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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 26 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Francia e Gran Bretagna sul comando Nato: «Pronta una soluzione diplomatica». Decisivo il vertice di Londra
Ora l’Italia riconoscaBengasi La linea Berlusconi non ha futuro: il raìs non può essere un interlocutore Roma litiga ancora con Parigi: ma la strada per ritrovare un ruolo protagonista sta nel superare la nostra ambiguità verso Gheddafi. I ribelli denunciano: «Sono già caduti più di ottomila libici» Una svolta Quattro risposte subito ai dubbi sulla guerra per riacciuffare la storia di Rocco Buttiglione
un passo dalle nostre coste un interesse nazionale primario. Il governo parla di mediazione: ma ha deciso quali sono gli interlocutori in Libia? Quello che sembra ancora il preferito è Gheddafi. Ma è realistico? Dopo che la comunità internazionale gli ha dichiarato guerra potrà sedersi al tavolo con lui? Certamente no. Si può vedere se elementi a lui vicini possono avere spazio nella nuova Libia, ma non si può pensare che il simbolo della tragedia resti a guidare le danze. La mediazione sognata da Berlusconi non ha dunque futuro. Perciò oggi bisogna riconoscere il Consiglio Transitorio Libico, che ormai raccoglie tutti gli insorti ben oltre Bengasi. Riconoscerlo aiuta noi e aiuta loro. Pericoloso invece proseguire senza averlo come interlocutore. Finora lo ha fatto solo la Francia (e la Clinton in modo ufficioso). Se l’Italia non vuole perdere il treno del futuro, deve cominciare a cambiare strada, riacciuffando la direzione della storia.
Una forza politica di opposizione seria non fa mancare al governo il suo sostegno quando è necessario prendere decisioni difficili in politica estera.
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Un Paese provinciale (e anche irrilevante) Brucia tutto il Medioriente: in difficoltà il regime siriano
di Enrico Cisnetto
Damasco, adesso è vera rivolta
Nel deserto libico rischia d’insabbiarsi la cosiddetta stagione delle riforme del governo Berlusconi, che pare destinato a sopravvivere a se stesso.
La polizia di Assad spara sulla folla. Marcia di popolo verso Dara’a. Proteste in Giordania. Lo Yemen vicino alla guerra civile Antonio Picasso • pagina 4
Il capo del contingente americano ribalta la mitologia yankee
Carter Ham, il generale buono Ha sdoganato lo «stress da combattimento» e ha «ammesso» i soldati gay: ritratto dell’uomo che dirige le forze Usa in Libia
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Affari & Raid: i segreti di Sarkozy di Giancarlo Galli Valli a capire i francesi, che quando sturano le bottiglie di champagne dell’orgoglio nazionale intriso di sciovinismo non sono secondi a nessuno.
Maurizio Stefanini • pagina 8
La riforma leghista secondo Galletti
«Questo federalismo delle tasse ci spaccherà in due»
a pagina 10
Due “conversioni” nella comunità internazionale dopo Fukushima
L’atomo fuggente
L’esponente centrista boccia il decreto approvato in Commissione: «Il nuovo disegno del fisco regionale produrrà altre imposte, proprio come è successo con quello comunale. E avviare un’impresa nel Mezzogiorno costerà molto più che farlo al Nord»
Un celebre ambientalista inglese, George Monbiot, si converte al nucleare: «Ho capito che è più sicuro del carbone». Gli risponde il nuclearista Ralf Bont: «Ho cambiato idea: radioattività significa morte»
Riccardo Paradisi • pagina 24
George Monbiot e Ralf Bont • pagine 28 e 29
EURO 1,00 (10,00
CON I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
59 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
Il nostro esecutivo continua a perseguire una strategia superata dai fatti. E invece dovrebbe riconoscere il governo di Bengasi
La mediazione impossibile Perfino l’ambasciatore turco dice: «Gheddafi non è un interlocutore». Ma Berlusconi insiste. Arpino e Jean dicono: «Così l’Italia rischia» di Errico Novi
ROMA. Sulla possibilità di convertire le operazioni militari in Libia in un processo diplomatico, seppur gradualmente, è in corso un dibattito molto teso tra i Paesi Nato. Con Francia e Gran Bretagna che annunciano anche stavolta una mossa in anticipo rispetto ai partner: «Prepariamo una soluzione politica e diplomatica», avverte Nicolas Sarkozy al termine del Consiglio europeo, e il suo plurale si estende evidentemente a David Cameron. Al vertice previsto per martedì a Londra, dunque, i due Paesi europei che per primi hanno assunto l’iniziativa presenteranno probabilmente una propria autonoma road map. Il che suscita la reazione molto affilata da parte di Ankara. «Non c’è necessità di una simile iniziativa e sta a tutti i membri della coalizione assumere una scelta simile», è la posizione di Erdogan. A sua volta il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini fa notare che «anche noi abbiamo delle idee», con evidente riferimento polemico al nuovo passo avanti di Parigi. Chi resta in silenzio, almeno fino al tardo pomeriggio, è Silvio Berlusconi, attento a centellinare le frasi, comunque sempre vaghe e di circostanza, offerte ai taccuini. Di cero però c’è che il governo turco riconosce in modo esplicito come Gheddafi non sia più un interlocutore. «Stia-
Frattini contro Sarkozy: «Anche noi abbiamo delle proposte da fare»
Comando Nato: nuovo affondo dell’asse franco-britannico di Luisa Arezzo e relazioni franco britanniche sono in una forma eccellente». Una vera scivolata di stile quella del primo ministro inglese David Cameron a commento dell’ora di jogging passata nei parchi di Bruxelles assieme a Nicholas Sarkozy a parlare di Libia. Una corsetta (dai due definita «assolutamente casuale») utile a mettere a punto una strategia comune per evitare che sotto il cappello Nato, dopo la No fly zone, possano finirci entro breve tempo anche le operazioni a sostegno dei civili, come indicato dalla risoluzione Onu 1973. Operazioni che, è ormai chiaro a tutti, oltre a proteggere la popolazione sono mirate a distruggere le forze di terra (carri armati, missili portatili in primis), vero punto di forza di Muammar Gheddafi. Sulla necessità di fare tabula rasa di ogni risorsa tattico-militare del Colonnello il presidente francese non smette di insistere (tanto da aver anche pavenatato, un paio di giorni fa, la necessità di un futuro attacco via terra, al momento sgradito da tutti). Allo stesso tempo, però, Parigi si è mostrata aperta a una soluzione diplomatica: Sarkozy ha annunciato che martedì a Londra, durante la riunione della “cabina di pilotaggio” politico della crisi, «sarà sicuramente presentata una iniziativa franco-britannica per verificare una soluzione politica e diplomatica». Di fatto, dovrebbero venir scadenzate le prossime tappe dell’azione in Libia. A favore della linea franco
«L
britannica gioca un fattore: il coinvolgimento della Lega Araba (al momento due paesi, Qatar e Emirati arabi) nella missione di “protezione”. E siccome la Nato non può assorbirli, i due insistono sul “gruppo di contatto”politico e non sull’intero passaggio all’Alleanza dell’intera operazione. La loro linea ha però un precedente contrario, la missione Alba, sempre gestita dalla Nato, che apriva alla collaborazione di paesi esterni alla coalizione. Un precedente sul quale punta invece l’Italia (assieme alla Turchia e, in parte, la Russia). Secondo il nostro ministro degli Esteri Franco Frattini, infatti, l’Alleanza Atlantica «entro qualche giorno», sarebbe pronta ad assumere il controllo completo non solo per quanto riguarda la no-fly zone, ma anche per tutte le azioni militari contro gli obiettivi di terra. Di fatto, però, bisognerà attendere il vertice di Londra della prossima settimana per capire chi vincerà questo braccio di ferro. Feroce il commento del leader turco Erdogan, da sempre contrario a operazioni d’attacco, che ha detto: «Il trasferimento alla Nato del comando delle operazioni in Libia metterà ai margini la Francia». Mentre l’Unione Africana, ieri riunita ad Addis Abeba, ha spinto affinché si apra un dialogo fra Gheddafi e i ribelli. Ipotesi accolta dall’emissario tripolino che per conto del regime si è detto pronto ad attuare la road map dell’Ua. Al’incontro, però, mancava il rappresentante del nuovo governo di Bengasi.
mo dicendo da tempo che deve lasciare il potere e che insieme dobbiamo proteggere la popolazione civile», dichiara proprio l’ambasciatore turco in Italia Hakki Akil. Roma no. E anzi, di tutti gli attori, e in particolare tra i membri Nato, l’Italia è la sola che almeno in forma implicita considera ancora il raìs di Tripoli una controparte attiva in un futuro esito negoziale.
Che sia così lo dimostra, indirettamente, anche la relazione ancora tenue intrattenuta dalla Farnesina con il Consiglio transitorio degli insorti. Da cui però arrivano segnali positivi nei confronti dell’Italia, «un Paese amico», secondo il portavoce Abdel Hafiz al Ghogha. «Roma è stata tra le prime a sostenerci dall’inizio della rivolta anti Gheddafi», arriva a dire il rappresentante dei ribelli, «quando l’intera Libia sarà liberata continueremo ad avere con l’Italia rapporti molto importanti e onoreremo tutti i contratti del passato». Forse una lettura fin troppo ottimistica. Che comunque trova un minimo di conforto nelle considerazioni fatte circolare dalla Farnesina a proposito dei contatti di Franco Frattini con il capo del governo transitorio Ibrahim Jibril. Ma da qui a un riconoscimento ne passa. E Roma pare molto lontana a scegliere con chiarezza e univocità Bengasi quale propria controparte. La riserva, meno visibile in Frattini ma la-
la crisi libica
26 marzo 2011 • pagina 3
Il deserto libico insabbia le riforme Tra figuracce e contraddizioni, il governo punta solo a sopravvivere all’immobilismo el deserto libico rischia d’insabbiarsi la cosiddetta stagione delle riforme del governo Berlusconi, che dopo i ripetuti scampati pericoli di elezioni anticipate dovrebbe, nelle intenzioni del premier e (forse) di Bossi, consentire all’attuale esecutivo di completare la legislatura. Ora l’esecutivo può menar vanto che tutte le operazioni militari siano passate sotto il comando della Nato, come era stato chiesto. Ma a parte il fatto che questa scelta non è certo avvenuta per via delle nostre pressioni, la cosa comunque non cancella il senso di penosa e pericolosa approssimazione con cui l’Italia si è mossa nello scenario di guerra.
N
Siamo passati dal baciamano all’adesione acritica alla linea interventista, per poi rinculare e assumere un atteggiamento di distinzione da Francia e Stati Uniti – senza però avere il coraggio di una posizione netta come quella tedesca, che certo non ci potevamo permettere ma che abbiamo rischiato ambiguamente di emulare – condito da intollerabili silenzi di Berlusconi (è l’unico leader occidentale che non è intervenuto sull’argomento in alcuna sede istituzionale) così come da sue improvvide dichiarazioni (tipo «sono addolorato per Gheddafi», pronunciata al cospetto degli 8 mila morti che la vicenda ha già procurato), oltreché dal confuso protagonismo di alcuni ministri. Ad un certo punto siamo apparsi più in guerra con gli alleati che con Gheddafi, e ci hanno salvato (finora) solo i grandi errori commessi dagli altri partecipanti alla coalizione e l’assordante inesistenza dell’Europa in quanto tale. Ora si dice che potrebbe farsi breccia uno spazio di mediazione, e che noi saremmo i migliori candidati a intavolare un negoziato. Può darsi, ma per ora rimane una certezza: che Berlusconi avrebbe dovuto cercare l’iniziativa diplomatica per tempo, e non lo ha fatto. E chi lamenta che il Quirinale abbia giocato un ruolo interventista, prendendo la guida della politica estera, si dovrebbe domandare se quello spazio lo abbia soffiato al premier o lo
di Enrico Cisnetto abbia, e per fortuna, riempito essendo stato lasciato vuoto.
Se a tutto questo si aggiungono le divisioni interne alle opposizioni (5 mozioni parlamentari), l’incapacità di trovare una sintesi unitaria bipartisan e il ripetersi per l’ennesima volta del solito stucchevole ping-pong tra pacifisti senza se e senza ma e guerrafondai esaltati da sciocchezze come quella della “guerra giusta”, ecco servita un Italia provinciale e irrilevante, così avulsa dalle dinamiche internazionali da ritagliarsi nella vicenda il peggiore e più masochista dei ruoli possibili, quello di chi è contemporaneamente il più esposto e il meno influente. E siccome di questa storia abbiamo visto solo l’inizio, anche sul piano dei suoi riflessi sulla politica interna è ancora tutta da scoprire. Sia chiaro, sulla Libia inciampa rovinosamente la possibilità che si faccia qualche seria riforma – ammesso e non concesso che esistesse davvero – non il semplice prosieguo del governo. La garanzia di andare avanti, infatti, il Cavaliere se l’era già procurata il 14 dicembre, e successivamente l’ha cementata rinnovando il patto di ferro con Bossi – confermato nonostante gli evidenti e crescenti malumori della Lega, specie di quegli amministratori locali che più di altri hanno a che fare con la base leghista – e rafforzando la truppa parlamentare con nuovi arrivi, conquistati mettendo mano al portafoglio delle promesse (con la nomina di Romano e il conseguente spostamento di Galan ha cominciato ad onorarle, ma dovrebbe raddoppiare le dimensioni dell’esecutivo se dovesse mantenere tutti i patti stipulati). Ma, considerato che mancano due anni al “the end” – salvo ripensamenti di Bossi o fattori di crisi esogeni nuovi – il tema su cui riflettere è come questo spazio temporale, certo non piccolo, verrà “riempito”. Ora sappiamo che la vicenda libica conferma e con-
L’unica certezza è che il premier avrebbe dovuto cercare l’iniziativa diplomatica per tempo, e invece non lo ha fatto
tente nel presidente del Consiglio, è che con Gheddafi si possa, e si debba, ancora trattare.
Perché? È vero che l’Italia svolge un’iniziativa discreta, ma consistente, di esplorazione diplomatica insieme con Ankara e con Mosca. Ma proprio l’importante partner turco mostra di essere assai più sereno nel considerare archiviata, almeno in prospettiva, la vicenda del regime di Gheddafi. Berlusconi ancora mantiene una posizione diversa. Che tra l’altro da qualche ora si traduce in un prudente e pure inedito silenzio. «Certo, il raìs è al potere, o almeno il potere gli viene ancora riconosciuto da una parte delle tribù e dei militari», è la spiegazione del geostratega e docente di Studi strategici alla Luiss Carlo Jean. «Sarebbe però sensato immaginare che si arrivi a un punto in cui la
coalizione gli dica: cedi il potere, cedilo anche a tuo figlio Saif al Islam, il più considerato dagli europei». E allora, aggiunge Jean, «è plausibile che il governo italiano guardi a Gheddafi come a un interlocutore non sul lungo periodo, ma sul breve». Tra le ragioni di una simile prudenza, aggiunge l’esperto di geostrategia, «va considerata senz’altro l’ipotesi che Tripoli resista ancora a lungo. Anche in virtù delle divisioni che invece lacerano la coalizione, a cominciare da quelle sull’asse Parigi-Ankara». Ma è realistico in questa prospettiva ipotizzare una Libia ancora unita dopo la crisi? Jean cita il caso della Bosnia e «il modello sancito già nella costituzione federale del 1951 da re Idris». Ultima questione: quanto incide sul profilo duplice dell’azione italiana il rapporto con Mosca? «Incide. Basti pensare che l’Eni
solida i timori che il tempo sarà impiegato, come è stato dal 15 dicembre in poi, solo e soltanto al rafforzamento degli strumenti di sopravvivenza. Una sorta di alimentazione continua delle propria autoreferenzialità, senza indulgere a scelte di governo che, al contrario, potrebbero invece indebolire quelle ragioni di sopravvivenza. E il primo comandamento per chi vuole tirare a campare, è fare il meno possibile in modo da ridurre, minimizzandoli, i margini di rischio. O grandi riforme sulla carta, come quella della giustizia, che essendo di tipo costituzionale rimanda a scadenze addirittura oltre la fine della legislatura. O spettacolari effetti annuncio, tipo quelli ripetutamente usati per la“rivoluzione liberale”– come la riduzione delle tasse – ma un po’ troppo abusati per poterli reiterare in eccesso. Oppure il fermi tutti, come è successo per il nucleare non appena si è percepito che il consenso potesse essere in pericolo.
Insomma, il futuro prossimo che ci si para innanzi è un continuità di governo priva di contenuti, con palazzo Chigi che trascorre il tempo a metter toppe e disinnescare mine. Esattamente il contrario di ciò che serve, e urgentemente, al Paese. Che rischia di veder chiudere le stalle dei suoi interessi – dal caso libico a quello Parmalat – quando i buoi sono già scappati. (www.enricocisnetto.it)
ha ceduto il 50 per cento del controllo di un giacimento a sud di Tripoli proprio a Gazprom, che in cambio ha offerto lo sfruttamento di un sito petrolifero in Russia. C’è anzi da stupirsi che, considerata la convergenza su
alcuni problemi. A cominciare dal fatto che è difficile immaginare un intervento efficace rispetto al conflitto di terra. Certo ora rischia di essere difficile un’iniziativa diplomatica svolta in qualsiasi direzione. Con chi
«Intesa tra Roma e Mosca? Certo che c’è, basti pensare che Gazprom ha ottenuto dall’Eni il 50 per cento di un giacimento a sud di Tripoli in cambio di un sito in Russia», ricorda il professore della Luiss questo piano, a Mosca e Roma non si sia unita, sul terreno diplomatico, anche Berlino».
Spiegazione non troppo diversa arriva da un altro tra i principali esperti italiani di geostrategia come il generale Mario Arpino. «La linea del governo italiano può interpretarsi con il fatto che i passi compiuti finora dalla coalizione hanno prodotto
si può parlare, visto che un governo alternativo a quello d Gheddafi ancora non c’è?». È vero, dice Arpino, che «se c’è una opzione da scongiurare è quella di una Libia che si scinde in Tripolitania e Cirenaica . Abbiamo già gli esempi della Corea, del Libano, ed è evidente che da un simile sviluppo potrebbe avvantaggiarsi forse la Francia, non certo l’Italia. Detto
questo però, è difficile trattare con Gheddafi. Si può comprendere evidentemente che il governo italiano intenda sollecitarlo proprio rispetto all’interesse nazionale libico, cioè sull’unità da salvaguardare. C’è da ritenere che per Roma si debba trattare in questo momento con chiunque si trovi al potere. E che per questo Frattini e Berlusconi abbiano scelto di assegnare a se stessi ruoli in parte contraddittori. Può essere poco commendevole in termini etici ma utile sul piano pratico». Insomma, l’Italia secondo Arpino potrebbe ancora tentare di «far ragionare Gheddafi, indurlo a cedere il potere, piuttosto che incattivirlo. E evitare di aspettare inutilmente che si decida da solo ad andarsene in esilio. Piuttosto, si pensa di illuderlo che per lui non tutto è perduto. È a questo forse che pensa il nostro governo».
pagina 4 • 26 marzo 2011
la crisi libica
La rivolta ha raggiunto anche la Giordania, dove ieri era in visita Robert Gates. Bilancio provvisorio: un morto e oltre 100 feriti
Il coraggio di Damasco
Anche in uno dei regimi più duri dell’area la folla si ribella. Brucia le statue di Assad al grido «Iddio, Siria, libertà e basta!». Lo Yemen ormai è a un passo dalla guerra civile. I vecchi equilibri del Medioriente sono sul punto di scoppiare di Antonio Picasso uori dal quadrante libico, la grande rivolta araba ha vissuto un altro venerdì di preghiere di proteste. Bahrein, Siria e Yemen. Questi i Paesi interessati. Si tratta di regimi anziani e malati, in cui l’entusiasmo giovanile della contestazione minaccia le istituzioni. In particolare, è l’ultimo dei tre a vivere la fase più acuta della crisi. Nel pomeriggio di ieri, però, anche la Giordania si è aggiunta a questa lista.
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Ad Amman, durante una manifestazione, il lancio di pietre da parte di dimostranti ha istigato i poliziotti alla carica. Il bilancio provvisorio, registrato a chiusura del giornale, è di almeno 60 feriti. La protesta è giunta in concomitanza con la visita a sorpresa del Segretario alla Difesa Usa, Robert Gates. A onor del vero, il fatto che la Giordania possa essere trascinata nel turbine delle rivolte solleva molte perplessità. Re
Abdallah, finora, ha cercato in ogni modo di prevenire le proteste. Il cambio di governo tra Samir Rifai e Marouf al-Bakhit, avvenuto solo il 9 febbraio, avrebbe dovuto costituire una dimostrazione della disponibilità al cambiamento. È possibile che la mossa del sovrano non abbia soddisfatto l’opposizione. Comprensibile, visto che il nuovo premier è un esponente consolidato della classe dirigente nazionale. Ed è inoltre inviso all’opinione pubblica perché è il tramite con il governo israeliano. La monarchia hashemita ha dalla sua il fatto di discendere direttamente dalla famiglia del profeta Maometto. Tuttavia, la Fratellanza musulmana locale snobba da sempre questo privilegio dinastico e non si fa scrupolo di criticare le istituzioni, alla stregua di qualsiasi altro regime arabo. La protesta, quindi, crescerà anche ad Amman? Per quanto riguarda lo Yemen, questo lontano e arre-
trato Paese della Penisola arabica continua a mantenere la sua posizione erroneamente marginale di fronte all’attenzione del mondo. È comprensibile che le priorità siano altre.
Lo Yemen, tuttavia, per il solo fatto di essere uno snodo consolidato per al-Qaeda, il traffico di armi, l’immigrazione clandestina, oltre che un hub naturale, dovrebbe indurre la comunità internazionale a
La città di Sana’a è un porto sicuro per al Qaeda, il traffico d’armi e i clandestini
focalizzarsi anche su questa crisi. Nel “venerdì della tolleranza”, questo è il nome dato alla giornata di ieri, la capitale Sana’a è tornata a essere invasa da manifestanti pro e contro il presidente Ali Abdullah Saleh, 69 anni e al potere da 32. I due cortei si sono sfiorati pericolosamente. Il rischio di uno scontro diretto era prossimo. Solo la presenza della Polizia ha evitato il peggio. Resta il fatto che, negli ultimi cinque gior-
Saleh, capo di Stato dello Yemen
ni, sono morte 50 persone, durante altre manifestazioni. Nel frattempo, Saleh è apparso in televisione, promettendo di ritirarsi nel momento in cui sarà sicuro di poter consegnare il potere nelle mani di una classe dirigente affidabile. I giovani favorevoli al cambiamento hanno annunciato che aspetteranno fino al primo aprile prima di marciare verso il palazzo presidenziale. Il capo di Stato è sempre più isolato: dopo la presa di distanza di importanti capi religiosi e leader tribali, è stato abbandonato da molti ufficiali dell’esercito e rappresentanti diplomatici.
Il generale Ali Mohsen ha attraversato le linee soltanto ieri. Nei giorni precedenti si è avuta la totale defezione delle ambasciate yemenite di Londra, Washington e di New York, presso l’Onu. In tutti i casi, gli ambasciatori hanno chiesto le dimissioni immediate del presidente, oltre che un intervento politico
Diario delle operazioni
26 marzo 2011 • pagina 5
Si apre il problema della gestione dell’embargo imposto dall’Onu
La guerra sarà lunga, servono armi per i rivoltosi I veri scontri ora sono sul terreno, ma è sempre difficile identificare e annientare l’anti-aerea mobile di Stranamore l Generale Ham, che guida Africom, il comando Usa da cui si dirigono davvero le operazioni contro la Libia, dice che la campagna aerea di soppressione delle difese aeree a lungo raggio libiche è completata e che ora ci si occupa più intensamente di quelle mobili, che nella prima settimana sono state sostanzialmente accecate elettronicamente. L’aviazione libica non c’è più e l’abbattimento del povero Galeb G-2 (quando era già atterrato) lo ha confermato. Ora la priorità è assegnata alla forze corazzate di Gheddafi, carri armati, veicoli trasporto truppa ed artiglieria e rispettive arterie di rifornimento. Però anche se si colpisce tutto quello che si riesce ad identificare, alla faccia dei vincoli Onu (e diciamo… meno male), con il numero di sortite offensive giornaliere che si riesce a volare e con i limiti imposti ai militari… i risultati che si ottengono sono modesti e lentissimi. E per fortuna la tecnologia consente alla coalizione di agire lungo l’intero arco delle 24 ore, di giorno come di notte, mentre ribelli e lealisti di notte devono per forza fermarsi… e prendere respiro.
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due propagande…. anche se la coalizione presta attenzione e usa armi di precisione, è impossibile che qualche innocente non ci sia andato di mezzo, mentre le forze di Gheddafi questa preoccupazione proprio non la hanno e poi non hanno armi di precisione, quindi anche volendo… Il fatto è che più durano le ostilità, più la gente continuerà a morire. E di questo passo la guerra durerà ancora.
Prima o poi l’attrito e la logistica faranno effetto, senza però dimenticare che anche la popolazione civile delle città oggetto della contesa sarà presto in difficoltà. Le forze di Gheddafi hanno problemi ad essere rifornite e “consumano”di più: carburante, pezzi di ricambio, munizioni. I ribelli sono più“leggeri”, però hanno ben poco e quel poco lo stanno consumando. Per questo chiedono con insistenza armi e munizioni e in particolare armamento anticarro impiegabile in contesti urbani. Hanno anche detto che diversi paesi sono pronti a fornire quanto richiesto. In effetti non è un grosso problema fare arrivare il materiale richiesto, magari armi che i ribelli conoscono e sanno impiegare, come lanciarazzi usa e getta o missili anticarro russi (o anche i Milan francesi…). Però qualcuno ci deve spiegare come sarebbe giustificabile rifornire i ribelli nello stesso momento in cui iniziano le attività Nato di imposizione dell’embargo verso la Libia.Verso la Libia, non verso Gheddafi. Perciò in teoria chi volesse armare ed aiutare i ribelli si troverebbe a violare l’embargo Onu… una situazione paradossale, per non dire una farsa.
C’è bisogno anche di un miglior coordinamento con i ribelli per riconoscere i bersagli
Comunque, come sia possibile ottenere in questo modo una rapida soluzione e impedire che le forze libiche attacchino i“civili”e i ribelli nei centri abitati è un mistero. Lo è ancor di più se non si migliora il coordinamento con le forze ribelli. Le quali proclamano che non vogliono truppe straniere in territorio libico, ma in realtà sono ben liete di poter contare su un buon numero di “consiglieri”e coordinatori, compresi team Jtag per evitare che gli aerei alleati attacchino i bersagli sbagliati o non riescano ad intervenire quando si trova un «bersaglio di opportunità». Però dare la caccia a obiettivi mobili è ben più difficile che eliminare caserme, basi, bunker etc. Il segretario generale dellìOnu parla di possibili «ulteriori misure», mentre il presidente Sarkozy dice che una missione terrestre non è contemplata, né ora né dopo. Beh sul dopo io sarei meno tranchant. Gli Usa insistono che l’obiettivo non è eliminare Gheddafi ma impedire che a Misurata, Begnasi e Aidabiya i civili siano uccisi. A proposito di vittime, interessanti le informazioni divulgate dalle
A proposito di farse, mentre ancora si dovrà attendere ancora qualche giorno per il trasferimento del comando operativo alla Nato (con conseguente incomprensibile sconfitta politica francese, incomprensibile perché non si poteva ipotizzare niente di diverso) adottando uno schema come quello utilizzato per ISAF in Afghanistan, segnaliamo che un diplomatico aveva proposto di risolvere l’impasse: dividendo in due il comando, da una parte quello per imposizione embargo e la no fly zone, dall’altro quello per impedire che Gheddafi attacchi i suoi concittadini… absit inuria verbis!
ed eventualmente di supporto militare in favore degli insorti. A causa del suo contesto sociale tribale e scisso, a livello religioso, fra sunniti e sciiti, lo Yemen rischia una nuova guerra civile e, di conseguenza, il ritorno alla separazione in due Stati, com’era prima del 1990.
In Siria, la situazione è altrettanto delicata. L’ultimo bollettino degli scontri conta decine di morti. Nel corso della settimana, le proteste si sono concentrare a Dara’a, città nel sud del Paese. Ieri, i manifestanti hanno bloccato le strade di Hama, Homs, Latakia e soprattutto di Damasco. Non è ancora chiaro se le notizie in merito al centinaio di morti a Dara’a siano vere. Tuttavia, il funerale di ogni vittima costituisce un valido motivo per un ulteriore assembramento di folla e quindi di oppositori al regime. «Con il sangue ci sacrifichiamo per te, oh Dara’a!» Era lo slogan inneggiato ieri durante i cortei che seguivano i feretri. D’altra parte, il coinvolgimento delle altre città – da notare Hama: centro nevralgico dei Fratelli musulmani siriani – fa pensare che la voce di dissenso si stia progressivamente irrobustendo. Dopo l’appello on line, mediante i soliti Facebook e Twitter – “Syrian devolution 2011”, con i suoi 78 mila contatti, resta alla guida della blogosfera – si è passati alle adunate di piazza. Evidentemente, non è servita a nulla la promessa fatta da Assad di aprire un tavolo di negoziati con gli oppositori. «Iddio, Siria, libertà e basta!» cantavano a Homs. Difficile trattare di fronte a una linea politica tanto ermetica quanto esplicita. Il governo sta valutando l’idea di abrogare lo stato di emergenza, in vigore dal 1963. In realtà, a ormai quasi tre mesi dalle rivolte per il pane in Tunisia, c’è da chiedersi perché non l’abbiano fatto prima. La piazza siriana, però, è stanca di ascoltare promesse inevase. È anche possibile che Assad non sia in grado di avviare la necessaria stagione di riforme, di cui egli stesso di è fatto carico. Il suo modernismo è sempre stato in conflitto con un regime atrofizzato sulle posizioni oltranziste del padre padre – Hafez, morto nel 2000 – e filo iraniane. Posizioni difese strenuamente dalla vecchia guardia del partito Baath. Tant’è che, stando alle testimonianza dirette, a fianco della polizia siriana sembrano siano arrivati elementi dei Pasdaran, inviati da Teheran. Infine, in Bahrein l’emergenza del mese scorso sembra essersi stabilizzata. Questo non significa che Manama sia fuori pericolo. Tuttavia, le misure di repressione adottate dall’emiro, Hamad bin Isa al-Khalifa, sembrano funzionare. Dopo l’ingresso delle truppe saudite,
la scorsa settimana, il governo ha deciso di cauterizzare le vie di comunicazione che i ribelli, di confessione sciita, potrebbero avere con il mondo esterno. Va ricordato, infatti, che le sommosse del Bahrein hanno assunto l’inequivocabile identità dello scontro confessionale. Quel 20% di sunniti alla guida del Paese sarà costretto, prima o poi, a effettuare concessioni e riforme sul sociale ed economico, affinché la questione della convivenza con la maggioranza della popolazione non resti insoluta. Al momento però, siamo ancora nella fase della reazione dura da parte di al-Khalifa. Per evitare l’infiltrazione di agenti esterni, il suo governo ha cancellato i voli con l’Iran e con il Libano. Manama teme che, da Teheran e da Beirut, giungano agitprop sciiti all’ordine degli ayatollah oppure di Hezbollah. In una nota del ministero degli Esteri, si parla esplicitamente della necessità di fermare sulla linea di confi-
Assad, presidente della Siria
«Con il sangue ci sacrifichiamo per te, oh Dara’a!» Ecco lo slogan dei siriani ne «qualsiasi elemento di provocazione di origine libanese e che possa introdursi nel Paese». Ieri, altra giornata della collera, la polizia ha messo sotto controllo le residenze reali, l’aeroporto e il principale ospedale della città, Salmanyia. Il caso del Barhein offre lo spunto per un’analisi più generale. L’eventualità di sobillatori non incide sul fil rouge che sta ispirando le rivolte. Hezbollah in Bahrein e altrove la Fratellanza musulmana costituiscono la parte radicale di un desiderio collettivo di cambiamento. Essi non sono i veri portatori del messaggio rivoluzionario.
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na forza politica di opposizione che sia seria non fa mancare al governo il suo sostegno quando è necessario prendere decisioni difficili in materia di politica estera. In politica estera non vince o perde una coalizione di governo. Vince o perde l’Italia. A questi principi si ispira il comportamento dell’Udc anche nel corso della crisi presente nel Mediterraneo. Questo non vuol dire però non condannare gli errori del governo o rinunciare ad un esame attento delle cause della crisi e della insufficienza della politica estera condotta nel passato. Con l’occasione cercheremo anche di rispondere ad alcune questioni che inevitabilmente si pongono sulla moralità dell’azione di politica estera, sulla tutela dei diritti umani nel mondo e sulla cosiddetta realpolitik.
U
Il primo difetto della politica estera italiana è stato non avere previsto la crisi dei sistemi di governo autoritari dell’Africa del nord. Era prevedibile quella crisi? Nel 2004 io ebbi modo di formulare un programma per il Mediterraneo nel corso dei lavori preparatori per la mia candidatura (poi fallita) a vicepresidente della Commissione europea. Partivo dalla presa d’atto del fallimento del cosiddetto processo di Barcellona, che avrebbe dovuto organizzare per l’Europa un’area di vicinato e prosperità condivisa nel Mediterraneo. Gli anni ‘90 avevano visto una spinta significativa verso la modernizzazione nel Mediterraneo. Mubarak, Ben Alì e lo stesso Gheddafi hanno promosso in quegli anni un cambiamento benefico per i loro popoli. In Tunisia per esempio non solo è cresciuto il turismo ma si sono verificati significativi processi di delocalizzazione manifatturiera accompagnati dalla crescita di una significativa classe imprenditoriale. Si è ampliato di molto l’accesso all’istruzione, anche universitaria. Questa spinta si è però progressivamente rallentata fino a fermarsi del tutto. Per mantenersi al potere i regimi hanno incrementato la corruzione e la repressione. Già verso la metà del decennio passato era chiaro che non era più possibile andare avanti così. Bisognava rimettere in movimento il processo di modernizzazione. Per fare questo era necessaria una forte iniziativa europea. Io chiesi allora una conferenza dei Paesi rivieraschi con lo scopo di mettere a punto: a) un sistema di aiuti umanitari per i profughi che invadevano (e invadono) Libia e Tunisia provenendo dall’Africa sub sahariana; b) la creazione di campi di accoglienza che potessero dove fosse possibile distinguere i profughi dagli immigrati economici, dando ai profughi la protezione diplomatica a cui hanno diritto e mettendo gli (aspiranti) immigrati economici in contatto con il nostro sistema delle imprese in modo
la crisi libica
Quattro risposte sulla guerra La politica internazionale, l’etica, le ragioni umanitarie e le scelte militari: l’intervento in Libia ha sollevato molti dubbi. Proviamo a discuterne senza pregiudizi di Rocco Buttiglione da far venire in Europa solo quelli già provvisti di un contratto di lavoro; c) un accordo per il rimpatrio al Paese di provenienza degli immigrati clandestini; d) un accordo per l’abolizione delle dogane e la creazione di una zona di libero scambio dell’Africa del Nord in modo di creare un mercato unico e quindi la convenienza ad investire; e) un sistema di infrastrutture basato su una ferrovia ed un’autostrada a grande capacità da Marrakech fino al Cairo intervallato opportunamente da porti, aeroporti ed interporti; f) un sistema di sostegno per orientare verso questi Paesi almeno una parte delle delocalizzazioni del nostro sistema industriale verso i Paesi a più basso costo del lavoro; g) una crescita massiccia della cooperazione interuniversitaria; h) un incremento del dialogo culturale ed interreligioso in modo da favorire la comprensione reciproca e l’affratellamento dei popoli.
Sono tutte cose che non si sono fatte e che rimangono ancora da fare. Se si fossero fatte quando era tempo probabilmente sarebbe stato possibile costruire forme di transizione meno trau-
matiche dai regimi autoritari verso la democrazia. Sarebbe stato compito dei Paesi mediterranei dell’Unione europea dare impulso a una politica mediterranea dell’Unione e trascinarla, per così dire, verso il Mediterraneo. Non lo hanno fatto. La Spagna si è concentrata su di una sua priorità Marocco e in quell’ambito limitato ha fatto anche bene, come si vede dal fatto che quel Paese vive una evoluzione democratica lenta ma senza scosse. La Francia ha lanciato l’Unione Mediterranea sulla base, in gran parte, delle stesse considerazioni che ho appena svolto. Lo ha fatto troppo tardi e lo ha fatto con la pretesa di esercitare in questa Unione Mediterranea una egemonia unica ed incontrastata. I risultati non ci sono stati. Bisogna coinvolgere tutta l’Unione in un progetto mediterraneo così come a suo tempo tutta l’Unione è stata coinvolta nel progetto dell’allargamento ad est. L’Italia ha scelto un approccio angustamente bilaterale ed ha puntato tutte le sue carte sull’accordo con la Libia. Per di più questo accordo lo ha negoziato con la preoccupazione ossessiva di un approccio meramente poliziesco al problema
della immigrazione. Non ci si è preoccupati nemmeno di chiedere alla Libia di aderire alla Convenzione di Ginevra sulla protezione internazionale dei rifugiati. Se la Libia desse ai rifugiati la protezione internazionale a cui essi hanno diritto noi potremmo con tranquilla coscienza respingere i barconi che vengono verso le nostre coste. Saremmo sicuri che essi non contengono rifugiati (che potrebbero avere in Libia l’assistenza cui hanno diritto) ma solo immigrati clandestini. Non si è visto che il potere di Gheddafi era già instabile e che ci saremmo trovati di lì a poco davanti ad uno scontro violento fra il dittatore ed il suo popolo. All’inizio di questo scontro ci siamo trovati di fatto dalla parte del dittatore. Questo ci ha costretto ad un necessario ma scomodo voltafaccia che certo non ha giovato al nostro prestigio internazionale.
Molti oggi chiedono: ma non lo sapevamo che Gheddafi era un dittatore sanguinario? Perché fino a ieri lo abbiamo abbracciato ed oggi invece lo bombardiamo? Noi non possiamo bombardare tutti i dittatori. Quando il dittatore ha il
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sostegno passivo cioè la tolleranza del suo popolo è giusto intrattenere con lui normali rapporti commerciali e politici, sperando in una progressiva evoluzione del regime in senso democratico. Anche in quel caso, tuttavia, bisogna trovare il modo di sostenere la opposizione democratica e di difendere i diritti umani evitando accuratamente di identificarsi con il regime. Quando però il popolo mostra chiaramente di non potere o non volere più tollerare il regime e quando il dittatore infierisce sul suo popolo, allora può insorgere il diritto ed anche il dovere di un intervento di ingerenza umanitaria per evitare che il regime massacri il popolo. Questo è ciò che è accaduto in questi giorni in Libia.
Alcuni ancora domandano: perché si interviene in Libia e non, per esempio, nello Yemen? Perché a suo tempo non si è fatto nulla in Ruanda o nel Sud Sudan o nel Darfur? Nessun Paese può scegliere di ricorrere alle armi a cuor leggero. È ovvio che ci si domandi se abbiamo forze sufficienti per vincere, e per vincere in tempi e modi tali da non infliggere alle popolazioni un mare di dolori anco-
ra più grande e tempestoso di quello che già le opprime. È anche necessario domandarsi se non si rischi di generare un effetto contrario a quello desiderato. Nessun popolo ama vedere forze armate straniere che vengono a fare la guerra sul proprio territorio e c’è sempre il rischio che una reazione nazionalista porti il popolo a schierarsi a favore del
ne. Senza energia la nostra economia si ferma e noi moriamo di fame. Questo naturalmente non ci dà il diritto di impadronirci del petrolio degli altri senza pagare il giusto prezzo. È però ovvio che siamo più interessati ed anche più disposti ad intervenire in quei casi in cui c’è un importante interesse nazionale in gioco, cioè in quei casi in cui dalla crisi di un Paese possono derivare anche importanti conseguenze negative per noi. Nel caso della Libia temiamo una duplice conseguenza negativa, non solo una crisi del nostro approvvigionamento energetico ma anche una ondata incontrollata di emigrazione. In Libia interveniamo perché i diritti umani sono violati , ma anche perché la Libia è vicina e proprio per questo l’intervento è relativamente facile ed abbiamo un rilevante interesse ad intervenire. Se non ci fosse la violazione dei diritti umani l’intervento sarebbe illegittimo. Se non vi fossero facilità di intervento ed interesse ad intervenire l’intervento sarebbe legittimo ma forse nessuno si accollerebbe i rischi ed i costi della sua realizzazione. Così è il diritto internazionale oggi. Ci dice cosa è giusto e cosa è sbagliato ma non ci dice chi ha il dovere di fare ciò che è giusto. C’è la legge, c’è il giudice, ma non c’è una forza regolare di polizia. La esecuzione della legge è affidata alla buona volontà di chi ne ha la possibilità e la voglia. Esiste comunque una via intermedia fra la cosiddetta realpolitik e un idealismo ingenuo, la via di una politica realista orientata al bene comune della intera comunità umana.
Adesso se vogliamo guidare gli sviluppi futuri nel Mediterraneo sarà bene mettere mano rapidamente alle cose che non si sono fatte. La guida delle ribellioni in Nord Africa oggi è nelle ma-
La Marina americana da tempo ha di fatto rinunciato a una presenza forte e continua nel Mediterraneo; d’altra parte l’Europa non è intervenuta al suo posto. Di qui quella sensazione di disorganizzazione e i ritardi che ci sono stati in questi giorni tiranno. Anche questo rischio deve essere valutato con attenzione. Altri ancora si chiedono: e il petrolio? Non c’entra nulla il petrolio? Non è che interveniamo in Libia perché lì c’è il petrolio e tutti i discorsi sui diritti umani sono solo una menzogna ed una copertura ideologica? Nel rispondere a questa domanda dobbiamo essere insieme realisti ed onesti. L’interesse ad intervenire cresce quando sono in gioco importanti interessi nazionali. Il petrolio è per noi pa-
ni di uomini giovani che chiedono libertà ed un benessere paragonabile a quello degli occidentali. Non si tratta di pericolosi terroristi di al-Qaeda. I terroristi però ci sono, si rifugiano nell’ombra e aspettano la loro ora. Se in Libia i ribelli verranno sconfitti allora gli integralisti islamici prenderanno la guida della ribellione. Sono abituati alla lotta clandestina, sono organizzati ed armati mentre gli studenti democratici saranno facilmente spazzati via dalla repressio-
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ne, se Gheddafi dovesse prevalere. Egualmente oggi gli estremisti non sono alla guida del movimento né in Tunisia né in Egitto. Se tuttavia i nuovi governi non saranno in grado di aprire una fase nuova di modernizzazione, di crescita economica e di sviluppo allora verrà di nuovo il tempo degli estremisti. Che questo non avvenga è in gran parte responsabilità dell’Italia, se, questa volta, l’Italia sarà capace di trascinare l’Europa in una vera e seria politica mediterranea. È evidente comunque che in questa vicenda libica e mediterranea è drammaticamente evidente la mancanza dell’Europa. Non c’è stata una politica mediterranea dell’Europa. Non c’è stata una politica condivisa per l’immigrazione. Non vi è stata neppure una comune politica per la difesa. Si è parlato di costituire un nucleo aeronavale capace di realizzare una proiezione di potenza in caso di necessità. Il caso di necessità si è presentato ma l’Europa non aveva nessun nucleo capace di realizzare la necessaria proiezione di potenza.
Se la situazione è degenerata è anche perché gli americani non avevano voglia di intervenire e non erano nemmeno attrezzati per intervenire. La Marina americana ha in larga misura rinunciato ad una presenza forte e continua nel Mediterraneo e non è stata sostenuta da una forza europea. Di qui la disorganizzazione, i ritardi ricomposti infine dalla direzione americana prima e Nato poi. Abbiamo scoperto comunque che il Mediterraneo è un mare nel quale dal punto di vista militare siamo deboli e disorganizzati. Anche in questo abbiamo bisogno di più Europa. Ha sbagliato il governo italiano non comprendendo quanto il contesto europeo fosse necessario per difendere gli essenziali interessi italiani nel Mediterraneo. Ha però anche sbagliato tutta l’Europa, contenta che nessuno la mettesse di fronte alle sue responsabilità nel Mediterraneo e riluttante a darsi un profilo di politica estera. Speriamo che tutti, Italia ed Europa, impariamo la lezione amara di questi giorni. Se abbiamo fatto una analisi senza abbellimenti dei nostri errori lo abbiamo fatto non per sterili fini di politica interna ma per far crescere il proposito di non più ripeterli.
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la crisi libica
Ritratto di un militare del tutto inedito nella mitologia a stelle e strisce: è arrivato al vertice grazie a studi e... simpatia
Il generale buono
Tornato dall’Iraq, ha ammesso lo «stress da combattimento», poi ha deciso che i soldati possono essere gay: così è diventato il «volto amico» dell’esercito americano. È Carter Ham, l’uomo che dirige le forze Usa in Libia el 1970 il film su Patton con George Campbell Scott, mostrava il famoso generale col cinturone da cow-boy costretto da Roosevelt a chiedere scusa ai suoi uomini durante la Seconda Guerra Mondiale, per aver preso a schiaffi come “vigliacco”un soldato che secondo i medici era affetto da “stress da combattimento”. Pure del 1970 e pure ambientato nella Seconda Guerra Mondiale era Comma 22: surreale vicenda di un aviatore alle prese con il citato comma del codice militare, secondo cui «chi è pazzo può chiedere di essere esonerato dalle azioni di guerra, ma chi chiede di essere esonerato dalle azioni di guerra non è pazzo». Di quanto certe cose siano cambiate può dare prova questo particolare: il primo generale della storia degli Stati Uniti ad aver confessato di aver sofferto da stress da combattimento, è ora diventato comandante della missione Odissea all’Alba in Libia.
N
È il generale Carter Ham. Comandante di una Brigata Multinazionale Nord dell’Iraq dal gennaio del 2004, si trovò
di Maurizio Stefanini ad affrontare la fase più aspra dell’insorgenza. E il 21 dicembre 2004 arrivò sulla scena di un attentato a Mosul, 20 minuti dopo che un attentatore suicida si era fatto esplodere nella mensa di una base, uccidendo 24 persone. Quando nel febbraio successivo tornò negli Stati Uniti, la moglie Christi racconta di non aver quasi riconosciuto quell’uomo che aveva perso tutto il suo buonumore, saltava a ogni rumore e non riusciva più a dormire. Ma Carter Ham ebbe la forza di confessare la sua debolezza, si rivolse a un cappellano, e su suo consiglio intraprese un percorso di riadattamento psicologico che lo ha rimesso completamente in sesto. Non solo: confessò in pubblico l’accaduto, e incitò altri soldati con analoghi problemi a non avere vergogna di confessarli a loro volta e farsi curare. Divenuto uno dei 14 generali a quattro stelle dell’Esercito Usa, è via via stato designato vice-direttore per le Operazioni Regionali dello Stato Maggiore, comandante della Prima Divisione di Fanteria,
Direttore delle Operazioni, dal 28 agosto 2008 34esimo comandante delle forze dell’esercito Usa in Europa, e dallo scorso novembre secondo comandante di quel curioso Africom, U.S. Africa Command, che il Dipartimento alla Difesa di Washington aveva costituito nell’ottobre del 2008, per coordinare le operazioni e relazioni militari con 53 paesi di tutta l’Africa, ad esclusione del solo Egitto. Una decisione che rifletteva la crescente importanza strategica dell’Africa: sia per il contenimento del terrorismo interna-
Il suo comando è a Stoccarda, ma le sue forze sono a Napoli e in Veneto
zionale, sia per il petrolio, sia per l’estendersi dell’influenza cinese. Ma l’obiettivo formale era la stabilizzazione di paesi poveri e deboli attraverso la formazione delle forze di sicurezza locali e l’aiuto umanitario. Inoltre varie ipotesi di insediamento in Nigeria, Marocco, Algeria o Etiopia erano state bloccate sul nascere dalla resistenza delle popolazioni locali, e la disponibilità della Liberia si scontrava con l’ostilità subito espressa da Sudafrica e Libia all’idea stessa di una base Usa in territorio africano. Insomma,
è finita che George W. Bush ha espressamente rinunciato all’ipotesi di realizzare una tale base, parlando piuttosto di una rete di cooperative security locations. Così Africom è un “comando africano” con sede a Stoccarda in Germania, aviazione in Italia a Camp Ederle di Vicenza e flotta pure in Italia, a Napoli.
Proprio per aver avuto il coraggio di confessare il suo stress post-traumatico, però, Carter Ham è diventato una sorta di “volto amico”usato dalle Forze Armate Usa ogni volta che c’era bisogno di prendere decisioni con impatti delicati sull’opinione pubblica. Ad esempio, è stato incaricato lui di redigere quello studio del Pentagono sui soldati gay che ha posto fine a quella politica del “Don’t Ask, Don’t Tell” che imponeva di non discriminare i militari omosessuali, a patto però che loro non si dichiarassero tali. Sempre a Carter Ham è stata data la responsabilità dell’indagine sul maggiore Nidal Malik Hasan: il medico militare specializzato in malattie mentali di origini giordano-pa-
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Ha guidato anche le forze di «Odissey Dawn», impegnate a frenare e a stanare il Colonnello
Margaret Woodward, la comandante in gonnella
Carta d’identità della prima donna responsabile di un’operazione di guerra aerea, oggi alle prese con i cieli di Muammar Gheddafi di Pierre Chiartano ssere ai comandi di un grosso aerotanker come il KC135 non è facile. È come dirigere un elefante con una foglia d’ortica. Inerzia e potenza non si governano tanto facilmente. Specie nelle giornate afose che caratterizzano la piana del Mississipi. L’aeroporto dello Strategic air command (Sac) di Blytheville è immerso tra marcite, boschi e piane alluvionali, un po’ come la Val Padana. La foschia domina le prime ore del giorno e da giugno a settembre per avere un attimo di respiro bisogna far quota, raggiungere un’altitudine dove umidità e caldo ti danno un attimo di tregua. Mentre lungo il fiume, che a tratti segna il confine col Kentucky, scorrono lente le chiatte da trasporto. Margaret da quelle parti ci passava solo ogni tanto, quando dalla base di Plattsburg, su al Nord, andava a trovare i vecchi amici di Columbus, dove era stata pilota istruttore sui magnifici bireattori Talon. Ma i cieli di quella valle piatta e disegnata col pennello li conosceva molto bene. Riflettevano i colori della terra conquistata dai coloni. A sud verso l’Alabama la linea netta e verde scuro segna il confine tra boschi e prateria. I Northrop T-38 di Columbus, versione d’addestramento dell’ormai datato F-5 Tiger, le avevano fatto respirare il clima da caccia, quello da top gun.
E
Tanto diverso dal governare degli elefanti stracolmi di carburante, da tenere dannatamente stabilizzati durante le operazioni di rifornimento in volo. Il T-38 era lo stesso aereo su cui si allenavano gli astronauti della Nasa e Margaret di quelle faccende ne sapeva qualcosa. Aveva in tasca una laurea in ingegneria aerospaziale, presa all’Arizona state university nel 1982. Da quel momento la sua non era stata una carriera tanto normale. Aveva bruciato i tempi nelle gerarchie della Us Air Force e presto era approdata a incarichi di responsabilità nella capitale. Era stata, da tenente colonnello, direttore del protocollo del segretario alla Difesa, nel 1998. Il Pentagono per lei aveva meno segreti dei circuiti idraulici di un timone di profondità e meno imprevisti di una missed approach
procedure. E di lì era cominciato il periodo dei comandi, quelli che contano prima alla base Fairchild al 97th Air refueling squadron, poi un passaggio obbligato al National war college e di nuovo al 12th Operation group a Randolph, una specie di università del volo per piloti militari. La carriera di Margaret aveva acceso il post-brucia-
3.800 ore di volo alle spalle, ama passare il tempo a tagliar sedani, affettare pomodori e cucinare soffritti tore che l’aveva portato in volo alla base di Andrews, da dove aveva accompagnato l’ex presidente George W. Bush nel suo ultimo volo a Washington per il giuramento del suo successore alla Casa Bianca. La fortuna ha accompagnato il generale dell’Usaf Woodward, che di nome fa Margaret, e che è ora è diventata il primo comandante in gonnella di un’operazione di guerra aerea. In carico ad Africom, il nuovo comando americano che avrebbe dovuto occuparsi di operazioni umanitarie, del controllo di immigrazione, terrorismo e dell’addestramento degli eserciti africani, grazie alla follia di Muammar Gheddafi, si troverà ora a dirigere l’orchestra delle forze aeree della Nato, dopo essere stata responsabile di quelle di Odissey Dawn, impegnate a frenare e stanare il Colonnello e le sue milizie.
Uno scenario quello libico tutto sommato limitato rispetto agli orizzonte di Africom, che è responsabile di un’area che comprende 53 Paesi e 900 milioni di
abitanti. E che sia una donna a dover martellare la testa di un maschilista “collezionadonne” come il rais fa parte di una nemesi storica che ha già avuto altri protagonisti in questa vicenda del De Bello Libico. Il segretario di Stato americano Hillary Clinton aveva rotto gli induci, quando Obama sembrava tentennare; un’altra donna, l’ambasciatore Usa al Palazzo di vetro Susan Rice aveva espresso un decisionismo mai visto prima. Ora è venuto il turno di Margaret, 3.800 ore sul libretto di volo, ma le piace anche passare il tempo a tagliar sedani, affettare pomodori e a far soffritti in cucina.
Ha imparato a muoversi nei campi minati di Washington così come eviterebbe di essere agganciata da un radar di ricerca antiaerea. Oggi ha settato il suo codice trasponder su «fame» e dovrà affrontare i media, la politica e la conduzione di una guerra aerea tutt’altro che semplice. Ha messo a zero flap, slat e aerofreni e si prepara a superare il muro del suono di una carriere cominciata già a folle velocità, sempre carica d’entusiasmo. «È stata una spettacolare dimostrazione di abilità aeronautiche osservare questa coalizione agire insieme nei primi attacchi aerei nel nome del popolo libico. I nostri bombardieri e i nostri militari hanno operato magnificamente», sono le parole del generale Margaret H. Woodward, in una recente intervista. E tanto entusiasmo ha un motivo. Visto che sulla Libia le operazioni aeree erano ben quattro: l’americana Odiessey Dawn, la francese Harmattan (come il vento secco che soffia nel deserto), l’inglese Ellamy e la canadese Mobile. Tante teste che dovevano coordinarsi un uno spazio aereo, su Cirenaica e Tripolitania che improvvisamente era diventato affollatissimo. Non era dunque semplicissimo fare una regia attenta di tanti «assetti» operativi, come usano dire i militari. Lei il generale in comando non si è accontentata dell’altra metà del cielo, l’ha voluto controllare totalemente lo spazio aereo libico, fino ad annullare il pericolo dell’aviazione lealista e della sua difesa aerea. Margaret non avrebbe mai pensato che al comando della 17th Air force in Germania, assegnata ad Africom, si sarebbe proiettata in una guerra vera. Una forza aerea solo sulla carta che avrebbe dovuto crescere e utilizzare altre componenti di volo a seconda delle necessità. Sulla sua rotta, invece, ha incrociato un bersaglio grosso, un rais dell’altro secolo che ha la cattiva abitudine di massacrare la propria gente. Margaret non c’ha pensato due volte: steep turn (virata stretta), bersaglio agganciato, fuoco!
lestinesi, che alla vigilia di un trasferimento in Afghanistan si mise a dare di matto a sua volta, uccidendo 13 commilitoni. La sua raccomandazione fu di prendere provvedimenti disciplinari contro sei persone che secondo il rapporto avevano ignorato i chiari segni di squilibrio mentale che lo stragista aveva iniziato a dare.
Un comando africano italotedesco, dunque, sotto un generale che ha confessato di essere stato sconvolto dalla guerra e che deve combattere una guerra assolutamente sui generis. Probabilmente, il fatto di dover condurre un conflitto simile dopo essere stati tirati per i capelli da Sarkozy, nell’analisi della Casa Bianca e del Pentagono deve essere considerata una situazione altrettanto imbarazzante che non dover liberalizzare i gay nelle Forze Armate o affrontare lo scandalo di un medico di pazzi impazzito a sua volta. Come a dire, che il sorriso di Carter Ham va bene anche per rendere digeribile l’impiccio libico. «La mia missione non è quella di catturare Gheddafi, né di attaccarlo», è stato il tenore delle sue prime dichiarazioni. «Non sappiamo dov’è e non lo stiamo cercando». «Non stiamo fornendo supporto aereo ai ribelli antiGheddafi e non c’è un coordinamento diretto fra le forze della coalizione e gli insorti libici». Una situazione, peraltro, che è andata rapidamente evolvendo. Anche se continua a non essere del tutto chiaro in vista di cosa. Va peraltro ricordata un’altra singolarità di Carter Ham: non ha iniziato come ufficiale di carriera. 59 anni lo scorso 16 febbraio, figlio di un ufficiale di marina della Seconda Guerra Mondiale, si arruolò nel 1973 come soldato semplice dei paracadutisti nella famosa 82esima divisione aviotrasportata, prima di frequentare la John Carroll University nella natia Cleveland, nell’Ohio: lo stesso ateneo dove conobbe sua moglie. Divenne sottotenente nel 1976 attraverso un corso per militari della riserva. Fu a quel punto che iniziò a fare collezione di titoli di studio militari: tra master e simili, ha studiato da fante, parà, carrista, marinaio e aviatore. Ufficiale addetto al reclutamento nell’Ohio e poi distaccato alle Olimpiadi di Los Angeles, iniziò a girare per il mondo come consigliere della Guardia Nazionale saudita. E poi è stato comandante di un battaglione di fanteria in Germania distaccato anche per sei mesi in Macedonia, osservatore in un corso di addestramento in Germania, capo di Stato Maggiore della prima divisione di fanteria, comandante di un reggimento di fanteria, vicedirettore del Comando Centrale in Florida e in Qatar.
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la crisi libica
Il presidente francese ha appena perso le elezioni amministrative e teme per l’Eliseo: da qui il suo «interventismo»
I segreti di Monsieur Sarkozy Dalla Libia alla Parmalat: Berlusconi e l’Italia scavalcati (a destra) PARIGI. Valli a capire i francesi, che quando sturano le bottiglie di champagne dell’orgoglio nazionale intriso di sciovinismo non sono secondi a nessuno. Il filosofo radical-chic Bernard Henry-Levy fa da mosca cocchiera a legioni d’intellettuali che plaudono, quasi in estasi guerriera, alle gesta del presidente Sarkozy capofila della “crociata”contro il raìs di Tripoli. Dimenticando che sino ad un mese fa la bella ed elegante Alliot-Marie, ministro degli Esteri (a fatica defenestrata), coccolava Gheddafi in compagnia del dittatore tunisino Ben Alì, presso il quale era usa trascorrere le vacanze. Sui media, i sondaggi paiono incontrovertibili: il 70 e passa per cento dell’opinione pubblica approva senza se e senza ma l’operato di monsieur Le President, in prima linea, negli aeroporti della Corsica, a salutare i Mirage al decollo con il loro micidiale carico di missili.
Eppure domenica scorsa, nel segreto delle urne, quei cittadini che si sono recati ai seggi per le elezioni cantonali (qualcosa di simile alle nostre provinciali), hanno inflitto una batosta all’Ump, il partito del presidente, che ha toccato il minimo storico col 16,97 per cento dei voti, nettamente superato dai socialisti col 24,94 ed incalzato, evento politicamente clamoroso, dal Fronte nazionale col 15,06. Sommando i voti dei tre “grandi” s’arriva appena al 55 per cento, mentre astensioni e schede bianche hanno coagulato oltre dieci milioni d’insoddisfatti, di renitenti al voto. Inoltre siamo in presenza di una miriade di liste locali, ecologiste, comuniste, d’estrema sinistra, centriste, che nella maggior parte dei casi, domani al ballottaggio saranno obbligate ad indirizzare i loro consensi verso le formazioni maggiori. Al di là del complicato puzzle elettorale, pur tenuto conto della caratteristica delle cantonali, un dato emerge chiarissimo: in questo momento in Francia nessuno dei partiti tradizionali (socialisti ed ex gollisti dell’Ump), gode del consenso dell’opinione pubblica. Il che fa tremare i polsi ai vertici di entrambi gli schieramenti, poiché
to di rifarsi con l’Italia. Non scordiamo la penetrazione nel tessuto finanziario: la conquista della Bnl, Bolloré in Mediobanca e nelle Assicurazioni Generali (dove proprio l’altro giorno gli hanno risposto a muso duro). Freschissima, la scalata di Lactalis a Parmalat. E trattasi solo di alcuni esempi. Facile replica: siamo nella Comunità europea, i capitali circolano liberamente… Vogliamo però chiederci perché i Tgv delle nostre Ferrovie non possono circolare sui binari francesi, perché siamo esclusi da partecipazioni nel settore elettrico dominato da Electricitè de France che per giunta vorrebbe fare boccone della nostra Edison? L’impressione è che a Roma, il governo si sia accorto con ritardo della volontà egemonica dei francesi nel Mediterraneo. Dapprima stringendo accordi con Mubarak al Cairo e Ben Alì a Tunisi. Caduti questi birilli (evidentemente le antenne francesi non erano poi tanto vigili…), ecco la
di Giancarlo Galli nella primavera prossima sono in calendario le elezioni per la presidenza della Repubblica. E con l’aria che tira, Sarkozy rischia di finire nella polvere. Senza peraltro che i socialisti siano sicuri di raccogliere l’eredità: la poltrona all’Eliseo. Fra il primo e il secondo turno delle cantonali, un sondaggio che doveva rimanere top secret è stato rivelato da Le Parisien: per l’appuntamento del 2012, la candidata del Fronte nazionale, Marine Le Pen, che ha “ereditato”il partito del padre Jean-Marie ex paracadutista ed ipernazionalista, viene data favorita col 23 per cento, mentre l’uscente Sarkozy si fermerebbe al 22 sullo stesso livello della segretaria del Ps Martine Aubry. Il che fa paura, rievocando nemmeno troppo lontani fantasmi. Quell’aprile del 2002 in cui, profittando delle altrui lotte intestine, Le Pen senior, superato d’un soffio il leader socialista Lionel Jospin, andò al ballot-
taggio con Jacque Chirac. Le Pen finì stritolato nella tenaglia di un’Alleanza repubblicana. Accadrebbe lo stesso, anche questa volta, nell’ipotesi di un duello finale Sarko-Le Pen? E dovesse esserci un testa a testa Le Pen-Aubry, quale sarebbe il comportamento dell’Ump e di tutte le sue parentele locali? Non è semplice per un osservatore straniero descrivere in poche righe il palpabile disagio, talvolta prossimo all’angoscia, che sta scuotendo gli ambienti politici transalpini. Provando a riassumere (con beneficio d’inventario finale, ovviamente).
1. La disaffezione politica sembra avere raggiunto livelli record. Penalizzando soprattutto socialisti e maggioranza attuale, di centrodestra. E premiando l’estrema destra. Forse pochi esponenti del Fn riusciranno ad occupare seggi canto-
nali, ma il loro emergere è carico di significati. «Il voto Fn domina uno scrutinio snobbato dagli elettori», ha titolato Le Monde. 2. In altre epoche, come appunto nel 2002, la reazione sarebbe stata automatica: un convinto sostegno al candidato antiforzista. Prospettiva che invece appare, almeno al momento, a nessuno gradita. I socialisti decisi a marciare da soli, costi quel che costi; i sarkoziani divisi come più non potrebbero. Con un leader a basso tasso di gradimento (ed ulteriormente sceso, con lo sfrangiarsi del blitz sulla Libia), già per il turno delle cantonali di domani, in molte aree emerge la tendenza ad offrire un appoggio, più o meno dichiarato, al candidato del Fn. Perché? Per la semplice ragione che la “pancia” dei francesi non è più in
sintonia col Governo. Col Presidente. Certo, se Sarkozy fosse riuscito in poche ore a spezzar le reni alla Libia di Gheddafi, imponendo a Tripoli quei “ribelli”che aveva ricevuto in anticipo all’Eliseo, l’affaire si sarebbe altrimenti sviluppato. Senonché la storia esclude i “se” ed i “ma”. Il blitz francese in Libia non è riuscito, e ne sono scaturiti dubbi, interrogativi. Vieppiù ingigantendo. Con un risvolto che ci riguarda direttamente.
Pareva, e pareva s’ha da ripetere, che fra Sarkozy e Berlusconi esistesse una relazione forte, amicale. Invece, con cinismo, il Napoleone va alla guerra nemmeno anticipando. Perché mai? Basta poco a capire: fors’anche più delle pulsioni umanitarie, a Sarko stanno a cuore gli interessi del big business. Quelli di cui discute conVincent Bolloré, massimo finanziere di Francia (che lo ospitò durante la luna di miele con Carla Bruni). Cioè il petrolio libico, il gas libico, la modernizzazione della Libia. Un’area fino a poche settimane fa ritenuta di “influenza italiana”. Da un po’ di tempo, i francesi – evidentemente nostalgici dell’antica Grandeur, e che hanno perduto ogni autorità in Algeria e Marocco, in Egitto (sostituiti dagli Usa) – possono aver pensa-
puntata su Libia & Gheddafi.Togliendo la sabbia sotto i piedi dell’Eni. Com’è facile intendere, siamo di fronte ad una partita a scacchi in cui la complessità fa rima con la pericolosità. La Francia guidata da un Sarkozy a rischio di non rielezione, va cercando un riscatto, un colpo di reni. Con qualche giustificazione etica (Gheddafi non è un cherubino, anzi!);
Il presidente francese Nicolas Sarkozy ha lanciato per primo l’offensiva alleata in Libia facendo decollare i «suoi» caccia Mirage
ma in realtà per espandere la propria sfera di influenza interessata. Riflettiamo bene, dunque, su quel che sta accadendo.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
GLI ULTIMI GIORNI DI IPPOLITO NIEVO
Personaggi dell’Italia unita
di Pier Mario Fasanotti
l dover rispondere, il non voler dire né sì né no, era per lui un tal torYork. Rimugina sul sogno di liberarsi di molti legami e si chiede: «Ma, poi, davmento che avrebbe preferito cedere tutti i suoi diritti giurisdiCarattere vero gli Stati dell’Unione hanno tagliato tutti i cordoni con la vecchia Euzionali per esserne liberato». Questa è una frase contenuta ropa?». È a sé, alla propria ancora breve vita che pensa, in realtà. Al vago, come nelle Confessioni di un italiano di Ippolito Nievo largo della costa sorrentina, l’Ercole comincia a dar segni di ce(1831-1861) e bene riassume, con valenza profetica, lo stadimento davanti e dentro un mare in tempesta, il mare neil luogo in cui giace. to emotivo e intellettuale dell’autore, garibaldino e ro che genera mostri. Sballottato nella sua cuccetta, Diligente amministratore scrittore, nel momento in cui, appoggiato sul paNievo riflette malinconico: «…l’ansia di riconsegaribaldino era un “fustigatore dei pigri”. rapetto del vapore Ercole lascia definitivagnarsi alla terraferma, di misurare lo spazio con i propri passi, di rinunciare al moto per la mente Palermo per tornare nel natio Nord. La storia romanzata del suo tormentato quiete… l’immobilità, lo stato inerte, la stagnazioNievo, già responsabile dell’Intendenza della capisoggiorno palermitano, prima ne… ecco la condizione alla quale aspiro». Ippolito sotale siciliana, è diviso, e profondamente, tra amori e dell’addio alla città, miglia molto, anzi moltissimo, a uno dei personaggi del suo umori, terre e visioni del proprio futuro. principale romanzo. La «carretta» Ercole viene sbriciolata dalle Non a caso, prima di salire a bordo di un’imbarcazione che aveva ricostruita in un funzionato bene per trent’anni ma era considerata ormai «una carretonde del Mediterraneo: nessuno si salva. Né lui, né gli altri passeggeri, libro ta», lancia un’occhiata al piroscafo Freedom che ha come destinazione New né gli uomini dell’equipaggio.
«I
Parola chiave Geografia di Maurizio Ciampa Sunny sound per quattro voci di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Mario Novaro tra marketing e verso puro di Francesco Napoli
Fenomenologia di Cees Nooteboom di Sabino Caronia Il femminile senza stereotipi di Anselma Dell’Olio
Hartford-Cinecittà i molti usi del Merisi di Marco Vallora
gli ultimi giorni di Ippolito
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Malinconica è l’indicazione biografica: nato a Padova e morto nel Mar Mediterraneo. Una dolorosa vaghezza di luogo. Che rimanda al suo carattere. La storia, romanzata, delle ultime settimane di Nievo è raccontata da Paolo Ruffilli, poeta e narratore (in L’isola e il sogno, Fazi editore, 193 pagine, 17,50 euro). L’autore è buon conoscitore di Nievo, sia come persona sia come letterato (ha curato l’edizione delle Confessioni). Quel che a Ruffilli interessa sono i giorni nostalgici, malinconici e tormentati, ma anche accesi da un amore nella cornice barocca e sensuale di Palermo, di un uomo che credette alla missione di Garibaldi e compì diligentemente il suo dovere di amministratore, anzi con tale giusta severità da vedersi affibbiato il nomignolo di «Antropofago Intendente». Sempre dovette affrontare e correggere, quando poteva, la disorganizzazione degli isolani, provandone «nausea e noia». Lo chiamavano «il fustigatore dei pigri» anche coloro che ben sapevano che quella di Garibaldi era una rivoluzione abortita a causa della «diplomazia sporca» e dei mestatori di tutte le razze, delle bande di picciotti ed ex galeotti (deliberatamente liberati dai borbonici per destabilizzare il nuovo regine insulare).
Sia il Nievo che torna in Sicilia, sia il Nievo che lascia l’isola, sempre su una nave, ha modo di ricordare quel che ha fatto e quel che non ha potuto fare. Paolo Ruffilli non s’addentra nel mistero della sua scomparsa. Caso o complotto? Non lo si è mai saputo, figurarsi in un Paese come l’Italia dove le maligne trame si nascondono nella sabbia del gattopardesco «tutto come prima». Il garibaldino-scrittore aveva l’incarico di portare a Torino, capitale del neoRegno italico, tutta la documentazione amministrativa della spedizione dei Mille. C’è ancora chi non esclude che il tragico naufragio sia l’effetto di un complotto politico. Che c’era di così delicato in quelle carte? Magari carte comprovanti l’intervento finanziario, o magari anche indirettamente militare, degli inglesi. O questo, oppure questo e ben altro. Il pronipote dello scrittore, Stanislao Nievo, ha parlato apertamente di «sospetta strage di Stato italiana, maturata dalla Destra e decisa dal potere piemontese per liquidare la Sinistra garibaldina: strage con la quale si sarebbe aperta la storia dell’Italia unita». Dichiarazione pesante, contenuta nel romanzo Il prato in fondo al mare (Mondadori, 1974). Altre pubblicazioni hanno ripreso il sospetto complottardo, per esempio La tragica morte di Ippolito Nievo e Il naufragio doloso del piroscafo Ercole di Cesaremaria Glori. Pure Umberto Eco nel suo Il cimitero di Praga adombra la pugnalata alle spalle a vantaggio di una ragion di Stato. Citiamo Eco solo per amore di cronaca, visto che il suo ultimo romanzo è un inno sperticato, e storicamente assai forzato, alla nebulosa del sospetto intesa
anno IV - numero 12 - pagina II
come motore e timone del mondo.Torniamo al Nievo che guarda il mare di Sicilia, nel viaggio di andata e in quello di ritorno. È nel tenore e nel colore del suo sguardo, e nei ricordi che affollano la sua mente inquieta e lacerata, il nucleo più vero della sua personalità. Gli amori, per prima cosa. C’è Bice, figlia del conte Melzi d’Eril e di una Belgioioso, quindi rampolla di una famiglia illuminata e illuminista. Bice è sposata a Carlo Ferrari, cugino dello scrittore. Il quale, nei giorni in cui Nievo allieta Bice con il suo amabilissimo conversare nella grande casa milanese o nella villa di Bellagio (lago di Como), si defila. La donna sostiene che il coniuge ha superato le angustie della gelosia, anzi considera la presenza di Ippolito accanto alla moglie alla stregua di un ricostituente coniugale. Un po’ ambiguo, non c’è che dire. E Nievo ne è consapevole.Tra i due c’è una specie di amore senza corporalità. «È bella, pallida e quieta» pensa lo scrittore. Il quale l’aveva conosciuto anni prima quando tutti insieme erano andati a passare il carnevale in casa Nievo a Mantova. Simpatia profonda o amore? L’interrogativo lo porta a una definizione emotiva che ricorrerà spesso nella sua esistenza: «disagio». Lei, la pallida donna, lo conforta con un realismo che più che poetico o tenero è cinico: «Te lo ripeto un’altra volta, Ippolito. Sarai per forza costretto ad affiancare un’amante di sostegno alla tua amata». A Nievo, che piaceva non poco alle donne siciliane, non mancarono quei «sostegni» nelle «monumentali camere da letto», in città e nei dintorni. A cominciare dalla giovane marchesa Spedalotto, vedova focosa che non disdegnava a farsi vedere in pubblico accanto a lui, o comunque era favorevole al fatto che molti «sapessero». La cornice ambientale favorisce gli abbandoni. Ma non cancella il ricordo di Bice, verso la quale Ippolito avverte il tradimento: «Che vile agguato per l’amore, il desiderio». Ma Palermo, e la Sicilia tutta, è terra di forte desiderio. È facile immaginare come un uomo sensibile del brumoso e freddo Nord si possa sentire accarezzato dalle serate palermitane. Un nobile gli ha detto: «Quaggiù in Sicilia, le femmine, non le lasciamo mai da sole perché fa vacillare anche le sante, l’occasione». Poi ci sarà la sensualissima Palmira che tenterà Ippolito a considerare l’ipotesi di rimanere avvinghiato all’isola degli amori, dove molte cose trovano spiegazione nei miti dell’antica Grecia.
Nievo ricorda come il fascino di Palermo abbia catturato Alexandre Dumas, oltreché se medesimo. L’autore dei Tre moschettieri, sul limitare dei sessant’anni, si era espresso così su questa città che ti accoglie col sorriso della promettente cortigiana: «Se esiste una città nel mondo che può riunire tutte le prerogative della felicità, questa è Palermo… il posto dove sorge è magico e incantato. E ha ereditato i suoi palazzi dai mori saraceni, le chiese dai normanni, le feste poi dagli spagnoli. Diventata poetica come una sultana, graziosa come una francese e
nievo
appassionata come un’andalusa. Per questo il suo benessere le arriva per direttissima da Dio e, agli uomini, è impossibile distruggerlo… preparatevi voi garibaldini a subirne le lusinghe». E Nievo subì, felicemente. Ancora Dumas: «Palermo è un termine: è la primavera, dopo l’inverno. È il riposo, dopo la fatica. È il giorno dopo la notte, l’ombra dopo il sole, l’oasi nel deserto». I siciliani, in specie i nobili, regalarono quiete e riposo e piacere ai garibaldini con le casacche impolverate, stremati - e anche un poco stupiti - dall’impresa militare. Garibaldi, così carismatico, aveva avuto il potere di spalancare, per i suoi Mille, tutte le porte, comprese quelle dei conventi. Paolo Ruffilli riassume così il clima carezzevole della terra dei fiori e dei cactus: «Religione e festa si coniugavano senza timore e senza remore, nelle pratiche dei siciliani». Ma i pensieri di Ippolito Nievo si rivolgono anche alla sua esperienza politico-sociale. È ben consapevole che a specchio dell’irruenza rivoluzionaria, e umanamente generosa, di Garibaldi c’è la grettezza e la miopia politica dei sabaudi, che fino all’ultimo opposero resistenza a far entrare nelle file dell’esercito regolare le camicie rosse che pur spianarono la strada a una dinastia di origine montanara, del tutto ignorante sul Meridione della penisola. «È un’arroganza a cui dovremo abituarci, temo» dice il Nievo del romanzo di Ruffilli. Il quale pensa anche a quelli che covano «idee solide e ristrette». Così come ricorda figure ambigue di siciliani come Giuseppe La Farina, «leccapiedi, faccendiere», mandato da Torino quale «emissario del conte di Cavour». Mestatore e trafficone, con i soldi e le alleanze politiche, «s’era messo ad aizzare i possidenti, convincendoli che noi (i garibaldini, ndr) favorivamo la ventata anarchica. Attribuiva a noi i disordini che organizzava lui con i suoi bravi: gli assalti alle ricche abitazioni, le occupazioni delle terre. Mentre eravamo noi a ristabilire l’ordine ogni volta. La verità è che molto raramente, in queste azioni, avevano colpa i contadini».
La Farina continuò a Napoli, terreno fertile per le voci maligne, la sua campagna di diffamazione contro gli amici di Garibaldi. È per questo che l’intendente Nievo, di fronte alle calunnie e ai giochetti di potere, confida a un suo compagno di viaggio: «Ecco a cosa siamo costretti noi: da vincitori ad accusati, costretti a difenderci dalle calunnie più infamanti. Sono qua, appunto, per mettere assieme i documenti da presentare alla burocrazia sabauda per dimostrare la nostra correttezza nell’amministrazione». Si riferisce al periodo della dittatura di Garibaldi, necessaria per imporre ordine e per tentare di «incivilire» strati della popolazione o profondamente arretrata o naturalmente incline all’agire mafioso. Poi c’è Napoli, odiata dai siciliani. Città dove si balla e si canta prima ancora della disfatta definitiva di Gaeta. La città del perenne Carnevale. La città dei Pulcinella. E come reagisce il Nord? Il console tedesco chiede notizie a Ippolito. Il quale risponde: «Brutta aria. Si preparavano le elezioni. E, nel designare i candidati hanno vinto l’interesse e la mediocrità… i politicanti si stanno impadronendo di quello che è costato sangue e sacrificio a noi… odio e sospetti, e a Milano si vive un gelo che è pari solo a quello dell’inverno». Parola di garibaldino su un’Italia dalla rivoluzione, o riforma, mancata appena dopo la proclamazione dell’Unità. Ma sono parole che purtroppo si potrebbero ripetere anche oggi.
MobyDICK
parola chiave
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GEOGRAFIA on viviamo più nel Rinascimento, da tempo le grandi esplorazioni geografiche si sono esaurite, il mondo virtuale e il processo di globalizzazione sembrano aver cancellato lo spazio, eppure la geografia continua a stupire. È un sapere mobile, in fermento. E in vertiginosa espansione. Ed è quasi aggressiva questa scienza dalle antichissime radici, capace di muoversi al di fuori dei suoi confini disciplinari, come se avesse trovato nuove risorse e nuove energie per colonizzare o fagocitare altre discipline. È uscito appena qualche mese fa un innovativo e celebrato Atlante della letteratura italiana (edito da Einaudi, a cura di Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà) che stende una nuova mappa della nostra letteratura o comunque comincia a farlo (per il momento c’è soltanto il primo volume: Dalle origini al Rinascimento) ripensandone le espressioni attraverso la nervatura geografica del Paese. Qui la geografia scuote procedure analitiche diventate un po’ polverose. Si parla oggi, diffusamente, di una geocritica, e dunque di una critica letteraria che non si serve più della storia, o non esclusivamente, e si è comunque allontanata dalle scienze del testo, come la semiotica o la semiologia, per attingere alle fresche acque della geografia. Ma sono davvero fresche queste acque? O il loro dinamismo può risultare solo apparente ed effimero? Lo vedremo più avanti, ora voglio ricordare un altro libro di cui molto si è parlato alla sua uscita nel 2006, un libro dal disegno ardito, a tratti sorprendente, una discreta riserva di meraviglie e di stupori per il suo lettore: è l’Atlante delle emozioni di Giuliana Bruno (pubblicato da Bruno Mondadori). «Di solito quando si parla di memoria si pensa al tempo - ha detto Giuliana Bruno in un’intervista. Per me conta lo spazio, il rapporto sentimentale con la geografia. Più che nel tempo è soprattutto attraverso la geografia che la memoria si muove… La storia vede il mondo dal lato della morte, la geografia dal lato della vita».
N
Sulle tracce dell’Atlante delle emozioni si mette anche Antonella Tarpino con Geografie della memoria (pubblicato da Einaudi), dove s’insegue e si ricostruisce l’articolata mappa dei ricordi personali. Lo spazio qui non è quello pubblico, monumentale, della grande Storia, è la piccola, ma significativa geografia dell’intimità domestica. Lo spazio dunque si restringe, ma si fa più denso; l’esercizio della geografia non si sviluppa sull’estensione del mondo, diventa piuttosto un sondaggio dell’anima, una topografia della memoria personale. Così la geografia che, fino a qualche tempo fa, pareva essere scivolata verso la periferia
È un sapere mobile, in fermento, in vertiginosa espansione. Perché, capace di muoversi al di fuori dei suoi confini disciplinari, sembra aver trovato nuove risorse per colonizzare altri saperi
La rivincita dello spazio di Maurizio Ciampa
Il tempo, il grande fuoco del pensiero del Novecento, non è più al centro del sapere contemporaneo. Ora in un processo storico si decifrano i segni di un processo spaziale, supporto indispensabile per individuare il profilo del mondo. Ma qualcosa sfugge ancora alla nostra percezione... dei saperi contemporanei, ora ne è al centro. Il tempo, il grande fuoco del pensiero del Novecento, lascia il passo allo spazio. Molti storici sono indotti a «leggere il tempo nello spazio» (questo è il titolo di una raccolta di saggi di un grande storico, il tedesco Karl Schloegel, pubblicato da Bruno Mondadori, un editore che manifesta molta attenzione verso questa piega assunta dai saperi contemporanei), decifrando in un processo storico i segni di un processo spaziale. Con effetti piuttosto inediti, almeno per quanto riguarda Schloegel. Alla ricerca del senso di un evento storico, lo studio-
so tedesco fa largo uso di carte, mappe, atlanti, persino planimetrie di edifici, s’insinua nei passages parigini e consulta gli orari ferroviari per capire il movimento dei convogli nel Terzo Reich. E Schloegel non solo invita a «leggere le carte», ma a far lavorare gli occhi, mentre il ricorso alla geografia supporta il «rinnovamento della stessa narrazione storica». Torno brevemente indietro, riprendendo un interrogativo che, a questo punto, può essere raccolto e sviluppato. Mi chiedevo se sono davvero così fresche e in movimento le acque della geografia. Devo ricordare che fino a ora
mi sono mosso nei suoi dintorni, prendendo in considerazione non geografi, storici o critici letterari, partecipi di una complessiva «rivincita» dello spazio. Ma che cosa accade nel cuore del pensiero geografico? Credo di poter dire che accade molto, a giudicare ad esempio, dalla ricerca di Franco Farinelli, che ripensa in modo radicale l’ordine costituito dell’elaborazione geografica. Farinelli è il più noto dei nostri geografi. I suoi libri recenti (Geografia. Un’introduzione ai modelli del mondo e La crisi della ragione cartografica, entrambi pubblicati da Einaudi) - per me una lettura, e lo dico senza enfasi alcuna, davvero folgorante - sono uno straordinario corpo a corpo con l’intero sapere dell’Occidente e con la sua storia, per poter arrivare a capire quale spiegazione del mondo sia ancora possibile. Oggi viviamo, dice Farinelli, drammaticamente senza modelli, come se avessimo esaurito le nostre possibilità di spiegazione, come se restassimo muti, in un silenzio imbarazzato e a tratti inconsapevole, di fronte al fragoroso dispiegamento del mondo. A guardar bene, le acque vive della geografia sono piuttosto acque nere o morte, opache comunque, niente affatto limpide o trasparenti, e non restituiscono, in alcun modo, il profilo del mondo. Siamo usciti dall’inganno delle mappe, tanto esaltate dai non-geografi, dalla loro rappresentazione lineare, piatta, ma non sappiamo ancora ragionare nei termini della sfera in movimento, del globo che il mondo è. Non sappiamo far valere il mondo come esso è.
Farinelli pensa che tutto il sapere dell’Occidente sia geografico, e che la geografia sia la sua forma originaria, come dire che il pensiero nasce come geografia, scrittura del mondo e suo racconto. Così Farinelli rivendica al sapere che pratica una moderna arcaicità o un’arcaica modernità. Questo sguardo lungo, capace di tener vicino il contemporaneo e l’antico, potrà servire per entrare nel mondo che si è fatto globo, o lo è sempre stato. Qui si disegna un’ombra inquietante: «l’abisso che si sta spalancando - dice Farinelli - tra il funzionamento del mondo e le nostre possibilità di comprensione». Un abisso circonda le acque della geografia. Il nuovo geografo dovrà rigenerare il coraggio di un esploratore come Amerigo Vespucci che, agli inizi del Cinquecento, in Mundus Novus racconta «quello che veramente sopportammo in questa immensità del mare, quali pericoli di naufragio e quali travagli del corpo sostenemmo e quali affanni afflissero l’animo… quelli che hanno esperienza di molte cose sanno quanto sia difficile cercare le cose incerte e investigare l’ignoto».
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MobyDICK
Pop
musica
VIVA ALEX BRITTI... che parla con le corde di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi o sempre avuto un debole per i gruppi vocali. Quelli cosiddetti a cappella (ossia voce e stop), ma soprattutto quelli che riescono meravigliosamente a far chiacchierare voci e suoni. La surf music californiana dei Beach Boys, da I Get Around fino a Good Vibrations, è l’esempio più illuminante. Ma penso anche ai quasi sessantottini Turtles di Happy Together; ai Queen, con l’ugola possente di Freddie Mercury che titilla le sinfonie rockeggianti di Bohemian Rhapsody e Somebody To Love; al cabarettistico falsetto degli Sparks griffati Kimono My House e Propaganda; alle voci degli imprevedibili 10 c.c., che si sovrappongono al nobil pop di I’m Not In Love e One Night In Paris; al canto impeccabilmente bizzarro degli XTC e agli ultimi, gustosi soufflè vocal-musicali: da quello psichedelico degli MGMT (altrimenti conosciuti come The Management), all’elettronico dei Passion Pit, fino a quello super orecchiabile degli Shout Out Louds. E siccome le sorprese più gradite e inaspettate arrivano quasi sempre dal sottobosco e dalla scena rock & pop indipendente, ecco Mathias Sørensen, Morten Winther Nielsen, Christian Rohde Lindinger e Niels Kirk che se le suonano rispettivamente con batteria, chitarra, basso e pianoforte, se le cantano tutti insieme che è una delizia, sognano la West Coast, arrivano da Copenhagen, si conoscono dall’infanzia e perciò non sbagliano una virgola: né con la musica, e tantomeno con le voci. Quando il loro disco è uscito in Danimarca per l’impronunciabile etichetta Tambourhinoceros, si intitolava A Collection Of Vibrations For Your Skull (Una raccolta di vibrazioni per il vostro teschio). Adesso che è stato pubblicato dappertutto, via quel titolo, si chiama
H
Jazz
zapping
ra ora che Alex Britti tornasse alla sua specialità. Non tanto scrivere canzoni, anche se ce ne sono di belle tra quelle del romano come Oggi sono io, coverizzata da Mina. Ma per quasi tutti Britti è quello della Vasca («voglio restare tutto il giorno nella vasca/ con l’acqua calda che mi coccola la testa/ un piede fuori che s’infreddolisce appena, uscire solo quando è pronta già la cena») e quindi ben venga l’ultima produzione di Britti, un dvd che si chiama Nelle mie corde, in cui torna appunto alla propria specialità: suonare la chitarra e spiegare come lo fa. A qualcuno non sarà sfuggita qualche anno fa a Sanremo la performance di Britti insieme a Ray Charles sulle note di Volare. A chi scrive viene in mente un passaggio in un concertone del Primo maggio dei primi anni Novanta, in cui Britti, non ancora famoso come cantante pop, si presentò in trio: chitarra, basso, batteria, e tirò fuori dai riccioli una performance bellissima-incazzatissima solo strumentale, che naturalmente passò sotto silenzio. Il fatto è che quello di Britti più che un percorso artistico è una sorta di destino generale per chi ha la sfiga di sapere davvero la musica. Nato e cresciuto nelle borgate romane, ha imparato a suonare la chitarra non nelle tante music academy ma sui dischi e per strada: il blues coi bluesman (come Roberto Ciotti), il jazz coi jazzman. Ha girato tutt’Europa tornando a casa con tanti bei concerti all’attivo e le pive nel sacco. Partita doppia in netta perdita. Si è reinventato come cantautore e come idolo delle ragazzine, e ha funzionato. Quand’anche suonasse la canzone più scema del mondo (e c’è il serio rischio che lo faccia) Alex ha le mani, il cuore, di un uomo di borgata che parla con le corde. Non tutti lo sanno ma tutti lo sentono.
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Sunny sound
per quattro voci Treefight For Sunlight come loro, che immaginano un albero che combatte per conquistarsi la luce del sole. E per riuscirci, si mette idealmente ad ascoltare in sottofondo il miglior sunny sound possibile. Che il buongiorno si veda fin dal mattino lo dimostra la prima canzone, A Dream Before Sleep, col suo incipit che è un affettuoso omaggio alle architetture vocali dei Beach Boys e lo svolgimento, furbo e spiazzante, che riscopre i Genesis anni Settanta di Foxtrot e Nursery Cryme. Rock progressive, dunque: ben congegnato anche nelle maestose orchestrazioni di Time Stretcher e, con qualche abile tocco di psichedelìa, fra le evanescenti voci che costellano Tambourhinoceros Jam. I Supertramp di Breakfast In America, invece, occhieggiano fra le toccate e fughe pianistiche di Rain Air e nella soul music in controluce di The Universe Is
A Woman, mentre rimandi ai 10 c.c. e un’innocente freschezza da pop anni Sessanta scandiscono Riddles In Rhymes. Quel che apprezzo dei Treefight For Sunlight, è la capacità di passare con noncuranza dal disimpegno all’impegno: dall’aria vacanziera e un po’ caramellosa di Facing The Sun, agli arditi intrecci vocali che in You And The New World inseguono il suono ripetitivo eppur ballerino del pianoforte; dalla vena cabarettistica in stile Sparks di What Became Of You And I?, all’orecchiabilissimo pop che contraddistingue They Never Did Know, con la chitarra acustica in primo piano e un po’ di sale (disturbi, piccole interferenze) sulla coda. Let The Sunshine In, come la canzone del musical Hair. Intitoliamolo così, il prossimo disco dei Treefight For Sunlight. Perché c’è dell’Hippy, in Danimarca. Treefight For Sunlight, Treefight For Sunlight, Bella Union/Cooperative Music, 16,90 euro
Magnus Oström: sulla strada dell’E.S.T. con Pat Metheny l jazz svedese già dagli anni Cinquanta si era imposto in Europa con musicisti di alta qualità, il sassofonista Arne Dommerus e il pianista Bengt Hallberg ai quali si aggiunsero, in seguito, il trombonista Eje Thelin e soprattutto il sassofonista Lars Gullin paragonabili ai migliori solisti americani. In epoca recente però i musicisti di Stoccolma sono stati superati, nell’interesse del pubblico e della critica mondiale, da altri che hanno dato vita a quella scuola scandinava che si è imposta nel Nord Europa e anche negli Stati Uniti dalla seconda metà degli anni Settanta con i norvegesi, il sassofonista Jan Garbarek e il chitarrista Terje Rypdal, anche se l’antesignano fu soprattutto il sassofonista finlandese Juani Aaltonen, di dodici anni più anziano dei colleghi di Oslo. Quella scuola scandinava, che fondeva linguaggio del jazz e musica etnica, fece immedia-
I
di Adriano Mazzoletti tamente proseliti. Il sassofonista polacco Zbigniew Namyslowski era profondamente affascinato dal folclore della sua terra e il pianista di Praga Adam Makowicz, musicista di livello altissimo le cui Reminiscences de Moscou suscitarono l’interesse di molti pianisti, fra cui il nostro Giorgio Gaslini. L’anno successivo, stabilitosi a New York, venne scoperto da John Hammond che lo presentò come «il pianista più stupefacente degli ultimi trent’anni», facendolo incidere per Columbia. Solo negli anni Novanta, la Svezia rivelò un musicista di grande valore, il pianista Esbjorn Svensson, nato a Vasteras il 16 aprile 1964. Nel 1993, assieme al suo amico d’infanzia, il batterista e percussionista Magnus Ostrom e al contrabbassista Dan Berglund, fondò E.S.T. (acronimo di Esbjorn Svensson Trio),
che si impose immediatamente per le qualità innovative. Secondo John Fordham, critico di The Guardian, Svensson era un fenomeno raro nel mondo del jazz: «Un eroe secondo le critiche più severe, una star internazionale secondo le critiche più scontate». Tredici album ottennero il plauso della
critica e il successo commerciale per l’intelligente fusione fra jazz contemporaneo, rock, pop e musica elettronica. Sfortunatamente la carriera di Svensson non ebbe lunga durata. La mattina del 14 giugno 2008 moriva a causa di un incidente causato da una tuta da sub difettosa. Aveva 44 anni. La strada iniziata da Svensson continua, ancor oggi, a essere percorsa dai suoi compagni, Magnus Oström e Dan Berglund che hanno chiesto a Pat Metheny di ricoprire il ruolo che fu di quell’indimenticato e indimenticabile pianista. Il lavoro pubblicato recentemente, Thread of Life comprende dieci brani firmati tutti da Oström che oltre alla sua ben conosciuta e apprezzata grande capacità di percussionista, rivela altrettanta abilità di compositore. Magnus Oström, Thread of Life, Distribuzione Egea
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arti Mostre
per finirla con Caravaggio... (vedi l’altra puntata. Non se ne può più di visitare mostre spurie e velleitarie dedicate al suo obbligatorio quattrocentesimo anniversario. Ovvero mostre virtuali, leggi pure fasulle. Però non è inutile interrogarsi sul perché del fiorire malato di queste iniziative, per lo più dannose). In attesa di visitare e vagliare la qualità dell’operazione, condivisibile, proposta da Sgarbi, nella mostra milanese al Museo Diocesano, dedicata agli Occhi di Caravaggio, cioè a tutto quanto avrebbe nutrito lo sguardo colto e tutt’altro che autodidatta e brado del Merisi, prima di recarsi a Roma, è proprio sull’uso brado, questo sì, della virtualità, che vorremmo, per un attimo, tornare. Prendiamo per esempio questa sugli «occhi»: il nome furbo di Caravaggio c’è, attira, e non importa poi se si vede soltanto l’intorno e il precedente (tra l’altro con quadri ragguardevolissimi) ma qui si tratta d’una virtualità condivisibile, intelligente, anche se provocatoria. Provare a guardare queste opere da Lotto a Bassano, da Campi a Tintoretto, con gli occhi a venire del Caravaggio, tentando d’immaginare quali possano essere stati gli influssi, i furti, le contaminazioni del suo gusto. Prima dello sbarco significativo a Roma. Ma Lombardia significa Leonardo, significa naturalismo e ricerca quasi sperimentale, insomma Caravaggio non giunge a Roma come uno sprovveduto giovinetto alla ricerca della sua identità... la cosiddetta Cestella del Borromeo sta lì, non per caso, a dimostrarlo, a segnalarci il suo lampeggiante itinerario visivo e non solo romanzesco. Dunque questo «virtualismo» virtuoso funziona benissimo, perché è come se entrassimo, con un microscopio, dentro il suo modo di guardare alla realtà e alla pittura. Altra cosa, invece, mi raccontano - io ne sono stato beneficiato - entrare a Palazzo della Ragione, a Milano,
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Archeologia
26 marzo 2011 • pagina 15
Hartford-Cinecittà i molti usi del Merisi di Marco Vallora facendosi accompagnare da delle damine-putte in costume, stile Carnevale, o da degl’improbabili energumeni secentesco-manzoniani, che ti portano a piluccare delle spudorate copie fotografiche, inventando un museo immaginario acaravaggesco, per definizione, che non esiste, e non è certo alla Malraux, ma semmai da fiera dell’ologramma e della copia-patacca. Ma ancora più incredibile quello che succede a Palazzo
Venezia, a Roma (di cui un po’ si era dettola scorsa settimana, ma vale la pena tornarci), sotto un titolo ambizioso come La bottega di Caravaggio (ingenerando pure equivoci. Perché si sa bene che, senza contare i fedelissimi del caravaggismo, sparsi per tutto il mondo, il Merisi non ha mai tenuto un atelier di gruppo e non s’è mai preoccupato di creare degli allievi o di avere degli aiuti, salvo smentita. Visto che i docu-
menti perennemente cambiano e la mostra agli Archivi di Roma dimostra che il pittore sarebbe giunto a Roma in tempi molto lontani da quelli ritenuti credibili). Lasciamo stare il catalogo, curato da Rossella Vodret e da un esperto d’ottica diciamo così barocca, catalogo serio, che può anche ingannare, perché è più scientifico, interessante e stimolante, di quanto poi la mostra non mantenga (ovvio che un maniaco dell’argomento possa anche impazzire di gioia, durante l’apparizione, nelle vetrine, della prima edizione delle seconde Vite del Vasari, o a certi trattati di ottica dell’epoca). Ma poi, quando si trova di fronte dei finti San Girolami in lattice, che fingono d’essere sotto posa, come pupazzi da vetrine cheap, o da sottomuseo delle cere, uno può anche urlare di profanazione e domandarsi come faccia la gente a non chiedere il rimborso del biglietto. Un conto è leggere il Baglioni o il Bellori, che raccontano lo studio improvvisato in casa del Caravaggio, con quei significativi fori al soffitto, che lasciano filtrare solo un fascio di luce, che colpisce a comando le pareti, rigorosamente dipinte di nero... ma quando quegli effettacci da cinecittà di terz’ordine te li vedi realizzati in stile abboracciato-sceneggiato-tv, ci rimani proprio male e tutto ti pare l’incarnazione a contrappasso della celebre tesi di Longhi. Che Caravaggio avrebbe intuito l’avvenire del cinema, lavorando come di spot. Allora, ancora una volta, si finisce a imbrodare Goldin: perché almeno la mostra di Rimini dedicata al Museo di Hartford (storia assai divertente, primo museo americano aperto al pubblico, battaglie di curators ecc.) non esibisce soltanto un Caravaggio, notevole, ma molti magnifici Gentileschi, Saraceni, Zurbaran, ecc. di contorno, che ti rinfrancano sulla pittura. Un’unica domanda: come mai non è giunta quella curiosissima Natura morta, che Zeri attribuì al Caravaggio-giovane, e che, discussissima, provocò lite e faide, che non sono ancora finite oggi?
Shenute, il monaco dimenticato della Valle del Nilo ra il IV e il V secolo un personaggio dai tratti quasi leggendari anima il panorama religioso dell’Egitto: è il monaco Shenute (348-465 d.C.), evangelizzatore instancabile, maestro ed educatore inflessibile oltre che guardiano coraggioso del suo monastero. Rimasto nell’oblio per più di mille anni, è stato uno dei principali protagonisti di quell’epopea cristiana nella Valle del Nilo, conosciuta come l’epoca copta. Archimandrita del Monastero Bianco di Atripe, situato non lontano dalla città di Panopoli (Alto Egitto), Shenute è completamente e volutamente trascurato dalle fonti greche e latine ed è rimasto sostanzialmente sconosciuto all’Occidente fino alla fine del XVIII secolo, quando alcuni frammenti delle sue opere, appartenuti alla collezione del cardinale Stefano Borgia, vennero studiati per la prima volta dall’egittologo e coptologo danese Jurgem Zoëga (1755-1809). Nato da genitori cristiani nel villaggio di Shenalolet, nel Delta, Shenute vive una vita ultracentenaria in un’epoca in cui la cristianità è messa alla prova dallo scisma post-calcedonense che determinò una crisi
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di Rossella Fabiani profonda tra il patriarcato alessandrino e quello costantinopolitano. E, dopo lo scisma, gli shenutiani divennero il punto di riferimento della Chiesa più propriamente copta, incarnando un ideale anti-intellettualistico - ispirato alla condotta dei primi anacoreti - differentemente dei pacomiani che seguendo il monaco Pacomio rimasero perlopiù vicini alle posizioni della Chiesa di Costantinopoli. Shenute fu un autore estremamente prolifico anche se la piena comprensione della sua opera letteraria è preclusa dallo stato insoddisfacente del lavoro di catalogazione e quindi di pubblicazione dei relativi manoscritti. Le opere di Shenute, infatti, erano gelosamente custodite nella biblioteca del Monastero Bianco (nel deserto orientale egiziano) che, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del successivo, fu saccheggiata da cercatori di tesori. I manoscritti vennero così smembrati in parti più o meno consistenti, attualmente conservate in una cinquantina di collezioni pubbliche e private di tutto il mondo. I frammenti delle
opere di Shenute rinvenuti in località lontane dal Monastero Bianco, e dunque appartenuti ad altre biblioteche, provengono da miscellane poco curate, che sembrano essere state realizzate ricostruendo le opere di Shenute a memoria, e dunque sono meno attendibili. Tuttavia una parte consistente dei manoscritti del Monastero Bianco confluirono nella Collezione Borgia. Pubblicati per primo da J. Zoëga, furono in seguito ripresi da E.C. Amélineau (1888-1895) in Monuments pour servir à l’histoire de l’Egypte chrétienne aux IV et V siecle. Ora, dopo tanti anni, è stata pubblicata una nuova edizione dei manoscritti dal titolo: Catalogo ragionato dei manoscritti copti Borgiani conservati presso la Biblioteca Vittorio Emanuele III di Napoli, con un profilo storico-culturale del Cardinale Stefano Borgia. L’opera porta la firma di Paola Buzi da poco vincitrice della cattedra di lingua e letteratura copta alla Sapienza di Roma e che da anni lavora sul legame speciale tra la collezione Borgia e la biblioteca di Deir el-Abiad (il Monastero Bianco). Restituendo così al monaco Shenute il posto che gli spetta nella storia egiziana perché troppo ha pagato il suo essere «copto», ossia l’essersi allineato con la posizione anticalcedonense del patriarcato alessandrino, con il totale oblio da parte delle fonti greche e latine che ne hanno decretato una vera e propria damnatio memoriae.
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a trasmigrazione delle anime non avviene dopo ma durante la vita» ha scritto Cees Nooteboom. La sua scelta è stata da sempre in favore dell’immaginazione: «Per me esiste un’unica forza che consente di sopportare quest’esistenza terrena posta fra le nostre due infinite assenze, ed è la forza della fantasia». Al grande romanziere olandese sono state dedicate quest’anno le giornate del festival di Pordenone che hanno preso il via il 12 marzo e che si concludono oggi. In occasione delle manifestazioni ha visto la luce anche il nuovo libro, pubblicato in Italia come al solito dalla benemerita casa editrice Iperborea, che è intitolato Avevo mille vite ma ne ho preso una sola. Si tratta di un’antologia o meglio, come è detto nel sottotitolo, di un «breviario», scelto da Rudeger Safranski ed è l’occasione per ripercorrere l’itinerario letterario di uno dei più significativi e autorevoli scrittori contemporanei.
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La sua opera prima, Philip e gli altri, scritta a ventidue anni, è stata ripubblicata in varie lingue nel 2005 in occasione del cinquantenario della sua uscita e in Italia da Iperborea. Significativo è il titolo con cui il romanzo apparve nella traduzione tedesca, Das Paradies ist nebenan (Il paradiso è qui accanto), che richiama le parole con cui lo zio Antonin Alexander impartisce al giovane nipote una lezione che non di-
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menticherà per tutta la vita: «È una vecchia storia, quella del paradiso terrestre. La conosciamo tutti, e non c’è da stupirsene, visto che l’unica vera ragione della nostra esistenza è ritornare a quel paradiso, anche se non è possibile… Però possiamo andarci vicino, Philip, più vicino di quanto la gente non creda». È il riferimento a questa dimensione del possibile, a «quello stato impossibile e perfetto» di cui parla a Philip lo zio, che costituisce la prima suggestione di questo libro affascinante.Viene alla mente il sant’Agostino delle Confessioni: «Tu ci hai fatti per te, e senza requie è il cuor nostro, finché non abbia requie in te». E una inquietudine agostiniana è quella che accompagna Philip nel suo viaggio di iniziazione in questo singolare romanzo che da una parte riprende la magia e la malinconia del Grande Maulnes e dall’altra anticipa temi e motivi di tanti romanzi on the road. Una delle immagini più indicative dello spirito del romanzo è il cerchio magico che la ragazza dal volto cinese disegna con il tallone intorno a sé a simboleggiare insieme il bisogno di protezione e l’esigenza di un mondo altro con cui compromettersi e in cui riconoscersi. Non a caso il nume tutelare di questo universo fantastico (da cui è tratto il verso posto come epigrafe del volume, Je rêve que je dors, je rêve que je rêve) è il poeta Paul Eluard, costantemente presente fino al gran finale dove il poeta è evocato in effigie nel seguito dei personaggi che accorrono a festeggiare i protagonisti e dove nell’incontro, tra reale e fantastico, di Philip con la ragazza dal volto cinese tornano tanti motivi e situazioni di quella poesia con la consapevolezza che la realtà dell’amore è la realtà della solitudine, che non è altro se non assenza di amore, e che la solitudine è un abisso sempre spalancato e l’amore una tentazione più forte della vita. È stato giustamente sottolineato, anche per i suoi sviluppi futuri (si pensi soprattutto a Rituali), il motivo della
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Celebrato in questi giorni al festival di Pordenone, Cees Nooteboom è uno degli scrittori contemporanei più significativi e autorevoli. Dall’opera prima “Philip e gli altri” agli ultimi racconti, l’itinerario letterario di un autore sempre alla ricerca di «quello stato impossibile e perfetto». In un gioco di specchi dominato dall’immaginazione…
Sognando il P di Sabino Caronia festa, quelle feste che Philip celebra, all’inizio nel tragitto notturno in autobus con lo zio e alla fine nella navigazione al Nyhaven di Copenhagen con la ragazza cinese, quelle feste il cui senso è già nelle parole con cui egli risponde alla domanda «Che cosa ti piace fare?», postagli dallo zio prima e poi di nuovo dalla ragazza cinese: «Andare in autobus di sera tardi o di notte. Stare seduto in riva all’acqua e camminare sotto la pioggia, e a volte baciare qualcuno». Al termine del suo viaggio di iniziazione, che è come un lungo addio («Non vivrai mai veramente nulla, ricorderai soltanto, non incontrerai nessuno se non per dirgli addio»), il congedo dalla ragazza cinese è per il protagonista come il congedo dall’adolescenza. Ora non c’è dubbio che la fine dell’adolescenza sia una ferita immedicabile. Ma per chi, come il nostro autore, vive autenticamente nella dimensione della scrittura l’adolescenza è anche un momento eterno, una realtà sempre presente allo spirito, qualcosa che dentro di noi non muore mai. In proposito è il caso di sottolineare tra le pagine più felici del romanzo quelle che descrivono la
passeggiata del ragazzo solitario tra le panchine su cui siedono gli innamorati e il suo ideale colloquio con loro che, interamente immersi nella felice dimensione del presente, oppongono alla sua disillusa domanda «E allora, qual è la differenza, alla fine?» la più naturale delle risposte: «Che non si vive alla fine, si vive ora».
Giustamente nella postfazione Stefano Ganci può accostare al giovane Philip l’indimenticabile personaggio di Le montagne dei Paesi Bassi, l’anziano signore «che forse già puzzava un po’di morte», e proprio per questo voleva vivere in un mondo «in cui le sordide leggi dei vecchi non vigevano ancora, dove l’esistenza non era ancora un racconto coerente ma un mondo in cui tutto doveva ancora accadere». Il senso positivo dell’avventura di Philip è in questa sottolineatura forte del potere dell’immaginazione, in un mon-
do come il nostro in cui dalla mattina alla sera gli uomini stanno seduti davanti a uno schermo, spettatori passivi di uno spettacolo volgare, è nell’invito a riappropriarsi della propria più autentica dimensione fantastica, a saper immaginare la propria realtà, a essere protagonisti delle proprie immaginazioni, che la determinano non meno di quanto la realtà non determini queste. Per i grandi sognatori i sogni divengono una realtà più profonda della vita di ogni giorno. Per merito loro possiamo credere vera la convinzione irrazionale e assurda che il mondo come lo vorremmo sia possibile, e anzi potrebbe forse sostituire quello reale. Un altro romanzo di Cees Nooteboom, uscito in patria nel 2004, è stato tradotto per Iperborea nel 2006 da Fulvio Ferrari, che ne ha curato anche la postfazione. Si tratta di Perduto il paradiso. Ecco, dunque, ancora una volta il paradiso, ancora la nostal-
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comune - solo poi, alla fine, tutto torna, i personaggi e gli spazi si ricompongono come in un puzzle, scopriamo i legami tenuti in un primo momento nascosti dall’autore che, svelati, danno ragione della unicità della storia narrata, grazie allo strano incastro con cui la vita, paragonata a una cuoca, mescola le vite tra di loro: «la vita […] come cuoca è una perfetta incapace. Ne risentono, quasi sempre, gli esseri umani, e qualche volta, ma non molte, ne approfitta la letteratura».
Paradiso gia di un «paradiso perduto». Qui sono i versi di Milton che fungono da epigrafe a ogni inizio di capitolo, tranne il prologo che è introdotto da un brano di Angelus Novus di Walter Benjamin, come invece in Philip e gli altri erano le parole che il nonno del protagonista diceva al nipote. In Perduto il paradiso l’idea del paradiso terrestre perduto è a ogni passo. Gli aborigeni australiani, presso i quali cerca rifugio la protagonista Alma come in un mondo altro in cui riconoscersi - lei che fin da bambina aveva provato dei momenti di angoscia indicibile, che non riusciva a spiegare («era come se cadessi fuori dal mondo») , vivono in realtà in un paradiso devastato («Pensavo che vivessero in un paradiso, evidentemente non era vero»). Gli angeli, che ritornano in tutto il racconto dalle fantasie di Alma bambina fino alla rappresentazione che la vede fare il ruolo di angelo, suscitano con la loro apparizione una struggente nostalgia di paradiso che è destinata a rimanere inappagata: «Gli angeli non appartengono al mondo degli uomini». Fin qui, sotto vesti diverse, si ripropone la ricerca che era anche in Philip e gli altri, in Rituali e in genere in tutta l’opera del nostro,
di un altrove perfetto da cui si viene e in cui si anela a tornare. Ma Nooteboom, scrittore intelligente, stimolante, mai banale, ci spiazza nella chiusa del libro: «Ha mai pensato a chi ha inventato il paradiso? Un luogo senza malintesi? La noia sconfinata che deve regnarvi può essere intesa solo come una
È questo che fa la letteratura, almeno quella che interessa Nooteboom: edifica mondi paralleli, doppi della realtà, «che in un gioco di specchi o di illusioni guidano tuttavia il lettore a guardare il mondo», come dice giustamente il postfatore. E non a caso l’autore stesso in questo libro (che oltre a presentare una storia ci presenta l’atto di confezionarla da parte dello scrittore, inserisce cioè il romanzo nel romanzo, facendolo addirittura commentare da una lettrice-personaggio - anche se ancora una volta in un gioco di specchi tra Perduto il paradiso e il titolo in cui, appunto, si «specchia», Il paradiso perduto) fa riferimento nelle prime pagine al nostro Calvino: «È un libro sottile, come piacciono a me. Secondo Calvino i libri devono essere brevi, e in genere si è attenuto a questa regola». In un gioco di specchi e di mondi paralleli non può mancare il motivo del sogno, che, come abbiamo detto, già risultava chiaro fin dall’epigrafe di Eluard a Philip e gli altri (Je rêve que je dors, je rêve que je rêve). L’Australia era, per Alma bambina, il tempo del sogno, il tempo prima del tempo e della memoria. Pensiamo al titolo del quadro che affascina Alma, in Australia, e che tanta parte avrà nella sua vita, Desert lizard dreaming at night: «Dreaming, era di nuovo quella parola. […] In inglese ancora ancora aveva un senso, ma prova un po’ a pronunciarla in un’altra lingua cer-
senza fine, un’eternità in cui avrebbero potuto vivere per sempre, in cui nulla sarebbe mai cambiato. Erano venuti degli esseri e avevano sognato il mondo, e ora toccava a loro continuare a sognare il mondo dominato dagli spiriti, costellato di luoghi incantati, un sistema in cui noi non troveremmo posto nemmeno se lo volessimo». In conclusione un libro importante, che ha il pregio di presentare problematiche profonde quasi giocando e scherzando su se stesso e sulla letteratura in genere, fedele alla leggerezza calviniana da cui prende l’avvio, che avvince il lettore spingendolo all’inseguimento, quasi una caccia al tesoro, di una storia, o più storie, sottilmente ma saldamente legate tra loro. Il recente volume di Cees Nooteboom Le volpi vengono di notte è stato pubblicato in Italia da Iperborea nel 2010. All’inizio del primo di questi racconti leggiamo: «“Realtà e perfezione sono per me la stessa cosa”: di chi era quella frase se lo ricordava. Si poteva dubitare che Hegel si riferisse alla situazione in cui si trovava lui, comunque sembrava adattarsi bene». Quella che qui si ripropone è la ricerca, costante in tutta l’opera di Nooteboom, a partire da Philip e gli altri, di un altrove perfetto da cui si viene e a cui si anela tornare. È appunto il riferimento a «quello stato impossibile e perfetto» di cui parla a Philip lo zio che costituisce la prima suggestione di quel libro affascinante. Una suggestione che ritorna nei racconti dello scrittore ormai vecchio e disincantato. Non a caso la fotografia è un leitmotiv che ritorna in tutti i racconti. È appunto dalla contemplazione di una vecchia foto che prende l’avvio il racconto di esordio del volume, Gondole, che, come ben
È la benemerita casa editrice Iperborea a pubblicare in Italia l’autore olandese: fresca di stampa, un’antologia-breviario curata da Rudeger Safranski dal titolo “Avevo mille vite ma ne ho preso una sola” punizione».Vogliamo però mettere sull’avviso il lettore: non è un libro di facile lettura, questo, almeno al primo approccio. Infatti, come già accadeva in Rituali, il libro si presenta come diviso in sezioni: a una prima lettura, sembra si tratti di sezioni completamente separate, addirittura divergenti spazi, personaggi che non presentano alcuna caratteristica in
cando di mantenerne il significato: una religione, una preistoria sacra, il tempo degli antenati mitici, ma allo stesso tempo legge, rituale, cerimonia…». E ancora, poco più avanti e riguardo proprio, stavolta, al motivo del paradiso perduto cercato nel deserto australiano: «L’hanno sempre cercato tutti, no, il paradiso perduto? Hanno sognato un sogno
osserva nella postfazione Marta Morazzoni, è «una sorta di lezione propedeutica all’approccio dell’intera silloge». È il racconto di uno «strano pellegrinaggio. Pellegrinaggio a un’ombra, no, nemmeno: a un’assenza». Un critico d’arte torna a Venezia al richiamo dell’incanto di una ragazza americana dai capelli rossi e dagli occhi di ardesia che crede-
va di leggere il suo destino nelle stelle. L’incanto della protagonista di questo primo racconto è lo stesso della donna amata e persa da Heinz che non a caso si chiama Arielle e ha la levità del folletto delTempesta la shakespeariana ed è anche lo stesso della morta Paula del racconto omonimo, che si apre significativamente con queste parole: «Non credo negli spiriti, ma nelle fotografie sì. Una donna vuole che ti ricordi di lei e fa in modo che trovi una sua fotografia». Al motivo della fotografia dalla cui contemplazione i personaggi riprendono corpo e vita è legato il motivo del tempo. Leggiamo nella conclusione di Heinz: «Guardo ancora una volta quella foto. Il cane, il venditore di case, Philip, Andrea, Heinz, nessuno si è mosso. Sono fermi, congelati nel tempo, non appena si muoveranno racconteranno la mia storia. Osservo il volto di Heinz e vorrei scorgervi qualcosa di quello che ho appena raccontato. Ma non si vede niente. Il bere, la risata, la colomba, la morte,Tonga: ci sono perché ci sono stati, perché io lo so, ma questo non vale per un altro. Resta invisibile».
E al motivo del tempo è legato quello della morte cui fa riferimento il titolo del volume. Leggiamo in Paula II: «Dopo un po’ ho osato domandarti cosa c’era, e tu mi hai detto che ogni notte c’era un momento in cui non volevi più vivere. Volevi essere ironico ma non ci sei riuscito. Avevi paura di quel momento perché sapevi che si ripresentava sempre. Sentivo l’angoscia nella tua voce, ma non mi ingannavi. Non allora e non ora. Spaventato nel buio. E poi hai detto una cosa che non ho dimenticato mai. Le volpi vengono di notte. Una volta, quando eri ancora un bambino, te l’aveva detto tua nonna, e tu l’avevi sempre tenuto a mente». A proposito dell’atteggiamento disincantato che si riconosce in questi ultimi racconti di Nooteboom viene da pensare all’anziano signore di Le montagne dei Paesi Bassi «che forse già puzzava un po’ di morte» e, proprio per questo, voleva vivere in un mondo «in cui le sordide leggi dei vecchi non vigevano ancora, dove l’esistenza non era ancora un racconto coerente ma un mondo in cui tutto poteva accadere».
Narrativa
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libri
Ivo Andric LA DONNA SULLA PIETRA Zandonai, 138 pagine, 15,00 euro
ove splendidi racconti. Ivo Andric, bosniaco, premio Nobel 1961, si stacca dallo sguardo profondo dentro la storia, da quell’indagine che da «romanzo storico» divenne con lui «romanzo della storia» (Il ponte sulla Drina e La cronaca di Travnik), per addentrarsi nelle sfumature psicologiche di uomini e, soprattutto, di donne. Andric, come se avesse in mano una fotocamera digitale, afferra e fissa un istante di esistenza, un momento cruciale che è destinato a separare definitivamente due stagioni. Nel primo racconto, che dà il titolo alla raccolta, l’autore s’infila nei pensieri di Marta, una donna di quarantotto anni adagiata su uno scoglio a prendere il sole. Sono in tanti al bordo del mare, «tutti insieme vi si perdono, interamente, con ciò che sono e con ciò che desiderano». Marta, cantante d’opera in vacanza, ricorda un episodio che scosse la sua adolescenza e, per la sua carica di muta e forte sensualità, l’avvicinò per la prima volta alla consapevolezza di sé come soggetto di piacere. Poi rimugina l’ossessione - anzi «la maledizione» - dell’invecchiamento che è capace di allargare la sua ombra non solo nel tempo reale ma addirittura nei sogni. Se anni prima la donna viveva «la vita del corpo… splendida, libera, coerente, serena», ora affronta qualcosa che le appare come «vergognoso», ossia la vecchiaia «che non è buona né bella… non è neppure pulita… si sporca da sola, da dentro» e anche se chi la attraversa compie tutti gli sforzi possibili, s’avvia verso «una pulizia sterile, da farmacia», senza raggiungere «la pulizia del fiore». A poco a poco, però, qualcosa succede: complici le onde marine, Marta è pervasa dalla «forza di un tranquillo piacere che non deve né nascondersi né mostrarsi, non s’interroga sulla durata, non pensa a un obiettivo, non conosce la fine». Compare invece l’uomo di sessantuno anni nel racconto intitolato La passeggiata. Il professor V. esce come di consueto la sera, per svagarsi un poco, per osservare cose che non comprerà mai, per «meditare in modo tranquillo e disinteressato». Anche in queste pagine il protagonista è l’attimo, il misterioso e subdolo scatto
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Il bibliofilo
Micro
mondi sulla linea di confine Nove bellissimi racconti del bosniaco Ivo Andric: storie di evidenze quotidiane cariche di drammaticità di Pier Mario Fasanotti del tempo. Senza darsi una ragione precisa, il professor V. insegue, anche in modo affannato, una ragazza dalla chioma fulva. Da quanto tempo non s’era girato per guardare una donna? Venticinque anni, forse. Prosegue, affronta l’agguato del buio e della sporcizia del quartiere popolato da zingari e pescatori. Per una serie di cir-
costanze si troverà in una stamberga e qui sarà minacciato, sbeffeggiato e derubato. Torna a casa, con il sollievo di trovare che «tutto era a posto, adesso». Da quel giorno non uscirà mai più all’imbrunire, passerà il tempo con gli occhi fissi sulle carte rischiarate dalla luce posta sulla scrivania. Oltre, nella zona oscura della stanza e del mondo, non si avventurerà più. In quegli istanti che hanno fatto seguito allo sconcerto e al panico, il professor V. ha ripensato alla sua vita. Oltre alla solitudine di un uomo e quella di una donna, Andric indaga magistralmente nelle dinamiche psicologiche di una coppia. Nel racconto La maltrattata si staglia la malinconica figura di Anica, una ragazza bella e sana che un giorno sposò Andrija, venditore di spazzole venuto su dal nulla, «il tipo perfetto di un uomo brutto». Anica finalmente va a vivere in una casa grande e diventa benestante. A poco a poco il marito, la sera, prende l’abitudine di ipnotizzare la florida e mite consorte con le proprie smargiassate. Legge ad alta voce il giornale e poi dalla sua bocca cariata e feroce escono critiche e improperi. «Se fosse per me… se il Re mi chiedesse… ah, non sai come potrei essere efficiente e crudele…». Anica, sera dopo sera, si sfinisce fino a odiare l’uomo sgraziato e arrogante. Nessuno comprenderà la sua decisione di andarsene e rinunciare così all’agiatezza. È Andric che ci spiega il perché, raccontandoci come un uomo possa trasformarsi in un mostro «rivelando uno scatenato e grottesco odio verso tutti, a lungo tenuto nascosto». Il narratore bosniaco, in questi racconti, esalta il leitmotiv della sua letteratura: «la parola e il silenzio, la giovinezza e l’invecchiamento, l’eternità e l’infinito, i muri e le pietre, il sole e il mare, la solitudine, il gioco, l’esaltazione, il maltrattamento e il diritto alla scelta». I micro mondi scandagliati così acutamente portano alla riflessione sulle «evidenze quotidiane», cariche di «drammaticità esistenziale». Sempre in primo piano c’è la linea di confine, come lo è del resto la sua Bosnia, terra collocata tra Occidente e Oriente.
Il pollastro piumato di Angelo Maria Ripellino l 21 aprile 1978 si spegneva a Roma Angelo Maria Ripellino, uno dei nostri intellettuali più versatili e funambolici. Poeta, saggista, traduttore, docente universitario, critico teatrale, giornalista, Ripellino ha attraversato con le movenze aggraziate di un saltimbanco un’epoca problematica come quella a cavallo tra gli anni Cinquanta e Settanta del Novecento senza mai perdere la propria eleganza e il proprio senso dell’equilibrio. Segnò come un maestro in esilio nella propria terra un gusto, una cultura facendoci conoscere un mondo stravagante popolato di ciarlatani e alchimisti, pagliacci e negromanti, registi e marionette. Ci fece addentrare come nessun altro lungo i vicoli inquietanti di Praga, dove sfuggì miracolosamente alla morte in un sanatorio che distava soltanto un pugno di chilometri dalla «città d’oro» per curare lo stesso male di cui morì Kafka. I versi che scrisse stridono con un suono simile a quello che i violinisti di Chagall ricavavano dai loro strumenti quando, ebbri di felicità, si perdevano tra i lembi dilaniati delle nuvole. Quanti autori ci ha fatto conoscere Ripellino, attraverso mirabolanti versioni e introduzioni, dopo essere diventato
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di Pasquale Di Palmo consulente di Einaudi? Spesso si tratta di nomi insospettabili come quelli di Gombrowicz o di Bruno Schulz, altre volte di classici come Dostoevskij, Puskin, Lermontov,Tjutcev, Cechov, spogliati della cortina di muffa impressa dai cattivi maestri e affiancati ai più significativi esponenti delle avanguardie storiche, non di rado presentati per la prima volta in italiano: da Pasternàk a Majakovskij, da Chlébnikov a Holan, da Halas a Capek. Un vero e proprio universo fantasmagorico in cui la tragedia della storia irrompe attraverso la voce conturbante di alcuni dei suoi più emblematici cantori per svelenire le sterili polemicucce di casa nostra. Ripellino nel 1960, dopo aver pubblicato vari saggi e traduzioni, esordisce come poeta con la raccolta intitolata Non un giorno ma adesso, stampata dall’amico Achille Perilli e Luciano Cattania per Grafica Edizioni d’Arte di Roma. Il libro, una sottile brochure in -8°, consta di 64 pagine ed è illustrato dallo stesso Perilli che fu allievo del padre di Ripellino, Carmelo, singolare figura di studioso che ebbe
L’esordio poetico del grande slavista, in mille esemplari illustrati da Achille Perilli
una forte influenza su quel figlio dall’aspetto fragile e dinoccolato che, appena diciannovenne, conosceva a menadito russo, polacco, olandese e rumeno. Sin da subito la voce di Ripellino si dimostra delicata e funerea, leggiadra e sardonica, fantasiosa e irriverente, «un teatrino onirico, un cabaret di sogni», come la definisce Antonio Pane. Il libro si configura, per l’eleganza editoriale e la singolare pregnanza dei versi che si sposano a meraviglia con le illustrazioni, tipiche del cosiddetto «astrattismo geometrico», come uno dei risultati più significativi della produzione di Ripellino che annovera, tra l’altro, quell’inimitabile caposaldo della critica che è il famoso saggio Praga magica, uscito da Einaudi nel 1973. Non un giorno ma adesso ebbe una tiratura di 1000 esemplari, di cui 25 numerati e recanti un disegno originale di Perilli. L’amicizia tra Ripellino e l’artista romano, documentata a più riprese, trova qui un esempio quanto mai rappresentativo nell’Epistola al signor Perilli, dove si legge: «Con un sacco di spatole e di squadre/ partivi all’alba su un tram sgangherato/ verso l’estuario degli arabeschi,/ tra la caligine del chiaroscuro,/ e con la lancia-pennello imbrattavi l’effigie/ d’un mondo che agli altri appariva/ come un pollastro piumato».
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poesia
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Tra marketing e verso puro
FRECCIA D’ORO È l’alba: incantata apparizione del mondo! oh che a Dio nei cieli, freccia d’oro, io mandi un saluto per la creatura sua più divina, la poesia.
di Francesco Napoli era un adagio pubblicitario relativo a una marca di olio ligure che contrastava nel suo dire il nome della stessa perché il protagonista dello spot, Mimmo Craig, al risveglio dopo un incubo che lo vedeva impotentemente sovrappeso, dichiarava che la lattina di quel prodotto l’avrebbe voluta sempre sul tavolo in quanto, a dispetto dell’etichetta, di fatto quell’olio era sinonimo di leggerezza in cucina. Difficilmente si potrebbe pensare che, dagli inizi del Novecento, quella ditta produttrice sia stata retta da due fratelli, letterati e poeti appartenenti a quell’area protonovecentesca che si mosse tra più o meno timide innovazioni vociane e residui pascolian-dannunziani. I due sono Angiolo Silvio e Mario Novaro.
C’
L’olio così reclamizzato è quello di famiglia, lo stesso per il quale si diede vita a una sorta di foglio pubblicitario. Siamo nel 1895: nasce così La Riviera Ligure di Ponente che insieme al listino prezzi della ditta P. Sasso e figli pubblica giudizi di clienti, medici, personalità del tempo, ospita rubriche di cucina e giochi a premi. Insomma un raffinato antesignano di certi volantini ancora oggi in uso. La scelta è innovativa: si concede spazio, con particolare attenzione a una grafica in linea coi tempi, a tematiche localistiche connesse alla cultura dell’olivo e al paesaggio ligure. Alla rivista, che di ligustico porta già uno dei sapori, manca in un primo momento l’altro, quello letterario. Poi, all’arrivo dei due fratelli a reggere le sorti di quel foglio, un mutamento radicale, in anteprima su altre società, come la Pirelli e il suo Civiltà delle macchine diretto negli anni Cinquanta da Leonardo Sinisgalli, altro dimenticato poeta. Siamo nel 1899 e, in particolare Mario Novaro trasforma la testata definitiva La Riviera Ligure in una autentica rivista culturale con notevole risalto per i contenuti letterari e l’aspetto grafico, per il quale chiama a collaborare i maggiori artisti del tempo come Giorgio Kienerk e Plinio Nomellini, Edoardo De Albertis e Adolfo Magrini. Il loro contributo si conclude però con gli ultimi fascicoli del 1905. La rivista dunque ospita note firme dell’epoca: da epigoni del classicismo come Francesco Gerace, Giuseppe Lipparini, Giovanni Marradi e Guido Mazzoni, a poeti che
il club di calliope
Mario Novaro (In Murmuri ed echi)
guardano a Pascoli e D’Annunzio, come Luigi Orsini e Aurelio Ugolini. Senza aderire a particolari correnti, Mario Novaro accoglie anche giovani autori disponibili a nuove esperienze di scrittura. E qui l’elenco è lungo: Bino Binazzi, Filippo De Pisis, Lionello Fiumi, Francesco Meriano, Giuseppe Ravegnani, Giovanni Titta Rosa.Ai primi nomi di Pascoli, Deledda, Pirandello, si aggiungono in seguito anche altri collaboratori: Campana, Cecchi, che esordisce sulla rivista come poeta, Alvaro, Saba, Rebora, Sbarbaro, Ungaretti, Palazzeschi, Moretti, Papini. Mezzo, se non tutto, il Novecento poetico-letterario lascia una sua traccia su quel foglio che imprime così un segno profondo nella cultura italiana del Novecento. Mario Novaro (1868-1944) è un poeta-filosofo, secondo quel Montale che a lui e ad altri conterranei, Boine e Roccatagliata Ceccardi e Sbarbaro, guarda e attinge con avidità discreta e poi sempre un po’ celata. Compie gli studi universitari tra Vienna e Berlino, dove si laurea in filosofia nel 1893 con una tesi su Malebranche. Due anni dopo consegue la laurea anche all’Università di Torino e pubblica i suoi primi scritti: La teoria della causalità in Malebranche (1893), Il Partito socialista in Germania (1894), Il concetto di infinito e il problema cosmologico (1895). La formazione tedesca ma soprattutto il legame con Gustavo Sacerdote, ebreo piemontese trapiantato a Berlino e corrispondente di giornali socialisti italiani, nonché i rapporti con l’ambiente torinese formano un significativo quadro dei contatti culturali e politici di Novaro. Stabilitosi a Oneglia (oggi Imperia), ne diventa assessore comunale per il giovane partito socialista e, dopo un breve periodo di insegnamento nel locale liceo, si in-
serisce, come detto, con i fratelli nell’industria olearia di famiglia intestata alla madre Paolina Sasso.
Mario Novaro è però poeta finissimo e tormentato, così come è tormentato il percorso della sua raccolta di vago sapore pascoliano sin dal titolo, Murmuri ed echi, in prima edizione nel 1912, poi rielaborata in cinque successive tappe.Traccia con raro acume e precisione l’intera evoluzione dell’opera, e della poetica di Mario Novaro,Veronica Pesce recente curatrice di una edizione critica di Murmuri ed echi (San Marco dei Giustiniani-Fondazione Giorgio e Lilli Devoto, 26 pagine., s.i.p.) che offre un quadro finalmente chiaro ed esaustivo su questo nascosto ma originale esponente della cultura italiana del primo Novecento, ricostruendo con dovizia anche la lunga storia editoriale della sua raccolta «unica» e verificando così «che cosa hanno letto i contemporanei» di Mario Novaro e «ciò che hanno effettivamente assorbito»... Poeta che «fin da principio, alle sue prime prove e indecisioni, tra verso e prosa, trasferisce nei versi una resistente fiducia metafisica», come ha scritto Giorgio Ficara nella Prefazione al volume, Novaro sembra nel suo frammentismo, e nell’indecisione tra verso e prosa, approssimarsi non poco ai vociani. Si coglie nei versi costantemente rielaborati di Novaro un’assorta meditazione sulla fugacità del destino umano e il senso profondo del mistero che circonda la vita, inscritto in una scrittura di tale secchezza da sembrare perfino povera, al limite della poesia pura dell’ermetismo che seguirà («suoni vari vani/ pensieri vani/ reca il vento/ sperde il vento», da Dall’erta della rupe).
BELLA ACHMADULINA, UNA VOCE NEL DISGELO in libreria
DUE FOTO (IN BIANCO E NERO) ancora imprevedibile e bianca una rosa - due foto, e le altre tra le carte piegate si volge il tuo sguardo si posa fuori campo dove soltanto non muore il presente dallo stelo il rametto allontana la mano indica un punto d’invisibile qualcosa Luca Nicoletti
di Giovanni Piccioni
l nome di Bella Achmadulina, insieme a quelli di Evtusenko (che fu il suo primo marito) e Voznerenkij, appartiene alla nuova generazione poetica poststaliniana, cui il recente disgelo aveva consentito una certa libertà di ispirazione e quindi il distacco deciso dalla retorica ufficiale. Nel 1962, con la raccolta di liriche La corda, la poetessa si pose in prima fila in questa ripresa della poesia russa. Presso Spirali esce una ristampa dell’ampia raccolta Poesia, con traduzione di Daniela Gatti, che comprende un cospicuo numero di liriche cha vanno dal 1956 al 1986.Trent’anni di produzione poetica, dunque, in cui, nell’ambito di un severo, tradizionale impianto metrico, la Achmadulina ha condotto un’originale ricerca sul linguaggio, attenta alle inflessioni gergali, ma sempre
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guidata da un’ansia di purezza espressiva e dalla fede nella funzionalità simbolica della parola. Nei testi compaiono grandi nomi della tradizione poetica russa antica e recente, da Puskin («Dolce è lo sguardo di Puskin - la notte/ è passata e si spengono le candele,/ così puro, il tenero gusto della/ lingua natia agghiaccia le labbra») a Pasternak, a Marina Cvetaeva, quasi a voler sottolineare una continuità. La luna, il ciliegio selvatico, i luoghi familiari, le stagioni, i paesaggi, la religiosità comunicano la dimensione di una Russia millenaria. Nelle poesie più recenti si nota come il virtuosismo stilistico lasci spazio a una più matura espressività. Come scrive la poetessa in chiusura della breve Introduzione «Io ho continuato a vivere nel mondo, ho cercato di essere migliore».
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di Diana Del Monte ayne McGregor è l’unico coreografo contemporaneo che può vantare la conquista dell’anti-materia nel campo del movimento corporeo. Questa sera, prima nazionale al Teatro Valli di Reggio Emilia di Far, il suo ultimo lavoro, ispirato a uno degli ultimi libri dello storico inglese Roy Porter, The age of reason, uno studio sulle ricerche scientifiche del Diciottesimo secolo nell’ambito delle relazioni tra la mente e il corpo. Il titolo dello spettacolo, infatti, altro non è che l’abbreviazione di Flesh in the Age of Reason. L’ultima fatica del coreografo inglese è certamente anche uno dei suoi lavori più convincenti dopo Chrome. Il palco è dominato dalle enormi luci rettangolari disegnate da Lucy Carter che, accendendosi e spegnendosi, riconfigurano il fondale della scena. La sintesi delle luci con il suono e il movimento è semplicemente immacolata, un potente distillato di idee date al pubblico attraverso il corpo. Accompagnato dalle note di Verdi, il passo a due di apertura è certamente
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uno dei pezzi di maggior bellezza che McGregor abbia mai coreografato: un uomo e una donna che toccandosi e abbracciandosi, e combinando il contatto umano con quello tipico del mondo animale, richiamano le questioni sull’intelligenza umana riportate in luce da Porter. Lo stile e il vocabolario sono chiara-
Televisione
Danza Il post classicismo di Wayne McGregor MobyDICK
mente quelli di sempre - le schiene ipermobili, le braccia avvitate su se stesse, le probitive iperestensioni - eppure, si tratta di un McGregor in evoluzione verso una misteriosa forma di post-classicismo. Nato nel 1970 a Stockport, McGregor ha studiato danza all’Univerity College, Bretton Hall e alla José Limon School di NewYork. Nel 1992 fonda la sua compagnia, Wayne McGregor Random Dance, e diventa coreografo residente al Place di Londra.
spettacoli
Da sempre interessato alla tecnologia e al corpo danzante nei suoi aspetti meccanici e biologici, in passato è stato anche coinvolto in alcune ricerche sulle interazioni tra corpo e mente portate avanti dal dipartimento di Psicologia Sperimentale di Cambridge. Coreografo ospite alla Scala di Milano, l’Opera di Parigi, il Nederlands Dans Theatre, il San Francisco Ballet, il New York City Ballet, l’English National Ballet, nonché consulente per teatro e cinema (è stato, tra l’altro, direttore dei movimenti di massa per Harry Potter e il calice di fuoco), McGregor, da sempre, insiste sull’importante ruolo dei suoi danzatori come collaboratori nella sua opera - da qui la formula del doppio nome dato alla sua compagnia. Dopo la prima del teatro emiliano, Far sarà portato in tournée a Trento (29 marzo), Cremona (2 aprile), Padova (12 maggio), Roma (31 maggio). Così, mentre i dieci danzatori illuminati da una perfetta padronanza del loro corpo si avvitano sul palco, ci chiediamo: può la danza metterci in contatto con il Cogito ergo sum di Cartesio? Forse.
DVD
COME FU CHE L’ITALIA DIVENTÒ BELPAESE ioie e dolori di un Paese grande e complicato, si alternano in Ma che storia, bel documentario di Gianfranco Pannone dedicato ai centocinquant’anni dell’Unità d’Italia. Cinegiornali e documentari dell’archivio Luce ricostruiscono buona parte del nostro Novecento grazie a un montaggio brillante, capace di sovrapporre i ricordi della Grande Guerra di Vittorio Foa ai canti di pace di Raffaele Viviani. Un viaggio delicato, non privo di ironia e viva commozione, che riscopre sotto la polvere della retorica, vizi e virtù che ci hanno fatto, nel bene e nel male, italiani.
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PERSONAGGI
È NATA UNA WOOLF DI PERIFERIA ngrandimenti. Non c’era collana più azzeccata, per salutare le attese mémoires che Anna Tatangelo ha vergato per i tipi Mondadori. Intitolata Ragazza di periferia, l’autobiografia si prestava di certo a un’agile formato brochure (90 pagg. 17 euro). Ma l’opus si è già segnalata all’attenzione della critica letteraria anche per alcuni lacerti di indubbio nitore, stillati sulla rivista Chi. A proposito della singolar tenzione con Laura Pausini, Anna rammemora: «Cantava che il suo fidanzato, Paolo Carta, era più bello del mio e che il suo seno naturale non poteva essere paragonato alle mie tette finte». È nata la Woolf di Sora.
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di Francesco Lo Dico
Dopo Las Vegas, New York e L.A., ora tocca a Detroit er fortuna sono in tanti a essersi convinti che il genere giallo, oltre a poggiare su una trama che appassiona, è lo strumento oggi più affilato per descrivere situazioni e problematiche sociali. Senza tralasciare i risvolti psicologici che emergono dal fatto-choc che è il delitto. Gli americani scrivono molti soggetti di marca poliziesca per la fiction televisiva. Da anni a questa parte si sono accorti che le inevitabili variazioni sul tema provengono dall’ambientazione. Se una volta erano New York e Los Angeles le segnaletiche urbane dei noir, oggi conosciamo sfondi diversi, addirittura Las Vegas che di solito è sbrigativamente legata al gioco d’azzardo come se intorno ai casino ci fosse solo deserto. Ora tocca a Detroit, ovviamente definita la città del crimine per eccellenza. L’ex capitale del-
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l’auto e oggi in crisi fa da fondale alla serie Detroit 1-8-7, su Fox Crime. I personaggi sono ben dosati, a rispecchiare la composizione etnica della metropoli. Guida la squadra degli investigatori di polizia una donna massiccia di colore, capelli rasati, determinata ma non spaccona. C’è quello affascinante, dall’aspetto francese, c’è il giovane neo-papà di colore, c’è la bellona ispanica, molto impegnata a tener lontani
sguardi e mani di arrogantelli o psicopatici dal suo corpo flessuoso. In ogni puntata s’intrecciano, secondo il canone battuto da Csi, due episodi. La telecamera si sposta velocissimamente da uno all’altro. Una donna che aveva occupato una villetta in un quartiere degradato - peraltro costellato da edifici storici - viene trovata con un proiettile in testa. Era sola, era impegnata nel campo sociale, aveva in mente di denunciare l’assalto degli speculatori su una zona che con qualche furbizia di malviventi poteva trasformarsi in quartiere residenziale per il ceto medio-alto. E qui entrano in scena figure squallide di agenti immobiliari profittatori, homeless, giovani sbandati, imbrattatori di muri dietro compenso, drogati e altri. La vittima, Sally, era in contatto con un giornalista e stava raccogliendo prove del «delitto social-urbano».
Ma è diventata lei la vittima. Il detective elegante e il neo-papà, confezionano una trappola. Ed ecco che nella rete cade un uomo dagli occhi di ghiaccio, colui che è stato mandato a uccidere Sally. Dalla tragedia sociale si passa a quella personale. I meccanismi sono oliati, ma fuor di misura, e tutti obbedienti ai tempi (stretti) della fiction. Il killer, inchiodato nella saletta dell’interrogatorio con i soliti vetri a specchio, passa in un batter d’ali da una calcolatissima indifferenza al pianto e alla confessione. Il detective con il ciuffo parigino gli mostra la foto di una bambina rapita vent’anni prima e trovata nel bagagliaio di un’auto. Era la sua sorellina. Un foro nella corazza emotiva e il pathos sgorga in forma di lacrime. Quale il mandante? Si sa, ma mancano le prove. È un magnate che vive «alla grande». Il detective «parigino» irrompe nel tempio del denaro facile. Scena western. Molto americana nel senso dello stereotipo - la scena della minaccia, della sfida, della pro(p.m.f.) messa di giustizia.
Cinema
MobyDICK
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di Anselma Dell’Olio
mici, amanti e… è un’opera scoppiettante che usa stilemi e stereotipi della rom-com e ne rovescia i ruoli di genere, non trascurando di rinfrescare i dialoghi e renderli brillanti e a prova di noia. Emma (Natale Portman) è un neo-medico massacrata dal tirocinio in ospedale: non ha tempo per complicazioni sentimentali. «Lavoro ottanta ore la settimana: ho bisogno di qualcuno nel mio letto alle due di mattina a cui non devo fare il breakfast». Adam (Ashton Kutcher, alias Mr. Demi Moore), protagonista maschile, risponde, «Odio il breakfast». Il giovane assistente di produzione tv è il motore della storia che prende l’avvio dal rapporto del giovane con il padre Alvin (Kevin Kline), divo tv single e mandrillo indefesso. Il figlio va in crisi quando l’attempato don Giovanni gli soffia la fidanzata Vanessa (Ophelia Lovibond, nomen omen) e chiama tutte le donne memorizzate nel suo cellulare per chiedere, con improntitudine etilica, se sono disposte a dargliela. Si sveglia il giorno dopo sul divano di un salotto sconosciuto con Shira (Mindy Kaling, fantastica), una giovane indiana in pigiama che dice «Non ti ricordi come mi chiamo, vero?». Poi entra il secondo e trés gay abitante della casa, sventolando un paio di calzini in faccia al ragazzo disorientato: «Questi sono tuoi?». Finalmente entrano in campo Patrice (Greta Gerwig) e Emma, gli ultimi dei quattro giovani medici che dividono l’appartamento, con sorrisi sornioni per lo scherzo che gli hanno combinato. Adam: «Ho fatto l’amore con qualcuno in questa casa stanotte?», alla risposta no, chiede allora cosa è successo. Emma, sua amica sin dall’infanzia e da poco ritrovata, risponde sfottente: «Eri accovacciato sul divano, nudo e in lacrime». Il cast è ottimo, nobilitato da Kaling (40 anni vergine e la serie tv The Office) e Gerwig (Greenberg), pronte per una verbromance sione femminile del (soromance?), i film che cantano l’amicizia virile non erotica (I Love You, Man, SuXbad, Pineapple Express). Le amiche di Emma sono una forza che meritava più spazio. Forse ci penserà la scrittrice Elizabeth Meriwether, che con questo copione inaugura la sua carriera cinematografica, dopo il tirocinio in tv. È certamente farina del suo sacco, e non di Michael Samonek, che ha suggerito la storia, una scena molto divertente e inedita, in cui le tre donne, stese dai dolori e i gonfiori del ciclo sincronizzato, come spesso succede tra amiche, per di più conviventi e soggette agli stessi stress, sono soccorse da Adam con una compilation di canzoni e ballate consolatorie. Ecco il progetto di Meriwether: «Si tende a costringere le donne in un unico modello. A me interessa come possono essere tutto contemporaneamente: una spregiudicata mangiauomini che desidera innamorarsi, o una party girl con parecchia materia grigia. Voglio espandere il vocabolario, trascendere gli stereotipi. Vediamo quanto duro». In bocca al lupo. Il film è diretto da un fuoriclasse come Ivan Reitman, l’insostituibile che da regista e/o produttore ci ha regalato alcune tra le più spassose commedie della nostra epoca: Ghostbusters - l’Acchiappafantasmi, Animal House, Tra le nuvole, I Love You, Man. Da vedere.
A
Il femminile
senza
stereotipi
Per gli amanti dei film di paura, Frozen è tra quelli che saranno apprezzati anche da chi non ama l’horror classico, grondanti torture e viscere sanguinolenti. La storia di tre ragazzi bloccati e dimenticati su una seggiovia che resterà chiusa per una settimana mentre arriva una tempesta di neve, appartiene alla categoria di storie vere o verosimili, in cui ci si immedesima all’istante. Curiosamente sono proprio queste le storie che a volte dispiacciono proprio ai tifosi hardcore del genere splatter, quelli che si esaltano per gli strazi di Saw, Hostel, Hatchet e via sbudellando. O forse non è strano: riescono a divertirsi esclusiva-
L’abile sceneggiatrice di “Amici, amanti e...” ha voluto descrivere quattro donne oltre i consueti modelli. Il film (di Reitman) è riuscito, ottimo il cast. “Frozen”, storia estrema ambientata tra montagne ghiacciate, assicura brividi dall’inizio alla fine. Anche “Space Dogs 3D” è da vedere
mente su orrori talmente esagerati da lasciare spazio per spaventi ed emozioni totalmente ersatz, con personaggi dimenticabili e poco approfonditi, il cui destino non ci sta a cuore. Frozen prende il suo tempo per farci conoscere Parker (Emma Bell), il suo fidanzato Dan (Kevin Zegers) e il suo bromantic best friend Joe (Shawn Ashmore). I due amici sono bravi snowboarders, compagni di discese spericolate. Da quando è arrivata Parker, una principiante, per Joe è una terza incomoda che guasta il piacere dell’escursione virile. Il più subdolo maschilista, però, è proprio il fidanzatino. Spinge una riluttante Parker a scroccare un pass a Jason, l’addetto allo skilift, con la bugia che ha dimenticato la carta di credito. Sbattendo le ciglia chiede per sé e le sue «amiche» un pass. Alla fine Jason cede, e quando il trio chiede di fare un’ultima discesa poco prima della chiusura, è scocciato per la menzogna, ma alla fine dà il suo consenso. Poi chiede a un collega di sostituirlo perché gli scappa la pipì e di aspettare gli ultimi sciatori. L’amico vedendo arrivare un terzetto diverso pensa che sia quello che aspettava, e ferma la seggiovia. I tre amici rimangono sospesi a mezz’aria pensando a un guasto; ma poi intorno a loro si spengono le luci. È domenica sera, il resort resterà chiuso fino al venerdì successivo, fa molto freddo e una forte bufera di neve è in arrivo. Si può gridare, se qualcuno ti sente; si può lasciarsi cadere con il grave rischio di spezzarsi brutalmente le gambe, ci sono i lupi che s’aggirano nella foresta, ululanti e famelici, e si può perdere un guanto e addormentarsi con la mano nuda attaccata alla sbarra di sicurezza gelata. I brividi sono assicurati e non c’è un attimo di noia. Da vedere.
Mosca, anni Cinquanta. Il cosmonauta di Susanna Nicchiarelli raccontava di una ragazzina, comunista precoce, innamorata delle avventure cosmiche sovietiche in competizione con il programma spaziale americano. In principio andò in orbita la cagnetta Laika, prima dell’umano Yuri Gagarin. In seguito fecero 18 volte il giro della Terra Belka e Strelka, le prime a tornare vive. Il film d’animazione russo Space Dogs-3D - Eroi a quattro zampe alla conquista dello spazio, racconta le loro eroiche imprese. Belka è una cagnolina bianca e soignée, star del Circo di Mosca. Durante il numero «razzo spaziale», finisce fuori rotta lontano dalla troupe. Per strada incontra Strelka, una bastardina libera e tosta alla ricerca di suo padre, che secondo lei vive tra le stelle. Quella notte s’aggira per le strade della capitale un’inquietante automobile nera, con un bulldog e un carlino forzuti e sbrigativi che rincorrono e «arrestano» i randagi che trovano, tra cui le nostre eroine. I prigionieri sono portati in una sorta di lager-caserma, dove un temibile doberman li costringe ad allenarsi tutto il giorno. Si pensa al peggio, ma alla fine Belka e Strelka sono selezionate per fare le cosmonaute sullo Sputnik 5. Belka è in delirio, convinta d’incontrare il papà nello spazio; Strelka sogna la gloria mediatica, perché così i compagni del circo la ritroveranno e riprenderà la sua carriera. Il cartone animato mischia il trionfo socialista, i monumenti di Mosca e il meraviglioso mondo animale in un cocktail felice di propaganda, storia scientifica, politica e fantasia. Non perdetevi il materiale d’archivio con alcuni dei veri cani spaziali sovietici che scorre accanto ai titoli di coda. Da vedere.
Babeliopolis
pagina 22 • 26 marzo 2011
n bel po’ di tempo fa, nell’era pre-computer, Umberto Eco affermò che appena vengono delle idee le si devono appuntare su quel che si ha sottomano per non dimenticarle: lui, ad esempio, lo faceva sulle scatole dei fiammiferi, e per questo probabilmente ha intitolato la sua pagina settimanale su L’Espresso, «La bustina di Minerva». Sicché io penso che il professor Giuseppe O. Longo oltre che sulle scatole di fiammiferi appunti le proprie idee o scriva i propri frammenti di racconto anche sui fazzolettini di carta, i tovaglioli dei ristoranti, i fogli e le buste che si trovano nelle stanze degli alberghi, sugli scontrini, sui biglietti ferroviari, sui tagliandi dell’autostrada, sui menù dei ristoranti. Nonostante sia uno specialista di informatica non ce lo vedo troppo a prendere appunti sul notebook elettronico e sull’iPad. Perché altrimenti non si spiegherebbe la sua mole di scritti non solo scientifici (è docente di Teoria dell’Informazione all’Università di Trieste), ma soprattutto letterari (non solo racconti e romanzi, ma anche opere teatrali e radiodrammi): considerando le date che Longo pone pignolescamente alla conclusione di tutti i suoi testi si potrebbe dire che non passi giorno che egli non scriva qualcosa, dovunque si trovi e, ipotizzo, su qualunque «supporto» cartaceo e ormai magnetico abbia sottomano. Insomma: Nullo die sine linea secondo quanto diceva Plinio, intendendo linea come riga di testo e non tratto di pennello.
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Però nel caso di Giuseppe O. Longo (O.? nemmeno sotto tortura, disse una volta, rivelerò quel che vuol dire) non vale l’altro motto, in genere esatto, secondo cui la quantità va a detrimento della qualità, perché quasi sempre il risultato della sua scrittura stile e contenuto ci offre risultati più che originali, degni di essere letti e ricordati, anche se essa si concretizza quasi elusivamente in racconti o frammenti di racconti che non sono visti di buon occhio dalla cosiddetta grande editoria italiana che li snobba. Eppure spesso si tratta di storie eccezionali sin dalle primissime da lui pubblicate, Il fuoco completo (Studio Tesi, 1986) con moltissime aperture verso l’Immaginario declinato in tutti i modi e sfumature possibili. Da allora il professor Longo ha al suo attivo tre romanzi e una dozzina di antologie di racconti (quasi tutte presso Mobydick di Faenza), oltre ad alcuni di testi teatrali.Scienziato a tutto tondo, Longo ha saputo coniugare come pochi l’incontro delle famose «due culture», spesso intrecciando i temi della sua specializzazione (informatica, nuovi media, interazione uomo/macchina, svilup-
MobyDICK
ai confini della realtà
Cronache
dall’abisso di Gianfranco de Turris pi futuribili di questa connessione ecc.) con una fantasia prodigiosa e, si potrebbe dire, senza confini. Molti si sono posti la domanda: ma da dove vengono le idee? È quel che mi chiedo nei suoi confronti anche io: ma da quale fonte iperuranica gli giungono tante idee a getto continuo? Per di più il suo eclettismo non
immaginazione amalgamata con una scrittura totale, coinvolgente, che ti assorbe e ti conduce nei labirinti di vicende di per sé anche banali ma che vengono elevate proprio per come sono scritte. Non che l’autore usi un linguaggio criptico o avanguardistico: al contrario proprio nella politezza della struttura, nel-
La scienza a servizio dell’immaginazione. Così Giuseppe O. Longo, specialista di informatica e docente universitario, ha saputo coniugare mirabilmente le “due culture”, intrecciando i temi del suo sapere con una fantasia senza confini. Leggere per credere “Il ministro della muraglia” scade mai in un dilettantismo, ma ha sempre uno spessore considerevole. L’occasione per rendersi conto dei due volti di Giuseppe O. Longo, quello «fantastico» e quello «realistico» ci viene dalle sue due ultime raccolte di storie pubblicate. Il ministro della muraglia (Trasciatti), che ha per sottotitolo «Dieci racconti dall’abisso» illustrati con i suggestivi disegni di Loretta Schievano; e Squilli di fanfara lontana (Mobydick) che riunisce invece ventidue «frammenti» di varia lunghezza. Non che sia facile «classificare» le storie di Longo perché in esse si mescola di tutto e di più in una illimitata
l’uso di vocaboli spesso desueti sta la sua caratteristica forza. E poi il giro di frase quasi ipnotico, una specie di «flusso di coscienza» che rompe gli argini e trascina via il lettore facendo sì che anche le trame di fatti i più comuni e di ogni giorno diventino qualcosa di «diverso». Realismo magico si sarebbe detto un tempo. Ma qui non si può perché assai spesso le trame di Longo sono crude e terribili, angosciose, ossessive. Ad esempio, cosa è «l’abisso», tema comune alle storie del Ministro della muraglia? È il «vento dell’abisso» che investe Giulia in un non identificato aeroporto africano
quando è alla mercè di un cosiddetto «deposito vivente di organi». Cioè un essere umanoide, forse simile alla scimmia, creato dall’ingegneria genetica, una specie di macchina di carne che serve per prelevare gli organi necessari ai trapianti, ma che a differenza di quel che pensa il suo creatore, non è vero che non provi alal cunché (Aviatore tramonto). Sono gli «abissi del nulla» in cui aleggia il suono da cui avrà origine il Creato, in una breve racconto in cui si descrive la nascita della realtà (Cosmogonia elementare). Sono i resti di una fornace, tra paese e città, oltre la quale nessuno riesce mai ad andare, ferma lì con i suoi ruderi, la sua oscurità, i suoi segreti (Fornace vecchia). È l’abisso della consuetudine e della inconsapevolezza (Il ministro della muraglia) o della burocrazia che domina la nostra vita (Registrazione), due racconti che definire buzzatiani o kafkiani sarebbe non rendere merito a Longo. È l’abisso di un passato così lontano che degli uomini si è persa memoria o che l’ha distorta nei loro confronti (Rimpianto degli uomini). È l’abisso dello spazio che separa lontani pianeti dalla Terra, anche se questi senza rendersene conto la condizionano in un evento epocale (I pianeti della Stella Polare). È l’abisso del tempo che a un certo momento comincia ad andare a ritroso, anche se nessuno se ne rende conto (Premesse a Tirteo). È l’abisso di una morte assurda e insensata, senza motivo, soli ad anni-luce dal proprio pianeta (Venuto da Udvar). È l’abisso del mare, dell’orrore, di una mostruosità senza fine «venuta dall’abisso», in una storia «lovecraftiana» (Dall’abisso).
Da contrappunto a queste trame in cui fantascienza, fantastico, orrore, surrealtà si mescolano fra loro dandoci un’atmosfera trasognata e angosciosa, ci sono i «frammenti» di Squilli di fanfara lontana, ventidue scritti fra il 1996 e il 2008, in cui gli spunti sono più «banali», più realistici; spunti per racconti mai scritti, capitoli di romanzi mai terminati, anche se - in sé hanno tutti una loro compiutezza, che peraltro presuppone un «prima» e un «dopo». Come se nella mente, e nella penna (matita, computer) di Giuseppe O. Longo premessero per venire alla luce e prender vita mille e mille vicende, sentimenti, casualità, esistenze, personaggi, tragedie interiori. Che, ultima notazione, spesso sono in simbiosi con il paesaggio che li circonda. Specie nelle storie del Ministro della muraglia è come se la natura si riverberasse nelle percezioni e nelle sensazioni, e viceversa. Leggere i racconti di Giuseppe O. Longo ci immerge insomma in un mondo straniante, diverso ma allo stesso tempo uguale a quello in cui ci troviamo casualmente a vivere. E proprio per questo tanto più angoscioso.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’APPROFONDIMENTO SUI DIRITTI DEL FANCIULLO A CURA DI
MIMMO SIENI
ELABORIAMO LA CARTA DEI DIRITTI SPIRITUALI I nostri occhi accompagnano il percorso della vita, la visione di ciò che vediamo provoca deduzioni induttive che il nostro cervello tramuta automaticamente e/o istintivamente. Le certezze sensitorie sono all’origine del compimento di parte delle nostre azioni e ragionamenti. La percezione che il nostro percorso di vita non è infinito produce un processo induttivo che rafforza in noi l’egoismo e la ricerca di “potere” per soddisfare l’effimera sensazione di onnipotenza (umana). Il fatto di essere una “unità”, con un nome e un cognome, un corpo e una propria vita biologica è un fatto incontestabile; come è incontestabile che ciò che vediamo intorno a noi è parte integrante del nostro percorso di vita. Ma noi vediamo una realtà materiale cioè una realtà apparente: i nostri occhi vedono la Terra ma non recepiscono che la Terra gira su se stessa... alla stessa stregua vediamo noi stessi come “unità” ma non percepiamo che il percorso della nostra vita ci porta verso un’evoluzione, ovvero il passare da unità (vita) a entità (morte). Ecco l’esigenza, oggi, della elaborazione della “Carta dei diritti spirituali” da parte della nostra società. Un Codice che aiuterebbe la nostra civiltà, a rivedere, in parte, il proprio percorso di vita e darebbe un arbitrio “reale” per focalizzare e sviluppare l’interiorità spirituale. Anche la Chiesa, per esempio, dopo duemila anni, con Giovanni Paolo II, nel 1979, ha intuitivamente sviluppato un processo teologico radicalmente innovativo: la “Teologia del Corpo” arrivando a proclamare la castità in senso evolutivo, come arte dell’Innamoramento volta all’eccellenza cioè dove la castità non è intesa come repressione ma è parte integrante dell’Amore, anche coniugale. Con l’elaborazione di una carta dei diritti spirituali da parte della nostra Civiltà ci sarebbe un salto di qualità conoscitivo, oltre che creare un armonico avvicinamento tra Laici e non Laici. I nostri figli potranno, quindi, avere la consapevolezza per sviluppare (come la ricerca scientifica ha fatto nel corso dei secoli) una più approfondita conoscenza interiore e arrivare a percepire, coscientemente, la Morte alla stessa stregua emozionale della Nascita.
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Le solite banche esose e furbe: più interessi a debito del correntista Alcune importanti banche prevedono che quando si sconfini rispetto ad un credito concesso, questo sconfinamento non solo (come sarebbe giusto) venga gravato di interessi più alti rispetto a quelli concordati per il credito, ma che tutto lo scoperto di credito sia gravato di questi interessi maggiori rispetto a quelli concordati. Un metodo diffuso e furbesco che compromette la stabilità di chi, dovendo già ricorrere ad un credito per difficoltà nella gestione dei propri affari, viene penalizzato due volte (per l’extra fido e per il fido). Applicare la maggiorazione di tasso nell’ambito del fido è una contraddizione in termini. Fino a tale limite il correntista ha tutto il diritto di vedersi applicate le condizioni contrattuali più favorevoli perché soltanto a quel punto ha inizio il suo utilizzo scorretto. Una situazione che appare più chiara se si pensa che uno sconfinamento estremamente modesto – al limite un solo centesimo – finisce per generare interessi, a debito del correntista, molto maggiori del capitale eccedente.
Vincenzo Donvito
NUCLEARE E SICUREZZA Il nucleare fa paura e per non parlare di qualità e sicurezza, tabù onerosi che denotano la vera sostanza del problema, ci poniamo nelle solite pause di riflessione, mentre le immagini dal Giappone non solo illustrano l’orrore della tragedia ma anche come un popolo, tradizionalmente asciutto, può soffrire senza urlare. Il vero problema è che si invoca il santo quando si vede il serpe: molti incidenti nucleari sono inseriti nei misteri del Novecento, insieme ai tanti eventi che hanno interessato anche i sottomarini russi, e la causa è sempre stata la carenza di manutenzione, molto al di sotto dei livelli richiesti dagli stessi programmi di sicurezza. Anche se in Giappone si è trattato di centrali nucleari e non di sottomarini, e l’azione catalizzatrice è venuta da uno dei più rovinosi terremoti della storia, resta evidente che il nucleare da obiettivo futuro, deve viaggiare parallelamente alla sicurezza dei processi di arricchimento isotopico: se ci si deve scontrare con l’economia globale insufficiente a garantire certezze, è meglio per ora non parlarne proprio.
Gennaro Napoli
IL “BUSINESS” DEI BARCONI Nella vicenda dei migranti che fuggono dall’Africa c’è un elemento sempre presente, ma sempre assente: il barcone. Sono un numero infinito. Non si sa da dove
vengono, chi li costruisce, chi li vende e chi li compera, e una volta giunti in Italia non si sa che fine fanno. Forse li rimandano indietro per riciclarli. Se per esempio è vero che recentemente hanno attraversato o attraverseranno il Mediterraneo 350mila migranti, facendo una media di 100 per ogni barcone, servono 3500/4000 barconi. Poiché è improbabile che esista un numero così imponente di “barconi-carrette”, occorrerà costruirne di nuovi. Per qualcuno si prospetta quindi un grande affare.
Riccardo Cornara
INTERVENTI PRESIDENZIALI Non si può certo dire che il presidente Napolitano sia un anonimo servitore dello Stato. Ogni giorno il nostro esimio presidente della Repubblica parla: o chiedendo risorse per la scuola, o per la ricerca, o per sostenere l’indipendenza della magistratura, oppure su questioni di politica estera. Il ruolo dell’Europa, il ruolo dell’Onu, l’economia europea, i rapporti tra Stati e via dicendo. Non c’è argomento che il presidente non tocchi.
Luciano Rondina
LE QUOTE ROSA FANNO MALE ALLE DONNE IN GAMBA Una legge che imponga il 20 o il 30 per cento della presenza femminile nei cda delle aziende quotate in Borsa, la ritengo
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
Fantascienza oppure realtà? BIRMINGHAM. Molta più gente di quello che si potrebbe credere confonde la fantasia con la realtà, e non sono pochi quelli che basano le loro conoscenze su quello che vedono nei film. Il risultato è che molti confondono effetti speciali con oggetti o tecnologie realmente esistenti. È questo il risultato di un sondaggio svolto dal Birmingham Science City sulla popolazione inglese, sondaggio che ha dato esiti sconfortanti. Circa il 20 per cento degli adulti è convinto che le spade-laser di Star Wars esistano nella realtà; il 24 per cento pensa che sia possibile il teletrasporto di un essere umano. Il 50 per cento delle persone, invece, è convinta che ci siano delle tecnologie di cancellazione della memoria, e il 40 per cento che esistano realmente i volopattini di Ritorno al Futuro 2. Va dato atto però che data la velocità di sviluppo della tecnologia, può effettivamente essere difficile per molti stare al passo con cosa è reale e cosa è fantascienza. Ad esempio, il 78 per cento degli inglesi crede che i “mantelli dell’invisibilità” siano fantascienza pura, mentre sono già stati fatti dei modelli sperimentali (proprio dall’Università di Birmingham).
una scelta giusta e al tempo stesso sbagliata. Giusta perché attenua la litania della discriminazione delle donne nelle cabine di regia, sbagliata perché sancisce la definitiva sconfitta del merito e della capacità delle signore di ottenre posizioni, che altrove nel mondo hanno conquistato vincendo la sfida con i colleghi maschi, grazie alle proprie qualità e al proprio impegno.
Mauro Meli
UN’ETNIA, UNA LINGUA (ARABA), UN SOLO CORANO Il problema irrisolto - perfino da Maometto - dell’irriducibilità delle tribù arabe ad un unica Nazione in senso hegeliano/moderno/hitleriano (un’etnia, una lingua, una religione, una guida politica e religiosa insieme) pone i fondamentalisti islamici sempre in vantaggio nelle rivolte armate e nelle guerre asimmetriche di un terrorismo che ripropone la tecnica del saccheggio beduinico su scala globale. Le connivenze con leader e sigle che purtroppo stanno approfittando dell’imbelle autolimitazione militare occidentale sono puntualmente denunciate da Magdi Cristiano Allam: l’altro ieri lasciammo troppo in piedi Saddam, ieri Gheddafi e oggi Ramadan, Ucoi, Fratelli Musulmani, Enthada, Hamas, Ezbollah ecc.
Matteo Maria Martinoli - Milano
ELIZABETH I LOVE YOU
Tiro al pitone Difficile immaginare una fine più infausta di quella di questo malcapitato pitone delle rocce africano (Python sebae), costretto suo malgrado a fare la parte della fune in una prova di forza tra predatori nella riserva di Mala Mala in Sudafrica
Molte persone pensano che Liz Taylor ha raggiunto il suo vero amore: Michael Jackson, che cantava Elizabeth, I love you, celebrando soprattutto un rapporto di profonda stima. Entrambi hanno condiviso le battaglie contro la discriminazione verso i malati di Aids, ma anche altre iniziative di beneficenza, a riprova che anche nel mondo dello spettacolo esiste una profonda sensibilità.
Bruno Russo
politica
pagina 24 • 26 marzo 2011
Un decreto che determina disparità di trattamento tra famiglie del Nord e del Sud
«Così si spacca l’Italia» «Anche il federalismo regionale crea nuove tasse e aggrava i divari sociali»: Gian Luca Galletti spiega il no dei centristi di Riccardo Paradisi on questo federalismo regionale le tasse aumenteranno e aumenterà il divario Nord-Sud: a parità di fatturato, un’impresa in Lombardia potrà arrivare a pagare anche solo diecimila euro di Irap, mentre quella in Calabria paghera’ oltre 50mila euro». È molto critico Gian Luca Galletti, esponente Udc in Bicamerale, sul decreto legislativo per il federalismo regionale.
«C
Decreto contro il quale il terzo polo si è espresso negativamente sorprendendosi dell’astensione del Pd considerato che in base ai calcoli elaborati nelle regioni in deficit le imprese saranno più che penalizzate dalle nuove norme mentre, sul fronte Irpef, i redditi di 40mila euro pagheranno fino a 1.500 euro in più di tasse. Insomma una fiscalità di svantaggio per le imprese del Sud e che rompe – come sostiene l’Api – la progressività dell’Irpef. «Abbiamo votato contro l’ennesimo decreto attuativo del federalismo fiscale che causa un costante aumento della pressione fiscale sulle famiglie e sulle imprese ed una progressiva contrazione dell’offerta pubblica di servizi – spiega Gianluca Galletti – un decreto che a parità di reddito determina una grave disparità di trattamento tra famiglie del
nord e famiglie del sud tra imprese del nord ed imprese del sud. Un decreto che finanzia con le tasse un ente inutile come la provincia e che completa il dissennato federalismo municipale aggravando ancora di più il dissesto dei comuni». Altro che maggiore efficienza insomma. «Questo decreto determinerà una forte separazione tra le regioni del nord e quelle del sud aumentando le diseguaglianze profonde tra aree diverse del paese. Questo decreto costringerà le regioni a tassare di più cittadini e imprese senza migliorare i conti pubblici. Questo governo non solo mette le mani nella tasche degli italiani ma oggi fa completare questo lavoro sporco a regioni, province e comuni. Tutto questo non ci meraviglia perché lo sapevamo già quando abbiamo votato contro questo falso federalismo fiscale in Parlamento. Ciò che meravi-
glia – continua l’esponente dell’Udc – è che tutto ciò avvenga con il concorso del Pd che, per garantire un po’ di soldi alle regioni rosse che governa, si è piegato alla Lega».
Appunto, la sorpresa del Pd: «Trovo grave la posizione dei democratici nei confronti del nuovo fisco regionale, un pro-
giunto Loiero - che un partito nazionale come il Pd si vede costretto a sopravvivere grazie alla logica territoriale che è di per sé egoistica e non grazie alla cultura di cui è intrisa la nostra Costituzione che, per fare un piccolo esempio, tiene in vita all’articolo 2 il valore della solidarietà e al 5 quello dell’indivisibilità del territorio. Due elementi una vera e propria truffa che Lega e Pdl hanno consumato ai danni dei cittadini, in particolare dei meno abbienti. Con il decreto legislativo sul federalismo regionale, approvato ieri nella bicameralina con il voto contrario dell’Idv, in cambio di qualche intervento tampone per limitare i danni dell’ultima manovra finanziaria del governo, si è fatto un rilevante passo indietro proprio sull’impianto della riforma federalista che porterà a un forte aumento della pressione fiscale, sia pure non subito. Il decreto, infatti, prevedeva nel testo originario che gli aumenti Irpef, di fatto obbligati soprattutto per le regioni più povere e indebitate, non avrebbero interessato i primi due scaglioni di reddito, quelli più bassi. La versione approvata in-
Per il terzo Polo questo provvedimento è l’anticamera della divisione del Paese ed avvantaggerà poche regioni a danno di tutte le altre. Tutto ciò avviene con il concorso del Pd per garantire un po’ di soldi alle regioni rosse getto che finora è stato appannaggio esclusivo della Lega – ha dichiarato Agazio Loiero – Se si guarda a coloro che, a livello regionale, hanno presentato l’emendamento risolutore e a coloro che sono stati il motore della svolta ci si rende conto che il Sud è rimasto fuori dalla trattativa. Purtroppo ormai il paese è diviso in due, ed un partito nazionale che intende coniugare gli interessi e i bisogni del Nord con gli interessi e i bisogni del Sud diventa perdente perché si trova di fronte la Lega che difende solo gli interessi di una parte del territorio. Ne deriva - ha ag-
L’esperto di economia dell’Udc, Gian Luca Galletti. In alto, Bossi con Bersani. Sotto, Tremonti
del tutto spariti dal provvedimento». Critico anche Rutelli: «Noi, con il terzo polo, abbiamo votato convintamente contro questo federalismo perché questo non è vero federalismo.Questa è la continuazione degli sprechi, senza risparmi, con grandi discrepanze tra territori. Quindi, prevedo che, al di là della bandierina sventolata dalla Lega, questo federalismo sia destinato a esplodere».
Addirittura apocalittica l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro: «Il decreto sul fisco regionale è
Occorre bilanciare la «riforma padana»
Ma adesso bisogna ridare al Mezzogiorno i fondi Fas che gli sono stati tolti di Mario de Donatis
ifre senza anima. Cifre annunciate per far presa sull’immaginario collettivo, ma che segnalano, a guardar bene, l’assenza di risorse aggiuntive dello Stato, la grande incertezza su quelle “riprogrammabili”, già oggetto di precedenti impegni, non sempre di massima, assunti dalle Regioni e l’esposizione delle stesse – nel caso di monitoraggi generosi a sostegno della causa – a futuri debiti fuori bilancio. Parliamo del “Piano del Sud”, iniziativa immaginata per distrarre l’opinione pubblica meridionale sul prelievo di risorse operato dal Governo centrale sul Fas (Fondo per le Aree Sottoutilizzate), in favore del Nord del Paese e, dall’altro, per riprogrammare le risorse della Unione Europea, riservate a Calabria e Campania.
C
Anche se gli obiettivi dichiarati, ovviamente, per legittimare il “Piano del Sud” sono ben altri. Se è vero che la velocità della spesa del “sistema regio-
politica
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consiglio di direzione Giuliano Cazzola, Francesco D’Onofrio, Gennaro Malgieri Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Giancristiano Desiderio, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
vece, prevede che soltanto il primo scaglione, quello dei redditi fino a 15 mila euro, debba rimanere invariato».
Dal 2014, e ancor più dal 2015, è facile prevedere – secondo l’opposizione – una stangata anche per coloro che hanno un reddito tra 15 e 28 mila euro, vale a dire anche per le famiglie con uno introito mensile di poco superiore ai mille euro. L’aliquota in questo caso salirà sicuramente di 23 punti percentuali. Insomma il federalismo potrebbe completare i danni della crisi economica, per cui la povertà è destinata ad aumentare. Per la sinistra radicale questo provvedimento è l’anticamera della divisione del Paese ed av-
vantaggerà poche regioni a danno di tutte le altre, specie quelle meridionali. ll Federalismo così come si sta definendo non piace a Nichi Vendola che lo definisce una ”porcheria” che ci potrebbe far trovare di fronte ”ad una secessione di fatto”. «Politicamente considero un’avventura e forse una sciagura, un federalismo che nasce male, che nasce parlando di fisco, di denaro. Non è un federalismo che nasce dalle fondamenta cioè da un patto che può tenere assieme l’Italia. Il rischio è che ci troveremo di fronte ad una secessione di fatto. Le aree più ricche del Paese già camminano ad una velocità divaricata. Sono a favore del federalismo ma questo non è federalismo ma una
porcheria che nasce dalla predicazione anti meridionale su uno stereotipo malevole: che il Nord laborioso e sano ha sulle spalle un Sud malavitoso, parassitario e mafioso».
Esprime soddisfazione invece per l’accordo fra governo e Regioni il presidente dell’Anci Sergio Chiamparino «Anche se alcuni aspetti normativi non convincono fino in fondo». La soddisfazione riguarda in particolare la prevista riduzione dei tagli ai trasferimenti, che si riferisce a fondi che in buona parte andranno poi ai Comuni. «Con la ripresa del confronto sulla prossima manovra economica, che ci auguriamo si avvii al più presto chiederemo al Governo di adottare anche per il sistema dei Comuni un ridimensionamento dei tagli ai trasferimenti ai municipi per i prossimi anni».
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Carlo G. Cereti, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino Anselma Dell’Olio, Alex Di Gregorio Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Roberto Genovesi, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Emanuele Ottolenghi, Jacopo Pellegrini, Adriano Petrucci, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Katrin Schirner, Emilio Spedicato, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
nale”, relativamente ai fondi europei, è interessata da accertati livelli di criticità, perché trasferire le responsabilità gestionali dalle Regioni meridionali ai Ministeri che presentano pari criticità, se non maggiori? Che dire, inoltre, dell’altro obiettivo, prioritario anch’esso, rivolto a privilegiare il finanziamento di “opere strategiche”, in una visione unitaria del sottosistema Mezzogiorno? Ma le “opere strategiche”, ricadendo nella dimensione programmatoria dello Stato, non dovrebbero essere realizzate con risorse di ben altri canali di finanziamento? E perché, allora, attingere a quelle che l’Unione Europea riserva per le politiche di coesione a titolarità regionale? Cambiano i tempi, vengono modificati gli strumenti di attuazione delle politiche, ma l’“aggiuntività” delle risorse per il Mezzogiorno viene, poi, di fatto, vanificata. C’è, però, una differenza tra il passato ed il presente. Ieri nessuno metteva in discussione l’obiettivo di
voler superare il dualismo economico del Paese. Oggi, con Giulio Tremonti, apprendiamo che il Paese è duale e che, a tanto, occorre rassegnarsi. È il momento più basso del “regionalismo” perché, da un lato, le Regioni meridionali non riescono ad esprimersi unitariamente, a fare sistema e, dall’altro, il “federalismo padano” impone una “fiscalità di svantaggio” per il Mezzogiorno, offrendo a quella classe meridionale, espressione della maggioranza governativa, un percorso centralistico per gestire il sottosviluppo presente e futuro dell’area in parola. Fin qui l’analisi. Quale la proposta per rilanciare l’azione meridionalistica al livello Paese?
È ineludibile recuperare, prioritariamente, la dimensione del Mezzogiorno, partendo dall’istituzionalizzazione della Conferenza dei Presidenti delle Regioni meridionali (rivisitando
ruoli e funzioni del precedente “Comitato delle Regioni”). Così come appare ineludibile l’attivazione di una profonda rivisitazione delle modalità decisionali (partendo da un più forte coinvolgimento dei Consigli Regionali) e degli strumenti operativi finalizzati all’attuazione degli interventi, armonizzando la legislazione e i processi programmatici del nostro Paese, con quelli dell’Unione Europea. Ma c’è un punto di forza irrinunciabile su cui le Regioni meridionali devono poter fare massa critica: è il ripristino della originaria assegnazione delle risorse riservate alle aree sottoutilizzate. Perché, per senso di responsabilità, il Mezzogiorno può concedere, al Governo centrale, tempi più lunghi per la effettiva disponibilità delle risorse finanziarie, ma non può rinunciare al credito originario. A meno che il “Paese duale”, di Giulio Tremonti, più che un “dato di fatto” da assumere non voglia significare la “strategia leghista” da praticare, per il Sud.
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pagina 26 • 26 marzo 2011
grandangolo Via libera definitivo dai Ventisette al Fondo salva Stati della Ue
Il Portogallo dice no all’Europa (e indebolisce la Merkel)
I Ventisette premono su Lisbona perché dia garanzie sulla lotta al deficit e accetti, come già accaduto per Grecia e Irlanda, un default pilotato. Ipotesi rigettata dal premier José Socrates: «Ci difenderemo da soli, siamo in grado di finanziarci sui mercati. Non subiremo quello che hanno già passato Atene e Dublino» di Francesco Pacifico
ROMA. Una dichiarazione di guerra da far impallidire il downgrade di Fitch e Standard Poor’s. A nome di tutti i colleghi della Ue, Angela Merkel ha mandato un chiaro messaggio a Lisbona. Se la nascita del nuovo fondo di salvataggio europeo «è un messaggio politico ai mercati», allora i portoghesi devono rimboccare le mani e impegnarsi pubblicamente a tagliare l’altissimo deficit. La cancelliera tedesca – forse stizzita da un compromesso al ribasso in ambito europeo che sta minando le basi del suo governo – non ha certo lesinato nei toni: «Non basta dire siamo d’accordo con gli obiettivi imposti da commissione e Bce, bisogna dire pubblicamente e chiaramente che si propongono quelle misure per raggiungere quegli obiettivi». Un passaggio «indispensabile se si vogliono calmare i mercati». Da un lato, quindi, c’è la richiesta alla politica portoghese di approvare il piano antideficit ideato dal primo ministro dimissionario José Socrates, dall’altro, soprattutto, il consiglio di adeguarsi alla via già seguita da Grecia e Irlanda, quella di un default pilotato, che sarebbe un po’ il battesimo per il nuovo meccanismo anticrisi europeo. Ma nell’Europa che si divide sulle ricette economiche e poi trova un accordo affievolendo le misure di rigore promesse, anche la Merkel, il leader della locomotiva d’Europa, fa fatica a dare la linea al Portogallo. Ieri, a margine del
Consiglio d’Europa, proprio Socrates ha negato che il suo Paese abbia «bisogno di un piano di salvataggio internazionale per far fronte alle difficoltà legate ai suoi conti pubblici». Rispolverando lo stesso registro usato nei mesi scorsi dai colleghi Papandreu e Cowen prima di dover accettare gli aiuti della Ue e del Fondo monetario, anche il premier lusitano ha giurato che «Portogallo si difenderà da solo. Siamo in grado di finanziarci sui mercati». E guai a provare di fargli cambiare idea. «Insisterò su questo per difendere il mio Paese, so che cosa il salvataggio ha implica-
Soltanto la nascita dell’Esm frena i timori di un crac degli investitori. Si scommette su un contagio della Spagna to per l’Irlanda e per la Grecia e non voglio che accada lo stesso al mio Paese». Sullo sfondo c’è sempre un intervento straordinario da 75 miliardi di euro già preparato con l’avallo di Jean-Claude Trichet. Ma al momento i Paesi dell’Eu-
rogruppo non sono andati oltre il ribadire la disponibilità ad aiutare il Portogallo. Il suo presidente, mr euro Jean Claude Juncker, cioè il primo a confermare l’esistenza del pacchetto, ieri ha dovuto ammettere che al momento «il Portogallo non farà una domanda di assistenza finanziaria». Eppure deve aspettarsi a breve delle novità, se ha voluto aggiungere: «Poco importa chi sarà al potere a Lisbona, perché dovrà sapere che gli obiettivi di bilancio dovranno essere rispettati strettamente».
Dietro queste parole si legge un avvertimento molto netto, il consiglio ai portoghesi di rimettere in sesto le proprie finanze in collaborazione con l’Europa, non lasciandosi andare a mosse sconsiderate (come la bocciatura del piano antideficit di Socrates) che possano spaventare i mercati. Proprio i mercati sembrano già aver preso le misure della situazione. Le Borse – in un’euforia dovuta anche alle prime stime del Pil americano – hanno aperto in rialzo e chiuso piatte nonostante la nascita del fondo salva Stati: Londra segna un +0,34 per cento, Francoforte un +0,18, Parigi con un +0,09. Soltanto Milano archivia la giornata con un piatto -0,18 per cento. Nella stessa logica, difensiva, si è mosso l’euro. Gli investitori si sono interrogati sul reale stato di salute delle finanze dei Paesi periferici dell’area, con il risultato che non sono mancate prese di benefi-
cio verso e yen e sterlina, oggetto di accelerazioni negli ultimi giorni. A fine giornata la moneta europea ha quotato 1,4144 dollari (1,4189 24 ore prima) a riprova che l’incertezza sarà spazzata via soltanto ad aprile, quando la Bce dovrebbe alzare di un quarto di punto percentuale i tassi d’interessi. Bocciatura senza appello, invece, da parte degli investitori istituzionali. Ieri hanno registrata un’impennata i tassi d’interesse pagati dai titoli di Stato portoghesi, con il due anni che ha superato il 7 per cento per la prima volta dalla nascita dell’euro nel 1999. Il rendimento pagato dai titoli decennali è in rialzo di 14 punti base al 7,80%, con un premio di rendimento sul bund tedesco di 451 punti base, a un soffio dal livello record (459) dello scorso novembre. Altra cartina di tornasole della crisi il livello di appeal di Angela Merkel in patria. Al cancelliere non è bastato mandare in pensione le vecchie centrali atomiche, rallentare sulle nuove e tenersi in disparte dall’intervento militare in Libia. In quest’ottica rientra anche il calo (non accadeva dal maggio scorso) dell’Ifo, l’indice sulla fiducia delle imprese tedesche. A marzo, e dopo aver segnato a febbraio il record degli ultimi 42 anni, l’indicatore è sceso a quota 111,1 punti (0,2). Gli analisti temevano un risultato peggiore, ma è facile comprendere nel sondaggio condotto su oltre 7 mila compagnie della Germania la paura
26 marzo 2011 • pagina 27
Le Borse «premiano» i piani con i quali gli Stati salvano gli Istituti
Ma le banche non hanno imparato niente dalla crisi? di Gianfranco Polillo a cosa più strana di questa bizzarra congiuntura è l’andamento delle borse in crescita da diversi giorni, dopo il picco negativo toccato sull’onda degli avvenimenti che hanno funestato sia la frontiera Sud del Mediterraneo che la società giapponese. La spiegazione del fenomeno è solo in parte evidente: il rimbalzo che segue ai momenti di crisi. Un ottimismo che nemmeno i fatti del Portogallo hanno attenuato. La crisi economica e politica di quel piccolo paese ha rovinato la festa di Bruxelles e l’accordo trovato sulla governance europea, ma non ha impedito il piccolo rally. La stessa Spagna, più esposta al contagio, ha aperto, ieri, con un piccolo rialzo. Ed allora? Sembra quasi che il mercato goda delle sfortune altrui, nonostante le agenzie di rating si affannino a mettere in guardia. Il debito portoghese è stato declassato da A+ ad A- ad un passo dai “titoli spazzatura”. Ben trenta istituti di credito spagnoli hanno subito una sorte analoga. Come spiegare il fenomeno? Con le disgrazie altrui che spingeranno inevitabilmente i Governi a intervenire.
L
che la crisi portoghese possa costringere la Merkel a spostare verso il Paese lusitano risorse che, in condizioni diverse, sarebbero state destinate per il capitolo ricerca e sviluppo. Cioè quegli incentivi che da un decennio a questa parte hanno permesso alla Locomotiva d’Europa di produrre e piazzate merci anche nei Paesi che vivono sul dumping al costo del lavoro.
La cancelliera contestata per gli accordi sulla governance comunitaria. Cala la fiducia delle imprese A rafforzare questo timore anche la diffusione della lista dei Paesi più esposti verso il rischio Portogallo. In cima alla classifica ci sono, per vincoli geografici e culturali, le banche spagnole per 59,4 miliardi. Ma subito dopo seguono gli istituti tedeschi con 25,7 miliardi in bilancio, cento milioni in più dei concorrenti francesi. Nella top list poi il credito britannico per 17,5 miliardi, mentre possono tirare un sospiro di sollievo l’Irlanda (4 miliardi di euro), l’Olanda (4,2 miliardi) e l’Italia (4,8 miliardi, che ai cambi correnti si traducono in 3,3 miliardi di euro). È in questo clima che il Consiglio d’Europa ieri ha definito gli ultimi accordi e dato il la al Fondo di salvataggio. Proprio l’incertezza del periodo ha visto la Germania soccombere su quasi tutta linea nel processo di scrittura della nuova governance comunitaria: voleva sanzioni automatiche e tagli ai finanziamenti contro i partner indebitamenti,
non è riuscita a ottenere che i Paesi dell’area finanziassero l’Esm anche in base alla loro rating, alla loro stabilità. Tanto da doversi accontentare di portare a casa soltanto l’allungamento di un anno (da quattro a cinque) delle rate per l’importo complessivo da 80 miliardi di capitale del fondo. Di conseguenza con il Portogallo che è rimasto senza maggioranza senza guida politica e l’Europa che non ha ancora ritrovato la direzione della crescita, sono in molti a scommettere su quale sarà il primo intervento di uno strumento che tra soldi cash e «capitale richiamabile impegnato e di garanzie degli Stati membri dell’Eurozona», cioè sottoscrizioni, ha una potenza di fuoco effettiva da 500 miliardi di euro. Anche perché in queste ore la vicinanza con il Portogallo diventa quasi un’aggravante per la Spagna. A differenza di Socrates, José Zapatero ha confermato ai partner nuove misure antideficit, ma gli analisti hanno già condannato il Paese, visto che le esposizioni complessive verso Lisbona sono pari a 108,6 miliardi di dollari secondo gli ultimi dati della Banca dei regolamenti internazionali.
Se non bastasse c’è da fare i conti anche con il declassamento di trenta banche spagnole da parte di Moody’s. Non sarà certo un uomo prudente, ma deve far pensare il fatto che il presidente dell’Eurogruppo Juncker abbia parlato con tanta naturalezza di «effetto domino, con i pezzi che cadono uno dopo l’altro», riferendosi proprio alla Spagna. Un po’ di chiarezza la faranno i nuovi stress test previsti nelle prossime settimane. Intanto però il futuro dell’Europa s’incrocia con quello del Portogallo. Quanto accaduto in Grecia o in Irlanda dimostra quanto sono sensibili i mercati di fronte a scene di disordine. Ebbene, mentre i Ventisette chiedono rigore a Lisbona, il Paese è stato quasi interamente paralizzato da uno sciopero dei trasporti. La prossima settimana si replica con un’altra ondata di agitazioni. Non proprio il segnale sperato.
Il primo caso di scuola è quello americano. L’economia tira meno del previsto. Qualche segnale s’intravede, ma il treno non si è rimesso in marcia. Due le ipotesi sul tappeto: una politica monetaria immutata, con tassi d‘interesse prossimi allo zero, in termini reali (una manna per chi investe indebitandosi); addirittura una replica del quantitative easing (nuova immissione di liquidità) alla scadenza della manovra – più o meno a giugno – già messa in atto, con le conseguenze non solo economiche, ma politiche, che abbiamo visto: aumento dei prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentari. Caccia ai beni rifugio (oro, argento e valute pregiate, come il franco svizzero). Il prezzo dell’oro è ormai prossimo ai 1450 dollari l’oncia. L’argento quota quasi 40 dollari. E L’Europa? Qui entra in gioco il caso Portoghese. Il Paese è sull’orlo del fallimento. Senza il salvataggio del fondo europeo (Efsf), potrà onorare solo la scadenza dei prestiti di metà aprile (4,3 miliardi di euro). Ma a metà giugno ne scadranno altri, per un controvalore di 4,9 miliardi. Ed altri ancora (per 9 miliar-
di) a fine anno. Se a questo sommiamo i debiti delle banche, che devono essere in qualche modo ristrutturati, il fabbisogno complessivo oscilla tra i 60 e gli 80 miliardi di euro. Si spiega pertanto perché Jean-Claude Juncker, premier lussemburghese e presidente dell’Eurogruppo si sia lasciato andare, ipotizzando un intervento di salvataggio di circa 75 miliardi di euro. Tutto ciò, nonostante il crescente malumore di Trichet, non potrà non tradursi in una politica monetaria accomandante, come quella finora seguita. E se c’è liquidità, con un tasso d’inflazione ancora sopportabile benché leggermente superiore ai target su cui la Bce imposta la sua politica, c’è trippa per i gatti. Ossia ossigeno per chi vive di borsa e per la borsa.
Un quadro fin troppo idilliaco, che non nasconde tuttavia forti contraddizioni. Finalmente si è capito dov’è il tarlo di questa crisi. Le banche, per le quali è cambiato ben poco, specie in tema di retribuzioni del management, continuano ad essere esposte. Troppi debiti e crediti inesigibili nei bilanci. Hanno bisogno di essere ricapitalizzate. La strada prescelta è stata quella di trasformare gran parte del loro debito – debito privato – in debito pubblico. La vecchia regola della privatizzazione dei profitti e della socializzazione delle perdite. Dati un po’ vecchiotti (terzo trimestre del 2010) offrono un quadro impressionante. In Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, le banche tedesche sono esposte per 570 miliardi, quelle francesi per 440 e quelle italiane per solo 80 miliardi. Il rischio che grava sul nostro Paese è appena pari al 5 per cento del totale, considerando anche l’esposizione delle banche inglesi per 431 miliardi. Il nostro contributo al Fondo (Efsf) è invece pari al 14,3 per cento. Conclusione: rispetto al rischio potenziale (perdita del credito in conseguenza del default della banca finanziata) noi spendiamo circa 5 volte tanto quanto spendono Francia e Germania. Se a questo aggiungiamo il problema non risolto della gestione dei flussi d’immigrazione, verrebbe da dire: Europa quanto ci costi!
l’allarme nucleare
pagina 28 • 26 marzo 2011
Dopo il disastro giapponese il famoso ambientalista inglese cambia idea
Verde? Non più, grazie «Se le centrali venissero chiuse si tornerebbe al carbone. Cento volte più pericoloso del nucleare» George Monbiot li eventi in Giappone hanno modificato le mie opinioni sull’energia nucleare. E dopo il disastro di Fukushima non sono più neutrale sulla questione. Adesso appoggio in pieno questa tecnologia. Vi spiego perché: un vecchio impianto malandato, con misure di sicurezza inadeguate, è stato colpito in rapida successione da un terremoto devastante e da uno tsunami. L’erogazione dell’energia elettrica è stata interrotta mettendo fuori uso il sistema di raffreddamento. I reattori hanno iniziato a esplodere e a fondere. Il disastro ha messo in piena luce qualcosa di ormai tristemente noto: cosa possano significare un progetto inadeguato e qualche scorciatoia di troppo. Eppure, per quanto ne sappiamo, nessuno è stato ancora esposto a una quantità letale di radiazioni. Alcuni ecologisti hanno fortemente esagerato i pericoli legati all’inquinamento radioattivo. Se altre forme di produzione energetica non causassero alcun danno, l’impatto di questi incidenti sarebbe di gran lunga maggiore. L’energia, però, assomiglia alle medicine: se non ha effetti collaterali molto probabilmente non funziona. Al pari della stragrande maggioranza deiVerdi, sono favorevole a un più vasto impiego delle fonti energetiche rinnovabili. Riesco anche a capire gli argomenti dei loro avversari: a dar fastidio alla gente non sono soltanto le centrali eoliche a terra, ma anche le nuove reti elettriche (piloni, tralicci e cavi). A mano a mano che aumenta la percentuale di energia rinnovabile che entra in rete, occorre una maggiore potenza di erogazione per mantenere accese le luci. Questo significa costruire centrali con serbatoi sulle montagne, neanche questi molto amati. Gli impatti e i costi delle energie rinnovabili aumentano percentualmente all’energia erogata, in quanto aumentano le necessità di immagazzinamento e di eccedenza. Potrebbe anche darsi (devo ancora trovare uno studio comparativo) che fino a una certa immissione nella rete elettrica – il 50, il 70 per cento? – le energie rinnovabili abbiano un impatto in termini di CO2 inferiore a quello che avrebbe il nucleare, ma che oltre quella soglia sia il nucleare ad avere un impatto inferiore rispetto alle energie rinnovabili. Come altri, anch’io ho raccomandato di utilizzare l’energia rinnovabile sia per sostituire l’elettricità prodotta dai combustibili fossili sia per aumentare l’erogazione complessiva, per sostituire il petrolio utilizzato per i trasporti e il gas impiegato per bruciare i combustibili. Ma ora vogliamo che sostituiscano anche l’attuale capacità nucleare? Quanto più ci aspettiamo dalle rinnovabili, tanto più grande sarà il loro impatto sul paesaggio, e tanto più arduo il compito di persuadere l’opinione pubblica. L’idea di espandere la rete elettrica per collegare le abitazioni e le fabbriche a fonti distanti di energia verde è respinta anche dalla maggior parte degli ambientalisti che si sono lamentati per il post comparso sul mio blog la settimana scorsa, in cui sostenevo che il nucleare continua a essere più sicuro del carbone. Quello che vogliono - così mi hanno detto - è qualcosa di completamente diverso: dovremmo diminuire i nostri consumi e produrre l’energia a livello locale. Alcuni auspicano addirittura che si dismettano le reti esistenti. La loro visione bucolica è decisamente affascinante. Occorre però leggere anche le note a fondo pagina. Alle nostre latitudini, produrre energia pulita su piccola scala è una perdita secca. Generare energia solare nel Regno Unito comporta un ma-
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dornale spreco di risorse. È un processo inefficiente e scarsamente adeguato alla domanda. E come potremmo fare funzionare le nostre macchine tessili, le nostre fornaci, i nostri altiforni e le ferrovie elettriche, per non parlare dei processi industriali più avanzati? Con i pannelli solari sul tetto? Non appena si considerano tutte le necessità dell’economia ci si disamora immediatamente della produzione energetica locale. Una rete elettrica nazionale (o, ancora meglio, internazionale) è il prerequisito essenziale per un sistema energetico in buona parte rinnovabile. Alcuni Verdi si spingono ancora oltre: perché sprecare le risorse rinnovabili solo per trasformarle in elettricità? Perché non utilizzarle per produrre energia direttamente? Per rispondere a questa domanda, si pensi a cosa accadde in Gran Bretagna prima della rivoluzione industriale.
La costruzione di dighe e sbarramenti dei corsi d’acqua per alimentare i mulini avvenne su piccola scala, fu attuata in modo rinnovabile, pittoresco e assolutamente devastante: deviando il corso dell’acqua e riempiendo di sedimenti i letti dei fiumi dove i pesci si riproducevano, si pose fine in modo innaturale alle migrazioni. Scomparvero storioni, lamprede, alose, trote di mare e salmoni. La trazione animale fu strettamente collegata alla penuria di cibo: quanta più terra doveva essere adibita a sfamare gli animali da tiro nel settore industriale e dei trasporti, tanta meno ne restava per sfamare gli esseri umani. Si può dire che nel XV secolo quella fu l’equivalente dell’odierna crisi dei biocombustibili. E lo stesso si potrebbe dire dei combustibili per il riscaldamento. Prima che il carbone diventasse ampiamente disponibile, si utilizzava la legna non soltanto per scaldare le case, ma anche per i più svariati processi industriali: se la metà dell’intera superficie della Gran Bretagna fosse stata ricoperta da foreste di alberi da ardere, avremmo potuto costruire 1,25 milioni di tonnellate di tondini di ferro l’anno (una frazione dell’attuale consumo) e niente più. Anche se la popolazione fosse stata inferiore a quella di oggi, i prodotti di un’economia agricola sarebbero stati prerogativa esclusiva delle élite. Una produzione energetica completamente verde – decentralizzata, basata sui prodotti della terra – è di gran lunga più nociva all’umanità della fusione nucleare. In ogni caso, la risorsa energetica a cui farebbe ritorno il maggior numero delle economie qualora si chiudessero le loro centrali nucleari non sarebbe il legno, né l’acqua, né il vento e neppure il sole, bensì i combustibili fossili. Il carbone è cento volte peggiore dell’energia nucleare sotto ogni punto di vista (il cambiamento del clima, l’impatto delle miniere, l’inquinamento a livello locale, i danni e le morti industriali, perfino gli scarichi radioattivi). Grazie all’espansione della produzione di gas di scisto, gli impatti dei gas naturali stanno rapidamente riconquistando il terreno perduto. Sì, detesto ancora i bugiardi che dirigono l’industria nucleare. Sì, preferirei veder chiudere l’intero settore se ci fossero alternative meno dannose. Ma non ci sono soluzioni perfette. Ogni tecnologia energetica comporta un prezzo da pagare, come pure l’assenza delle tecnologie energetiche. L’energia atomica è stata appena sottoposta a uno dei test più duri possibili, e l’impatto sugli esseri umani e il pianeta è stato contenuto. La crisi di Fukushima mi ha convertito alla causa dell’energia nucleare.
L’energia assomiglia alle medicine: se non ha effetti collaterali molto probabilmente non funziona. E questo vale anche per le rinnovabili
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Due “conversioni” nella comunità internazionale dopo Fukushima
L’atomo fuggente Naoto Kan consiglia l’evacuazione
Giappone, è allarme per il reattore 3 due settimane dal terremoto/tsunami che ha devastato il nordest del Giappone e ha prodotto il più grave incidente nucleare dai tempi di Chernobyl, la situazione presso la centrale Fukushima-1 è lontana dall’essere sotto controllo. Questo l’allarmante messaggio lanciato dal primo ministro nipponico Naoto Kan, nello stesso giorno in cui il governo ha chiesto ai residenti nella fascia tra i 20 e i 30 chilometri dalla centrale di allontanarsi spontaneamente e ha ordinato l’apertura di un’inchiesta sul-
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l’allarme nucleare
26 marzo 2011 • pagina 29
La risposta del fisico teoretico tedesco che lavora al Cern di Ginevra
Io, nuclearista pentito «La Merkel ha fatto bene a chiudere due impianti. Tutti dovrebbero seguire il suo esempio» di Ralf Bont iamo di fronte a un bivio: mentre il Giappone combatte con l’escalation della tragedia nucleare dobbiamo tornare a parlare di energia atomica. Ma non per questo dobbiamo farci prendere dalle emozioni, nè rimanere insensibili. Già abbiamo sentito slogan azzardati come “Fukushima è dappertutto”, e assistito al tentativo, nel corso di una manifestazione spontanea davanti alla Porta di Brandeburgo a Berlino, di strumentalizzare le immagini dal Giappone per mettere in guardia sui rischi del nucleare. Ci sono stati accesi dibattiti pubblici in Germania. Su Tagesspiegel Klaus Hartung ha parlato del «desiderio di paura» (Angstlust) dei cittadini indignati, espressione con cui gli psicologi intendono la ricerca di esperienze di perdita immaginarie compensate da un rinnovato bisogno di sicurezza. E la decisione di Angela Merkel di spegnere immediatamente alcune centrali è stata definita in Germania e all’estero «insensata». A dire il vero, l’insofferenza verso l’indignazione dei cittadini è insensibile. Tenta a sua volta di distogliere dalla terribile minaccia che incombe su Tokyo. Peggio: è un subdolo attacco agli oppositori dell’energia atomica.
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per gli uccelli uccisi dalle pale eoliche. In confronto ai nemici dell’energia atomica, i suoi sostenitori sembrano più disinvolti e persino sexy. L’ambientalista inglese George Monbiot ha raggiunto l’apice nella tecnica dell’autoinganno, come dimostra l’articolo che ha scritto per il Guardian col titolo Why Fukushima made me stop worrying and love nuclear power. La sua argomentazione è semplice: «Un vecchio impianto malandato, con misure di sicurezza inadeguate, è stato colpito in rapida successione da un terremoto devastante e da uno tsunami. L’erogazione dell’energia elettrica è stata interrotta mettendo fuori uso il sistema di raffreddamento. I reattori hanno iniziato a esplodere e a fondere. Il disastro ha messo in luce qualcosa di ormai tristemente noto: cosa possano significare un progetto inadeguato e qualche scorciatoia di troppo. Eppure, per quanto ne sappiamo, nessuno è stato ancora esposto a una quantità letale di radiazioni».
La radioattività significa morte lenta. E malattie. Come si può chiederla in nome dell’ambiente? Cos’è questo desiderio di apocalisse?
la fuga di acqua radioattiva dalla centrale. Certo, il governo non ha motivato quest’ultimo provvedimento con rischi alla salute connessi a perdite di materiali radioattivi. Yukio Edano, il segretario di Stato che funge da portavoce dell’esecutivo di Tokyo, ha spiegato che gli approvvigionamenti di prodotti è diventato difficile nelle vicinanze della centrale. Tuttavia, il messaggio non è risuonato come positivo. La gravità della situazione è stata confermata anche dagli esperti internazionali, come quelli dell’Istituto francese per la protezione e sicurezza nucleare (Irsn), secondo cui la situazione nei primi tre reattori «è precaria» e questa precarietà «potrebbe durare settimane se non mesi». E mentre in Germania sono state trovate tracce di iodio radioattivo, dalla Francia Nicolas Sarkozy promette di chiudere le centrali nucleari che non passeranno gli ”stress test”che l’Unione europea ha deciso di effettuare.
I due concetti tedeschi di paura (Angst) e desiderio (Lust) sono di uso comune anche nella cultura anglosassone: l’espressione “desiderio di paura” è stata utilizzata anche dallo psicoanalista britannico Michael Balint. Nella lingua inglese invece già da qualche anno si è imposta l’espressione “rigirare la frittata” (flipping the tortilla), che indica la tecnica di rivoltare il senso di un argomento in modo tanto veloce che l’interlocutore non se ne accorge. Si passa dal sostenere un’argomentazione all’affermare il suo contrario, e spesso anche chi parla compie il passaggio senza rendersene conto. Si rigira la frittata quando si accusano le persone contrarie all’energia atomica di essere insensibili al destino di singoli individui umani e allo stesso tempo di desiderare inconsciamente la catastrofe che vogliono a tutti i costi evitare. Per eliminare il disagio si cerca di mettere a tacere un monito che echeggia da decenni: un circolo vizioso. Ma davvero ci può essere compiacimento nell’opposizione al nucleare? Gli oppositori compiaciuti sono anche contrari alla fusione del nocciolo e si disperano
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All’autore non manca certo il cinismo. Monbiot scriveva mentre i pompieri giapponesi rischiavano la vita per proteggere Tokyo, mentre la centrale continuava a emettere radiazioni, mentre gli abitanti di Fukushima guardavano dai loro rifugi la loro terra distrutta per generazioni, mentre l’acqua dei rubinetti di Tokyo diventava imbevibile e nel reattore 3 il plutonio è ancora fuori controllo. C’è da sperare che migliaia di tonnellate di acqua marina riescano a contenerlo, anche se poi finirebbero per contaminare l’oceano. Ancora non abbiamo idea di quali possano essere le conseguenze di questo disastro. La radioattività significa morte lenta e i giapponesi intervistati in strada non nascondono la loro paura, anzi, meglio dire la loro preoccupazione. La radioattività porta delle malattie, e non lo dico in preda ad un “desiderio di paura”. Mi chiedo cosa spinga da decenni alcuni difensori dell’ambiente a salire sull’Arca di Noè e suonare le trombe. Desiderio dell’Apocalisse? Attrazione per l’abisso, desiderio di essere salvati? In Germania ci sono cose buone e cose cattive, e le scelte di Angela Merkel rientrano nella media. Ma il prossimo incidente sarà molto diverso. È una cosa buona che un paio di centrali nucleari siano già state spente. Adesso speriamo che siano sorvegliate a dovere.
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il personaggio della settimana Partenopeo del Vomero, si dice viva «in ufficio dall’ora del cappuccino fino a mezzanotte»
L’enfant prodige
Tutto quello che c’è da sapere su Mario Orfeo, l’uomo che, poco più che ventenne, aprì la Repubblica a Napoli. A 36 diresse Il Mattino e ora, dopo il Tg2, approda al “Messaggero“ di Maurizio Stefanini
Alcune immagini di Mario Orfeo, ex direttore del Tg2 che da lunedì prossimo dirigerà il quotidiano «Il Messaggero». Consderato ormai un enfant prodige, il suo curriculum parla chiaro: a 24 anni aprì la redazione napoletana di Repubblica; a 36 anni divenne direttore del Mattino, a 43 anni del Tg della seconda Rete
napoletani in Italia hanno fama di tira-tardi, il cognome potrebbe pure suscitare facili battute sul mitico aedo addormentatore al suono della lyra. Ma Mario Orfeo è appunto uno di quei personaggi che sembrano fatti apposta per essere sbattuti in faccia ai cultori di stereotipi stupidi, e nel giornalismo italiano si è invece segnalato come uno che fa le cose prima degli altri. Un napoletano verace, del Vomero. Ma uno sgobbone che dice di «vivere in redazione dall’ora del cappuccino fino a mezzanotte», anche se i pettegolezzi peraltro da lui smentiti hanno sempre detto che questa assiduità sul posto di lavoro non gli abbia mai impedito di «frequentare i salotti più quotati». E un enfant prodige, che in una professione spesso afflitta da cariatidi inamovibili è entrato nel mondo dei giornali appena diciottenne, dopo un diploma al Pontano, la scuola napoletana dei Gesuiti. Praticantato a Napolinotte, poi al Giornale di Napoli e al desk del mensile Itinerario, a 24 anni ha aperto la redazione napoletana di Repubblica. Ai 28 è approdato a Roma, come caposervizio politico della stessa Repubblica. Ai 34 si è segnalato come pupillo di Ezio Mauro, come caporedattore della redazione romana. A 36 è diventato direttore del Mattino. Ai 43 direttore del Tg2, su proposta del direttore generale Mauro Masi e con voto unanime del consiglio di amministrazione.
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E ora, a partire da lunedì, a 45 anni, nominato proprio nel giorno del suo compleanno, direttore del Messaggero. Una carriera premiata già nel 2007 col premio Ischia internazionale di giornalismo per l’informazione scritta. Eppure, malgrado il giovanilismo della sua biografia e il fatto di provenire da una scuola giornalistica sbarazzina e spesso gridata come quella di Repubblica, malgrado il fatto di dirsi sempre grato a Ezio Mauro e di volerlo considerare suo modello, il suo stile è piuttosto quello dell’autorevolezza, secondo la scuola dello storico Corriere della Sera. Lui stesso in Commissione di Vigilanza della Rai disse più volte di avere il Corrierone come modello del suo Tg2, e per questo procedette a un completo rinno-
vamento dello studio di cui fu un importante segnale di stile il ritorno dei mezzibusti seduti dietro alla scrivania. Dopo diversi anni di faticosa e ansiogena condizione in piedi. Nella stessa direzione va inteso anche il completo restyling del sito Internet: con notizie più leggibili, video, edizioni in tempo reale, archivio storico.
Anche al “Mattino”, d’altra parte, una volta arrivato aveva chiarito di volere «informazione equilibrata e linguaggio chiaro», più ancora di «qualche scoop», per fare del suo giornale il punto di riferimento del Meridione. Un giornale in grado di proporre «un’informazione globale», oltre a quella regionale e sportiva che costituivano il suo tradizionale punto di forza. L’autore di queste note ricorda un compagno di corso napoletano all’Università che nello spiegare la linea di quel quotidiano che era l’unico a comprare in un ateneo romano diceva: «È Dc, ma il lunedì 19 pagine su 20 sono destinate allo sport, 18 sulle 19 al calcio, e 17 sulle 18 al Napoli». Esagerava ovviamente, anche se era un po’ prima che 16 delle 17 venissero dedicate a Maradona… Ma pure sullo sport si può mostrare partigianeria o spirito istituzionale. Molti si ricordano ancora di Mario Orfeo quando lavorava alle pagine sportive del Giornale di Napoli, e litigava per telefono con chi faceva pressione per dedicare più spazio all’Avellino. «Premesso il massimo rispetto per la mia brava redazione, un mix di colleghi più anziani ed esperti e di giovani talenti molto in gamba, premesso ancora il desiderio di valorizzare e incrementare da una parte gli opinionisti più noti (Casavola, Calise, Mazzarella, Macaluso, Veneziani, Erri De Luca, Ghirelli…) e dall’altra lanciare nuove buone firme interne, in prima pagina e per le opinioni e i servizi più importanti», spiegò Orfeo al momento di insediarsi, «di mio vorrei aggiungere per il Mattino una omogeneità di stile. Vedo il giornale come un racconto quotidiano divulgativo, con inchieste, dibattiti e confronti di idee, retroscena, rivelazioni se possibile, spiegazioni… Critico all’occorrenza, comunque riflessivo. Aggiungendo
26 marzo 2011 • pagina 31 dovrebbe ritrovare la passione e l’orgoglio di essere servizio pubblico. Un’informazione pluralista e completa che permetta al telespettatore di formarsi autonomamente un’opinione». E a chi gli chiedeva se c’era un voluto sforzo per distinguersi dal Tg1 di Augusto Minzolini, rispondeva: «Io rispondo del Tg2, che dirigo. Però vedo un po’ di partigianeria di troppo, in certi notiziari Rai. E non credo sia nostro compito sostenere una parte o l’altra, né mettersi a fare il tifo. Il servizio pubblico, insisto, è altro». Stesse critiche all’eccesso dei contenitori pomeridiani. «Penso soprattutto che per guadagnare qualche punto di share non si debba mai disattendere gli obiettivi del servizio pubblico radiotelevisivo». E quanto all’etichetta di “finiano” che è circolata: «Veramente non lo sono mai stato. Mi sono ritrovato così sui giornali. Ma non ho mai fatto parte del Movimento sociale italiano né di Alleanza nazionale. Non mi riconosco nell’etichetta e sono stato votato dall’intero Consiglio di amministrazione. Recentemente qualcuno ha ritirato fuori la definizione perché, sulla vicenda della casa di Montecarlo, ho dato tutte le notizie necessarie ma non ho partecipato ad alcuna campagna. E ho trattato le vicende giudiziarie di Berlusconi nello stesso modo: completezza ma senza cedere al gusto del buco della serratura. Mi considero un garantista e ho applicato questo metodo a tutti i recenti fatti a cavallo tra politica e giudiziaria».
sempre alle notizie nude e crude un approfondimento, per spiegare ai lettori il contesto». Mario Orfeo spiega che «alla formula del racconto» è «forse indotto» anche dalla sua passione per il cinema. Addirittura ha fatto una particina nel film di Antonio Albanese Il nostro matrimonio
Ha recitato anche una particina nel film di Antonio Albanese «Il nostro matrimonio è in crisi», nel ruolo del prete che sposa il protagonista è in crisi, nel ruolo del prete che sposa il protagonista. Chi ha studiato un po’ di storia del giornalismo italiano si rende in effetti conto che la «settimanalizzazione» della notizia attraverso l’affiancamento del commento e del contesto alla notizia fu proprio la rivoluzione nel mondo dei quotidiani fatta negli anni Settanta da Repubblica.
All’inizio per ragioni contingenti: Scalfari si era formato alla scuola dei settimanali, dal Mondo di Pannunzio all’Espresso; la prima Repubblica era un giornale con pochi redattori, che dove-
va preparare molto materiale in anticipo per poter riempire le pagine. Ma la scuola scalfariana aveva fatto di necessità virtù, trasformando la costrizione in vezzo e moda, e arrivando infine a dettare il modello quando ci si rese conto che proprio il progressivo spalmarsi delle notizie di radio e tv nel corso della giornata rendeva sempre meno importante l’originale funzione dei quotidiani dell’informazione, e sempre più cruciale invece l’altra missione della spiegazione. Fu infatti anche l’epoca della scomparsa dei giornali serali, e in questo senso fu altamente simbolico il decollo di Repubblica nel mentre falliva Paese Sera, con conseguente massiccio travaso di firme e lettori. La scuola di Repubblica, però, era anche quella del giornale-partito, e della spiegazione che era sempre più spesso sostituita dal diretto indottrinamento. E in ciò si può vedere quanto Orfeo da Repubblica ha preso; e quanto invece se ne è allontanato, in un momento in cui è la semplice imparzialità a essere sempre più rivoluzionaria.
«Noi tentiamo di evitare un compiaciuto eccesso di cronaca nera e diamo grande spazio agli avvenimenti internazionali. Forse per questo il presidente Napolitano scelse il Tg2 per concedere l’unica intervista politica, subito dopo l’attentato subito da Silvio Berlusconi a Milano in piazza Duomo», spiegò Mario Orfeo della sua linea editoriale in Rai. «In effetti vedo un eccesso di attenzione verso un certo tipo di cronaca nera e giudiziaria. Su un omicidio come quello di Sarah Scazzi c’è stata morbosità. Siamo stati gli unici a raccontare, denunciandolo in una nostra inchiesta, il terrificante mercato di fotografie e immagini che si stava svolgendo durante le indagini. Penso, insomma, che la Rai
Non è forse dunque un caso che Mario Orfeo lasci la Rai, nel momento in cui altri personaggi ben altrimenti tribunizi e vittimisti continuano invece ad imperversarvi. Eppure Carlo Verna, il segretario dell’Usigrai, questo addio al servizio pubblico lo saluta in tono tanto più allarmato, quanto più è stato fatto in stile dimesso e non allarmista. «Noi siamo sulla stessa linea d’onda del Comitato di redazione del Tg2; anzi, appena la notizia è apparsa sicura, ben prima che fosse ufficiale, abbiamo voluto sottolineare come si stesse per spegnere un’altra luce del servizio pubblico», ha detto. «Certamente Mario Orfeo ha fatto un buon Tg, certamente istituzionale, ma sicuramente un Tg in cui c’erano le notizie, diversamente dal Tg di Augusto Minzolini. Dunque il problema è evitare che si vada ad una omologazione del Tg2 rispetto all’asse Tg1; ovvero si arrivi nella condizione in cui sia tutto al servizio del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Noi temiamo che il successore di Mario Orfeo possa uscire da quello che abbiamo chiamato “il bussolotto del conflitto d’interessi”. Su questo c’è il richiamo di tutte le istituzioni, anche della stessa politica, a salvaguardia del servizio pubblico, sia di chi lavora all’interno del servizio pubblico sia dei cittadini che devono fruire, pagando un canone, di un servizio pubblico corretto. Noi chiediamo una massima attenzione ed, eventualmente, gli adeguati interventi su una situazione di questo genere. Ci sembra molto pericolosa perché si profila uno scenario del 75 per cento dell’informazione televisiva in Italia completamente appiattito sulle posizioni di Silvio Berlusconi; ricorderete tutti che, solo pochi giorni fa, ha detto “Mi difenderò in televisione”». E ancora: «Mario Orfeo è stato bravo. Sicuramente il vizio genetico ce l’aveva anche lui, e non c’è dubbio che ci fu una riunione a palazzo Grazioli all’interno della quale
Tra i vincitori, Antonio Manzo
Oggi a Viareggio il Premio «Piero Passetti» Il giornalista de Il Mattino Antonio Manzo è tra i vincitori del «Premio Cronista 2011-Piero Passetti», bandito dall’Unione Nazionale Cronisti Italiani, dall’Ordine dei Giornalisti e dalla Fnsi. Un riconoscimento prestigioso al lavoro di un professionista impegnato in reportage e inchieste delicate per il suo giornale. Sul Mattino Manzo, oltre ad aver firmato articoli importanti sulla criminalità, sulle inchieste della magistratura antimafia salernitana e sui fatti di cronaca che più hanno colpito la comunità salernitana, è anche l’autore dello scoop sul presunto killer di Angelo Vassallo, fornendo in anteprima nome, cognome e circostanze del delitto. Il Premio sarà consegnato oggi a Viareggio. Sono Anna Buttazzoni Messaggero Veneto) e Marco (M Messaggero.it ) i Giovannelli (M vincitori. «Buttazzoni - spiega l’Unione nazionale cronisti italiani - è stata premiata per i servizi sugli abusi nell’utilizzazione dell’auto blu di servizio da parte del Presidente del Consiglio regionale del Friuli Venezia, Giulia Edouard Ballaman. Giovannelli ha raccontato la storia della signora Ginetta, 91 anni, sotto sfratto. Il giorno in cui la signora viene ricoverata in ospedale, l’ufficiale giudiziario si introduce nell’appartamento e cambia la serratura». La Giuria ha attribuito riconoscimenti speciali messi a disposizione dalle più alte istituzioni ad Antonio CrispiStudio Aperto), Davide Diono (S Radio Vaticana ), Grazia nisi (R Rai Tg1), Claudio MaGraziadei (R rincola (IIl Messaggero), Antonio Manzo (IIl Mattino), alla redazione della testata online Mixa , L’Arena ), Alessandra Vaccari (L La Repubblica). Giovanna Vitale (L
furono decise delle cose; che poi, grosso modo, il Consiglio di amministrazione della Rai, che purtroppo non è indipendente a causa di una legge sulla governance che noi abbiamo sempre denunciato, ha applicato. Non ce l’ho con i singoli. Magari esprimeranno delle professionalità, e se liberi potrebbero fare anche bene, individualmente presi. È ovviamente dal meccanismo di governance che arriva l’attacco, per mettere il servizio pubblico direttamente sotto il controllo dell’esecutivo di turno: questa è in buona sostanza, la legge Gasparri».
«Il punto nodale è che Mario Orfeo, pur avendo questo “vizio genetico”in un contesto in cui comunque il Presidente del Consiglio doveva tener conto all’epoca delle varie anime della maggioranza, fu sicuramente partorito in quel tipo di clima. Ma in concreto si può fare il giornalista pur avendo avuto un mandato Cda una parte dalla politica, e che quindi ha questo vizio genetico. Noi speriamo che, in futuro, simili difetti possano essere eliminati, ma ognuno ha sempre la schiena che ha, e da questo punto di vista Mario Orfeo ha la schiena dritta».