo intervento e che sconta le divisioni dentro al suo governo. In soldoni la Lega non vuole l’attacco, i Responsabili neanche, il Pdl sembra di sì, ma più che altro ci è stato trascinato e i ministri - il che è più gra-

ve - sostengono cose diverse a distanza di una mezza giornata: per La Russa, ad esempio, non abbiamo contatti coi ribelli libici e se ce li abbiamo sono “puramente tecnici”, mentre secondo Frattini li sentiamo ogni tre per due, per non parlare del fatto che secondo il presidente del Consiglio i nostri aerei da guerra “non sparano e non spareranno”sulla Libia, su cui cieli evidentemente si recano per innocenti esibizioni di bravura. Forse è questa la sua

posizione quando parla al telefono con l’amico Putin, secondo cui noi stiamo inaugurando una nuova “crociata”.

La confusione psicologica dell’esecutivo di fronte ai raid che partono dalle nostre basi contro un tizio che ancora qualche mese fa campeggiava nei nostri più bei giardini è plasticamente rappresentata dalle parole sfuggite a Berlusconi in un rilassato dopocena lunedì sera a Torino: «Sono addolorato per Gheddafi Sembra essersi «ricomposta» la spaccatura che si era aperta lunedì tra l’«interventista» Ignazio La Russa e l’«attendista» Franco Frattini. In realtà, le divisioni nel governo sull’intervento in Libia saranno al centro dei dibattiti che animeranno, oggi e domani, il Senato e la Camera

e mi dispiace. Quello che accade in Libia mi colpisce personalmente», ha sostenuto il nostro, che è il presidente del Consiglio di uno dei Paesi che bombardano il raìs ma non riesce a smettere di ricordarlo come il simpatico leader bizzarramente vestito con cui ha passato delle piacevoli serate e che gli ha insegnato quella bella barzelletta sul bunga bunga. Questo sospiro d’amore dal sen fuggito ha però indignato le opposizioni: «Affronteremo con senso dello Stato il dibattito parlamentare, ma una cosa deve essere chiara - ha scandito Casini - Siamo addolorati per le migliaia di donne e di uomini assassinati da Gheddafi e dai suoi scherani, non certo per la sorte del leader libico. Tra il carnefice e le vittime non abbiamo dubbi da che parte stare». Bersani invece ha parlato di «indecorosa nostalgia che aggiunge una nota di confusione e discredito nella posizione del governo italiano e appare illeggibile agli occhi dell’Europa e del mondo». Difficile dare torto ad entrambi, come pure ad Italia dei Valori sull’imbarazzo di cui è preda palazzo Chigi: governo e maggioranza, ha spiegato il dipietrista Borghesi, hanno rifiutato la diretta tv per il di-


Interesse del premier e interesse nazionale

Dov’erano alla firma del trattato di amicizia?

Un vaso di coccio tra Sarkozy e Gheddafi

Strada, Vendola e il pacifismo del giorno dopo

di Giancristiano Desiderio

di Riccardo Paradisi

l capo del governo italiano si dice «addolorato» per Gheddafi e quanto sta avvenendo in Libia: si può pensare che quello stesso governo possa avere il comando della coalizione alleata per far sloggiare finalmente Gheddafi? La posizione scomoda nella quale si è venuta a trovare l’Italia, in pieno Mediterraneo, quindi a casa sua, è tutta racchiusa nella frase di Berlusconi. Tra il Cavaliere e il Colonnello - è inutile, vano, impossibile nasconderlo - c’è stato un rapporto che è andato al di là della storica realpolitik italiana. Ciò che al nostro Paese ha fatto velo nella crisi di Tripoli è proprio la “amicizia”tra i due Paesi come si è venuta determinando negli ultimi tempi berlusconiani. Oggi il prezzo di questa “amicizia”la stiamo pagando a livello europeo e internazionale.

ichi Vendola infine s’è pronunciato per il non intervento in Libia. Non deve essere stato facile per lui che dell’interventismo verbale ha fatto un segno personale d’identificazione e di riconoscimento, questo attendismo riflessivo. Tanto più che il suo silenzio s’è rivelato gravido d’un sofferto e irriducibile pacifismo reso esplicito dal leader di Sinistra e libertà dopo l’annuncio dell’impiego dei nostri tornado sulle aree d’operazione in Libia.

I

L’Italia si trova in un conflitto dal quale non poteva proprio esimersi per tante ragioni: non ultima, come ben sappiamo, la nostra posizione geopolitica nel Mediterraneo. Tuttavia, l’unica cosa che il nostro governo avrebbe dovuto fare con convinzione e con determinazione, proprio in ragione della sua posizione, non è stata fatta. L’Italia avrebbe dovuto chiedere con forza una conferenza internazionale sullo stato della Libia e dell’Africa del Nord e ne avrebbe dovuto rivendicare la presidenza. Ma questa strada non è stata esperita se non in modo fiacco e rassegnato. Così la nostra posizione a rimorchio della Francia ma poteva esserci anche un altro Paese - è purtroppo nelle cose stesse. Gli altri hanno iniziative che perseguono con maggiore convinzione e autorevolezza. L’Italia è un vaso di coccio tra vasi di ferro. Non è un giudizio di valore sull’operato del governo. È una banale constatazione. La richiesta di passare alla Nato il comando della coalizione alleata che gode della legittimazione Onu è ragionevole. Il presidente della Repubblica - che è capo delle forze armate, è bene non dimenticarlo - ha avanzato la stessa richiesta del governo è l’ha considerata opportuna e appropriata. Può darsi che alla fine il comando dell’intervento in Libia passi effettivamente alla Nato. Questo può dare un sollievo al nostro Paese e al governo Berlusconi. Non risolve, però, quanto si è rivelato con questa crisi libica: il governo è riuscito a trasformare i nostri interessi nazionali in Libia in un punto di debolezza. Proprio i nostri interessi, che si inseriscono all’interno di una storia ormai lunga un secolo, avrebbero dovuto garantire per l’Italia al cospetto dell’Europa e del mondo. È accaduto il contrario: i nostri interessi ci hanno indebolito o il modo in cui abbiamo pensato di tutelarli ci ha reso poco autorevoli agli occhi degli altri Stati. Fino al punto che la crisi libica, mal governata sul piano internazionale, è diventata occasione appetibile per gli altri Paesi - prima di tutto la Francia - per estrometterci e rimpiazzarci. La cosa è sgradevole. La cosa può non piacere. Ma la cosa è esattamente questa. Non possiamo del resto pensare che siano gli altri a tutelare il nostro interesse nazionale. Il nostro Paese - dunque non solo il governo: è bene dire le cose fino in fondo - si attarda spesso su questioni di carattere umanitario, lasciando in secondo o terzo piano quell’interesse nazionale che non solo è legittimo ma è anche il presupposto per meglio difendere i diritti umani. Abbiamo una grande difficoltà a chiamare le cose con il loro nome. Se dal principio avessimo detto a chiare lettere che quanto accadeva in Libia ci riguardava in modo diretto e ci toccava e tirava in causa senz’altro più di altri Paesi europei, adesso non saremmo qui con il fiatone a rincorrere i francesi. Il comando dell’intervento alleato potrà passare alla Nato ed è giusto che ciò avvenga. Ma non sarà il passaggio delle consegne del comando militare a risolvere i problemi che abbiamo in politica estera e mediterranea.

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Gino Strada non aveva atteso gli ulteriori sviluppi della crisi mediterranea per dire no all’intervento e prima ancora che le bombe francesi deflagrassero sulle postazioni libiche aveva già espresso la sua maledizione verso ogni conflitto. Anatema che il capo di Emergency ha ribadito sul palco dell’Ambra Jovinelli in una serata dedicata all’abolizione della guerra. Vasto programma avrebbe detto Charles de Gaulle ma si sa che i riformatori del mondo hanno orizzonti larghi su cui navigare. «Che la guerra sia umanitaria – sentenzia Strada – è la più grande bestemmia mai sentita». L’intento di Emergency è di «riuscire a costringere la maggior parte delle persone ad assorbire “pensieri alti” e non le ”cretinate del presidente del consiglio». Ancora: «L’abolizione della guerra si ha con il disarmo nucleare, ma la battaglia deve attraversare le coscienze dei cittadini, non sarà certo un regalo della classe politica». Ha dato il suo contributo al dibattito anche Fiorella Mannoia: «Per garantire i diritti si è perso tempo, si doveva intervenire prima e senza armi». Lo scrittore Erri De Luca ha raccontato alcuni suoi desideri: «Vorrei che l’Italia fosse rappresentata dagli sforzi di accoglienza e non da respingimenti, dalla buona volontà dei suoi volontari di pace e non da piste da cui decollano bombardieri». Desideri, ”Pensieri alti” direbbe Gino Strada, che però eludono di rispondere a una domanda terra terra magari, ma su cui è almeno possibile imbastire un ragionamento. La domanda è questa: dove erano in generale i pacifisti e in particolare Gino Strada e Nichi Vendola quando i venti di guerra soffiavano già in Libia durante la repressione di Gheddafi? E dove erano quando l’Italia siglava rapporti d’amicizia con la Libia? Il momento di protestare, di opporre le ragioni del diritto e della pace erano prima, adesso le parole di Vendola, le invettive di Strada, le eventuali manifestazioni che verranno organizzate sono il materiale di costruzione d’una coreografia di cartapesta che è il pacifismo del giorno dopo. Strumentale magari a ridar fiato alla sinistra antagonista o argomenti utili all’opposizione massimalista contro il governo da un lato e contro la sinistra riformista dall’altro, ma che si configura per quello che è: come un misto di infantilismo e di senilità politica. l’infantilsimo è dovuto al muoversi sempre in punta di principio, senza declinare mai un pensiero senza, ricostruire storicamente il percorso d’una presa di posizione, senza mai la capacità di inquadrare il contesto in cui si esprime. Così da assomigliare a quei pacifisti che in buona fede marciavano contro i missili a Comiso prestandosi ad essere gli utili idioti dell’Unione sovietica. Ma c’è anche un astuzia senile in queste prese di posizione: quella di chi cerca una rendita di posizione purché sia. Insomma il pacifismo senza politica, senza storia e senza geografia resta semplicemente una retorica, qualcosa di inutile nel migliore dei casi di pericoloso nei peggiori. Del resto se anche i padri della Chiesa hanno consumato energia e pensiero a ragionare di guerra, non potendo alla fine escluderla in modo assoluto, qualcosa vorrà pur dire. A meno che naturalmente Tommaso d’Aquino o Sant’Agostino non abbiano qualcosa da imparare in merito da Gino Strada. Il che è possibile anche se noi ci permettiamo di dubitarne.

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battito nell’aula della Camera che si terrà domattina (oggi pomeriggio in Senato), scelta inaudita quando si deve spiegare al Paese quale sia la nostra posizione in una guerra che avviene alle porte di casa. La confusione regna sovrana, seconda solo alla voglia di mettere la polvere sotto il tappeto: mentre andiamo in stampa non è ancora chiaro (si stanno tenendo gli incontri dei gruppi) se il premier parlerà alle Camere o lo lascerà fare ai ministri, se si riuscirà a mettere insieme una risoluzione bipartisan e nemmeno se la maggioranza riuscirà a presentarne una unitaria. «La Lega detta le condizioni», titolava infatti ieri La Padania, e un paio sono contemporaneamente difficili da digerire e impossibili da realizzare: il Carroccio chiede, ad esempio, il mantenimento in vigore del Trattato di amicizia italo-libico e relativo partenariato energetico (ma allora dovremmo anche vietare l’uso delle basi “per azioni ostili”) e poi che il blocco navale gestito dalla Nato serva anche a fermare i barconi dei clandestini per sceverare - non si sa come - il grano (rifugiati) dal loglio (clandestini).

A proposito dei migranti che ancora continuano ad arrivare sulle nostre coste - ma finora non dalla Libia - ieri il ministro dell’Interno Maroni è riuscito a strappare un accordo con le regioni per alleviare la pressione demografica che sta devastando Lampedusa e i Centri di identificazione ed espulsione di tutta Italia: in sostanza il Viminale sta elaborando un piano di accoglienza per 50mila immigrati (a oggi ne sono arrivati poco più di 15mila) da distribuire su tutto il territorio nazionale. «È un numero massimo del tutto realistico», ha spiegato ieri, e il criterio di distribuzione sarà all’ingrosso proporzionale rispetto agli abitanti. Quanto ai soldi per finanziarlo, ha detto Maroni, verranno presi dal fondo della Protezione civile recentemente rifinanziato per gestire l’emergenza umanitaria. Quanto invece ai profughi ideologici vanno segnalate le pubbliche rampogne dell’euroverde (ed ex leader sessantottino) Cohn Bendit a Vendola per il suo no all’intervento militare con annessa controreplica dell’ex verde italiano, oggi Sel, Paolo Cento: Dany il rosso «s’è messo l’elmetto di Sarkozy». Com’è ovvio non è questo l’unico rumore di fondo attorno al conflitto in Libia: il presidente Zaia, per dire, sostiene che in Veneto accoglierà i profughi e non i clandestini - ma non è chiaro se sappia come si distinguono - mentre la ministro Brambilla ha assicurato che «metterà in campo» interventi di promozione turistica per «la splendida isola» di Lampedusa. Parlava nella splendida cornice di palazzo Chigi.


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la crisi libica

Il presidente dell’Istituto Affari Internazionali ci racconta le possibili soluzioni al contenzioso italo-francese

Ipotesi di comando

Anche Napolitano chiede la leadership dell’Alleanza. Obama da Istanbul dice che è possibile, ma le polemiche restano. Stefano Silvestri propone una soluzione: «Il modello-Albania: una guida unica e una cabina di regia di tutti» di Maurizio Stefanini entre a Bruxelles si discute su un possibile passaggio del comando delle operazioni alla Nato, il presidente Barack Obama apre a questa possibilità. Oggi però il suo rientro a Washington (dopo un lungo viaggio in Sudamerica), non sarà facile. Lo attende un Congresso (e un’opinione pubblica) sempre più contrario all’intervento. E ieri lo stesso segretario alla Difesa, Robert Gates, si è detto pronto al passaggio di comando non appena tutte le difese aeree del Colonnello verranno distrutte. Per ora chi decide ufficialmente sul campo è il generale americano Carter Ham, capo del comando Africom, da Stoccarda, in Germania. Domani non si sa. Ieri però, per la prima volta, la Turchia si è dimostrata disponibile a parlare di una missione in Libia a guida Nato. L’apertura diplomatica è figlia di un colloquio diretto fra Obama ed Erdogan. Ma ancora non ci sono sviluppi. Sem-

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pre ieri, il Segretario generale della Nato, Rasmussen, ha annunciato che l’Alleanza è pronta «a lanciare un’operazione per far rispettare l’embrago delle armi contro la Libia e ha aperto sia alla possibilità di un blocco navale che a quello del controllo della no fly zone. L’esigenza di un comando unificato a guida Nato è ieri stata sottolineata anche dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha ribadito che «la Nato rappresenta la soluzione di gran lunga più appropriata». Su questo non ci sono dubbi, ma è un dato di fatto che le incognite al riguardo siano molte. Ne abbiamo parlato con Stefano Silvestri, presidente dello Iai. Professor Silvestri, Nato sì o Nato no. Cosa sta succedendo? Per il momento questo comando continua ad essere esercitato, a livello di coordinamento, dagli americani. E francamente, a dispetto delle varie dichiarazioni, ancora non si capisce

se si andrà avanti ognuno per sé, quindi con una serie di comandi nazionali, o se avremo un comando congiunto. Lo scenario dell’andare avanti ognuno per sé è già avvenuto in passato, nella famosa spedizione a Beirut, sotto il comando di Angioni, però non finì molto bene. E i vari paesi alla fine se ne andarono ognuno per conto loro. Ieri anche il Presidente Napolitano è sceso in campo a sostegno di una missione a guida Nato, di-

Se la Libia fosse stata un po’ più forte, questa missione non sarebbe partita

cendo che sarebbe «la soluzione migliore». E dopo tanti tentennamenti anche la Turchia, grazie alla mediazione statunitense, sembra aprire a questa possibilità. L’idea della Nato avanzata dall’Italia è un’idea molto logica che però si trova di fronte due problemi: il primo riguarda la Turchia, che non la vuole o meglio, la vuole solo a condizione di poter avere voce in capitolo su tutti gli obiettivi, e questo

evidentemente, vista la posizione assunta da Istanbul, genera parecchi problemi che dovranno essere risolti. Non bisogna poi dimenticare la riluttanza della Germania e soprattutto degli Stati Uniti, che vorrebbero ridurre al massimo la loro partecipazione. È chiaro infatti che se la missione fosse gestita dalla Nato gli Usa sarebbero costretti a mettere a disposizione molte più risorse. Ciò detto, al momento la regia di Odissey Dawn è ancora totalmente americana. È vero però che Obama continua a paventare l’ipotesi di una veloce uscita di scena. Che tempi prevede? Non è chiaro. Si capirà soltanto quando diranno: «Noi ci sfiliamo». Per il momento sono gentili e non lo fanno. Anche perché per Obama potrebbe essere molto pericoloso. Nelle scuole di guerra si insegna che l’unità di comando è condizione necessaria per conseguire


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I contrasti sulla guerra e sulla pace, sull’integrazione e sul processo di globalizzazione

Responsabilità nazionale: se non ora quando? Senza l’idea di Italia, la politica estera non può che annaspare. Le divergenze minano la nostra centralità mediterranea di Francesco D’Onofrio l succedersi di dichiarazioni non solo italiane sulla vicenda che gli Stati Uniti hanno denominato “Odissea all’alba”rende in qualche modo difficile il districarsi tra le questioni di più immediato rilievo politico ed elettorale nazionale da un lato, e le questioni - più generali ma non meno rilevanti delle prime - concernenti il rapporto tra politica estera e governo nazionale dall’altro. Non si tratta dell’affermazione spesso ripetuta di una sorta di necessità per così dire bipartisan della politica estera medesima, quanto del fatto specifico che la politica estera richiede per definizione una decisione politica complessiva che incide su aspetti essenziali della politica militare e della politica economico-sociale del governo di un qualunque Paese. Si è più volte rilevato che, a partire almeno dal ’94, siamo vissuti in Italia nel contesto di una sorta di bipolarismo elettorale caratterizzato proprio dal fatto che la conquista della maggioranza parlamentare ha rappresentato la ragione strategica di fondo dello stare insieme davanti agli elettori anche a scapito della pur necessaria coerenza tra politica interna e politica estera. Occorre invece riflettere molto a fondo proprio sulle ragioni costitutive di una alleanza politica di governo, rispetto alle ragioni - anche esse costitutive - di un cartello elettorale caratterizzato proprio da accettate anche se sottostimate divergenze delle politiche estere dei diversi soggetti politici che danno vita ad un cartello elettorale. Una alleanza politica deve infatti dimostrare nei fatti una sostanziale convergenza tra le politiche estere anche se non del tutto coincidenti dei diversi soggetti politici che danno vita ad un comune governo nazionale, in modo che la politica estera complessiva del governo finisce con l’essere parte essenziale dell’intesa politica di fondo che dà vita ad un governo politico e non solo ad un cartello elettorale. La vicenda in corso per quel che concerne il rapporto tra le Nazioni Unite e la Libia testimonia ancora una volta che è proprio dal 1994 che non si può più constatare una ragionevole convergenza tra la politica estera da un lato e il governo nazionale dall’altro.

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ritamente bipolari in senso politico e le conseguenze delle divergenze medesime sulla legittimità stessa e sulla stabilità politica dei governi di volta in volta considerate. Al fondo infatti quel che è stata ogni volta in gioco ed è in gioco anche oggi è proprio l’idea di Italia - militarmente ed economicamente considerata - posta a fondamento della politica estera medesima. Le divergenze radicali sul tema di guerra e pace da un lato; le divergenze sul se e sul quanto di liberismo e di socialismo dall’altro; il modo di comportarsi non solo rispetto al processo di integrazione europea ma anche e soprattutto rispetto al processo di globalizzazione in atto hanno infatti costituito in passato e costituiscono oggi la ragione di fondo della constatazione della divergenza fra la politica estera del governo in carica al momento delle decisioni più rilevanti di politica estera e le ragioni di fondo che hanno concorso a dar vita proprio a cartelli elettorali e non ad accordi politici. L’idea di Italia dunque è al fondo della questione sia in riferimento alla considerazione storica e culturale che viene data al processo di riunificazione nazionale (vi è o no continuità tra la proclamazione del Regno d’Italia avvenuta il 17 marzo 1861, la Costituzione repubblicana vigente e il processo non ancora sufficientemente definito della trasformazione federale dell’Italia tutta?), sia al rapporto tra unificazione europea da un lato e centralità mediterranea dell’Italia dall’altro, sia infine al rapporto tra interesse nazionale italiano e processo di globalizzazione in atto.

Le prossime decisioni di Montecitorio o Palazzo Madama dovranno tener conto di questi nodi

Se per altro si può rilevare questa sostanziale continuità è necessario riflettere sulle ragioni specifiche che hanno di volta in volta fatto registrare una sostanziale divergenza tra la politica estera del governo espresso dai due cartelli elettorali asse-

Quel che è accaduto sul finire della scorsa settimana nelle deliberazioni delle Commissioni Affari Esteri e Difesa della Camera e del Senato, riunite proprio in riferimento alla partecipazione italiana alle azioni definite nella mozione n. 1973 dell’Onu, attiene pertanto, ancora una volta, alla questione di fondo concernente l’idea di Italia che si pone a fondamento della politica estera del nostro Paese. Le prossime decisioni che sembra debbano essere prese dall’Aula di Montecitorio o di Palazzo Madama dovranno pertanto tener conto di queste questione di fondo.

un obiettivo. Una regola al momento ampiamente disattesa. Sono assolutamente d’accordo. A livello di comando serve una linea politica univoca da cui poi discenda una condotta univoca delle operazioni militari, anche perché se vogliamo mantenere la No fly zone, dobbiamo mantenere in volo una grande quantità di aerei a ritmo continuo e per un tempo anche piuttosto lungo. Questo richiede un minimo di coordinamento e di pianificazione e certamente non una ridda di messaggi confusi in cui uno dice: «io combatto» e l’altro risponde: «io invece no». Quali sono le alternative alla gestione Nato? La prima è quella di un comando europeo che dovrebbe ottenere gli assets dalla Nato, visto che uno Stato maggiore della Ue non esiste. Questa strada potrebbe essere perseguibile, ma solo se la Turchia avallasse la missione e finora non sembra aver abbracciato la causa con convinzione, anzi: ha sempre detto di no. A causa della questione irrisolta di Cipro e a causa della sempre più procastinata adesione all’Unione. Si sta esplorando anche la via di una cabina di regia politica... Si può fare, certo. Anzi è già stato fatto all’epoca dell’Operazione Alba nel 1997. Questa ipotesi prevede che si stabilisca un comando, che può essere inglese, francese, italiano e comunque allargato ad altri paesi, ma soprattutto un comitato politico formato dai rappresentanti dei vari paesi che prendono parte alla missione e da cui questo comando dovrebbe dipendere. E come funzionerebbe di fatto? Il comando politico manderebbe le istruzioni a quello militare, che dunque non farebbe riferimento al paese di cui è espressione ma risponderebbe solo a questo comando internazionale. Questa sarebbe una soluzione ad hoc e si potrebbe effettivamente fare. Un’altra via è quella limitata all’Unione Europea. Ovvero un’operazione europea comune con un comando nazionale - un modello che è già operativo per la missione contro la pirateria al largo della Somalia. In questo caso però il comando politico spetta all’Alto Rappresentante per la politica estera delInl’Unione. somma, se volessimo far comandare l’operazione da Chaterine Ashton, questa è un’altra ipotesi che potremmo immaginare. Al di fuori

di queste opzioni ci sta solo “l’ognun per sé e Dio per tutti” che è, evidentemente, lo scenario più pericoloso. Al momento, però, nessuna di queste ipotesi sembra essere perseguita in modo particolare, mi sbaglio? No, al momento direi che siamo solo davanti a delle ripicche. Questo è gravissimo. Anche perché se la Libia fosse, sotto il profilo militare, messa un pochino meglio, potremmo essere in guai davvero seri... Se la Libia fosse stata messa militarmente meglio questa missione probabilmente non sarebbe mai stata avallata. Stiamo effettivamente approfittando del fatto che è messa male. A fronte delle difficoltà di trovare un accordo a Bruxelles sul passaggio alla Nato di Odissey Dawn, fonti di Downing Street hanno ipotizzato la possibilità di una struttura ibrida, in cui la Nato usi parte delle sue strutture di comando e controllo ma non assuma la guida dell’operazione. Insomma, il modello Afghanistan, in cui il comando spetta all’Isaf e non all’Alleanza. Non le sembra una soluzione che potrebbe mettere tutti d’accordo? Assolutamente sì, è una strada perseguibile, è solo che secondo me nessuno al momento vuole trovare un accordo. Questo evidentemente mette a rischio non solo l’esito dell’intera missione, ma anche la vita dei militari. L’incidente all’F15 americano potrebbe anche essere figlio di difficoltà operative... In una situazione in cui i comandi sono spearati ogni operazione diventa più complicata perché le comunicazioni passano prima attraverso il vertice nazionale, poi devono essere comunicate agli altri Stati e infine ritornare all’operatore. Così facendo, evidentemente, si perde tempo e questa è una minaccia nel caso in cui si debba invece operare in modo combinato. L’ipotesi che sia la Francia a guidare l’intera missione, ipotesi fortemente inseguita dall’Eliseo,come la vede? Ma potrebbe anche andare bene che fosse la Francia a guidare le operazioni, a condizione che ci sia anche un comitato politico paritetico. Il problema, insomma, è il referente politico. Ciò detto, sarebbe naturale che fosse la Nato a tirare le fila... Certo, ma non è detto che sia la soluzione migliore. La Nato però può essere adattata a questa situazione, con una coalizione ad hoc all’interno della Nato e collegata con l’Alleanza.


la crisi libica

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Il rimorchiatore torna a Tripoli

Ieri mattina, nuova missione italiana

Aerei del Qatar senza carburante

TRIPOLI. Ieri mattina (alle 8.30

TRAPANI. È durata poco meno

BRUXELLES. Tre aerei militari

italiane) il rimorchiatore Asso Ventidue ha ormeggiato nel porto di Tripoli. L’equipaggio è stato autorizzato dai militari libici a bordo - ha chiarito l’armatore - a contattare i familiari e la compagnia. La società Augusta Offshore ha confermato che «tutti i membri dell’equipaggio stanno bene» e precisato che «in questi giorni l’attività di Asso Ventidue si è limitata al monitoraggio delle coste libiche. Ma la vicenda non può considerarsi conclusa». Più tardi la Farnesina ha confermato: la nave è a Tripoli. Il rimorchiatore Asso 22, con a bordo 11 persone, di cui 8 italiani, era stato sequestrato sabato scorso nel porto di Tripoli mentre era diretto verso una piattaforma dell’Eni.

di tre ore la missione dei sei Tornado italiani decollati ieri, dalle undici, dalla base militare di Trapani Birgi che ospita il 37esimo stormo dell’Aeronautica militare. I primi due Tornado, quelli usati per il rifornimento in volo, sono tornati alla base poco dopo mezzogiorno, poi gli altri due e invine verso le 14 e 30 gli ultimi due, tutti Ecr. Il Tornado Ecr è specializzato nella distruzione delle difese aeree grazie ai missili Agm-88 Harm. Lungo quasi 17 metri, per sei metri di altezza, è dotato di missili aria-aria Aim-9L Sidewinter e di un cannone da 27 millimetri. Dalla base militare non è trapelato nulla sulla destinazione che hanno raggiunto i sei velivoli.

del Qatar, che dovevano prendere parte all’operazione Odissey Down contro la Libia, hanno fatto un atterraggio d’emergenza all’aeroporto Larnaca a Cipro. Nicosia, che non ha aderito alla coalizione dei volenterosi, ha inizialmente negato l’atterraggio ai velivoli ma poi ha acconsentito quando i vettori hanno comunicato che erano a corto di carburante. «Siamo stati costretti a dare il permesso all’atterraggio perché avevano poco carburante» ha detto infatti il portavoce dell’hub cipriota, spiegando che «l’aviazione civile, nel rispetto delle norme internazionali, è costretta ad assicurare l’atterraggio per rifornimenti». Dopo il rifornimento, i tre aerei sono ripartiti.

Anche ieri i caccia alleati hanno colpito le postazioni antiaeree libiche. Ma il rais ha lanciato una nuova campagna terrestre

Battaglia intorno a Bengasi

Malgrado il blocco aereo, Gheddafi attacca per indebolire i ribelli di Pierre Chiartano

ROMA. Odissey Dawn, quarto giorno. La crisi di «Gheddafia» si sposta dai cieli di Tripoli alle aule del Parlamento italiano. E intorno a Bengasi si combatte ancora. Se le operazioni della coalizione nei prossimi giorni caleranno d’intensità, non sarà così per le polemiche politiche. «Nato sì, Nato no» è ciò che interessa l’Italia, impegnata in una particolare battaglia sui tavoli internazionali. Limitare i danni, già consistenti, di una cattiva gestione della crisi nordafricana. Ora emerge una tardiva diatriba con Parigi, per il protagonismo del presidente Nicolas Sarkozy, che era già evidente da settimane. Sembra più a vantaggio dei media nazionali che per la consistenza della materia. Il premier italiano auspica che le operazioni passino sotto il comando della Nato, appoggiato anche dal Colle, ma visibilmente l’Alleanza frena, e Barack Obama guarda con “rassegnazione” a Roma e Parigi, mentre tenta di coinvolgere il premier turco. «Non creiamo polemiche artificiali» si chiosava ieri da Parigi. Poi, in serata, il ministro degli Esteri, Alain Juppè, proponeva una «cabina di regia politica» sulle operazioni militari. La Francia non esclude «un contributo» dell’Alleanza atlantica, ma lo considera «un’opzione». Per la Farnesina dovrebbe diventare un obbligo invece, pena una assai poco credibile chiusura delle basi italiane alle forze alleate. Da Parigi arriva poi una precisazione “velenosa”: il coordinamento delle forze della coalizione in Libia, attualmente gestito dagli Usa

Una folla di curiosi, fra cui molti bambini, si è radunata attorno al caccia Usa precipitato in territorio libico. Il comando statunitense ha reso noto che il velivolo ha registrato un’avaria mentre sorvolava il nordest della Libia, aggiungendo che i due membri dell’equipaggio sono riusciti a saltare fuori e a salvarsi «funziona». Anche se ieri in tarda mattinata è giunta la notizia della perdita del primo caccia americano vicino Bengasi. Si tratta di un F-15 Eagle che sarebbe precipitato per un’avaria ai motori. Il cacciabombardiere statunitense con due uomini di equipaggio è caduto durante un raid. I due piloti si sono salvati e uno è stato recuperato dai miliziani ribelli. La notizia è stata confermata dal comando americano di Africom. Dalla base militare di Trapani Birgi, intanto, sono decollati anche ieri gli aerei italiani schierati. Si tratta di sei Tornado e due F-16. A dimostrazione che Roma continua a rispettare il ruolino di marcia delle operazioni e che certe dichiarazioni sono a favore delle telecamere. Mentre a Lampedusa ci sono più immigrati che abitan-

ti, anche se, a onor del vero, gli ultimi sbarchi non provenivano dalla Libia.

In filigrana si legge la difficoltà di un Paese come l’Italia a coniugare la politica estera con quella “personalissima” del premier. È un deragliamento rispetto ai canoni della diplomazia. La politica internazionale non ha un’anima, è fatta d’interessi e di coloro i quali hanno la forza di farli rispettare. Ciò che ci salva dalla legge della giungla è la ricerca di legittimità e di condivisione, specialmente quando ad agire sono democrazie mature. I rapporti personali tra Silvio Berlusconi e Gheddafi come quelli con Putin, nascono e si rafforzano, perché un“dittatore”vede nel premier il tycoon con cui fare affari, anche dopo l’incarico istituzionale. Si mischiano dunque

piani politici e personali. L’Italia anziché intervenire immediatamente, magari con un viaggio lampo di Berlusconi a Tripoli, è stata alla finestra «per non disturbare». E dal Quirinale si è presa la palla al balzo, durante una visita ufficiale. Il comando delle operazioni in Libia affidato alla Nato «rappresenta la soluzione di gran lunga più appropriato». Lo ha affermato il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel corso dell’incontro avuto ieri con l’ex speaker della camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, Nancy Pelosi, ricevuta insieme ad una delegazione bipartisan della stessa Camera e all’ambasciatore Usa in Italia, David Thorne. Il Colle spera che con gli sbarchi a Lampedusa non arrivi anche la “conflittualità” libica ad avvelenare un clima politico già incandescen-

te. Vedremo gli esiti della diplomazia quirinalizia nei prossimi giorni. Da noi si è arrivati al parossismo, cercando di capire cosa voglia dire «operazione riuscita» per i nostri Tornado: se abbiano o meno lanciato i missili Amraam anti-radar, che i nostri cacciabombardieri non portano certo a spasso sul Mediterraneo.

Tanto che le dichiarazioni di un “povero” pilota, lunedì, sono state espunte dal vocabolario ufficiale. Fra un po’ i termini «guerra» e «missione compiuta» saranno censurati. L’attività sull’aeroporto Trapani-Birgi anche ieri è stata frenetica, ma c’è da giurarci: solo missioni «di pattugliamento». Intanto le operazioni militari contro la Libia «dovrebbero diminuire di intensità nei prossimi giorni». Lo ha affermato il segretario


la crisi libica Joshka Fischer contro Merkel «L’astensione è sbagliata»

A Tobruk vertice Onu-ribelli

BERLINO. «Un errore scandaloso» che la Germania pagherà rinunciando alla possibilità di un seggio permanente nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Cosi’ l’ex ministro degli Esteri tedesco Joshka Fischer ha commentato sulla Sueddeutsche Zeitung la scelta del governo di Berlino di astenersi in sede di voto all’Onu sulla risoluzione per dare il via libera alla no-fly zone sulla Libia. La Germania, che occupa un seggio non permanente nell’esecutivo Onu, si batte da lungo tempo per accedere ad una rappresentanza permanente. L’esponente ecologista, ministro degli Esteri tra il 1998 ed il 2005, dichiara di non comprendere la decisione di Guido Westerwelle, convinto sostenitore della rivoluzione in Egitto e che ha anche chiesto l’allontanamento di Muhammar Gheddafi dal potere. «Questo non può

della Difesa Usa, Robert Gates, a Mosca, dove ieri ha incontrato la sua controparte, Anatoly Serdyukov, a cui ha assicurato che «molti degli obiettivi dei raid si trovano in località isolate» e che la coalizione «sta facendo il possibile» per evitare vittime civili. La Russia, da domenica, chiede la fine delle operazioni militari «indiscriminate», e il premier,Vladimir Putin, subito contraddetto dal suo presidente, Dmitry Medvedev, era arrivato a definire l’intervento come una «crociata». Intanto la Nato si muove, almeno sul mare.

L’Alleanza ha infatti deciso di affidare alla sua flotta navale il compito di far rispettare l’embargo sulle armi alla Libia, previsto dalla risoluzione 1973 del consiglio di Sicurezza dell’Onu. Conclusa, per il momento, anche la vicenda del rimorchiatore italiano Asso 22, sequestrato da militari libici. Ieri mattina ha ormeggiato nel porto di Tripoli e l’equipaggio è stato a contattare familiari e compagnia. Gli 11 membri d’equipaggio di cui 8 italiani starebbero bene. Per vedere degli effetti definitivi della missione della coalizione bisognerà aspettare ancora. Infatti ieri i ribelli libici hanno chiesto un rapido cessate il fuoco e la fine dell’assedio delle forze di Gheddafi alle città. Misurata ha subito un altro bombardamento da parte delle forze di Tripoli. A dimostrazione che la morsa dei lealisti è ancora forte. Lo ha affermato l’inviato dell’Onu che ieri a Tobruk ha incontrato gli oppositori del regime. E Parigi con Juppé fa sponda, affermando che l’operazione militare potrebbe interrompersi «in qualsiasi momento», se il colonnello rispettasse la rosoluzione 1973 dell’Onu. E non c’è pace nenache per i giornalisti. Appena giunta la notizia della liberazione dei quattro reporter del New York Times catturati dai lealisti la scorsa settimane, si è saputo di un’altra scomparsa.Tre corrispondenti occidentali sarebbero stati arrestati nei pressi di Tobrouk da militari di Tripoli.

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avere a che fare con una politica estera fondata sui valori o con interessi tedeschi o europei». Per Fischer il comportamento del governo «è una farsa». È «ingenuo pensare che lo stato pià forte e popoloso dell’Ue possa tenersi fuori dall’intervento». L’astensione, aggiunge Fischer, non può essere paragonata a quella della Russia e della Cina, perché questi non hanno usato il veto, mentre la Germania l’avrebbe usato se ne avesse potuto disporre.

NEW YORK. L’inviato delle Nazioni Unite in Libia, Abdel Al Khatib, ha incontrato lunedì, per la prima volta, a Tobruk, i leader dei ribelli che combattono il colonnello Muammar Gheddafi. In questo contesto si è discusso anche dell’accordo, poi raggiunto ieri, in virtù del quale saranno le forze navali della Nato a far rispettare l’embargo delle armi alla Libia previsto dalla risoluzione Onu. La notizia sull’accordo, raggiunto dal Consiglio Nordatlantico, è stata riferita da una fonte diplomatica anonima. Gli ambasciatori dell’Allenza si sono incontrati più volte a Bruxelles per cercare di trovare un compromesso sul tipo di contributo che la Nato potrà dare all’attuazione della risoluzione decisa dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu.

Diario delle operazioni Le operazioni aeree offensive mirano a degradare le capacità militari del Rais

Gli attacchi? Più che in città su basi e aree lontane di Stranamore

La Francia propone una «cabina di regia politica» sulle operazioni militari in Libia

arliamo di guerra, perché guerra è, sia pure camuffata, al solito, da ingerenza umanitaria. E visto che si tratta di guerra, possiamo davvero essere lieti che le forze lealiste di Gheddafi siano così poca cosa da consentire alla confusa e divisa coalizione di condurre risse tra comari ad operazioni in corso. Nelle scuole di guerra si insegna che unità di comando e unità di intenti sono in dispensabili per raggiungere l’obiettivo desiderato, che è un nuovo stato di pace al termine del conflitto. Lo spettacolo indecente al quale stiamo assistendo è terribilmente pericoloso, perché avviene mentre tanti militari stanno mettendo a rischio, giorno e notte, le proprie vite. E, sia detto per inciso, con una guerra in corso le questioni di politica interna devono essere archiviate. E non deve poi importare troppo se la Lega è preoccupata solo della “bomba” immigrazione.

P

La questione di chi comanda non è marginale. All’inizio comandavano gli americani, ma un po’ anche francesi e inglesi. Ora la regia è ancora sostanzialmente americana. La pretesa francese di guidare la coalizione è francamente assurda, tanto più visto che Parigi è rientrata a pieno titolo nella organizzazione militare integrata della Nato. Certo che la Francia può gestire l’intera missione. Come possono farlo diversi altri paesi, Italia inclusa. Non dimentichiamo che nel 1999 la guerra alla Serbia era diretta dai centri di comando italiani/americani e da quelli americani in Germania. Ed Odyssey Dawn è ancora ben poca cosa per quantità di mezzi impiegati, numero di missioni effettuate (anche se oggi una singola sortita è ben più efficace che in passato). Ciò detto, è naturale che sia la Nato a tirare le fila. E se alla Lega araba non va bene, ci pensi lei a risol-

vere la questione libica, o una qualunque delle altre crisi aperte, dallo Yemen al Bahrein alla Siria all’Egitto. Le velleità di grandeur francese sono davvero fuori luogo. Parigi non è Washington e non mette in campo una quantità di mezzi tale da giustificare la richiesta di comandare. Peraltro… questi aspetti andavano risolti prima, non a guerra in corso. Come ha detto il Generale Ham, comandante di Africom, il cambio di comando non è un passaggio di consegne che si risolve con un saluto e una stretta di mano.

Comunque, visto che la guerra sarà tutt’altro che un blitz, c’è tempo per aggiustare il tiro. Sì, sarà una cosa lunga, perché la risoluzione 1973 dà un mandato troppo ristretto alla coalizione. Se si sta alla sua lettera. Ma così non è, perché le operazioni aeree offensive hanno l’evidente scopo di degradare progressivamente le capacità militari di Gheddafi. Lo confermano gli attacchi a centinaia di chilometri in profondità nel territorio libico, su basi e aree dove non c’è alcuno scontro in corso, contro obiettivi che nulla hanno a che fare con la difesa aerea, il comando e controllo o le comunicazioni. Ma non è sufficiente perché, come era ovvio, non è certo la sua striminzita aviazione che avrebbe consentito al Rais di schiacciare la ribellione (salvo poi trovarsi invischiato in una guerriglia senza fine). Per convincere Gheddafi o almeno i suoi comandanti a gettare la spugna ci vuole molto di più e ancor meno pastoie in termini di regole di ingaggio. Ed è logico che le forze di terra di Gheddafi si vadano ad infilare nei centri urbani e usino scudi umani. Forse che dovevano andare avanti e indietro sulle strade nel deserto per farsi massacrare con comodo? Ed è logico che cerchino di usare la superiorità in armi pesanti per conquistare posizioni. Questa è la guerra.


la crisi libica

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RE IDRIS I DI LIBIA, il sovrano che la II guerra mondiale, garantì ameri francesi e britannici: fu deposto da Gheddafi con il colpo di stato nel 19

L’ARRESTO DI OMAR AL-MUKHTAR capo della resistenza antiitaliana negli anni Venti: è l’immagine ostentata da Gheddafi in una delle sue recenti visite a Roma, ospite di Berlusconi

Per capire come può chiudersi la crisi, forse può essere utile guardare indietro. E si scop

Libia la divisione

Cirenaica, Tripolitania, area berbera: il Paese ha storie diverse. Per questo c’è chi pensa per il futuro a una nuova separazione. Ma l’unico modello è la Spagna del ‘36… di Maurizio Stefanini l 1948, il 1936, o il 1991? Ormai, per la Libia è del tutto svanito lo scenario stile 1989: che era stato subito evocato sull’onde delle rivolte arabe, e sopratutto dell’iniziale successo in Tunisia e Egitto. Non è infatti Rivoluzione di Velluto: per la verità non lo è stata neanche in Tunisia e Egitto, perché i morti si sono comunque contati a decine. Non è Tienanmen: il regime ha sparato a altezza d’uomo sui dimostranti, ma questi sono riusciti a impadronirsi di varie città, e poi c’è stato mezzo esercito che si è schierato con l’insurrezione. Ma non è neanche la Romania di Ceausescu: il tiranno stavolta resiste.

I

A quel punto, la costituzione di un governo provvisorio della Rivoluzione a Bengasi ha fatto appunto intravedere uno scenario stile 1948. Il 1948 libico, quando un programma per la spartizione della Libia fu presentato al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. In Cirenai-

ca, infatti, durante la Seconda Guerra Mondiale gli inglesi si erano fortemente appoggiati alla Confraternita Senussita, che dopo aver condotto una lunga guerriglia contro gli italiani aveva visto con la definitiva sconfitta del 1931 una larga parte della sua dirigenza rifugiarsi nell’Egitto, allora sotto il controllo di fatto di Londra. E dall’Egitto avevano poi creato milizie che dal 1940 al 1943 avevano combattuto al fianco degli Alleati, dando anche una mano nell’amministrazione civile. Insomma, Londra aveva promesso formalmente che gli italiani in Cirenaica non sarebbero tornati mai, e che i Senussiti avrebbero avuto un ruolo fondamentale nel futuro governo. D’altra parte, fin dal tempo dei faraoni la Cirenaica era spesso stata nell’orbita dell’Egitto, e la Royal Navy era in particolare interessata a spalleggiare col porto di Tobruk il ruolo già importante del porto di Alessandria. Ma c’era il dubbio, se la più evoluta e ricca Tripolitania avrebbe accettato di stare sotto un potere basato sulla più arretrata Cirenaica. In Tripolitania c’era ancora una forte e influente colonia italiana, senza la quale si pensava che l’economia non avrebbe potuto funzionare. E in Italia le elezioni del 18 aprile spingevano sia gli Usa che l’Urss a fare promesse di mantenimento di almeno una parte delle colonie, in modo da favorire i propri alleati. In Fezzan, inoltre, si erano già piazzati i francesi, che già prima del 1911 avevano sognato di insediarvici per

accorciare le comunicazioni tra Ciad e Algeria. Insomma, il piano era di dare tre amministrazioni fiduciarie: la Cirenaica in protettorato inglese sotto una dinastia affidata al discendente del fondatore della Senussia, Idris; la Tripolitania all’Italia, come d’altronde si sarebbe fatto in Somalia; e il Fezzan alla Francia. Ma c’erano anche forti resistenze, per ottenere un voto decisivo il rappresentate di Haiti fu comprato, ma poi si ubriacò di whisky e sbagliò a votare. E il progetto fu respinto appunto per un voto, spianando la strada al regno unito di Libia sotto dinastia senussita che i tripolitani avrebbero accettato obtorto collo nel 1951: salvo appoggiare nel 1969 il golpe di Gheddafi, di cui appunto ora i cirenaici si sarebbero vendicati.

È uno scenario su cui molti stanno per lo meno ragionando, dunque, quello di una spartizione tra due nuovi Stati per lo meno di fatto, separando la Cirenaica ribelle dalla Tripolitania lealista. Dopo tutto, il 2011 era iniziato proprio con il referendum che ha infine separato il Sudan tra il Nord musulmano e il Sud cristiano e animista, anche se la notizia è poi sparita dalle cronache per la concomitanza dell’ondata di rivolte medioorientali. Ma il fatto è che la frontiera tra le aree gheddafiste e quelle anti-gheddafiste non si limita affatto alla storica soluzione di continuità tra Tripolitania e Cirenaica, e la rivolta si è invece estesa a varie aree tripoli-


La diplomazia italiana secondo Andrea Margelletti

Berlusconi doveva volare a Tripoli

e, dopo icani,

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Avrebbe potuto giocare d’anticipo e tentare una mediazione: così non saremmo stati out di Errico Novi

LA PORTA DELLA LEPTIS MAGNA quella che già nel XV secolo i viaggiatori arabi nei loro appunti descrivevano come una «città fantasma», che il deserto ha però preservato per secoli e secoli

opre che il passato di questo pezzo di Africa è tutt’altro che unitario

e nel destino tane: da Misurata a Zauia, fino all’area berbera del Gebel Nefusa. Nella mancanza di partiti e anche di una vera e propria società civile, cui il regime di Gheddafi non aveva permesso di svilupparsi, hanno così riguadagnato importanza le tribù.Vari giornali si sono lanciati in analisi e spiegazioni sulla mappa tribale della Libia, la defezione di varie tribù è stata addotta a ragione dell’iniziale estendersi della rivolta, il modo in cui Gheddafi ha “ricomprato” vari altri clan è stato visto come una delle ragioni del suo inopinato ritorno sulla scena. E a questo punto il fantasma che si agita è quello della Somalia dopo il 1991: anche dell’Afghanistan dopo il 1989; ma la Somalia come la Libia è Africa, e ex-colonia italiana, ed ha avuto un regime personalista più che ideologico. Sia come in Somalia che come in Afghanistan, comunque, il timore è che dal caos tribale emergano poi gli integralisti, omologhi di Taleban e Shahab.

Tecnicamente, però, il modo in cui la Libia si è divisa tra aree gheddafiste e aree anti-gheddafiste più che gli esempi citati ricorda la Spagna nel 1936, al momento dell’insurrezione militare e delle destre contro il governo repubblicano. Anche qui, è stato un equilibrio spesso fortuito tra simpatie politiche delle popolazioni locali e scelte di singoli ufficiali o reparti a determinare se una particolare città o regione abbia scelto di aderire all’una o all’altra delle due fazioni in lotta. Anche qui, c’è stato il risultato di una mappa ad arcipelago, senza contiguità territoriale tra le due “metà”. Anche qui, l’insurrezione si è dunque subito trasformata in guerra civile, in cui ciascuna delle due parti ha cercato affannosamente di raggiungere questa contiguità territoriale. Anche qui, un vantaggio decisivo in queste offensive e controffensive è stato dato dalla forze aeree: allora la Legione Condor; oggi prima dall’aviazione di Gheddafi, e poi dall’intervento multinazionale. E anche qui,

peraltro, il dibattito tra intervento e non intervento si è trasformato in uno psicodramma internazionale. La differenza è che allora l’inteligentsia politica francese stava con i lealisti, ma non riuscì a influire sul governo. Neanche su quello di Fronte Popolare, di Léon Blum. Mentre oggi sta con gli insorti, ed ha avuto sulle scelte di Sarkozy un impatto decisivo.

L’apparente stallo dovrebbe favorire una divisione del Paese, per lo meno momentanea: tra due distinti governi, di Tripoli e di Bengasi, tra cui si potrebbe raggiungere un cessate il fuoco, per aprire poi trattative.Tra parentesi, questo sarebbe anche uno scenario che permetterebbe all’Italia di recuperare un notevole spazio di manovra, provando a esercitare essa una mediazione decisiva. Il problema è che: uno, bisogna vedere se in questo momento l’Italia è davvero accetta a entrambi i contendenti, o non piuttosto rifiutata sua dai ribelli come amica di Gheddafi che da Gheddafi come “traditrice”. Secondo, Gheddafi sembra assolutamente incapace di ragionare in termini di limitazione del suo potere, quasi più per limite mentale che per strategia ponderata: è quasi come provare a spiegare a un cieco dalla nascita cosa sono i colori. Terzo: proprio questa divisione del territorio a arcipelago rende la divisione scarsamente fattibile sul mero dato tecnico. In soldoni, bisognerebbe lanciare un ultimatum non solo cronologico ma anche territoriale, fissando una linea sul terreno rispetto alla quale i due contendenti dovrebbero posizionarsi. O se no, aiutare i ribelli a raggiungere una linea del genere: addestrando e armando un loro esercito, che dovrebbe poi avanzare dietro copertura aerea multinazionale. Ma a quel punto, tanto varrebbe dare direttamente la spallata finale al raìs. Certo: forse non è questione di quella politica che si sviluppa in qualche settimana, cui i media ci hanno abituati. La Guerra Civile Spagnola durò tre anni.

ROMA. C’è un’attenuante, forse. Che però può essere facilmente convertita in addebito. L’Italia si trova per la prima volta ad assumere una delicatissima iniziativa internazionale senza il rassicurante scudo americano. Da molti, e da questo giornale, si rileva già da qualche giorno l’esito particolarmente infausto del test. Ovvero, si nota come la rinuncia di Washington a un ruolo di guida assoluta dell’intervento in Libia faccia emergere le grandi difficoltà dell’Europa. E dell’Italia in particolare. Che pare in confusione più di tutti. Stretta fra la pregressa amicizia con Gheddafi, i propri interessi e, dall’altra parte, i doveri verso la comunità internazionale. Una prova difficile, certo. Ma appunto di fronte al test il governo italiano si è avvitato in una spirale di contraddizioni insostenibile. Peggior risultato non sarebbe potuto venire. Da soli, non sappiamo decidere. Oppure finiamo per cambiare posizione con una disinvoltura che sconcerta i nostri partner. Si può obiettare: nessuno si trova in una condizione delicata come la nostra.Vero. Ma allora è lecito chiedersi: davvero l’Italia non poteva anticipare gli eventi di queste ultime ore, compreso lo scontro con la Francia sul comando delle operazioni? Non c’è dubbio che l’incrocio di interessi con il regime di Tripoli avrebbe comunque impedito un’azione risoluta come quella di Parigi. Ma allora le particolari relazioni con Gheddafi non potevano essere utilizzate in positivo, piuttosto che subite come un handicap? In ultima analisi il quesito è il seguente: davvero Berlusconi non avrebbe potuto approfittare delle sue relazioni privilegiate per intraprendere una mediazione preventiva con Gheddafi? Avrebbe giocato d’anticipo persino rispetto alla Francia, e non per via militare. Semplicemente attivando un’iniziativa diplomatica a cui era disposta meglio di altri. La comunità internazionale, e gli Stati Uniti innanzitutto, ha spesso interpretato in positivo i nostri rapporti con la Libia proprio perché potenzialmente funzionali a un ruolo di mediazione tra Gheddafi e l’Occidente. Quell’iniziativa che Berlusconi non ha voluto assumere, in realtà, era probabilmente messa nel conto dagli alleati. Vi abbiamo rinunciato in partenza. Il nostro premier non ha voluto “disturbare” l’amico di Tripoli. Salvo vedersi costretto a attaccarlo.

«Se l’Italia avrebbe potuto agire prima e meglio? Ma allora parliamo di un altro Paese». Risponde così, sul punto chiave della questione, il presidente del Centro studi internazionali Andrea Margelletti. A suo giudizio, la spiegazione della nostra iniziale paralisi si trova «in questi ultimi quindici anni di negazione della politica euromediterranea». E più in generale «nella nostra ultracentenaria disattenzione in termini di politica internazionale. Tema che l’Italia da sempre affronta in una maniera che si può definire uterina». Siamo strutturalmente impediti dunque, secondo Margelletti, nell’anticipare gli eventi. «E non è un problema che riguarda solo Berlusconi. Il nodo è nel sistema». In quel sistema che «ci spinge a pensare ad altro. Ci preoccupiamo degli immigrati, delle Amministrative... non abbiamo

«Ci manca una visione, abbiamo sempre altro a cui pensare» tempo per prevenire le conseguenze dei mutamenti epocali». Lo si deduce per esempio dall’ingenuità con cui un partito di governo come la Lega «pretende di imporre a Francia e Inghilterra il rispetto di accordi che abbiamo preso non con loro ma con il regime di Gheddafi». È così: una delle “condizioni” leghiste prevede proprio la sopravvivenza dei contratti petroliferi. «È come se Adenauer avesse preteso da De Gasperi il rispetto degli accordi assunti da Mussolini con Hitler... Il paragone è troppo hard? E allora si provi a immaginare la mafia che a Cuba governava attraverso un suo pupazzo, Batista, e che dopo la rivoluzione cubana si presentava all’Avana, con Santo Trafficante che reclamava la giurisdizione mafiosa sui casino dell’isola». Solo a un governo italiano, insomma, «possono venire in mente cose del genere». Bizzarrie che provano la nostra approssimazione. «Ed ecco perché», ne deduce Margelletti, «se ci interroghiamo sui passi che Berlusconi avrebbe potuto compiere prima, ci inganniamo da soli. Perché quel Paese capace di decidere da solo e in anticipo sui tempi, quel Paese, purtroppo, non è mai stato l’Italia». Preoccupante, ma utile a spiegare la matassa in cui ora siamo impigliati.


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la crisi libica

La testimonianza dell’alto prelato, ieri ospite dell’Udc alla Camera, sulle rivolte arabe e l’operazione contro il Rais

La piazza è democratica Per il vescovo di Tunisi, il palestinese Lahham Elias Maroun, la primavera araba non è di al Qaeda. Ma guarda alla libertà e ai diritti di tutti. E sulla Libia ammonisce: «Attenzione, possono tornare i fantasmi del colonialismo» ttimismo per la Tunisia, attenzione per i rischi dell’operazione internazionale in Libia. Sono molte le cose interessanti sull’attuale situazione in Nord Africa che ha raccontato ieri il vescovo di Tunisi, il palestinese Lahham Elias Maroun, nato ad Haifa e da sei anni nella sede tunisina. Ospite dell’Udc alla Camera ha dato la sua testimonianza a partire dall’osservatorio privilegiato in cui si trova. Senza mancare di ricordare che proprio dalla Tunisia tutto è cominciato, accendendo una miccia che è dilagata in tutto il mondo arabo. «Ero in Giordania quando quel povero ragazzo del sud si è dato fuoco per protesta contro l’umiliazione degli schiaffi della polizia. Tutti pensavano che la cosa sarebbe rimasta confinata al sud, poi che comunque non sarebbe arrivata aTunisi. Quando invece anche la capitale è esplosa, si è capito che la situazione era molto seria e infatti è dilagata ovunque. Anche se nessuno, né in Tunisia né nel mondo, e neanche noi della

O

di Osvaldo Baldacci Chiesa, avevamo previsto quello che stava succedendo». Il vescovo per la Tunisia è molto ottimista, mentre è molto più preoccupato per la situazione in Libia. «L’intervento delle Nazioni unite in Libia può essere pericoloso ha spiegato -. Se in una settimana riescono a rovesciare Gheddafi, bene. Se no, possono tornare i fantasmi dell’anticolonialismo, un argomento sul quale i libici sono molto sensibili e che il regime e gli estremisti cercheranno di sfruttare con abilità. E allora la Libia può diventare un nuovo Iraq». «Non so che risultato avrà l’intervento dell’Occidente, ma è pericoloso - ha ribadito . Approfittate di questo momento di grazia, non rifate l’Iraq. Se Gheddafi riesce a trasformare la rivolta in una guerra contro i crociati, è pericoloso». Intanto ricorda l’impegno della Chiesa: sono tre suore nel campo profughi al confine libico a preparare ogni giorno il cibo per diecimila persone. Perché uno degli aspet-

ti su cui ha insistito mons. Maroun è proprio che oggi la rivolta nel Nord Africa è laica, democratica, pacifica.

Non bisogna correre il rischio di regalarla a forze estremiste. In questo senso l’opinione del vescovo è netta: «Non c’è nessuna regia esterna dietro la rivoluzione che c’è stata in Tunisia. È accaduto che i giovani, spontaneamente, abbiano deciso di

Finché ci saranno Paesi ricchi e poveri, i poveri vorranno andare dai ricchi

reagire contro il regime perché avevano fame di diritti. Ma la gente non è mossa da sentimenti anti-occidentali o integralisti». La scintilla ha acceso un incendio, sostiene Maroun, perché il terreno era più che pronto: «I giovani arabi sono numerosi, colti, hanno studiato all’università, frequentano i nuovi mezzi di comunicazione. E non avevano molte prospettive di futuro, né nel lavoro né nella partecipa-

zione politica. Non potevano più sopportare di stare sotto un tiranno, si facesse chiamare presidente, re o leader. La rivolta ci ha sorpreso, ma i presupposti c’erano tutti. Ed è anche da notare che nei primi due giorni di manifestazioni si parlava di pane e occupazione, ma già dal terzo si è cominciato a invocare diritti umani, giustizia, libertà, democrazia, diritti delle donne. A voi può sembrare strano, ma un fatto clamoroso è stato quando i dimostranti hanno cominciato a gridare i nomi della famiglia Ben Alì chiedendo di andarsene: prima non li pronunciavano neanche, soprattutto quello della moglie del presidente, Laila. Comunque va detto che le manifestazioni sono state del tutto pacifiche: la cattedrale è su via Bouteflika e le ho viste tutte, e non ho visto atti violenti né bandiere occidentali o israeliane date alle fiamme». Monsignor Maroun punta tutto sulla scommessa democratica. Il 25 luglio si voterà per l’Assemblea Costituente e verrà scritta


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Parla il generale Yossi Kuperwasser, direttore del ministero per gli Affari strategici

Si chiama «islamonazionalismo» l’incubo che spaventa Israele Non bisogna scambiare il silenzio sulla crisi libica per attendismo: Netanyahu teme la nascita di un nuovo fenomeno nel mondo arabo di Enrico Singer ttorno al conflitto in Libia ci sono Paesi che si dividono sui raid aerei e su chi deve avere il bastone del comando delle operazioni in nome di interessi di supremazia politica, oggi, e di business domani. Ce ne sono altri che si rimangiano l’appoggio – attivo o passivo che sia stato – offerto alla risoluzione dell’Onu e che riaprono spaccature in blocchi con toni da guerra fredda. C’è chi teme, più di ogni altra cosa, l’invasione dei profughi. Ma c’è un Paese che è lì, a pochi passi dall’occhio del ciclone, che può essere minacciato nella sua stessa esistenza da quanto sta accadendo e che ha scelto una linea di estrema prudenza. È Israele, da dove i commenti sulla “primavera araba”escono con il contagocce e dove il premier, Benjamin Netanyahu, appare ormai deciso a rinviare quell’iniziativa diplomatica che aveva preparato in gran segreto per riprendere il processo di pace con i palestinesi e che voleva lanciare pubblicamente il 22 maggio, durante una visita programmata a Washington. Adesso anche il viaggio negli Usa è in forse e potrebbe slittare in base all’incalzare degli eventi. Ma la prudenza non va confusa con l’incapacità di valutare i fenomeni in atto.

A

conoscimento del diritto di Israele a esistere. «Noi abbiamo già detto che i palestinesi devono avere un loro Stato. Anche tutti quelli che continuano a instillare l’odio contro di noi e a minacciarci di distruzione dovrebbero ammettere che gli israeliani hanno diritto al loro Stato. A partire da Hamas». Il problema fondamentale, insomma, è quello del riconoscimento reciproco. Ma a remare contro questo sbocco, che potrebbe essere favorito dalla “primavera araba”, ci sono mol-

«Non più manovre di palazzo o colpi di Stato, ma rivolte popolari: è questa la vera novità»

Il generale Yossi Kuperwasser non

te forze che cercano di sfruttare il momento di transizione a loro favore.

usa troppi giri di parole. «Dobbiamo smetterla di dire che non sappiamo chi abbiamo di fronte, che non conosciamo le forze in campo. Le conosciamo benissimo: quello che non conosciamo è l’esito della battaglia che, per la prima volta, viene combattuta con strumenti diversi dal passato. Non più manovre di palazzo o colpi di Stato, ma rivolte popolari». Il generale Kuperwasser sa di che cosa parla. È stato direttore della divisione di ricerca dell’intelligence militare e ora è direttore del ministero per gli Affari strategici. Dice che Israele è contento dell’esplosione di voglia di democrazia perché è più facile avere la pace se il potere è nelle mani della gente e non di caste o di raìs: «Fino a che non ci sarà un movimento popolare che vuole la pace, non ci sarà nemmeno la pace». Il problema è che la cultura della pace non si è ancora imposta. «È vero che nelle piazze del Cairo e di Tunisi o nel deserto libico nessuno ha bruciato bandiere a stelle e strisce o con la stella di David, e questo è un fatto senza precedenti, ma è anche vero che nessuno ha detto che bisogna avere migliori rapporti con Israele». L’unità di misura della svolta democratica, per Gerusalemme, è proprio l’atteggiamento che i nuovi governi che sono emersi – e, soprattutto, quelli che emergeranno – dalle rivolte adotteranno nei confronti della questione delle questioni: il ri-

L’Iran è la più agguerrita come ha dimostrato approfittando dell’apparente neutralità del nuovo governo provvisorio del Cairo per ottenere il passaggio nel canale di Suez di due navi da guerra. Non succedeva dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista a Teheran, e questo è un pessimo segno. La tensione sul terreno, insomma, torna altissima. Ma non c’è soltanto il problema del rifornimento delle armi da parte di Teheran ad Hamas. L’Iran sostiene anche i movimenti fondamentalisti che sono presenti in tutti i Paesi investiti dal vento delle rivolte. E l’Occidente, diceYossi Kuperwasser, «vorrebbe vedere delle rivoluzioni democratiche e di rinnovamento, non una rivoluzione islamica». Anche sul ruolo degli Stati Uniti e dell’Europa, Israele ha una posizione definita. «Il mondo libero deve dare tutto l’appoggio possibile a chi lotta per conquistare la democrazia: l’intervento militare può essere utile, ma è più utile aiutare a risolvere i problemi economici per togliere argomenti ai fondamentalisti». Questa è la ricetta del generale Kuperwasser che ha partecipato, a Roma, a un convegno organizzato dall’associazione Summit presieduta da Fiamma Nirenstein, giornalista e vi-

cepresidente della commissione Esteri della Camera. Anche un esperto del mondo islamico come Khaled Fouad Allam è convinto che quello dei partiti religiosi sarà un ruolo-chiave – «almeno per i prossimi vent’anni» – nel nuovo ciclo in cui stanno entrando molti Paesi arabi. Partiti religiosi, però, costretti a modernizzarsi perché il vecchio slogan del radicalismo che propone l’islam come soluzione di tutti i problemi non ha funzionato.

Ancora una volta la situazione dell’Egitto del dopo-Mubarak è esemplare: i Fratelli musulmani sembrano scegliere il modello della Turchia, un «islamonazionalismo» che ognuno, però, vuole più o meno estremizzare come dimostrano le pressioni dell’Iran sui movimenti che Teheran già influenza, primo fra tutti Hamas. Ecco che si torna a quanto sta accadendo nella Striscia di Gaza che, per Israele, è estremamente indicativo dei movimenti in corso, anche se – in apparenza – l’establishment palestinese non è stato ancora investito dalla “primavera araba”. Tra i palestinesi, in realtà, si è aperta – e potrebbe esplodere ben presto – la questione della legittimità della rappresentanza politica. Pinhas Inbari, uno dei più noti analisti israeliani del Jerusalem center for Public affairs, sostiene che Abu Mazen e il suo governo basato a Ramallah si possono associare per molti aspetti ai vecchi regimi di Mubarak o di Ben Ali, mentre Hamas cerca di accreditarsi collegandosi con il movimento dei Fratelli musulmani in Egitto. «Ormai Hamas non guarda più a Ramallah, ma alla frontiera con l’Egitto che vorrebbe aprire per unirsi ai Fratelli musulmani». Pinhas Inbari arriva a ipotizzare che l’obiettivo di Hamas“non è più la Palestina, ma il Califfato». Come dire che c’è anche chi interpreta il nuovo «islamonazionalismo», per usare la formula di Khaled Fouad Allam, come un mosaico di province arabe dove il ruolo della capitale del califfo è conteso dai moderati di Ankara e dai duri di Teheran.

da zero una nuova carta fondamentale. Una grande opportunità, ma anche un rischio, dato che la Tunisia era già il Paese arabo con la Costituzione più laica ed aperta. Però il vescovo è molto ottimista. «Se la svolta democratica riuscirà, sarà il primo vero caso di tutti i Paesi arabi. Ed è possibile, anche perché la spinta è venuta dai giovani, non dai partiti, neanche da quelli di opposizione che erano all’angolo e sono saliti sul treno già in corsa. Ora però i partiti servono e questo sarà un punto fondamentale. Sciolto quello del presidente, ce ne sono diverse decine, ma dovranno passare un duplice vaglio: quello elettorale, ma prima ancora quello della legittimità. Ed è importante che per approvare la costituzione di un partito sono state poste tre condizioni ineludibili: salvaguardare i valori democratici e la libertà, i diritti delle donne, la libertà di culto. Tre cardini che hanno già imposto di non accettare uno dei partiti islamici più fondamentalisti, mentre il partito Ennhada, che ora ha ripreso il suo vecchio nome, ha accettato questi principi».

Certo, il vescovo sulla questione islamica è prudente: «L’islam tunisino è sempre stato moderato e tollerante, e in Tunisia, unico Paese islamico, oggi la libertà di culto è piena e anche quella di coscienza, tanto che è permesso convertirsi. Io stesso battezzo tre o quattro tunisini all’anno. Certo, non sempre la cosa è accettata dalle famiglie, ma legalmente non c’è problema. Oggi poi i sondaggi danno i partiti islamici al 10-12%, quindi in chiara minoranza. Nel gioco democratico va bene così. Ma ci vuole anche un po’ di prudenza: l’esperienza insegna che i partiti islamici cominciano sempre con proclami molto moderati, ma poi dove vogliono davvero arrivare l’hanno ben chiaro in testa. Un rischio che solo una vera democrazia può contenere». Vera democrazia che secondo il vescovo è fondamentale anche per lo sviluppo economico, che insieme alla democrazia, è l’unica chiave per affrontare il tema dell’emigrazione che tanto preoccupa l’Italia. Spiega il vescovo che sul tema è realista: «L’immigrazione è un problema più grande di noi. E finché ci saranno paesi ricchi e paesi poveri, i poveri vorranno andare dai ricchi. Il 90% dei giovani tunisini sogna di andare in Europa. Non c’è un limite che si può porre: verranno da voi tutti quelli che ci riusciranno. Però c’è anche da dire una cosa: l’emigrazione verso l’Europa non è soltanto né soprattutto tunisina. La Tunisia è un Paese di transito, per i disperati che vengono dall’Africa nera. Ma almeno per quanto riguarda i tunisini il ripristino dei diritti umani e politici e lo sviluppo economico sono la migliore spinta per i giovani a restare in patria».


economia

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Il colosso francese scala l’azienda italiana appena risanata da Enrico Bondi: acquisite le quote dei fondi internazionali, ora è al 29% del capitale

Un’opa sull’Italia Le mani di Lectalis su Parmalat sono solo l’ultimo atto di una battaglia che passa per Alitalia, Generali, Edison... di Gianfranco Polillo iochi fatti per Parmalat, almeno a giudicare dagli andamenti di borsa. A metà mattinata il titolo perdeva il 5 per cento, sull’onda della notizia che i tre fondi esteri (Zenit, Skagen e Mackenzie) avevano venduto la loro quota di partecipazione – 15,3 per cento del capitale – a Lactalis, il gruppo multinazionale francese, gigante nel campo della produzione del latte e del formaggio. L’offerta è stata fin troppo ghiotta: 2,8 euro per azione, quando la quotazione massima del titolo non superava i 2,6 euro. Un massimo maturato in ben tre mesi di battaglie fatte di acquisizioni e ricorrendo a sofisticati strumenti finanziari come l’equity swap. Risultato? Una continua crescita che aveva accompagnato il titolo dai 2 euro di gennaio ai massimi di due giorni fa. Poi la dichiarazione di resa, in cambio di ben 750 milioni di euro e l’inevitabile calo che accompagna la cessazione delle ostilità. In campo, oggi, resta solo un’ipotesi, che dire tardiva è essere generosi: l’interesse dimostrato dal gruppo Ferrero, con l’appoggio di Unicredit. Che non si è, tuttavia, concretizzato in alcuna offerta reale. I tre fondi di investimento hanno così deciso di vendere all’unico acquirente possibile. Per concludere il business, hanno messo fine all’Accordo di coordinamento, realizzato il 24 e il 25 gennaio, che aveva consentito loro di predisporre una lista per il consiglio d’amministrazione, piena zeppa di nomi prestigiosi: Massimo Rossi, Rainer Masera ed Enrico Salza. Che tuttavia resterà in campo. Per fare cosa, non è del tutto chiaro. Resta invece della partita Enrico Bondi, il risanatore dell’azienda di Collecchio, con l’appoggio di Banca Intesa, ma è una partita se non disperata, almeno compromessa. An-

G

cora una volta, quindi, l’Italia si è mossa in ordine sparso. Forse qualcuno sperava di ripetere le gesta degli Orazi contro i Curiazi: colpire divisi dopo aver sfiancato gli avversari. Ma quell’episodio fa parte della mitologia non del mondo reale.

La portaerei Lactalis si presenta con un carnet gonfio di azioni. Solo qualche giorno fa poteva vantare una quota pari all’11,4 per cento: di cui il 5 per cento messo in cascina grazie ad un contratto di equity swap. Oggi è a quota 13,7 per cento, grazie agli

acquisti dei giorni precedenti. Se a questa base sommiamo il portato dell’ultima operazione finanziaria, appena conclusa con i fondi di investimento, il controllo sale al 29 per cento. Tutto si può dire, meno che le intenzioni non fossero note. Il gruppo francese aveva comunicato di voler rimanere appena al di sotto della soglia del 30 per cento, per evitare la spada di Damocle dell’Opa – vale a dire l’acquisto di tutto il capitale sociale – obbligatorio, per legge, quando si supera quella fatidica soglia. Come reagire a tanta determinazione? Purtroppo, a differenza della Francia, non abbiamo strumenti giuridici in grado di impedire di perdere gli asset strategici della nostra economia. Giulio Tremonti ha promesso di correre ai ripari. Varerà una legge facendo shopping nelle altre legislazioni. Il rischio, tuttavia, è quello di sempre: che si chiudano le porte quando i buoi sono già fuggiti. All’estero, invece, non si compra uno spillo fuori dal perimetro della decisione politica. Non è un’ipotesi di scuola. Tentativi fatti in Francia o in Germania, non tanto dall’Italia, quanto da altri Paesi finanziariamente più forti sono immediatamente abortiti di fronte al niet governativo. A proteggere i gioielli di famiglia sono robuste disposizioni legislative, ma soprattutto una vigilanza amministrativa che non lascia scampo. Regole non declamate, ma nascoste in prassi collaudate che scoraggiano ogni possibile tentativo. Alla base di tutto – questo è l’elemento più importante che manca in Italia – è un establishment unito nella difesa della casa comune. Non che non vi sia competizione e conflitto, ma le ostilità

La Parlamat, dopo il risantamento portato avanti dal commissario Enrico Bondi (nella foto della pagina a fianco), rischia davvero di passare sotto il controllo della francese Lactalis. Dietro la battaglia tra le due economie italiana e francese c’è anche il finanziere Vincent Bolloré (nella foto sotto) da tempo ai vertici di Generali a Trieste

cessano nel momento in cui Annibale si presenta alle porte.

L’Italia, al contrario, è un po’ come la Polonia, nel secondo conflitto mondiale. Facilmente

A differenza della Francia, non abbiamo strumenti giuridici in grado di impedire di perdere gli asset strategici accessibile per le truppe di occupazione. La indebolisce una cultura fin troppo disarmata di fronte alle mode del momento. Non si dimentichi come abbiamo distrutto Alitalia: la compagnia di bandiera. Il suo peccato originale era la debolezza di un management allevato nella scuola di Ariccia, il centro di formazione della Cgil, più che al Politecnico di Milano. Ma il mito della concorrenza a tutto campo ha fatto il resto. Nelle decine di piccoli aeroporti – altro spreco nazionale – abbiamo aperto alle low cost e al vento

delle liberalizzazioni. Abbiamo così frantumato il mercato interno, con qualche beneficio per il consumatore, ma con il risultato di affossare completamente una grande realtà nazionale, perché incapaci di dotarla di una governance all’altezza dei processi di globalizzazione. E ora Alitalia – più che una profezia una certezza – passerà sotto le ali protettive e non certo disinteressate di Air France. Che, invece, ha mantenuto saldo il suo controllo sul mercato interno. Un punto di forza da cui partire per competere per le grandi rotte internazionali. Alitalia sarà il nuovo gioiello, che si unirà a Parmalat, a Bulgari ad Edison e – chi sa? – forse a Generali e Mediobanca. Mentre già qualcuno parla di dismettere – per fare cassa - le partecipazioni rilevanti in quel che resta della grande svendita degli anni passati: Enel, ENI e Finmeccanica.

Preoccupante è quello che accaduto recentemente in Generali: con Bollorè vice presidente della società e rappresentante degli interessi d’Oltre Alpe, che non vota il bilancio,


economia

23 marzo 2011 • pagina 13

Pil: quasi il doppio italiano. Il suo ritmo di crescita va un po’ meglio – 0,3 nel quarto trimestre, contro lo 0,1 italiano – ma non è certo quello tedesco. Il suo debito pubblico, come abbiamo già detto – tende a eguagliare quello del Bel Paese. Ed allora dov’è la differenza? Nel fatto che questi margini finanziari non sono utilizzati per mantenere un apparato pubblico pletorico ed estremamente costoso, ma per dare corpo ad una politica di potenza che è quella che le cronache ci narrano.

prendendo a pretesto la conduzione di alcuni affari marginali, portati avanti dal Leone di Trieste. Sono stati in molti a leggere, in questa mossa, l’avvio di una nuova battaglia che dovrebbe scompaginare il vertice di Mediobanca, ponendo fine ad una soluzione di compromesso che si trascina da diversi mesi. Se così fosse, sarebbe una sorta di rivoluzione copernicana che investirebbe gli equilibri più complessivi della finanza italiana. Benché ridimensionata nel ruolo, Mediobanca rappresenta, comunque, il crocevia di un assetto più complessivo del capitalismo – o quel che resta – italiano. Senza contare poi RCS: vale a dire la società - anch’essa partecipata al punto da rappresentare una vera e propria cassa di compensazione tra i principali interessi italiani – editrice del Corriere della sera. Mutare quegli equilibri non sarebbe solo un fatto di natura finanziaria, ma inciderebbe direttamente sugli assetti del sistema politico italiano, contribuendo al coronamento di una possibile strategia. È quindi una partita dura quella che si sta concludendo

sul caso Parmalat. Mostra il volto di un Paese – la Francia – decisa a giocare, fino in fondo, le proprie chance. Sotto questa profilo, quanto sta avvenendo in Libia non è un fatto isolato. Conteranno anche le prossime elezioni, che Sarkò vede con paura, ma la classe dirigente del Paese è capace di guardare oltre, proprio per quello spirito colbertiano che da sempre la caratterizza. Sbaglia chi pensa si tratti solo di una riedizione del vecchio spirito della grandeur. Alla base di scelte diverse, ma convergenti, verso un unico obiettivo sono calcoli precisi. Possono essere sbagliati – ce lo diranno i prossimi avvenimenti – ma il rischio è valutato. C’è innanzitutto la sua proiezione mediterranea. Di fronte ad una Germania troppo assorta nel contemplare, quasi immobile, l’equilibrio baltico, l’unico debole concorrente resta il nostro Paese. Può essere facilmente aggirato sul terreno della politica estera e condizionato dalle scelte finanziarie in settori che solo, in apparenza, non hanno rilievo strategico. Il lusso e la filiera agro-alimentare costituiscono il nostro

brand. L’icona del made in Italy. Settori che tirano. Quel che rimane, infatti, specie nel centro – nord ha un forte legame di dipendenza con l’industria tedesca. Con scarsa o limitata autonomia.

Ci sono poi gli aspetti finanziari. Negli anni passati tutto ruotava intorno alla City londinese. La crisi internazionale ne ha ridimensionato il ruolo. È troppo presto per sapere se si tratterà di una semplice battuta d’arresto o di qualcosa di più profondo. Sta di fatto che nel

Il mercato non teme la spregiudicatezza francese: lo spread dei loro titoli, rispetto al bund, è di 33 punti base, contro i 150 italiani quarto trimestre dello scorso anno la caduta del Pil inglese è stata dello 0,6 per cento. A questo devono aggiungersi le difficoltà di bilancio, dovute alla crisi del sistema bancario e alla

necessità dell’intervento salvifico della Corona. Tutto ciò ha fatto enormemente aumentare il debito pubblico inglese, che ormai viaggia con una progressione ben più preoccupante di quella italiana. C’è poi il dato della montagna dei debiti privati. Sono pari al 462,6 per cento del Pil (dati del Ministero dell’economia italiano) contro il 274,2 francese. Quasi il 70 per cento in più. Sono, quindi, tante le gatte che il Governo Cameron dovrà pelare, prima di potersi riaffacciare, con la forza degli anni passati, sui mercati internazionali. Per la Francia, in definitiva, un’occasione ghiotta: tanto più che la Germania è sotto scacco. Deve difendersi dalle accuse di eccesso di mercantilismo che sono in molti – a partire dagli Stati Uniti – a rivolgergli per l’eccesso di esportazione sui mercati internazionali.

Nei settori chiave, l’industria francese non può competere con i suoi dirimpettai. Nel comparto auto, si regge soprattutto grazie alle caratteristiche del suo mercato interno. Ha una posizione forte nel sistema dei trasporti di massa, dei servizi e nelle infrastrutture. Ma la sua punta di diamante è l’energia. Un nucleare oggi acciaccato, dopo il disastro giapponese. Ed ecco allora la necessità di espandersi nei settori collaterali: il lusso, le assicurazioni, la filiera agro – alimentare, come si diceva in precedenza. Sostiene questa politica soprattutto un establishment capace di fare squadra, infischiandosene altamente delle prescrizioni – vedremo quello che succederà in primavera con le nuove regole di Maastricht – europee. Il suo deficit di bilancio sfiora quest’anno l’8 per cento del

La principale stranezza di questa vicenda è che il mercato internazionale non vede e non sente. Non esprime preoccupazione, né s’interroga sulla sostenibilità finanziaria di quell’azione politica e finanziaria. Ancora ieri lo spread dei titoli francesi, rispetto al bund tedesco, era appena di 33 punti base, contro i 150 italiani. Come giustificare tali comportamenti? La prima considerazione è di carattere sistemico. Il mercato è ancora troppo liquido. Le occasioni d’investimento sono scarse. L’offerta fa premio sulla domanda e quindi i tassi d’interesse non fanno altro che riflettere il punto d’incontro tra domanda e offerta. Questo tuttavia non basta. Evidentemente – questa è la seconda considerazione – c’è chi scommette sulla buona riuscita delle operazioni intraprese. Del resto basta guardare alla facilità con cui Lactalis ha sbaragliato i suoi avversari. “Chiacchiere e distintivo”: verrebbe da dire pensando allo Scarface di Al Pacino. È bastato un pugno di dollari per indurre tutti a più miti consigli, costringendo l’Italia a guardarsi allo specchio. Non è un bel vedere. I problemi sono tanti. Le equazioni, come dicono i matematici, sono superiori alle incognite, impedendo la chiusura del cerchio. A noi non rimane che sottolineare un dato di fondo: più sociologico che non economico. L’establishment italiano è diviso in una guerra di posizione che non ha né vinti, né vincitori. Essa trascina il sistema dei media e della politica. L’interrogativo è quello di sempre fin dai tempi di Machiavelli, quando un mosaico di statarelli si contrapponeva alle grandi potenze di allora. Come è possibile, in una fase di crisi acuta come l’attuale, reggere all’urto di una concorrenza che sta ridisegnando la geografia del Mondo? Domanda evidentemente retorica. A meno non si pensi, anche in questo caso – cosa che ci preoccupa ancor di più - a un papa straniero, pronto a intervenire.


diario

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Tracce di iodio 131 di ritorno da Tokyo

Evasione record in Costa Smeralda

MILANO. In due terzi dei cittadini italiani rientrati dal Giappone, sono state trovate tracce di iodio 131. Lo ha detto il ministro della Salute, Ferruccio Fazio, sottolineando però che questo non comporta rischi di contaminazione. A margine di un convegno a Palazzo Madama, il ministro ha spiegato che «sono stati esaminate circa un centinaio di persone tra nostri concittadini, tra cui l’orchestra del Maggio musicale fiorentino che era in tournée in Giappone, in varie regioni. In circa due terzi di questi sono state trovate tracce di iodio 131 che è un isotopo, normalmente assente nelle urine. Non sono state trovate contaminazioni nè a livello cutaneo nè a livello della tiroide in questi soggetti».

PALAU. Il record dell’evasione fiscale, probabilmente, spetta a un ristorante della Costa Smeralda che in un anno ha evaso 660mila euro, fra ricavi non dichiarati e Iva non versata ed è appena stato scoperto dalla Guardia di finanza di Palau. Il titolare dell’esercizio nel 2007 ha anche omesso di versare 9mila euro di Irap e oltre 23mila euro di ritenute previdenziali nei confronti dei dipendenti, che ignoravano i mancanti versamenti. I finanzieri hanno accertato che i clienti per un singolo pasto hanno pagato in media attorno ai 200-300 euro, a seconda degli alimenti e dei vini ordinati. Il gestore emetteva la ricevuta fiscale, ma non presentava la dichiarazione dei redditi.

Una moratoria per il nucleare ROMA. Nessuna discussione sulla localizzazione dei siti adatti alla costruzione di nuovi impianti atomici, ma piuttosto una moratoria di un anno sul nucleare in Italia. Il governo cerca così di correre ai ripari all’ondata emotiva seguita al disastro giapponese. Il Consiglio dei ministri oggi avrebbe dovuto approvare le «modifiche ed integrazioni al dlg n. 31 del 2010 recante disciplina della localizzazione, della realizzazione e dell’esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare», ma sarà invece chiamato a discutere la moratoria di un anno presentata dei ministri dello Sviluppo economico Paolo Romani e dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo.

Il governo spinge per ottenere un via libera bipartisan su fisco regionale e costi standard. I governatori: prima i fondi promessi

Federalismo, l’ultimo baratto

Calderoli pronto a garantire agli enti le risorse sul trasporto pubblico di Francesco Pacifico

Slitta da stasera a domani pomeriggio alle 17.00 il voto finale sul decreto attuativo del federalismo fiscale su fisco regionale, provinciale e sanità in commissione Bicamerale. Lo ha detto Enrico La Loggia, dopo l’Ufficio di presidenza dell’organismo parlamentare che ha deliberato il nuovo calendario

ROMA. Ancora una volta il maggiore ostacolo sulla strada del federalismo è Giulio Tremonti. Roberto Calderoli è convinto che, approvate le parti che riguardano le Regioni e l’introduzione dei costi standard, la riforma sarà messa in cantiere. Proprio per questo sta usando tutte le sue armi a disposizione per convincere il ministro dell’Economia a sbloccare i 425 milioni di euro promessi a dicembre ai governatori per il trasporto pubblico locale. Senza questi soldi gli enti faticheranno a chiudere i prossimi bilanci. Di conseguenza, non faranno sconti al governo che spera domani di incassare un via libera bipartisan sul decreto legislativo più delicato: quello che, per l’appunto, riscrive la fiscalità delle Regioni e introduce una formulazione della spesa non più basata sul progresso ma sulle migliori performance.

Dopo una riunione della Conferenza delle Regioni molto tesa il presidente Vasco Errani, ha chiarito che dal governo «non si aspetta un ulteriore impegno, perché l’impegno c’è già stato a dicembre. Mi aspetto che vengano stanziati i fondi per il trasporto pubblico». Concetto che ripeterà questa mattina a mezzogiorno in un vertice con Calderoli. Ma a quanto pare, il ministro per la Semplificazione è pronto a sparigliare le carte e a concedere quello che finora il Tesoro ha sempre vietato: legare, nel decreto in discussione alla Bicameralina presieduta da Enrico La Loggia, parte delle addizionali regionali al finanziamento del capitolo trasporto locale. Nel parere al provvedimento il relatore di maggioranza, il vicecapogruppo del Pdl alla Camera Massimo Corsaro, ha messo nero su bianco che «una soluzione al problema dei finanziamenti per il Tpl può essere trovata all’interno del decreto sul federalismo regionale, magari con un emendamento da definire nel corso dei lavori». Qualcosa in più si capirà durante il vertice di oggi. Intanto è chiaro il ragiona-

mento che muove il ministro. Secondo lui, arrivare al voto del Parlamento con il lasciapassare dei governatori metterebbe in grande difficoltà Partito democratico e Terzo Polo, al momento sempre più decise a votare no anche sul federalismo regionale. Anche perché alla guida della Conferenza delle Regioni c’è un dirigente di primo piano del Pd del nord come Vasco Errani. Dal Nazareno il relatore di minoranza, l’economista Francesco Boccia, ha fatto sapere che un’apertura è legata alla concessione di «una clausola di salvaguardia per evitare l’aumento della pressione fiscale nel caso il governo non rispetti gli impegni sullo stop ai tagli previsti alle regioni dal decreto 78». Non sembra voler fare sconti il Terzo Polo. Nel proprio parere lamenta che

l’unico filo conduttore del decreto è «l’aumento della pressione fiscale sui cittadini». Allarme ripreso anche dalla Cgia di Mestre, secondo la quale si rischiano tasse in più per sei miliardi. Secondo Gian Luca Galletti e Gianpiero D’Alia dell’Udc, Linda Lanzillotta dell’Api e Mario Baldassarri di Fli, «nel testo s’impone alle Regioni un vincolo sui saldi di finanza pubblica e non sull’ammontare della spesa: l’unico modo, in aumento di spesa, per mantenere i saldi consisterà nell’aumentare le imposte». Non mancano poi critiche sui piani di rientro delle Regioni in deficit, sulla compartecipazione Iva, sulla lotta all’evasione e sulle ipotesi di tagli all’Irap. Ancora meno piacciano l’assenza di detrazioni per le famiglie numerose, i rischi per la progressività dell’Irpef e la

disparità tra regioni del Nord e del Sud. Quindi una stoccata all’impianto complessivo del decreto, cioè sulla parte che dovrebbe garantire la sanità e l’assistenza, visto che «non è garantita la copertura integrale dei costi Lea (livelli essenziali assistenza) e Lep (prestazioni). I costi standard poi non costituiscono un vincolo, visto che si fa ancora riferimento al costo storico». Ecco perché incassare in Bicameralina il secondo 15 a 15 dopo quello al fisco municipale, oltre a una fortissima sconfitta politica, vorrebbe dire aver partorito una riforma istituzionale respinta da tutta l’opposizione e da un gruppo nutrito di Regioni, che sarebbe spazzata via in fase di referendum confermativo come avvenne per la devolution. Non a caso Gianfranco Fini ha ricordato che


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Trovate delle mozzarelle blu in una scuola di Genova GENOVA. Mozzarelle che, tolte dalla confezione, virano al blù, per poi divenire rosa dopo qualche ora, sono state «servite» il 9 marzo scorso ai bambini della scuola elementare Brignole Sale di via Montezovetto, nel quartiere genovese di Albaro. Le inservienti addette alla mensa si sono immediatamente accorte dell’anomalia e hanno ritirato dalle tavole i latticini: nessun bambino le avrebbe consumate. Sul caso, tenuto fino a ieri sotto traccia, ha avviato un’inchiesta il Nucleo antisofisticazione dei carabinieri di Genova. Il primo caso di mozzarelle blu in Italia si è registrato nel giugno del 2009 e le indagini furono coordinate dalla procura di Torino (pm Raffaele Guariniello). Tutti i prodotti adulterati provenivano dalla Germania, inscatolati nello stabilimento Milchwerk Jager Gmbh & Co. Le mozzarelle erano ricche di batteri del tipo ”pseudomonas fluorescens” e altri microrganismi nocivi per la salute. Stavol-

Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

ta, invece, il caso sembra diverso: «Avevamo già trovato mozzarelle blu o rosse in passato – dicono gli inquirenti – ma all’esito delle analisi nessuno di questi prodotti è risultato nocivo alla salute: la colorazione dipende da uno specifico tipo di lievito o di uno sbiancante. Quasi sempre il problema risiede nelle condizioni di trasporto e di mantenimento della merce, solo raramente sono state rilevate anomalie nei cicli di produzione».

Da sinistra, il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, Gian Luca Galletti dell’Udc, e il governatore veneto, Luca Zaia

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

«bisogna ancora cambiare la struttura del Parlamento». Da qui la decisione di aprire alla richiesta dei governatori di fiscalizzare in maniera più strutturale i fondi per il trasporto pubblico. Una proposta di fronte alla quale i governatori difficilmente si tirerebbero indietro: intanto perché introdurrebbero un importante precedente sul finanziamento della spesa (ammortizzatori, assistenza agli anziani e aiuti all’impresa) oggi sovvenzionata come il Tpl attraverso i trasferimenti statali. Quindi allontanerebbero la proposta di Giulio Tremonti di coprire questa posta con un maxi bollo, avrebbero più libertà di trattare con Trenitalia sui contratti per il servizio ai pendolari e eviterebbero di dover andare ogni anno con i cappello in via XX settembre per battere cassa.

In questo clima Vasco Errani deve fare il pompiere con quelli che, in Conferenza delle Regioni, vorrebbe rompere con il governo (come il governatore pugliese Nichi Vendola) e quelli che invece chiedono maggiore flessibilità. «Noi abbiamo confermato anche ieri», ha spiegato Errani, «che chiediamo al governo di dare attuazione piena all’accordo di dicembre, che vuol dire 425 milioni di risorse per il trasporto pubblico locale nel 2011 e la relativa spendibilità, ovvero fuori dal patto di stabilità». Proprio per questo ieri mattina, nella se-

Il Terzo polo voterà di nuovo no. «Andiamo verso un aumento della fiscalità». Cgia di Mestre: tasse in più per 6 miliardi de di via Parigi, ha avuto un incontro chiarificatore con i leghisti Roberto Cota (Piemonte) e Luca Zaia (Veneto) per smussare non pochi angoli sia sul versante del federalismo fiscale sia sul piano per l’accoglienza dei profughi dalla Libia, con il quale il ministro dell’Interno Roberto Maroni, chiederà alle Regioni di prendersi in carico i disperati che scappano dalla guerra. Non a caso proprio Zaia si è detto «ottimista sull’incontro col ministro per la Semplificazione Normativa, Roberto Calderoli. Il governo ha detto in tutti i modi che rispetterà gli impegni presi sul Tpl e noi crediamo che questo avverrà». Stessa linea seguita anche da Cota, il quale però ha anche aggiunto: «Nel piano del ministro Maroni si farà differenza tra quelli che provengono da una zo-

na di scontri, ai quali si applica lo status di rifiugiati, e quelli in arrivo per esempio dalla Tunisia, che sono clandestini». Più dello status dei migranti, Errani porterà al tavolo con il governo un altro tema: la riduzione dei fondi per la protezione civile. E le cose sono soltanto destinate a peggiorare con la norma prevista nel Milleproroghe, che di fatto impone alle Regioni colpite da terremoti e alluvioni di pagarsi da sole gli interventi. «Le Marche, quella più colpita, fatica già oggi. Se metto assieme i tagli al Tpl e la mancanza di fondi alla protezione civile, allora sta nascendo un federalismo che non è sostenibile». Sempre a Calderoli ricorderà «la fiscalizzazione del Tpl dall’1 gennaio 2012 e la revisione dei tagli previsti dalla manovra di luglio: questa revisione è essenziale, per le Regioni che rispettano i patti di stabilità naturalmente, per dare attuazione al federalismo». Sul tavolo, poi, anche la richiesta di altre modifiche al decreto sul federalismo regionale. «Riteniamo per esempio», ha spiegato Errani, «che l’addizionale Irpef debba essere agibile dal 2013 e non del 2011. Ci sono poi una serie di altre questioni relative ai fondi di perequazione per Comuni e Provincie, a un disallineamento tra i provvedimenti che riguardano i diversi livelli istituzionali della Repubblica: Comuni, Provincie e Regioni. E questi sono tutti punti fondamentali perché fanno già parte di un accordo».

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ULTIMAPAGINA Dal Barolo di Cavour al Marsala di Garibaldi, breve viaggio enologico nelle tavole degli eroi risorgimentali

Quel brindisi lungo di Livia Belardelli l Barolo di Cavour? Il Chianti di Ricasoli? Il Marsala di Garibaldi? Quale il vino più “italiano”? Curiosando sulle tavole di chi fece l’Italia si scoprono storie che svelano un legame forte tra i protagonisti del Risorgimento e l’ancestrale bevanda. E anche per il vino dell’Unità, un po’ ci si divide. Di Garibaldi si dice che fosse astemio e forse, quando sbarcò a Marsala e gli venne offerto l’omonimo vino, non lo apprezzò come fecero i suoi compagni. La storia, più o meno romanzata, racconta però che il vino siciliano fu davvero complice dello sbarco dei Mille, se non altro per la presenza degli inglesi a Marsala. Dall’arrivo di Garibaldi bisogna tornare indietro di poco meno di un secolo per capire cosa facessero sulle rive siciliane, a quando l’armatore di Liverpool John Woodhouse intorno al 1770 fu folgorato dal vino marsalese e iniziò ad importarlo nel suo Paese. Per evitare che si alterasse durante il viaggio per mare lo addizionò di Whisky e da questa necessaria alcolizzazione protettiva nacque il vino liquoroso che tutti conosciamo.

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Un secolo dopo, quando i successori di Woodhouse e altri mercanti inglesi avevano istallato i propri magazzini vinicoli in Sicilia, sarà proprio la presenza delle loro navi in porto a difesa dei depositi che impedirà ai Borboni di fare fuoco sui garibaldini facilitandone lo sbarco. Tornando a Garibaldi, la leggenda vuole che quello stesso vino venisse richiesto nella sua versione più dolce dall’eroe dei due mondi anche due anni dopo, al suo ritorno sull’isola. Così oggi la versione più zuccherina del Marsala prende il nome di Garibaldi Dolce. Resta il fatto che davvero, Garibaldi, Marsala o non Marsala, non fu un grande bevitore e forse il vino liquoroso siciliano, almeno a quel tempo, fu certamente più il vino degli inglesi che degli italiani. Sul “barbaro”Mazzini, come lo appellerebbe Tacito che osteggiava la birra ritenendola bevanda corrotta e adatta solo a genti barbare, il gioco è presto fatto. Sulle sue attitudini alcoliche fa luce un ampio carteggio con la londinese Katherine Hill, che lo rivela amante delle ambrate bitter ale inglesi, birre scure ad alta fermentazione, caratterizzate da forti luppolature, dal gusto deciso e amaro. Amava berle a casa propria però, guai a metter piede nelle public house, responsabili di un lento avvelena-

mento e di servire, sempre a detta del patriota, “scoli di fogna”. Per il primo Presidente del Consiglio del neonato Regno d’Italia e per il suo successore il legame con il vino è innegabile. L’uno in Piemonte, l’altro in Toscana, hanno partecipato alla nascita di due vini rappresentativi dell’Italia nel mondo. Cavour con il Barolo. Il Barone Ricasoli con il Chianti. A Grinzane, nelle Langhe, è ancora lì, a 150 anni dalla nascita del Regno

150 ANNI d’Italia, la vigna di Camillo Benso. Orfana e un po’ maltrattata negli ultimi anni resta memoria storica in ceppi e grappoli del “re dei vini e vino dei re”. Cavour era un abile degustatore, conoscitore dei vini di Francia e fervente osservatore del mondo vitivinicolo oltre che di quello agricolo. Sarà proprio grazie alla consulenze dell’enologo francese Luis Oudart che pianterà la vigna di Grinzane. E fu lo stesso Cavour a consigliare alla marchesa Giulia di Barolo di servirsi di Oudart, che darà vita al celebre vino piemontese. La leggenda vuole che il re Carlo Alberto, incuriosito dal vino della marchesa, la rimproverasse di non averglielo fatto assaggiare. Così la nobildonna fece inviare al re una carovana di 325 carri, ognuno dei quali trasportava una botte di barolo. Una per ogni giorno dell’anno ad esclusione dei quaranta giorni della quaresima. Fu così che il Barolo, re dei vini, divenne vino dei re. Animato dalla stessa smania di competere con i vini francesi anche il barone Ricasoli nella sua Toscana non fu da meno. Appena ventenne cominciò a Brolio le sue sperimentazioni. Consapevole delle potenzialità del grande terroir di cui disponeva sviluppò la vitivinicoltura in Chianti, modernizzò le tecniche di cantina per dar vita a una produzione di qualità. Nel 1867 i suoi sforzi vennero ricompensati con la prima medaglia d’oro all’Esposizione internazionale di Parigi ma sarà soprattutto la fama che questo vino saprà guadagnarsi come compagno di pasto a consacrarlo

tra i simboli del nostro Paese. Un risorgimento anche enologico quello in cui il “Barone di Ferro” si impegnò scrivendo ante litteram il disciplinare di un vino, il Chianti, che, con l’esclusione dell’uva a bacca bianca della ricetta originale, è tuttora seguito. Scriveva così in una lettera del 1872: «Mi confermai nei risultati ottenuti già nelle prime esperienze cioè che il vino riceve dal Sangioveto la dose principale del suo profumo (a cui io miro particolarmente) e una certa vigoria di sensazione; dal Canajuolo l’amabilità che tempera la durezza del primo, senza togliergli nulla del suo profumo per esserne pur esso dotato; la Malvagia, della quale

Mazzini preferiva birre scure dal gusto deciso e amaro. Amava berle a casa propria però, guai a metter piede nelle public house (cioè i pub), che a detta del patriota servivano «scoli di fogna» si potrebbe fare a meno nei vini destinati all’invecchiamento, tende a diluire il prodotto delle due prime uve, ne accresce il sapore e lo rende più leggero e più prontamente adoperabile all’uso della tavola quotidiana».

Oggi Barolo e Chianti, con Brunello, Barbaresco e Amarone, sono tra i vini più rappresentativi di un’Italia unita che, più che puntare su un unico vino simbolo, deve premiare la varietà di cui dispone, l’abbondanza di sorprendenti vitigni autoctoni che raccontano con profumi e sapori inconfondibili ogni territorio. Per questo l’idea proposta a Vinitaly lo scorso anno è convincente: produrre due vini, un rosso e un bianco, da un blend di 20 vitigni a bacca bianca e rossa per brindare all’Unità. Nell’uvaggio del rosso compaiono tra gli altri anche Sangiovese e Nero d’Avola, i vitigni del Chianti e del Marsala rubino. Nel blend manca però il Nebbiolo, ma in cotanto crogiuolo di uve per il brindisi ai 150 anni non se ne accorgerà nessuno. E, in segreto, nulla vieta di stappare un’ottima bottiglia del vino di Cavour.


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