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he di cronac
Pensa da uomo d’azione e agisci da uomo di pensiero Henri Bergson
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 31 MARZO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Caos in Parlamento, sedute fiume fino a venerdì per la norma che vorrebbe salvare il premier dal processo Mills
Crolla la maschera di Alfano Gravissimo comportamento in Aula di La Russa. Fini sospende la seduta Il Guardasigilli aveva detto «mai più leggi ad personam» ma rispunta la prescrizione breve. Casini dice: «È una vergogna». Il Pd insorge. E Napolitano: «Queste tensioni creano sfiducia» LO SHOW DI LA RUSSA
VOLTAFACCIA
Ora il ministro si deve dimettere
Riforma tradita: di epocale c’è solo il raggiro
ue cose semplici. Come si comporta un ministro della Difesa che scorge un drappello di esagitati davanti a Montecitorio? Da persona responsabile chiede alle forze dell’ordine (i carabinieri dipendono da lui) di far arretrare giusto di qualche metro i contestatori. Non si sporge fuori a sfidare le provocazioni. La Russa ieri ha scelto la seconda opzione. Non solo. Perché rientrato in aula, in uno stato di visibile alterazione, lo stesso ministro combina il secondo capolavoro: si dimena con sguaiataggine degna degli ultras appena affrontati, quindi rifiuta i richiami all’ordine e prende a parolacce il presidente della Camera, ossia tutta l’assemblea. Due indizi stavolta fanno una prova: un ministro così deve dimettersi.
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L’affaire assicurazioni
Quando i Generali giocano a risiko
Breve. Così deve essere il processo che contiene la norma sulla prescrizione breve.
Giancristiano Desiderio • pagina 2
I testacoda di via Arenula
Il voto sul caso Ruby
di Gianfranco Polillo
Angelino, il delfino è inciampato su un Lodo
Il leader Fli super partes: «Sul conflitto voti la Camera»
Nella sfida che si sta consumando a Trieste, l’unica vittima rischia di essere l’economia italiana
Marco Palombi • pagina 4
Gualtiero Lami • pagina 5
pagina 8
«Trasferiremo tutti i clandestini e risarciremo i cittadini per i disagi»: le promesse del Cavaliere
È arrivato un Berlusconi carico di miracoli Il premier sbarca sull’isola: «Risolverò io tutti i problemi in due giorni» di Francesco Lo Dico
Il presidente siriano parla alla nazione
Tutte le ipotesi di fuga per Gheddafi
ROMA. È il solito Berlusconi
Assad all’attacco: «Una congiura, la sconfiggeremo»
Sarà a Caracas l’esilio del Colonnello?
di Vincenzo Faccioli Pintozzi
di Antonio Picasso
a Siria «è al centro di una congiura che ha due teste, una interna ed una esterna. Ma noi non ci faremo intimorire, e sconfiggeremo gli autori di questa infamia». Sceglie di giocare in attacco Bashar al-Assad, presidente siriano, che ieri mattina si è recato al Parlamento nazionale di Damasco per un discorso, rivolto alla nazione, che avrebbe dovuto chiarire la situazione del Paese sconvolto da sanguinose proteste di piazza. Accolto da una raffica di applausi e di slogan a suo favore scanditi dai deputati. a pagina 15
e dinamiche politiche della crisi libica si spostano in Estremo oriente. Ieri, il summit sino-francese di Pechino si è concentrato quasi unicamente sul futuro del Paese nordafricano. Il premier cinese, Hu Jintao, ha accolto il presidente Nicolas Sarkozy con lo stesso atteggiamento di rigidità assunto dai suoi diplomatici fin dall’inizio dei raid. La Cina ha ribadito che Odissey Dawn, così come si sta sviluppando, è andata oltre le direttive della risoluzione 1973 dell’Onu. Riaprendo la polemica. a pagina 12
dei miracoli quello che sussurra dinanzi al popolo di Lampedusa. «Sono già iniziate al molo le operazioni di imbarco dei migranti. In 48-60 ore Lampedusa sarà abitata soltanto dai lampedusani». Quaranta, sessanta ore. Un tempo lunghissimo, per uno abituato a risolvere ogni calamità con un semplice schiocco delle dita. Basti pensare ai miracoli di Napoli! Dinanzi al palco allestito davanti al Municipio dell’isola, il premier si è scusato per l’inconsueto ritardo: «Il presidente del Consiglio non è venuto prima perché ha il vezzo, l’abitudine, di risolvere i problemi. E fino a ieri sera non avevo la soluzione chiara». a pagina 10 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
L
NUMERO
62 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
L
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la polemica
prima pagina
La maggioranza ha già tradito la riforma
pagina 2 • 31 marzo 2011
Ma di epocale c’è solo il raggiro di Giancristiano Desiderio reve. Brevissimo. Così deve essere secondo la maggioranza e il ministro Angelino Alfano il processo che contiene la norma sulla prescrizione breve per gli incensurati. Alla Camera l’ordine del giorno è stato invertito e se ci sarà voto, il processo Mills sarà breve, talmente breve da cadere in prescrizione durante l’estate. La cosa non desta stupore, ma se - per farla breve - si ricordano le parole del ministro della Giustizia e dello stesso presidente del Consiglio lo stupore è più che giustificato. Il ministro intervenendo ad Avezzano alla convention di «Noi riformatori» disse: «La riforma non serve a Berlusconi ma serve ai cittadini». Dopo aver ripetuto il concetto e aver sottolineato l’assenza di leggi ad personam o di emendamenti in corso d’opera, il ministro Alfano elencò i tre principi cardine della riforma costituzionale della giustizia: «Accusa e difesa devono essere alla pari e quindi devono essere giudicati da un giudice imparziale. Oggi pm e giudici si danno del tu e hanno stessi uffici e uguale Csm. Se poi un magistrato sbaglia, come per i medici e gli avvocati deve essere responsabile. Inoltre, se la magistratura deve essere autonoma dai poteri, deve essere anche senza alcuna influenza interna e, quindi, devono essere giudicati da un organismo terzo». Tutti principi sacrosanti che i moderati non hanno alcuna difficoltà a sottoscrivere ed approvare. Pier Ferdinando Casini ha detto con chiarezza che sulla giustizia si ha l’obbligo di andare a vedere che cosa vuole fare il governo perché la riforma dell’ordinamento giudiziario è necessario e attesa dalla vita civile e penale degli italiani coinvolti o meno in aule giudiziarie. Ma, purtroppo, i principi sono una cosa e gli obiettivi del governo sono un’altra. Il ministro Alfano parla bene e razzola male. Declama alti principi giuridici come se ascoltasse lo spirito di Montesquieu e poi pensa che tutto sommato nello “spirito delle leggi”si può sempre introdurre una legge personale per salvare il capo del governo dal processo Mills. Così stanno le cose.
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La riforma della giustizia è una copertura. Angelino Alfano ha fatto un semplice calcolo: si parta pure con una giusta riforma della giustizia e si mandi avanti il lavoro parlamentare dialogando con l’opposizione, poi al momento opportuno si colga l’attimo e si inserisca ciò che effettivamente preme al Pdl e al premier. È una furbata mascherata da grande politica. Ma sempre furbata è. Del resto, se il premier avesse voluto davvero una riforma costituzionale della giustizia l’avrebbe fatta subito quindici anni fa parlando, come sa fare, direttamente agli italiani. Invece, la riforma è sempre rimasta al palo ed è saltata fuori ogni volta Berlusconi l’ha ritenuta valida per far passare leggi ad personam. Diciamola tutta: ciò che più disturba in questa commedia non è il realismo politico, ma il dilettantismo. Una legge ad personam per salvare un leader politico è accettabile se quello stesso leader politico ha mostrato al suo Paese e non al “suo”popolo - di saper fare leggi valide per tutti e capaci di riformare in senso garantista e liberale un ordinamento giudiziario che ha più di una lacuna e distorsione. Invece, Berlusconi proprio su questo tasto così delicato per lui si è mostrato maldestro e del tutto incapace di rischiare. La riforma della giustizia l’ha sempre pensata in modo strumentale e mai istituzionale. Se avesse voluto la riforma l’avrebbe fatta in pochi mesi e con il consenso di una buona parte dell’opposizione. e invece il suo pensiero è stato impostato così: se la riforma si porta dietro i miei interessi diretti bene, altrimenti non mi interessa. Il ministro Alfano ha letto nello stesso libro.
il fatto Caos alla Camera: alla fine La Russa insulta Fini che sospende la seduta
Il colpo di mano ad personam Il Pdl ottiene una corsia preferenziale per la prescrizione breve. Opposizioni in rivolta. Casini: «È una vergogna» Napolitano: «Le tensioni creano sfiducia» di Errico Novi
ROMA. Cedono gli argini. Cadono le maschere. In nome del processo breve la maggioranza rinuncia a tutto. In un giorno solo. Alla dignità istituzionale, alla credibilità, in particolare a quella del guardasigilli Alfano. Si mette in gioco persino la linea del governo di fronte alla spaventosa crisi di Lampedusa. Tutto appunto per dare il previsto colpo d’acceleratore alla Camera sulla “ragionevole durata dei processi”, la legge arricchita con l’emendamento sulla prescrizione breve. Non intende perdere un minuto, l’asse Pdl-Lega, e così in mattinata fa prima andare a vuoto l’ultimo passaggio in commissione Giustizia (al “comitato dei nove”, per l’esattezza) e poi chiede e ottiene l’inversione dei lavori: si accantona la controversa ”legge comunitaria”, quella infarcita della responsabilità civile dei giudici, passa in pole position il processo breve. L’elemento scenico più triste consiste però nel fatto che per ottenere il via libera dell’aula sul cambio dell’agenda, il governo coopta i ministri praticamente al gran completo (Berlusconi e Maroni a parte). Inchioda allo scranno dell’approvazione ad personam, appunto, anche il ministro della Giustizia. Angelino Alfano assiste inerte e silenzioso alla smaltimento indifferenziato della sua “grande, grande riforma”. Le astuzie legislative, i provvedimenti mirati, aveva detto solo due settimane fa, sarebbero stati spazzati via dal suo disegno costituzionale. Si verifica esattamente il contrario.
L’irruzione dell’ultima leggina ridicolizza le buone intenzioni del guardasigilli. Ridimensiona lui stesso. Esaltato come talentuoso aspirante successore baciato pure dal dono della prudenza, Alfano ricasca suo malgrado nel ruolo di «appendice del collegio difensivo di Berlusconi», secondo l’epitaffio della pd Donatella Ferranti. Assiste al blitz di Pdl e Lega in aula, e soprattutto vi contribuisce con il suo voto. Due delle votazioni di giornata, infatti, vanno lisce per la maggioranza proprio grazie all’apporto decisivo dei deputati-ministri. Quella che sancisce l’inversione nell’ordine dei lavori passa con quindici voti di distacco. Messo in salvo grazie ai membri dell’esecutivo anche il pronunciamento sulle eccezioni di costituzionalità, presentate dall’udc Roberto Rao e da altri esponenti dell’opposizione: 308 a 292. «Sapete cosa sarebbe andato in discussione se non ci fosse stata l’inversione dei lavori? La legge comunitaria con la responsabilità civile dei giudici», tenta di minimizzare Alfano in transatlantico, «quindi l’opposizione si sarebbe indignata lo stesso, oggi c’era un’indignazione programmata».
Maggioranza costretta a cooptare i ministri. «Frattini sta qui a votare anziché arginare il disastro diplomatico», infierisce Bocchino
Sarà. Intanto nell’emiciclo di Montecitorio, in mattinata, si produce un’indimenticabile scena madre. Dario Franceschini, Pier Ferdinando Casini, Benedetto Della Vedova mostrano uno sconcerto, una rabbia che non pare mandata a memoria da un copione. Il capogruppo dei democratici accende la miccia che trasforma l’aula in
il voto
Fini: «Sul caso Ruby deciderà l’Aula» «Situazione senza precedenti»: e il presidente della Camera si dimostra super partes di Gualtiero Lami
ROMA. Il conflitto di attribuzione sul perquisizione domiciliare rispetto alla caso Ruby andrà in Aula. Lo ha deciso il presidente della Camera Gianfranco Fini durante la riunione di ieri dell’ufficio di presidenza ancora prima che si tenesse la votazione. Fini aveva espresso la sua posizione dopo aver illustrato le conclusioni a cui sono pervenute la Giunta per le autorizzazioni e la Giunta per il regolamento ed aver richiamato alcuni precedenti rispetto ai quali il caso Ruby si presenta per certi aspetti come un «unicum». La Giunta per il regolamento, che si era riunita martedì pomeriggio, non aveva votato ma la maggioranza dei componenti (sei dell’opposizione contro i cinque di Pdl, Lega e Responsabili) si era espressa contro il passaggio in Aula del conflitto di attribuzioni. E dunque, nella sua relazione, Fini ha rilevato come la composizione dell’Ufficio di presidenza veda di fatto la prevalenza numerica delle opposizioni rispetto alla maggioranza, il che costituisce un fatto di «assoluta novità» rispetto ai precedenti in materia. Secondo Fini va considerato che la richiesta avanzata si collega «alla deliberazione dell’assemblea del 3 febbraio scorso sulla domanda di autorizzazione all’esecuzione di una
maggioranza dell’ufficio di presidenza della richiesta di elevare il conflitto, su questa si sarebbe dovuta comunque pronunciare l’Aula. Se invece fosse prevalso nello stesso organismo un orientamento contrario e fosse passata la decisione di non sollevare il conflitto in questione, il quesito che sarebbe stato posto ai deputati sarebbe stato rovesciato: «Volete non elevare conflitto di attribuzione?». A questo punto, il voto in Aula alla Camera, avverrà, in modo palese, per alzata di mano oppure con il sistema elettronico ma senza registrazione dei nomi. Non saranno ammessi emendamenti, ordini del giorno o altri «strumenti accidentali» che possano rallentare la fretta della maggioranza. Fini ha «dimostrato quel senso dello Stato e delle istituzioni che voi avete rifiutato con l’ennesima forzatura parlamentare» ha commentato il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, alla maggioranza che aveva appena chiesto di anticipare il voto sul processo breve.
quale è prospettata come strumento per assicurare una tutela effettiva alla volontà precedentemente manifestata dall’assemblea». Inoltre, la composizione dell’ufficio di presidenza vede la prevalenza numerica delle opposizioni rispetto alla maggioranza, «ciò che costituisce un tratto di assoluta novità rispetto ai precedenti».
Nel primo pomeriggio, poi la votazione: il presidente della Camera ha deciso di non partecipare alla vota-
A questo punto, la Camera voterà a scrutinio palese senza la possibilità di ordini del giorno che “rallentino” la decisione zione ed i numeri dei componenti di maggioranza e di opposizione sono diventati 9 a 9 per l’assenza di Angelo Lombardo dell’Mpa, che avrebbe portato a 10 gli esponenti dell’opposizione. Se ci fosse stata l’approvazione a
una bolgia: «Dov’è l’urgenza di varare il processo breve? Significa mandare in prescrizione migliaia di processi, liberare i criminali, lasciare impuniti imputati di violenza carnale solo perché incensurati». La voce di Franceschini si fa impetuosa e l’aula si divide tra fischi e applausi: «Ministro Bossi, lei e i suoi deputati, cosa racconterete ai popoli padani? Che quando si tratta di difendere il presidente Berlusconi si passa pure sopra la sicurezza?». Bossi – come Alfano e, incredibile a dirsi, il pur impegnatissimo Frattini – sta lì e assiste silenzioso all’attacco: «La visita di Berlusconi a Lampedusa è servita solo per coprire il processo breve. Se non avete la forza morale per fermarvi, almeno provate vergogna dentro di voi per una pagina buia della Repubblica».
Quella parola, «vergogna», risuona tonante dall’ala
tra i giovani, disorientamento e sfiducia». Nella nota del Colle c’è modo anche di ricordare un paio di istituti da ristrutturare con urgenza (senza ardite sfide costituzionali) come la conciliazione obbligatoria e le procedure per lo smaltimento civile. Si tratta di quelle bonifiche dell’ordinamento rimaste escluse anche dalle buone intenzioni del guardasigilli. Le priorità sono altre, provvede a rammentare a sua volta Berlusconi: da Lampedusa il premier trova il modo definire il processo breve «una legge sul processo europeo che abbia tempi certi come ci chiedono l’Ue e i cittadini». Nessun imbarazzo. Anzi solito contrattacco sul caso Mills: quello sì che, per il presidente del Consiglio, è «una vergogna».
Nel frattempo a Roma i suoi marines si tengono stretta la conquista giornata. Fini raddoppia i tempi d’intervento dell’opposizione, anche per rimediare al pasticciaccio della maggioranza nel comitato dei nove, perciò
al voto finale sulla legge Paniz si arriverà non prima di domani, forse addirittura a inizio settimana prossima. Viene scavallato sempre grazie al differenziale dei ministri anche il voto sulla richiesta di sospensiva (306 a 290). Se gli uomini del governo stanno allineati e coperti tra i loro scranni, nella temibile giungla dei ”responsabili”si ode più di un rumore sinistro. Berlusconi a un certo punto deve chiamarli per assicurare che a giorni saranno colmati i posti da viceministro e da sottosegretario che ingolosiscono gli Scilipoti e i Catone. Tutto nel giorno in cui il ministro degli Esteri, come ricorda tra gli altri Bocchino, dovrebbe occuparsi del disastro diplomatico in cui l’è precipitata l’Italia: «Mentre il mondo ci sbatte la porta in faccia Frattini sta in aula a votare un’inversione dell’ordine del giorno. Gli altri capi delle diplomazie decidono cosa fare in Libia, il nostro si occupa di pregiudiziali al processo breve». Disarmante. E rivelatore dell’altro aspetto depressogeno della giornata: quasi sembra che il governo colga la doverosa visita di Berlusconi a Lampedusa non per inseguire una soluzione all’emergenza ma per usarla come scudo mediatico al blitz sul processo breve.
sinistra dell’emiciclo. La grida con corale sincronismo l’opposizione.Visto che l’evocazione dello stadio è la sola emozione capace di scuotere la maggioranza, dall’altra parte trovano lo scatto per reagire almeno nell’urlo: «Buffoni buffoni». Gianfranco Fini presiede allibito, minaccia la sospensione. Si placa appena il concerto, ma il senso dell’indignazione non svanisce e Casini inevitabilmente lo scaraventa sul capo del malcapitato Alfano: «Si era impegnato a togliere di mezzo provvedimenti minimali e ad personam in cambio di un dialogo sulle Insieme ai processi del premier, il “rito abbreviato” studiato ad riforme, e invece ecco spuntare come funghi, nel personam dal Pdl mette a rischio estinzione una fetta imporgiro di una settimana, proprio quei provvedimentante dei procedimenti in corso. A Napoli potrebbero finire anti che servono solo a placare le ossessioni giudizitempo Calciopoli e Farmatruffa, ma anche migliaia di procesziarie del premier. È davvero una vergogna». La si meno noti ma altrettanto decisivi:ad esempio quelli per omiparola fatale ritorna. Casini è il primo a ricordare cidio determinato da colpa medica o da violazione della normaanche la contrapposta correttezza di Fini, grazie tiva sugli infortuni sul lavoro, i processi per contrabbando e al quale l’ufficio di presidenza assegna all’aula il truffe anche gravi collegate al reato di associazione per delinvoto sul conflitto di attribuzioni per il caso Ruby. quere, e anche quelli per frodi, truffa, traffico e smaltimento di «Voi fate questa forzatura proprio nel giorno in rifiuti pericolosi. Laddove ci siano molti imputati, i danni pocui il presidente della Camera dà prova di senso tranno risultare ancora più gravi: sono a rischio procedimenti delle istituzioni». per associazione a delinquere finalizzate alla ricettazione di assegni bancari, alla ricettazione e messa in commercio di merce Non c’è appello alla responsabilità che tenga. contraffatta con falsi marchi, alla commissione di una numerosa serie di reati di ricettazione di ricette mediche, falso e truffa Nemmeno quello di Napolitano, che invia un mesin danno del servizio sanitario nazionale. A rischio anche il saggio al Consiglio nazionale forense: sarebbero processo a carico del presidente della regione Antonio Bassoliauspicabili, ricorda agli avvocati il Capo dello Stano (32 imputati per truffa aggravata, frode in pubbliche fornituto, «iniziative condivise tese a migliorare la funzionalità del sistema giustizia e a rimuovere le tenre, abuso di ufficio, gestione abusiva di rifiuti ed altre numerosioni anche istituzionali che finirebbero per alise imputazioni, con 500 testimoni ammessi). mentare nell’opinione pubblica, e specialmente
Ecco tutti i processi cancellati dalla norma
Bersani lo denuncia senza esitazioni: «Abbiamo capito stamattina a cosa serviva il viaggio del premier: a togliere i riflettori di qua, dove per salvare una persona si buttano a mare centinaia di processi. È la smentita intollerabile delle solenni parole pronunciate quindici giorni fa dal ministro della Giustizia, che non so con quale faccia possa presentarsi agli italiani dopo aver promesso il ritiro delle leggi ad personam». Almeno si scansa la fiducia: «Quella sarebbe inspiegabile», si arrendono i capigruppo di maggioranza. Il Pd convoca un sit-in di protesta davanti a Montecitorio. Si unisce una rappresentanza del cosiddetto popolo viola che rischia di far degenerare tutto quando costringe La Russa a entrare dall’ingresso secondario sotto una tempesta di monetine. Il ministro una volta dentro si sfoga con Fini con un plateale «vaffa» dopo l’ennesimo richiamo all’ordine. Ma a proposito di toghe e processi, è Della Vedova a pronunciare la più amara delle verità: «Non so se ci sono giudici stalinisti come dice Berlusconi. Ma so che se ce n’è anche uno solo, comunista e contrario alla riforma, quello oggi sta stappando bottiglie di champagne».
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l’approfondimento
Dagli esordi nella scia di Miccichè alla conquista della ribalta come ministro: luci, ombre e contraddizioni di Alfano
Il testacoda di Angelino Dopo aver scritto il suo nome su lodi e leggi che tentavano di risolvere i problemi giudiziari del premier, il Guardasigilli ha tradito la riforma “epocale” che doveva essere per tutti: storia di un delfino che rischia di naufragare di Marco Palombi
ROMA. Ieri a Lampedusa è sbarcato Silvio Berlusconi per confortare, tranquillizzare, promettere e amministrare. Negli anni Ottanta, invece, quando si aprì il portellone del traghetto, ne scese una Vespa con due giovani liceali a bordo per quella che resta agli atti come la loro vacanza più felice: si chiamavano Angelino e Tiziana. Oggi sono sposati, hanno due figli e lui ha mantenuto assai più delle promesse di potere che portava nel sangue agrigentino: è ministro della Giustizia, il più giovane della Repubblica, e s’è piazzato pure in pole position nella successione all’uomo che l’ha innalzato al cielo, cioè lo stesso Cavaliere. Classe 1970, la politica è stata il suo pane da sempre: dal padre ha ereditato non solo il nome, che peraltro è pure quello di suo nonno, ma anche la passione per la cosa pubblica. Angelo Alfano, il genitore, fu vicesindaco di Agrigento, rentier democristiano abbastanza placidamente assiso all’ombra della valle dei Templi e della fa-
ma del più famoso figlio dell’antica Girgenti, Luigi Pirandello. Sarà forse per questa incolpevole conterraneità che al rampollo, Angelino, detto “Angelino Jolie”, viene naturale interpretare diverse parti in commedia. Da quando s’è seduto sulla sua ingombrante scrivania di via Arenula, protetto da una statuetta della Madonna con l’acqua di Lourdes e dalle foto dei cari, non passa mese che non debba preoccuparsi della difficile situazione giudiziaria del capo, mentre pretescamente amministra la dolcezza concordataria che gli deriva tanto dalla democristianitudine che dalla sicilianità. Con una mano promette riforme, con l’altra sforna leggine. È uomo portato all’ascolto, Angelino, e alla rassicurazione, alla promessa, al difficile lavoro di cucire insieme le esigenze più diverse, eppure mentre canta i salmi, gli tocca pure di portare la croce. Andrebbe ancora bene se quelle due assi di legno fossero le sue, cristianamente le accetterebbe, solo che novel-
lo Cireneo le porta per l’unto del Signore, rincarnatosi in Brianza settanta e più anni fa.
Non era così che doveva andare. Angelino, figlio di Angelo e nipote di Angelino, era destinato alla placida tranquilla navigazione d’un democristiano 2.0: addestrato all’arte del consenso dolce fin da fanciullo, secchione moderato, collaboratore del settimanale della Curia L’amico del Popolo e autore sotto pseudonimo (lo ha rivelato Il Venerdì) di noterelle e com-
La sua legge «epocale» si è trasformata presto in una «ghedinata»
menti per il quotidiano La Sicilia, si vanta di aver stabilito al liceo classico Empedocle il record di preferenze alle elezioni per il consiglio di istituto. Erano gli anni in cui guardava affascinato, ben incistato nel movimento giovanile Dc della Sicilia occidentale, l’avventura d’un vulcanico sindaco di Palermo del suo partito, Leoluca Orlando, «una carica incredibile e una grande volontà di cambiamento». Poi hanno preso altre strade, come d’altronde i giovani leader dello scudo crociato d’allora Dario Franceschini e Enrico Letta. Angelino, però, mentre in Sicilia esplodono le bombe studia a Milano, all’università Cattolica: si laurea in legge nel 1992 col professor Realmonte con una tesi dal titolo «Associazioni non riconosciute: i partiti politici». Nel frattempo scoppia pure Tangentopoli: Gaetano Trincanato, capocorrente di papà Angelo, incappa in qualche inchiesta e il signor Alfano senior perde potere insieme al suo protettore. Poco male, Angelino è pron-
to: nel 1994, ventitreenne, aderisce a Forza Italia e viene notato da Gianfranco Micciché che lo candida al consiglio provinciale di Agrigento. È l’inizio della scalata: tre anni dopo arriva il potere vero, deputato all’Assemblea regionale siciliana. Il Giornale di Sicilia lo prende bonariamente in giro («Mamma, vado a fare l’onorevole»), al comune di Sant’Angelo Muxaro lo accolgono con una pioggia di petali di rosa, ma gli uscieri di palazzo dei Normanni – che pesano il potere, ma cui evidentemente manca la capacità previsiva – al suo arrivo non lo riconoscono: «Per entrare mi fecero fare un giro assurdo». Poi, però, diventa quasi subito capogruppo. Il futuro Guardasigilli, a questo punto, è già in atto, la sua scissione, il suo io diviso, l’uno nessuno e qualche decina: è un astro del partito di Marcello Dell’Utri, uno secondo cui la mafia non esiste, ma conserva certe giovanili pulsioni movimentiste («la mia unica ideologia è quella antimafiosa», so-
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«Un premier azzoppato, un Guardasigilli screditato e il partito diviso»: l’allarme del politologo
«Ormai la maggioranza si sente come Gheddafi: accerchiata» «Il Pdl oggi è assediato e quindi non ragiona. Così stanno perdendo credibilità anche nei confronti della Lega» dice Paolo Pombeni di Franco Insardà
ROMA. «Un premier azzoppato, un Guardasigilli screditato e il Pdl diviso da lotte intestine. È una situazione molto preoccupante e destinata a durare per qualche anno», è questa in sintesi l’analisi del politologo Paolo Pombeni. Il ministro Alfano presentando la riforma della giustizia aveva dichiarato che avrebbe eliminato e bloccato i provvedimenti ad personam. Invece della riforma non si parla più e si va avanti su processo breve e responsabilità civile dei magistrati. È la spia della grande confusione che in questo periodo regna nella politica e nella maggioranza. Mi sembra fondamentalmente che il Pdl stia perdendo qualsiasi capacità di portare avanti una politica nazionale. È invece concentrato in una sorta di “sindrome di Gheddafi”: siamo assediati da tutti e quindi dobbiamo difenderci. Per portare avanti questa strategia alternano le sortite contro quelli che li attaccano ai proclami di cessate il fuoco. Come giudica questa strategia? Non mi sembra molto intelligente, anzi segna un regresso rispetto alle capacità che il Pdl aveva mostrato in altre occasioni. In questo momento stanno perdendo credibilità anche nei confronti della Lega, perché non sono più nella posizione dominante come lo erano dieci anni fa. All’orizzonte si stanno affacciando altre alternative, rispetto alle quali molti del Pdl fanno di tutto per accreditare l’immagine di essere semplicemente gli ascari del premier. E spesso alcuni sono più realisti del re. Anche il ministro Alfano? L’episodio di ieri lo inserirei nella lotta interna al Pdl per acquisire meriti agli occhi del Cavaliere e i movimenti che ci sono vanno in questa direzione: dall’accantonamento di Bondi al movimentismo degli ex An. Nel gruppo dirigente del Pdl c’è un grande fermento per assicurarsi i posti migliori e qualcuno pensa così di poter fare buona politica. Ma questi sono segnali di debolezza e Berlusconi, che è la vittima principale di questa situazione, dovrebbe essere il primo a chiedere a tutti di rientrare nei ranghi. La gestione della delicata materia della giustizia dovrebbe essere lasciata al Guardasigilli e al presidente del Consiglio con una linea molto chiara e non alle sortite parlamentari degli ascari. Il Guardasigilli non ci fa certamente una bella figura. Eppure Angelino Alfano aveva ricevuto molti apprezzamenti anche dai media e da più parti veniva indicato come uno dei possibili successori del premier.
È la conferma di una mancanza di strategia politica, che senso ha indebolire in questo momento la figura di Alfano, considerato addirittura il possibile delfino di Berlusconi, ridotto, invece, a una
«L’unico processo rischioso per Berlusconi è quello per il caso Ruby perché colpisce l’immaginario»
specie di vaso di coccio tra il premier e i servilismo dei suoi ascari parlamentari. Alfano, secondo lei è soltanto vittima di questa lotta nel Pdl o forse è stato politicamente sopravvalutato, visto che anche negli altri tentativi salva-Berlusconi non aveva avuto molta fortuna: lodo Alfano bocciato dalla Consulta, lodo costituzionale insabbiato in Senato, legittimo impedimento? Certamente dimostra una sua debolezza, visto che non riesce a imporre la sua posizione. E questa debolezza per uno che punterebbe a fare il delfino è un segnale molto negativo. Pier Ferdinando Casini ha parlato di provvedimento che serve a placare le ossessioni giudiziarie del presidente del Consiglio. Può anche essere, ma ritengo che nel momento in cui Berlusconi trae profitto dall’immagine del perseguitato non credo che sarebbe particolarmente colpito da una condanna in primo grado, se mai dovesse arrivare. La presenza in tribunale ha dimostrato che può essere anche vantaggiosa per il Cavaliere, visto che la trasforma in eccellente palcoscenico. L’unico processo rischioso per il premier è quello per il caso Ruby. Perché? La questione tocca l’immaginario collettivo e la sua immagine rispetto all’opinione pubblica. Gli altri sono reati che, a parte una componente più politicizzata, interessano meno la maggioranza dei cittadini. L’affossamento della riforma della giustizia potrebbe essere un pericoloso precedente per qualsiasi altra? È un tipo di analisi molto probabile, perché se Berlusconi si lascia sfilare di mano l’ipotesi di fare una seria riforma della giustizia, una delle poche cose che gli potrebbero rendere un ritorno d’immagine forte, vuol dire che ha perso la capacità di ragionare di politica e si fa azzoppare sulla possibilità di qualsiasi altra riforma futura. Che credibilità ha ormai il nostro governo sia in Italia che all’estero? Le vicende libiche hanno messo a nudo il peso che il nostro esecutivo ha in campo internazionale. La credibilità interna ormai è quella di un Paese dove si dà per scontato che esiste una divisione tra guelfi e ghibellini. Questa situazione per un governo è mortale e temo che faccia grande fatica a uscirne. E il tentativo di Berlusconi di risollevare la sua immagine andando a Lampedusa, così come ha fatto per il passato a Napoli e L’Aquila, può essergli utile? Penso che non avrà lo stesso effetto, perché sia a Napoli sia a L’Aquila in poco tempo si è scoperto che le cose dette e promesse non erano vere: il problema della spazzatura non si è risolto e in Abruzzo ci sono ancora le macerie.
stiene), è il delfino del paroliere di Mariano Apicella, ma è un fan sfegatato di Guccini (canzone preferita Argentina), promette riforme e sforna leggine.
L’assunzione al cielo del berlusconismo arriva nel 2001, a trent’anni: deputato a Roma e un ufficio a palazzo Grazioli proprio accanto a quello del capo. È il trionfo, che gli costa pure qualche invidia di troppo: la “mascariata”(cioè il tentativo di sporcarne l’immagine) è dell’anno successivo e passa da un video fatto circolare anonimamente. È il 1996: si vede Angelino arrivare in ritardo ad un matrimonio, salutare lo sposo il suo amico Francesco Provenzani - poi la sposa Gabriella e il padre di lei, Croce Napoli, il capomafia di Palma di Montechiaro. Il tentativo però va a vuoto: il nostro venne difeso persino da Giuseppe Arnone, militante antimafioso e suo acerrimo nemico ad Agrigento. L’astro del giovane Angelino continua a salire, fino a vette inimmaginabili, fino al ministero, fino all’alleanza con Renato Schifani per esautorare da Forza Italia siciliana il suo padrino politico, Gianfranco Micciché, fino alle mezze parole di Silvio Berlusconi: «Il prossimo premier sarà Angelino». Il suo curriculum di ministro, però, non è che sia brillantissimo: non si vuole qui parlare nemmeno della bontà in punta di diritto delle sue iniziative, ma dei risultati. A luglio 2008 s’affrettò subito a fare il Lodo Alfano per bloccare i processi: bocciato dalla Consulta. Poi fu la volta dell’appoggio al ddl intercettazioni (disperso sul fronte russo) e al processo breve (sul binario morto fino a ieri) e al legittimo impedimento versione Pdl (incostituzionale pure quello). Voleva fare la riforma della magistratura onoraria entro aprile 2009 e non si sa che fine abbia fatto, ha elaborato un piano carceri per cui ha chiesto in Consiglio dei ministri «tempo e soldi» (e Tremonti: «Tempo quanto ne vuoi») ad oggi scomparso dai radar parlamentari. E la riforma del processo civile? Mah. Penale? Niente. Ora è arrivato il suo grande momento: ha scritto addirittura una riforma epocale della giustizia. «La approveremo a fine legislatura – spiegò – quindi nessuno può dire che la facciamo per Silvio Berlusconi. Il nostro obiettivo è che serva ai cittadini». Forse aveva ragione perché invece che di riforma epocale s’è tornati a parlare di prescrizione breve nel processo breve: una classica “ghedinata”, solo che la figuraccia l’ha fatta lui. Angelino non se la prende: alza le spalle verso chi sussurra che il vero ministro sia l’avvocato padovano. Che importa? «Sulla giustizia – ha detto una volta non c’è effetto sorpresa: chiunque sia il ministro, la linea di Forza Italia è la stessa dal 1994». S’era capito.
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TORINO. «Il grado di utilizzo degli impianti italiani è basso, è evidente il divario con gli stabilimenti di Fiat Goup Automobiles in Europa». Lo ha sottolineato Sergio Marchionne, all’assemblea degli azionisti, l’ultima della “vecchia” Fiat prima dello scorporo in due società. «Negli ultimi due anni - ha detto l’ad della Fiat - i siti produttivi italiani hanno lavorato ben al di sotto della loro capacità. L’utilizzo della rete italiana è al 54%, se consideriamo la capacità tecnica al 37%, mentre negli altri impianti in Europa i parametri per misurare la saturazione si sono attestai rispettivamente al 126 e 78%». Marchionne ha ricordato che «nel corso del 2010 abbiamo compiuto passi importanti per ottenere la più ampia flessibilità degli stabilimenti e garanti-
diario «La Fiat in Italia produce troppo poco»: la ricetta di Marchionne per il 2011 re loro prospettive sicure» e ha parlato degli accordi raggiunti per gli impianti di Pomigliano e Mirafiori. Quanto al futuro, Marchionne ha previsto che «la quota Fiat nel mercato auto in Europa aumenterà grazie al lancio di nuovi modelli nel secondo semestre» di quest’anno. Ci aspettiamo un miglioramento generale dei mercati ad eccezione di quello delle autovetture in Europa, la cui performance sarà influenzata negativamente dai cali previsti in Italia e Francia». Nel segmento dei veicoli commerciali leggeri, in particolare, «la domanda dovrebbe registrare una leggera crescita in Europa dove
Fiat Professional si manterrà tra i leader». Previsto un nuovo aumento del mercato auto in Brasile e al riguardo Marchionne ha indicato un incremento tra il 2 e il 5% rispetto al livello record di 3,3 milioni del 2010 e «la quota Fiat si manterrà stabile». Il Lingotto è il leader del mercato auto in Brasile da 9 anni con una quota superiore al 22%. Ma nel complesso, l’ad del Lingotto è ottimista sul futuro: «La Fiat raggiungerà nel 2014 un fatturato di 64 miliardi di euro, quasi il doppio dell’anno scorso. Chrysler, invece, avrà un fatturato di oltre 100 miliardi e porteremo la quota in Chrysler al 35%», ha detto.
Novita anche in casa Maranello: «Ferrari ora è focalizzata sulla Cina, che già oggi è uno dei primi cinque mercati dell’azienda ed è una delle aree di maggior crescita per il futuro», ha promesso Marchionne.
Dopo il no della Lombardia è stallo nella ripartizione dei 106,5 miliardi del fondo nazionale. Il governo costretto a intervenire
Sanità, è guerra tra Nord e Sud Il Nuovo polo denuncia: dal federalismo regionale una stangata fiscale di Francesco Pacifico
«Il decreto legislativo sul federalismo infrastrutturale per la sua natura ed i suoi confini, non può assolvere a pieno all’opera di riordino istituzionale, finanziario e tecnico». È questa la denuncia fatta dal presidente della Corte dei Conti, Luigi Giampaolino, che ieri è stato ascoltato dalla Commissione bicamerale sulla riforma
ROMA. Il Nuovo Polo chiede una pausa di riflessione «di almeno un anno, se non di un anno e mezzo» per correggere gli errori fatti finora. Il Pd si rimangia le ultime aperture, con Pier Luigi Bersani che scandisce (parafrasando Tremonti) nei corridoi della Camera: «L’albero che sta venendo su è storto. È arrivato il momento di fermarsi». Non è passata una settimana dall’ultimo voto in Bicamerale che il federalismo torna in bilico. Soprattutto si è persa traccia della pax parlamentare che Umberto Bossi e Roberto Calderoli – complice un compromesso con Vasco Errani molto oneroso per Tremonti – avevano stretto con Bersani. Se non bastasse, mentre alla commissione di Enrico La Loggia si discute di perequazione tra Nord e Sud, il governo rischia di dover fare di nuovo fare i conti con i governatori.
E la loro rabbia, anche questa volta, è legata a un tema contingente quanto l’accoglienza ai profughi libici: la ripartizione dei 106,5 miliardi di euro del fondo sanitario. Perché così com’è stata definita dal ministero dell’Economia premia soltanto Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna. Alla base del contendere c’è la decisione di via XX settembre di parametrare la distribuzione delle risorse essenzialmente sull’anzianità della popolazione. Scelta che è riuscita a scontentare gli enti del Sud (quelle dove c’è natalità più alta) così come quelli del Nord che, Liguria in primis, hanno pagato fortissime migrazione interne. Racconta Raffaele Calabrò, senatore del Pdl, luminare napoletano e soprattutto consulente del governatore campano Caldoro sui temi della sanità: «Da tempo si chiede di inserire come criteri per la ripartizione anche la densità di popolazione, l’orografia del territorio o l’assenza di infrastrutture. La posizione dei governatori del Sud trova una buona predisposizione nei colleghi del Centro, mentre ne registra una un po’ negativa
da parte di Veneto e Lombaria». Da Napoli Stefano Caldoro chiede un rifinziamento aggiuntivo di 200 milioni di euro, da Genova Claudio Burlando rilancia con altri cento, ma a Roma, in sede di Conferenza delle Regioni, Vasco Errani non riesce a trovare una mediazione tra le parti. «Eppure questi soldi», aggiunge Calabrò, «sono indispensabili per quelle Regioni che sono sotto piano di rientro e che devono rimodulare la loro programmazione con scelte oculate e senza ripetere gli errori del passato». La soluzione, quindi, passa per un intervento del governo, che potrebbe sbloccare quello che un tempo si chiamava il fondino, quei circa 350 milioni di euro non ancora rimodulati e che fino a qualche anno era destinati proprio alle Re-
gioni sottocommissariamento. Con gli enti che non trovano la quadra, si può soltanto sperare in un compromesso che sposti di un altro la questione. Ma forse non si può fare di più. Da settimane le riunioni della commissione Salute della Conferenza delle Regioni sembrano pieces del teatro dell’assurdo: si discute, si fanno conti e simulazioni, ma quando poi si devono chiudere le intese le parti (la Lombardia da un lato, la Campania dall’altro) scoprono di essere lontani anni luce. Dal Pirellone fanno sapere che una diversa ripartizione del fondo finirebbe per allentare i vincoli di rigore che il sistema, a Nord come al Sud, sta provando a darsi. Dal Sud si replica che con un nuovo riparto la Lombardia perderebbe non meno di 150 milioni. Con l’aggra-
vante che soldi al Mezzogiorno si tradurebbero anche in un calo della mobilità sanitaria, che ogni porta nelle casse lombarde, nelle strutture pubbliche e del privato convenzionato, Drg per almeno un miliardo di euro.
Entro oggi il governo si aspetta un’intesa, poi scatteranno i 30 giorni dal via libera automatico del riparto voluto dal Tesoro.Tremonti, intanto, se la ride, perché i ritardi nell’entrata in vigore dell’accordo gli permettono di risparmiare almeno un milione di euro al giorno. Non poco per chi deve pareggiare il deficit entro il prossimo triennio. A peggiorare la situazione anche la cancellazione, nel decreto sul federalismo fiscale appena approvato, dell’indice della deprivazione. Un coefficiente tutto
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Pensioni, una giornata per fare chiarezza
Authority: in un libro tutte le storie
ROMA. «Quando leggo previsioni sui
ROMA. Sarà presentato oggi alle 17.30,
futuri rendimenti pensionistici, con assegni inferiori al 40 per cento dell’ultimo stipendio mi viene da sorridere. E da corregere certe imprecisione». Questo, secondo l’ex sottosegretario al Welfare Alberto Brambilla, il senso della prima edizione della Giornata Nazionale della Previdenza, al via in Piazza Affari a Milano, presso la Borsa Italiana i prossimi 4 e 5 maggio. Al riguardo ieri, nella sede romana dell’Ania, è stato firmato un protocollo di collaborazione da Confindustria, ReteImprese Italia, Adepp, Uil, Borsa Italiana, dalla stessa Ania e dalla Federazione banche, assicurazioni e finanze. La Giornata Nazionale della Previdenza, fanno sapere gli organizzatori, è aperta soprattutto ai più giovani che desiderano conoscere o approfondire il tema delle pensioni.
presso la sede della Camera di Palazzo San Macuto (Sala del Refettorio), il 41esimo volume del Trattato di Diritto Amministrativo, dedicato alle Autorità Indipendenti, curato da Paolo Cirillo e Roberto Chieppa. «È un traguardo importante e prestigioso – sottolinea il presidente Giuseppe Santaniello, già Garante per la Stampa e per la Privacy –. Si tratta di uno dei volumi più importanti, perché racchiude tutti gli studi e le rassegne più interessanti sulle Autorità Indipendenti realizzati negli ultimi anni. È un’analisi minuziosa di un istituto, quello delle Autority, di matrice anglosassone che in Italia abbiamo importato relativamente da poco, da circa quarant’anni, e che contiene anche documenti inediti, come le 200 pagine dedicate alla Banca d’Italia, una sorta di libro nel libro».
A fronte, i Governatori ieri sul piede di guerra. Da sinistra, Linda Lanzillotta, Gian Luca Galletti e Mario Baldassarri
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
a favore da inserire nel calcolo dei nuovi costi standard, quelli attraverso i quali sarà definita la spesa dal 2013 in poi. Spiega il senatore Raffaele Calabrò: «Nel testo è previsto che si possono rivedere i criteri attuali e considerare una serie di deprivazione, come la densità di popolazione o i mancati collegamenti. Di conseguenza, bisogna fare uno sforzo in più e affidare a un organismo autorevole, come l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali, uno studio per una metodologia concordata». Accanto all’inserimento dell’indice di deprivazione e un diverso riparto del fondo sanitario nazionale, i governatori si battono anche per rivedere il patto di stabilità interno, che non è stato più aggiornato dal 2005 e che sottostima la spesa dell’area. E a dare manforte ai presidenti del Sud è arrivato Luigi Giampaolino. In un’audizione davanti alla Bicamerale presieduta da La Loggia, il presidente della Corte dei Conti ha prima accusato il Meridione di non sapere gestire i fondi a disposizione – «La frammentazione delle risorse e le gravi carenze di programmazione e progettazione» hanno fatto sì che fossero partiti soltanto il 10 per cento dei cantieri approvati dal Cipe – quindi ha sottlineato «la necessità di rivedere il patto di stabilità interno». Nuove regole, per Giampaolino, sono indispensabili «per assicurare che il contributo degli enti territoriali ai più
I centristi chiedono alla maggioranza di fare una pausa di riflessione di un anno e mezzo per correggere gli errori commessi generali obiettivi di finanza pubblica». Quindi ha consigliato al governo «una revisione delle regole del Patto, che riduca per gli enti destinatari la convenienza o la necessità di ricorrere al blocco delle erogazioni in conto capitale, sospingendoli, invece, in direzione di una vera spending review. E che miri a privilegiare selettivamente gli interventi capaci di massimizzare gli effetti positivi sulla crescita e sulla riduzione dei divari». I centristi, invece, fanno sapere che bisogna azzerare quanto fatto finora, per evitare delle storture che nel breve termine rischiano di aumentare la fiscalità, nel lungo di spaccare l’Italia. Ieri il Nuovo polo ha offerto una tregua al governo, a patto che si accetti una pausa di riflessione di un anno e mezzo
per mettere una pezza ai danni creati, secondo Mario Baldassarri, dal «grande inciucio per allontanare la Lega dal Pdl con un patto scellerato a spese dei contribuenti». Da un loro studio è stato calcolato che il ricorso alle addizionali Irpef porterà sull’imposizione sui redditi personali un aumento annuo da 75 per chi denuncia 15mila euro e da 1.335 euro per chi supera i 75 mila euro. E anche all’interno degli stessi scaglioni le addizionali provocheranno ulteriori differenze, spesso vicine ai 600 euro. Vista la possibilità di ridurre l’Irap soltanto per le Regioni con i conti in ordine, è facile scommettere una fiscalità di svantaggio per le imprese che investono al Sud: con il rischio che una Pmi che a Milano fattura 2-3 milioni potrebbe risparmiare tra gli 11mila euro e 41mila euro rispetto a una concorrente delle stesse dimensioni ma impegnata invece a Reggio Calabria. Dall’Udc i parlamentari Ferdinando Adornato e Gian Luca Galletti accusano l’ultimo decreto sul federalismo regionale di «introdurre gravi sperequazioni fiscali tra Nord e Sud, a favore di una fiscalità di svantaggio per le zone del Meridione e penalizzando le fasce medie della popolazione». La parlamentare del’Api, Linda Lanzillotta, scommette che «l’aumento di pressione fiscale sarà evidente soltanto dopo le elezioni del 2013».
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pparentemente, ma solo apparentemente, si tratta di una partita minore. Un chiarimento, se si vuole, dovuto al fatto che Vincent Bolloré, vice presidente del Leone di Trieste - le Assicurazioni Generali non ha votato il bilancio, eccependo su alcune operazioni compiute nell’Est europeo. Fatto indubbiamente insolito. In genere le controversie si risolvono in famiglia e non danno luogo a gesti clamorosi, che possono avere un riflesso immediato sull’andamento del titolo in borsa. Se poi si tiene conto del contesto, la situazione è ancora più sorprendente. Stiamo parlando infatti della più grande compagnia assicurativa italiana che, da sola, ha fatto, nel 2009, il 56 per cento del fatturato (premi lordi) complessivo di settore. Un gigante. Uno dei pochi dobbiamo purtroppo aggiungere - in quella savana che è ormai il sistema produttivo italiano: migliaia di piccole e medie imprese, ma solo qualche grande albero a movimentare, seppure occasionalmente, il paesaggio. Si aggiunga che Vincent Bolloré è anche consigliere di Mediobanca, dove è uno degli azionisti rilevanti, con una quota di capitale pari al 5,029 per cento. Sarebbe addirittura il primo azionista se non fosse presente Unicredit, con una quota dell’8,697 per cento. E, a sua volta, Mediobanca è il principale azionista di Generali, con una quota del 13,465 per cento. Il voto contrario di un vice presidente così di peso non poteva, pertanto, passare inosservato.
A
Basterebbe questo. Si devono, invece, ricordare altri elementi. Il Leone di Trieste è stato presieduto per moltissimi anni da Antoine Bernheim, che ancora oggi conserva la carica di presidente onorario. Una carriera spesa nei grandi santuari finanziari (banche e assicurazioni) internazionali e un addio polemico verso Trieste. Attualmente è vice-presidente della LVHM, il gruppo Vuitton che ha recentemente acquistato Bulgari, nonché del gruppo Bolloré, su cui dovremmo spendere ancora qualche parola. Il passaggio delle consegne a favore di Cesare Geronzi è avvenuto nel 2010. Da diversi anni, l’attuale presidente di Generali faceva parte del Consiglio d’amministrazione di Mediobanca. Ne era stato per tre anni il vice presidente. Ma, quel che più conta, era stato, anche, il presidente del Patto di sindacato. Il condominio - si fa per dire - che raggruppava i principali azionisti della banca. Un blocco che possedeva poco più del 40 per cento del capitale sociale, ma in misura sufficiente per assicurarsi la relativa governance. Poteva Cesare Geronzi divenire presidente di Generali senza l’accordo degli altri? La domanda è evidentemente retorica. Lo stesso Vincent Bolloré non poteva non aver appoggiato - visti i buoni rapporti che intercorrono tra i due - questa soluzione. Sta di fatto che al primo bilancio, che reca la firma del nuovo presidente, ecco il voltafaccia: il suo voto contrario. O meglio l’astensione. Cambia la forma ma non la sostanza. Un gesto simile può trovare giustificazione solo di fronte ad un fatto clamoroso, in grado di mettere nei guai il management o recare un grave nocumento all’immagine o alle finanze della società. È cosi? Purtroppo dobbiamo occuparci di un caso abba-
il paginone
Bolloré, Bernheim, Geronzi, Perissinotto, Pelliccioli, della Valle: manager e stanza complicato, che non è facile spiegare. Nel 2007, le Generali decisero di realizzare una joint venture con la Ppf Group, di cui l’oligarca ceco Petr Kellner è il principale azionista. La decisione, come ricorda un comunicato recente del Leone di Trieste, fu presa “con voto unanime”del consiglio d’amministrazione e del comitato esecutivo. Si trattava del resto di un affare, per così dire, in famiglia: dato che il finanziere non solo è membro del consiglio d’amministrazione di Generali, ma ha una quota di partecipazione al capitale pari al 2,02 per cento. Fa quindi parte del “pacchetto di mischia” che garantisce la governance della società. L’investimento era piuttosto rilevante, in valore assoluto: circa 5 miliardi di euro, con una suddivisione 51 per cento (Generali) e 49 per cento Ppf. L’esposizione della società triestina era quindi pari a circa 2,5 miliardi. In
Nomi, cognomi, obiettivi e interessi di tutti i protagonisti della guerra che si sta consumando dentro la Società
percentuale sul totale degli investimenti realizzati nel 2008, un valore dello 0,75 per cento. La qual cosa la dice lunga sull’entità del casus belli, scoppiato, a distanza di tre anni, nella tempestosa riunione del consiglio d’amministrazione che ha approvato il primo bilancio
Da sinistra, Vincent Bolloré, Giovanni Perissinotto, Leonardo Del Vecchio e, sotto, Diego Della Valle. Nella foto grande, Cesare Geronzi: sono tutti gli attori del caso-Generali
Quando i General di Gianfranco Polillo società, determinando una levata di scudi da parte degli altri consiglieri. Al punto da costringere Giovanni Perissinotto, (consigliere delegato e direttore generale) a minacciare un esposto alla Consob per le dichiarazioni rese sia da Bolloré che da Tarak Ben Ammar, consigliere di Mediobanca ed uno dei più qualificati rappresentanti degli interessi francesi in Italia, per possibili turbative del mercato.
dell’era Geronzi. Si deve aggiungere che il tentativo di entrare nei promettenti mercati dell’est costituisce, da tempo, un elemento importante della strategia di Generali. L’aver scelto un compagno di viaggio, che è di casa in quei Paesi, significava ridurre all’osso le possibili perdite, come avevano dimostrato i casi contrari di Axa e Allianz, costrette a sobbarcarsi di oneri maggiori.
traente. Ragionare in questo modo, significa invertire l’ordine dei fattori. La transazione non avverrebbe, infatti, a titolo gratuito. La Banca, in questo caso, dovrebbe rivalersi sulle somme corrisposte a seguito della vendita dei titoli e non certo su colui che subentra nella loro proprietà, dopo aver pagato il corrispettivo. Secondo problema: il put è solo eventuale. Qualora la relativa facoltà fosse eser-
Quali le accuse? Al finanziere ceco, Generali ha garantito un put. Vale a dire la possibilità di uscire dall’operazione, riacquistando il pacchetto di titoli a un prezzo convenuto. La scadenza dell’operazione è il 2014. La condizione: la mancata quotazione in borsa della joint venture o l’assenza di eventuali soci compratori. Per ottenere i capitali necessari all’operazione, Kellner ha dato in garanzia le quote di proprietà alla banca francese Clayon (gruppo Crédit Agricole), ottenendo in cambio un’apertura di credito per 2,1 miliardi di euro, utilizzata solo in parte (1,5 miliardi). Da qui un primo problema: in caso di recesso, Generali si troverebbe nelle mani un pacchetto azionario dato a garanzia. Dovrebbero pertanto subentrare nel debito del precedente con-
Da sola, nel 2009, ha fatto il 56% del fatturato complessivo di settore. Un gigante. Uno dei pochi - dobbiamo purtroppo aggiungere - in quella savana che è ormai il sistema produttivo citata, Generali avrebbe altre strade per sostituire il vecchio partner. Potrebbe, ad esempio, assumere il controllo assoluto della società, facendola rientrare in una normale operazione finanziaria. Potrebbe vendere sul mercato le relative azioni o ricercare un nuovo socio di minoranza. Nulla di drammatico a quanto è dato a vedere.Vincent Bolloré ha invece seguito una strada diversa.Voleva che in bilancio fosse iscritto, fin da ora, il debito potenziale. Ha quindi parlato di scarsa trasparenza nella gestione complessiva della
Quest’ultimo, per la verità, aveva usato toni più concilianti, pur appoggiando le richieste del suo connazionale. Bolloré ha ricordato - ha solo «chiesto per iscritto al consiglio di mettere un appunto sul bilancio che spiegasse con più trasparenza quali fossero stati gli impegni per Generali. E ha ragione. E ringrazio Perissinotto e il consiglio che hanno accettato di mettere questa riga». Poteva finire anche qui. O meglio: poteva addirittura non cominciare. Anche perché il caso era stato sollevato in una precedente seduta del
il paginone
e obiettivi nella “partita” della più grande compagnia assicurativa italiana prio in questi giorni è tornato alla carica con un’intervista a tutto campo, al Sole 24 ore. «Bolloré e Geronzi - questo lo strillo - devono rassegnarsi a tenere giù le mani dalle Generali». Episodio che non getta, certo, acqua sul fuoco, ma da corpo alle voci che, da tempo, si inseguono sulle sorti di questo importante asset nazionale. Le più accreditate parlano di un dissidio insanabile tra i francesi, rappresentati da Bolloré e Tarak Ben Amar (ma non solo) e Perissinotto. Cesare Geronzi - che si è più volte vantato di non coltivare inimicizie - si trova in una posizione super partes, anche se continuamente strattonato dagli uni e dagli altri.Vedremo quel che succederà nella prossima riunione del 6 aprile, quando si riunirà il consiglio straordinario.
Fin da ora sono chiare, invece, le relative strategie. Che i francesi puntino a mo-
dificare i rapporti di forza all’interno della struttura di controllo è un fatto sempre più evidente. Dalla loro è, innanzitutto, la forza finanziaria del gruppo Bolloré. Un colosso che ha una cifra d’affari (bilancio 2010) di circa 7 miliardi di euro, con una progressione del 17 per cento. I suoi
li giocano a risiko
consiglio (16 dicembre) e risolto con la decisione di cui lo stesso Tarak Ben Ammar ha dato atto. E invece è stata una reazione a catena. Presa carta e penna, i tre consiglieri indipendenti hanno richiesto l’intervento di Cesare Geronzi, nella sua qualità di presidente delle Generali. La critica è tutt’altro che sotterranea. A Bolloré - queste le accuse - è stato dato troppo spazio. Il Presidente doveva intervenire subito, impedendogli di formulare accuse irrituali, vista la sede in cui sono state avanzate. I nomi dei firmatari sono di
peso: Cesare Calari, economista della Banca mondiale; Carlo Carraro, rettore dell’Università Ca’ Foscari di Venezia; Paolo Sapienza, docente d’economia finanziaria alla Chicago University. Fanno tutti parte della lista presentata da Assogestioni, l’organismo presieduto da Domenico Siniscalco, a sua volta in sintonia con Giulio Tremonti, almeno per quanto riguarda il tema della difesa dell’italianità dei grandi gruppi finanziari. Poi, a questa pattuglia, si sono uniti altri consiglieri. Il numero è ancora incerto. La condivisione meno. Chi si è, invece, esposto pubblicamente è stato Lorenzo Pelliccioli (numero uno di De Agostini) e Diego della Valle, il patron di Tod’s. Da quest’ultimo, in particolare, i toni più duri. Diego della Valle è membro del consiglio d’amministrazione di Generali e di Rcs, il gruppo editoriale che controlla il Corriere della Sera. In passato aveva polemizzato con Mediobanca - abbiamo visto quali sono i rapporti tra quest’ultima e la compagnia d’assicurazione - invitandola a disfarsi delle partecipazioni detenute nel campo dell’editoria (14,36 per cento di Rcs, principale azionista di riferimento). Era seguito un periodo di alti e bassi con lo stesso Geronzi, al punto che una sua stretta di mano, in coda a un consiglio di qualche mese fa, aveva fatto notizia. Pro-
interessi spaziano dalla logistica, all’energia; dalla chimica all’industria automobilistica (auto elettriche); dalla comunicazione all’agricoltura. C’è, poi, sullo sfondo l’interesse di Axa (90 miliardi di euro di giro d’affari e una delle prime compagnie mondiali di assicurazione) da sempre attenta a quel che succede in casa Generali. Ma non basta. Bolloré è anche uno dei rappresentanti più agguerriti del capitale francese in Italia. E le sue mira sia nei confronti di Mediobanca che della sua “controllata” sono note. L’ultima operazione, non andata almeno finora a buon fine, riguarda il tentativo di Groupama di impadronirsi del vecchio impero (aggravato di debiti) di Ligresti. Le relazioni tra i due gruppi francesi sono, per così dire, certificati. Il gruppo assicurativo francese è socio di Bolloré (una partecipazione del 4 per cento). C’è poi il legame tra il suo direttore generale (Jean Azeman, anch’esso consigliere di Mediobanca) e lo stesso gruppo. Tanto basta per far dire alla Consob che le due società “sono legati da significativi rapporti”. Nei mesi passati Groupama
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aveva cercato di acquistare Premafin, la finanziaria del gruppo Ligresti. Gli obiettivi erano due: acquisire il controllo di Fondiaria Sai (la seconda compagnia d’assicurazione italiana), unire le partecipazioni in Mediobanca, visto che già possiede il 4,928 per cento. Sommandovi la partecipazione di Premafin (4,062 per cento) avrebbe raggiunto quasi il 9 per cento, superando Unicredit e divenendo il principale azionista di riferimento. Fortunatamente l’operazione non è andata in porto. Ma la partita rimane aperta. Alla potenza di fuoco dei francesi e alla loro determinazione, gli italiani hanno finora risposto in ordine sparso. Separandosi e lottando tra loro: piuttosto che “fare squadra”, com’era solito dire Montezemolo, quand’era presidente di Confindustria. Oggi, con il decreto antiscalata varato dal Governo, forse qualcosa sta cambiando. Ma è troppo presto per dire se questo sarà sufficiente a sanare le profonde fratture che dividono l’establishment italiano.
Ennesimo show del premier che annuncia: «Vi ripagheremo dei disagi. Intanto ho comprato casa qui sull’isola»
Lampedusa come Napoli Ancora una volta, il premier promette: «In due giorni risolvo tutto». Mentre Frattini litiga con l’Europa: «Non fa niente per aiutarci» di Francesco Lo Dico
ROMA. È un Berlusconi riflessivo e intimista, piegato a un amaro pessimismo da anni di battaglie, quello che sussurra dinanzi al popolo di Lampedusa. «Sono già iniziate al molo le operazioni di imbarco dei migranti. In 48-60 ore Lampedusa sarà abitata soltanto dai lampedusani». Quaranta, sessanta ore. Un tempo lunghissimo, per uno abituato a risolvere ogni calamità con un semplice schiocco delle dita.
Dinanzi al palco allestito davanti al Municipio dell’isola, il premier si è scusato per l’inconsueto ritardo: «Il presidente del Consiglio non è venuto prima perché ha il vezzo, l’abitudine, di risolvere i problemi. E fino a ieri sera non avevo la soluzione chiara. Ieri sera finalmente ho potuto mettere a punto un piano, che vengo a raccontarvi e garantirvi. Scattato «ieri sera a mezzanotte» in felice coincidenza con la migliore letteratura noir, l’exit strategy del Governo messa a punto contro i migrantes può essere accostata a metodi e toni del mercato ittico: «La Tunisia ci ha promesso di controllare le sue coste, e abbiamo attivato una serie di proposte imprenditoriali. Tra queste, abbiamo comprato dei pescherecci per impedire che vengano usati». Se non vogliamo i barconi in mare, insomma, ce li compriamo in stock completi. È questa la risposta che
Continuano i raid in tutta la Cirenaica, la figlia del raìs incita le truppe
E Aisha andò al fronte Ribelli e lealisti combattono per i pozzi di Massimo Fazzi
TRIPOLI. Operazioni che hanno il sapore dei tempi andati, quando la guerra si vinceva anche per amor di patria. Deve aver pensato proprio a questo Aisha Gheddafi, la bella e bionda figlia del Colonnello, quando ieri ha deciso di scendere in campo in prima linea, insieme ai militari di Tripoli, per esprimere il suo sostegno alla lotta contro i ribelli. Gheddafi spera così che la sua unica figlia femmina - soprannominata la “Claudia Schiffer del deserto’ per la sua avvenenza - possa risollevare il morale delle truppe in un momento in cui i raid della Coalizione internazionale si fanno sempre più pesanti. E così Aisha, avvocato di 35 anni già nel consiglio difensivo dell’ex dittatore iracheno Saddam Hussein, è stata fotografata a bordo di un carro armato mentre sventola una bandiera libica.
Nel frattempo, la guerra infuria fra raid occidentali e combattimenti di terra. E mentre i ribelli ricevono i primi diplomatici del resto del mondo, gli scontri sono sempre più in attività sulla strada del litorale, dove governativi e ribelli si contendono Bin Jawad, località della zona petrolifera, a circa metà strada tra Bengasi e Tripoli. Lunedì sera i giornalisti si erano accampati in un albergo devastato e senza luce, di Ras Lanuf, sulla riva del Mediterraneo. Si erano allontanati, al tramonto, di
qualche decina di chilometri, da Al Assun, dove avevano assistito al vano tentativo degli shabab di sloggiare i governativi dalla questa modesta località per avvicinarsi alla Sirte, provincia natale di Gheddafi. Quell’albergo, ridotto a una stalla affacciata sul mare dai governativi e ribelli che l’avevano occupata durante l’andirivieni del fronte, sembrava un rifugio sicuro. E, invece, nella notte, il ripiegamento in massa degli shabab, ha costretto i giornalisti ad andarsene in fretta.
I governativi stavano rioccupando Bin Jawad ed una località vicina e, scrive Repubblica, «non era prudente aspettarli». Quel che è certo è che la battaglia infuria soprattutto nelle zone dei pozzi di petrolio. Lasciato perdere il mare, inutili i porti adesso che sono gli aerei a dettare la linea della guerra, le truppe fedeli a Gheddafi vogliono a tutti i costi tenersi a portata di mano dell’oro nero. Sanno bene che è quello uno dei motivi principali a muovere la diplomazia continentale e, secondo alcune fonti interne al regime, avrebbero ricevuto l’ordine di farli saltare in aria piuttosto che lasciarli in mano ai ribelli. Sarebbe un’eredità sin troppo succosa per il gruppo che aspira a governare la Libia libera dal Colonnello della Rivoluzione. Che non vuole cedere neanche un millimetro ai suoi detrattori.
Berlusconi indirizza al governatore siciliano, Raffaele Lombardo, che aveva obiettato: «Bisogna svuotare l’isola ma bisogna anche prevenire che ci siano altri arrivi». Seguito del discorso dedicato al piano di sgombero: «Da ieri sono partite dai porti italiani sei navi passeggeri, con una capienza di 10mila persone, e puntiamo ad averne una settima». Ma da bravo capo scout, il premier si propone di lasciare il posto occupato in condizioni migliori di come l’ha trovato: «Stamattina sono arrivati 140 uomini delle forze armate, ed è scattato un piano di pulizia per l’isola, che verrà riportata a condizioni normali», ha annunciato il premier. Buone notizie anche per i lampedusani inferociti per i mancati introiti della stagione turistica: «L’isola deve essere rimborsata per il sacrificio a cui è stata sottoposta. Ieri sera abbiamo messo nero su bianco gli impegni del Governo», ha garantito il leader azzurro.
E sembra tratto dalla campagna promozionale per il turismo che lo vede testimonial, il piano di ammortamento previsto per l’isola siciliana. «Ci sarà un piano straordinario per la promozione del turismo a Lampedusa. Bisogna far conoscere a tutti le vostre fantastiche bellezze e invitare gli italiani a venire in questo vostro paradiso». Più acuto di un birdwatcher, Berlusconi non ha potuto fare a meno di notare,
la crisi libica
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«Solo slogan, qui non si fanno miracoli» Oliviero Forti, responsabile Caritas sull’isola: «L’emergenza andava affrontata prima» ROMA. Ancora 48 ore. L’ultima promessa di Silvio Berlusconi agli abitanti di Lampedusa: due giorni al massimo per portare a termine l’operazione di evacuazione dei profughi dall’isola, ma chi, come Oliviero Forti, conosce da vicino l’emergenza è di parere diverso. Il responsabile nazionale per l’Immigrazione della Caritas racconta a liberal la sua versione. Lei che è sull’isola da due settimane ed ha avuto la possibilità di vedere direttamente la gestione dell’emergenza. Qual’è la situazione che si percepisce oggi a Lampedusa? La situazione è quella che vedete in tv, oggi sono arrivate queste sei navi, e speriamo che sia la parabola finale di settimane dove ha regnato il caos totale, con punte sull’isola di oltre 6.000 presenze, quasi al 100% tunisini, giovani uomini, in massima parte, che non hanno trovato una accoglienza adeguata, perché il centro di prima accoglienza può contenere al massimo 800 posti, che in situazione di emergenza possono diventare anche 2.000, ma qui c’erano ben 4.000 di persone che vagano sull’isola, che dormivano per strada, o all’aperto, o negli androni delle case, sostentandosi con mezzi di fortuna. L’arrivo dei 6.000 e più profughi che si vanno ad aggiungere ai 5.000 abitanti e con circa un migliaia e più di rappresentanti delle forze dell’ordine e delle organizzazioni internazionali, tutti su un’isola di pochi km quadrati, ha creato grandi disagi per la popolazione che però si è dimostrata straordinariamente accogliente. Vorrei sottolineare i grandi gesti di solidarietà compiuti, con partecipazione attiva della popolazione, personalmente mai vista da altre parti; ci sono persone che da quaranta giorni non dormono, che hanno come unico pensiero quello di sollevare gli immigrati da una situazione di evidente disagio psicofisico, dovuto all’attesa, al-
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di Martha Nunziata la mancanza di un sostegno adeguato, da un punto di vista alimentare, e dalle condizioni igieniche. Come si è attivata la Caritas? Quali sono stati i primi soccorsi? La Caritas si è attivata sotto questi aspetti, con un presidio fisso sull’isola che ha due ponti: uno all’interno della base Loan, dove sono ospitati i richiedenti asilo politico e i soggetti con famiglie con minori, l’altro nella Casa della Fraternità, dove, in accordo con la prefettura, sono ospitati i minori che non sono accompagnati, molti dei quali hanno appena quattordici anni. Poi facciamo opera di monitoraggio delle attività ed interveniamo dove non arrivano gli altri organismi, ad esempio per la distribuzione di coperte; dove necessario abbiamo provveduto al cibo, con ronde di volontari della Caritas che tutte le sere da due settimane vanno negli accampamenti alle spalle del porto e nelle tendopoli a distribuire beni di prima necessità, di primo conforto. Dove possiamo forniamo abbigliamento, la possibilità nella Casa della Fraternità di servizi igienici, docce, servizi di orientamento: cerchiamo di fare tutto quello che si può in una situazione di emergenza umanitaria. Secondo la sua esperienza sul campo, le navi riusciranno ad evacuare tutti i profughi nei tempi preventivati da Berlusconi? Le navi sono arrivate questa mattina e hanno iniziato l’opera di evacuazione e gli abitanti per primi si augurano che i tempi siano rapidi, ma è difficile prevederlo; sicuramente non si riuscirà a farlo nelle prossime 48 ore, perché comunque continuano ancora gli sbarchi sull’isola e poi esiste anche un proble-
Cerchiamo di fare il possibile, ma nel piano predisposto dal governo la disorganizzazione è davvero totale
direttamente dal palco, «un degrado nel verde», e dunque «ci sarà un rimboschimento».
Ma più lauta e generosa di un’offerta di Mediashopping, non poteva mancare nel set del premier un pentolino in cui cucinare per bene i bollori leghisti. I rimpatri sono il miglior modo per fermare gli arrivi di immigrati dalla Tunisia, delucida il presidente del Consiglio. «Riportarli là da dove sono partiti – spiega – sarebbe il segnale più forte per dire “è inutile che paghiamo un prezzo, che affrontiamo dei rischi, se poi ci riportano indietro”. Abbiamo ottenuto dal nuovo governo della Tunisia l’impegno alla riaccettazione di tutti i tunisini che sono giunti clandestinamente in Italia». Neppure Roland Barthes avrebbe saputo individuare più sintagmi per esprime-
re la soave rustichezza del föra de ball leghista. E dire che solo alle 7.15 di ieri mattina, Silvio affermava che i clandestini sull’isola erano «poveri cristi». Convertiti sulla via di Lampedusa in comuni inmmigrati. Umberto Bossi accoglie sollevato le intenzioni dell’alleato: «Svuoterà Lampedusa, mandandoli via». Il soggetto, come spesso accade nella sintassi del Senatùr, è sottinteso. Ma dopo il presidente operaio, partigiano, statista, gheddafiano, putiniano, certosino e biricchino, Berlusconi conclude lo show con l’annuncio del prossimo ruolo in commedia: «Voglio diventare lampedusano», ha annunciato al pubblico festante. Sembra finita a questo punto, ma ecco l’ultimo petardo: «In Cdm valuteremo candidatura di Lampedusa a Premio Nobel per la pace». Dopodichè il pre-
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mier si è recato a Cala Francese, luogo prescelto per infittire la vasta collezione personale di magioni. Il premier garantisce di aver preso casa sull’isola. La notte scorsa su internet. Santa Lucia
ma di ordine pubblico. Sarà molto complicato, perché per prima cosa bisogna identificarli, e questa è già una procedura difficile e lunga che ha i suoi tempi, anche per questioni di sicurezza: e non dimentichiamo che stiamo parlando di 6.200 persone. Successivamente ci sarà il trasferimento in queste seditendopoli e già le Caritas locali sono attrezzate o si stanno attrezzando a vario titolo per supportare questa emergenza: già un mese fa abbiamo allertato le nostre sedi, 220 su tutto il territorio nazionale, e tutte sono pronte a collaborare. Bisognerà solo capire quale sia il Piano di accoglienza del governo che, tendopoli a parte, lascia molti interrogativi, in termini di definizione dell’intervento: quali e quanti posti ci sono? Dove? Dove i tunisini, dove i residenti a Silo? Che tipo di smistamento verrà fatto? Qui le cose cambiano in modo molto repentino da Mineo alle tendopoli, alla richiesta di accoglienza in territori con strutture ad hoc, tutto risulta ancora molto fluido. Non c’è stata una procedura chiara da parte del Governo, anche se nessuno si aspettava numeri di questa entità e questa intensità, ma questo non giustifica la poca organizzazione. Questa disorganizzazione è una cosa che nessuno vorrebbe più vedere. Le situazioni sono diverse: i tunisini cercano un futuro migliore, sono arrivati con la prospettiva di trovare una sorte migliore, soprattutto dal punto di vista lavorativo. La maggior parte non punta però a fermarsi in Italia, ma a dirigersi verso la Francia, la Svizzera o altri Paesi europei. Sono migranti economici, e avranno la possibilità di avvalersi di tutte le norme nazionali ed internazionali, mentre tra gli eritrei, per esempio, o tra le altre categorie particolarmente vulnerabili e che hanno bisogno di una specifica protezione internazionale, ci sarà anche chi chiederà asilo.
locale, ma loro devono impegnarsi a bloccare questo flusso»), e poi accusa la pilatesca politica dell’Ue: «Di fronte al problema dell’immigrazione l’Europa è assolutamente inerte». Frat-
Berlusconi spiega il piano: «La Tunisia ci ha promesso di controllare le sue coste, e abbiamo attivato delle proposte imprenditoriali. Compreremo dei pescherecci per impedire che vengano usati» la dice lunga, sulle travolgenti passioni del premier per le isole.
Meno fiabesca la mattinata del ministro degli Esteri, Franco Frattini, che prima prepara il terreno per il discorso del premier («Ci attendiamo dalla Tunisia una collaborazione piena. Aiuteremo a casa loro i tunisini portando interventi per lo sviluppo
tini ha ripetuto ancora una volta che occorre «un piano straordinario per la distribuzione dei migranti in vista del rimpatrio di chi non ha diritto a restare. La Ue non può dire all’Italia “Avete sette milioni di euro, arrangiatevi”». IL pensiero corre a Ventimiglia, dove nelle ultime ore si sono stipati moltissimi migranti e clandestini nordafricani diretti
in Francia. Ma se l’Europa esita, la Lega non marca mai visita, quando si tratta di diritti umanitari. «L’Europa è buona soltanto a rompere le scatole quando bisogna stabilire la lunghezza del cetriolo», sbotta Roberto Cota. «Secondo me, pensare che i tunisini possano essere catalogati come dei profughi, dei rifugiati politici, grida vendetta», ha detto un bellicoso Luca Zaia in televisione. Ma neanche la pentecoste berlusconica, ha per ora fermato gli sbarchi a Lampedusa. Prima un barcone con un centinaio di persone (e falso allarme bomba), poi un’imbarcazione con sessanta passeggeri soccorsa al largo dell’isola. Ultimi strascichi di una vicenda cui il premier ha oggi posto ufficialmente fine, all’insegna di un nuovo miracolo dal format speciale: «Coraggio, fatti ammassare».
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la crisi libica
Tutti parlano di Ciad, Sudan e Etiopia. Ma l’opportunità migliore per il despota libico rimane il Venezuela di Chavez
Il Colonnello di Caracas Hu Jintao attacca Sarkozy: «I raid contro la risoluzione Onu» E Cameron apre all’invio di armi direttamente ai ribelli Mentre il mondo continua a litigare sull’intervento in Libia, Gheddafi inizia a pensare in quale nazione potrà scappare e dinamiche politiche della crisi libica si spostano in Estremo oriente. Ieri, il summit sino-francese di Pechino si è concentrato quasi unicamente sul futuro del Paese nordafricano. Il premier cinese, Hu Jintao, ha accolto il presidente Nicolas Sarkozy con lo stesso atteggiamento di rigidità assunto dai suoi diplomatici fin dall’inizio dei raid. La Cina ha ribadito che Odissey Dawn, così come si sta sviluppando, è andata oltre le direttive della risoluzione 1973 dell’Onu. Ha sottolineato che la no fly zone era stata imposta per proteggere i civili e non per agevolare gli attacchi della Nato. Insomma, Pechino, di fronte al più agguerrito degli attuali nemici di Gheddafi, non si è spostata dalle sue posizioni iniziali. Diverso è il comportamento della controparte. Il semplice fatto che il summit non sia andato a monte lascia pensare che Sarko sia disponibile a ridimensionare la sua aggressività. Parigi non ha rilasciato dichiarazioni di qualsiasi sorta. Forse l’Eliseo sta valutando come ricucire lo
L
di Antonio Picasso strappo coi cinesi. A costo anche di ridurre i raid. Nell’incontro a due, deve aver pesato l’elemento petrolio. Total nutre interessi sia in Nord Africa sia in Cina. È probabile che il presidente francese stia vivendo ore di profonda incertezza, nel capire quali contratti della major transalpina siano più importanti, se quelli di lungo periodo in Cina, oppure se le concessioni libiche da rivedere con il futuro governo. Va ricordato, peraltro, che anche la partecipata di Pechino, la Cnpc, è presente nel Paese nordafricano. Il che complica ulteriormente i rapporti fra le due potenze.
Come contraltare all’eventuale apertura di Parigi, adesso è Londra a mostrare nuovamente i muscoli. Sempre ieri, il premier britannico, David Cameron, ha palesato l’ipotesi di armare i ribelli. Anche in questo caso, si tratterebbe di un’iniziativa non contemplata dal documento delle Nazioni Unite. Inoltre, rappresenterebbe solo
una conferma di quello che, pare, stia già accadendo. Proprio i Sas – le forze speciali di Sua Maestà – starebbero combattendo a fianco degli insorti ormai da un mese. Silenzio invece sull’altra sponda dell’Atlantico. Barack Obama, dopo l’ultimo discorso all’elettorato, rassicurante sul fatto che quello in Libia non sarebbe un conflitto, crede di aver compiuto il proprio dovere. In nome della democrazia e della trasparenza. In realtà, l’intera attività diplo-
I due dittatori avevano unito pochi mesi fa un fondo di investimento
matica spalmata nelle diverse cancellerie delle superpotenze mondiali perde completamente di significato se non viene risolto il “problema Gheddafi”. Vale a dire se non si stabilisce cosa farne del raìs. Stabilita l’impossibilità di eliminarlo mediante operazione chirurgica, come avrebbero voluto molti operativi sul fronte libico, restano due soluzioni. O che Gheddafi cada in battaglia. Ma così si ritornerebbe alla carta appena esclusa. Con il rischio, inoltre, di as-
surgere a martire. Non resta che l’esilio. Il problema è dove un ex raìs libico, al potere da 42 anni e con solidi legami con tutti i regimi più dispotici del mondo, potrebbe essere “parcheggiato”senza che torni a dare fastidio? Per come si è comportato finora, è chiaro che Gheddafi non sia Mubarak, il quale, una volta isolato dai suoi stesi uomini di fiducia, è riuscito a garantirsi un buen retiro a Sharm elSheihk. Una volta messo sotto scacco sul campo di battaglia – chissà quando? – il colonnello non potrà restare in Libia. L’idea che venga catturato e appaia di fronte a tribunale internazionale è comunque rischiosa. Potrebbe essere trattato come un prigioniero di guerra. Difficile farlo figurare come un genocida alla stregua di Milosevic. E se fosse lui stesso a fuggire? È l’ipotesi che sta prendendo piede. Certo, la fuga sarebbe implicitamente agevolata dai ribelli e dalla Nato. Entrambi potrebbero far finta di non aver visto nulla. A quel punto, Gheddafi potrebbe riparare presso governi amici in Africa, oppure
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La strategia degli alleati secondo Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies
«Non diamogli solo armi, servono istruttori e consiglieri» «Adesso occorre insegnare ai ribelli l’arte della guerra: soltanto i paracadutisti del generale Yunis sono preparati per operazioni» di Pierre Chiartano li Stati Uniti potrebbero garantire assistenza militare ai ribelli che stanno combattendo in Libia contro il regime di Muammar Gheddafi. «Stiamo valutando», ha affermato il presidente americano, Barack Obama. Dopo la riconquista da parte delle truppe del colonnello del porto petrolifero di Raf Lanuf avvenuto ieri, è chiaro che oltre al martellamento aereo, serve altro. È evidente anche che le forze dei bengasini sono male addestrate e non riescono a tenere un fronte rispondendo in maniera adeguata ad un attacco coordinato. Abbiamo chiesto a Nicola Pedde, direttore dell’Institute for global studies ed esperto di tattiche militari, un parere sulla fattibilità e sull’efficacia di un’eventuale operazione d’equipaggiamento delle forze ribelli in Libia. E subito suggerisce di cominciare dall’inizio.
propulsiva del fronte. La vera discriminante è questa. Se le armi servono per difendere ciò che si è conquistato oppure per attaccare. Si tratta di categorie d’armamenti completamenti diverse». E la consegna più efficace sarebbe quella con aerei da carico. Naturalmente sarebbe utile anche un buon sistema di comunicazioni, visto che uno dei punti deboli dei bengasini è proprio il coordinamento operativo. «Penso che si stia già provvedendo alla fornitura di equipaggiamenti che riguardano la logistica, così come per gli ospedali da campo».
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«Innanzitutto c’è il problema della corretta interpretazione della risoluzione dell’Onu 1973. Il testo si presta a molte interpretazioni. L’imposizione del cessate il fuoco può prevedere anche l’utilizzo di mezzi assai diversi di quelli necessari per il mantenimento della no-fly zone. Cioè il trasferimento di armi ed equipaggiamenti alle forze ribelli per metterli in migliori condizioni di difendersi e di reagire alle aggressioni da parte delle forze lealiste». L’allarme lanciato dall’ammiraglio Usa James Stavridis sulla presenza di elementi legati a Hezbollah e forse anche ad al Qaeda, evidenzia un altro problema. «L’esperienza dell’Afghanistan degli anni Ottanta insegna: nessun tipo di trasferimento di armi a irregolari è immune poi da un passaggio a gruppi terzi. Immagino che questo rischio sia stato ben valutato e calcolato. Quindi presumo che non sia prevista l’eventuale consegna di alcun tipo di armamento sofisticato». Ma quando parliamo di guerre e di armi “leggere”non significa certo che si intendano lance e fionde. «Parliamo di armi leggere d’assalto, fucili mitragliatori e di precisione, armi anticarro e probabilmente mortai. L’elemento più utile per le forze ribelli in questa fase è sicuramente l’arma anticarro. Significa materiale già di una fascia superiore rispetto alle dotazioni cosiddette leggere». Finché si tratta di premere un grilletto bastano pochi minuti per imparare, ma centrare un bersaglio richiedete qualche dote superiore che renderebbe obbligatoria la presenza di “consiglieri” militari. «La distribuzione andrebbe fatta sul territorio ai vari reparti, con la possibilità di controllare la successiva utilizzazione delle armi è impossibile. La prima cosa da fare sarebbe quella di individuare gli interlocutori, capire chi comanda le forze ribelli. Conoscere i reparti, gli armamenti già disponibili e le necessità. Cioè capire se le armi servono a mantenere il controllo dei centri urbani oppure a facilitare la capacità
«Equipaggiare forze ribelli poco addestrate darebbe scarsi vantaggi sul terreno militare»
Ma tutti questi capovolgimenti di fronte cui assistiamo, non danno un’immagine di combattenti “da manuale” dei miliziani ribelli. «Tutte le volte che si sono trovati di fronte le forze lealiste c’è stata una scarsa capacità di reazione. Le uniche unità con addestramento e capacità sono quelle del generale Abdel Yunis. Le altre sono solo bande più o meno organizzate. Yunis è l’ex comandante dei paracadutisti che si è schierato al fianco degli insorti a Bengasi fin dal primo momento e guida una unità militare altamente preparata e bene equipaggiata. Purtroppo parliamo solo di qualche centinaio di uomini, ma non conosciamo i dati precisi sulla consistenza dei suoi reparti. Sono addestratissimi, sanno come funziona una squadra, un plotone e un’azione sul terreno. Sanno soprattutto come coordinarsi. Nelle operazioni contro le forze lealiste ciò che mancava era proprio il coordinamento. Si sono dispersi in mille direzioni e non sono stati capaci di riorganizzarsi neanche durante la ritirata. Non hanno mai saputo condurre operazioni in maniera militarmente razionale. Invece una delle prime azioni del generale Yunis è stato il triceramento della città di Bengasi. E sicuramente alcuni suoi uomini hanno operato ad Ajdabiyah» uno svincolo chiave per tutto il conflitto. Sembra quindi che oltre al mantenimento dell’intensità degli attacchi aerei, per dare una svolta al conflitto servirà armare meglio i ribelli. «Però armare i ribelli senza addestrarli è un’operazione monca. Certamente è un primo passo per una successiva loro organizzazione. Armare unità prive di addestramento non darebbe grandi vantaggi sul terreno militare». Insomma, costruire un esercito della Cirenaica ci porterebbe verso un sempre maggior coinvolgimento nella guerra libica, un po’ come successe agli Usa nel Vietnam. «In Sudest asiatico c’erano molti consiglieri americani, ma non si limitavano a fornire armi e ad addestrare. Partecipavano in prima persona alle operazioni belliche. I consiglieri erano coinvolti direttamente negli scontri. Al momento non abbiamo informazioni simili dalla Libia». E se un giorno dovessero arrivare certe notizie saremmo di fronte a una escalation nella guerra contro il raìs.
in America latina. In questi giorni è stata avanzata l’ipotesi del Ciad. Francamente questa è la meno plausibile. Per tre motivi: è dalle piste di questo Paese che partono molti dei Mirage francesi che stanno bombardando gli uomini del colonnello. Gheddafi è un leader rancoroso e non dimenticherà lo sgarbo di Ndjamena. Il Ciad, inoltre, è da anni in aperto contenzioso con il vicino Sudan per la questione Darfur. Gheddafi, assurgendo a paciere in seno all’Unione africana, ha più volte preso posizione in favore di Karthoum. Infine, il Paese vanta la più estesa riserva di uranio al mondo. Questo significa la presenza di investitori stranieri che giungono da tutto il mondo – soprattutto Cina e, ancora una volta, Francia – accompagnati dai loro contractor. Non si voglia che Gheddafi, una volta scappato dalla Libia, possa incontrare un commando di dubbia provenienza! Del resto, nemmeno gli alleati continentali del ex rais, Omar al-Bashir in Sudan e Robert Mugabe dello Zimbabwe, possono garantirgli un esilio sereno all’ombra della sua tenda beduina. L’intera Africa, soprattutto alla luce delle rivolte al nord e in Medioriente, è sinonimo di instabilità e di improvvise fiammate rivoluzionarie. Al giorno d’oggi, non c’è dittatura che possa certificare la propria sopravvivenza su un lungo periodo. È plausibile che questo Gheddafi l’abbia intuito.
Al contrario, il Venezuela di Hugo Chavez appare più stabile. Fra i due leader l’amicizia personale non è incrinata da precedenti negativi. Inoltre, il venezuelano ha più volte offerto il proprio aiuto. Caracas, quindi, potrebbe far comodo a Gheddafi. L’ex raìs alla ricerca di una sede straniera da dove continuare la sua lotta personale. Magari non più in termini militari. Per quanto non è detto che si ritorni ad avere un Gheddafi che sponsorizza attività terroristiche in Occidente. L’importante però per il colonnello è salvare se stesso e garantire un futuro al suo clan, attraverso quelle risorse economiche non ancora congelate. Proprio Chavez, nell’invettiva anti-occidentale di martedì, parlava di un «furto di 200 miliardi di dollari, perpetrato da questo nuovo colonialismo a spese della Libia». Da notare che, solo cinque mesi fa, i due regimi avevano creato un fondo di investimento comune, della somma di 1 miliardo di dollari. Per Gheddafi, in proporzione a quanto gli è stato confiscato, questo è nulla. Si tratta comunque di un capitale iniziale. Il contenitore di questi progetti c’è già e si chiama “Fondazione afro-latinoamericana di sostegno per Gheddafi”. Mancano solo le idee. Arriveranno da Tripoli?
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la crisi libica Un saggio della docente di Storia siriana di Cambridge
Siria Story Il Paese dei colpi di mano
Quelle di oggi sono soltanto le ultime testimonianze di una lunga storia di dissidenza e rivolta contro il potere. La Stato, infatti, è diventato moderno grazie a innumerevoli rovesciamenti, guidati sia dall’esercito che dai baathisti. Gli ultimi scontri risalgono al 2000, subito dopo la morte di Assad (padre) di Anne Alexander ra da decenni che non si vedevano proteste di massa in Siria, ma la nazione vanta una ricca e lunghissima storia di rivolte. E di repressione. Oramai quarantuno anni fa, la Rivoluzione della Correzione mise al potere Hafaz al-Assad (padre dell’attuale presidente, Bashar al-Assad), che lo tenne strettamente per se. A quel tempo, il regime baathista (dal nome del Partito Baath) si trovò costretto a rispondere a un piccolo numero di sfide alla sua autorità, almeno nella forma delle proteste popolari. Una protesta feroce, combinata con ripetute promesse di cambiamento, ha mantenuto il nucleo dei dissidenti chiusi al sicuro in gruppi di discussione fra intellettuali.
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Da qualche anno, questi gruppi sono stati rimpiazzati da internet. Tuttavia, i politici siriani non si sono mai comportati come quelli attuali. Dai primi anni Quaranta ai primi anni Sessanta del secolo scorso, infatti, il panorama politico della Siria è stato spesso sconvolto da competizioni accese fra forze diverse, opposte l’una all’altra. L’esercito, ad esempio, ha giocato in questi eventi un ruolo cruciale: nel solo 1949 si sono verificati tre colpi di Stato militari. Un altro si è visto nel 1954, mentre nel 1963 e nel 1966 è stato il Baath a guidare le insurrezioni all’interno del potere. Un peso altrettanto importante va concesso
alla “politica della strada”; dimostrazioni di piazza e violenti scontri sono divenute forme comuni di protesta.
L’esercito, con il tempo, è divenuto sempre più politicizzato: i giovani ufficiali si sono fatti via via influenzare sia dai comunisti che dai baathisti, entrambi guidati dal desiderio di cambiamenti radicali. Socialismo di stampo sovietico da una parte, una versione araba della stessa ideologia dall’altra.
guenze disastrose per quei regimi repressivi che si sono succeduti. Tutto cominciò con la circolazione di alcuni volantini anti-governativi, che il generale Shishakli prese come una sfida personale. Per rispondere, inviò l’esercito nell’area meridionale di Jabal – a maggioranza drusa – con l’ordine di arrestare i leader di quella minoranza. I manifestanti scesi in strada per difendere i propri dirigenti vennero uccisi dai soldati, e questo scatenò nuove proteste. Ad Alep-
tutti i leader della rivolta. Un mese dopo, davanti alla mobilitazione nazionale, venne costretto a liberare i dissidenti e cedere loro il potere.
po, e in altre città del nord e del centro della Siria, diverse migliaia di studenti e di operai decise di sostenere la rivolta e scese in piazza contro il governo: finirono tutti nella repressione più feroce. Nel gennaio del 1954, il generale decise un gesto eclatante e arrestò praticamente
giore repressione dei civili avvenuta nel Paese. Siamo nel 1976, e la Siria interviene nella guerra civile libanese per combattere contro la sinistra nazionale e le fazioni palestinesi: questa scelta provoca il furore popolare, e la gente scende in piazza per chiedere riforme
Il peso di Aleppo si era dimostrato decisivo. In maniera molto inusuale per la Siria, i leader diedero il potere ai civili e indissero libere elezioni. Da quelle uscì un esecutivo debole, che spianò la strada alla Rivoluzione di Assad. E proprio lui ordinò, negli anni Settanta, la peg-
Nel 1954, la rivolta di Aleppo costringe l’allora presidente a dimettersi. Perso l’appoggio dei militari, va in esilio Gli eventi del 1953-1954 culminarono con il rovesciamento dell’allora presidente Adib Shishakli: questo sottolineò in maniera molto efficace quanto il malcontento stanziato nelle province può arrivare, in un Paese come la Siria, a rovesciare il centro politico con conse-
31 marzo 2011 • pagina 15
All’ingresso del presidente in aula, cori e applausi nel Parlamento nazionale
Assad decide di giocare in attacco: «C’è una congiura, la sconfiggeremo» di Vincenzo Faccioli Pintozzi a Siria «è al centro di una congiura che ha due teste, una interna ed una esterna. Ma noi non ci faremo intimorire, e sconfiggeremo gli autori di questa infamia». Sceglie di giocare in attacco Bashar al-Assad, presidente siriano, che ieri mattina si è recato al Parlamento nazionale di Damasco per un discorso, rivolto alla nazione, che avrebbe dovuto chiarire la situazione del Paese sconvolto da sanguinose proteste di piazza. Accolto da una raffica di applausi e di slogan a suo favore, il “leoncino” siriano ha detto: «Il nostro Paese è da tempo al centro di questo complotto. Semplicemente, negli ultimi tempi, si sono velocizzati i tempi della rivola. La popolazione ès tata presa in giro, è scesa in piazza con motivazioni indotte e sbagliate». Si spiegherebbe in questo modo anche il massacro dei civili avvenuto a Dara’a, dove la polizia ha aperto il fuoco contro i manifestanti uccidendo sessanta persone: «Quella città è nel cuore di ogni siriano, ma proprio per questo è anche nel mirino del più grande nemico di Siria, Israele. Sarà la stessa popolazione di Dara’a a trattare gli autori della protesta come meritano». Al di là della retorica e della difesa d’ufficio – nonché dell’onnipresente accenno al complotto internazionale – il presidente non ha spiegato quando e come intende revocare lo stato d’emergenza in vigore nel Paese da cinque decenni.
L
democratiche e stato di diritto, da cedere a funzionari laici e non religiosi. L’allora presidente Assad (padre) decise di usare la forza bruta contro i dissidenti. Dichiarando di voler combattere gli estremisti islamici – accusati di attacchi contro membri del regime e di una serie di bombe esplose in giro per il Paese – l’esercito viene inviato a circondare la città di Hama. Nel 1982, con la dimostrazioni al loro massimo storico, il Leone di Siria ordina ai suoi soldati di entrare in città e “ripulire”.
La maggior parte delle abitazioni viene distrutta, si parla di almeno 10mila morti ammazzati. È la più sanguinosa repressione ordinata contro dei civili da un potere centrale, che verrà rimpiazza-
Nel 1982, ad Hama, il Leone di Siria ordina ai soldati di entrare in città e “ripulirla”. Muoiono oltre 10mila civili ta dalla memoria di piazza Tiananmen. Il bagno di sangue di Hama, e un capillare lavoro di repressione contro la rete di sinistra e liberale nel Paese, producono 20 anni di calma apparente nel Paese. Una calma che si infrange alla morte del Leone. Nel 2000, dopo la dipartita di Hafez al-Assad, i critici del regime e gli intellettuali guidarono il “risorgimento della protesta” contro il governo in quella che venne chiamata “la Primavera di Damasco”.
Nata in effetti come una discussione di natura intellettuale, e non proprio un movimento di protesta, portò alla rinascita dell’attivismo politico fra la classe media e borghese del Paese: alcuni di quelli in strada guidano le proteste di oggi. Una figura di questo calibro è
Suhair al-Atassi, che ha fondato il Jamal al-Atassi Forum: si tratta di un gruppo di discussione che prende il nome dal padre defunto, anche lui politico e per molti anni critico acceso dell’esecutivo.
Il Forum è stato chiuso d’autorità nel 2005, ma la signora Atassi lo ha da poco riaperto sulla nuova piattaforma multimediale dell’internet “Discussion group”. Ma la Atassi è stata molto attiva anche nelle campagne sulla Rete: celebre quella a sostegno di Tal al-Mallouhi, una giovane blogger al momento in prigione per la sua opposizione al regime. Quando sono iniziate le proteste in Egitto e Libia, la Atassi e alcuni dei maggiori attivisti dissidenti del Paese hanno cercato di organizzare delle proteste pubbliche di piccole dimensioni. Ad esempio, spiega l’amico di famiglia Mounir Atassi, «avevano deciso di riunirsi con delle candele in mano davanti alle sedi delle ambasciate dei Paesi coinvolti. Stavano facendo soltanto quello». La polizia non ha gradito e ha caricato: il 16 marzo, Suhair al-Atassi è stata arrestata nel corso di una dimostrazione a favore dei prigionieri politici organizzata dai parenti degli arrestati. A pochi giorni dal suo arresto sono iniziate le rivolte di Dara’a, che a loro volta hanno scatenato un circolo di proteste e repressione con il potenziale di radicalizzare anche quei siriani che di natura resterebbero a casa. Mounir Atassi sottolinea però che tutti questi attivisti si sono impegnati per le riforme, non per la rivoluzione. Uccidendo i manifestanti, però, il regime sta costringendo la popolazione a reagire: «Ora si sentono molte più persone chiedere un cambiamento completo, e nessuno può dire dove queste richieste porteranno. Se l’esecutivo e il presidente continuano semplicemente a parlare di riforme, senza fare nulla, scateneranno ancora di più le ire del popolo». In effetti l’atteggiamento deciso dall’esecutivo di dimettersi in massa non ha calmato le manifestazioni nè tanto meno ha placato la richiesta di riforme, che Assad giura di voler firmare ma di cui ancora non si sa assolutamente nulla.
Nessun accenno neanche alle riforme economiche e popolari promesse alla gente, che versa in uno stato d’affanno sin dal 2005. E che, proprio per la disastrosa condizione delle classi medie e medio-basse ha deciso la mobilitazione generale. In ogni caso, Assad ha voluto dimostrare di avere ancora l’appoggio del suo popolo: secondo fonti di stampa, i membri del potentissimo Partito governativo del Baath sono accorsi in massa (per la verità dopo un ordine diretto dei quadri locali) alle manifestazioni a suo favore che si sono svolte nella mattinata di ieri. Un primo risultato i manifestanti anti-governativi lo hanno ottenuto: le dimissioni in
massa dell’esecutivo, che due giorni fa ha rimesso il mandato nelle mani del presidente. Una mossa probabilmente di facciata, dato che l’apparato di potere in Siria non prevede che l’esecutivo possa fare alcunché senza l’approvazione di Damasco.
In ogni caso un nuovo governo dovrebbe essere nominato prima della fine della settimana. Resta il nodo dello stato di emergenza, strumento principe per il mantenimento del controllo da parte del regime. Secondo il testo, varato dal padre di Assad (il Leone di Siria) pochi istanti prima di proclamarsi presidente, le forze di sicurezza interna hanno il potere arbitrario di arrestare e detenere per diversi giorni qualunque esponente della società civile. Secondo le promesse di Assad figlio, al nuovo governo sarà affidato il compito di studiare, redigere e varare delle nuove norme di stampo liberale per quanto riguarda la libertà di espressione, quella dei media e quella politica. Le riforme dovrebbero prevedere inoltre la possibilità di fondare nuovi Partiti politici e altri strumenti a tutela della libertà civile. Molto atteso un testo contro la corruzione, oramai endemica in tutti gli strati della Siria. Secondo Aktham Nuaisse, attivista per i diritti umani, la nazione «è a un punto di svolta. Se il presidente prende misure riformatrice immediate e drastiche può evitare il peggio. Che, altrimenti, si abbatterà su tutta la nazione. Se intende guidare il Paese verso una vera trasformazione democratica, incontrerà il popolo a metà strada: altrimenti saremo noi ad andarlo a cercare». Rimane il nodo anche dello scontro interno ai Palazzi del potere, che vede contrapposta la fazione iper-conservatrice a quella, meno potente, dei riformisti. La prima spinge per una repressione radicale e sanguinosa - senza vincoli di sorta e con l’ingresso in campo dell’esercito - mentre la seconda opta per un dialogo con i leader della protesta. Pur sapendo di rischiare, dato che il “repulisti”è praticamente dietro l’angolo.
ULTIMAPAGINA I ricercatori della Secure Systems Lab scoprono cifre da record
Ecco il business dello spam, chi vuole essere di Francesco Lo Dico arà capitato anche a voi, di attendere un’importante mail di lavoro. E che poi, senza neanche un suono d’allerta, Mister Cialis irrompa nella vostra posta, e zumzumzum, vi ritroviate sommersi da imperdibili offerte di pasticchine blu. Che si tratti di un’opera di bene patrocinata da colleghi premurosi, o di un volgare complotto ordito ai vostri danni dalle toghe rosse, il reato esiste ed è tanto più odioso perché vi colpisce nell’esercizio delle vostre funzioni e con l’onere di discolparsi a carico vostro. Non servirà dichiararsi nipotini di John Holmes, dichiararsi minorenni al tempo dell’invio, o prezzolare le dichiarazioni di dame caritatevoli. Niente, neppure la miracolosa tempra promessa di Mister Cialis, può essere più coriaceo e resistente dello spam. E il perché è presto detto.
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L’industria della spazzatura elettronica, avviata con successo più di trent’anni fa quando internet si chiamava ancora arpanet, produce qualcosa come 120 miliardi di messaggi al giorno (circa il 90 per cento di tutti le mail del pianeta), conta su un giro d’affari di 7 miliardi di dollari e consente agli operatori più pervicaci guadagni che arrivano sino a quattro milioni di dollari annuali. Una buona alternativa, insomma, per chi non se la sente di diventare Sergio Marchionne. Ma come funziona la filiera della
MILIONARIO? ta. Questa speciale unità di computer sfuggiti al guinzaglio dei loro proprietari, si chiama botnet, una serie di pc zombie che obbediscono alla volontà dello spammer grazie al succitato malware. E tra i botnet più aggressivi, c’è ad esempio Cutwail, una specie di termovalorizzatore della spazzatura che nemmeno ad Acerra. La società offre ai suoi piccoli imprenditori la possibilità di creare campagne di spamming in pochi clic. Gli infiltrati di Secure Systems hanno valutato che dai sedici server a cui hanno avuto accesso, sono partiti circa 1.700 miliardi di messaggi di spam fra il giugno 2009 e l’agosto 2010 raggiungendo il 30 per cento di indirizzi attivi. A disposizione della simpatica azienda circa 120mila computer infettati, di cui il 30 per cento situato in India, dove esistono migliaia di utenti che si sono specializzati nel fare gli untori.
L’industria della spazzatura elettronica produce qualcosa come 120 miliardi di messaggi al giorno, conta su un giro d’affari di 7 miliardi di dollari e consente guadagni fino a quattro milioni mail avariata, che ogni anno costa alle aziende danni stimati per 140 miliardi di dollari? Qualche utile informazione è stata estorta da alcuni infiltrati dell’International Secure Systems Lab. Alla base di tutto ci sono i malware, speciali virus che zompettano da un computer all’altro, e si propagano in reti gigantesche che fanno da supporto logistico all’invio della mail infet-
Ciascuno spammer noleggia la botnet a un costo compreso tra i 100 e i 500mila dollari al giorno per il pacchetto da 100 milioni di e-mail, oppure per 10mila dollari al mese per la soluzione “flat”. Un po’ caro dite? Non tanto, se paragonato a guadagni compresi tra 1,7 e 4,2 milioni di dollari a a partire da giugno 2009. Senza contare che sono in grande espansione anche i nuovi mercati del web come siti, blog, social network e cellulari. Ma come si rubano, tecnicamente tutti questi soldi? Spesso attraverso il phishing,la pesca di frodo, che spesso clona le
pagine dei nostri servizi bancari e dei gestori telefonici per indurci a immettere on line le password di carte di credito e conti correnti.Tra i Paesi più fiorenti nell’industra dello spamming, si annoverano i cosiddetti Bric (Brasile, Russia, India e Cina), e per dire quanto l’industria sia seria, basti dire che anch’essa ha risentito della grande recessione del 2008, per vedere crescere di nuovo i propri profitti nell’ultimo anno. E l’Italia? Quando si tratta di arrangiarsi, non temiamo concorrenza di solito. E invece siamo il terzo Paese più bersagliato dal phishing dopo Stati Uniti e Germania.
Ma c’è anche una specie di legge del taglione anche nel mondo dello spamming. Perché i maggiori esportatori di spazzatura sono gli Usa con il 22 per cento del mercato, seguiti a siderale distanza dall’India ferma al 6 per cento. Ma perché il fenomeno non è stato mai intaccato seriamente dalle industrie di sicurezza? Se esiste l’antimafia, esiste anche la mafia, direbbe il sommo. Il Belpaese si aggiudica a proposito un onorevole ottavo posto nell’hit parade dello spam. Niente male, per chi ci dipinge come i personaggi di Mario Puzo, tutti coppola e mandolino. Mica perdiamo tempo con la spazzatura virtuale, noi. Siamo vecchi e retrogradi, e ci piace sporcarci le mani con la spazzatura vera.