he di c a n o r c
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Il privilegio dei grandi è vedere le disgrazie da una terrazza
Jean Girardoux 9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 24 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La Russa e Frattini al Senato: il governo sposa la linea della Lega e le opposizioni non votano la mozione
L’Italia è senza premier Incredibile “diserzione” di Berlusconi dal Parlamento che vota la missione La Nato affida a noi le operazioni navali ma al comando ci sarà una cabina politica. Gli alleati colpiscono i tank di Gheddafi intorno a Misurata per rompere l’assedio Un testo inverosimile
di Riccardo Paradisi
L’esponente siciliano ministro dell’Agricoltura Galan ai Beni culturali al posto di Bondi
ROMA. Al Senato si va in ordine sparso sulla Libia e soprattutto senza il presidente del Consiglio in aula. La maggioranza riesce a raggiungere un accordo sulla mozione da presentare in Parlamento ma non riesce a persuadere l’opposizione sulla «trazione leghista» del testo. E dunque si va alle votazioni su testi diversi e contrapposti. Ma fa clamore soprattutto l’assenza del premier, che per questa volta ha avuto un «impedimento» a partecipare non ai processi, ma ai lavori del Parlamento.
Scoppia il caso Romano: il Quirinale firma con riserva Il Colle chiede chiarimenti: «È indagato». Il neo-ministro nega: «Non sono inquisito». «Rilegga bene il comunicato», taglia corto il presidente
Il mondo è più grande della Padania di Andrea Margelletti alle basi italiane, ma non solo, partono aerei destinati a implementare le risoluzioni delle nazioni unite sulla protezione dei civili e della no-fly zone. Quali gli obiettivi? Basi aeree, la contraerea di Gheddafi e le sue unità di élite.
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Bomba a una fermata dell’autobus. Trenta feriti e una donna morta
È subito sangue a Gerusalemme La zona dell’esplosione è di fronte alla stazione centrale e nei pressi di un centro per conferenze, nella zona ebraica della città. Intanto in Libia continuano le operazioni delle forze alleate (in volo ancora una volta anche gli aerei italiani): ancora scontri a Misurata Pierre Chiartano • pagina 6
Marco Palombi • pagina 10
Per il generale Carlo Jean la Nato ha affidato all’Italia un ruolo del tutto marginale
SENZA PAROLE
Che statista, tiene al rimpasto più che alla Libia di Giancristiano Desiderio Palazzo Madama si discute della Libia e dell’intervento dei soldati e degli aerei italiani nel cielo africano, ma il presidente del Consiglio pensa bene di essere splendidamente assente. Mai assenza fu più ingiusta e ingiustificata. Silvio Berlusconi, infatti, ha trovato tutto il tempo possibile per scortare i suoi nuovi ministri e per assistere al loro giuramento, ma non ha trovato un po’di tempo per parlare al Parlamento e riferire in modo diretto e chiaro la linea del governo.
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«Dall’Alleanza arriva un contentino» Spetterà al nostro Paese controllare che venga rispettato l’embargo alle armi previsto dalla Risoluzione Onu. «Peccato che queste non arrivino via mare, ma via terra. Dall’Egitto». E sull’esito della guerra: «Meno male che c’è Erdogan, l’unica testa pensante della coalizione» Luisa Arezzo • pagina 4
La strategia (e l’incertezza) americana nei commenti di Michael Ledeen e William Kristol
Attento Obama, è una sola guerra Dalla Somalia al Golfo Persico, dal Sudan fino in Egitto. E poi Israele, Libano, Siria, Iraq, Iran: una sola «rivoluzione» sta agitando un’area enorme e piena di contraddizioni. Le scelte di Washington prescindono dalle posizioni dei partiti e esprimono una linea che arriva fino a Bush
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EURO 1,00 (10,00
Michael Ledeen e William Kristoll • pagine 8 e 9 CON I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
57 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
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la crisi libica
Cacciari: «Siamo fuori dai giochi perché non abbiamo capito quello che accadeva». Romano: «Pensiamo a salvare il trattato»
L’incredibile impedimento Berlusconi «non mette la faccia» nel dibattito sulla posizione dell’Italia di fronte alla crisi libica. Il governo sposa la tesi del Carroccio (tutela degli affari e niente profughi). Le opposizioni dicono no e presentano delle mozioni diverse di Riccardo Paradisi l Senato si va in ordine sparso sulla Libia e senza il presidente del Consiglio in aula. La maggioranza riesce a raggiungere un accordo sofferto sulla mozione da presentare in Parlamento ma non riesce a persuadere l’opposizione per una condivisione nazionale della posizione italiana. Il documento del governo parte sottolineando l’adesione dell’Italia alle operazioni della Nato, l’applicazione della risoluzione Onu per arrivare alle questioni che riguardano più da vicino il nostro paese: tutela degli interessi economici delle imprese italiane in Libia (specie per quanto riguarda le forniture di energia e gas), condivisione dell’Europa dei problemi relativi alla gestione dei profughi, pattugliamenti delle acque internazionali per fermare il traffico di esseri umani.
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Insomma un documento a forti dosi leghiste. Le opposizioni però non convergono sul-
la risoluzione di Pdl e Lega e decidono di presentare ciascuna una propria risoluzione al dibattito del Senato. Sono complessivamente 5 le mozioni sulla crisi libica presenti al dibattito: oltre a quella unitaria della maggioranza (Pdl-Lega), del Pd, dell’Idv, del Terzo polo (Api, Fli, Udc, Mpa), si aggiunge anche quella della senatrice radicale (prima firmataria), Emma Bonino. «Per i sentimenti di amicizia che legano l’Italia al popolo libico, avevamo lavorato e volevamo una soluzione pacifica alla crisi libica», esordisce il titolare della Farnesina Franco Frattini «Non si tratta di fare la guerra, ma di impedire la guerra e l’uccisione di civili. Rispetteremo i limiti della risoluzione. Abbiamo condiviso con il Parlamento l’intenzione di partecipare alla missione in attuazione della Risoluzione 1973 dell’Onu. Abbiamo assicurato la partecipazione a pieno titolo alle operazioni. L’Italia sta dando e darà il proprio contributo all’attua-
zione della Risoluzione, nel puntuale rispetto dei limiti da essa definiti», ha precisato ancora Frattini. Stessa linea del ministro della Difesa La Russa: «Cerchiamo di impedire il massacro di un popolo». Per uscire da questa situazione il capo del governo punterebbe a esaltare il ruolo diplomatico dell’Italia nella ricerca di una soluzione più veloce e indolore possibile.
A questo proposito il ministro degli Esteri Franco Frattini potrebbe partecipare a una riunione dell’Unione Africana, in programma venerdì, e svolgere un ruolo di mediazione con la Lega Araba, che pure sembrerebbe interessata a una svolta diplomatica della vicenda libica. «Che Berlusconi fosse o no presente al dibattito al Senato mi pare indifferente» commenta per liberal Massimo Cacciari. «Del resto ha dimostrato fino ad oggi di ignorare completamente quello che stava accadendo in Libia. Si fa un gran
parlare di realpolitik in Italia ma questa si basa sulla conoscenza precisa della situazione sennò è contingentismo puro. I francesi lo sapevano benissimo quello che stava accadendo e infatti hanno dimostrato che erano pronti e mancando una politica europea Sarkozy ha preso in mano la situazione. Una potenza regionale. L’Italia ha dimostrato di non essere nemmeno una potenza regionale però ed è rimasta paradossalmente fuori gioco».
È evidente comunque la debolezza di tutti gli organismi metastatali dice Cacciari. «Alcuni di loro sono rimasti in un stato di media salute finché abbiamo avuto l’illusione che l’impero funzionasse. Con Bush c’era l’ultimo fantasma di Impero. Ora Obama non fa nemmeno più la voce grossa. La debolezza degli organismi internazionali comporta un riaffermarsi di potenze regionali, ma non dureranno niente. Oggi come oggi le potenze re-
gionali potranno strappare un pallino ma domani?» Non c’è dubbio inoltre che la politica estera italiana debba avere la bussola puntata sul Mediterraneo e la Russia, «ma non può essere svolta in questo modo». Meno tranchant l’ambasciatore Sergio Romano: «L’Italia è in grande imbarazzo perché il presidente del Consiglio ha fatto un investimento personale nel suo stile. E anche Gheddafi era un partner imbarazzante. Ma gli uomini passano, i trattati tra Stati restano. Noi abbiamo un trattato d’amicizia con la Libia e questo trattato ci conviene. Certo, c’è da sperare che un giorno ci sarà qualcuno di più ragionevole a Tripoli con cui ragionare, ma nel momento come agiamo per perseguire questo obiettivo? La Francia è partita ma la coalizione non ha una strategia concernente gli obiettivi da raggiungere. La Francia mira evidentemente all’abbattimento del regime di Gheddafi ma non è chiaro come. Anche perché gli Stati Uni-
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Le priorità (e gli impedimenti) del Capo del governo
L’inverosimile mozione a trazione leghista
Che statista, tiene al rimpasto più che alla Libia
Il mondo è più grande della Padania
di Giancristiano Desiderio
di Andrea Margelletti
segue dalla prima
segue dalla prima
Assenza, dunque ingiustificata. Ma anche ingiusta perché i rapporti ufficiali tra Italia e Libia e quelli personali tra il Cavaliere e il Colonnello richiedono che il presidente del Consiglio parli alla nazione con parole semplice e di vere. Questo non è accaduto e questo, al di là della stessa risoluzione, è grave. Si spera che oggi il premier vorrà essere presente alla Camera per pronunciare il discorso che attendono le forze politiche e gli italiani tutti: sia i favorevoli sia i contrari, sia i convinti sia i perplessi.
Ma che cosa succede in Italia? Mentre nei cieli africani si combatte contro un nemico, nel nostro paese si combatte contro l’inverosimile. In questi giorni abbiamo sentito tutto e il contrario di tutto. Gheddafi, ben noto “cacciatore”di fondamentalisti islamici, è di fatto diventato prima un alleato di al Qaeda poi è ritornato ad esserne l’avversario. Dalla Libia arrivano decine di possibili kamikaze pronti a farsi esplodere all’interno della cristiana Europa, mentre il consiglio di Bengasi che si credeva essere l’espressione di una rivolta popolare e sociale si è pericolosamente trasformato in una banda di barbuti seguaci dell’emiro bin Laden.
La linea del governo non esprime proprio quella che si direbbe - per utilizzare il nome del nuovo gruppo di senatori - coesione nazionale. Se il capo del governo ha voluto seguire personalmente la “iniziazione” dei nuovi ministri - da Galan che passa ai Beni culturali a Romano che gli succede all’Agricoltura - è perché i numeri del governo erano e sono incerti. Certo, al momento opportuno la maggioranza non è venuta mai meno e tutto sommato il punto politico è ancora fermo al 13 dicembre 2010 quando è stata respinta la mozione di sfiducia di ispirazione futurista.Tuttavia, non è un mistero per nessuno che Berlusconi è sempre seriamente occupato nella contabilità di governo: ossia quella strana arte di arrangiarsi che consiste nel lasciare libera qualche sedia e qualche poltrona di vice o di sottosegretario perché al momento opportuno potrebbero servire per accontentare questo o quel parlamentare che vorrebbe andar via o quell’altro che vorrebbe entrare. Ieri, peraltro, il presidente della Repubblica ha approvato la nomina di Romano a ministro su proposta del premier - secondo prassi - ma anche scritto che la posizione del neoministro è da chiarire viste le “gravi imputazioni”di una indagine a suo carico. Insomma, la giornata di ieri del presidente del Consiglio è stata giocata sul versante del rafforzamento della squadra di governo con innesti che, discussi e discutibili, si attendevano da tempo. Berlusconi ha seguito la cosa personalmente e da vicino. Ma, ora che le nomine sono state fatte, Berlusconi si degnerà di farsi vedere a Montecitorio per assumere direttamente davanti al Parlamento e agli italiani la responsabilità dell’intervento aereo, marittimo e armato - è nostro costume chiamare le cose con i loro nomi - in Libia? O continuerà a giocare a nascondino? C’è un altro elemento che restituisce a questa vicenda la sua dimensione di tristezza: i sondaggi. Le scelte di Berlusconi sembrano dettate dall’estro del personaggio e dall’intuizione del momento. In realtà, Berlusconi è uno che studia e calcola. E il suo studio settimanale è la tabella dei sondaggi. I sondaggi e le rilevazioni dell’opinione pubblica dicono che gli italiani - a torto o a ragione - sono perplessi sulla crisi libica. Berlusconi visto il vento ha deciso di non associare il suo nome a quello di Gheddafi, dopo che negli anni scorsi e nei mesi recenti gli incontri tra i due sono stati presentati storici ed epici. La posizione di Berlusconi, dunque, è scomoda tre volte: perché l’intervento del governo in Libia è più nolente che volente; il vento che soffia è a prua e non a poppa; l’amicizia di Berlusconi con Gheddafi non è un bel ricordo per nessuno e ogni tanto il Cavaliere non controlla il suo sentimento di nostalgia per il Colonnello e la sua tenda beduina. Si capisce perché Berlusconi non abbia preso la parola a Palazzo Madama. Un motivo in più perché parli oggi, Cavaliere.
Un tempo si pensava che molte delle colpe ascrivibili alla miopia della classe politica italiana fossero dovute a una cattiva informazione. Chissà che cosa leggono i nostri politici? Ora finalmente lo sappiamo: le fiabe dei fratelli Grimm. Quello che abbiamo di fronte a noi è invece un grande movimento con un respiro storico pari a quello che ha fatto crollare l’Unione Sovietica. Ci troviamo di fronte a un determinante bivio della storia: da una parte abbiamo dei governi i cui leader sono al vertice da più tempo dell’età media dei cittadini che governano e dall’altra parte abbiamo l’insopprimibile desiderio di poter esprimere liberamente la voglia di libertà e guardare ai palazzi del potere come realtà responsabili e non come gruppi familiari che si spartiscono il potere. L’occidente è ricco e ha potere, e quindi maggiori doveri e responsabilità. In questo scenario che vivranno appieno i nostri nipoti l’Italia rischia per l’ennesima volta di perdere il treno. Di fronte a uno scenario che influenzerà la vita sociale ed economica dell’intero Mediterraneo noi continuiamo a insistere a guardare con il prisma del campanile. Solo che questa volta il campanile è bassissimo e il panorama è assai ristretto. È doveroso per una classe politica responsabile preoccuparsi del futuro del proprio Paese, dei risvolti sociali che i cambiamenti internazionali possono influenzare e più in generale del benessere dei propri cittadini, ma è anche vero che viviamo nel mondo che abbiamo e non in quello che vorremmo. Per questa ragione è inutile crogiolarsi nei bei tempi andati, quando tutto ci sembrava più tranquillo e intorno a noi vedevamo persone dai visi cromaticamente meno preoccupanti, ma la vita non va così e allora occorre dominare i cambiamenti, non subirli. Se vogliamo evitare che la nave affondi è inutile imprecare contro gli iceberg, meglio far cambiare rotta al Titanic. Per questa ragione rimaniamo sinceramente stupiti quando qualcuno chiede il rispetto dei contratti che la Libia di Gheddafi ha firmato con l’Italia. Ma chi li dovrebbe rispettare? I francesi? Gli inglesi? Gli americani o forse i libici stessi? Fra pochi giorni o settimane avremo sicuramente a Tripoli un governo nuovo, conseguenza diretta di questo conflitto; con o senza Gheddafi. E sarà questo governo a guardare alla lavagna su cui sono scritti i contratti con la Libia e un colpo di spugna umida probabilmente ne cancellerà molti per rinegoziarne a miglior favore i termini, perché ci troviamo di fronte non a un governo figlio di una fine di legislatura ma di un cambio radicale dello scenario politico di un paese. Che cosa avrebbero pensato gli italiani se il cancelliere tedesco occidentale Konrad Adenauer avesse chiesto ad Alcide de Gasperi il rispetto degli accordi Ribbentrop-Ciano? E dato che abbiamo detto che mai e poi mai colpiremo la Libia forse è il caso di chiedere al signor Presidente del consiglio: possiamo almeno bombardare l’inverosimile?
ti danno l’impressione evidente di non avere alcuna intenzione di impegnarsi in una nuova guerra musulmana, sarebbe la sesta dal 1990: troppo anche per loro. Non ho l’impressione che ci siano Paesi disposti a prendere questo tipo di impegno. Siamo li insomma nella speranza che questi bombardamenti ci risolvano il problema. Tradotto si tratta d’un operazione alla cieca. E quindi, per definizione, di un’operazione pericolosa. Che può ridursi in uno smacco o può produrre la rottura della Libia in due Stati, ma questo significa il proseguimento della guerra civile. Non lo sa nemmeno la Francia come andrà a finire, Sarkozy sa però che prima delle elezioni deve recuperare terreno elettorale. Per quanto riguarda la Gran Bretagna qui agisce un tic imperiale. Ha nella sua cultura il sentimento che se vuole continuare a essere una potenza mondiale deve essere presente, anche militarmente, in ogni crisi che in qualche modo la riguarda».
Le vittime di questa guerra – dice però Romano – potrebbero essere tante. «La politica estera europea. La Nato, che è finita nel dissenso, l’asse franco-tedesco». Ma i di dissidenti sono armati. Da dove vengono quelle armi? Chi sono questi oppositori? Quale è la loro matrice politica? Alcuni sono ex esponenti del regime di Gheddafi e la loro massa di manovra è, in buona parte, composta da separatisti cirenaici. Io credo ci sia anche un’influenza della fratellanza musulmana. La Tripolitania d’altra parte ha sempre subito lo stato libico più che accettarlo. L’ha subito nel 1951, al momento della costituzione del regno, ma da allora, dopo il ’69, le cose sono cambiate. Potremo trovarci insomma con due Libie o una guerra civile endemica che potrebbe durare per molto tempo». Inoltre nessuno ci garantisce che quello che verrà dopo sarà peggio dell’esistente: «Questi regimi del mondo arabo hanno creato una larga clientela. Il modernizzatore arabo musulmano cerca di creare un apparato suo per rafforzare il proprio potere, per evitare la tribalizzazione». Fra le cose che si potevano fare era un viaggio di Berlusconi a Tripoli certo, dice Romano, «ma forse il presidente del Consiglio temeva di non poter essere efficace, forse sapeva anche lui che Gheddafi è capriccioso, inaffidabile, non ha voluto esporsi e andare a parlare con lui sarebbe stato letto, in un momento grave e particolare, come un ulteriore gesto di amicizia o di complicità. Ma ripeto: il problema nostro non sono Gheddafi e Berlusconi: è la salvaguardia del trattato. A noi quel trattato conviene».
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la crisi libica
«L’unico cervello pensante di tutta la “combriccola” alle prese con questa guerra è il turco Erdogan»
La divisione della Libia «Secondo me, la soluzione più ragionevole sarebbe dividere Cirenaica e Tripolitania per garantire tutti. Ma Gheddafi non accetterà mai. E sul compromesso dell’Alleanza, l’Italia deve accontentarsi»: guerra ed exit strategy secondo Carlo Jean di Luisa Arezzo rosegue la battaglia fra le cancellerie europee per chi dovrà comandare Odissey Dawn. Dopo l’accordo politico tra Usa, Francia e Gran Bretagna sulla discesa in campo dell’Alleanza atlantica nelle operazioni militari in Libia, restano infatti molte questioni da risolvere. La Francia, paese che più ha premuto per l’intervento, ha infatti dichiarato che la Nato non assumerà la guida politica della coalizione internazionale contro il regime di Muammar Gheddafi. E il ministro della Difesa d’Oltralpe, Alain Juppè, ha detto che Il gruppo di contatto dei paesi coinvolti nell’operazione in Libia s’incontrerà per la prima volta il 29 marzo a Londra assime ai rappresentanti della Lega Araba e dell’Unione Africana. E ha precisato che solo questo gruppo avrà l’autorità del comando politico delle operazioni. «Una Francia che insiste ad essere molto capricciosa», dice - con un tono chiaramente piccato - il generale Carlo Jean, docente di Studi Strategici alla Luiss di Roma. Generale, la situazione è ancora molto ballerina. Lo è per colpa della Francia. Sarkozy immagina che Parigi possa trasformarsi
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nel rappresentante della politica estera e di sicurezza dell’Unione Europea, mentre di fatto la cloche in mano ce l’ha chi ha i soldi. Ovvero la Germania. Che può dire: guardate che se non accontentate anche me la prossima emissione di bot francesi non ve la copro più. Al momento però, sembrano meno isolati di come lei li descrive. E la linea su cui si sta lavorando è quella di una regia politica aperta ai ministri degli Esteri in grado di dare ordini alla Nato. Sì, perché gli Stati Uniti (che adesso dirigono le operazioni con Africom) si sfileranno e rimarranno solo come supporto logistico e informativo, dopodiché da un punto di vista politico il comando sarà esercitato da un comitato composto dai vari ministri degli Esteri, come ha chiesto Juppè. E forse sarà aperto, come da richiesta della Turchia, alla partecipazione di alcuni rappresentanti della Lega Araba. Insomma, un comando simile a quello visto durante l’Operazione Alba in Albania.
Gli Usa dunque se ne andranno? Gli Stati Uniti vogliono ridurre il proprio ruolo e ritagliarsi solo quello di supporto, ma per un semplice motivo: che il Congresso non vuole autorizzare Obama ad impiegare la forza. In queste ore Washington è protagonista di un balletto politico all’italiana. Nell’ambito Nato, però, l’Italia avrà un ruolo di primo piano nella missione: le è stato affidato il comando della componente marittima per il rispetto dell’embargo delle armi stabilito dalla risoluzione Onu 1973.
«Sarkozy? Rischia di finire come Napoleone. A Sant’Elena»
Sì, ci sarà una nave che coordinerà altre navi, così come era ai tempi dell’embrago di armi alla ex Jugoslavia. Ma è un comando navale circoscritto. Non è un comando navale della Nato. Per capirci: le due fregate e i 3 sommergibili americani che tirano i cruise oppure le due navi anfibile che ci sono, restano sicuramente sotto comando americano. Loro si limiteranno a un blocco delle coste. Sta dicendo che all’Italia è stato affidato un ruolo marginale? Sì. Al nostro paese è stato dato un semplice contentino. Mi spiego: le armi alla Libia arrivano e continueranno ad arrivare via terra dall’Egitto. “Contentino” a parte, potremo avere ruolo di maggior peso nel nuovo assetto operativo che si sta confingurando? Il nuovo quadro operativo si capirà soltanto quando gli americani ritireranno le loro forze combattenti. Detto questo, la durata di questa guerra sarà molto lunga, soprattutto se si continuerà a pretendere che Gheddafi se ne vada senza
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La Francia continua a polemizzare sulla funzione (e le decisioni) dell’Alleanza
Nato: comando navale all’Italia e coalizione a guida congiunta La mediazione politica mette d’accordo tutti, per ora: saranno gli stessi ministri degli Esteri a gestire direttamente le operazioni di Antonio Picasso el quinto giorno di guerra è la politica occidentale a farla da padrone. Prima però lo scenario operativo. Ieri i raid si sono concentrati sui cieli di Misurata e Ajdabiya. Gli aerei della coalizione sono alla caccia della 32esima brigata, la cosiddetta Khamis brigade: 10mila uomini al comando di Kahmis Gheddafi, l’ultimogenito del raiss che dunque non sarebbe affatto morto. Ed è stata proprio Ajdabiya l’epicentro anche dei combattimenti di terra. I ribelli sembrano essere circondati dai carri armati del colonnello. Per questo, i nostri aerei sono entranti in loro aiuto. La risoluzione 1973 prevede il compimento del massimo sforzo della comunità internazionale a “difesa dei civili”.Vista la mancanza di specificità su come poter attuare questa misura, un’interpretazione estensiva della carta agevola i raid. Il traffico nei cielo libico, tuttavia, non ha impedito a Gheddafi di lanciare l’ennesima invettiva. «L’Occidente verrà dimenticato sotto la polvere della storia», ha urlato il raiss, comparendo in pubblico. Un palazzo bombardato ha fatto da cornice per questa nuova apparizione. Il colonnello insiste nel presentarsi come strenuo combattente a fianco del suo popolo.
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Sul fronte politico, intanto, la situazione è ancora più complessa. Il dibattito sul comando in capo delle operazioni non è risolto. Ieri il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé, ha cercato di tagliare la testa al toro negando alcun ruolo politico alla Nato. Il Quai d’Orsay sta cercando di speronare i suoi alleati dell’Alleanza atlantica. Sulla base della risoluzione, Odissey dawn non prevede un meccanismo a doppia cabina di regia: politico e militare. Parigi, che vuole a tutti i costi avere il secondo, tenta di escludere a priori il primo. Così, l’opzione di due contenitori, nel caso fosse materia di discussione in sede Nato, sarebbe esclusa prima ancora di essere dibattuta. La mossa del ministro, tuttavia, non ha chiuso la partita. Intanto è l’Italia a portare a casa un risultato. La Nato ha assegnato al nostro Paese il comando delle operazioni navali per il controllo dell’embargo imposto alla Libia sul traffico di armi. Tecnicamente, si tratta di una meta importante. Raggiunta grazie alla disinvoltura del nostro ammiraglio Giampaolo Di Paola, ex Capo di Stato Maggiore della Difesa a Roma e adesso Presidente del Nato Military Commitee. Tuttavia, rischia di apparire come un surrogato delle richieste mosse da Frattini e La Russa. L’Italia è stata la prima a mettere le mani avanti all’eventuale comando
francese di Odissey dawn. I suoi partner, sebbene favorevoli, hanno dimostrato solo una scarsa convinzione in materia.
Gli Usa sembrano non volersene occupare. La Gran Bretagna invece - l’unica che potrebbe davvero mettere i bastoni fra le ruote a Sarkozy - preferisce restare a guardare. Intanto Raf,
Con l’ingresso della Turchia il Colonnello non potrà più parlare di Islam sotto attacco Royal Navy e Sas continuano a lavorare. In questo modo, se l’Eliseo ottenesse davvero i suoi scopi, la nostra Marina dovrebbe sottostare agli ordini di un superiore francese. I britannici, per quanto anch’essi subordinati, potrebbero muoversi più disinvoltamente grazie al contributo delle loro forze speciali.
A corollario di queste manovre, la Turchia si è dichiarata disponibile a fornire un sottomarino e cinque navi per il rispetto dell’embargo. La mini flotta di Ankara va ad aggiungersi alle altre die-
ci unità, ammiraglia italiana compresa, impiegate nell’operazione. La mossa turca collide solo apparentemente con le recenti dichiarazioni del premier turco Erdogan. Quest’ultimo aveva sottolineato che «mai i cannoni turchi sarebbero stati puntati contro la Libia». Sempre ieri, aveva aggiunto che fra i membri della Nato ci sarebbe qualche governo europeo che insegue «un’agenda coperta». Stando ai turchi, in pratica, qualcuno bombarda la Libia pro domo sua. Ma la presenza di Ankara torna utile per riassestare gli equilibri interni alla coalizione. Di fronte a una tale concertazione di ruoli, la Francia si trova in difficoltà a sostenere l’idea di un contributo quasi monopolistico nell’attacco. Inoltre, viene a mancare l’idea di uno micro scontro fra civiltà. Con la Turchia in azione non si può parlare di Islam sotto attacco, come inneggia il colonnello libico.Tanto più che Erdogan va solo ad aggiungersi alla già nutrita presenza di governi del Golfo che - pur titubanti e senza il patrocinio della Lega araba - hanno deciso di prendere parte a Odissey Dawn. Dopo i Mirage forniti dal Qatar, ieri il premier inglese Cameron ha ufficializzato la partecipazione di Kuwait e Giordania.
Detto questo, la crisi resta aperta. Non solo per la tenace resistenza dimostrata dall’artiglieria di Gheddafi. Bensì per la frammentazione che potrebbe venire a crearsi sul piano politico. L’insistenza francese rischia di tradursi in ostinazione. Nel caso Sarkozy riuscisse a ottenere il comando - più per sfinimento degli alleati che per sincera convinzione - su Parigi graverebbe l’ombra di essersi imposta nella coalizione. L’Italia, a sua volta, se davvero è interessata alla Libia - per prestigio politico-militare e cura dei propri interessi economici - non può permettersi di parlare solo di emergenza profughi. Assordante è invece il silenzio del resto d’Europa. Germania in primis. Degli Usa, infine, si è capita la tattica. L’obiettivo è risolvere la crisi con il minimo delle risorse e il più in fretta possibile. Ma soprattutto senza troppe ripercussioni nel resto del Medio Oriente. Per la Washington democratica cominciano a essere troppe le fiaccole della libertà accese nella regione. Dopo Egitto, Tunisia e Yemen, la crisi libica rischia di lanciare lapilli incendiari anche in Siria. Obama teme un coinvolgimento anche dell’Arabia Saudita.
offrirgli una exit strategy. Al momento, l’unica cosa che gli hanno garantito è di finire davanti a un tribunale internazionale all’Aja. Una prospettiva che lo farà combattere fino alla fine. La Turchia sta lavorando proprio alla definizione di una exit strategy... Erdogan in questo momento è l’unico capo di stato ragionevole di tutta la combriccola che ci troviamo davanti. Può darsi, però non rappresenta esattamente il pensiero dell’Occidente. È vero che il nostro governo sostiene fortemente la posizione turca, ma non possiamo certo dimenticare che Erdogan è anche amico della Siria e dell’Iran. E allora? Lo siamo anche noi. Sì certo, l’Italia è uno dei principali partner economici di Ahmadinejad. Lo è anche la Germania. D’altronde, grazie ai soldi nascono amicizie e altre solidarietà. Torniamo alla exit strategy. Quale può essere? C’è da dire una cosa: che se Gheddafi e il suo immediato entourage possono rifugiarsi all’estero i sostenitori di Gheddafi, che non dimentichiamolo stanno combattendo, mica possono lasciare la Libia, rimangono là. Con tutte le loro tribù. E mica possono restare vittime delle rappresaglie degli insorti! Quindi, molto verosimilmente, qualsiasi exit strategy che non sia accompaganata da specifiche garanzie di sicurezza delle tribù fedeli a Gheddafi non può avere successo. Gheddafi però può puntare anche sul fatto che in seno al mondo arabo si cominciano a lamentare per i bombardamenti, e questo gli consente di guadagnare tempo in attesa che le ambasciate occidentali vengano prese d’assalto dalle folle arabe inferocite, dopodiché il buon Sarkozy, anziché fare Napoleone calerà le arie. Come Napoleone a Sant’Elena. Un’ipotesi che, mi sembra di capire, non le dispiace affatto. Anche l’Italia potrebbe esserne contenta? L’Italia ha voluto dare un colpo al cerchio e uno alla botte, grazie al gioco delle parti e alle differenti dichiarazioni di Frattini e Berlusconi. Il motivo è chiaro: per tenere i piedi in due staffe. D’altronde non sappiamo cosa succederà e di conseguenza non possiamo giocarci completamente le possibbilità di un accordo con Gheddafi in futuro. A livello internazionale la nostra politica estera sulla questione libica non è stata particolarmente apprezzata... Questa è la nostra via. D’altronde anche Paolo Scaroni (amministratore delegato Eni, ndr.) fa la stessa cosa: continua a rifornire le centrali elettriche di Tripoli mentre le sue raffinerie continuano a raffinare petrolio e benzina da dare ai carri armati di Gheddafi. Di Sarkozy e Obama («uno sprovveduto», interviene Jean) abbiamo già detto, manca il terzo protagonista di questa “guerra”: il britannico David Cameron. Cameron si sta ritagliando uno ruolo in Nordafrica tramite l’Egitto, e ricordo che l’Egitto, storicamente legato alla Cirenaica, sta fornendo di armi e forze speciali i ribelli. L’obiettivo di Cameron (uguale a quello egiziano) è la divisione della Libia in Cirenaica, che possiede tre quarti delle risorse petrolifere libiche, e Tripolitania. La soluzione, tutto sommato, meno onerosa che si potrebbe immaginare adesso. Il fatto che la Tripolitania ci stia è però tutto da vedere.
la crisi libica
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Gruppo di contatto martedì a Londra
Arabia Saudita, fissate le elezioni
LONDRA. La prima riunione del «gruppo di contatto» sulla Libia, formato dai Paesi della coalizione internazionale che stanno partecipando alle operazioni in Libia, avrà luogo martedì prossimo a Londra. Lo ha annunciato il capo della diplomazia francese Alain Juppe. «Abbiamo appena deciso, io ed il mio omologo britannico, di invitare martedì prossimo a Londra un gruppo di contatto composto da tutti i Paesi che partecipano all’operazione, più l’Unione africana, Lega araba, e tutti i Paesi europei che desiderano essere associati», ha detto il ministro all’Assemblea Nazionale: si tratta di «mettere in chiaro che la direzione politica dell’operazione, non è della Nato, ma di questo gruppo di contatto».
Profughi: adesso Bolzano si sfila
RIAD. Dopo un rinvio di due anni, l’Arabia Saudita ha fissato per il prossimo 23 aprile le elezioni amministrative. L’annuncio, dato direttamente dalla casa reale wahabita, segna una nuova apertura del re Abdullah alle proteste popolari delle ultime settimane. Si tratta delle prime elezioni nel regno dopo lo storico voto del 2005, anche se allora, su 178 seggi da assegnare, solo la metà vennero scelti dagli elettori maschi (le donne non hanno diritto di voto), mentre i rimanenti restarono di nomina governativa. È dal 2003 che gli intellettuali e attivisti sauditi chiedono riforme politiche e sociali, fra cui la possibilità di eleggere i membri del Majlis al-Shura, il consiglio consultivo nazionale, oggi nominati dal re.
BOLZANO. «L’Alto Adige dispone di poche strutture idonee per i profughi in arrivo dalla Libia. Possiamo ospitare al massimo una cinquantina di persone». Lo ha detto il governatore altoatesino Luis Durnwalder. La protezione civile provinciale - ha precisato - potrebbe comunque mettere a disposizione «tende e container per circa 200-300 persone». Durante la guerra nell’ex Jugoslavia, l’Alto Adige aveva accolto circa 300 profughi in ex caserme a Malles, Vipiteno e Monguelfo, che - ha fatto presente Durnwalder - «nel frattempo sono state in gran parte abbattute. Tempo fa - ha spiegato - ci è stata chiesta la nostra disponibilità. Certamente faremo la nostra parte, nei limiti del possibile».
Continuano le operazioni degli alleati che attaccano le forze di terra per rompere l’accerchiamento di Misurata
Bombe contro l’assedio
Intanto esplode un ordigno a Gerusalemme: una vittima e 30 feriti di Pierre Chiartano
È una donna di 60 anni la prima vittima dell’attentato compiuto a una fermata dell’autobus a Gerusalemme. Per ora sono 39 i feriti, di cui tre in condizioni gravi. La deflagrazione, ha spiegato la polizia, è stata causata dallo scoppio di una bomba piazzata dagli attentatori presso un palo dei cavi del telefono
ROMA. È il quinto giorno dell’Odissea libica, mentre a Gerusalemme sembra ripresa la triste stagione degli attentati. I ribelli in Cirenaica sono ancora sotto le bombe di Gheddafi che martellano. Gli oppositori al regime non riescono ad approfittare dei raid aerei della coalizione internazionale. Sono male armati e mancano di un vero coordinamento. La pianificazione di Odissey Dawn, come dell’inglese Ellemy e della francese Harmattan hanno dovuto finora privilegiare obiettivi legati alla difesa aerea di Tripoli, in ossequio alla risoluzione Onu 1973: aeroporti, centri radar, postazioni di missili Sam (Surface to air missile) e infrastrutture militari in genere.
A Bengasi F-18 e Rafale avevano bloccato la vendetta del colonnello, colpendo le unità terrestri, ma si è evitata una strage solo per un soffio. I miliziani dell’opposizione sono male equipaggiati e non riescono a organizzare una controffensiva. I rivoltosi non sono stati neanche in grado di snidare le forze del rais dallo svincolo chiave di Ajdabiyah nella zona orientale. Mentre i mezzi pesanti del colonnello non sono ancora veramente entrati nel mirino dei cacciabombardieri imbarcati Hornet. Gli obici semoventi di Gheddafi infatti hanno continuato a sparare contro Misurata, massacrando molti civili. L’assedio della città ribelle, che dura da settimane, sta diventando sempre più disperato, con l’acqua tagliata da giorni e il cibo che sta finendo. Dal comando navale Usa però si assicura,
per voce del contrammiraglio Peg Klein, che presto questi mezzi diventeranno «obiettivi prioritari». «Alcune città assistono ancora ai carri armati che avanzano per attaccare il popolo libico», ha affermato Klein a bordo dell’unità anfibia d’assalto Kearsarge.«Siamo autorizzati – ha proseguito l’ufficiale Usa – e questo è il genere di obiettivo contro cui si rivolgerà il nostro attacco aereo». E ieri proprio a Misurata c’è stato un piccolo assaggio di ciò che subiranno le forze di terra del colonnello. I raid aerei hanno fatto tacere i cannoni del rais. Intanto gli alleati litigano sulla Nato. Sta nascendo un nuovo continente a sud dell’Europa e le vecchie strutture che da sempre ga-
rantivano la stabilità e la sicurezza soffrono di una crisi di crescita. Anche se si è aperta una mediazione, grazie all’intervento di Obama sul premier turco Erdogan. Turchi che non vorrebbero una Nato impegnata su in un altro Paese islamico.
La Francia gongola perché sa di aver ormai sfilato la sedia all’Italia in Libia. E va bene a tutti che Roma abbia il comando delle operazioni Nato per l’embargo navale, del resto già previste e attivate. Lo spazio per le verità addomesticate invece sembra sempre più stretto. Sono finite su Twitter le comunicazioni tra gli aerei della missione internazionale in Libia. Informazioni che le autorità militari custodi-
scono gelosamente sono oggi alla portata di tutti grazie ai radioamatori che, da una postazione in Olanda, captano le trasmissioni in chiaro fra il controllo operazioni e i jet in volo, per poi postare nomi in codice, posizione e movimenti sul popolare sito di microblogging. L’obiettivo principale, ha raccontato Huub, ex membro delle forze armate olandesi, «è ascoltare la verità» escludendo «la propaganda militare o politica». La formula vincente – ritiene il radioperatore – sta nella combinazione fra «l’informazione libera e globale su Internet e le informazioni che ricevo dall’etere». Negli ultimi due giorni, Huub ha postato notizie su diversi aerei in missione, compre-
si due Tornado italiani in volo verso Trapani, quelli che farebbero solo prendere aria ai missili anti-radar. Tra gli intercettati c’è anche il leggendario Commando Solo, l’aereo (un EC130J) delle forze americane specializzato in guerra psicologica, e attività propagandistica, le cosiddette psy-op. E se in volo qualche verità emerge, a terra le informazioni sulle vittime degli scontri sono molto frammentarie e non verificabili, dal momento che i corrispondenti si tengono giustamente alla larga dalle zone di guerra, visto la facilità con cui spariscono i reporter in Libia. Spesso le notizie sono riferite da cittadini libici contattati telefonicamente. A Tripoli ieri si sarebbero sentite due
la crisi libica
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Il Venerdì dello Yemen: domani tutti contro Saleh
Gli immigrati verso il centro di Mineo
SANA’A. L’opposizione yemenita non molla, e men-
LAMPEDUSA. La nave militare
tre Ali Abdullah Saleh, da 32 anni al governo e da settimane assediato dal suo popolo, fa approvare da meno della metà del Parlamento (il resto è passato con i dimostranti) lo Stato d’emergenza, convoca per domani un grande corteo sul palazzo presidenziale. «Sarà il Venerdi della marcia in avanti, con centinaia di migliaia di persone che arriveranno ovunque ti trovi per destituirti», ha affermato rivolto a Saleh il portavoce dell’opposizione Mohamed Qahtan, parlando dagli schermi di Al Jazeera. Le proteste preoccupano moltissimo le diplomazie occidentali, timorose che le varie cellule di Al Qaeda già attive possano rafforzarsi ulteriormente in assenza di uno Stato forte. Lo Yemen confina con l’Arabia Saudita, il maggiore produttore di greggio e
San Marco, ormeggiata nella rada di Lampedusa, ha iniziato a imbarcare gli immigrati trasportati sul natante a gruppi di circa cinquanta con piccole imbarcazioni. Dovrebbero trovarvi posto 600 persone, che verranno trasferite nel centro allestito a Mineo, in provincia di Catania. nel pomeriggio si è sbloccata la situazione di stallo che aveva impedito ai mezzi della nave della Marina di imbarcare i migranti. Al centro di Mineo era stato deciso, nelle settimane scorse dal ministero dell’Interno, di trasferire i richiedenti asilo, per liberare così posti per i nuovi arrivati. Ora però sembra, sempre secondo fonti qualificate, che si sia deciso di utilizzare il villaggio di Mineo per ospitare i migranti presenti a Lampedusa.
esplosioni poco prima dell’alba, al termine del quarto giorno di attacchi, secondo quanto riferito da testimoni alla Reuters. Mentre l’aviazione occidentale ha reso inoffensivi gli aerei da guerra di Gheddafi e ha respinto le forze del rais giunte alle porte della roccaforte dei ribelli, Bengasi. «Non ci arrenderemo», ha gridato Gheddafi, in una diretta televisiva, ai suoi sostenitori che formano uno scudo umano per proteggerlo nel suo quartier generale nella capitale. È stata la prima uscita tv dall’inizio degli attacchi aerei. Intanto dall’intelligence Nato arrivano conferme sul traffico d’armi e di mercenari che continuerebbe, alimentando il conflitto libico. Il governo di Tripoli ha negato che il suo esercito stia conducendo operazioni offensive, aggiungendo che i soldati si stanno solo difendendo quando vengono attaccati, ma ribelli e residenti hanno riferito che i carri armati di Gheddafi hanno colpito a Misurata e stavano attaccando Zintan, cittadina al confine con la Tunisia.
A Gerusalemme i bus della linea 74 che portano pendolari e gente comune in centro sono sempre pieni. Ieri nel primo pomeriggio, verso le 15.00, uno di questi mezzi si era appena arrestato davanti alla fermata dell’International convention center, sulla Ha’alyia street che si prende girando a sinistra sul grande boulevard dedicato alla memoria dell’ex premier Rabin. Quando è stato investito da una violenta esplosione che ha colpito anche il bus 16 che seguiva. La deflagrazione sarebbe stata causata da un ordigno telecomandato. Secondo il ministro della Sicurezza interna israeliano,Yithzak Aharonvitch, la bomba era nascosta in una borsa depositata vicino a un chiosco. Ci sarebbero oltre trenta feriti di cui almeno quattro verserebbero in gravi condizioni. Nel tardo pomeriggio si è saputo del primo decesso. E la tensione terrorismo è salita anche in Europa. Ieri sera è stata evacuata la Torre Eiffel a Parigi per un allarme bomba.
con le rotte marittime più trafficate al mondo. A lungo sostenuto dai leader arabi e occidentali in quanto uomo forte capace di unificare un paese molto tribale, Saleh ha agitato lo spettro della guerra civile se dovesse essere rimosso da un colpo di Stato. Molti ambasciatori, deputati, capi tribù e ufficiali dell’esercito si sono schierati contro Saleh e la feroce repressione del sistema che ha provocato il massacro di 52 manifestanti venerdì scorso.
Diario delle operazioni Fino ad oggi 336 sortite aeree: 212 ad appannaggio Usa e 124 degli alleati
L’aviazione del Rais non esiste più di Stranamore
Presto gli obici semoventi di Gheddafi saranno nel mirino dei raid della coalizione
uello che sta accadendo in Libia fa un po’a pugni con la logica militare. In genere nei conflitti recenti si parte con un massimo sforzo iniziale e poi progressivamente il ritmo rallenta perché il nemico ha sempre meno capacità operative e ci sono meno bersagli da colpire. Questo almeno nelle guerre moderne in cui lo strapotere occidentale si è confrontato con avversari statali e non molto più deboli. In Libia sta accadendo il contrario, si è partiti con quello che era disponibile subito, perché la riscossa delle truppe di Gheddafi era troppo rapida e consistente per consentire di aspettare i tempi della diplomazia. E naturalmente si è corso il rischio solo perché ben si conosceva la pochezza dello strumento militare del colonnello. Ora però aerei e navi stanno affluendo nel teatro di operazioni e, dopo qualche periodo di “acclimatamento” entrano in azione. Intendiamoci, il numero delle sortite giornaliere condotte dai velivoli della coalizione è davvero limitato. Da poco si è arrivati ad un numero a tripla cifra… Una sola portaerei americana che lavori a pieno ritmo potrebbe sostenere numeri del genere. È anche vero che una sortita aerea oggi è molto più efficace che in passato, perché un aereo può ingaggiare più bersagli in successione o anche simultaneamente. I dati ufficiali indicano un totale di 336 sortite aeree, delle quali 212 appannaggio di aerei Usa e 124 di velivoli alleati. Il che la dice anche lunga sul peso del rispettivo contributo. Le no fly zones vengono dunque estese progressivamente verso ovest e si creano nuove zone di interdizioni, mentre gli aerei alleati si spingono anche per mille km. all’interno della Libia. L’aviazione di Gheddafi non esiste più. E infatti non c’è stato un solo caso in cui un aereo libico sia decollato e sia stato abbattuto in volo. Con il passare dei giorni questa eventualità sarà sempre più remota. Le difese aeree fisse sono state fatte a pezzi. Che fossero operative e minacciose o arruggi-
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nite e silenti non ha importanza. I bersagli fissi sono stati spazzati via. Resta ben poco. Ci sono anche batterie mobili di SA-6 e SA-8, che sono sottoposte ad un intenso trattamento di guerra elettronica che le rende inefficaci. L’arma più pericolosa per gli aerei della coalizione è il missile antiaereo spalleggiabile SA-24 Grinch, l’ultimo grido dei missili a guida IR made in Russia. Ufficialmente non dovrebbe essere in Libia, ma invece c’è e sarebbe interessante capire come ci è arrivato.
SA-24 è un brutto cliente ed è bene una certa prudenza quando si scende di quota. Per il resto la air dominance alleata è assoluta. Lo conferma la missione Csar (combat search and rescue) condotta dai Marines (pare con qualche letale pasticcio) con i convertiplani V-22 Osprey per andare a recuperare il pilota e Wso di un F-15E dell’Usaf precipitato per cause “tecniche”. Che lo Strike Eagle sia precipitato per un guasto o sia stato colpito è ininfluente, la guerra non è mai a senso unico. Quello che stanno facendo gli aerei alleati è sottoporre al massimo logoramento le forze di Gheddafi. Almeno quelle pesanti che si fanno sorprendere in campo più o meno aperto. Gli aerei alleati attaccano non solo le colonne di rinforzi, ma anche quelle che si ritirano. E di fatto cercano di dare una mano alle forze ribelli in avanzata. Solo che il coordinamento, quando c’è, funziona male. I ribelli pensano per la seconda volta di avere vinto e quindi hanno provato a lanciarsi in avanti. Subendo dure lezioni dai lealisti. In teoria gli aerei dovrebbero aprire la strada alle armate brancaleone dei ribelli. Ma quando i ribelli si avvicinano ai centri abitati in mano ai lealisti e questi sono ben appostati tra palazzi e sobborghi il gioco diventa pericoloso. Perché gli attaccanti ribelli sono numerosi, ma i “difensori”, al momento, sono meglio armati e comandati. E gli attacchi aerei nelle città sono ancora (quasi) un tabù.
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la crisi libica
Obama non sbagliar Dalla Somalia al Golfo Persico, dal Sudan fino in Egitto. E poi Israele, Libano, Siria, Iraq, Iran: un’unica «rivoluzione» di Michael Ledeen acevo bene a preoccuparmi del modo in cui il Presidente Obama avrebbe dimostrato al mondo la sua capacità di saper usare il pugno di ferro. E sicuramente la confusione che circonda qualsiasi cosa abbia a che fare con la Libia ne è una prova. Tuttavia avevo sottovalutato quanto la sua amministrazione avrebbe frainteso la situazione, influenzando anche buona parte degli esperti, ad un livello tale che al momento è praticamente è impossibile capire cosa succede davvero in Libia. Per carità, non è un fatto insolito nè sorprendente. Quando sono scoppiate le rivolte in Egitto, si parlava e si agiva solo dell’Egitto e per l’Egitto. Quando sono scoppiate le rivolte in Tu-
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cipare gli eventi futuri. E la cosa peggiore è che ci trovavamo in una posizione privilegiata e che da questa guerra avremmo potuto beneficiare moltissimo. Invece scopriamo che potremmo “vincere” in Libia (rovesciare Gheddafi, dare poteri ai “ribelli”, lanciare il solito meccanismo per una nuova costituzione, nuove elezioni e nuovo governo) e assolutamente perdere la battaglia, quando nemici ancora più virulenti del colorito colonnello di Tripoli prenderanno il comando.
Dobbiamo vincere la grande guerra. Le decisioni riguardo alla Libia dovrebbero essere subordinate ad una seria strategia di guerra, che a sua volta dovrebbe avere co-
“
Se siamo riusciti a rovesciare l’Impero Sovietico senza bombardare Leningrado, allo stesso modo riusciremo sicuramente a rovesciare le tirannie dei nostri nemici in Medioriente
nisia, si trattava e si parlava solo di una questione isolata, da analizzare e risolvere. Ed ora c’è solo la Libia, per tutto il tempo.
Ma non si tratta della Libia. La verità è che siamo tutti coinvolti in una grande guerra. Questa guerra si estende dalla Somalia al Golfo Persico, dal Sudan fino in Egitto e da qui fino a Israele, Libano, Siria, Iraq, Iran e Turchia attraverso l’Africa settentrionale. Arriva fino all’America centrale e meridionale e sicuramente alcuni dei suoi soldati si trovano sul nostro territorio. Le tensioni e le ragioni implicate in questa guerra hanno trasformato molti di questi paesi in campi di battaglia e visto che ci siamo rifiutati di vedere la guerra per quello che è, non abbiamo una visione chiara dei combattenti, nè tantomeno la capacità di prevedere e anti-
”
me obiettivo i nostri nemici principali. Un cambiamento di regime a Tripoli è un valido obiettivo, ma non è una missione strategica cruciale. Dovremmo desiderare un cambiamento di regime in Siria e Iran. Ci sono moltissime ragioni per criticare Obama per il caso Libia, ma non si è mai parlato di quella più importante: il campo di battaglia è sbagliato! I campi di battaglia che determineranno l’esito della grande guerra sono Teheran e Damasco, e su questi infatti sono in corso battaglie. Potremmo compiere una differenza determinante, senza alcun bombardamento, senza mettere a rischio la vita di cittadini americani, solo dando un supporto politico e magari anche economico e tecnologico alle rivolte iraniane e siriane. I regimi tirannici sono vuoti, le persone hanno dimostrato un grande
la crisi libica
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re: è una sola grande guerra coraggio, e se - come continuo a sentire - siamo intervenuti nel conflitto libico a sostegno del popolo che sta lottando per la propria libertà contro i dittatori, a maggior ragione dovremmo sostenere gli iraniani e i siriani che stanno lottando contro gli assassini di un numero superiore di americani di quanti ne abbia uccisi Gheddafi.
Da sempre, le relazioni internazionali degli Usa vanno oltre gli schieramenti di partito
Riabilitiamo George W. Bush Dall’Afghanistan alla Libia: dietro c’è la strategia politica di William Kristol così, nonostante molti dubbi e perplessità, il presidente Obama si sta imbarcando in un’altra guerra dentro i confini di un paese musulmano. Buon per lui. Il presidente, e questo è chiaro a tutti, ha fatto di tutto per evitarlo. Ha passato giorni di grande infelicità - spaventato da una similie eventualità – in cui è apparso sostanzialmente paralizzato e incapace di prendere decisioni. E alla fine ha deciso: se proprio doveva agire, era meglio farlo dando l’impressione di essere quasi invitato all’intervento dalla Lega Araba e subordinando l’azione americana al volere del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Dopo tutto nulla – nulla! - avrebbe potuto essere peggio della percezione che gli Stati Uniti fossero pronti a “invadere”un altro paese musulmano.
stan. Il 17 marzo, per esempio, poche ore prima che il Consiglio di Sicurezza votasse sulla Libia, la Camera dei Rappresentanti dibatteva su una risoluzione del deputato conservatore Tennis Kucinich che chiedeva al Presidente - in vista della nuova guerra di Libia - di ritirare le truppe dall’Afghanistan. La nostra guerra in quel paese ha potuto contare fin dal principio su un supporto bipartisan.
E
Tutte sciocchezze. Le nostre “invasioni” si sono dimostrate, alla resa dei conti, liberazioni. Abbiamo versato sangue e speso fortune in Kuwait nel 1991, nei Balcani alla fine degli anni Novanta e in Afghanistan e Iraq. Nel nostro interesse nazionale, certo, ma anche per proteggere il popolo musulmano e
aiutarlo a diventare protagonista della propria libertà. La Libia sarà la quinta guerra di liberazione musulmana. Il moderno partito Repubblicano ha giocato un ruolo chiave in questa onorevole contesa. Quando guidavano il Paese, i repubblicani hanno deciso di condurre questa battaglia per la libertà. Quando erano all’opposizione, hanno spinto i presidenti democratici ad agire – nei Balcani ieri, in Libia oggi – supportandoli sempre quando prendevano decisioni consone ai valori e agli interessi americani, come nel caso del surge in Afghani-
E così tutta la leadership del Gop (ma anche l’amministrazione Obama) ha votato contro questa folle proposta. E questo mentre quasi la metà dei democratici votavano a favore. Risultato finale: 222 repubblicani l’hanno affossata (solo 8 i contrari). E di questi ben 87 sono delle new entry, sono quel volto nuovo della politica che in maniera molto frettolosa la stampa inquadra come neo-isolazionisti. Tutte balle. Nessuno di loro ha votato per Kucinich. Tutto questo non significa che non ci sia un dibattito in seno al partito e fra i conservatori sul ruolo dell’America in politica estera e di difesa. C’è eccome e dovrebbe sempre esserci. Repubblicani e conservatori stanno compiendo un autentico sforzo per re-
stare ancorati alle proprie tradizioni politiche e al contempo immaginare, senza restrizioni ideologiche, l’ipotesi del ritiro. È solo che questa possibilità purtroppo fa a pugni con la situazione internazionale del 2011. Detto questo, il tema è in agenda e ben accetto. E si inserisce nel solco del pensiero e delle tradizioni politiche espresse da Reagan - Bush - Dole - W. Bush e McCain. Che in politica estera non sono mai rimasti asserragliati entro i confini ideologici dei propri partiti di riferimento. È una tradizione di cui andare fieri. È raro che un partito sia capace di rappresentare qualcosa di più di un mero interesse di parte. È raro che un partito sia capace di farsi carico dell’interesse nazionale, della grandezza del suo Paese e dell’eccezionale ruolo americano nella liberazione dei popoli del mondo. È raro. Ma oggi il moderno partito repubblicano si pone esattamente questo obiettivo. Ed è pronto ad appoggiare i democratici se lavoreranno per l’interesse e i valori statunitensi. È quello che hanno fatto riguardo all’Afghanistan, è quello che sono pronti a fare riguardo alla Libia. A patto che il nostro impegno, in quella terra, continui.
Non credo che Obama e le sue tre Valchirie (Hillary Clinton, Susan Rice e Samatha Power) capiscano lo schema della grande guerra, ma spero che capiscano la logica secondo cui “se è giusto difendere i libici è ancora più giusto difendere gli iraniani e i siriani”. C’è ancora un piccolo dettaglio: il video di Obama al popolo iraniano in occasione del capodanno iraniano: «Sono con voi», ha detto agli iraniani che combattono contro il regime. Basta con le strette di mano, sembrerebbe. Non è certo un bel momento, ma come sappiamo tutti è meglio essere fortunati che acuti. Se, attraverso il confuso sottobosco di internazionalismo e interventismo umanitario, così svenevole, giungessimo alla decisione di sfidare finalmente i nostri nemici principali, sarebbe un segnale importantissimo. Se riuscissimo a porre fine al dominio di fanatici a Damasco e Teheran, l’intero mondo cambierebbe, e decisamente in meglio. Valchirie! Se siamo riusciti a rovesciare l’Impero Sovietico senza bombardare Leningrado, allo stesso modo riusciremo sicuramente a rovesciare le tirannie dei nostri mortali nemici in Medioriente. La Repubblica Islamica di Khamenei è ancor più fragile dell’Urss di Gorbachev. Se, invece, sceglieremo (stiamo già scegliendo?) di intervenire in Libia perché il nostro leader vuole dimostrare al mondo che è capace di gettare bombe su un folle che ha il petrolio, allora il mondo diventerà sicuramente più cupo.Obama! Devi giocare nel vero campionato. Ci troviamo in America, abbiamo grandi sogni, possiamo cambiare il mondo. Ti piacerà. Ma per vincere veramente, vai a cercare la vittoria in una grande guerra, la vera guerra. I campi piccoli sono fin troppo semplici.
politica
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Berlusconi, contro le raccomandazioni di Napolitano, nomina il «responsabile» all’Agricoltura. E Galan ai Beni culturali
Lo strappo di Romano Il Colle: «È indagato». Il neo-ministro polemizza. E scoppia un nuovo caso di Marco Palombi
ROMA. La fotografia della giornata sono le figure dei due responsabili Elio Belcastro e Bruno Cesario che dalle 9 alle 10.50 aspettano nei corridoi di Montecitorio. Cosa aspettano? Un sms. Quando arriva, si muovono e vanno a fare il loro dovere: entrano nell’aula in cui si tiene la Giunta per le autorizzazioni - scortati dal vicepresidente della Camera Antonio Leone - e diligentemente votano a favore del parere predisposto da Maurizio Paniz che solleva conflitto d’attribuzione alla Consulta sul processo Ruby. In sostanza la Giunta della Camera ha deciso per 11 voti a 10 che Silvio Berlusconi va processato dal Tribunale dei ministri e non da quello di Milano e chiede alla Corte costituzionale di stabilirlo formalmente. Come che sia, responsabilmente e inevitabilmente, Belcastro e Cesario hanno recitato il loro atto di fede alla maggioranza e al premier. Ma cosa hanno letto sul display del loro cellulare? L’estensore di questo articolo non è onnisciente, ma forse aiuta una notizia flash dell’Ansa uscita alle
mano: sul neoministro, infatti, pende un’inchiesta per concorso in associazione mafiosa non ancora chiusa (il pm aveva chiesto l’archiviazione, ma il gip l’ha rifiutata) e al capo dello Stato non piaceva affatto l’idea di mettere la sua firma sotto il decreto di nomina di un indagato di quel tipo. Ieri mattina, però, Napolitano ha dovuto cedere: senza Romano niente conflitto d’attribuzione, senza conflitto d’attribuzione crisi di governo e con la guerra in Libia, i rischi in Giappone e la manovra economica alle porte non ce la possiamo permettere. Anche il presidente della Repubblica è stato insomma responsabile, ma ha deciso almeno di non far passare la cosa sotto silenzio. Per questo intorno alle 13 dal Quirinale parte una nota stampa che esprime la frustrazione del capo dello Stato ed è insieme un ceffone in pieno volto per il nuovo ministro e il presidente del Consiglio: «A seguito dell’odierna formalizzazione della proposta da parte del presidente del Consiglio, il presidente della Repubblica ha proceduto alla
Nella nota del Quirinale, diffusa poco dopo l’incontro col nuovo titolare del dicastero, sono state sottolineate alcune perplessità circa il «procedimento a suo carico per gravi imputazioni» ore 10.49: «Saverio Romano potrebbe essere nominato oggi ministro dell’Agricoltura. Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi potrebbe infatti salire oggi al Quirinale per sottoporre la nomina all’attenzione del Capo dello Stato. È quanto si apprende in ambienti della maggioranza». In quei minuti i due entrano in Giunta e si può finalmente votare. Alle 12.30, l’ex segretario siciliano dell’Udc sale sul Colle più alto per accaparrarsi la poltrona tanto agognata togliendola a Giancarlo Galan, che si prende per compensazione i Beni culturali del definitivamente dimissionario Sandro Bondi.
Qui, però, la faccenda s’ingarbuglia. Giorgio Napolitano da settimane aveva fatto presenti al Cavaliere i suoi dubbi su Ro-
nomina non ravvisando impedimenti giuridico-formali che ne giustificassero un diniego. Egli ha in pari tempo auspicato che gli sviluppi chiariscano al più presto l’effettiva posizione del ministro» nel «procedimento a suo carico per gravi imputazioni». È a quest’ultima parola - che nel contesto significa chiaramente accuse o ipotesi di reato - che ha tentato di appellarsi il ministro siciliano: «Sono dispiaciuto - ha detto Romano ai giornalisti - L’incontro col presidente è stato cordialissimo e invece il suo ufficio stampa ha scritto una nota inesatta perché io non sono mai stato imputato e che, a mio parere, non rispecchia il pensiero del Capo dello Stato». La toppa peggio del buco, come si dice, perché non ha fatto che provocare una nuova, sdegnata, ri-
sposta del Colle: non commentiamo le sue parole, dice il Quirinale, ma basta rileggere la nota delle 13 per scoprire che a Romano non viene mai «attribuita la qualifica di imputato».
Ovvie le critiche dell’opposizione alla nomina (e qualche rampogna se l’è presa anche il capo dello Stato, accusato di aver inventato «la nomina con riserva»), come pure la soddisfazione dei responsabili («così si valorizza il nostro apporto», sostiene il capogruppo Sardelli) e il comunicato stampa di soddisfazione un po’ sgrammaticato di Silvio Berlusconi: tanti saluti a Bondi, auguri a Galan e «al nuovo ministro delle Politiche agricole Saverio Romano, che porterà nell’incarico la sua conoscenza dell’economia del Sud di cui l’agricoltura è il settore più importante, le mie congratulazioni». Scontata anche, per chi ha seguito la pochade della terza gamba della maggioranza, la palese irritazione di quelli che speravano nel sottosegretariato e dovranno aspettare ancora: «Se quella di Romano è una corsa solitaria dice ad esempio Francesco Pionati - creerà qualche problema nel gruppo». Il fatto è che il partitino del neoministro, che è solo un pezzo dei Responsabili, vorrebbe altri posti e in una riunione ieri mattina c’è stata un po’ di maretta. Comunque le poltrone da spartirsi sono cinque: il viceministero al Commercio estero che dovrebbe andare a Massimo Calearo e quattro da sottosegretario per cui concorrono almeno in sei. Si vedrà: ieri sera, quando questo giornale era già in stampa, s’è tenuta una cena tra il presidente del Consiglio e il gruppo di Iniziativa responsabile in cui - c’è da scommetterci - Berlusconi avrà dovuto di nuovo sorridere e promettere, promettere e sorridere. Solo Sandro Bondi, a cui tutti ieri - dopo essersi accertati che davvero non era più ministro - hanno dedicato pensieri commossi, non ambisce e non chiede più niente: si limiterà a reggere con entrambe le mani la poltrona di coordinatore del Popolo della libertà, visto che ci ha messo gli occhi sopra Claudio Scajola.
Addio al rigore se c’è da votare il federalismo
Bondi se ne va e arrivano i soldi Per magia il governo sblocca 200 mln per il Fus e altri 400 per il trasporto locale di Francesco Pacifico
ROMA. Giulio Tremonti dice che «la cultura non si mangia». Ed ecco Sandro Bondi e Gianni Letta replicare in modo beffardo che «il tax credit per il cinema sarà coperto non più aumentando di un euro il biglietto del cinema, ma alzando di uno o due centesimi l’accisa della benzina». Il ministro dell’Economia chiede più rigore alle Regioni, ed ecco Roberto Calderoli ammettere di fronte a Vasco Errani e a una delegazione di governare che, «se fosse per me, accetterei tutte le vostre richieste. Ma bisogna parlarne con Giulio». Ieri 195 milioni di euro per il comparto sicurezza e 428 milioni per il fondo unico per lo spettacolo. Oggi 425 milioni di euro per il trasporto pubblico locale. Sarà stato il Rubygate o i dubbi del Capo dello Stato sulla nomina a ministro di Saverio Romano, fatto sta che più il centrodestra perde pezzi e consensi e più viene meno
il rigore che Tremonti ha imposto ai colleghi. E così spuntano soldi impensabili fino a qualche settimana fa. Ma è difficile tenere salda la barra se davanti a Palazzo Chigi, con il Consiglio ministro in corso, ci sono gli agenti che protestano per i tagli e se per il giorno seguente sono in programma sia lo sciopero generale dei lavoratori dello spettacolo sia il voto in commissione Bicamerale sul federalismo regionale.
Proprio l’inversione di marcia sul fondo unico per lo spettacolo è stato accompagnato da accenti imprevisti: i soldi sono stati sbloccati nello stesso giorno delle dimissioni di Sandro Bondi da ministro dei Beni culturali. «Si è passati dal dramma al melodramma», ha malignato il responsabile cultura del Pd, Matteo Orfini. «Il ministro Bondi lascia nella maniera più nobile e costruttiva», lo saluta Gian-
politica
24 marzo 2011 • pagina 11
Il nostro Paese resta ancora in cerca di vere strategie industriali
Lo scudo di Tremonti salverà i gioielli italiani? Il decreto «anti-opa straniere» arriva dopo la vendita di Bulgari e scalata di Parmalat, in difesa di Mediobanca di Gianfranco Polillo i deve riconoscere che Giulio Tremonti ha operato con tempestività. Il Consiglio dei ministri ha varato il decreto legge che mira a contenere le “invasioni barbariche”. Vale a dire lo shopping da parte del capitale estero – specie francese – dei gioielli di famiglia. Quelle imprese che hanno una rilevanza strategica nei settori chiave dell’economia nazionale: il lusso, l’energia, la filiera agro-alimentare e, in prospettiva, il mondo assicurativo e quello delle grandi banche. Vale a dire il gruppo Ligresti (Milano assicurazione e Fondiaria) nonchè Generali per non parlare di Mediobanca che ha un ruolo strategico in Rcs: l’editrice del Corriere della sera. Da domani sarà più difficile comprare un’azienda italiana, fino ad assumerne il controllo assoluto. Sarà, infatti, necessario, sulle orme francesi, il preventivo assenso delle Autorità italiane. Emanate, in tutta fretta nel 2005, e passate alla storia con il termine di “legge anti-Opa”, bloccarono, in Francia, il tentativo di scalata da parte del gigante americano Pepsi-Cola nei confronti della Danone. Oggi, quelle stesse regole sono utilizzate per contrastare i padroni di casa. Ironia della sorte e un pizzico, non sappiamo quanto voluto, di perfidia. Comunque una scelta saggia che riduce l’area dei possibili contenziosi comunitari.
S
ni Letta, che ieri ha affrontato la stampa per ridare onore al collega dimissionario. Con un decreto che dovrebbe modificare sia l’ultima Finanziaria sia il Milleproroghe, il governo riporta a quota 149 milioni l’integrazione del Fus per il 2011, di nuovo a quota 428 milioni anche grazie allo scongelamento di altri 26 milioni che in primo tempo erano rientrati nei tagli di Tremonti. Confermato il tax credit al settore. «Il Fus torna a 428 milioni, cioè al livello dello scorso anno. Abbiamo recuperato circa il 60 per cento di quanto ridotto con l’ultima manovra. Ora possiamo tornare a investire, ad assumere giovani», cinguettono all’unisono lo stesso Letta e il direttore del dicastero, Salvo Nastasi. Soprattutto ci sono altri 80 milioni per la manutenzione e conservazione dei Beni culturali e 7 per gli istituti culturali, con Bondi che lascia anche un pacchetto di norme per affrontare l’emergenza Pompei. Rocco Buttiglione (Udc) si è rallegrato perché «almeno una parte delle iniziative per la cultura che avevamo da tempo richiesto sono state state messe in pratica dal governo, nello specifico il ripristino del Fus e del tax credit». Se la soddisfazione è trasversale, resta un piccolo giallo sulla copertura, visto che l’utilizzo di fondi provenienti dall’aumento delle accise, potrebbe essere dovuto allo spostamento verso questo capitolo di finanziamenti previsti
per altre materie. Soltanto la pubblicazione del decreto svelerà arcano. Non lo risolve invece Bondi, che affida a una lettera la sua amarezza per «i ripetuti appelli inascoltati» e la soddisfazione per aver trovato i fondi necessari per il Fus. Che non sarebbero mai arrivati senza «le giuste rivendicazioni avanzate dal mondo dello spettacolo» (come il j’accuse di Elio Germano a Cannes) e «senza la presa di coscienza del ministro Tremonti». Calderoli spera che il collega prenda atto anche delle richieste delle Regioni. Le quali chiedono la restituzione di 425 milioni per il trasporto pubblico, come previsto in un accordo stretto con il governo nel natale scorso.
Incontrando Errani, il ministro per la Semplificazione ha promesso di legare nel decreto oggi al voto in Bicamerale la copertura questi soldi a una nuova addizionale o all’accisa sulla benzina. Di rimando i governatori gli hanno chiesto di sbloccare «attraverso un decreto di Tremonti e Sacconi i 425 milioni inseriti nella legge di stabilità per il finanziamento del Fondo sociale». Questa mattina è attesa la risposta. Se sarà un sì, il Pd potrebbe votare a favore del testo, mentre il Terzo polo conferma il no. «Ancora una volta», denuncia Gian Luca Galletti, «si barattono pezzi di tasse per ottenere il via libera degli enti locali, con l’unico risultato di aumentare le tasse».
Le norme licenziate dal Consiglio dei ministri sono “aperte”. Spetterà al Parlamento, grazie al gioco degli emendamenti, introdurre eventuali modifiche e correzioni, nel rispetto tuttavia dei principi sanciti dal Trattato. Misura tardiva? Come si è affrettata a denunciare l’opposizione. La “resistibile ascesa” del capitale francese e la facile conquista di molte roccaforti italiane deriva anche da carenze legislative. Ma non solo. Bulgari ha venduto a Lvmh solo dopo aver tentato inutilmente si organizzare una cordata italiana, che consentisse all’azienda di reggere meglio alla concorrenza del mondo globalizzato. Lactalis ha avuto partita vinta – vedremo il secondo tempo... – per le incertezze dei suoi possibili competitor. Il gruppo Ferrero non ha sciolto la riserva in tempo utile. Unicredit è rimasta alla finestra e lo stesso è capitato a Banca Intesa. Le guerre – anche quelle finanziarie – non si vincono con le buone intenzioni. Si affrontano mobilitando forze reali: capitali, impegno imprenditoriale, gusto per il rischio e per la sfida. Soprattutto coinvolgendo i lavoratori in progetti di più ampio respiro, in cui ciascuno
possa ritrovarsi. Qualcosa, in questo campo, è stato fatto, ma la strada di una modernizzazione delle relazioni industriali è ancora lunga. Basti pensare alla vicenda Marchionne e alle chiusure di una parte così consistente del sindacalismo italiano.
Questo è oggi il contenuto vero di “una politica industriale”: per riprendere le critiche di Luca di Montezemolo sul Financial Times. Non siamo più negli anni Settanta, quando la politica economica rispondeva a una logica dirigista. Nessuna polemica retrospettiva, ma la semplice considerazione che quel mondo, ormai, non esiste più. E noi non siamo in grado di incidere su regole che hanno una portata di carattere mondiale. Il punto è semmai quello di convivere con questo elefante, senza far rovesciare la barca che ancora – seppure con qualche difficoltà – ci tiene a galla. Questo significa reinventare istituti e regole. Modernizzare quanto di antico e stantio – ed è ancora molto – ci portiamo dietro. Contribuire a far lievitare un’etica diversa all’insegna di una responsabilità diffusa. Che deve essere di tutti. Compito del Governo? Indubbiamente, ma non solo. Occorre convergere verso obiettivi condivisi, lasciando alla politica il compito del confronto sulle strade migliori da intraprendere per conseguirli. Su questo terreno si misura, innanzitutto, la forza effettiva dell’establishment. La sua capacità di guardare a un orizzonte più ampio in cui conflitto e competizione convivono, tuttavia, con il senso del limite. In difesa dei grandi interessi nazionali. Questo è quello – lo abbiamo già scritto – che manca effettivamente all’Italia. Mentre è la forza effettiva delle altre grandi democrazie occidentali. Se non supereremo questo handicap nel grande gioco internazionale, dove la competizione ha la forza di un rullo compressore, saremo sempre sconfitti. Giuliano Amato, criticando le spinte secessioniste della Lega, si chiedeva se al tavolo della trattativa, che vede schierati da un lato il presidente cinese e dall’altro quello americano, possiamo mandare l’Atalanta. Con tutto il rispetto per la squadra bergamasca. Noi rovesciamo il ragionamento. Nel confronto a tutto campo con i colossi dell’economia internazionale, possiamo continuare schierare un esercito diviso. I cui generali, invece di mantenere l’unità del comando, si sparano l’un con l’altro? Domanda retorica. Ma a fronte, di risposte finora inadeguate.
Nel confronto a tutto campo con i colossi dell’economia internazionale, non possiamo continuare a schierare un «esercito» diviso
diario
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Nomine: perquisita la sede delle Fs ROMA.
Una perquisizione «presso terzi» è stata fatta nella sede di Trenitalia a Roma. A quanto si è appreso la perquisizione, eseguite dalla Guardia di finanza e finalizzata all’acquisizione di documenti, è stata disposta dal pm di Napoli nell’ambito dell’inchiesta in cui è coinvolto il deputato del Pdl Marco Milanese per i suoi presunti interessamenti per nomine ai vertici di alcune società. La perquisizione «presso terzi» esclude che nell’inchiesta siano indagati dirigenti di Trenitalia. Secondo indiscrezioni, gli inquirenti intenderebbero verificare eventuali interventi di Milanese - che in questa indagine è indagato per l’ipotesi di corruzione - anche per alcune nomine ai vertici di società del gruppo Trenitalia.
Aria riadioattiva passa sull’Italia
Al via lo stoccaggio della CO2
ROMA. Nella serata di ieri è
ROMA. Il Consiglio dei Ministri
transitata per i cieli italiani una massa d’aria che conteneva tracce di radioattività proveniente dal Giappone. Ma il ministro della Salute, Ferruccio Fazio ha tranquillizza sulla assenza di rischi: «Il pericolo legato all’arrivo delle radiazioni dal Giappone è zero. Si tratta solo di correnti d’aria che contengono minime quantità di radioattività assolutamente non tossiche e non pericolose. Questo - ha aggiunto - è quello che pensano tutti gli esperti nazionali e internazionali. Quindi ha ribadito - il rischio è zero». Quanto alle importazioni di cibo dal Giappone, Fazio ha ricordato che «a ieri non c’erano state importazioni di cibo da quel paese successive all’11 marzo».
ha approvato anche un decreto che definisce le norme per la cattura e lo stoccaggio della CO2 nel nostro paese. Si tratta di un metodo che consente alle centrali che utilizzano combustibili fossili, di “iniettare”la CO2 nel sottosuolo in appositi siti, ed evitare di immettere nell’atmosfera anidride carbonica, contribuendo così all’impegno contro i cambiamenti climatici. La tecnologia CCS, «carbon capture e storage», è già in fase di sperimentazione in Italia nell’impianto Enel di Brindisi - ha spiegato il ministero dell’Ambiente e richiede, in conformità con le normative europee un quadro legislativo di riferimento nella prospettiva di una sempre maggiore utilizzazione».
Passa nella Giunta per le Autorizzazioni la tesi che debba essere l’Aula della Camera a pronunciarsi sul ricorso alla Consulta
Ruby, un parere responsabile
Via libera sul conflitto di attribuzione grazie a due deputati “transfughi” di Errico Novi
La Camera «dovrebbe sollevare conflitto di attribuzione contro il tribunale di Milano»: la Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio ha votato (11 sì Pdl, Lega e responsabili e 10 no, Pd, Udc, Fli e Idv) il parere favorevole. Oggi arriverà invece il parere della giunta per il Regolamento presieduta da Fini
ROMA. Antonio Leone arriva trafelato in giunta per le Autorizzazioni un attimo prima del voto. Con lui, due deputati “responsabili”, Bruno Cesario ed Elio Belcastro. Li è andati a prendere per le orecchie, insinuano i cronisti. Lui ammicca un sorriso: «Preferisco non rispondere». Si scatena comunque il putiferio. Il voto in questione infatti è quello relativo al parere della giunta sul conflitto di attribuzioni per il caso Ruby. Passa appunto per un soffio, 11 a 10. Grazie a Leone, vicepresidente di Montecitorio e colonna portante del gruppo Pdl, e a quei due, Cesario e Belcastro. Acciuffati un attimo prima. Prendono posto in sala e un istante dopo sugli iPhone degli onorevoli giunge notizia che il Consiglio dei ministri ha incoronato Saverio Romano quale nuovo ministro dell’Agricoltura. Coincidenza davvero eccessiva. Ed è da lì che partono le polemiche dell’opposizione. In primis il relatore di minoranza dell’Idv Federico Palomba: «Le proposte congiunte di Futuro e libertà e Udc da una parte e Pd e Italia dei valori dall’altra sarebbero passate se, all’ultimo momento, non fosse intervenuto il soccorso al fotofinish dei cosiddetti responsabili. Guarda caso», ed è questo il punto, «hanno calato l’asso un istante dopo la notizia della nomina di Saverio Romano a ministro».
Si materializza insomma il baratto. O no? Quelli del Pdl dicono che è una sciocchezza. In primis Jole Santelli: «Questi dell’opposizione fanno fiction». Sarà. Ma la seduta della giunta per le Autorizzazioni sul conflitto di attribuzioni inizia presto, verso le 9, e quei buontemponi di Belcastro e Cesario si presentano, nella scia del tenace Leone, solo alle 10 e 50. E in quel tesissimo intervallo, i deputati del Pdl consumano i loro touchscreen nel tentativo di contattare gli assenti.Tra gocce di sudore freddo e sospetti di ricatto. Ma cos’è poi che si doveva votare? Semplice: il parere della giunta rispetto alla
tesi della maggioranza sul conflitto di attribuzioni. In pratica l’organismo parlamentare doveva esprimersi sulla necessità che il voto sul conflitto di attribuzioni con la magistratura milanese avvenga nell’Aula di Montecitorio e non nel solo ufficio di presidenza. Il motivo è semplice: nell’ufficio di presidenza Pdl e Lega sono ancora in minoranza. Alla fine la giunta, recuperati quei due, dà parere favorevole alla tesi Cicchitto-Reguzzoni-Sardelli per un soffio, appunto. Nulla di vincolante, tiene a ricordare il rappresentante di Fli Nino Lo Presti. Oggi toccherà alla giunta per il Regolamento, presieduta da Gianfranco Fini, che potrebbe dare un’indicazione anche difforme dalla giunta per le Autorizzazioni. E poi la decisione definitiva verrà presa entro la fine della settimana dall’ufficio di presidenza di Montecitorio.
Gianfranco Fini non pare intenzionato a mettersi di traverso. E questo nonostante i quattro costituzionalisti (tra i quali c’era Giorgio Spangher) sentiti martedì dalla giunta per le Autorizzazioni non siano riusciti a definire con certezza la natura ministeriale del reato di concussione contestato al premier. Il presidente della Camera dovrebbe comunque sbilanciarsi a favore di un pronunciamento definitivo del plenum di Montecitorio. Nella giunta presieduta da Pierluigi Castagnetti prevale la tesi della maggioranza, riassunta nella relazione di Maurizio Paniz, lo stesso deputato che fa da relatore in commissione Giustizia sul processo breve. Secondo tale interpretazione, «la Camera, a tutela delle sue prerogative costituzionali» dovrebbe «elevare un conflitto di attribuzioni nei confronti dell’autorità giudiziaria di Milano essendo stata lesa da
quest’ultima nella sfera delle proprie attribuzioni, riconosciute dall’articolo 96 della Costituzione». E fin qui siamo alla tesi già ricordata dei tre capigruppo di maggioranza – Cicchitto, Reguzzoni e Sardelli – rappresentata nella lettera a Fini del mese scorso.
Nel dettaglio la relazione di Paniz argomenta che se Montecitorio non reagisse alla lesione delle prerogative inflitta dai giudici milanesi «si introdurrebbe una modifica implicita» della Carta. E soprattutto, la relazione di maggioranza ritiene che è l’Assemblea di Montecitorio «la sede ultima delle decisioni della Camera, in particolare quando tali decisioni coinvolgono rapporti con altri poteri dello Stato». Tesi inattaccabile? Non proprio. Nella relazione di minoranza di Fli e Udc preparata da Nino Lo Presti, per esempio, si
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Salerno: arrestati sei funzionari. Li aveva denunciati Vassallo
Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri
SALERNO. La strada era stata pagata quasi per intero, però non esisteva: se ne era accorto il sindaco di Pollica, Angelo Vassallo, che aveva segnalato alla Provincia la singolare storia dell’arteria provinciale Casalvelino-Celso, nel Cilento. L’ente, nel giugno scorso, aveva istituito una commissione sul caso e oggi, su richiesta della Procura di Salerno, sei persone sono agli arresti domiciliari per una vicenda, ha evidenziato il procuratore Franco Roberti, esaminata anche nell’ambito delle indagini sull’omicidio di Vassallo, assassinato ad Acciaroli il 5 settembre scorso. «Non sono emersi collegamenti fra questo appalto e la morte del sindaco», ha chiarito il procuratore, che poi ha aggiunto: «Fatto sta che fu proprio Angelo Vassallo a dimostrare grando senso della legalità nel segnalare l’appalto alla Provincia». L’ente ha poi avviato i propri accertamenti. Ai domiciliari (ma la Procura aveva chiesto il carcere) sono andati tre
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
funzionari provinciali e tre imprenditori. Si indaga per peculato e falso. Alle imprese furono liquidate somme per 615mila euro a fronte di opere di sbancamento, le uniche realizzate, quantificate in non più di 150 mila euro. Le indagini proseguono anche su altri appalti. «Contiamo sulla collaborazione dei cittadini e degli amministratori onesti ha detto Roberti - che possono segnalare vicende come, in questo caso, aveva fatto Vassallo».
Nella pagina a fianco, Karima el Marough detta Ruby. Qui sotto, Gianfranco Fini e i deputati ”responsabili” Elio Belcastro e Bruno Cesario
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza
nota «la carenza di un interesse ad agire». Sarebbe naturale infatti attendere almeno la prima udienza – prevista com’è noto per il 6 aprile – del processo a Berlusconi sul caso Ruby. In quell’occasione «saranno gli stessi legali del premier a sollevare conflitto di competenza». Conflitto sul quale è solo la Corte di Cassazione che dovrebbe pronunciarsi. Ciliegina sulla torta, è «destituita di ogni fondamento» la tesi CicchittoReguzzoni-Sardelli secondo cui toccherebbe alla Camera sancire la qualifica di “reato ministeriale” per la famosa telefonata di Berlusconi alla questura di Milano. È sempre e solo la Cassazione che dovrebbe stabilirlo.
Nella commedia generale questa in effetti è la complicazione più spassosa. Perché il voto della giunta per le Autorizzazioni, quello che arriverà oggi dalla Regolamento, la scelta dell’ufficio di presidenza e il solenne pronunciamento finale dell’Aula; ebbene, tutti questi impegnativi atti della massima istituzione rappresentativa, si reggono proprio sulla tesi meravigliosa che Berlusconi abbia telefonato alla questura per evitare una crisi diplomatica con l’Egitto. Tutto su regge ancora sull’asserzione che il premier davvero riteneva Ruby parente di Mubarak. Tutto s’impernia su quest’assioma. «È una tesi incredibile e degradante agli occhi del mondo», nota Pierluigi Mantini dell’Udc, «che fa il
Belcastro e Cesario arrivano solo dopo l’ok sulla nomina di Saverio Romano a ministro. I pm milanesi: «Nessuno stop al processo» paio con il baciamano di Berlusconi a Gheddafi e indebolisce il ruolo del premier sul piano internazionale in una fase cruciale». Vero anche questo. Ma il Parlamento di questa legislatura non ha tempo per soffermarsi su analisi del genere. È impegnato in una complessa partita di scambi virtuali tra voti ad personam, nomine a ministro e maggioranze variabili. Come sintetizza Roberto Rao dell’Udc, «possiamo dire che in questo caso la magggioranza si è dimostrata a “responsabilità limitata”».
Battuta di quelle che mandano su tutte le furie i “responsabili”, nel senso dei deputati del gruppo cuscinetto, ovviamente. Uno dei due wanted del giorno, Cesario, rigetta le accuse e dice: «Macché scambio, siamo arrivati in ritardo perché im-
pegnati in una riunione del gruppo». E infatti: cosa si poteva discutere in quella riunione del gruppo dei Responsabili, se non della nomina della punta di diamante Saverio Romano a ministro dell’Agricoltura? È una giustificazione che vale da aggravante. Reduce da due colpi in meno di ventiquattr’ore (il primo portato a termine sulla prescrizione breve in commissione Giustizia), Maurizio Paniz minimizza: «Va sempre così, si arriva in giunta solo per votare. Casomai mi ha sorpreso Giuseppe Consolo di Futuro e libertà, che ha votato no alla mia relazione dopo aver assicurato, per settimane, di condividere il principio». L’ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino si rammarica «per gli argomenti, come la norma che riduce la prescrizione per gli incensurati, che inevitabilmente guastano il clima dei rapporti tra maggioranza e opposizione, proprio mentre si apre la discussione su riforme epocali». Comincia a diventare difficile dar torto alla pd Donatella Ferranti quando dice che «la maggioranza approfitta del fatto che l’opinione pubblica è distratta dalla guerra». Non si distraggono affatto, invece, i magistrati della Procura di Milano, che raffreddano gli spiriti laboriosi della maggioranza: «Anche se venisse sollevato conflitto di attribuzione e la Consulta lo dichiarasse ammissibile, il processo andrebbe avanti fino alla sentenza di merito della Corte costituzionale». Come dire, tante rincorse per nulla.
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grandangolo
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Il capo delegazione Udc: «Dette vita a una nuova unità nazionale»
DE GASPERI Il cristiano che fu profeta in patria e in Europa
Ieri, a Strasburgo, omaggio alla figura del leader democristiano attraverso l’intitolazione dell’aula del gruppo popolare europeo e la presentazione della biografia curata da Alfredo Canavero. Tra gli altri, contiene interventi della figlia Maria Romana, di Carlo Casini, Mario Mauro, Giulio Andreotti, Joseph Daul di Gabriella Mecucci aula del gruppo popolare europeo è stata intitolata ieri ad Alcide De Gasperi: un omaggio a uno dei padri fondatori dell’Europa, insieme a Schuman e a Adenauer. Un gesto dall’alto valore simbolico che si somma alla riedizione della biografia del leader democristiano dal titolo: Alcide De Gasperi. Cristiano, Democratico, Europeo. Il saggio di Alfredo Canavero è stato tradotto in ben cinque lingue e verrà diffuso non solo dalla Fondazione De Gasperi, ma dal gruppo popolare europeo.
L’
Il politico che riscattò l’Italia, lasciata dal fascismo fra distruzione morale e catastrofe economica, non aveva mai cessato di occupare un posto importante nella memoria nazionale ed europea, ma oggi, queste due iniziative, alle quali hanno intensamente lavorato i deputati italiani Carlo Casini, capo delegazione Udc a Strasburgo e Mario Mauro, capo delegazione Pdl, entrambi del gruppo Ppe, favoriscono una riflessione ulteriore sulla figura del leader che più ha segnato l’Italia, pur non avendo governato troppo a lungo (1945-1953). Osserva Carlo Casini, che è intervenuto nel corso della cerimonia di Strasburgo: «Non ho voluto tanto sottolineare il valore storico di De Gasperi, ma anche la capacità che ancora esprime il suo messaggio di indicarci le strade da battere per il futuro». Lo statista democristiano rappresenta per noi italiani «l’uomo della ricostruzione», ma
anche colui che, alla fine della guerra civile, dette vita a «una nuova unità nazionale». Come proiettare questi due lasciti nel futuro dell’Europa? «Innazitutto - risponde Casini - la possibilità di ricostruire e riunificare il Continente va ricercata dal punto di vista spirituale. De Gasperi - prosegue - sarebbe in totale accordo con questa indicazione. Basta citare uno dei suoi ultimi discorsi, quando ormai la malattia non gli dava più speranze di vita». «All’origine della civiltà europea, sosteneva, c’è il Cristianesimo. Non intendo introdurre alcun criterio confessionale, ma solo parlare di quella morale unitaria che esalta la
ciata da più di un referendum, si discusse a lungo se introdurre nel testo «le radici cristiane dell’Europa». Oggi - spiega Casini - si è ricominciato da un livello più basso.Abbiamo fatto il trattato di Lisbona che non ha la pretesa simbolica di chiamarsi Costituzione. Lì però si parla del valore della persona umana. Qual è l’essenza delle radici cristiane se non la difesa della dignità umana? In questo senso il trattato mette un punto fermo per dare un’anima all’Europa, così come voleva De Gasperi». E del resto nella biografia di Canavero, riproposta ieri a Strasburgo, l’autore ricorda come un sacerdote molto vicino allo
le elezioni a Roma del ’52 quando rifiutò l’alleanza con la destra che pure veniva indicata come la strada migliore da Pio XII. Fece di testa sua e i centristi vinsero da soli. Un’autonomia che pagò cara. Ma per ricostruire davvero l’Europa, per farla uscire dalla sue divisioni che emergono anche nella vicenda del Mediterraneo, occorrerebbe «andare verso l’unità politica». Casini ricorda come nell’agosto del ’54, il leader italiano scrivesse: «La mia spina è la Ced». Cioè la Comunità della Difesa che doveva venire dopo quella del carbone e dell’acciaio.
«Abbiamo celebrato il suo valore storico - dice l’eurodeputato - ma anche la capacità del suo messaggio di indicarci le strade per il futuro» figura e la responsabilità della persona umana, col suo fermento di civiltà evangelica, col suo culto del diritto ereditato dagli antichi, col suo culto della bellezza affinatosi nei secoli, con la sua volontà di verità e di giustizia». In altri termini, secondo l’onorevole Casini, De Gasperi ritrovava quella che è stata definita «l’anima europea nelle radici cristiane». Raramente come oggi l’Europa ha avuto bisogno di ricostruirsi e di riunificarsi e «la missione del gruppo popolare europeo deve andare in questa direzione». All’epoca in cui è stata redatta la Costituzione europea, poi boc-
statista, Don Franco Costa avesse più volte affermato che chiunque «voglia scrivere la vita di De Gasperi dovrà non solo studiare le idee sociali e politiche che lo mossero, ma anche la sua spiritualità». È noto che iniziasse la giornata leggendo alcune pagine de L’imitazione di Cristo o passi della Sacra Scrittura. E del resto, scriveva spesso alla figlia invocando la sua preghiera a Gesù perché lo illuminasse nel suo lavoro politico. Una religiosità profonda, che non sconfinò mai nel clericalismo e che non gli fece dimenticare l’approccio laico. Il libro racconta la nota vicenda del-
In buona sostanza osserva Casini - «il suo cruccio era quello di non riuscire a imboccare la strada comune in una materia come la difesa che non aveva nulla a che vedere con l’economia, ma che piuttosto si richiamava a scelte politiche». Nel libro su De Gasperi sono contenuti importanti contributi: da Joseph Daul, presidente del gruppo europeo del Ppe a Vito Bonsignore, vicepresidente; dalla prefazione di Casini e Mauro all’introduzione di Andreotti. C’è poi la bella testimonianza della figlia, Maria Romana De Gasperi che riportiamo qui a fianco.
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“Al
este pagine, alcune immagini statista e leader democristiano de De Gasperi; di altri politici Dc come Giulio Andreotti, vanni Spadolini e Oscar Luigi lfaro; un vecchio manifesto co della Democrazia cristiana; a copertina della biografia De Gasperi curata da Alfredo Canavero dal titolo lcide De Gasperi. Cristiano, Democratico, Europeo”
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Anticipiamo la testimonianza di Maria Romana De Gasperi, figlia dello statista, contenuta all’interno della nuova pubblicazione
«Mio padre, l’uomo di Stato fedele ai principi di democrazia e libertà che si ispirava a Cicerone» di Maria Romana De Gasperi uando le vicende politiche, relative ad un tempo passato, hanno perduto il bruciore della polemica e sono diventate storia, allora gli uomini che ne hanno fatto parte assumono la reale dimensione che dona loro il tempo. Così avviene anche per la figura di Alcide De Gasperi che invece di entrare, con il passare degli anni, nell’ombra dei ricordi, sembra dilatare i propri limiti al di là dei confini del suo paese. Questo ci porta a non fermarci a raccontare la sua vita politica solo attraverso fatti che hanno avuto il loro compimento in un tempo che ha già una data e che difficilmente si presenteranno con eguale veste nel nostro presente. Si dovrà invece guardare l’uomo nel suo modo di fare politica, nel suo essere fedele ai principi di libertà, di solidarietà, di democrazia e dedito al servizio di questi ideali con spirito missionario, per trarne ancora esempio e aiuto per chi volesse seguirne la strada. Interessante resta la sua interpretazione cristiana dell’uomo di Stato, quando raccontava come durante gli anni passati alla biblioteca vaticana, avesse sempre aperto con commozione i vecchi palinsesti, e fra questi il De re publica di Cicerone: Ricordo con quale venerazione e rispetto li aprivo perché sentivo che qui era l’unica politica che avrei potuto imparare. Politica a lungo metraggio, di lunga e storica prospettiva.
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Qui c’erano i principi che il vecchio, antico filosofo e politico richiamava ponendo le basi della sua dottrina sopra la Repubblica. Egli, tra l’altro, diceva (e questo va ricordato perché è diventato spirito del mio spirito, sangue del mio sangue, parte della mia direttiva e della mia vita politica): «Non vi è altra cosa in cui la virtù umana si appressi più alla divinità che il fondare nuovi stati, nuove città o reggere gli antichi». Voleva dire con ciò che non c’è compito più grave e di maggior responsabilità ed elevatezza che quello di occuparsi, in posti direttivi, della politica degli Stati. Ho sentito in quel momento e risento oggi, attraverso l’interpretazione cristiana, quello che gli antichi sentivano: «Il reggere uno Stato crea un vincolo intimo con Dio, nostro Padre, e crea una responsabilità immediata verso il popolo; ma verso il popolo come apportatore della divina volontà che ci regge». E si chiedeva ancora De Gasperi, quale valore avrebbe aver conquistato tutte le libertà e rinnovato il rispetto per ciò che rappresenta lo Stato se non ci fosse la buona coscienza? Che senso avrebbe dedicarsi al bene degli altri se gli uomini dell’amministrazione, della burocrazia, del commercio e di ogni altra impresa non seguissero le leggi della morale? Il valore di una vita lo si misura con più equilibrio e verità quando la si può giudicare in prospettiva. È ciò che avviene oggi con il giudizio su Alcide De Gasperi nel-
le pubblicazioni di questi ultimi anni, quando anche le nuove generazioni hanno capito che hanno in mano una eredità da usare, anche se non sembra la cosa più facile. Governare a volte è una sofferenza, pensava mio padre, come dover negare soddisfazione a chi la merita, dover abbandonare progetti per limiti dei fondi a disposizione, chiedere alla gente sacrifici per il bene comune e fare in modo di essere compresi. Tutto questo ha richiesto una forte personalità unita ad una antica esperienza politica, senza dimenticare una preparazione spirituale e un costume di vita aderente alla propria fede. Nei brevi pensieri, scritti quasi sempre in lingua latina, buttati giù su qualsiasi pezzetto di carta mio padre si trovasse davanti, troviamo le sue meditazioni sulle letture di S. Agostino, le lettere di S. Paolo o l’Imitazione di Cristo. Fra quelle in lingua italiana ne scelgo due: «Pensiero sull’egemonia: il poter servire, avere la forza di realizzare, d’imporre l’ordine, di consolidare la democrazia». E poi la sua vocazione politica da mettere accanto alla sua spiritualità con questo scritto: «Perdonami Signore, ma porto con me nelle mie occupazioni la Tua preghiera. Penetra tutta la mia attività, prega Tu nel mio lavoro e in tutta la donazione di me stesso». Spiritualità e politica vivevano sullo stesso piano, l’una gettando luce sull’altra senza confondersi, senza perdere in libertà nel proprio campo d’azione, ma in accordo e in completa armonia. Il suo essere cristiano non gli impediva il rispetto per le idee ed i principi politici o di credo diversi dai propri quando erano supportati da gente onesta ed in buona fede. In questa vita, lunga di fatti, ma non di anni De Gasperi ha saputo sopportare ingiustizie, difficoltà economiche, incomprensioni, con grande coraggio, umiltà e senso di equilibrio. Anche l’ultimo abbandono da parte di quei movimenti politici che aveva portato nei suoi governi, regalando loro maggior peso di quello che meritassero lo umiliarono, ma volle affrontare una sconfitta, già prevista, per dirittura morale e per quel senso dello Stato che mai lo aveva abbandonato. Leggo alcune righe di un amico di parte laica che scrive a De Gasperi dopo quell’ultimo tentativo di riprendere il governo nel luglio del 1953. Egli dice tra l’altro: «...Conosco l’amarezza e il sollievo di certi ritorni e so quanto sia di sicuro conforto la certezza di aver seguito solo la linea del proprio dovere. Tu sei, dopo così lunga fatica, in questa condizione e anche a te non possono mancare insieme con lo spettacolo pietoso degli innumerevoli che temono sempre di sbagliarsi fiutando il vento, la solidarietà, la stima e l’affetto delle persone dabben... nulla vale nella vita più di un sorriso dei veri amici».
È ritornato al Padre, dicono nelle nostre chiese quando si accompagna chi è mancato alla vita e che si vuole in qualche modo ricordare. E ancora, per coloro che non hanno potuto conoscere De Gasperi e non perdere l’esempio del suo essere cristiano e politico ad un tempo, trascrivo alcune righe di una delle ultime lettere inviate da Ivan Matteo Lombardo, collaboratore fedele, più volte ministro dei suoi governi, interessato sopratutto nei rapporti con gli altri paesi d’Europa e d’America. «Avrei voluto dirti molte cose, ma soprattutto esprimerti dal più profondo del cuore i sentimenti di devozione, di riconoscenza, di filiale affetto di un italiano né immemore, né ingrato. Tutto quanto tu hai finora fatto per la difesa dei supremi valori della civiltà cristiana, per la salvaguardia della libertà, per il bene del nostro paese, per dare ad esso un costume democratico, per insegnare umiltà e senso di dedizione agli italiani, per segnare questi nostri travagliati tempi con le tue inimitabili doti di Uomo e di Statista, tutto questo è già consegnato alla Storia...».
ULTIMAPAGINA
Interprete di pellicole come “Cleopatra” e “Il gigante”, Elizabeth Taylor è scomparsa ieri a Los Angeles
Liz, la leonessa sul tetto di di Francesco Lo Dico provvisamente, la primavera in corso, se n’è andata in punta di piedi. E sfiora la comicità involontaria, il pennarello bizantino che profana la sua epigrafe su Wikipedia.
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«È stata un’attrice inglese – informa l’enciclopedia pop – considerata l’ultima grande diva dell’era d’oro di Hollywood per le sue doti recitative e la singolare avvenenza». Ma più pignolo di Diderot, l’anonimo estensore non si perita di segnalare l’inattendibilità della frase, perché “senza fonte”. Fresca di aldilà, la grande Liz si vede requisito così il pass d’ingresso per l’ufficio beatificazioni. Assenza di testimoni e problemi di contraddittorio. Che cosa mai accadrebbe se un’autorevole fonte ci svelasse invece che «è stata sì un’attrice inglese, ma non aveva doti recitative e anzi era una cagna maledetta, e oltretutto era pure una terrificante racchia?». Meglio la confortante reticenza del dubbio, in questi casi. E pazienza se ci scappa una risata. Perfida, volgare e psicotica, come quella che Elizabeth Rosemond riversò sulla faccia del folle consorte, nel corso di un matrimonio reality, di cui Chi ha paura di Virginia Woolf fu solo una silloge.
fie. Felina insoddisfatta, mugola il suo rancore di femmina contro il faccione di Newman. Era il 1958. Ma la gatta Elizabeth studiava già da leonessa. Incrocia le unghie e i denti con la Hepburn per salvare la memoria del fragile Sebastian. quando viene il tempo di Improvvisamente l’estate scorsa. Ed è l’ora di rompere gli indugi da ragazzina perbene. È una Venere in visone,Liz, per niente irrepren-
no per mangiarsi il cuore di Liz. Crescono i fianchi, le bizze e gli alimenti. Da pagare ai familiari, da buttare giù con l’ingordigia. È sul trono, ma un trono che le scotta addosso. La diva Taylor non ha saputo prevedere che terribile untore possa essere la donna Elizabeth. Scandalosa, ma fin troppo. E troppo personaggio, per restare un’attrice.Tant’è che nell’ultimo squillo, Liz non può che interpre-
HOLLYWOOD
Di occhi così lividi e assassini, non se n’erano mai visti prima. Viola di occhi, viola di madre, viola del pensiero. Ma ritorta come l’edera nella testa dei molti uomini che rovinò. E dei milioni restanti che sperarono di farlo. Che cosa dire di Liz, se non che ogni cosa si arroventò della sua febbre. Scottava il parquet che a tre anni bruciò le sue punte di ballerina, il tetto di Los Angeles da cui scappò a nove anni per accalappiarci con Lassie, il suo primo contratto di bimba e di sposa prodigio: diciotto anni e già Un posto al sole. Già scottata, su L’albero della vita, ma pronta a un altro balzo dopo tre statuette sfuggitele dalle grin-
Di occhi così lividi, non se n’erano mai visti prima. Si ritorse come l’edera sugli uomini che rovinò. E nei milioni che ci sperarono sibile e noiosa. Interpreta una squillo mica da poco. E il film di Mann le consegna finalmente l’Oscar, dopo essersi portata un pezzo avanti col lavoro: Il gigante e L’ultima volta che vidi Parigi. Ventotto anni, quattro nomination e altrettanti mariti. Non è donna da affidarsi alla ventura, la cara Liz. Che ai salamelecchi del tradimento, preferisce un più onesto tratto di penna. Magari multiplo, in onore al suo più grande rovello, Richard Burton. Divorzia da lui nel ’74, lo risposa nel ’75, lo lascia per sempre nel ’76. Uno spietato kolossal sentimentale, che sembra tolto di peso a Cleopatra. Regale, violenta, tenera. È lei l’imperatrice del cinema in quel primo scorcio del 1963. La collocazione geografica, Egitto, nasconde malamente la metafora. Il fatto è che le aspidi finisco-
tare se stessa. Annichilita dalla vita, dall’amore, consunta dalla febbre dell’odio e dal rammarico di un’innocenza impossibile. È così che appare in Chi ha paura di Virginia Woolf nel 1966. È così che la lasciamo, crassa, avvinazzata e irredenta, in un timido squarcio di luce all’alba di una notte da tregenda. Non c’è fotogramma più vero di questo, in tutta la carriera della Taylor.
Hollywood insegna. Quando arriva il mirabile incrocio in cui la donna si schianta con la diva, la strada è segnata. Per lei ci sono altri film, molte apparizioni, e ancora tre mariti. Tanto gossip che sembra la nemesi di un mondo sedotto e poi abbandonato. Sotto la lente finiscono soprattutto i capricci. Ma del suo impegno contro l’Aids, costante e generoso, in molti sanno poco. Dalle scene se n’era già andata nel ’97, Elizabeth Rosemond. Non prima di un’ultima zampata contro un male più bizzoso di lei. Ne uscì a modo suo: guarita e maritata, per la settima volta, con i riccioli cotonati e la collana di perle. Bisbetica fino all’ultimo, la diva dagli occhi viola. Erano ancora belli, e ha deciso di toglierceli per sempre.