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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

he di cronac

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 2 APRILE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il Paese è ormai bloccato dal triangolo Berlusconi-Mills-Ruby: ma tutta la maggioranza fa finta di niente

Questi tre paralizzano l’Italia Il governo pensa solo ai processi del premier: così vince il caos Napolitano conclude le sue consultazioni “anomale” con i gruppi parlamentari: un’estrema pressione morale per evitare nuove crisi istituzionali. Ma già incombe il conflitto di attribuzione... Lettera aperta ai moderati del Pdl

È già fallita la «cabina di regìa» voluta dall’esecutivo

Le Regioni bocciano il piano Maroni: «No alle tendopoli»

Pisanu, Scajola, Formigoni: parlate prima che sia tardi di Savino Pezzotta a cosa che mi stupisce più di tutto in queste ore è il silenzio di quell’area liberale e moderata che opera all’interno del Pdl. È ai membri e ai rappresentanti di quest’area che mi rivolgo, per domandare loro se non sia arrivato oggi il tempo di dire qualcosa riguardo questa situazione. a pagina 4

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È ora di far nascere la Terza Repubblica

L’indecenza è al potere: il bipolarismo distrugge il Paese di Enrico Cisnetto ipugnante. Sconfortante. Sono tante, troppe, le definizioni drammatiche che si possono usare per descrivere il disastro provocato dall’artificiale mantenimento in vita di un sistema politico ormai putrefatto e di un assetto istituzionale così logorato da non vederne neanche più la trama originaria. a pagina 2

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Parla il costituzionalista Capotosti

«Attenti, quello del Capo dello Stato è l’ultimo avviso» «Non è in corso una crisi, eppure il Colle convoca i capigruppo: una prassi molto inusuale. È in arrivo una tempesta politica» Francesco Lo Dico • pagina 3

«È uno tsunami umano», dice il Cavaliere. Eppure da settimane il Viminale l’aveva previsto. I Governatori contro i «campi di concentramento» e la Chiesa offre 2500 posti nelle diocesi. Nuova rivolta a Manduria: i profughi scappano Marco Palombi • pagina 8

L’esecutivo non ha capito la “nuova storia” di Lampedusa di Francesco D’Onofrio

Metamorfosi di un ex-equilibrato

Così in un pomeriggio Alfano perse il voucher di “delfino” Il colpo di mano e lo scatto di rabbia: così il Guardasigilli ha dilapidato il suo (piccolo) capitale di credibilità

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sommovimenti in atto in molti Paesi nordafricani stanno ponendo sempre più in evidenza la necessità di un ripensamento culturale anche radicale della definizione dell’interesse nazionale italiano nel contesto della prospettiva europea. Abbiamo infatti assistito all’arrivo tumultuoso a Lampedusa di migliaia di persone che non è semplice distinguere tra richiedenti asilo; profughi da aree di conflitto; aspiranti in genere ad un tenore complessivo di vita diverso da quello dei Paesi di provenienza.

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segue a pagina 8

Giancristiano Desiderio • pagina 5 I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

64 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’analisi Non occorreva essere dei profeti per capire che il bipolarismo non avrebbe funzionato in un Paese di Guelfi e Ghibellini

L’indecenza al potere

Siamo all’agonia di una lunga stagione. Vi ricordate quando Veltroni bi-parteggiava con Berlusconi? La Seconda Repubblica è da archiviare il fatto di Enrico Cisnetto

ipugnante. Sconfortante. Sono tante, troppe, le definizioni drammatiche che si possono usare per descrivere il disastro provocato dall’artificiale mantenimento in vita (si fa per dire) di un sistema politico ormai putrefatto e di un assetto istituzionale così logorato da non vederne neanche più la trama originaria.

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C’è molta stanchezza nello scriverne, lo confesso. Intanto perché sento dentro di me tutta la frustrazione di chi aveva avvertito per tempo dei rischi che si correvano – nello specifico fin dalla nascita della Seconda Repubblica, anzi prima ancora che accadesse, nel maledetto biennio tra il 1992 e il 1994 – e tuttavia non è stato per nulla ascoltato. E in secondo luogo, perché trovo non meno deprimente lo sdegno rilasciato a piene mani da chi non ne ha proprio titolo. Non solo perché arriva tardi, o perché pretende di essere esente da responsabilità quando invece ha partecipato al banchetto fino a ieri. Ma soprattutto, perché si ostina a non vedere che la crisi è sistemica, non frutto del caso (l’involuzione della destra e della sinistra) o della sfortuna (l’esistenza di Berlusconi).Voglio dire che se abbiamo una classe politica ignorante e indecente, se il

Anche monsignor Crociata plaude all’appello del Quirinale

Il disco rotto di Calderoli: «Adesso Fini deve dimettersi» ROMA. Anche la Chiesa è preoccupata per il decadimento del clima politico italiano: «Il richiamo del Capo dello Stato alle forze politiche porta ad auspicare tutta la serenità necessaria a svolgere i compiti e di servizi a favore della collettività» ha detto ieri il segretario generale della Cei, monsignor Mariano Crociata, chiedendo uno sforzo verso la serenità «a tutti coloro che occupano ruoli pubblici». Sulla stessa linea d’onda, almeno dal punto di vista formale, anche il presidente del Senato Renato Schifani che sposa le posizione del Colle, sperando che l’appello venga recepito da tutte le forze politiche. Secondo Schifani «quello che ha fatto ieri il presidente della Repubblica è importante perché ha invitato tutti a tenere un atteggiamento non soltanto parlamentare ma anche politicamente più consono ad una democrazia». Ma come sempre in questi casi, tutti plaudono all’iniziativa del Capo dello Stato di convocare i capigruppo al Quirinale, salvo dare agli altri la colpa del caos di questi giorni. Per esempio la Lega, per bocca del sempre loquace Calderoli, ha detto che Napolitano ha ragionissima a chiedere calma e compostezza (due cose che obiettivamente hanno pochi adepti nelle file del Carroccio) però «Fini se ne deve andare». E ha aggiunto:

«Mi auguro che il presidente abbia colto l’occasione per dare qualche bella tirata d’orecchie per gli eccessi visti in parlamento in questi giorni, ivi compresi quelli di alcuni rappresentanti di governo. È evidente che il problema oggi è quello della presidenza della Camera: Fini ha il dovere di tutelare le minoranze, ma non può tutti i giorni prendere a calci la maggioranza per il suo livore verso Silvio Berlusconi e verso quell’alleanza che lo ha portato a essere eletto deputato prima e presidente della Camera poi». Secondo il leghista, «fino a oggi le cose sono andate così, ma il non aver consentito ieri a dei ministri, che sono anche deputati e che erano presenti in aula, di poter esprimere il loro voto rappresenta un vulnus insanabile. Per far tornare a funzionare il Parlamento, dopo le necessarie tirate d’orecchie, la soluzione è una sola: Fini si deve dimettere, stop». Immediata la replica di Fli. «Le dichiarazioni di Calderoli rendono ancora più manifesto il ruolo di braccio armato del berlusconismo svolto dalla Lega», ha commentato il coordinatore nazionale Roberto Menia.

Parlamento non funziona e il governo (come quelli precedenti) non governa, se il tema del costo della democrazia è irrisolto e di conseguenza continua ad essere anomalo il rapporto tra politica e magistratura – e potrei proseguire all’infinito – tutto questo è perché abbiamo scelto un sistema politico e una normativa elettorale impropri, che sottendono una precisa (in)cultura politica di stampo populista, e perché abbiamo mantenuto architetture istituzionali e costituzionali proprie di un’altra epoca, sia stridenti con il “nuovismo” introdotto dal maggioritario e dal bipolarismo, sia impedenti la modernizzazione – diciamo di stampo tedesco, per semplificare – che noi “terzisti” abbiamo (inutilmente) indicato al Paese.

E quando le abbiamo modificate, come nel caso del titolo V della Costituzione, lo si è fatto nel modo più sbagliato. Anche per questo c’è da farsi il fegato grosso quando si sente dire dai benpensanti “ci vorrebbe più dialogo”,“i politici sono troppo litigiosi” e altre ovvietà simili. Non perché non si avverta il bisogno di tutto questo, anzi, ma perché non si può plaudire alla scomparsa dei partiti, dopo averli bollati come il peggiore dei mali possibili,


prima pagina

2 aprile 2011 • pagina 3

l’intervista

«Quello del Colle è l’ultimo avviso» «Convocare i capigruppo è un atto inusuale: quasi un preavviso di crisi», dice Capotosti ROMA. «Non è in corso una crisi ministeriale, eppure il presidente della Repubblica convoca i capigruppo al Quirinale come se questa fosse in atto. Si tratta di una pratica del tutto inusuale, e forse senza precedenti. Sorge il dubbio che Giorgio Napolitano ormai non creda più nella consistenza di questa maggioranza, e che l’escalation di comportamenti poco rispettosi delle istituzioni lo abbia fortemente scosso. Quando il capo dello Stato interviene in modo così diretto nell’agone parlamentare, e ricorre a prerogative solitamente considerate come eventuali, è segno che l’equilibrio delle Camere è labile». Presidente emerito della Corte costituzionale, Piero Alberto Capotosti commenta così le allarmanti notizie provenienti dal Colle che vedrebbero ormai notificato al governo Berlusconi il preavviso di sfratto. Presidente, anche Giorgio Napolitano è stufo di questo governo? La convocazione dei capigruppo lascia pensare a un Quirinale in forte allarme, che non si accontenta della rituale convocazione dei presidenti delle due Camere, ma intende tastare il polso della situazione direttamente dalle voci di maggioranza e opposizione. Ma c’è dell’altro. Dica pure. Non solo si può supporre che Nanon si può votare in massa per l’abolizione del sistema proporzionale (bastava modificarlo aggiungendo lo sbarramento, e introdurre la sfiducia costruttiva), non si può volere la personalizzazione della politica riducendo le proprie opzioni elettorali per questo o quel candidato premier (cosa peraltro incompatibile con l’attuale dettato costituzionale), non si può immaginare virtuosa la riduzione del gioco politico a due (poli o partiti che siano) nel paese dei guelfi e ghibellini, non si può volere tutto questo e poi lamentarsi se tutto si riduce solo allo scontro tra berlusconismo e anti-berlusconismo, e per di più con modalità e toni a dir poco volgari.

di Francesco Lo Dico politano intenda vagliare se la tenuta di questo governo è fattuale, e non sia invece rimasta soltanto sulla carta. Ma l’operazione del presidente della Repubblica può essere letta anche come un primo sondaggio teso a valutare la presenza di maggioranze alternative. I recenti teatrini devono averlo spazientito. Le immagini diffuse in ogni dove in questi giorni lasciano senz’altro basiti, ma oltre a una diffusa condotta sopra le righe, ci sono altre ragioni che possono aver condotto alla minaccia di scioglimento della Camere.

Napolitano teme il peggio: vuole tastare il polso del premier. Le aule hanno prodotto fino a ora poco o nulla

La bagarre sul processo breve? La disfida sulla giustizia non è che l’ultimo episodio di un lungo cortocircuito. Ma il problema è ancora più sostanziale. Ciò che giustifica lo scioglimento delle Camere è il criterio di funzionalità delle stesse, la loro produttività. E se si osserva a fondo l’attività legislati-

sulla base dell’ineluttabilità dello schema bipolare? Non era lui che predicava il bipolarismo temperato, sostenendo che quello armato era figlio solo di un ritardo di maturazione. E non era sempre lui quello che scelse l’alleanza con Di Pietro, cioè proprio con chi in questi anni ha fornito il più grande aiuto a Ber-

va di questo governo, i risultati sono alquanto scarni: alcuni decreti, leggi delegate, e un ricorso consistente a voti di fiducia. In effetti è opinione diffusa che l’unica cosa riuscita bene a questo governo, è la paralisi. Il fatto è che non basta la presenza di una maggioranza per considerare percorribile il prosieguo della legislatura. Occorre saggiare anche la consistenza della stessa, e come detto, la sua funzionalità rispetto alle necessità del Paese. Inoltre, rispetto al 2008, va annotato che siamo in presenza di un cospicuo rimpasto, rispetto alla volontà popolare che insediò al potere questo governo Fli, Responsabili, più di cento “trasferimenti”. Una specie di nuova elezione, in pratica. Ma il Quirinale scioglierà davvero le Camere? Quella del presidente della Repubblica è un’operazione di moral suasion in piena sintonia con l’altissimo profilo morale proprio di Giorgio Napolitano. Il capo dello Stato tenta di stimolare il corretto funzionamento delle istituzioni, che evidentemente reputa a rischio. Ma la Costituzione stabilisce che la decisione di porre fine alla legislatura, dovrebbe essere controfirmata anche dal presidente del Consiglio. Intesa complicata. Berlusconi accuserà il colpo? L’attivismo del capo dello Stato è inversamente pro-

la pazienza di trovare una soluzione. Andare alle elezioni a giugno, suggerisce Casini con non poche ragioni. Certo, le elezioni interromperebbero questa spirale maledetta. Ma sarebbero fatte con questa legge elettorale assurda e con questo personale politico meno che scadente, e si terrebbero in questo clima di

Lo spettacolo sconfortante di questi giorni non è che l’ennesimo passaggio di un processo di decadenza politica e sociale che iniziò addirittura negli anni Novanta

Ho letto alcune dichiarazioni di Walter Veltroni, giustamente angosciato, in cui si definisce Berlusconi «una tragedia per l’Italia». Ma non era lui, da leader del Pd, a insistere per la legittimazione reciproca dei due poli, fino ad arrivare al bipartitismo,

lusconi, regalandogli le stigmate della vittima della persecuzione mediatico-giudiziaria?

Insomma, «chi è causa del suo mal pianga se stesso», recita un detto molto saggio, utile come non mai a descrivere motivi e responsabilità della situazione drammatica che l’Italia sta vivendo, proprio nel momento in cui festeggia – con eccessi di retorica, visto poi com’è la pratica – i suoi 150 anni di vita unitaria. Ma questa constatazione non deve toglierci la voglia, la forza e

esasperazione e di scontro. Dunque, non è detto che segnino la discontinuità che è necessaria. Occorre qualcosa di più. Occorre che la parte sana del Paese abbia un sussulto, ed esprima un disegno riformatore più compiuto. Ma per ottenere questo risultato bisogna che il Polo per l’Italia faccia da ostetrica e balia. Suggerimento a Casini e agli altri: convochiamo gli “stati generali” della Terza Repubblica. Subito. (www.enricocisnetto.it)

porzionale alla solidità del governo. Se il Quirinale implementa le proprie attività al di là delle pratiche consuete, è segno che il quadro politico è diventato fortemente instabile. Che cosa dice la Costituzione di insulti e schiaffoni? Ciò che accade è imputabile a un bipolarismo muscolare, che mostra i bicipiti e urla le sue ragioni. Il metodo Calderoli ha infiammato gli animi e liberato i politici dal rispetto per i propri elettori. Ma per la fattispecie dei recenti schiamazzi, non serve scomodare la Carta. È più che sufficiente la buona educazione.


l’approfondimento

pagina 4 • 2 aprile 2011

«Non si tratta di cambiare parte politica, ma di capire che l’attuale crisi rischia di travolgere tutti»

Prima che sia tardi

Lettera aperta a Pisanu, Scajola, Formigoni, Tremonti e a tutti i moderati del Pdl: è arrivato il momento di alzare la voce e difendere la vostra tradizione. Se aspettate ancora, delle istituzioni rimarranno soltanto le briciole di Savino Pezzotta a cosa che mi stupisce più di tutto in queste ore, rispetto anche a quanto è avvenuto nei giorni scorsi all’interno dell’aula della Camera dei Deputati, è il silenzio di quell’area liberale e moderata che opera all’interno del Popolo delle libertà. È ai membri e ai rappresentanti di quest’area che mi rivolgo, per domandare loro se non sia arrivato oggi il tempo di dire qualcosa riguardo questa situazione. Potete assistere, voi democratici e liberali, allo sfascio delle istituzioni che si sta compiendo? Potete assistere, sempre voi, al declino irrefrenabile di questo Paese? Potete assistere al crescente incattivirsi degli animi, sia nella politica che nella società civile? Non dovreste.

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Davanti a tutto questo, non potete rimanere in silenzio. Non potete farlo perché, se scegliete questa strada, vi rendete complici di una deriva populista che a questo punto è di-

venuta radicale. Questo modo di fare, questa complicità, non sta bene e non aiuta nessuno.

Io non vi sto chiedendo di cambiare partito, parte politica o schieramento: queste sono decisioni che appartengono all’ambito del dibattito politico, altra cosa rispetto a quello di cui stiamo parlando. Non sto dicendo che dovete passare da una parte all’altra: dico invece che è arrivato il momento per voi di far valere in maniera ef-

ficace e seria quella dimensione moderata che so che vi appartiene. Se siete veramente custodi della democrazia e della Costituzione – come dovremmo essere tutti noi che operiamo in politica – e se avete veramente una dimensione temperata, vi chiedo se non sia arrivato il tempo di mostrare un moto d’orgoglio davanti a quanto sta accadendo in questi giorni. In particolar modo, mi rivolgo a coloro che hanno condiviso un’esperienza all’interno

Più degli insulti alla Camera, stupiscono i silenzi dell’area cattolico-liberale

della Democrazia Cristiana. Oppure, e il dubbio a questo punto è estremamente legittimo, avete scelto di attendere il momento in cui tutto declina?

Se questo dubbio dovesse essere corretto, vorrei dirvi una cosa molto importante: il giorno in cui tutto declinerà, potremo raccogliere soltanto le briciole di quanto abbiamo costruito. Parlo in maniera sincera, da democratico a democratici: parlo come una persona

che viene da un’esperienza di un certo tipo, conosciuta e condivisa. Con queste credenziali mi rivolgo a voi per dire: datevi una mossa, è arrivato il vostro momento. Aiutate questo Paese a uscire da quel declino che si è verificato nel tempo e che è pericolosamente in corso. Io credo che sia arrivato veramente il momento giusto, credo con forza che sia per voi arrivata l’ora di dimostrare qualcosa. Il pensiero va a Beppe Pisanu, Claudio Scajola, Roberto Formigoni e a quei tanti altri che, come loro, ho conosciuto nel corso di un’esperienza condivisa all’interno della Democrazia Cristiana: cosa avete voi a che spartire con quello che si sta verificando? Avete un dovere che non è soltanto morale ma anche politico: avete il dovere di dare un’indicazione, di dare una risposta a questo scempio.

Lo stesso dovere vale anche per un impegno che do-


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Il marasma sulla giustizia di questi giorni ha già fatto una vittima: il «delfino»

Le colpe del padre (Berlusconi) ricadono sul figlio (Alfano)

Sembrava l’uomo in grado di traghettare il centrodestra oltre il Cavaliere. Ma con un colpo di mano e un eccesso d’ira, il Guardasigilli ha perso tutto di Giancristiano Desiderio a riforma della giustizia senza giustizia ha fatto un’altra vittima: Angelino Alfano. Il ministro più vicino al presidente del Consiglio, così vicino da essere diventato quasi una sola cosa con lui, ha perso in un solo colpo calma e futuro politico. Aveva iniziato dicendo che la riforma sarebbe stata epocale e perciò fatta nel solo ed esclusivo interesse del Paese e ha finito facendo carte false per invertire l’ordine del giorno a Montecitorio e approvare alla bene e meglio la prescrizione breve con la quale il presidente del Consiglio archivierebbe il problema del processo Mills. Tra l’annuncio della riforma epocale e il colpo di mano sulla prescrizione breve deve essere accaduto qualcosa. Oppure non è successo proprio niente e tutto era già deciso da tempo. Come che sia, il ministro di via Arenula non c’ha fatto una bella figura.

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E pensare che il ministro siciliano era stato indicato da più parti, dopo l’uscita-cacciata di Gianfranco Fini dal Pdl, come il più probabile successore di Berlusconi. Lui, Alfano, si è sempre difeso e schermito, ma tutti sanno che il traghettatore giusto per il dopo-Berlusconi era proprio lui. Era. Perché la sua maldestra conduzione della riforma della giustizia e anche il gesto di stizza con il lancio della tessera parlamentare hanno di fatto cancellato la futura carriera politica di questo giovane di belle speranze. Tutta colpa della sfortuna? Tutta colpa dell’opposizione? Tutta colpa degli antiberlusconiani? No. La responsabilità del fallimento il ministro Alfano la deve imputare a se stesso: alle sue dichiarazioni degne di Pinocchio e al suo progetto più furbo che intelligente del tutto degno del gatto e la volpe. Due errori grossolani riassumibili nel detto comune “le bugie hanno le gambe corte”. Ma ai due sbagli Alfano ne ha aggiunto un terzo, tutto politico, ancora più grave: sulla riforma della giustizia il ministro, con la maggioranza, aveva chiesto la collaborazione dell’opposizione e l’opposizione - soprattutto i moderati - si erano sentiti in dovere di andare a vedere le carte e di dare la propria disponibilità perché bisogna saper distinguere tra cose e cose, Italia e Berlusconi. Sulla riforma della giustizia, dunque, si era avviato un nuovo percorso e anche il presidente della Repubblica confidava nell’apertura di un’altra stagione e di un clima più sereno e operoso. Insomma, sia lo stato dell’arte delle cose politiche, sia l’annuncio della riforma epocale richiedevano autorevolezza e il ministro aveva l’ob-

bligo di vigilare affinché le cose andassero per il verso giusto. Questo non significa che il ministro del governo Berlusconi avrebbe dovuto perdere il suo profilo politico di parte, ma semplicemente significa che proprio con il suo ruolo di governo avrebbe dovuto garantire il legittimo percorso istituzionale della riforma. Del resto, quando ci sono state le critiche ingiuste e insensate della magistratura i moderati non hanno esitato a difendere il diritto del ministe-

Era stato lo stesso premier a ripetere che per lui Angelino era un po’ come il suo successore naturale

ro di attuare in piena legittimità la riforma dell’ordinamento giudiziario. Se il ministro di Grazia e Giustizia fa sul serio, anche l’opposizione fa sul serio. Finalmente si poteva procedere ad un cambiamento significativo per l’amministrazione della giustizia. Purtroppo, il ministro Alfano non ha saputo tener fede alle sue stesse parole.

Era dalla fine dell’anno scorso che il governo non veniva a trovarsi ancora una volta sull’orlo del baratro. Era dai giorni della mozione di sfiducia respinta per un soffio ma pur respinta che il governo non metteva a rischio la sua esistenza. Questa volta, però, a differenza del recente passato, il fuoco è stato appiccato dagli stessi padroni di casa. E il ministro, da parte sua, ha fatto ciò che doveva impedire con tutte le sue forze intellettuali e politiche: doveva evitare che il clima tra maggioranza e opposizione si surriscaldasse proprio sul tema della giustizia. Alfano non ha saputo difendere la sua stessa linea politica, quella posizione che lui aveva scelto e indicato per dialogare con le forze politiche avversarie. Il riformismo nell’interesse degli italiani aveva fatto di Angelino Alfano un uomo politico dal profilo istituzionale sul quale si poteva investire anche per il futuro. Se fosse rimasto su queste posizioni Alfano forse si sarebbe fatto qualche nemico interno, ma avrebbe lavorato per sé e per il Paese. Invece, decidendo di rendere ad personam la riforma epocale ha lavorato per Berlusconi buttando a mare in un colpo solo tre conquiste: autorevolezza personale, riforma istituzionale, clima politico. Un capolavoro. Si racconta che una volta Berlusconi incontrando il padre di Angelino Alfano gli abbia fatto i suoi auguri e complimenti per cotanto figliolo che - aggiunse Berlusconi - «sento un po’ anche figlio mio». Da questa vicinanza quasi filiale che c’è tra il ministro della Giustizia e il capo del governo nasce l’idea di un Alfano traghettatore perché, forse, Berlusconi a nessuno perdonerebbe ciò che consentirebbe a “suo figlio” Angelino. Tuttavia, è da questa stessa vicinanza filiale che nascono anche gli attuali e clamorosi errori politici di Alfano: nel momento della verità il ministro non si è saputo distaccare dagli interessi personali del suo capo politico e non ha avuto la forze necessaria per porre la fondamentale distinzione tra ciò che è personale e di Berlusconi e ciò che è istituzionale e attiene allo Stato.

vete sostenere: dovete fare in modo veramente che questo Paese si avvii verso una dimensione più normale e più tranquilla. Vi ripeto che non sto parlando di alleanze o schieramenti: fino a che si rimane nell’ambito del dibattito politico non ho nulla da obiettare. Ma quanto sta avvenendo non ha nulla a che vedere con questo dibattito.

Qui siamo andati molto oltre la dialettica politica, e questo è un altro fattore che mi inquieta molto: io gli anni bui di questo Paese li ho vissuti e voglio ricordare non soltanto a voi, ma a tutti, che quando la politica declina emergono altre cose. Allora è in questi momenti che tutti, e voi per primi, devono mettere in campo un senso di responsabilità. Più che dei gestacci e della maleducazione del ministro della Difesa, Ignazio La Russa, e delle reazioni scomposte del ministro della Giustizia Angelino Alfano stupisce il vostro silenzio. Il vostro silenzio da cosa deriva? Un silenzio che è colpevole e incomprensibile, da cosa nasce? Non lo so, ma posso fare delle ipotesi. Questo potrebbe essere un silenzio strumentale, mantenuto per convenienza in attesa un giorno di poter ereditare le spoglie della coalizione politica. Ma non sarà così, perché è arrivato il momento – e mi rivolgo a chi ha il coraggio di prendere una decisione vera – di scendere in campo e cambiare veramente le cose. O p p u r e a v e t e p a u r a di qualcosa? Ma anche fosse così, e in effetti non penso che sia questo il caso, sarebbe preferibile dirlo piuttosto che stare con la bocca chiusa. Io credo che il vostro sia un silenzio un po’ opportunista, e forse sarebbe meglio infrangerlo e dimostrare invece di essere persone con un pensiero politico – anche diverso dal mio, dato che non è questo il problema – e di avere a cuore le sorti e gli interessi del Paese. Non quelli di Silvio Berlusconi e di quella cricca che lo circonda per interesse. Dovete dimostrare di essere persone, e politici, che hanno a cuore l’unità del nostro Paese e non invece il senso leghista della Padania: questo senso non ci appartiene, non appartiene a quella cultura cattolica e democratica che è anche liberale. Io sono veramente stupito: o avete perso del tutto la memoria - e avete dimenticato totalmente una storia, una cultura e un modo con cui si pensa il Paese oppure siete colpevoli e complici di quanto sta avvenendo. Se dovesse essere così, avete come minimo il dovere di dare un segnale. Quanto meno per non tradire proprio tutto quello di cui siete stati parte.


diario

pagina 6 • 2 aprile

Rinviate le nomine al vertice del Tg2

Salvata la mano del parà ferito

ROMA. Nomine rinviate e interim al Tg2 per il vicedirettore Mario De Scalzi. I consiglieri di amministrazione viale Mazzini hanno chiesto approfondimenti sulle nomine oggi sul tavolo del consiglio che per questo sono state rinviate alla prossima settimana. Al momento, la direzione del Tg2 andrà ad interim al vicedirettore Mario De Scalzi. Nomina passata a maggioranza: hanno votato a favore i cinque consiglieri di maggioranza e il presidente Garimberti, contrari i tre dell’opposizione, con il consigliere De Laurentis che annuncia ricorso. Soddisfatto il presidente Garimberti. «Sono particolarmente lieto - ha detto - che oggi non si sia proceduto con nomine che avrebbero lacerato il cda».

FIRENZE. L’intervento chirurigico al quale è stato sottoposto il tenente colonnello della Folgore Alessandro Albamonte, ferito giovedì durante l’esplosione di un pacco bomba recapitato alla caserma livornese Ruspoli, è «ottimamente riuscito». Lo hanno fatto sapere fonti sanitarie dell’ospedale Cto di Careggi dove il militare è stato operato. L’intervento è finito all’alba di ieri. È stata recuperata la funzionalità della mano destra, che sembrava compromessa dopo l’esplosione. Il militare, hanno spiegato i sanitari, sarà in grado di usare i due pollici. I medici sono più ottimisti nella piena riabilitazione della mano e di uno dei due occhi. La moglie è accanto al marito, insieme ai tanti colleghi arrivati da Livorno.

Lescoeur nuovo ad di Edison MILANO. La battaglia per il controllo di Edison (l’unico vero competitor di Enel nella distrubuzione di energia elettirca in Italia) segna un punto a favore della Francia. Edf, infatti, nominerà l’attuale consigliere di Edison, Bruno Lescoeur nuovo ad di Foro Buonaparte al posto di Umberto Quadrino il cui mandato scadrà con l’assemblea del 26 di aprile prossimo. Il colosso dell’energia francese ha formalizzato ieri i sei condidati che spettano al gruppo per il rinnovo del Cda di Edison. Sono confermati Henri Proglio, presidente di Edf, Thomas Piquemal e Jean-Louis Mathias. La new entry riguarda Adrien Jami. Come indipendente confermato anche Gian Maria Gros-Pietro.

Allarmano i dati Istat, anche se a febbraio la tendenza sembra invertirsi con un lieve recupero di posti di lavoro rispetto a gennaio

2010, l’anno nero del lavoro

La crisi ha portato con sé il record della disoccupazione: è all’8,4% di Alessandro D’Amato

Il tasso di disoccupazione nel 2010 si è attestato all’8,4%, contro il 7,8% del 2009, il dato più alto dall’inizio delle serie storiche cioè dal 2004. Ma qualche spiraglio si registra a febbraio quando il tasso generale di disoccupazione è calato all’8,4%: sempre secondo l’Istat, si tratta di una diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto a gennaio e di 0,1 punti su base annua

ROMA. Sempre più in basso, ma con uno spiraglio di luce. Il tasso di disoccupazione nel 2010 si è attestato all’8,4%, contro il 7,8% del 2009, il dato più alto dall’inizio delle serie storiche cioè dal 2004. Ma qualche spiraglio si registra a febbraio quando il tasso di disoccupazione è calato all’8,4%: sempre secondo l’Istat, si tratta di una diminuzione di 0,2 punti percentuali rispetto a gennaio e di 0,1 punti su base annua.

Il tasso di disoccupazione giovanile, riferisce l’Istat, scende inoltre al 28,1% con una diminuzione congiunturale di 1,3 punti percentuali. Gli inattivi tra i 15 e i 64 anni aumentano dello 0,1% (21 mila unità) rispetto al mese precedente. Il tasso di inattività, dopo la crescita dei tre mesi precedenti, resta stabile al 38%. Uno dei dati più significativi che sono emersi è che al Sud quasi una donna su due, ossia il 42,4% della popolazione femminile tra i 15 e i 24 anni, è disoccupata. Lo rileva l’Istat, in base ai dati del IV trimestre 2010. Ancora più rilevante il divario tra maschi e femmine per quanto riguarda il tasso di inattività: sempre nel Mezzogiorno è pari al 48,8% ma da parte delle donne il livello di mancata partecipazione al mercato del lavoro raggiunge il livello del 62,8%. Anche al Nord e al Centro la percentuale di donne senza lavoro è molto più alta rispetto a quella degli uomini: al Nord è del 27,3% e al Centro del 31,3%. Complessivamente, il tasso di disoccupazione femminile è del 32,9%, contro il 27,7% di quella maschile. Ad ogni modo, i dati Istat presentano comunque un segnale positivo e in questa chiave offrono uno “spiraglio” al Governo. Tra i molti dati sull’occupazione che ci consegna l’Istat è doveroso innanzitutto considerare quello più recente di febbraio, mese nel quale sale il numero degli occupati, scende la disoccupazione in generale e in particolare quella giovanile e femminile, così come diminuisce la cassa integrazione. «An-

che i profeti di sventura devono ammettere che si manifesta un netto riverbero positivo della ripresa economica sull’occupazione», commenta il Ministro del Welfare Maurizio Sacconi, sempre dell’Italia che ci sia qualcuno che spinge per mandate a scatafascio questo Paese e che l’unico salvatore sia lui. Di parere contrario i sindacati: «Il Governo ha dato dei dati una lettura unicamente trionfalistica, nascondendo questi problemi e soprattutto nascondendo il fatto che rispetto ai dati Istat del secondo trimestre 2008, cioè prima della crisi, sono ancora oggi oltre 650.000 le unità di lavoro in meno», rileva Fulvio Fammoni, segretario confederale della Cgil. Per Liliana Ocmin della Cisl, «non possiamo più restare inermi davanti alla gravità di questi dati che mostrano ancora

una volta come il rilancio dell’occupazione femminile e giovanile, specialmente nel Sud non sia più rinviabile se vogliamo che l’economia torni a crescere». Infine, per Guglielmo Loy della Uil, il quadro delineato dall’Istat fa rilevare come i problemi del mercato del lavoro siano «strutturali».

Anche il sindacato di destra, l’Ugl se la prende con il governo per l’inerzia sul fronte-lavoro: «È piuttosto desolante vedere come, mentre nelle aule del Parlamento volano oggetti e insulti, il tasso di disoccupazione giovanile e femminile soprattutto nel Mezzogiorno continui a fluttuare dal basso verso l’alto e viceversa, sempre nell’ordine delle due cifre, senza che nessuno dei nostri rappresentanti si preoccupi di

affrontare concretamente il problema», dice Giovanni Centrella, segretario generale dell’Ugl. Nonostante lo spettro delle elezioni, sottolinea Centrella, «sia sempre più vicino, preoccupa di più la ricerca di un equilibrio all’interno della maggioranza e dell’opposizione, mentre i problemi reali della gente, dei disoccupati, dei lavoratori, dei pensionati, delle famiglie vengono usati solo come arma per accusare l’avversario». Purtroppo, conclude, «la politica si sta ripiegano su stessa, per questo riteniamo giusta l’iniziativa del 7 maggio annunciata dal presidente di Confindustria, alla quale dovrebbe seguirne un’altra identica da parte di tutti i sindacati, quindi unitaria, per far capire alle forze politiche quali siano le vere questioni da affrontare e da ri-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Prosciolti Dolce e Gabbana: pagano le tasse in Lussemburgo MILANO. Gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana non sono evasori fiscali. O almeno il Gup di Milano non ha ritenuto di poter giudicare sull’accusa presentata dalla Procura. Sicché i due “sarti” sono stati prosciolti dall’accusa di truffa ai danni dello Stato e dichiarazione infedele dei redditi. A entrambi veniva contestata una maxi evasione fiscale da circa un miliardo di euro attraverso la costituzione di una società fittizia in Lussemburgo ma il gup milanese Simone Luerti, li ha prosciolti da entrambe le accuse «perché il fatto non sussiste». Il pm Laura Pedio aveva chiesto per tutti gli imputati il rinvio a giudizio, ma il giudice li ha prosciolti perché «non è stato superato il confine che porta al rilievo penale dei fatti contestati».Viceversa, il pm contestava ai due stilisti un’evasione di circa 420 milioni di euro a testa, a cui si aggiungevano altri 200 milioni di euro di presunto imponibile evaso riferibili alla società Ga-

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

do (con sede in Lussemburgo). Secondo l’accusa, che aveva iniziato le indagini nel 2007 dopo una verifica fiscale, la multinazionale della moda aveva costituito questa società di diritto lussemburghese, che risultava essere la proprietaria di due marchi del gruppo ma che di fatto veniva gestita in Italia. E tramite questa «esterovestizione», secondo il pm, i proventi derivanti dallo sfruttamento dei marchi venivano tassati in Lussemburgo e non in Italia.

Da sinistra: i ministri Renato Brunetta e Maurizio Sacconi. Poi Stefano Fassina, responsabile dell’economia nel Pd

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

solvere se ambiscono ad essere votate e a governare il Paese».

La polemica politica invece non si arresta. «Il tasso di occupazione rimane al livello più basso dall’inizio della crisi, ma peggiora la composizione degli occupati, sempre più segnata dalla cassa integrazione e sempre piùsbilanciata verso il lavoro precario e part-time involontario. La diminuzione del tasso di disoccupazione - dichiara Stefano Fassina, responsabile Economia e Lavoro della segreteria nazionale del Pd - è un’illusione statistica dovuta, sopratutto per i giovani e le donne, all’aumento dei lavoratori e lavoratrici scoraggiate che smettono di cercare lavoro. Ci vorrebbe una politica economica per la crescita. Invece, il governo si preoccupa dei processi brevi per il presidente del Consiglio e il ministro Sacconi continua ad arrampicarsi come al solito sugli specchi della propaganda». La risposta non tarda ad arrivare: «Il responsabile economico del Pd Stefano Fassina sostiene che la diminuzione del tasso di disoccupazione sia un’illusione statistica. A suo dire, se la disoccupazione aumenta è colpa del Governo ma se diminuisce si tratta invece di un miraggio contabile: un’astruseria tipica di chi all’analisi fredda dei dati antepone l’ideologia», risponde con la solita straordinaria sagacia dialettica il ministro della Pubblica Amministrazione Renato Brunetta. Che

Tutti i sindacati accusano l’immobilismo del governo ma Sacconi se la prende con i «profeti di sventura» continua: «Invece di giocare con le cifre, Fassina dovrebbe infatti prendere atto della ciclicità dell’effetto scoraggiamento, che aumenta nelle fasi negative e che si riduce in quelle positive, riflettendosi sul tasso di disoccupazione - si legge - I dati resi noti oggi dall’Istat sull’andamento dell’occupazione e della disoccupazione a febbraio 2011 ci dicono innanzitutto che i disoccupati si sono ridotti (-43.000) più di quanto si siano ridotte le forze di lavoro (26.000), che il tasso di disoccupazione si e’ ridotto quindi dello 0,1% (passando dall’8,5% all’8,4%) e soprattutto che vi è stato un aumento di occupati di 17.000 unità».

Di certo c’è che all’estero va meglio: in Europa, in particolare nell’Ue a 27, il tasso di disoccupazione scende, anche

se di poco. Secondo i dati comunicati da Eurostat, nel mese di febbraio la percentuale dei senza lavoro è risultata del 9,9 nella zona euro e del 9,5 per cento nell’area a 27, in lieve calo rispetto al 10 per cento e al 9,6 per cento di gennaio. La diminuzione dei disoccupati nella zona euro riguarda però solo la componente maschile (che passa da un tasso del 9,9 per cento al 9,7 per cento), mentre le donne senza lavoro sono ancora in crescita (da 10,1 per cento a 10,2 per cento). Ma anche negli Usa va meglio: il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti è calato in marzo all’8,8% dall’8,9% di febbraio contro attese per un dato invariato su base mensile. Nel mese inoltre sono stati creati 216.000 posti di lavoro, meglio dei 195.000 attesi dal consensus. Invariata a 34,3 ore la settimana media di lavoro e invariati anche a 22,87 dollari i salari orari medi. Secondo i dati del dipartimento, il solo settore privato ha creato in marzo 230.000 posti di lavoro in marzo (201.000 la stima Adp di due giorni fa) mentre il settore federale, appesantito da bilanci in perdita, ha ridotto la sua forza lavoro complessiva di 14mila unità. Il tasso di disoccupazione registrato per marzo è il più basso dal marzo 2009 e va registrato che dallo scorso novembre la disoccupazione è scesa di un intero punto percentuale. Sul mercato del lavoro, alla ricerca di una nuova occupazione, rimangono tuttavia 13,5 milioni di persone.

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politica

È rottura totale tra il governo e i Governatori: non c’era nemmeno l’elenco dei siti nei quali sistemare gli immigrati. «Vanno rimandati subito a casa», dice il premier

Il Piano che non c’è Maroni e Berlusconi chiedono tendopoli per i profughi. Le Regioni dicono no. E ora scoppia anche Manduria di Marco Palombi

ROMA. La cabina di regia è fallita, né più né meno, ed è stata riconvocata martedì. D’altronde non c’era motivo che la cabina riuscisse laddove manca la regìa. La gestione dei circa 22mila immigrati arrivati a Lampedusa dall’inizio dell’anno, seimila e qualcosa nel mese di marzo, ha plasticamente mostrato al Paese quale grado di approssimazione e incapacità ci siano dietro gli strepiti emergenziali del nostro governo. Una situazione prevista da mesi, annunciata da mesi dallo stesso esecutivo, si è trasformata in uno “tsunami umano” giusta l’ennesima sparata autoassolutoria di Silvio Berlusconi. Dilaniato tra la necessità di gestire le cose e l’ideologia del “föra d’i ball” che è il motore immobile della maggioranza, il governo s’incarta di più ogni giorno che passa. Il Cavaliere e il ministro dell’Interno Roberto Maroni – incapace, quest’ultimo, di staccarsi da chiacchiere e interessi elettorali del suo partito – si sono presentati ieri all’incontro con Regioni ed enti locali con una proposta folle, che peraltro è già costata al governo le dimissioni del sottosegretario Alfredo Mantovano, probabilmente l’unico italiano che si sia dimesso per non aver rispettato la parola data come membro delle istituzioni: le tendopoli. «Abbiamo già le strutture pronte per montare settemila tende da sei posti l’una», s’è vantato il premier. Dove, come, quando? Un mistero. È chiaro invece cosa succede in strutture di questo genere: lo testimonia precisamente quanto avviene a Manduria, piccolo comune pugliese famoso per il vino “Primitivo”. Premessa: si scaricano duemilacinquecento immigrati in un vecchio aeroporto militare (Mantovano aveva promesso che sarebbero stati la metà, per questo s’è dimesso), li si chiude dentro con strutture inadeguate e impedendogli di muoversi. Svolgimento: si incazzano le comunità locali, si incazzano i migranti, si incazza la polizia. Risultato: fuga di centinaia di clandestini dal campo di Manduria davanti allo sguardo rassegnato delle forze dell’ordine e figuraccia memorabile.

Alla ricerca di una strategia culturale capace di coniugare integrazione europea e mediterraneità dell’Italia

L’esecutivo non ha capito la “nuova storia” di Lampedusa di Francesco D’Onofrio segue dalla prima Stiamo contemporaneamente assistendo alla grande difficoltà che il governo italiano sta incontrando per ottenere che l’Europa tutta si renda disponibile all’accoglienza di parte significativa di queste migliaia di persone, che non è in alcun modo facile distinguere tra immigrati cosiddetti clandestini e profughi spinti dalla paura delle armi. Al di là delle affermazioni più immediatamente definibili come “folkloristiche”, appare pertanto necessaria la definizione di una strategia culturale complessiva che sia capace di esprimere allo stesso tempo una valutazione rigorosa degli avvenimenti in corso in gran parte del mondo arabo, complessiva del significato stesso del processo di integrazione europea, e che tenga conto della naturale mediterraneità dell’Italia. Si tratta di questioni strettamente connesse tra di loro perché occorre saper uscire da una riproposizione puramente geografica della collocazione mediterranea dell’Italia, per cercare di giungere ad una autentica definizione geopolitica, all’interno della quale soltanto è possibile collocare la stessa definizione dell’interesse nazionale italiano. Si trovano di conseguenza a confrontarsi culture politiche generali che si erano collocate quasi integralmente all’interno del processo di costruzione dell’unità nazionale; culture che avevano collocato la definizione dell’interesse nazionale nel contesto della guerra fredda tra Oriente sovietico e Occidente europeo-statunitense; culture che fanno della identità territoriale un punto essenziale per la valutazione stessa del processo di globalizzazione in atto; culture che pongono esclusivamente nella espressione elettorale della sovranità popolare il punto di forza non solo per la legittimazione al governo dell’Italia, ma anche per la definizione di un interesse nazionale elettoralmente considerato.

Non si tratta pertanto di una operazione semplice e immediata: al contrario, si tratta di una vicenda che sollecita contemporaneamente antiche culture tendenzialmente universalistiche; culture fortemente nazionali; culture prevalentemente elettoralistiche; culture che stentano a essere locali e che sarebbe erroneo defi-

nire localistiche. Mai come in questo momento pertanto è impossibile affrontare il grande tema delle migrazioni di massa con l’ottica della immigrazione: la cultura cattolica aveva da tempo distinto le migrazioni dalle immigrazioni proprio perché vedeva nelle prime un fatto sostanzialmente umano non legato esclusivamente a fattori economici.

L’immigrazione, al contrario, ha finito con l’essere considerata in Italia un fenomeno certamente nuovo rispetto alle più antiche ondate di emigrazione italiana, ma in qualche misura troppo legato ad una sorta di paura per le novità conseguenti sia all’allargamento del processo di integrazione europea, sia al più vasto processo di globalizzazione. Quel che sta avvenendo all’antico confine di Ventimiglia tra la Francia e l’Italia appare infatti comprensibile in una logica ottocentesca di contrapposizione tra lo Stato italiano e lo Stato francese, quasi che non fosse nel frattempo intervenuto un profondo processo di integrazione europea. In questa prospettiva infatti non esistono più i confini tra gli Stati che hanno dato vita al processo medesimo, mentre residuano i confini tra Paesi – quali sono la Francia e l’Italia – che sono a contatto immediato con i sommovimenti in atto nel Continente africano senza che l’Europa tutta si senta esposta in quanto tale a confini che rappresentano in qualche modo una parte ancora significativa della sovranità nazionale. Questa difficoltà è propria del tempo presente che ci è dato di vivere: non si opera più nel contesto ottocentesco degli Stati nazionali (orgogliosamente difensori dei propri confini o colonialisticamente tesi ad operare al di fuori di essi in una logica di sottomissione coloniale di altri Paesi ai quali non si riconosceva lo status di Stato nazionale) ma non si opera ancora né nel contesto di un nuovo Stato europeo che faccia propri i confini dei singoli Stati che compongono attualmente l’Unione europea, né nel contesto ancora più lontano di un ipotetico governo mondiale. Questo sembra pertanto il tempo che richiede una straordinaria capacità di elaborazione culturale da porre a fondamento di una iniziativa politica che voglia essere all’altezza di questi tempi nuovi.

Peraltro le regioni - che poi dovranno sopportare il peso di questa scelta ideologica - alle tendopoli hanno detto chiaramente no ieri mattina: troppo grandi, troppo difficili da gestire e per di più insicure. Ci si dovrebbe ricordare - cosa fatta presente sempre ieri ai dilettanti di palazzo Chigi - che l’Italia ha più di ottomila comuni: vuol dire che il peso reale dello “tsunami umano” si aggira sotto i tre immigrati per sindaco. La regione Toscana per dire, a cui volevano far costruire un campo di concentramento a Coltano per cinquecento degli sbarcati di Lampedusa, ha risposto: ne prendiamo 500 ma li gestiamo noi, li mettiamo in dieci piccole strutture disseminate in tutta la regione. Pare che al Viminale alla fine abbiano detto sì - bisognerà firmare un protocollo che chiarisca i compiti di ogni livello istituzionale coinvolto - mentre giace ancora senza risposta l’offerta della Conferenza episcopale italiana: abbiamo 2.500 posti distribuiti in 93 diocesi, di cui «200 nella sola arcidiocesi di Agrigento», per accogliere gli immigrati arrivati in Italia dal Nordafrica, ha annunciato il segretario generale Mariano Crociata. Curioso, ma forse neanche tanto, che finora non si capisca bene dove saranno le altre tendopoli: alla città di Torino ne toccherebbero duemila e forse più – ma il sindaco Chiamparino non li vuole tutti ammucchiati nei 100mila mq dell’Arena Rock - poi s’è parlato di Padova (ma il governatore


politica

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Gli sbarchi lungo l’Adriatico ci trovarono meno impreparati

Altro che tsunami, le cifre ci condannano

Nel 2010 in Europa l’Italia ha accolto il minor numero di stranieri. E nel ’97, quando arrivarono gli albanesi... di Errico Novi

ROMA. Ma ci siamo complicati la vita da soli?

leghista Zaia già smentisce), Napoli, Brescia, Potenza,Vipiteno e «centri in prossimità delle frontiere», ha detto Berlusconi. Il fatto è che il famoso piano nazionale annunciato da Maroni capace di “sistemare” 50mila migranti - ovvero più del doppio di quanto siano ora - sem-

nuante umanitaria, spiega ancora Oliviero ForDavvero i numeri di quest’emergenza migrato- ti, «che impone di poterli spostare solo nel moria giustificano le scene e i proclami semi-apo- mento in cui esistano centri, tendopoli, scrupocalittici? Se si ragiona a freddo, sui numeri e losamente sorvegliati». non sugli editti in vernacolo («föra da i ball») vengono fuori due cose: che l’Italia ha già sa- Eppure nel 2008, e nell’estate successiva, proputo affrontare in un passato anche recente prio dalla Libia ne erano arrivati molti di più, flussi come quello degli ultimi giorni; e che co- seppure in un tempo dilatato. «Nel corso delle munque i movimenti di stranieri verso altri due estati del 2008 e del 2009 si riversò un flusPaesi sono spesso assai più consistenti rispetto so molto stressante sempre su Lampedusa». ai numeri che ci riguardano. Basti pensare alle Sono le due “stagioni calde”da cui poi è venuto richieste d’asilo censite in Europa (e nel resto l’accordo con la Libia di Gheddafi. «In quella del mondo) dall’Unhcr, l’Alto commissariato occasione si trattava soprattutto di profughi in per i rifugiati: rispetto alle 47mila unità accet- condizione di chiedere asilo. Provenivano da tate nel 2010 dalla Francia, ai 41mila della Ger- una regione a forte instabilità come il Corno mania o agli oltre 30mila della Svezia, l’Italia si d’Africa. Comunque riuscimmo a reggere è fermata poco più di 8mila. Cosa fa la diffe- quell’impatto, pesante seppur diluito». Insomrenza, dunque? Cosa ha trasformato un movi- ma, la Caritas condivide l’idea che «quella sumento di stranieri come quello sopportato da bita nei giorni scorsi non fosse una circostanLampedusa in queste settimane in una mezza za ingovernabile: parliamo di 20mila persone, certo arrivate in un tempo catastrofe umanitaria? Probabilmente le forzature polibreve, ma ci sono numeri in tiche imposte al governo di un passato non lontano di condizioni “inaccettabili” dice E GRANDI ONDATE IN TALIA Roma da una maggioranza uguale consistenza che non Medici senza frontiere - sta il DALL’ALBANIA hanno prodotto lo stesso fortemente condizionata dalbraccio di ferro ingaggiato con trauma». È il caso dei 27mila la xenofobia leghista. Lo si l’Unione europea e la Francia (MARZO ’91) 27.000 albanesi sbarcati in un giorcapisce anche dall’analisi in particolare. Parigi si rifiuta DALL’ALBANIA no solo sulle coste brindisine esposta a liberal da Oliviero di accogliere persino le poche (AGOSTO ’91) 20.000 Forti, responsabile dell’uffinel marzo del ’91. «O degli olcentinaia di migranti arrivati a DALL’ALBANIA cio Immigrazione della Caritre 20mila giunti nell’agosto Ventimiglia nei giorni scorsi e (PRIMAVERA ’97) 30.000 tas italiana. «Pesano senza successivo a bordo di un’unice li ha riconsegnati alla frondubbio le condizioni in cui si ca nave albanese, la “Vlora”, DAL NORDAFRICA sono verificati gli ultimi avvenel porto di Bari. Quella volta (2008-2009) 35.000 nimenti. Il fenomeno degli ci fu la vergogna dell’ammasDAL NORDAFRICA sbarchi dal Nordafrica ha so disumano nello stadio del(MARZO 2011) 20.000 coinvolto in tempi molto la Vittoria. Comunque l’Italia compressi una piccola isola non andò in tilt». come Lampedusa». E però non c’è stata, aggiunge Forti, «la capacità di È vero che negli anni Novanta l’immigrazione fronteggiare tutto questo. Certo, ci troviamo di veniva percepita in modo diverso dall’opinione tiera senza colpo ferire, probafronte a una tipologia di migrazione evidente- pubblica, non solo italiana: «L’idea diffusa era bilmente violando gli accordi di mente “economica”. Ma è mancata la rapidità che si trattasse di un dramma umanitario. OgSchengen. Come “strumento di gi nelle persone la relazione immediata che nel predisporre le strutture». pressione”, ha spiegato il miniscatta è quella economica. Ed è così che da una stro dell’Interno, si Soprattutto, secondo il parte abbiamo una società civile capace di dapotrebbe anche acresponsabile Caritas, «ha re comunque risposte encomiabili, dall’altra cedere ad una delle SILI POLITICI CONCESSI pesato l’incertezza sullo quelli che cercano di uscirne per le vie brevi». richieste dei presiDAI AESI E NEL status di queste persone: E il riferimento alla «soluzione» di Bossi è denti di regione: per qualche giorno è stata chiaro. «Non che manchino gli aspetti critici, concedere ai nuovi FRANCIA 47.800 in piedi l’ipotesi di attri- pensiamo proprio al carattere economico, e arrivati il permesso GERMANIA 41.300 buire una definizione in- dunque alle proporzioni difficilmente calcoladi soggiorno tempoSVEZIA 31.800 termedia, non rifugiati po- bili, di questa pressione che proviene dalla Turaneo previsto dalla litici ma nemmeno clan- nisia». Ma appunto un corto circuito come legge italiana per REGNO UNITO 22.100 destini, dunque una mi- quello che ha fulminato il governo può verifieventi eccezionali. BELGIO 19.900 grazione di carattere carsi solo per la ostinata negazione di qualsiaIn questo modo i OLANDA 13.300 “umanitario”. Se fosse poi si connotazione “umanitaria” al complesso dei migranti potrebbeAUSTRIA 11.000 effettivamente andata così movimenti in arrivo dal Nordafrica. Una negaro muoversi liberaGRECIA 10.300 i tempi sarebbero stati di- zione che è politica, voluta soprattutto dalla mente nel territorio ITALIA 8.200 versi. Perché gli stranieri Lega, e che ha effetti organizzativi e logistici dell’Ue e chiedere il sbarcati a Lampedusa ben chiariti da Forti: niente “accoglienza diffuricongiungimento avrebbero potuto essere sa”nelle strutture non governative ma solo profamiliare se hanno rapidamente trasferiti nelle strutture gestite da cedure funzionali all’espulsione. «In Svezia acparenti in uno dei paesi memorganizzazioni non governative. Invece alla fi- cettano il quadruplo delle richieste d’asilo acbri: alla fine, insomma, Nicolas ne si è optato per la qualifica tout-court di clan- colte da noi. Certo, anche lì è cresciuta l’estreSarkozy dovrebbe fare per fordestini. È questo naturalmente ha tagliato fuo- ma destra». Ma noi siamo passati dalle 30.300 za quel che oggi si rifiuta di fari tutti, non solo la Caritas». È la scelta sul bol- “concessioni” del 2008 alle appena 8.200 del re per gentilezza. D’altronde lino nero da apporre ai disperati di Lampedu- 2010, praticamente ultimi nell’Ue se non in tutnon è mai un bel comportasa, quello di clandestini senza alcuna atte- to l’Occidente. E la Lega si è gonfiata lo stesso. mento lanciare la bomba e nascondere la mano.

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La Toscana ha ottenuto di gestire direttamente i migranti sistemandoli in strutture fisse. Mentre la Conferenza episcopale ha messo a disposizione 2500 posti distribuiti in 93 diocesi plicemente non esiste: il ministro dell’Interno non sa che fare con questi cattivoni che sono arrivati qui da noi nonostante gli avessimo detto chiaramente di non venire.

Perché, dunque, il governo insiste tanto con le tendopoli? Perché, ha spiegato Berlusconi, «il rimpatrio resta la nostra prima scelta». Per questo il premier lunedì sarà a Tunisi: deve implorare il governo succeduto alla dittatura di Ben Alì di autorizzare rimpatri di massa («li costringeremo» ha esagerato Maroni). Gli immigrati, insomma, vanno tenuti recintati e tutti insieme - anche se il caso Manduria dimostra quanto sia inutile - per poterli poi rispedire indietro col minimo sforzo. Quando e come, anche in questo caso, dio solo lo sa. In mezzo a questo disastro - mitigato dal mare cattivo di ieri, che ha bloccato gli sbarchi ma pure l’evacuazione di Lampedusa, dove restano 4mila stranieri in

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Lactalis aveva scritto al Cda per scongiurare il posticipo della riunione ROMA. Il primo tempo l’hanno vinto gli italiani: ecco, il guaio è proprio che sembra una sfida di calcio, un esercizio da ultras (che cosa non scatena tifo da stadio, ormai, qui da noi?). E invece la vicenda Parmalat è una delle più complicate e serie del paesaggio economico italiano degli ultimi anni: perché mette in gioco non solo interessi nazionali ma ruota intorno al destino economico di tanti risparmiatori prima truffati, poi salvati e adesso venduti… Ma andiamo con ordine.

Parmalat, per ora vincono gli italiani Rinviata l’assemblea: Banca Intesa avrà più tempo per costruire la cordata di Andrea Ottieri

La notizia è che il consiglio d’amministrazione di Parlamat ha deciso di far slittare l’Assemblea al prossimo giugno malgrado i soci francesi (ormai) di maggioranza di Lactalis avessero chiesto di non rinviare l’appuntamento già fissato per il 14 aprile prossimo. Perché? Per ragioni formali, naturalmente: con una lettera al Cda, Lactalis aveva notato che «non ci sono i tempi validi, a norma di legge, per rinviare l’assemblea e indire una nuova convocazione. Inoltre, non sussiste neanche alcuna incertezza per l’Antitrust Ue, avendo Lactalis avviato tutti i procedimenti necessari». E poi, ancora più formali: «Una nuova assemblea non può essere convocata visto che non sono state rispettate le procedure di convocazione dell’assemblea già fissata per il 12, 13 e 14 aprile. Oggi era infatti l’ultimo giorno utile (il cosiddetto ”record date”, termine entro il quale si possono comprare azioni valide per l’assemblea, ndr) per pubblicare sui quotidiani l’avviso di convocazione. Senza questo passaggio non è possibile procedere con una riconvocazione, perchè la sola pubblicazione su un quotidiano, prevista per legge, avverrebbe al più presto domani, fuori tempo massimo». Ma al di là delle forme (che nella politica finanziaria contano poco, come si sa), il problema è il controllo di Parmalat. Perché dopo la legge-Tremonti per dare al governo una sorta di golden share contro l’esportazione forzata delle aziende italiane, dopo la timida disponibilità riscontrata da Banca Intesa alla costruzione di una cordata italiana per il controllo del colosso agroalimentare risanato da Enrico Bondi, serviva tempo, più di una settimana, comunque, per preparare la difesa dell’azienda di fronte all’attacco francese. I settanta giorni

Emma Marcegaglia interviene sulla legge varata da Tremonti: «Gli investimenti, anche quelli internazionali, li decide sempre il mercato. Purché ci sia reciprocità nelle regole» che ci dividono dalla metà di giugno non sono molti ma si spera possano bastare per mettere in piedi una cordata veda, in grado di contrastare la potenza di fuoco francese.

Al centro, uno stabilimento della Parmalat. Nelle foto piccole, dall’alto, Corrado Passera di Banca Intesa, il commissario Enrico Bondi e Emma Marcegaglia

Nel frattempo, dopo la mossa di Giulio Tremonti, che ha di fatto blindato non tanto l’italianità delle grandi aziende quanto il potere specifico del ministro dell’Economia, è cominciata la ridda di opinioni pro o contro la difesa di Parmalat e simili. Anzi, nella

terrazza di Cernobbio sul Lago di Como, dove è in corso il tradizionale workshop Ambrosetti, questo è stato il tema principale delle chiacchiere fra economisti e cronisti. E anche qui in qualche modo si è tornati alla composizione delle solite tifoserie. Per esempio Nouriel Roubini, economista e professore all’Università di NewYork ha detto che «invece di imporre misure restrittive, in Europa ci devono essere regole più chiare, senza restrizioni. Purché le regole del gio-

co siano uguali per tutti». E ha continuato: «In linea di principio le fusioni transnazionali in Europa sono positive per il processo di ristrutturazione delle imprese, poi non importa dove si verrà a trovare la sede principale dell’azienda». Salvo accettare che tra i paesi deve comunque vigere il principio di reciprocità. E a questo proposito forse vale la pena ricordare che la norma promossa solo ora da Tremonti rispetta un principio di tutela della «nazionalità» da sempre sancito dalle leggi francesi. Almeno in questo, la reciprocità l’abbiamo appena raggiunta. Ma a fronte della saggezza americana, più spiritoso è stato Giacomo Vaciago il quale – sempre a Cernobbio ha esordito: «Il problema è ragionare su quello che vogliono le mucche italiane, se vogliono padroni francesi o italiani». Ben detto! Ma poi il suo discorso si è fatto più concreto: «Parmalat è una grande impresa italiana e se il resto del mondo vuole investire in Italia è il benvenuto, ma se ci comprano i marchi per portarli fuori in giro per il mondo, ci danneggiano». Il problema è ben questo: conciliare l’attrattiva del nostro Paese sul mercato globale con la capacità di trarre profitto (per l’Italia) con i nostri prodotti. E la partita aperta sul caso Parmalat riguarda proprio questo dilemma che è poi quello più generale della globalizzazione.

Da registrare, infine, sul tema, l’opinione di Emma Marcegaglia che per una volta abbandona la sua proverbiale equidistanza. Intervista ieri dal “suo” Sole 24ore, ha detto: «Resto perplessa; sono sempre per il mercato, come ho già detto. Abbiamo realizzato il fondo per la capitalizzazione delle imprese e questa è stata un’esperienza positiva, ma resta un fondo privato, come dev’essere. Se la Cdp entra in un’azienda industriale o in una banca si rischia di avere magari un piano di protezione ma non un piano industriale. Ciò che serve è la reciprocità tra paesi e, ancora una volta, la dimensione d’impresa, il resto lo fa il mercato». Siamo sempre alla reciprocità, ma il riferimento della leader degli industriali fa riferimento diretto alla Cassa depositi e prestiti, cui Tremonti ha dato il compito di intervenire in difesa dell’italianità. Il fatto tutto qui: se il potere di garantire l’identità nazionale della finanza sia da attribuire tutto alla «cassaforte» del ministro.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

“Poesia” di Lee Chang-dong

METAFISICA

DELLA SEMPLICITÀ di Anselma Dell’Olio

l cinema, di solito, è intrattenimento. Qualche volta arriva un’opera che rismo del suo Paese in un governo liberale). Il nuovo cinema sudcoreano è dinutre l’anima. In casi rari e felici, offre ai più attenti, la grazia di un screto e temerario, e assai godibile per il suo modo di proporre la vita, È un’opera Dio nascosto. Questa settimana c’è un film coinvolgente come spesso con crudezza mai triviale e senza sentimentalismi. I film di un buon romanzo e sobriamente filosofico; un sottile saggio Chang-dong ruotano intorno a protagoniste investite da pene che nutre l’anima, metafisico, elegante, profondo, con il dono della semplitravolgenti, in un mondo a loro spesso indifferente e anche coinvolgente come sprezzante (Oasis ha vinto l’Osella per la regia a Venecità. La storia - una donna riceve due notizie rovesciaun buon romanzo e sobriamente budella e una grazia - propone in chiave alcune zia, Secret Sunshine, in concorso a Cannes, ha domande. Se la vita ti si rivolta contro, come vinto per la migliore attrice). Le sue eroine filosofica quella del regista-scrittore ci si deve comportare? Fino a che punto si può sono donne imperfette, riconoscibili nelle loro coreano, Palma d’oro a Cannes aiutare una persona amata colpevole di un repelcontraddizioni. I suoi uomini sono anche loro fallalente delitto? O una persona sofferente di cui ti prendi ti e umani, persino troppo. Sono consapevoli di apparteper la migliore sceneggiatura. cura, che ti chiede qualcosa d’immenso per andare avanti? nere al genere che ha diritto alla primogenitura, eredità autoDa non perdere Quali sono i confini della misericordia, del perdono, del sacrificio? matica per chi nasce maschio. Il regista nasce scrittore, e a 43 anni si dedica alla regia. Mija (JeungPoesia è scritto e diretto da Lee Chang-dong, raffinato e sanguigno rohie-Yun) è una signora di 66 anni. manziere e cineasta coreano (è stato anche ministro della Cultura e del Tu-

I

Parola chiave Sport di Sergio Belardinelli Il nuovo romanzo di Margaret Mazzantini di Maria Pia Ammirati

NELLA PAGINA DI POESIA

Il blob ante litteram di T.S. Eliot di Filippo La Porta

Sua Maestà Franz Liszt con un’intervista a Mario Bortolotto

di Pietro Gallina Memoriette politiche di Leone Piccioni

Gli alberi della vita di Henrik Hakansson di Marco Vallora


metafisica della

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Abita in una località fuori Seoul, con un piccolo sussidio statale e un lavoro da badante. Il nipote Wook (Da-wit Lee) vive con lei, sua madre lavora in un’altra città. Il film apre su un grande fiume con bambini che giocano sulla riva; avvistano qualcosa che galleggia nella corrente. All’inizio sembra un tronco, poi scorgiamo il corpo di una ragazza, il viso parzialmente coperto di capelli neri. Poesia ha vinto la Palma per la migliore sceneggiatura a Cannes l’anno scorso, e se lo merita abbondantemente. Il modo in cui sono centellinate le informazioni mostra l’abilità, anzi la maestria di un artista in possesso di un forte talento per la narrativa, distribuita sapientemente tra immagini e parole. La successione studiata delle scene in questo film, il modo in cui il racconto è dosato lungo l’arco narrativo, è un master class di sceneggiatura.

Mija veste con cura. Ci tiene al suo aspetto, come dice quando riceve un complimento: cappellino bianco, lunghe gonne di stoffa leggera, camicie a fiori color pastello, una borsa di paglia, sandali signorili bianchi e blu con tacco basso e una civettuola sciarpina bianca lavorata all’uncinetto. La incontriamo in una sala d’attesa d’ospedale mentre guarda il telegiornale con altri pazienti. Il notiziario parla della ragazza trovata nel fiume, una del liceo locale, forse un suicidio. Suona il cellulare di Mija mentre chiamano il suo nome per la visita. Il modo in cui s’affretta a spegnerlo per non disturbare, racconta una donna garbata, attenta. Dal colloquio con il medico s’apprende che lei ha una buona salute, senza i soliti acciacchi dei suoi coetanei. Negli ultimi tempi, però, ha un formicolio strano, «come se l’elettricità mi passasse lungo il braccio», e tende a dimenticare le parole più comuni, per esempio «candeggina». È riuscita a farsi capire al supermercato, perché si è ricordata di un marchio comune. Il dottore le prescrive la ginnastica per il formicolio; ha i muscoli induriti. Per l’altro problema, più preoccupante, deve recarsi in un grande ospedale universitario a Seoul per esami approfonditi. Di nuovo in strada sdrammatizza l’esito della visita al telefono con la figlia preoccupata, sua unica confidente. Mentre parla arriva un’ambulanza con un cadavere coperto da un lenzuolo. Una bellissima donna di campagna con il viso stravolto, in evidente stato di shock, gira nei dintorni mentre la barella è portata in ospedale. Biascica parole al vento, cade per terra. «Sei crudele! Perché? Dove sei?». È seguita anno IV - numero 13 - pagina II

nel suo doloroso sbandamento dal figlio piccolo, in allarme per la mamma e deciso a non staccarsi da lei. È la madre della studentessa annegata, Heijin Park. Mija entra in un supermercato, dove la cassiera la saluta con calore e le consegna la chiave di un appartamento al piano di sopra, dicendo che il suocero ha chiamato più volte per chiedere dov’era. Mija spiega che era in ospedale, poi corre di sopra ed entra in una bella casa dove vive il suo assistito, il signor Kang (Hira Kim), vittima di un ictus che l’ha lasciato parzialmente paralizzato (il modo in cui cambia il rapporto tra Mija e Kang è tra i filoni più potenti del film). Lo lava nella vasca con la doccia a mano, scherzando con lui garbatamente per convincerlo a cooperare. Rivestita con gli abiti buoni, saluta Kang, dispiaciuto che vada via «così presto». Lei risponde che ha fatto le sue tre ore, bucato, pulizie e il resto, ed è ora di andare. Lui le dà dei soldi come regalo, raccomandandosi di non dirlo a nessuno. Mentre restituisce la chiave, Mija dice alla nuora del regalino (aiutino per godersi meglio il film: seguire i soldi). La cassiera non è scandalizzata ma stupita; suo suocero è notoriamente avaro. «Si vede che gli sei davvero simpatica».

Mija scava nella borsa. Non riesce a ricordare come si chiama quella cosa «dove si mettono i soldi». «Il portafoglio», suggerisce l’altra. Mija ringrazia sollevata ma non riesce a trovarlo. La donna le fa notare che ce l’ha in mano. La badante ride, «sono un po’ svampita ultimamente». Mentre arriva una cliente alla cassa, Mija racconta della ragazza nel fiume: «Dicono che è saltata dal ponte, la povera madre è impazzita». Le altre due, indaffarate con la conta della spesa, non l’ascoltano. A casa trova Wook addormentato con la musica altissima. È il classico adolescente insopportabile e autoreferenziale, preso dai suoi passatempi e insofferente verso gli adulti. Al mattino dice che non ha risposto alle chiamate della nonna perché erano sul cellulare, secondo lui troppo vecchio; ne vuole uno nuovo. La nonna gli ricorda che ha appena un anno e mezzo; poi gli chiede se conosceva Heijien. Aveva la sua età e frequentava lo stesso liceo. Wook è scocciato, la conosceva appena, non è intimo di tutti quelli del suo stesso anno. Mija gli dice di chiedere il nuovo telefonino alla mamma; la nonna non se lo può permettere. Dopo, alla fermata dell’autobus, vede un avviso per un corso di poesia. D’impulso va al centro culturale e riesce a farsi accettare, anche se le iscrizioni sono chiuse e la prima lezio-

semplicità ne è già in corso. S’infila in un banco mentre il professore spiega che per scrivere poesie bisogna imparare a guardare in profondità, e vedere come se fosse la prima volta le cose più ordinarie, una mela, per esempio. L’insegnante è competente ma non particolarmente ispirato. Presa dalla voglia di esprimersi come poeta, Mija si beve ogni parola. Dio manda i panni secondo il tempo, dicono i credenti. Con queste poche, semplici scene siamo entrati nel mondo di Mija, con tutti i punti principali da sviluppare, salvo uno. È convocata per telefono a un incontro con i padri del gruppo di liceali amici del nipote. Sono in un ristorante davanti a una parete-finestra. Con crescente angoscia lei, unica donna, apprende che Heijin aveva lasciato un diario in cui ha scritto di essere stata stuprata ripetutamente dal branco per sei mesi prima di morire. Gli uomini, tutti borghesi, commercianti o professionisti, sono sbrigativi e preoccupati solo per il futuro dei loro ragazzi. Bisogna intervenire subito, per ora sono in pochi a conoscenza della causa del suicidio. Devono offrire una cospicua somma alla madre della vittima, vedova e coltivatrice diretta, con un bambino da crescere. Devono impedire che faccia una denuncia che costringerebbe la polizia a indagare e i giornalisti a curiosare. La cifra è alta ma divisa per sei si potrà mettere insieme. Conoscono la situazione economica di Mija ma insistono perché anche lei versi la sua parte.

POESIA GENERE DRAMMATICO DURATA 135 MINUTI PRODUZIONE COREA DEL SUD, 2010 DISTRIBUZIONE TUCKER FILM

REGIA LEE CHANG-DONG INTERPRETI YOON HEE-JEONG, LEE DA-WIT, KIM HIRA, AHN NAE-SANG

Mija è sotto shock, per la vergogna, il senso di colpa, la somma impossibile, la fiscale ottusità di questi padri facoltosi, ansiosi soltanto di evitare guai ai pargoli. «Due di loro l’hanno fatto per primi; poi gli altri quattro si sono aggiunti». «Era piccola e bruttina - dice uno dei padri - chissà perché proprio lei». Di colpo la donna si alza ed esce. Dalla finestra vedono che guarda intensamente dei fiori rossi, come per la prima volta. Saprà in seguito che soffre del morbo di Alzheimer e la sua lingua è in via d’estinzione. «Prima spariscono i nomi, poi i verbi», dice il medico. «I nomi sono più importanti», risponde Mija. D’intuito è spinta a cercare un linguaggio nuovo, per lasciare un segno limpido, un canto al cielo dove la prosa non arriva. È notevole la scena della Messa da Requiem per la vittima, Agnes Heijin Park, battezzata con il nome della vergine adolescente, santa e martire, profanata dalla libidine maschile. La ragazza apparteneva alla grande comunità cattolica della Corea del Sud, terza nazione asiatica per numero di fedeli dopo le Filippine e il Vietnam. Da non perdere.


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parola chiave

i sono almeno tre modi diversi di praticare lo sport, che, sebbene abbiano qualcosa in comune, non vanno tuttavia confusi. Un conto è lo sport praticato per sviluppare forza e agilità fisica, altro conto è lo sport praticato per passatempo, come quando si dice che uno fa qualcosa «per sport», altro conto ancora è lo sport praticato per competizione, il quale peraltro sta diventando ormai sempre di più una professione. Un campione olimpico deve ovviamente sviluppare anche la propria forza e agilità fisica; può allenarsi e considerare le gare come un passatempo; ma evidentemente, se gareggia, lo fa perché ama la competizione, perché aspira a primeggiare in questa o in quella disciplina. Ebbene a me pare che lo sport abbia a che fare soprattutto con quest’ultima dimensione. Che cosa c’entra lo sport olimpico con l’attività motoria che una signora svolge periodicamente in palestra o con il body building di tanti giovani? Mi rendo conto ovviamente che la ginnastica che praticavo a scuola poteva essere anche classificata come attività sportiva; lo stesso dicasi per le corsette che mi capita di fare ogni tanto ancora oggi; ma, anche a rischio di semplificare eccessivamente, direi che c’è sport soltanto laddove c’è agonismo e competizione.

C

Proprio per questo, ad esempio, trovo assai discutibile lo «spirito» che ha mosso la nostra legge sulla «Disciplina della tutela sanitaria delle attività sportive e della lotta contro il doping», la legge 376 del 2000. L’idea che lo sport debba servire «alla promozione della salute individuale e collettiva» mi sembra quanto meno «astratta», se non addirittura sbagliata. Alla salute servono le cosiddette attività motorie o uno sport praticato senza troppi affanni e con spirito dilettantistico («per svago», avrebbe detto il mio allenatore di calcio), non certo lo sport praticato con intensità ai massimi livelli. Come tutte le attività condotte al massimo delle nostre capacità psico-fisiche, l’attività sportiva può dare grandi gioie e grandi soddisfazioni, ma dubito si possa dire che faccia bene alla salute. Nemmeno il lavoro che svolgo, seduto tutto il giorno a leggere e scrivere, fa bene alla salute. Eppure lo faccio con passione e lo considero un grande privilegio. Segno evidente che, con buona pace di certa ideologia «salutista» che ormai fa sentire il suo peso dappertutto, la salute non è necessariamente il valore più alto che si persegue nelle umane attività. Meno che mai lo è nello sport. Il cui grande «capitale sociale» consiste nel senso del sacrificio, nel rispetto delle regole e degli avversari, nella lealtà, nella temperanza, nella bellezza della vittoria, nell’onore della sconfitta, non nella salute. Esiste ovviamente il problema di salvaguardare la salute degli atleti e di tutti coloro che a vario titolo praticano lo sport. Ma questo è un altro discorso che qui non voglio aprire. Per comprendere un po’ il senso di ciò che sto dicendo, trovo invece assai utile il discorso del filosofo americano Alasdair MacIntyre sui valori «interni» e su quelli «esterni» alle nostre pratiche e sulla loro connessione con le virtù. Lo studio di una disciplina scientifica, la pittura, la musica, il gioco degli scacchi, il lavoro dell’artigiano o lo sport sono tutte pratiche, secondo MacIntyre. Ciò che le accomuna è il fatto che ognuna com-

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SPORT Il suo «capitale sociale» risiede nel senso di sacrificio, nel rispetto delle regole e degli avversari, nella lealtà, nella bellezza della vittoria, nell’onore della sconfitta. Valori “interni” in via di estinzione...

La pratica della virtù di Sergio Belardinelli

Come tutte le attività condotte al massimo delle nostre capacità psico-fisiche, quella sportiva può dare grandi gioie e grandi soddisfazioni, ma non si può dire che faccia bene alla salute, la quale non è necessariamente il valore più alto da perseguire. Per questo è discutibile lo spirito che ha mosso la legge 376 del 2000 porta sia modelli di eccellenza e obbedienza a regole, sia il conseguimento di determinati valori «interni» alla pratica stessa, da non confondere con quelli che sono invece «esterni». Se, poniamo, voglio diventare un calciatore, debbo possedere determinate doti tecniche e atletiche, allenarmi con passione, sottomettermi a una rigida disciplina; debbo, in altre parole, applicarmi nel gioco del calcio, anche se potrei essere attratto so-

prattutto dal successo, dal denaro o dal prestigio che penso di ricavarne. I primi sono valori interni alla pratica, i secondi sono invece esterni. L’aspetto importante riguardo ai valori interni alle pratiche è che essi, per essere conseguiti, implicano l’esercizio di determinate virtù (la perseveranza, la giustizia, il coraggio, l’onestà, il rispetto dell’avversario, il senso dell’onore, ecc.), grazie alle quali impariamo anche a ri-

conoscere i talenti e i meriti degli altri, diciamo pure, che cosa è dovuto a chi. Occorre essere onesti per riconoscere che gli avversari hanno giocato meglio di noi; allenarsi con perseveranza e sacrificio è un dovere nei confronti di se stessi e dei compagni di squadra; lo stesso dicasi per la lealtà, il coraggio e via di seguito. Questo ovviamente non significa che i mediocri o i meschini non possano battere tutte le strade possibili e immaginabili per affermarsi in una determinata pratica. Ma essi possono farlo soltanto finché la pratica continuerà a sopravvivere grazie alle virtù di coloro che si applicano in essa, guardando soprattutto ai suoi valori interni. I molti adolescenti che vogliono diventare calciatori, mossi non tanto dal desiderio di emulare le giocate straordinarie di Maradona, quanto dal denaro o dalle veline che ne verrebbero, e che, spesso incoraggiati dai genitori, fanno di questo l’essenziale della loro vita, rappresentano non soltanto la crisi di una «pratica», nella quale i valori esterni hanno preso il sopravvento su quelli interni, ma anche la crisi di una società che, colonizzata dal denaro, dalla lussuria e dal potere, direbbe Eliot, non riesce più ad apprezzare altro. Qui davvero possiamo dire che lo sport appare come lo specchio di una dimensione sociale più vasta che sta contaminando un po’ tutte le «pratiche» della nostra vita. Eppure, proprio per questo, proprio per arginare questo fenomeno, potrebbe essere utile non perdere di vista i valori interni dello sport, il «capitale sociale» che essi potrebbero rappresentare anche al di fuori, magari per non dimenticare mai che nella vita ci sono cose ben più importanti di quelle che avvengono in un qualsiasi stadio.

Lo sport, come si dice, è una metafora della vita; non viceversa. Se accade che la vita diventa una metafora dello sport, allora vuol dire che entrambi hanno perduto il loro senso più profondo e bisogna correre ai ripari. A questo proposito penso a uno dei film più belli che siano mai stati realizzati su argomenti sportivi: Momenti di gloria. Il film, come è noto, ruota intorno alla preparazione e alla partecipazione della squadra della Gran Bretagna alle olimpiadi parigine del 1924. Tutti gli atleti, seppure in modi diversi, hanno investito tempo e sacrifici per prepararsi al meglio al grande evento. La vittoria è l’obbiettivo esaltante a cui giustamente ognuno di loro tende. Ma, alla fine, e qui sta la grandezza del film, vittoria o sconfitta non sono «tutto». Si può cadere, rialzarsi e perdere, come nel caso del mezzofondista, e trasformare la sconfitta in una dimostrazione di forza a se stessi e agli altri; si può vincere l’oro olimpico nei cento metri piani, come nel caso dell’ebreo Habrahams, e scoprire che questo non cancella le inquietudini e le insoddisfazioni di una vita; infine, come nel caso del pastore protestante Liddel, si può fare dell’oro olimpico una forma di testimonianza di qualcosa di più grande, di una sorta di «corona incorruttibile», direbbe San Paolo, che, anziché sminuire, rende ancora più belle quelle «corruttibili». Lo sport - questo un po’ il messaggio - è una «pratica» esaltante, ma soprattutto è esaltante il suo collegamento a qualcosa che è più grande e più bello ancora. Qualcosa che non è certo la salute, né il denaro, né il potere.


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Pop

musica

Bob Geldolf: Africa, MONEY & ROCK ’N ROLL di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi chi se li dimentica più? Ricordo l’imbarazzo di quel negoziante di dischi che mi allungò di soppiatto il loro primo ellepì che in copertina li ritraeva pittati e agghindati come certe drag queens della Factory di Andy Warhol. Nel 1973 e nel ’74, stracarichi di fondotinta e con le zeppe ai piedi, i New York Dolls si mettono a sparare un rock & roll al vetriolo (Personality Crisis, Trash, Bad Girl) che anticipa i violenti ceffoni punk. L’album di debutto, che le canta chiare e tonde al glam rock inglese di David Bowie e T. Rex, si chiama come loro. Il secondo, s’intitola Too Much Too Soon. Poi si sciolgono in un lampo. Passano trent’anni, e nel 2004 Morrissey (già cantante degli Smiths) propone alla band di riunirsi al Meltown Festival di Londra per un solo concerto. Rispondono all’appello il vocalist David Johansen (che dopo l’incipriata esperienza con le «bambole» aveva inanellato rock dei bassifondi, lounge music come Buster Poindexter e blues), il chitarrista Sylvain Sylvain e il bassista Arthur «Killer» Kane. Johnny Thunders (chitarra) e Jerry Nolan (batteria) sono da tempo morti e sepolti via overdose. Il concerto, comunque, si fa. E funziona talmente bene da meritarsi il cd Live From Royal Festival Hall, 2004. C’è poco da festeggiare, però: Arthur Kane, riguadagnato il palco, felice come una Pasqua, raggiunge Thunders & Nolan lassù in cielo. Addio New York Dolls? Giammai. Johansen & Sylvain, nel 2006, fanno il lifting al gruppo con quattro baldi giovanotti, entrano in sala d’incisione e scolpiscono il rock duro e puro di One Day It Will Please Us To Remember Even This. Poi, raggrinziti ma pimpanti, nel 2009 tornano alla carica con ‘Cause I Sez So, prodotto da quel mattacchione di Todd

no conforto al core le ultime dichiarazioni di Bob Geldof, una volta bello e figo dei Bontown rats, poi messia della salvezza alimentare con Live Aid, infine bello e d’annata del music business. Il suo ultimo disco si chiama How to compose popular songs that will sell: come comporre canzoni pop che venderanno. A parte che i titoli beneauguranti di solito non funzionano (vi dice niente il caso Una bella canzone di Flavia Fortunato? Se non vi dice niente vi è andata bene). Geldof già dal nome del disco confessa l’insana passione per (o bisogno di) soldi. Si colloca quindi nel filone delle rockstar pure, cioè venali. Sesso, droga e rock costano. Poi aggiunge: «Il rock è il prisma da cui guardare la società, è un linguaggio universale che le nuove generazioni hanno perso. O forse faccio queste considerazioni perché sono io che sono troppo vecchio, ho quasi sessant’anni». E si dice pure vecchio. Se continua così prenderà nel nostro cuore il posto di Keith Richards, gli manca solo un pizzico di cattiveria. Rovinano tutto gli intervistatori che, parlando con l’attivista e l’ideatore di Live Aid si sentono in dovere di fare domande social-geopolitiche. Alle quali Geldof risponde: «Bisogna connettersi al mondo africano e aiutare le persone nei loro Paesi, investire in un’economia crescente, entro il 2040 l’Africa sarà al centro del mondo. Le tre parole cardine sono cooperazione, consenso, compromesso. Invece la politica occidentale non va oltre il suo ombelico. L’America è stanca di essere l’America e non esiste una vera leadership europea. Se l’avessimo avremmo anche un futuro. Questo è il momento storico giusto per essere vitali e noi stiamo a guardare». E sembra perfino un discorso sensato, ma che poteva tranquillamente fare Lucio Caracciolo, direttore di Limes, o il grande scenarista americano Parag Khanna. Dal musicista preferivamo musica e sincero culto dell’io.

U

E

Jazz

zapping

I New York Dolls

dai tacchi alle ballerine Rundgren, già «colpevole» della glam revolution di New York Dolls. Ci ha ormai preso gusto, la coppia rock che in realtà non è mai scoppiata: incide un disco, dà una bella riverniciata al logo e se ne va in tournée. Non incassano cifre stratosferiche, David Johansen e Sylvain Sylvain. Mai successo, nemmeno per sbaglio. Ma chissenefrega: l’importante è soddisfare i fans che li seguono da una vita. Capiterà anche stavolta, che in gioco c’è Dancing Backward In High Heels suonato con Frank Infante (chitarra), Jason Hill (basso) e Brian Delaney (batteria). Disco urticante in almeno tre pezzi (Talk To Me Baby, con riff chitarristico alla T. Rex e wall of sound alla Phil Spector; I’m So Fabulous e Round And Round She Goes, gemelli rock & roll nel più classico Dolls Style) e per il resto vintage: nel senso che Johansen & Sylvain saltano da una

cotta giovanile all’altra. Streetcake, ad esempio, è tutta giocata alla maniera dei gruppi femminili anni Cinquanta e Sessanta (Ronettes, Shirelles, Shangri-Las, Supremes…) che tanto ispirarono i New York Dolls di Too Much Too Soon, così come la cover di I Sold My Heart To The Junkman (1962, Patti LaBelle & The Bluebelles). E fra due reggae come Baby, Tell Me What I’m On e End Of The Summer che David Johansen padroneggia con enfasi da crooner e coretti doowop, s’infilano il caracollante blues di Kids Like You addomesticato dalla slide guitar; la ballata per cuori infranti You Don’t Have To Cry, fra Willy DeVille e i Rolling Stones; il rhythm & blues di Funky But Chic, che l’istrionico Johansen ha ripescato dal primo disco solista del ’78. Le bambole di New York sono scese dai tacchi a spillo per infilarsi le ballerine. Ma è sempre un gran piacere ascoltarle. New York Dolls, Dancing Backward In High Heels, Blast Records, 18,90 euro

Quando Django e Stéphane suonavano la Marsigliese arà l’Inno nazionale la «colonna sonora» della prossima edizione di Umbria Jazz. Tutti i musicisti italiani presenti a Perugia, fra l’8 e il 17 luglio, dovranno dare una loro interpretazione di quella composizione che due patrioti genovesi, Goffredo Mameli e Michele Novaro, scrissero nell’autunno 1847 e che il 12 ottobre 1946, dopo che gli italiani per quasi un secolo hanno dovuto ascoltare la Marcia Reale e per oltre vent’anni Giovinezza, venne scelto per diventare il nostro inno nazionale. I musicisti italiani dunque all’inizio di ogni loro concerto, sia che si tenga in teatro, all’aperto o in qualche ristorante dovranno eseguire l’Inno di Mameli con tutti i presenti rigorosamente in piedi. Ascolteremo dunque almeno una trentina di versioni del nostro inno patrio, da parte di Renato Sellani, Franco D’Andrea, Danilo Rea (che ne ha dato la sua versione in anteprima durante la conferenza stampa

S

di Adriano Mazzoletti svoltasi la settima scorsa a Roma), Flavio Boltro, Rosario Giuliani, Fabrizio Bosso, Francesco Cafiso, Antonello Salis e tanti altri. Ognuno di loro eseguirà quelle note che imbarazzano non poco i nostri calciatori quando debbono cantarle durante gli incontri internazionali. È questo dunque l’omaggio (come già abbiamo accennato in un precedente articolo) di Umbria Jazz per il 150° anniversario della nostra nazione. Fortunatamente questa ricorrenza non è caduta negli anni Settanta, quando i nostri musicisti erano impegnati a emulare più o meno fedelmente (forse meno che più) i creatori del free. Quelle esecuzioni sarebbero probabilmente state oggetto di molte interrogazioni parlamentari. Vilipendio al-

la Bandiera, vilipendio all’Inno nazionale. A questo proposito vorrei ricordare un illustre precedente. Lo scoppio della seconda guerra mondiale sorprese il celebre Quintette du Hot Club de France a Londra. Immediatamente dopo l’annuncio della dichiarazione di guerra, Django Reinhardt e gli altri tre musicisti manou-

che fecero le valigie e tornarono velocemente in Francia, mentre Stéphane Grappelli preferì rimanere a Londra. La guerra fu lunga e terribile. Django e Stéphane non ebbero più nessun contatto per oltre cinque anni. Pochi giorni dopo la fine del conflitto, Django si recò a Londra ansioso di vedere il suo vecchio amico. L’incontro avvenne nella camera d’albergo che Stéphane occupava da cinque anni. I due amici si guardarono e senza dir nulla presero gli strumenti ed eseguirono La Marsigliese. Qualche mese dopo registrarono su disco quella versione jazzistica del loro inno nazionale. Il generale Charles de Gaulle vietò che quell’esecuzione «blasfema» fosse trasmessa dalla radio. Per diverso tempo la Marseillaise di Django e Stéphane non venne pubblicata e solo in qualche edizione estera il disco uscì con il titolo Echoes of France. Indubbiamente il mondo è fortunatamente cambiato.


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arti Mostre

è una parola insopportabile del gergo espositivo contemporaneo, che ha preso sempre più possesso in quelle pappette tipografiche o internautiche, che sono i comunicati stampa e che dilagano come invadenti tsunami per le lenzuolate quotidiane di mail. Una paroletta presunta magica, che va via via sostituendo un altro non meno insopportabile tic linguistico, che è la chicca. Per cui fino a poco tempo fa non c’era telefonata di molesto ufficio stampa, che non ti promettesse un’assicurata kikka tutta forgiata privilegiatamente per te, mentre, ovviamente, se tutto diventa kikka la kikka non ha più senso d’esistere. Ora invece la sostituta parola dilagante, che non demorde e che arroventa l’eloquio di pr e galleristi e infioretta lo smorto stile-comunicato-mail, parrebbe esser diventata il sesamo international: site specific. Per cui qualsiasi ruttino o sbadiglio o prodigio concettuale emetta un artista (qualsivoglia in qualunquanda galleria) è già in sé e di per sé, magicamente: site specific. Cioè creato e progettato e meditato e misurato appositamente per quell’istesso luogo, sfruttando pieghe e anfratti e gradini di quel sito specifico (perché non è poi che il termine in originale, in sé specifico, voglia dire poi molto di più). Come se poi un vecchio artista volpone e non già in vena di snobismi (dell’ancora inesistente critichese) non avesse, da sempre, prodotto e prescelto opere che andavano miracolosamente a incasellarsi in quella parete, sì proprio quella (versione casalinga del vantato specifico), in quel preciso contesto, in quella logica, non soltanto architettonica, della galleria prescelta. Allora, sia lode alla sempre propositiva Galleria Franco Noero di Torino, che ci fa grazia dell’inflazionata formula, testè svillanaggiata, epperò ci propone una bellissima e levitante e profumata mostra, che più site specific di così non si potrebbe. E bisogna anche ammettere che di gallerie, così particolari (come sito) e così «specifiche» (come caratteristiche pressoché uniche) c’è da giurare che non ne possono certo esi-

C’

Moda

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Gli alberi della vita di Henrik Hakansson di Marco Vallora stere altre, di simili, nel mondo, da poter replicare l’effetto, seducentissimo. Perché la Galleria Noero ha sede nella cosiddetta «Fetta di Polenta» dell’eccentrico architetto Antonelli, sì lo stesso della Mole Antonelliana e del San Gaudenzio di Novara, ed è già di per sé un eccezionale sito «specificientissimo», che - come rivela l’affettuoso nomignolo popolare - sottilissima, esile, tagliata da un’immaginario salumajo celeste ed edilizio, quasi fosse una fetta di condominio umbertino, da sbattere sul bancone della via e avviluppare con grazia pedementona, si sviluppa in allampanata altezza e in una strettissima dimensione di larghezza. Come se si salisse avvitati dentro un mobile ospitale ma angusto, o nella cavernosa bocca d’un grande camino o d’un laico campanile. Quasi un annuncio titubante, ma promettente, di grattacielo, sparagnino e sabaudo, spiritoso e insieme avventuroso. Nell’eccentrica palazzina verticale, il gallerista ci abita, tra trafiggenti passa-vivande e angolini, riadattati a piattaie o guardaroba triangolari, che dan da ricordare la fantastica casa-museo di Soane, a Londra. E ogni tanto, a capriccio, a piani alternati, tra vecchi bagnetti pompeiani (che lampeggiano a sorpresa) e stufette bizantino-mosaicate (memoria d’un rifacimento ormai d’epoca e demenziale firmato da Mongiardino, décorateur da madame meneghine), ecco che fiorisce lo spazio espositivo della galleria. Così

non stupisce che, seguendo l’andamento a propellente celeste della casa, un artista sensibile e verde e un poco andersoniano, come lo svedese Henrik Hakansson, forse proprio tranfiando fiati tabagisti, su per le scalette da piroscafo dei nove piani della Fetta di Polenta, ha avuto questa gioiosa trovata di far attraversare l’intiera palazzina antonelliana da un’unica respirante e profumata quercia, non da ghiande ma con fogliette lanceolate, che trapana i vari pavimenti del sito e, inseguendoci nell’ardua scalata, occupa frondosamente (anzi, satura) i diversi livelli della galleria, degradando via via e poco a poco diramando (mai parola fu più acconcia) dimensione e fronde della fioritura a ombrello dei suoi rami generosi. Sin che, all’ultimo piano, ecco che non singhiozzano più che alcuni spruzzetti stanchi e isolati di foglie stentate, come una fontanella palazzeschiana, che lentamente muore, assopendosi. Ma è anche bellissimo l’avvio di quest’opera, con quel grumo lieve di radici e di tracce di terra sospesa, che non nasce banalmente dal pavimento, ma levita, in una

meditazione orientale, e pare come sospinto, pneumatico, da una propulsione intrattenibile, da «albero della vita», che lo spinge a vincere e bucare la gravità dell’architettura. Certo, non una novità assoluta - basterebbe pensare ad alcune invenzioni di décor trafiggenti del Dalì di Cadaques, o a certe soluzione naturalistico-architettoniche di Wright, Ambasz e Barragan. Al Merzbau di Schwitters o all’ulivo sospeso con radici di Cattelan, molto più sussiegoso e ideologico, e va da sé all’opera-bussola di Penone, ma Hakansson ha anche la decenza di ammetterlo, proprio facendo riferimento alla sua nascita - 1968 - e all’orma degli anni dell’Arte Povera: figlio d’uno strano incrocio tra il Calvino del Barone rampante e le verdi intuizioni di Penone.

Christian Dior, la grandeur dell’architetto delle donne destino che in questa primavera Dior debba tenere banco. Primo, per il licenziamento del geniale direttore creativo John Galliano (beccato al caffè, mentre ubriaco insultava una donna, che poi non era neanche ebrea) proprio alla vigilia della sfilata, meravigliosa: 62 uscite, abiti leggeri in mussolina, pelle e colori cupi nelle stole di pelliccia e delle cappe di giorno, per una donna modernissima, molto vestita e anche poco vestita quando serve. Secondo, per la mostra Inspiration Dior nelle sale spettacolari del Pushkin Museum di Mosca dal 28 aprile al 24 luglio. Ogni abito rimanda a un pittore - Giovanni Boldini, per esempio, con le sue eleganti signore drappeggiate dentro tessuti sensuali, impalpabili - o Matisse con le sue curve, o Picasso, con le sue geometrie, però ci sono mille altre citazioni, legate ai fiori, ai giardini, alla storia francese e al suo spirito grandeur. Sì, perché a Christian Dior, classe 1905, architetto mancato, illustratore per necessità

È

di Roselina Salemi (il crollo di Wall Street del ‘29 aveva rovinato la sua famiglia), gallerista per passione (ha esposto i moderni: De Chirico, Utrillo, Braque, Fernand Léger), stilista geniale uscito di scena troppo presto (un infarto a 52 anni, nel 1957), è riuscito a costruire l’identità femminile del secondo dopoguerra. Al contrario della sua collega-rivale Coco Chanel, che creava abiti comodi per donne liberate, nel ‘47 venne fuori con la stupefacente Ligne Corolle che Carmel Snow, direttore di Harper’s Bazar, battezzò New Look. Dimenticata l’austerità, Dior aveva disegnato una creatura romantica, con la vita sottilissima, strizzata in un bustino, enfatizzata da gonne immense, provocatoriamente fruscianti, che arrivavano a 25 centimetri dal pavimento. Dei suoi successori, John Galliano è stato di sicuro il più capriccioso, visionario, creativo. Preceduto dal motto «Che noia la sem-

plicità! Spesso le cose di cattivo gusto sono le più divertenti», ha trovato ispirazione nei dandy, nelle donne Masaï, nelle principesse del Rajastan, nel rap del ghetto, nelle dive dell’opera lirica, nelle geishe, nelle signore del burlesque o addirittura, criticatissimo, nei clochard. Senza tralasciare l’arte, la musica, i costumi dei pirati, incarnando lo spirito Dior che ritroviamo a Mosca. Il percorso della mostra rende omaggio alle muse, alle dive degli anni Settanta e a quelle contemporanee, come Penelope Cruz, recupera memorabilia accanto a gioielli, orologi e profumi ormai introvabili e pezzetti di storia nostalgica. Per esempio c’è la foto «Dovima con gli elefanti», scattata da Richard Avedon nell’ormai lontano 1955. Ci sono i leggendari vestiti, dove Christian Dior metteva 20 metri di stoffa. E c’è, anche se involontaria, la sensazione che quell’epoca, romantica, eccitante, sia finita per sempre. Certo, c’è sempre un bouquet di venerate testimonial, c’è la nuova, scintillante Natalie Portman fresca di Oscar, la sempre trasgressiva Kate Moss, un mito intramontabile, la bionda Charlize Theron di J’adore. Ce n’è abbastanza per mantenere vivo il sogno. Ma la multinazionale del lusso Lvmh, proprietaria del marchio, non può che celebrare i suoi anni d’oro, mentre cerca un altro stilista per far dimenticare John Galliano.


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il paginone

Sua Maestà Franz Liszt di Pietro Gallina e musicista deve esser scelto a rappresentanza dell’Europa in quanto uomo europeo e cosmopolita, quello deve essere senza il minimo dubbio Franz Liszt! Alcune nazioni già se lo contendono per offrire i migliori concerti ed eventi e festeggiare così in grande stile il bicentenario dalla nascita del più grande pianista della storia. L’Anno di Liszt è stato inaugurato soprattutto dall’Ungheria, ma appunto nazioni come Francia, Austria, Germania, Slovacchia, Gran Bretagna, Usa e Italia hanno già cominciato a offrire eventi di rilievo, maratone pianistiche, inzeppando di musiche lisztiane i calendari delle stagioni concertistiche e i programmi radiofonici di mezzo mondo. Ma perché questa contesa? Per motivi biografici. Nacque (1811-1886) a Raiding nella contea di Sopron allora Ungheria, ma riannessa all’Austria nel 1920. Padre e madre di ceppo austriaco e in famiglia si parlava solo tedesco. Dodicenne è già acclamato a Vienna, Baden, Bratislava, Ödenburg: un fanciullo prodigio per il quale il principe Esterházy e altri nobili ungheresi offrirono una borsa per farlo studiare sei anni. La strada di Parigi è aperta. Arriva nel 1823 e nei salotti frequentati da tutti i grandi nomi dell’arte, è sempre grande trionfo. Gli piace, per darsi un tocco esotico, dichiarare a tutti: Je suis hongrois! Invece il francese che imparò subito, lo usò come sua prima lingua dopo il tedesco, mentre la sua conoscenza dell’ungherese fu sempre approssimativa. Dal 1839 al 1847, in otto anni di viaggi intensi, percorse tutta l’Europa, dal Portogallo alla Russia alla Turchia e cosa unica in ogni nazione visitata c’è un pianoforte-reliquia da lui suonato oltre ad amanti e allievi lasciati in loco. Poi comincia a vivere lunghi periodi tra Weimar, Bayreuth, Roma. Dal 1861 fino alla morte, Roma è la città dove prenderà i voti e indosserà l’abito talare con il desiderio di diventare, dopo l’incontro con Pio IX, compositore ufficiale del Vaticano. La nomina non la ottenne mai e anche se deluso

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non disdegnava di alloggiare nella Villa d’Este di Tivoli ogni volta messa a sua completa disposizione. Invece un’altra nomina giunge (1871): consigliere reale dell’Ungheria con 4000 fiorini di stipendio. Liszt da allora non fece altro che viaggiare tra l’Italia, l’Ungheria e la Germania definendo quella vita «triforcuta», senza una nazione che prevalesse, cittadino d’Europa, «mezzo tzigano e mezzo francescano». Franz Liszt è noto come il grande pianista virtuoso, meno come compositore di musica sacra, da camera, per orchestra. Non tutti sanno per l’appunto che è stato uno dei compositori più prolifici degli ultimi tre secoli con 1400 numeri d’opera che abbracciano quasi ogni genere musicale. Incisioni e concerti in programma, però, scandalosamente riguardano sempre i celeberrimi pezzi pianistici, una sparuta quantità della produzione totale. Liszt è dunque un autore che, sebbene popolarissimo, rimane ancora tut-

smo paganiniano e la melodia del belcanto; dalla Germania forma e costruzione sinfonica; dalla Francia i colori crudi del suo Romanticismo, spesso violento ed esuberante; dall’Ungheria i melismi zigani e le visioni di stravolte czárdás; dalla Polonia gli impeti delle Polonaises filtrate attraverso Chopin; dalla Russia gli accenti e i ritmi orientali. Questo è il sunto delle motivazione per le quali solo Liszt può essere davvero nominato musicista europeo per eccellenza. Questo è il messaggio che l’Ungheria vuole passare proprio nel semestre in cui ha acquisito la presidenza dell’Europa: rivendicare Liszt, attraverso i grandi festeggiamenti organizzati per il bicentenario, suo figlio prediletto; ma, come si è visto, non lo è stato mai completamente. A Mario Bortolotto - musicologo e storico della musica, Accademico di S. Cecilia, collaboratore di diverse riviste e quotidiani (dall’Europeo alla Repubblica, Piano Time, Amadeus e

parte del piccolo Liszt fu sempre modesta. Più tardi prese lezioni quando i nobili ungheresi gli offrirono un titolo nobiliare con la consegna della spada. In questo caso egli arrivò effettivamente a biascicare alcune frasi in ugherese. Come d’altronde fece la principessa Sissy, ottimamente preparandosi il discorso... il popolo andò in delirio sentendola comunicare nell’idioma ungherese. Arrivato giovanissimo a Parigi egli non diceva di essere austriaco, era fiero

Sebbene popolarissmo, è ancora tutto da scoprire. Le donne, la tastiera e il pentagramma furono i leitmotiven della sua vita. In fatto di musica è stato uno degli uomini più colti mai esistiti: un vero imperatore

to da scoprire. Già in vita molte sue composizioni si scontravano contro un muro di incomprensione per la loro modernità, lasciando tiepidi perfino gli amici: da Berlioz a Schumann, a Wagner. Era una musica che spezzava le barriere nazionalistiche, costituita da apporti di tutte le culture, alfine di forgiare con audacia il nuovo linguaggio musicale europeo. Liszt infatti ha tessuto come nessun altro il vessillo della musica europea, fatta del suo patrimonio colto e popolare: dall’Italia gli deriva il virtuosi-

attualmente collaboratore del Foglio), autore di otto libri fondamentali (quasi tutti pubblicati da Adelphi, l’ultimo è Corrispondenze del 2010) rivolgiamo alcune domande su Liszt in occasione de bicentenario della nascita. Le celebrazioni dei centenari di artisti, personaggi e fatti del passato a volte possono essere noiose o banali, a volte invece possono stimolare nuove perlustrazioni nella vita e nell’opera del celebrato: adesso è il turno di Ferencz (o Franz) Liszt. Anzitutto dobbiamo dire Franz e non Ferencz! Egli si chiamò così per tutta la vita anche se nacque in Ungheria, ma sua madre era tedesca e tedesco si parlava in casa, tanto che la conoscenza dell’ungherese da

di gridare nei salotti Je suis hongrois! Certamente! In quegli anni a Parigi faceva molto esotico venire dall’Est o da Paesi come l’Ungheria... come le sue Rapsodie che si chiamano ungheresi, quando tutti sanno che di ungherese non c’è nemmeno una nota. Sono di carattere zingaresco, molto simpatiche e gradevoli, ma si tratta di zingari e non di ungheresi o magiari che sono tutt’altra cosa. Listz è un compositore «anomalo» nel panorama ottocentesco? Ritengo che il cammino della musica nell’Ottocento sia affidato a mani austro-tedesche. È l’unica parte del mondo che non abbia mai saltato una generazione - da Schütz a Stockhausen - senza produrre un grande compositore. Accan-

to a questa tradizione vi sono apporti provenienti da altri Paesi, ed è molto curioso che alcuni tra i musicisti più innovativi provengano da terre non austro-tedesche; ne nominerei tre: Chopin, Berlioz e Liszt. Non ve ne sono altri che abbiano deciso in maniera così tranchante sul linguaggio musicale. Questi hanno dato un contributo che benché notevolmente «anomalo», ha portato sapori e profumi diversi nella casa della musica degli austrotedeschi. Liszt in particolare rappresenta con la sua musica una specie di condimento comune in tutto il Romanticismo, che egli ripensa quando è ancora in corso e ne riassume la storia. La Fantasia sulla Norma di Bellini è più bella di qualsiasi cosa che Bellini abbia anche vagamente sospettato. Strawin-


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Nato in Ungheria, lingua madre il tedesco, di casa a Parigi, Roma, Weimar e Bayreuth. Ha forgiato con audacia, spezzando le barriere nazionalistiche, il nuovo linguaggio musicale d’Europa che nessuno meglio di lui può rappresentare. Nell’anno del bicentenario della nascita, la gara a chi lo celebra meglio è già cominciata. Ne parliamo con Mario Bortolotto

A sinistra, un’immagine di Franz Liszt che sarà esposta, dal 13 aprile al 5 giugno, a Villa D’Este a Tivoli (dove il musicista soggiornò lunghi periodi, componendovi gran parte delle sue opere di ispirazione religiosa), nella mostra “Franz Liszt nelle fotografie d’epoca della collezione Ernst Burger”. Nell’anno del bicentenario, la mostra è l’evento di apertura di “Franz Liszt un abate a Villa d’Este”, una serie di eventi dedicati al compositore che si svolgeranno nell’arco di tutto il 2011. A destra, Liszt in uno scatto di Nadar. In basso, un ritratto giovanile del Maestro, sua figlia Cosima e suo genero Richard Wagner

sky e Liszt sono in questo senso paradossalmente vicini: si sono posti come problema fondamentale il comporre su musiche altrui. Di Liszt vengono eseguite in concerto solo una parte delle opere pianistiche, quelle per orchestre quasi mai: come si spiega? Effettivamente è una lacuna che la vita concertistica sta già pagando. Ma anche per quanto riguarda il pianoforte ci sono opere dell’ultimo Liszt che hanno carattere sperimentale e che lui ha scritto per sé e per pochi altri e che non vengono mai eseguite. Da noi è da anni che le diffonde Michele Campanella, un pianista che si è dedicato totalmente al pianismo lisztiano (autore di un libro appena uscito, edito da Bompiani, Il mio Liszt - Considerazioni di

un interprete, ndr). Tuttavia tali musiche aspettano una nuova perlustrazione e non tutte sono destinate a una grande popolarità per la semplice ragione che mentre le Rapsodie Ungheresi sono alla portata di chiunque abbia un minimo di sensibilità musicale, i lavori dell’ultimo periodo invece (come La Gondola Funebre, Richard Wagner a Venezia o la czárdás Macabre, che dispiacque molto a sua figlia Cosima e non meno al genero Wagner), non son nate né per le orecchie di Cosima, né per altre «signore». Liszt era inviso a Toscanini che non apprezzava la sua musica, insieme a molti altri che lo consideravano un musicista debole che si pavoneggiava

usando motivi celebri di altri compositori e trasformandoli in Reminiscenze, Trascizioni, Fantasie, Parafrasi. Un debole e un parassita? Che le composizioni di Liszt non siano tutte stratosferiche e che ce ne siano nella sua sterminata produzione molte deboli non si può negare... Ma da qui ad affermare che si appropriava di musiche altrui mi pare esagerato. Quello che lui prende dall’aria di un’opera o dai concerti o pezzi famosi del suo tempo - materiale musicale che ha già una sua forma e un suo essere melodico - passando nelle sue grinfie, pur rimanendo riconoscibili le melodie, viene trasformato in qualcosa di assolutamente suo, lisztiano, che perde il legame coll’originale e diventa assolutamente un’altra cosa. L’ottimo risultato giustifica quindi il procedimento. Anche coloro ai quali non piace Liszt in proprio, quello

della Sonata in si per esempio, devono chinarsi di fronte alla sua straordinaria maestria nel trasformare brani altrui. Cito sempre la Réminiscences su motivi della Norma di Bellini: nel famoso finale dell’opera «Ah Troppo tardi t’ho conosciuta», Liszt aggiunge nel pianoforte, ben inteso, un rullo di timpani nell’ottava bassa, il quale è a tal punto straordinario e di miracolosa esattezza che riascoltare la stessa musica come l’ha scritta Bellini è davvero impossibile! Tra Liszt e Wagner pare esserci tanta vicinanza eppure tanta distanza: uno cosmopolita ed europeo, l’altro sulla strada della germanizzazione della musica. Quanto deve Liszt a Wagner e quanto Wagner deve a Liszt? Wagner di Liszt, anche se era suo suocero, non apprezzava quel modo di ficcare il naso in tutte le musiche, scrivere pezzi ungheresi, trascrizioni di arie italiane, musica leggera francese... Wagner, nonostante riconoscesse la grandezza di Liszt, era determinato, sul suo cammino dalla Tetralogia al Parsifal, a scrivere la musica in quel suo nuovo stile e basta! Mentre Liszt ha sempre generosamente apprezzato Wagner, aiutandolo spesso con tanti consigli, temi, idee musicali... Dunque credo che Liszt a Wagner non debba nulla! È semmai l’opposto, molte cose che son dette wagneriane - armonie, successioni di accordi - sono in realtà lisztiane. È noto che il celeberrimo tema del «sonno» della Walküre fu scritto su una cartolina da Liszt e inviato a Wagner il quale ne fece appunto nientemeno che la scena conclusiva della seconda giornata del Ring. Liszt poi precede già Wagner nella Sonata in si minore dove sfoggia armonie wagneriane quando le cosidette tali erano ancora in mente di Dio e di Wagner.

Ciò che conta di più, però, da un certo punto in poi, è invece il distacco da Wagner: quando Wagner diventa celebrativo (Parsifal), tanto più Liszt diventa allusivo, aforistico, balenante, con una carica di sfacelo formale che Wagner ignora, ma che è pronta a passare ai primi che ascoltano: ai russi fino a Scrjabin, Debussy, più tardi la Scuola di Vienna e Bartok. Liszt mondano: salotti, donne, abito talare. Un mattatore? Sì, era un uomo molto acceso, con vivissimo colore romantico, un dandy. Il ritorno alla religione confessionale poi andava in voga; è la «religione d’arte» di cui parla Remy de Gourmont. Si sa anche che SainteBeuve disse di Chateaubriand: Il croit croire. Successe anche a Liszt e il suo cattolicesimo romano gli diece tutto un froufrou, un profumo attorno, proprio come le sottane che indossò nell’ultima parte della sua vita e che non valevano meno delle sottane di infinite signore - dalla Francia al Caucaso - che egli si affrettò a togliere, quando fu il caso, prima e dopo i suoi ordini sacerdotali. Già suo padre lo avverti da piccolo: «Temo per te le donne». Le donne, la tastiera e il pentagramma furono i leitmotiven della sua vita e rimane ancora sbalorditivo immaginare dove egli prendesse il tempo necessario per queste sue attività, se si tiene conto del numero impressionante di musiche composte, in più vanno contate le infinite ore di lezioni a pianisti di tutta Europa che dava senza voler essere pagato. Fu un uomo di una generosità unica, di una apertura mentale esemplare, era disposto ad accogliere qualsiasi elemento della musica che amava di un amore profondo e universale, conoscendo a menadito tutto quello che era possibile sapere in quegli anni. È stato uno degli uomini più colti in fatto di musica che la storia abbia mai conosciuto. Dovunque per lui erano trionfi: un vero imperatore della musica.


Narrativa

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Dopo la Bosnia di “Venuto al mondo”, l’intenso corpo a corpo di una coppia in disfacimento. Senza esclusione di colpi

l passo marziale, a cui sembrerebbe appartenere quello di Margaret Mazzantini, giustificherebbe l’espressione «Margaret va alla guerra», per definire ancora una volta l’ultimo romanzo, fresco di stampa, Nessuno si salva da solo. Una parafrasi, la guerra, di un pensiero profondo dell’autrice che, per spiegare le sue opere, non ha esitato a parlare della scrittura non solo come di una necessità, ma anche come di un acerrimo confronto con la realtà. Sarà questo il motivo per cui nell’affrontare il commento all’ultimo testo, ci è difficile non pensare al precedente Venuto al mondo, al suo mondo guerresco ma senza mitologie, solo la cruda realtà della guerra bosniaca, della odissea dolorosa e improvvisa di Sarajevo. Ora quella guerra, giocata allora su uno scacchiere internazionale, si trasferisce, nell’impeto e nella violenza, intorno allo stretto e vincolante tavolo di una trattoria romana, «uno di quei posticini di tendenza… i tavolini ballano un po’ sull’asfalto irregolare». Una battaglia coniugale, delle tante disseminate nel mondo, così come i tanti focolai accessi nel pianeta di guerre dimenticate. Difficile non pensare allo scarto di scala, non come giudizio di valore ma di misura, la misura con cui uno scrittore definisce la propria grandezza ed efficacia. Anche con questi scarti, dallo scenario globale al sistema chiuso e infinitesimale di una coppia e di una famiglia. Una guerra di posizione è quella che giocano i due protagonisti di Nessuno si salva da solo, tutta consumata in una serata attorno a un piccolo tavolo in uno spazio per lo più estraneo e definito, con accanto altre forze, uguali e contrarie che avranno un ruolo d’eccezione nella storia: «li hanno strizzati in

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Riletture

libri Margaret Mazzantini NESSUNO SI SALVA DA SOLO Mondadori, 189 pagine, 19,00 euro

manzo per questo essenziale, con poche figure, tranne che per la coppia di anziani che mangia nel tavolo accanto, e per la figura della cameriera, estranea ai protagonisti, troppo conforme al mondo - «la cameriera, la pancia scoperta appoggiata al loro tavolo». Il tono del confronto alternato tra ricordi, rapidissimi flashback, è duro. Una sorta di monologo interiore, franto e scomposto tra presente e passato, tra emozioni, rabbia e brevi dialoghi. Un discorso viscerale e brutale, ricco di espressioni gergali e volgari. I due si affrontano pieni di rabbia, ognuno rinfaccia all’altro il fallimento di un amore e la fine di una famiglia. Tutto durante la cena, le pause sono per mangiare, per bere un sorso, ma per il resto è in scena una rabbiosa guerra. Una storia che contiene l’universo delle storie d’amore, una storia universo, con al centro due persone che «da ferme» raccolgono e spiegano la loro storia, il loro passato, le relazioni di una vita, i particolari minuscoli disseminati nel logorio quotidiano. Ecco come una storia che sembrerebbe racchiusa in poche ore si dilata fino a comprenderne tante. Con il tratto proprio della Mazzantini, la durezza dello sguardo sulla realtà accompagnato da uno stile impietoso. Il romanzo, che ha tensione morale, allude non tanto al lieto fine quanto all’apertura verso un mondo parallelo e diverso come quello rappresentato dal tavolo accanto, una coppia speculare, vecchia e felice. Proprio la coppia accanto, una sorta di romanzo parallelo muto, diventerà la sorpresa per la fine della cena e della storia. Nessuno si salva da solo è la dimostrazione di una grande perizia costruttiva che non deve cedere il passo al pericolo dell’autocompiacimento.

Margaret torna alla

guerra

di Maria Pia Ammirati quel tavolino con i sottopiatti di carta da macelleria, in mezzo al bordello… non si condisce il disamore con il buon vino». Il passaggio dunque è come se fosse progettato dall’autrice più che per esibizione virtuosistica per una sorta di sfida: misurarsi col breve spazio nel più breve tempo, ma dilatando al massimo le due categorie. Gaetano e Delia, due giovani, esuberanti di vita, sposati per amore, genitori di due piccoli, si affrontano a cena per sancire il fallimento del loro amore e definire i confini delle legittime proprietà dopo la separazione: i figli. Il loro incontro è il romanzo, la cena (acqua vino primo secondo dolce) è il romanzo. Un ro-

L’Italia, un vecchio popolo in un giovane Stato centocinquanta anni dell’Italia unita nello Stato sabaudo e la storia che ne è seguita ci obbligano a ripensare e rileggere noi stessi. Il Mulino ha dedicato una collana all’identità italiana e il primo libro è stato ora ristampato in edizione paperbacks: L’identità italiana, appunto, di Ernesto Galli Della Loggia. Un testo che prova a mettere a sistema un problema come quello dell’identità di cui gli italiani sarebbero fatti. Un compito arduo e affascinante. Per capirci: a pagina 61 si legge quanto diceva Edgar Quinet, storico francese, all’indomani del 1848: «Non si tratta soltanto di indipendenza, ma di dare vita a ciò che non è mai esistito un solo giorno: creare un’Italia, ecco il problema». Ma come, non riteniamo noi italiani che l’Italia sia una cosa antica, ma così antica che in fondo è sempre esistita? Non pensiamo che l’Italia sia la più antica tra le nazioni? La culla della civiltà? Il libro di Galli Della Loggia mette insieme queste due «tendenze»: quella di un’Italia giovane e quella di un’Italia antica, quella di un’Italia che nasce solo con il suo Stato e quella di un’Italia che è sempre esistita anche senza uno Stato. È probabile, anzi, che il

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di Giancristiano Desiderio «problema italiano» sia proprio questo: un vecchio popolo in un giovane Stato. «L’Italia -scrive Della Loggia dopo aver citato la frase di Quinet così simile a quella famosa del Metternich - tuttavia alla fine fu creata, fu creato cioè uno Stato unitario più o meno corrispondente all’intero spazio geografico italiano. Ma proprio le modalità di tale processo rivelano in pieno, grazie al loro carattere singolare, quanto colma d’incongruenze fu l’unificazione e perciò quanto stentata e faticosa doveva essere la vita della compagine nazionale e statale che ne nacque». Le «incongruenze» dell’unificazione e la vita «stentata» e «faticosa» sia del corpo nazionale sia del corpo statale costituiscono l’identità italiana. Detto in due parole: Stato e nazione non coincidono, non si incontrano e quando si incontrano non si riconoscono e se si riconoscono si sopportano male. Gli italiani non si riconoscono nello Stato ma nel Comune: l’invenzione di governo del territorio tipicamente italiana, tanto al Nord quanto al Sud (anche se al Sud in modo minore) è l’entità comu-

Incongruenze dell’unificazione nell’“Identità italiana” di Ernesto Galli della Loggia

nale, la città, il borgo. La ricchezza italiana deriva indubbiamente da qui: da qui nascono le mille Italie. Ma da qui nasce anche il pessimo rapporto tra la società e lo Stato, la periferia e il centro, le città e Roma. Galli Della Loggia dice che la «geografia dello Stato» e la «geografia della società» non coincidono. Conviene rileggere il passo dello storico ed editorialista del Corriere della Sera (cito anche il lavoro giornalistico perché in fondo non è estraneo al lavoro storiografico). Rileggiamo: «In Italia, dunque, geografia dello Stato e geografia della società non si incontrano. In generale, tutta l’offerta di novità politiche degli ultimi centoventi anni appare concentrata nell’area centrosettentrionale del pluricentrismo urbano (a cominciare dalle culture politiche per così dire «storiche» della modernità italiana - socialismo, cattolicesimo, fascismo - fino alla Resistenza e in tempi più vicini a noi alla Lega) ma questo pluricentrismo non sa, non vuole, e comunque non riesce a “farsi Stato”: certamente per propria incapacità a pensare in termini adeguati la dimensione di una statualità diversa, ma anche per la resistenza passiva che il Mezzogiorno si è ogni volta mostrato capace di opporre». È quanto accade ogni giorno sotto i nostri occhi.


Memoriette

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el 1950 quando si discuteva alla Camera dell’adesione dell’Italia al Patto Atlantico, mentre era in corso l’ostruzionismo dei comunisti,Vittorio Emanuele Orlando, ex presidente del Consiglio del periodo prefascista, pronunciò un’altisonante denuncia contro De Gasperi per il suo - lo chiamava - «servilismo agli americani». Orlando era molto vecchio, novantenne, ma ancora pieno di vitalità e in grado di pronunciare un discorso a braccio. Fu quasi portato in trionfo dai comunisti. Nel corridoio del Transaltlantico Orlando si incontrò con Francesco Saverio Nitti, anche lui ex presidente del Consiglio prima del fascismo, passo passo con il suo bastoncino. Dell’età suppergiù di Orlando: non erano mai stati amici. Orlando chiese a Nitti se aveva sentito il suo discorso e cosa ne pensasse. Nitti rispose così: «Alla nostra età o dà alla testa o dà alle gambe. A me mi ha dato alle gambe!», indicando il suo bastoncino con il quale camminava con molta difficoltà. Era presente mio padre Attilio Piccioni.

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ALTRE LETTURE

L’INTRANSIGENZA DI GRAMSCI di Riccardo Paradisi

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Al banco del governo un anziano ministro democristiano sembra sonnecchiare mentre Pajetta parla. Il deputato comunista ne approfitta subito per gridare: «Ecco l’importanza che il governo dà all’opposizione. Mentre l’opposizione parla al governo si dorme». L’anziano ministro si sollevò nel busto e con voce piuttosto flebile disse: «No, onorevole Pajetta, non dormo, vorrei dormire ma la sua voce mi dà troppo disturbo». Prima delle elezioni del’48 il governo De Gasperi si presentò in minoranza alla Camera. Se avesse ottenuto la maggioranza andava alle elezioni. Il discorso conclusivo prima del voto di fiducia toccò all’on. Piccioni, allora segretario del partito. In un intervento che fu definito «storico» passava in rassegna le posizioni dei vari partiti. Tra questi c’era quello della Democrazia del Lavoro, piccolo quanto intrigante e fumoso: giunto a quel punto Piccioni fece una pausa e disse: «C’è poi la Democrazia del Lavoro. Perché parlarne?».

Un deputato era specialista di statistiche. L’on. Proia, uomo molto spiritoso e simpatico che faceva volentieri scherzi al telefono, un giorno lo chiamò e gli disse: «Ma lei fa anche le statistiche delle fregnacce che dice?».

Si dice che Mussolini avrebbe fatto questa dichiarazione: «Gli italiani non è difficile governarli, è inutile». In pieno fascismo Mussolini fece un discorso in piazza a Livorno, città rossa per vocazione. Ma Mussolini sfidando la grande massa di gente che lo ascoltava diceva: «Questa era una città comunista, poi è venuto il fascismo e le cose sono cambiate. Dove sono finiti tutti i comunisti di ieri?». E dalla piazza si levò una risposta a bassa voce: «Non lo vedi che siamo tutti qui!». Un giornalista che voleva far carriera nel Partito comunista, per iscriversi dovette riempire il modulo per definire la sua posizione politica. «Fui volontario nella guerra di Spagna» scrisse; in verità era stato in Spagna come volontario dei fascisti.

uando discuti con un avversario prova a metterti nei suoi panni, lo comprenderai meglio». Leggi queste parole e dici ma che bel liberale Antonio Gramsci, poi però continui: «Ho seguito questo consiglio, ma i panni dei miei avversari erano così sudici che ho concluso: è meglio essere ingiusto qualche volta che provare questo schifo che fa svenire». A questo punto lo riconosci: è il capo dei comunisti italiani che parla la sua lingua, quella dell’odio e del disprezzo per il nemico che magari, per reazione, prova nei suoi confronti lo stesso schifo e lo stesso disgusto fino a diventare partigiano dell’anticomunismo più acuto. Odio gli indifferenti (Chiarelettere, 108 pagine, 7,00 euro) è una raccolta di testi gramsciani che rendono bene l’idea dell’intransigenza del pensatore comunista sardo. Che pagò le sue idee con la violenza del carcere fascista. Idee a volte così originali ed eterodosse, seppure nel solco del marxismo, che in Unione Sovietica gli sarebbero costate la vita.

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Su e giù

per il Transatlantico L’incontro tra Orlando e Nitti, Mussolini a Livorno e Gronchi a Torino. Pacciardi e la guerra di Spagna. Bilenchi, comunista con stile. Nenni e Giovanni XXIII. Battute e aneddoti dall’Almanacco dei ricordi di Leone Piccioni Un deputato comunista molto spiritoso e molto simpatico, l’on. Lajolo, un giorno chiese seriamente a Togliatti: «Perché quando eri in Russia hai firmato l’ordine di condanna a morte dei comunisti bulgari?». «Perché - rispose Togliatti - se non firmavo sarei stato ucciso». E Lajolo: «E se ci fosse stato Gramsci cosa avrebbe fatto?». «Si sarerbbe fatto ammazzare», concluse freddamente Togliatti. Quando Gronchi, presidente della Repubblica, andò a Torino per l’inaugurazione di una grande fiera internazionale, due cittadini conversavano tra loro in dialetto. «Quando è arrivato Gronchi - diceva uno - hanno sparato 21 colpi di cannone». E l’altro: «Non l’hanno colpito?». L’on. Randolfo Pacciardi, allora segretario del Partito repubblicano, che aveva valorosamente combattuto in Spagna contro il regime di Franco, alle invettive che riceveva dai comunisti rispondeva: «State zitti che in Spagna vi ho veduto scappare come lepri». Un ministro degli Esteri democristiano era in vacanza a Fregene con un nipotino prediletto. Si alzava presto, quando i familiari ancora dormivano, si infilava una camicia e un paio di calzoni corti, si metteva un qualsiasi cappello in testa, prendeva il nipotino e andava in bicicletta al mare. Giunto sulla spiaggia gli si precipitò incontro un signore tutto vestito di blu, con camicia e cravatta che gli si rivolse, quasi protestando: «Io l’ombrellone lo voglio vicino al mare». L’interpellato rispose: «Guardi che io non sono il bagnino, io sono il mini-

stro degli Esteri». L’altro fuggì quasi spaventato.

Romano Bilenchi era uscito dal Partito comunista dopo l’invasione dell’Ungheria. Più tardi però rientrò nel partito. Era a Roma, in clinica per una visita di controllo. Un giovane comunista entusiasta lo andava a trovare (del resto eravamo in tanti ad andarlo a visitare) ed era il periodo in cui si discuteva sull’atteggiamento che il Partito comunista avrebbe preso riguardo al governo se avesse avuto il 50 per cento dei voti. I più sostenevano che anche in una tale evenienza sarebbe stato necessario fare un blocco di governo con la Dc. Il giovane non era persuaso di questa coalizione: pensava che il Pci con il 50 per cento avrebbe dovuto andare da solo al governo. Chiese il parere a Bilenchi: «Se Berlinguer pigliasse il 50 per cento - rispondeva - io mi darei alla macchia». Ci fu a Firenze una famosa partita di calcio Inghilterra-Italia. Bilenchi dal settore stampa (era direttore del quotidiano fiorentino Nuovo Corriere) faceva un gran tifo per l’Inghilterra. Gli altri giornalisti protestavano e trovavano contraddittorio essere italiani e tifare per l’Inghilterra. «Non avete capito nulla - disse Bilenchi - io sono un comunista inglese». Lasciato il giornale e in un lungo momento di silenzio come scrittore Bilenchi era un po’ solo. In una intervista io gli chiesi come faceva ad andare avanti senza letteratura e senza giornalismo. Mi disse: «Lo sai come vado avanti? Mi innamoro».

COME SIAMO, COME ERAVAMO *****

er l’Italia il passato è un parente lontano e il futuro un’equazione. Viviamo alla giornata in un permanente equilibrio precario, privo di orizzonti stabili. A dirla tutta l’impressione è che non si sa bene cosa celebrare. Un secolo e mezzo dopo siamo sempre in bilico tra identità nazionale e radici locali, teoria degli insiemi e campanili. Sergio Romano e Marc Lazar con Michele Canonica in L’Italia disunita (Longanesi, 188 agine, 15,00 euro) compiono un viaggio che esplora la realtà quotidiana: sanità, pensioni, giustizia, pubblica amministrazione, trasporti, forze armate, moda e design. Ne viene fuori una fotografia sul rapporto degli italiani con il loro Paese e la loro memoria storica.

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A Carlo Emilio Gadda, notoriamente liberale e simpatizzante per la monarchia, raccontarono che uno scrittore come Angioletti, andando a visitare Padre Pio, aveva ascoltato che egli era del tutto contrario alla riforma agraria. «Questo me lo rende simpatico», disse Gadda. E aggiunse: «Quel nano di Fanfani che va distribuendo a destra e a sinistra terre non sue!». Quando si fece il governo di centrosinistra (Dc e socialisti), Pietro Nenni entrò al governo. Ebbe l’incarico una volta di rappresentare il governo andando a ricevere all’aeroporto Giovanni XXIII che tornava da un viaggio. Emilio Cecchi seguì l’avvenimento attraverso la televisione e poi mi disse: «Hai visto come Nenni guardava il Papa? Lo guardava come un gatto al quale avessero fatto vedere la trippa!».


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di Enrica Rosso alla sceneggiatura del film diretto nel 2003 da Theo Van Gogh - che ha pagato con la vita il suo desiderio di indagare i rapporti tra femminile e maschile - e riproposto nel 2007 da Steve Buscemi, sbarca a Roma adattato per il teatro in prima nazionale Intervista di Theodor Holman tradotto da Alessandra Griffoni. Incomincia improvvisamente, a sipario chiuso, una musica tenue in sottofondo (composta da Andrea Nicolini) e il protagonista in platea che telefona a voce alta, sorprendendo il pubblico non ancora assestato. Niente di più, nessun segno teatrale forte che dia il senso di un inizio - che so, un suono, un cambio di luce rispetto all’ingresso in sala. Si sbiadisce così il testo della telefonata che introduce però informazioni fondamentali per stabilire immediatamente il rapporto empatico che ci fa prendere posizione rispetto ai personaggi in scena. Arduo come dare inizio a una partita a scacchi senza aver prima diviso le pedine. Perché di questo si tratta in sintesi: una raffinatissima partita a scacchi tra un uomo e una donna, Peter, un importante giornalista politico e Katya giovane e affermata stella del firmamento televisivo. L’incontro a scopo intervista parte maluccio: lei si presenta con un’ora di ritardo; non solo, il governo sta per cadere e il prode reporter è costretto a perdere tempo dietro alle più belle tette del Paese. Ognuno mette in campo le sue armi più efficaci: lui il cinismo, lei la seduzione, oltre ai trucchi del rispettivo mestiere. Si annusano, si sfuggono, si divincolano, si lanciano famelici sui resti dell’altro, si divorano. Solo così possono dare sostanza al loro ruolo e passare incolumi, anzi fortificati dall’esperienza. Un’ora abbondante per scrutare a fondo l’anima di chi si ha di fronte - barando il più possibile - per rapirne la segreta essenza da offrire in pasto ai media in una scalata verso l’olimpo degli indimenticati. La scena, una grande piattaforma quadrata concepita da Francesco Mari, è la scacchiera, il ring, chi esce di scena perde il controllo del gioco e regala una

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Televisione

Teatro Maschio e femmina secondo Holman MobyDICK

spettacoli DVD

LE AVVENTURE ACQUATICHE DI LUC BESSON ungo il pericoloso crinale che separa Jacques Cousteau da La sirenetta, c’è il cinema documentario di Luc Besson, fiabesco intessitore di storie come quella di Atlantis. Poemetto in forma di ventiquattro fotogrammi, l’opera del regista francese inocula nel classico acquario in stile National Geographic il vivido veleno di un formalismo estremo, capace di abbinare la Sonnambula di Bellini alle manta-torpedini, e le vertigini sincopate della dance a un gruppo di foche. Ambizioni da cinéma pur, per un film ambizioso, non del tutto riuscito, ma certo affascinante.

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CONCERTI

A MAGGIO AD ASSAGO LA MARCHESINA DEL POP mossa all’avversario, complici la notte, la luce delle candele, i liquori, le droghe. Si scambiano punti di vista, come fossero risposte finalizzate a totalizzare il massimo del punteggio possibile, del tipo: gli uomini trovano irresistibile una donna in calze a rete e tacchi a spillo perché simbolicamente già nel ruolo della preda, sostiene Lei felina agitando il piedino irretito. «Cosa rende attraente un uomo?» rilancia Lui: «Una cicatrice, perché ogni donna nell’anima ne ha una», risponde Lei dopo avergli aperto la camicia che ne occultava una fenomenale. Un testo di grande ritmo il cui pregio maggiore risulta essere il perfetto equilibrio tra realtà e finzione. Graziano Piazza e Viola Graziosi ne sono gli interpreti, al debutto un po’ rigidi nella loro idea di personaggio ma

sicuramente strutturati per lasciarsi andare a una più libero flusso vitale. La regia, a nostro avviso eccessivamente mossa, è firmata dallo stesso Piazza. Presente in sala alla prima a raccogliere i calorosi applausi anche l’autore. A fine serata il regista dedica lo spettacolo al compianto Franco Quadri, recentemente scomparso, presenza incisiva e autorevole a cui dobbiamo l’istituzione del premio Ubu, il Patalogo, fondamentale memoria storica del teatro contemporaneo, l’ubulibri edizioni dedicata alla diffusione dei testi teatrali e tanto altro.

Intervista,Teatro Vascello fino al 10 aprile info: www.teatrovascello.it - tel.06 5881021

i saranno anche tre inediti nel nuovo album che segna il grande ritorno di Sade. Fissata per il 3 maggio, l’uscita di The Ultimate Collection ha il compito di rinsaldare le azioni dell’artista rilanciata dal trionfo di Soldier of love, due milioni e mezzo di copie vendute e tanto di opportuno Grammy lo scorso anno. Aria sofisticata, voce di straordinaria malleabilità, la dolce marchesina della musica scampata senza danni dal vortice degli Eighties, sarà presto in Italia. Unica tappa prevista per il nuovo tour europeo che parte da Nizza, il 6 maggio al Mediolanum Forum di Assago.

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di Francesco Lo Dico

Da Tokyo all’Aquila, i terremoti minuto per minuto periamo che duri questa trasmissione. Va in onda ogni domenica alle 23,35 su Rai 3, si chiama Cosmo. Utile per tutti coloro che vogliono capire, dopo il bombardamento dei notiziari e un certo parlottare, o litigare, nei talk-show. Si affrontano temi che riguardano il nostro presente. Per esempio i terremoti. Si fa il punto, con l’ausilio di tecnici e di scienziati, ma anche con le testimonianze dirette. La vena polemica non è nelle premesse - e per fortuna semmai è radicata in ciò che vediamo e sentiamo. La conduttrice è Barbara Serra, milanese di origine sardo-siciliana con lieve (ma gradevole) accento britannico. Ha avuto esperienze all’estero, soprattutto a Londra per Al Jazeera English. È l’unica italiana ad aver condotto il Tg in lingua inglese per i canali anglosassoni e internazionali. I terremoti, dicevamo. Cosmo, programma ideato tra gli altri da

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di Pier Mario Fasanotti Gregorio Paolini, Isabella Augias e Simonetta Martone, ovviamente ha indagato su ciò che è successo in Giappone. Una esperta nipponica, nota in tutto il mondo, ha mostrato una cartina allar-

mante: il suo Paese è in testa nella classifica di quelli a più alto rischio geologico. L’isola asiatica registra un forte sisma all’anno, ma ben 300 di modesta entità al giorno. Questo è dovuto alla formazione tettonica a placche, insomma a «zattere» di terra che sotto di noi

si muovono e provocano sconquassi. In California, altra zona predestinata, se ne verificano cento al giorno. E, smitizzando la superiorità tecnologica americana, apprendiamo che gli strumenti di rilevazione là non sono affatto sufficienti. I sismografi sono pochi. Noi italiani manchiamo di una rete informativa eccellente, ma monitoriamo meglio, sia pure con quei pochi soldi che il governo destina alla ricerca e alla prevenzione. Il Giappone ha costruito case in conformità, ma non è riuscito a «prevedere» il cataclisma. Cosa che è praticamente impossibile, a meno di dar retta a maghi e stregoni. La natura può e dev’essere conosciuta, ma non dà previsioni certe in quanto a tempo e luogo. Otto secondi prima del sisma la televisione di Tokyo ha interrotto le trasmissioni e ha lanciato l’allarme. Ci si chiede: in pochi secondi è possibile

salvarsi? In minima parte. È tuttavia possibile fermare i treni ad alta velocità, per esempio. Quel che c’è di buono è che in Giappone, proprio per il pericolo costante di terremoti, la popolazione è costantemente informata (anche sui cellulari). In Italia, come ha rimarcato una rappresentante della Protezione Civile, è carente la consapevolezza di abitare in zone a rischio sismico. All’Aquila la popolazione è stata «rassicurata». Poi sappiamo che cosa è successo. Cosmo ha fatto riprese nel centro della città: qualcosa di spettrale, simile a sequenze di film apocalittici, con cani randagi nelle strade e cornicioni in bilico. Propaganda a parte (brutto l’episodio della falsa testimone aquilana nel programma Forum di Rita Dalla Chiesa, che sarebbe stata pagata per «ringraziare il governo»), quel che vediamo all’Aquila, ma anche a Napoli inondata dai rifiuti, dimostra che noi ce la mettiamo tutta, come scienziati e ricercatori, ma siamo drammaticamente dilettanti nell’amministrare un Paese.


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poesia

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Il blob ante litteram di T.S. Eliot orse più di ogni altro componimento la celebre Terra desolata (1922) ci immette nel cuore esausto, smarrito, intertestuale - della poesia novecentesca. Scritto nella forma del pastiche e della serie di frammenti, ci presenta una serie di immagini tra loro slegate, come balenanti in un dormiveglia, tutte impregnate di letteratura, e come se fossero viste per l’ultima volta. Eliot percepisce se stesso alla fine di un’intera civiltà e sembra volerne celebrare, in modo luttuoso e insieme beffardo, le rovine. A differenza del sodale e mentore Pound (che pure fece un editing impietoso alla Terra desolata), è sempre ironico, scapigliato, perfino nel tono solenne. La sua disperazione ha qualcosa di ludico. Eliot si sente come Dante, poeta metafisico di un’epoca di crisi e alla ricerca di un’autorità morale cui appigliarsi (sia-

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di Filippo La Porta mo ancora lontani dalla conversione all’anglicanesimo del 1927). A Dante, cui è debitore anche per la teoria del «correlativo oggettivo», del tradursi dell’emozione in un’immagine concreta da tutti fruibile (ad esempio nel primo verso i lillà come correlativo del passato antico e dei riti magici di fertilità), dedica più di un omaggio (si veda l’epiteto per Pound «miglior fabbro» o il calco di un verso dell’Inferno: «così tanta,/ Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta»), però è un Dante incline a trattare ogni cosa come un materiale da manipolare, ben consapevole della propria stessa aridità. L’intera cultura è sbriciolata in frammenti, in schegge da riusare dentro nuovi scenari di cartapesta.

LA TERRA DESOLATA Aprile è il più crudele dei mesi, genera Lillà da terra morta, confondendo Memoria e desiderio, risvegliando Le radici sopite con la pioggia della primavera. L’inverno ci mantenne al caldo, ottuse Con immemore neve la terra, nutrì Con secchi tuberi una vita misera. L’estate ci sorprese, giungendo sullo Starnbergersee Con uno scroscio di pioggia: noi ci fermammo sotto il colonnato, E proseguimmo alla luce del sole, nel Hofgarten, E bevemmo caffè, e parlammo un’ora intera. Bin gar keine Russin, stamm’ aus Litauen, echt deutsch. E quando eravamo bambini stavamo presso l’arciduca, Mio cugino, che mi condusse in slitta, E ne fui spaventata. Mi disse, Marie, Marie, tieniti forte. E ci lanciammo giù. Fra le montagne, là ci si sente liberi. Per la gran parte della notte leggo, d’inverno vado nel sud. (…) Città irreale, Sotto la nebbia bruna di un’alba d’inverno, Una gran folla fluiva sopra il London Bridge, così tanta, Ch’io non avrei mai creduto che morte tanta n’avesse disfatta. Sospiri, brevi e infrequenti, se ne esalavano, E ognuno procedeva con gli occhi fissi ai piedi. Affluivano Su per il colle e giù per la King William Street, Fino a dove Saint Mary Woolnoth segnava le ore Con morto suono sull’ultimo tocco delle nove. Là vidi uno che conoscevo, e lo fermai, gridando: «Stetson! Tu che eri con me, sulle navi a Milazzo! Quel cadavere che l’anno scorso piantasti nel giardino, Ha cominciato a germogliare? Fiorirà quest’anno? Oppure il gelo improvviso ne ha danneggiato l’aiola? Oh, tieni il Cane a distanza, che è amico dell’uomo, Se non vuoi che con l’unghie, di nuovo, lo metta allo scoperto! Tu, hypocrite lecteur! - mon semblable, - mon frère! Thomas Stearn Eliot

P r e n d e t e l ’ e s i l a r a n te , e a volte estenuato, Frammento di un agone (da Aristofane): «Nascita e copula e morte. Tutto è qui, tutto è qui, tutto è qui./ Nascita e copula e morte». E più in là «Sotto il Bambù/ bambù bambù/ Sotto il bambù in fior/ Due vivon come un/ Vive un come due/ Vivon due come tre/ Sotto quel bam/ Sotto quel bu/ Sotto quel bambù in fior». Mario Praz parla giustamente di «forme grottesce da musichall», il genere di teatro-rivista o varietà molto popolare in Inghilterra tra Ottocento e Novecento (Eliot ha scritto anche drammi teatrali). Ricordo solo come il padre di Paul McCartney fosse un pianista di musichall a Liverpool, molto influenzando il figlioletto. Il coltissimo, raffinatissimo Eliot era peraltro attratto dalla cultura di massa, dal cinema e dalle sue icone: si pensi solo al carteggio con Groucho Marx, cui regalò una foto. Non sarà un caso che da un’opera eliotiana si sia ricavato un musical di successo (Cats), mentre la prefazione a un libro-intervista uscito in Italia sia stata firmata da Panella, paroliere estroso dell’ultimo Battisti. Probabilmente il lettore di oggi, di un mondo caratterizzato

dalla frammentazione, dal citazionismo, da un continuo blob visivo e verbale, accostandosi a Eliot non avrebbe quello choc che provai leggendolo negli anni dell’università. La sua tecnica del montaggio e del collage ha avuto una «gran folla» di imitatori, spesso mediocri. Accanto alle avanguardie degli anni Venti è stato lui l’inventore principale della contaminazione, parola-chiave e feticcio dell’arte postmoderna. Proprio in virtù di questa contaminazione la sua non è mai una «poesia pura» alla Mallarmé, non aspira all’ineffabile, né espelle l’elemento razionale dall’atto poetico (come osservò Montale, a lui spesso accostato). Sbaglieremmo altresì a ritenere - in modo dogmatico - che la metropoli moderna, da quel momento, non possa che esprimersi nella forma del collage e dell’ironia modernista. Fortunatamente la poesia, al contrario della scienza, non segue una evoluzione lineare. Vorrei solo ricordare che otto anni prima, nel 1914, esce in Italia Pianissimo del più appartato, «provinciale», Camillo Sbarbaro, dove il territorio desolato della città moderna (e l’ascendente è Baudelaire) viene cantato in un monologo spoglio e dimesso, senza esplicite risonanze culturali: «Invece camminiamo,/ camminiamo io e te come sonnambuli./ E gli alberi son alberi, le case/ son case, le donne/ che passano son donne, e tutto è quello/ che è, soltanto quel che è/ (…)/ Nel deserto/ io guardo con asciutti occhi me stesso».

E poi la stessa Terra desolata può ridursi a una mera e libresca giustapposizione di citazioni. I suoi versi, e anzi il suo recitativo trema di «ricordo e desiderio», di una malinconia invernale, di un’apprensione che a volte si scioglie in gioia liberatoria: «E giù scivolammo./ Sulle montagne ci si sente liberi». Dopo la lenta acquisizione della fede cristiana Eliot pubblicò i Quattro quartetti (1943), da lui giudicati più accessibili, senza quella oscurità legata al fatto di voler dire più di quanto si sa dire. Nel secondo, East cocker, meditazione in forma lirica sulla caducità e la sopravvivenza (il titolo è il nome di un paese inglese dove visse l’antenato del poeta che poi emigrò negli Usa) leggiamo. «O buio, buio, buio. Tutti vanno nel buio,/ Nei vuoti spazi intrastellari, il vuoto va nel vuoto,/ I capitani, gli uomini d’affari, gli eminenti letterati,/ I generosi patroni dell’arte, gli uomini di stato e i/ governanti,/ (…)/ E bui il Sole e la Luna, e l’Almanacco di Gotha/ E la Gazzetta della Borsa, l’Annuario delle Società/ anonime,/ E freddo il senso e perduto il motivo dell’azione,/ E tutti noi andiamo con loro, nel funerale silenzioso». Bisognava scendere nell’oscurità, e poi attendere senza speranza, per poter ritrovare l’amore e la fede, lì dove avviene misticamente una «unione più completa» e dove «nella mia fine è il mio principio».

GLI ALTRI E IL BATTER D’ALI DI UNA FARFALLA in libreria

di Loretto Rafanelli

un’artista poliedrica Loredana Pra Baldi, che spazia tra la poesia, il teatro, la musica, il canto e lo studio della lingua ladina, della cui comunità fa parte. Tuttavia a differenza di altri che mossi da vari interessi patiscono un processo centrifugo e atomizzato che porta a risultati scadenti o addirittura a disperdere l’impegno creativo, la Pra Baldi, trova nel dire poetico quella rete che fa amalgamare e impreziosire il tutto. E in questa dimensione la voce diviene la fonte e il terminale della sua azione. La poesia dell’autrice (Cuore e dintorni, Ellerani editore), rimanda a una oralità che batte il palpito delle giornate e pare proprio di scorgere quella voce intensa che diviene canto (lei è can-

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tante di valore e concertista). La poesia della Pra Baldi ha in sé un grumo di delicatezza («Fa che questo incontro/ sia tiepido come l’estate/ … al profumo di rosmarino/ senza rugiada…») e di forza («Hanno murato di grigio il giardino/ divisa la mente, zittita la voce/ volevano fosse separato anche il cuore»), di semplicità e di una passione che si fa dono. Dono perché pare proprio che per l’autrice la poesia sia una disposizione a porgere, o meglio: a capire, creare e rimettere le emozioni di una vita di relazioni, di amori intimi e universali, agli altri. Disposizione a svelarsi e a consegnarsi a una comunità umana e a chi, soprattutto, ama il sapore di quel «batter d’ali di una farfalla», che è la poesia.


ai confini della realtà I misteri dell’universo

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frodite è una delle divinità del pantheon greco, poi collegato e identificato con quello latino.Appare come la dea dell’amore e della bellezza, anche se certo altre dee erano ben disposte all’amore (con l’eccezione della vergine Atena nata dalla testa di Giove e di Diana cacciatrice, pronta a far fare una cattiva fine a chi tentasse di possederla), anche per ricambiare le frequenti infedeltà dei loro consorti (vedasi Giunone e Giove). Gli dei del panthon greco sono protagonisti in particolare nella guerra di Troia, dove Atena prende le parti degli Achei e Giunone quella dei Troiani. Le loro relazioni con gli eroi dell’epica sono precise e personali, in particolare quella fra Atena e Ulisse, e quella fra Paride e le tre dee di cui deve giudicare la bellezza in un famoso contesto: Giunone, Atena e Afrodite si sottopongono nude al suo esperto occhio di maschio bellissimo e conquistatore di femmine, anche se sposate come Elena moglie di Menelao (Düspari, eidos ariste, gümaimanes, eperopeuta... lo accuserà Ettore in un canto dell’Iliade che imparai a memoria, così si faceva ai miei tempi di liceo classico). E Paride sceglie fra le tre Afrodite. In una delle straordinarie monografie che caratterizzano la produzione scientifica del grande studioso Alfred De Grazia, che riorientò le proprie ricerche dallo studio quantitativo della politica all’analisi delle discontinuità planetari e umane nel passato, influenzato dal libro Oedipus and Akhnaton di Velikovsky, si afferma che Afrodite non è da identificarsi come usualmente si fa con il pianeta Venere, bensì con la Luna.

MobyDICK

A

Qui ricordiamo che le divinità del pantheon greco hanno sia una caratterizzazione antropomorfa, e generalmente non sono immortali anche se dotate di una vita assai più lunga della nostra e di grande capacità di recupero da ferite, sia anche una planetare. Ricordiamo l’associazione fra Zeus e il pianeta Giove, fra Efesto e Mercurio, fra Ares e Marte. Atena e Afrodite sono associate generalmente a Venere, pur essendo due dee distinte, per un motivo astronomico. Il pianeta Venere è l’astro più luminoso nel cielo, con un diametro di un primo. È visibile come un cerchietto in condizioni speciali, da me sperimentate all’osservatorio dei sud Balcani, a 2000 metri di altezza sui monti Rodopi, in una gelida notte di febbraio dal cielo limpidissimo. Ebbene il pianeta Venere, essendo molto più vicino di noi al sole, è vi-

La Luna…

ovvero Afrodite nata dalle spume di Emilio Spedicato sibile solo per alcune ore o prima del sorgere del sole o dopo il suo tramonto. Sembra che solo in tempi ellenistici gli astronomi greci (o indiani, le cui conoscenze arrivavano alla Grecia via l’Egit-

dee planetari Atena e Afrodite era spiegata da due miti diversi.Atena era dichiarata nata dalla testa di Giove, per partenogenesi. Era quindi senza madre, era una guerriera, ed era vergine. Afrodite

Secondo lo studioso Alfred De Grazia, la dea della Bellezza, al cui mito è stato associato il pianeta Venere, va invece identificata col satellite che orbita intorno alla Terra. Un’idea che si appoggia su una vasta documentazione interdisciplinare e che si accorda con alcuni scenari di dinamica celeste risalenti al 9450 a.C. to) abbiano scoperto che la stella del mattino e la stella della sera sono lo stesso pianeta, che ora chiamiamo Venere. Quindi in tempi precedenti i due oggetti erano considerati distinti e associati a due divinità diverse. L’origine delle due

era nata invece dalla «spuma del mare», e ricordiamo anche che la città di Erice, posta sulla cima di un monte a circa 800 metri di altezza nella Sicilia orientale, era in qualche modo associata alla sua nascita. È anche stato notato che il nome di

Afrodite non è greco ma orientale. Nella monografia The love affairs of Ares and Aphrodites, De Grazia, con la sua usuale originalità di pensiero appoggiata a vasta documentazione interdisciplinare, sostiene, sulla base di una analisi della storia omerica di Ares che seduce Afrodite (o ne è sedotto?), moglie ufficiale del claudicante Ermes, che Afrodite non sia associabile al pianeta Venere bensì alla Luna. Chi voglia approfondire può accedere alla Encyclopedia of Quantavolution o al sito di De Grazia che ha oltre tre milioni di visite all’anno. L’idea di De Grazia si accorda pienamente con lo scenario che abbiamo proposto in varie pubblicazioni in merito all’origine della Luna per cattura da un pianeta che sarebbe passato vicino alla Terra verso il 9450 a.C., terminando velocemente l’ultima glaciazione. Marte-Ares va considerato come il precedente satellite della Terra, perduto al momento dell’acquisto della Luna. Usando un enigmatico passo di Censorino doveva trovarsi su una orbita più lontana (circa un milione di km dalla terra).

Per ragioni di dinamica celeste, sarebbe ripassato periodicamente vicino alla terra e al suo nuovo satellite acquisito. Il pianeta che perse il satellite, nel passare vicino alla Terra avrebbe provocato la fratturazione del fondo oceanico, l’emersione di immense quantità di magma con conseguenti pioggie praticamente su tutto il nostro pianeta. Dalla cima di montagne vicino al mare - quindi possibilmente anche da Erice - si sarebbero visti uscire dal mare i vapori prodotti dal magma, le spume associate alla nascita da Afrodite. La Terra sarebbe stata avvolta da una calotta di vapori. Al loro dissolversi nel cielo sarebbe apparsa la Luna, ovvero l’Afrodite nata dalle spume. E volendo possiamo vedere nel nome Afrodite radici veramente orientali: Afro da Afar, polvere, spuma come polvere di acqua, termine accadico; Di = Blu, termine zhangzhung; Te,Ta = grande, termine cinese. Quindi Afrodite = dalle spume del grande blu...


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

L’album dei parlamentari... con maglia interscambiabile LAICI E CATTOLICI: LE RAGIONI DI UN INCONTRO (I PARTE) Sono convinto che il futuro Nuovo Polo, quando si costituirà, dovrà per forza nascere dall’apporto congiunto di cattolici e laici. Ogni tentativo inteso a riproporre l’unità politica dei cattolici sarebbe verosimilmente destinato a un esito minoritario, se non altro perché larghi settori del mondo cattolico professano una cultura permeata di statalismo, e dunque più vicina a quella del postcomunimo. Non si può, tuttavia, negare, in vista del nuovo partito, la forza e l’attualità della dottrina sociale della Chiesa. Il significato etico e politico dell’insegnamento che ebbe inizio con la Rerum novarum di Leone XIII e che è proseguito fino ai pontefici più recenti può ora (da quando sono tramontati i miti del collettivismo e della lotta di classe) essere capito e forse condiviso anche al di fuori degli ambienti cattolici. Il lavoro è – così affermano le varie encicliche – l’estrinsecazione della personalità morale dell’uomo e da questa esso deriva la sua dignità. Ma la chiave di volta del pensiero sociale della Chiesa consiste nel principio di sussidiarietà, quale fu proclamato in maniera chiara nel 1931 dalla Quadragesimo anno di Pio XI. Il principio asserisce la funzione «suppletiva» (cioè di “supporto”, ovvero di “supplemento”) dello Stato nei confronti degli individui e della società, ed è l’antitesi più netta dello statalismo: «è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità»; parimenti «è ingiusto rimettere a una più alta e maggiore società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare». È questo un notevole passo avanti rispetto al liberalismo più tradizionale. Bene fanno, dunque, quei cattolici che non custodiscono i loro principi nel segreto delle coscienze o nell’ambito ristretto dell’accademia, ma sono disposti a “spenderli” nell’arena politica, traendone le conseguenze operative che ne possono derivare. Ma è pur vero che alla stessa meta, allo stesso punto di incontro, si può giungere anche seguendo percorsi differenti. Il fatto che lo Stato debba svolgere un’azione che è essenzialmente di supporto, e non debba dirigere le attività, e ancor meno le coscienze, è un principio che può essere affermato anche all’esterno della cultura cattolica. Luigi Neri C I R C O L I LI B E R A L FA E N Z A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

LE VERITÀ NASCOSTE

Ho letto che, in occasione dei 150 anni dell’Unità d’Italia e contestualmente dei 50 anni delle figurine Panini, è stato presentato il nuovo album con cui il mondo delle figurine vuole partecipare all’educazione civica delle giovani generazioni italiane. La raccolta consiste nelle figurine dei parlamentari italiani, ma avrà una speciale caratteristica per meglio aiutare i collezionisti a comprendere la situazione del momento. I parlamentari infatti, come nelle squadre di calcio, indosseranno una casacca per identificarne il partito. Però nella raccolta saranno fornite anche figurine “fratini”, cioè le sole maglie senza parlamentare, in modo che siano applicabili sopra le maglie delle figurine originali per consentire ai collezionisti di seguire i consueti cambiamenti di gruppo. A fine legislatura verrà consegnato un premio a chi avrà completato l’album riuscendo a terminare la collezione con la maglia giusta per ogni parlamentare. Il premio consisterà in speciali figurine da collezione con le istantanee dei momenti più salienti e controversi della legislatura, quali gli episodi di scontri e gesti simili. Non vi pare una notizia divertente, oltre che molto adatta ai tempi?

Sandrina Di Meo

UN FISCO GIUSTO PER LE FAMIGLIE L’attuale sistema fiscale è iniquo verso le famiglie che hanno dei figli, con il risultato che in Italia nascono sempre meno bambini. Modificare il sistema fiscale, come è già stato fatto in molti Paesi europei, è una questione di giustizia ed equità. Dopo anni di promesse disattese, le famiglie si sono rimboccate le maniche, hanno preso l’iniziativa ed hanno trovato una soluzione che supera anche le controindicazione del sistema del Quoziente familiare. Ora attendiamo dallo Stato una risposta, che avrà un’indubbia rilevanza economica, ma che assume anche una forte valenza politica e valoriale.

Francesco Belletti

PREVENZIONE E VACCINI Proponiamo a delle ragazze giovani un nuovo vaccino protettivo contro l’Hpv, virus che causa il tumore del collo dell’utero, ma lo facciamo male partendo dall’inizio. Innanzitutto bisogna ricordare che vengono coinvolte intere famiglie dove madre e padre devono intervenire aiutando le proprie figlie in una scelta che, a dodici anni, è difficile da fare. Trovandoci di fronte ad una decisione così importante che ci dovrebbe proteggere da una malattia grave dovremmo essere messi nelle condizioni di poterlo fare tutti ugualmente. I vaccini disponibili sono due. Uno pro-

tegge da quattro ceppi di papillomavirus e l’altro da due. Il primo ci tutela anche rispetto ai condilomi, un’altra patologia più lieve causata dal papillomavirus. Le statistiche ci dicono che in Italia esattamente la metà delle regioni utilizza il vaccino bivalente e l’altra metà il quadrivalente senza motivare la scelta. Ora mi chiedo: come si può pensare di fare prevenzione se non si parte dal concetto di uniformità e si protegge qualche volta in un modo e qualche volta in un altro “l’utente”? A maggior ragione se si tratta di un’adolescente.

Alessandro Bovicelli

I PERICOLI DELLA SOLIDARIETÀ I pericoli della solidarietà è il titolo d’un libello dell’economista Sergio Ricossa. Molte fra le nostre privilegiate autorità esortano alla “solidarietà”, che è termine nobile, ma può essere svilito e strumentalizzato dall’uso eccessivo. L’utilizzo straripante della parola magica “solidarietà” comporta rischi. Può creare illusioni e aspettative esagerate (poi smentite dalla dura realtà). Può favorire pigrizia, dipendenza e parassitismo, ossia pretesa di campare a carico altrui. «Nessun pasto è gratis», ammonisce Milton Friedman, premio Nobel per l’economia. La solidarietà costa molto e qualcuno deve pagarla: i lavoratori, i sobri, le formichine risparmiatrici. L’Italia sbaglia nel donare dosi di si-

L’IMMAGINE

L’orso bianco che morì di tristezza BERLINO. L’orso polare più famoso del mondo, il piccolo Knut, è morto per cause ancora non accertate il 19 marzo scorso allo zoo di Berlino. Era nato nello stesso zoo nel dicembre 2006 ma, rifiutato dalla mamma, fu affidato alle cure del custode Thomas Dörfen diventando una vera e propria star mondiale, tanto che lo zoo ha dovuto organizzare delle vere e proprie apparizioni pubbliche per permettere ai visitatori, sempre più numerosi, di ammirarlo dal vivo. L’immagine e l’avventura di Knut sono state oggetto di numerose campagne sociali ma anche di svariate operazione di marketing. Col passare dei mesi, il giovane orso polare si è trasformato da piccolo batuffolo a grosso esemplare di oltre 130 chili: lo zoo ha dovuto limitare le sue apparizioni in pubblico e confinarlo in un recinto. La reclusione e la scomparsa improvvisa nel 2008 del suo custode e compagno di giochi hanno influito pesantemente sullo stato d’animo del giovane orso. Sono in molti - soprattutto tra gli animalisti - a credere che siano state determinanti nella sua prematura scomparsa.

garette - nocive - a immigrati clandestini e altri. Questi dimostrano di non aver fame, se gettano il cibo ricevuto in dono.

Gianfranco Nìbale

AUTONOMIA ENERGETICA È necessario un ripensamento complessivo delle nostre politiche energetiche, senza il quale non vi può essere una virata decisa verso un modello economico sostenibile per i territori. E ciascuno deve puntare all’autonomia energetica, perché questo darebbe nuovo impulso all’intero sistema. Solo alimentando il motore della ricerca e dell’innovazione, sfruttando fino in fondo le nostre enormi potenzialità, possiamo garantire a noi stessi e alle prossime generazioni un futuro diverso.

Ellezeta

BIPOLARISMO = DANNI E INSTABILITÀ Sono sempe sempre più convinto della grande opportunità che il Nuovo Polo per l’Italia offre agli italiani per potersi affrancare da un bipolarismo che ha prodotto danni e provocato instabilità del nostro sistema democratico.

Ruggero Santi

UNA CITTÀ, UN PAESE MIGLIORE

Pulcini coraggiosi crescono Saranno stati i morsi della fame o l’inesperienza dovuta alla giovane età, fatto sta che questi giovani esemplari di egretta hanno trovato un metodo ingegnoso - anche se un po’ rischioso - per procurarsi la colazione. Incuranti del pericolo di finire schiacciati sotto a una delle zampe del pachiderma che li precede, ne hanno seguito le orme per nutrirsi degli insetti sollevati dall’impatto del suo peso sul terreno

Il tempo non cambia le cose, queste si possono cambiare solo con l’azione di ognuno di noi, di tutti noi, col coraggio delle nostre idee, con la voglia di contribuire alla crescita della propria comunità. Convinti di essere sempre e non solo all’occorrenza una risorsa per l’intera società, in modo tale da trasmettere alle nostre e alle prossime generazioni motivi per sperare. Solo così diventeremo e ci ricorderanno come la generazione del coraggio, del riscatto, come la gioventù attiva che con fatica e passione si è riappropriata del proprio futuro e ha dipinto un paese, una città, una nazione migliore.

Ignazio Lovero


la crisi libica

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Si moltiplicano incognite e indecisioni: tutto a vantaggio di Gheddafi

Il vero conflitto? È tra gli staff Sono gli sherpa delle cancellerie i protagonisti di una guerra che rischia di finire male di Antonio Picasso oltre un mese dall’inizio della rivolta, è difficile classificare lo scontro in Libia. Le tattiche di posizionamento si alternano ad avanzate in stile blitzkrieg. La conformazione territoriale facilita questo scenario. Tra le forze lealiste a Gheddafi e i ribelli non ci sono montagne o altri ostacoli naturali. Questo attribuisce dinamicità al conflitto. Ecco perché una città cade nelle mani di uno dei due schieramenti e il giorno dopo torna sotto il controllo di quello che si è ritirato. Il caso di Ajdabiya è esemplare. La Cirenaica è tornata sotto il tiro dei cannoni di Gheddafi. La memoria militare torna all’assedio di Tobruk nel 1942, quando gli Alleati respinsero definitivamente l’Afrika Korp. Il paragone, però, per quanto evocativo possa essere, non rispecchia a pie-

A

era dimostrato smembrato e debole. Ministri dimissionari di Gheddafi avevano fatto a gara con generali disertori per acquisire la guida degli insorti. Risultato: molta confusione e nessun interlocutore affidabile per i governi occidentali. L’ascesa, all’interno del Comitato, di Mahmoud Jibril ha risolto solo parzialmente il problema. Jibril, infatti, è un ex uomo del regime. Il suo passato è scandito più da un’attività di lobbying sul mercato internazionale del petrolio, invece che quella politica. Le sue conoscenze in Gran Bretagna e negli Stati Uniti – oltre che la stima acquisita in Francia – costituiscono una buona garanzia sul fatto che possa essere lui il sostituto di Gheddafi. Non si sa bene in che veste, però. Al momento Jibril è primo ministro del governo provvisorio. Ciononostante, te-

Francia e Stati Uniti, ai quali si dava per scontata la vittoria, sembrano adesso in affanno. Sarkozy è tornato dalla visita ufficiale a Pechino con un atteggiamento molto più moderato no le coincidenze tra i fatti di allora e quelli odierni. Bisogna partire da un presupposto: il fronte libico non è costituito da trincee o cavalli di Frisia. Anzi, si tratta di uno scontro alla luce del sole, dove i ripari dai bombardamenti come pure dai raid risultano inesistenti. Del resto, non si può parlare nemmeno di guerriglia a tutti gli effetti, oppure di guerra civile. La prima è stata esclusa con l’intervento straniero della Nato. La seconda, invece, ha bisogno ancora di una prosecuzione temporale più ampia affinché possa assumerne la piena identità.

I tratti fluidi dei combattimenti, vengono ripresi nel contesto politico. I ribelli, fino a dieci giorni fa, non avevano un leader. Il comitato di Bengasi si

nuto conto della discontinuità dei combattimenti, questo incarico potrebbe non aver alcun valore già la prossima settimana. Come, al tempo stesso, potrebbe rappresentare il valido trampolino di lancio per la ricostruzione dello Stato.

Dall’altra parte della barricata, questa nuova ondata di defezioni potrebbe far pensare a un Gheddafi sulla via della resa. L’arrivo a Londra del suo ex ministro degli esteri, Moussa Koussa, e di Mohamed Ismail, assistente di Saif-al-Islam Gheddafi, è indice in tal senso. “Chi sarà il prossimo?” si chiedeva ieri il Guardian, a seguito delle dichiarazioni del capo della diplomazia britannica, William Hague. «Moussa Koussa non è caduto nelle mani dei

Mentre i ribelli si dicono pronti a una tregua, Berlino chiede una soluzione politica

Il raìs tiene sul campo, il regime perde altri pezzi Fedelissimi e figli del Colonnello trattano con gli Usa Continua il “tira e molla” dal fronte, civili morti in un raid di Pierre Chiartano

ROMA. Mentre sul terreno i fedeli del colonnello avanzano, dalle retrovie i fedelissimi del rais si danno alla fuga. Così gli avvocati di un famoso studio newyorkese trattano le condizioni di resa con alcuni dei figli di Gheddafi e Mussa Kussa detto il signor «Spia», ma anche ministro degli Esteri del colonnello, mentre continua l’assedio di Misurata. Ieri la città costiera è stata sottoposta a un intenso bombardamento d’artiglieria. Secondo fonti ribelli, i militari fedeli a Gheddafi avrebbero saccheggiato il centro cittadino, sparando sui civili. L’ultimo avamposto degli oppositori al regime in Tripolitania, è il paradigma di questa strana guerra. Un misto di entusiasmo, voglia di combattere per liberarsi dal giogo del dittatore, e di una scarsa dimestichezza con le regole base dell’arte della guerra. La Nato le armi ai ribelli non vorrebbe darle e neanche il premier turco Recep Erdogan. È gente poco addestrata. E poi come essere sicuri che una parte di questo equipaggiamento non finisca in mani pericolose? Dare una disciplina alle formazioni bengasine non è una questione di giorni e neanche di settimane. Anche se qualche segnale positivo dal fronte sta arrivando. I ribelli libici stanno infatti spostando razzi e altre attrezzature verso Brega, nel tentativo di recuperare il controllo sulla città e

avere la meglio sui lealisti. A un checkpoint alla periferia di Ajdabiyah, città strategica orientale, i ribelli hanno impedito ai libici disarmati di unirsi alla battaglia che si sta spostando verso Brega, dove ieri si sono scontrati con le truppe di Gheddafi. Ricordiamo che ad Ajdabiyah operano anche i paracadutisti del generale Yunis, le uniche unità veramente addestrate delle formazioni bengasine. I bengasini sostengono che nessuna delle due parti possa rivendicare il controllo di Brega, una delle città petrolifere lungo la costa che sono state prese e riprese diverse volte nelle ultime settimana.

I ribelli, anche aiutati dai raid aerei occidentali, non sono riusciti ad avere la meglio. Ma le missioni aeree non sono ancora di «appoggio» alle operazioni di terra. E finché non ci saranno “consiglieri” sul campo, in grado di creare il coordinamento tra terra e aria, ben poco si potrà fare. Anche sul piano delle semplici informazioni dobbiamo accontentarci di interlocutori occasionali. Tra questi anche Khaled alFarjani, capitano dell’aviazione libica ora passato con i ribelli: «alcuni militari sono venuti e hanno rinforzato le linee dei ribelli. A Dio piacendo, inizieranno con Ajdabiyah per andare a Brega e Ras Lanuf». Ma che qualcosa non fun-


la crisi libica ribelli. Si è presentato spontaneamente alle autorità del nostro governo. Questo ci induce a sospettare che le forze del rais siano prossime a crollare», dichiarava appunto il responsabile di White House. Sarà vero? Allo scoppio degli scontri, si era certi che Gheddafi sarebbe caduto in tempi brevi. Motivo: la mancanza di appoggio delle tribù nel sud del Paese.

La tesi, tuttavia, è stata confutata dalla realtà, la quale ha messo in evidenza due risorse che gli analisti non avevano calcolato. Da una parte, le continue risorse economiche nelle mani del rais. Il congelamento dei conti di cui la famiglia Gheddafi è titolare non le hanno impedito di dar fuoco alle polveri. A questo proposito, si può immaginare una riserva finanziaria tanto estesa che, nel caso Gheddafi scegliesse infine la via di fuga, sarebbe in grado di sopravvivere e quindi tornare a essere quel personaggio scomodo per l’Occidente come lo è stato negli anni Ottanta. Sul piano operativo, c’è da aggiungere il contributo dei mercenari africani. Al soldo del colonnello, questi si stanno dimostrando ben più preparati dei zioni ancora è dimostrato dalla disponibilità mostrata ieri per un cessate-il-fuoco. Purché siano rispettate alcune condizioni. Ad annunciarlo è stato Mustafa Abdel Jalil, presidente del Consiglio nazionale transitorio che governa le aree liberate della Cirenaica. «Non abbiamo alcuna obiezione rispetto a un cessate-il-fuoco», ha dichiarato Jalil, durante la conferenza stampa tenuta a Bengasi, ieri insieme all’inviato speciale delle Nazioni Unite, l’ex ministro

ti, ma hanno spesso dato voce alla frustrazione per la mancanza di disciplina o di coordinamento al fronte. Ieri ci sono stati dei primi segnali di un approccio più ordinato. I ribelli hanno spiegato che uomini più addestrati sono al fronte, razzi più pesanti sono stati spostati verso Ajdabiyah nella nottata di ieri e un posto di blocco verifica chi può passare. Insomma niente più civili disarmati che vagano lungo la linea del fronte. È già qualcosa.

Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno parlato della possibilità di armare i ribelli. Ma le condizioni dovrebbero essere due: certezza della destinazione delle armi; presenza di consiglieri e addestratori. Sono anche circolate voci sulla firma da parte del presidente Usa Barack Obama di un ordine segreto che autorizza operazioni clandestine. Alla faccia della segretezza. E il fatto che quella libica sia una guerra proprio strana, è dimostrato anche dalla confusione che regna nelle informazioni dal campo. Dove molti ribelli sperano che la presenza di «operativi occidentali» sia reale, tra questi è curiosa la risposta di tale Zaitoun citato da un’agenzia stampa internazionale: «sarebbero una guida utile per noi. Ho sentito molte cose, ma non ho visto ancora niente». E che la soluzione del problema Libia non sia militare, cominciano a sospettarlo in molti. Tra loro anche Berlino. Il ministro degli Esteri tedesco, Guido Westerwelle, durante una visita a Pechino ha infatti dichiarato che «la situazione in Libia non può essere risolta con mezzi militari». Anche perché ieri, secondo la Bbc si sarebbero contati i primi civili morti, durante un raid aero nei pressi di Brega.

Non c’è ancora accordo tra gli alleati sulle armi ai ribelli. Il premier turco Recep Erdogan è contrario. Barack Obama tentenna, mentre circolano voci su operazioni clandestine della Cia degli Esteri giordano Abdelilah al-Khatib. «A condizione però», ha proseguito, «che nelle città della parte occidentale del Paese i cittadini libici godano di piena libertà di espressione». E Ras Lanuf e Es Sider sono ora sotto il controllo dell’esercito di Gheddafi, che ha usato razzi ed altre armi pesanti per fermare i ribelli. I membri del movimento di opposizione che cercano la fine del potere 40ennale del rais hanno lodato l’entusiasmo dei loro combatten-

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ria, sembrano adesso in affanno. Sarkozy è tornato dalla visita ufficiale in Cina con un atteggiamento molto più moderato rispetto alla aggressività che lo aveva spinto nella sua campagna militare. Non è chiaro se questo sia dovuto alla batosta elettorale di domenica scorsa, oppure al summit con Hu Jintao. Washington, ancora una volta, è attraversata da incomprensioni intergovernative. Obama tutto avrebbe voluto fuorché passare come un presidente di guerra. Nel messaggio di lunedì lo ha ribadito. Ma si tratta ormai di una posizione insostenibile.Tanto più se, oltre ai Tomhawks e agli F16, la difesa Usa ha deciso di impegnare agenti della Cia direttamente nel Paese nordafricano. Per la missione umanitaria in corso, il Pentagono ha definito un extra budget di 500 milioni di dollari.

Difficile che il contribuente americano possa accettare la prospettiva del presidente per cui la Libia non sarebbe in guerra.Molto più chiara è, invece, la posizione di Regno Unito. Adesso è Londra, infatti, che mostra aggressività. Il premier Cameron pressa per l’invio di armi ai ribelli. L’idea non piace

L’Italia al massimo può pareggiare. Sconfessare tardi il Trattato di amicizia e poi non intervenire nella crisi, hanno lasciato a Parigi lo spazio necessario per passare in vantaggio ribelli. D’altra parte, proprio da queste colonne, il generale Mini sottolineava ieri la totale impreparazione tattica delle forze anti-Gheddafi. Per quanto riguarda la coalizione internazionale, si può già tracciare un bilancio sui reali vincitori della partita. L’Italia, com’è tradizione, per bene che le può andare, può uscirne in pareggio. La mossa di sconfessare il Trattato di amicizia, ma soprattutto la mancanza di un intervento immediato nella crisi hanno lasciato alla Francia lo spazio necessario per passare in vantaggio. Il recupero c’è stato con la fornitura delle basi e soprattutto grazie al fatto che Odissey Dawn prima e ora Unified Protector siano al diretto comando della Nato. Il governo Berlusconi, però, rischia ancora, perché risulta distratto dalla questione Lampedusa. Su questo ha ragione. Ma solo in parte. La crisi libica non può essere secondaria. In termini di lungo periodo, infine, non è da escludere che Parigi e Londra potrebbero sfruttare il protagonismo militare nella eventuale ridistribuzione delle concessioni petrolifere. Caduto Gheddafi, Jibril – proprio sulla base dei suoi trascorsi – sarebbe libero di mischiare le carte in tavola.

Francia e Stati Uniti, ai quali si dava per scontata la vitto-

alla Germania e ad altri partner europei. È noto però che se Dowining street ha deciso, non saranno le ritrosie del continente a farle cambiare rotta. Tanto più che, se è vero che i Sas sono già in Libia, quella delle armi agli uomini di Bengasi si riduce a una formalità.

Del resto, non è un caso che Koussa e Ismail abbiano riparato a Londra. Questa idea di un’attività diplomatica sottobanco con gli fedelissimi del rais suggerisce che il governo britannico nutra molte più ambizioni di quelle che ammette. Cameron vuole riacquisire la dignità perduta da Gordon Brown, dopo che quest’ultimo aveva rilasciato Abdelbaset alMegrahi, terrorista libico incriminato per l’attentato di Lockerbie (1988). La coincidenza vuole che proprio Koussa, ex capo della Mukhabarat (il servizio di intelligence di Gheddafi) abbia svolto un ruolo fondamentale nella liberazione di Megrahi. Si era detto che Brown lo avesse liberato per facilitare le relazioni della British Petroleum con il colonnello. Adesso che quest’ultimo non c’è, più le strade della Bp e del governo tornano a essere indipendenti. E Cameron può riscattare l’onta del suo predecessore e figurare come il fautore della stabilità a Tripoli.


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la crisi libica

I discorsi del raìs e dei suoi figli sono chiarissimi: sono arrivati a definire i raid “le forze aeree dei traditori del Paese”

Guerra di marionette

Gheddafi ha iniziato una nuova battaglia contro gli insorti: quella della propaganda. Il Colonnello sta convincendo la popolazione che i ribelli sono “burattini” occidentali che operano contro la Libia in nome di interessi stranieri umentare l’impegno e l’aiuto militare delle nazioni militari ai ribelli libici, sia sul campo che dalle retrovie, potrebbe aiutare la loro causa. Ma il prezzo da pagare sarebbe quello di subire un pesante attacco di propaganda da parte di Muammar Gheddafi, pronto a definire i suoi oppositori “servi e marionette” dell’Occidente. Questo fattore è ben chiaro nella mente dei leader della rivolta, che conoscono l’importanza strategica della guerra di informazione nel conflitto libico. Ecco perché hanno un disperato bisogno delle armi straniere ma devono lottare per non dare l’impressione di essere sottomessi alle nazioni che intendono aiutarli. Attualmente la loro situazione è chiara: militarmente molto vulnerabili sul campo, totalmente dipendenti dai raid occidentali in aria. La carta principale che i ribelli possono giocare oggi è quella di essere l’unica, autentica forza di opposizione interna al dit-

A

di William Maclead tatore e alla sua lunghissima presa di potere. Per Geoff Porter, analista indipendente con base negli Stati Uniti, «c’è una linea molto sottile, sulla strada degli insorti. Più sembrano organici e vicini agli Stati Uniti e all’Europa, nella loro lotta per cacciare Gheddafi, più fanno sembrare il loro movimento meno organico. E soprattutto meno legittimo». Al momento, le nazioni occidentali che sono impegnate nel sostegno ai ribelli stanno discutendo sulla possibilità di fornire armi agli insorti per via diretta.

Alcuni rappresentanti del governo statunitense hanno dichiarato alla Reuters che il presidente Obama avrebbe firmato a Washington un ordine segreto, che autorizza il sostegno americano “coperto” alle forze ribelli. Per le ribellioni di Egitto e Tunisia non ci si era trovati davanti a problemi simili. In quelle due nazioni gli autocrati

del regime sono stati allontanati da manifestazioni in larga parte pacifiche; l’Occidente non ha fatto praticamente null’altro che non fosse dare il proprio sostegno ai rivoltosi tramite i canali diplomatici. In Libia la situazione è totalmente diversa, dato che Gheddafi ha ordinato la repressione violenta delle proteste; inoltre è mancata la massiccia diserzione dalle forze armate nazionali che ve-

Le analisi erano sbagliate: a Tripoli i soldati non hanno mai disertato

niva data per certa, e questo ha costretto gli oppositori a trasformarsi in un esercito e a cercare il sostegno militare dell’Occidente. Questa decisione li ha messi davanti a un dilemma: ogni volta che vengono indicati come burattini delle nazioni occidentali, un pezzo della loro rivolta si stacca. Colpendo i cuori e le menti del mondo arabo tout court, dove cresce la disinformazione e l’opposizione

ai raid aerei della coalizione dei volenterosi. In casa, inoltre, queste accuse fomentano i nazionalisti e i loro sentimenti, che iniziano a minare la terra sotto i piedi dei ribelli anche con quei civili che avrebbero buoni motivi per volere la cacciata di Gheddafi. Larbi Sadiki, esperto di Africa settentrionale, spiega: «Se questo diviene un conflitto protratto nel tempo, in qualche modo si mette a rischio del tutto l’influenza occidentale nell’area. Gheddafi potrebbe infatti cogliere l’occasione per presentarsi come un nuovo Omar al-Mukhtar».

Il riferimento è al leader della rivolta contro gli italiani, che venne impiccato dal governo di Roma per la sua opposizione nel 1931. Il Colonnello non ha perso tempo, e ha attaccato gli insorti per i loro rapporti con l’Occidente subito dopo l’inizio dei raid internazionali decisi per proteggere la no fly zone. Il 20 marzo ha dichiarato che i ribelli «sono traditori, che colla-


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Libia, Siria, Egitto e Yemen potrebbero passare da dittature “laiche” a dittature religiose

Quattro rivolte e un rischio: il Medioriente fondamentalista

Le sacche di resistenza all’islam erano presenti nei Paesi oggi al centro della “primavera araba”. Obama deve intervenire per difenderci di Daniel Pipes opo decenni di stasi, il Medioriente è in tumulto. Senza focalizzare troppo l’attenzione sui singoli luoghi, esaminiamo gli sviluppi in quattro Paesi chiave.

D

Libia.Con la maggior parte degli americani non del tutto persuasi, il 19 marzo, Washington è entrata in guerra contro la Libia di Muammar Gheddafi. Le ostilità sono state a malapena ammesse, celate da un eufemismo (“azione militare cinetica”) e senza un obiettivo chiaro. Due protagonisti del’amministrazione Obama si trovavano all’estero – il presidente era in Cile e il segretario di Stato in Francia. I membri del Congresso, che non sono stati consultati, si sono adirati da un capo all’altro dello spettro politico. Alcuni analisti hanno ravvisato un precedente per attaccare militarmente Israele. Forse Obama sarà fortunato e Gheddafi cadrà rapidamente. Ma nessuno sa esattamente chi siano i ribelli e lo sforzo bellico di durata non stabilita potrebbe ben protrarsi e diventare costoso, terroristico e politicamente impopolare. Se così fosse, la Libia rischia di diventare l’Iraq di Obama, o peggio ancora, se gli islamisti dovessero prendere il potere. Obama vuole che gli Stati Uniti siano “uno dei partner tra i tanti [della coalizione]”in Libia e vorrebbe essere il presidente della Cina, il che sta a indicare che questa guerra offre al governo Usa l’opportunità di fare un grande esperimento fingendo di essere il Belgio. Ammetto di avere una certa simpatia per questo approccio: nel 1997, mi lamentavo del fatto che “gli americani ritenendosi adulti hanno trattato gli altri da bambini”, perché Washington molto spesso si è precipitata ad assumersi la responsabilità di mantenere l’ordine. Così ho esortato Washington a mostrare una maggiore riserva, lasciando che gli altri si assumano le loro responsabilità e chiedano aiuto. Questo è quanto ha fatto Obama in modo maldestro e malpreparato. I risultati di certo influenzeranno la futura politica degli Usa. Egitto.Il 19 marzo scorso, il Consiglio supremo delle Forze armate ha promosso un referendum costituzionale che è passato con 77 voti a favore e 23 contrari. Esso ha sortito l’effetto di incoraggiare sia i Fratelli musulmani che gli ultimi rimasti del Partito nazionale democratico di Hosni Mubarak, mettendo però in disparte i laicisti di Piazza Tahrir. Nel farlo, la neo-leadership militare ha confermato le sue intenzioni di non interrompere la sottile collusione di lunga data del governo con gli islamisti. Due fatti rafforzano questa collusione: l’Egitto è stato governato dai militari

a partire da un colpo di stato del 1952 e il cosiddetto movimento dei Liberi Ufficiali fautore di quel golpe ha avuto forti legami con l’ala militare dei Fratelli musulmani. Lo spirito di Piazza Tahrir era autentico e potrebbe alla fine prevalere, ma per ora in Egitto non è cambiato nulla con il governo che porta avanti la solita linea semi-islamista di Mubarak. Siria.Hafez al-Assad ha governato il Paese per trent’anni (dal 1970 al 2000) con brutalità e impareggiabile astuzia. Le sue pretese monarchiche gli fecero lasciare la presidenza a suo figlio Bashar di 34anni. Il giovane, che studiava per diventare oculista, fu costretto a unirsi agli affari di famiglia dopo la morte del più esperto fratello Basil avvenuta nel 1994, mantenendo sostanzialmente le politiche megalomani di suo padre, ampliando e acuendo in tal modo la stagnazione, la repressione e la povertà del Paese. Quando i venti del cambiamento hanno raggiunto la Siria, le masse urlanti Su-

La caduta di Saddam e l’ascesa in Iran di Khomeini hanno dimostrato qual è il vero pericolo

riya, hurriya (“Siria, libertà”), non hanno più avuto paura del dittatore bambino. In preda al panico, Bashar ha brandito l’arma della violenza e dell’appeasement. Se la dinastia Assad crollerà, questo avrà delle conseguenze potenzialmente rovinose per la minoranza alawita da cui essa proviene. Gli islamisti sunniti, che occupano una postazione privilegiata per succedere agli Assad, probabilmente ritireranno la Siria dal blocco “della resistenza”guidato dall’Iran, il che significa che un cambio di regime avrà varie implicazioni per l’Occidente e soprattutto per Israele. Yemen.In questo Paese, sono maggiori le probabilità che vi sia un rovesciamento del regime e che gli islamisti conquistino il potere. Per quanto carente possa essere come autocrate e per quanto possa essere circoscritto il suo potere, l’astuto presidente Ali Abdullah Saleh, in carica dal 1978, in un certo qual modo è stato l’alleato che l’Occidente poteva sperare di avere – nonostante i suoi legami con Saddam Hussein e con la Repubblica islamica dell’Iran – per esercitare il controllo sull’entroterra, contenere l’istigazione e per combattere al-Qaeda.Non avendo saputo gestire le proteste, Saleh si è alienato perfino la leadership militare (dalla quale egli proviene) e la sua stessa tribù Hashid, il che sta a indicare che lui lascerà il potere con scarsa autorità su ciò che ne conseguirà. Data la struttura tribale del Paese, la capillare distribuzione delle armi, la divisione tra sunniti e sciiti, il terreno montuoso e la minacciosa siccità, un’acon narchia sfumature islamiste (come in Afghanistan) si come profila probabile esito. In Libia, in Siria e nello Yemen – ma meno in Egitto – gli islamisti avranno molte più probabilità di espandere il loro potere.

Riuscirà l’ex-musulmano inquilino della Casa Bianca, così irremovibile sul “mutuo rispetto” nei rapporti degli Usa con i musulmani, a tutelare gli interessi occidentali contro questa minaccia?

borano con l’America e con la sua alleanza di crociati». Anche se, a ben vedere, in questo modo ha smentito da solo l’accusa lanciata in precedenza che voleva i ribelli «agenti di Osama bin Laden e di al Qaeda». In effetti, l’accusa di essere servi degli interessi occidentali potrebbe colpire politicamente molto di più i ribelli: in special modo, poi, se la coalizione invia addestratori militari e utilizza i raid per colpire le postazioni del governo. Se gli insorti dovessero alla fine di tutto prendere il potere, verranno accusati di aver condotto la ribellione per consegnare la Libia ad altre nazioni. Richard Holmes, professore di politica e studi di sicurezza all’università di Cranfield, sottolinea che oramai i raid dell’Occidente sono comunemente chiamati “le forze aeree dei ribelli”: «È questo il maggior problema, adesso. Le forze di coalizione sono parte di una guerra contro un governo legittimo. Stanno aiutando un partito contro un altro, e questo è illegale». I ribelli sanno tutto questo molto bene, e conoscono i rischi della vicinanza con l’Occidente. Alcuni arrivano a dire di essere pronti a rivolgere l’arma contro qualunque soldato straniero che dovesse posare il piede sul suolo libico.

Ma i legami fra i ribelli e i poteri occidentali si sono approfonditi in maniera molto pubblica la scorsa settimana, quando i membri del Consiglio libico nazionale – organismo transitorio che rappresenta gli insorti – si sono uniti ai ministri degli Esteri occidentali e arabi al meeting di Londra convocato per discutere del futuro del Paese. Mahmoud Shammam, portavoce dei ribelli, ha dichiarato che «con maggiori armi, i ribelli sono pronti a schiacciare Gheddafi in pochi giorni». Gli Stati Uniti e la Gran Bretagna non hanno escluso del tutto la fornitura di armi, e gli analisti sostengono che questa sia una mossa oramai prevedibile. Certo, c’è la possibilità che sia il mondo arabo a fornire armi e sostegno, ma questa è un’alternativa con molte zone di grigio. Secondo Alex Warren, analista, ora il mondo occidentale «deve decidere se tramutare una risoluzione delle Nazioni Unite sostanzialmente difensiva in un’azione militare aggressiva a tutto tondo». Ma «se i libici dovessero vedere che chi li deve difendere prende le parti di qualcuno potrebbero cambiare idea e scagliarsi con molta rapidità contro la coalizione dei volenterosi». George Joffe, esperto di Medioriente di stanza a Cambridge, conclude: «Per il momento, la coalizione sembra essere sostanzialmente lo strumento di una volontà interventista da parte dell’Occidente. E credo che questo ricadrà sulle spalle dei ribelli».


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grandangolo Un reportage dalle nostre basi libanesi impegnate a sminare

L’Italia è in guerra. Contro le mine antiuomo

Ogni anno oltre seimila persone perdono la vita per gli ordigni interrati, mentre altre 40mila rimangono seriamente ferite dalle schegge. Tre su quattro sono civili. Viaggio al centro dell’enorme battaglia che i nostri soldati conducono nel Vicino Oriente contro una delle più letali invenzioni dell’uomo di Martha Nunziata

SHAMA. Nei documenti ufficiali delle Nazioni Unite si chiama “Giornata Internazionale per la sensibilizzazione sulle mine e l’assistenza nell’azione contro le mine”, ma quella che verrà celebrata lunedì prossimo, 4 aprile, è più di una giornata di sensibilizzazione. È una lettera aperta al mondo, è un messaggio rivolto a chi delle mine anti-uomo è stato vittima; ma anche a chi, con le mine anti-uomo, ha deciso di arricchirsi. Svendendo la propria umanità. Perché quando leggi le cifre contenute nei documenti dell’Onu e di tante Ong, che raccontano di come, nel 2009, oltre 6000 persone in tutto il mondo siano morte a causa di una mina, che tre vittime su quattro sono civili, e che, secondo l’Unicef, oltre un terzo delle nuove vittime, ogni anno, sia rappresentato da bambini, e che più di 40mila persone all’anno perdono un arto, o subiscono deficit permanenti a causa delle mine, non possono non venirti i dubbi sull’efferatezza e sulla crudeltà del genere umano. La mina è un’arma indiscriminata che può colpire anche dopo mezzo secolo: conservano nel tempo la carica letale. L’obiettivo dichiarato dell’Onu è liberare il mondo da questi micidiali ordigni entro il 2025, e per farlo quattordici agenzie, programmi, dipartimenti e fondi Onu forniscono servizi antimine in più di quaranta paesi e territori. Un’attività che comprende la ricerca e la neutralizzazione di mine e ordigni inesplo-

si, assistenza alle vittime, insegnamento di tecniche da adottare all’interno di un ambiente contaminato, distruzione di materiale in stoccaggio e sensibilizzazione in favore dell’adesione al Trattato antimine. Sono settanta i Paesi più a rischio e le aree del mondo più infestate dalla posa delle mine antiuomo sono soprattutto comprese nell’area nordafricana e mediorientale.

Giordania - dove si stima siano state piantate circa 350mila mine - Kosovo, Bosnia Erzegovina, ma anche Sri Lanka, Laos, Cambogia, Nicaragua, El

I Paesi più a rischio sono settanta. Le aree più infestate sono soprattutto comprese in quelle nordafricana e mediorientale Salvador, Vietnam, oltre, naturalmente, all’area di confine tra Libano, Israele e Siria, una delle zone più calde del pianeta, nella quale l’Onu è presente, da 33 anni, per mantenere la pace e per bonificare il territorio dalle mine ancora in-

terrate. Lo fa con la missione Unifil (United Nations Interim Force in Lebanon) : «La nostra - spiega a liberal Andrea Tenenti, portavoce della missione Unifil, che incontriamo nella base di Naqoura - è una missione operativa in Libano dal 1978, è quindi una missione che ha 33 anni; dopo l’ultimo conflitto tra Libano e Israele, però, la risoluzione n. 1701 ha modificato il mandato internazionale. Il numero dei caschi blu è passato dai 2/3 mila di Unifil 1 ai quasi 14mila peacekeepers attuali». L’impegno sul campo è concentrato in un’area di circa 750 km quadrati, nella fascia che va dal fiume Litani verso Sud, fino al confine con Israele, il cui tracciamento, in realtà, è proprio uno degli obiettivi chiave della missione: «L’Unifil non ha autorità per delimitare i confini - precisa Tenenti - e comunque un mandato per delineare i confini non esiste. Quello che possiamo fare, e che facciamo, è delimitare una linea di sicurezza, per prevenire eventuali sconfinamenti».

È la cosiddetta blue line, che costituisce, di fatto, l’attuale confine tra Libano e Israele, la cui realizzazione, però, attraverso la posa sul terreno dei blue pillars, è molto più laboriosa, difficile e pericolosa di quanto si possa immaginare. Per garantire l’accesso al lembo di territorio che costituisce il cuscinetto tra i due stati occorre liberare il terreno dalle mine. La zona di confine tra Libano e Israele è un gigantesco campo minato, e

noi di liberal abbiamo voluto vederlo da vicino, per capire cosa si prova quando si decide di rischiare la propria incolumità, un minuto dopo l’altro, in un susseguirsi di giornate tutte uguali, passate a scandagliare, centimetro per centimetro, una macchia mediterranea che profuma di mirto e ginestra, guardando il mare in lontananza, senza poterlo vedere, perché basta un calo minimo di quella concentrazione totale che diventa la tua compagna di vita per non saltare in aria. Sul campo minato b-24 a ovest di Shama (circa trenta minuti dalla base) incontriamo il caporal maggiore Giovanna Silvia La Rosa.

L’unica donna del suo team italiano che, da mesi, sta sminando questo territorio, aprendo un corridoio, un passaggio sicuro per permettere il passaggio di uomini e mezzi. Quattro uomini e lei, più il capo team, che si alternano in turni di 40 minuti, con venti di riposo, che nell’arco della giornata non possono essere più di due consecutivi, per motivi di sicurezza. L’abbiamo incontrata in una di queste pause: «Sono siciliana e vengo da Catania - dice Silvia - mio padre è un idraulico e mia madre è una grande atleta, a livello di maratone. Ho due fratelli più piccoli, e il 19enne grazie ai miei racconti ha deciso di intraprendere la carriera militare». Una carriera che, per lei, è cominciata presto: «Ho deciso di diventare una militare nell’ultimo anno di scuola, e da lì nel 2007 ho frequentato il primo ciclo


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Parla il generale Miglietta, comandante della brigata Pozzuolo del Friuli

«Sulla blue line lavoriamo da anni per rendere sicuro tutto il territorio» l contingente italiano impegnato nella missione Unifil 2 è sotto il comando del Generale di Brigata Guglielmo Luigi Miglietta, 49 anni, leccese di origine, comandante della Brigata di Cavalleria “Pozzuolo del Friuli”, tornata in Libano per la terza volta, nell’ambito dell’operazione “Leonte 9”, di stanza nel settore Ovest della fascia di sicurezza che costituisce la zona cuscinetto tra Libano e Israele.

I

di addestramento; poi dopo aver superato il concorso per la ferma volontaria sono stata trasferita ad Udine e poi sono stata mandata alla scuola del Genio, per il corso minex, un corso molto duro perché si aveva a che fare per la prima volta con le mine, con gli esplosivi, cose delle quali si era solo sentito parlare».

Il passaggio dalla teoria alla pratica è impossibile da dimenticare: «Quando sono arrivata al campo minato qui nel sud del Libano ho realizzato che la realtà dei campi minati è un’altra emozione, la tensione è altissima e l’attenzione pure, in quanto basta niente per innescare l’ordigno». Attenzione e tensione, freddezza e adrenalina, paura e sicurezza. E la fiducia da riporre, oltre che in te stessa, nella tua attrezzatura: «La tuta anti- frammentazione, la RAV - dice La Rosa - è molto pesante e molto faticosa da tenere addosso soprattutto sotto il sole e nei mesi più caldi. Il corpetto pesa circa 10 chili ed il casco pesa 5 chili, e rimanere in ginocchio, con la testa bassa sulla terra per molto tempo per individuare l’ordigno, è molto faticoso». «Oltre alla ricerca manuale, eseguita con oggetti di scavo, c’è il supporto strumentale, con il metal detector che viene utilizzato in una fase precedente per individuare il punto dove lavorare. Un rumore dello strumento ci indica la presenza di un metallo, e quindi l’accenditore della mina, che è l’unica parte in metallo che ci indica anche la direzione e l’ubicazione della mina, ma fino a quando non la vediamo dobbiamo procedere con molta cautela. Le mine funzionano a pressione e nel momento in cui viene fatta pressione superiore agli otto chili, lo spillo dell’accenditore va a spingere sulla carica e sono 138grammi di tritolo che esplodono».

Dal gennaio 2009 ad oggi l’Italia ha disinnescato 68 ordigni e bonificato quasi 4mila mq. di terreno. Un lavoro duro e molto lungo Oltre all’aiuto strumentale c’è anche quello, fondamentale, dei cani: «Nella base italiana - ci spiega il Tenente Colonnello Paolo Musti - vivono otto esemplari di pastore tedesco e labrador, addestrati per controllare gli ingressi, sfruttando l’olfatto per discriminare gli odori delle sostanze esplosive. E poi c’è la nanotecnologia: utilizziamo un robot radiocomandato (mk8 ) che sulla parte anteriore ha due armi che sparano del liquido che poi è semplicemente acqua e una volta individuata la sorgente e il circuito di innesco, per disattivarlo. Questo non garantisce la piena sicurezza, però, quindi si deve sempre poi procede con l’intervento umano». Un’attività che ha prodotto risultati importanti: «Dal gennaio del 2009 ad oggi - ci illustra il capitano Fabio Fazino - abbiamo disinnescato 68 ordigni, e bonificato quasi 4mila mq. di terreno. È un lavoro duro, e soprattutto lungo, molto lungo». L’obiettivo di Unifil 2 comunque è quello di fare in modo che la missione stessa finisca presto”Perché vorrebbe dire – conclude Silvia - aver portato la pace in questo angolo di mondo”.

Un aspetto fondamentale riguarda i rapporti con civili; i nostri militari sono impegnati in molte attività con la popolazione civile, prima tra tutte lo sminamento del terreno, che ha consentito, negli ultimi anni, anche di restituire alla popolazione porzioni di territorio da destinare all’agricoltura, o al pascolo. «Noi siamo convinti - spiega a liberal il generale Miglietta, che incontriamo nel suo ufficio di Shama, quartier generale della missione - che lo sviluppo di questa parte del paese passi dall’incremento dell’economia e delle infrastrutture; ecco perché, dal 2006 ad oggi, abbiamo sviluppato tantissimi progetti di cooperazione civile e militare con la popolazione e con l’esercito libanese». L’impegno dei nostri militari è totale: «Nella prima fase della missione continua Miglietta abbiamo monitorato il cessate il fuoco e poi il ritiro delle forze armate israeliane. Adesso ci troviamo in una fase di transizione delle forze armate libanesi che devono riprendere il controllo del territorio». Questo, però, è solo il quadro generale, per inquadrare l’attività dei nostri soldati, qui nel sud del Libano: «Noi facciamo quotidianamente attività operative di diverso tipo - continua - dal check point alla pattuglia, al punto di osservazione. Solo nell’ultimo anno abbiamo operato 60.000 mila attività operative sul terreno, in una area di 750 km quadrati». Un controllo del territorio estremamente minuzioso, con un compito preciso, quello di supportare le Forze Armate Libanesi nel disarmo della frange estremiste di Hezbollah: «La collaborazione con i libanesi nel controllo sul territorio porta necessariamente al disarmo di Hez-

bollah, anche se tecnicamente non siamo noi a disarmarli, ma l’esercito libanese. Il disarmo di Hezbollah, comunque, è il risultato della nostra operazione di collaborazione con l’esercito libanese». Una delle attività più importanti della missione è quella della gestione della linea di confine tra Libano e Israele, di fatto inesistente.

«Confini tra i due Paesi - dice il generale - non ce ne sono, perché la linea con Israele è una linea armistiziale. Israele e Libano sono ancora in guerra, dopo il ritiro di Israele dai territori libanesi nel 2001. Il nostro compito è quello di impedire che avvenga il passaggio delle forze israeliane o libanesi da una parte all’altra della blue line». Anche se la popolazione continua a lamentarsi delle continue violazioni dello spazio aereo da parte di Israele. «In effetti - ammette - basta guardare il cielo per rendersi conto che ci sono violazioni dello spazio aereo libanese da parte di Israele; personalmente, però, ritengo che esse abbiano solo una funzione difensiva, e non siano certamente una minaccia nei confronti del Libano. Sono certamente violazioni alla risoluzioni n. 1701, ma sulle quali noi non abbiamo competenza: la nostra è un’attività esclusivamente sul territorio. Noi non possediamo una contraerea, per esempio, e quindi quello che possiamo fare, e che facciamo, è la segnalazione alle Nazioni Unite di tali violazioni, ma le decisioni successive restano di competenza del Segretario Generale dell’Onu». «Tenga conto - conclude - che le violazioni che noi registriamo arrivano da ambedue le parti: sei giorni fa, per esempio, due pastori libanesi hanno attraversato la linea armistiziale, e sono stati catturati dalle forze armate israeliane. Ritengo, però, che le violazioni sono da ascrivere ai comportamenti individuali, e non a volontà degli stati. La sensazione è che ormai che da cinque anni sia ritornata la pace in questa parte del Paese». Anche, o forse soprattutto, grazie alla presenza ita(m.n.) liana.


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il personaggio della settimana L’incredibile storia di Alessandro Cozzi: un’esistenza tranquilla, poi il delitto

L’assassino della vita accanto Barba curata, aspetto raffinato, carattere mite e voce rassicurante. Il doppio volto del conduttore televisivo (e orientatore familiare) che per un debito di soli 17mila euro ha commesso un brutale omicidio di Maurizio Stefanini ol passare del tempo le storie evolvono, gli anni passano e le vicende crescono. Alcune vanno avanti molto bene, e così gli autori hanno immaginato delle storie, come dire, a lieto fine. Di quelle che finiscono bene e che ci danno un’immagine positiva. Non tutte le storie vanno avanti bene. Qualcuna delle vicende che vi presenteremo quest’anno passano attraverso la soglia importante del dolore. Ma, d’altro canto, nella vita vera, nella vita quotidiana che tutti noi ci troviamo a vivere, molte volte il dolore è una porta che bisogna attraversare».

«C

Barba curata, aspetto raffinato, sobrio completo blu con cravatta in tinta, registro in una mano mentre l’altra accompagna con gesto rassicurante l’eloquio suadente, l’Orientatore Famigliare, così lo definisce il sottotitolo del programma, ci parla ancora da quel micidiale archivio del nostro tempo che è YouTube. Riferimento, http://www.youtube.com/ watch?v=AgV_BJg_qfU. Parla, e chi lo ascolta si sente automaticamente a proprio agio. E ancora on line è su Internet pure il suo profilo, nel sito ufficiale della trasmissione Rai: http://www.diariodifamiglia.rai.it/cozzi.asp. «Alessandro Cozzi (1958) ha cominciato a lavorare nel settore dell’Orientamento Familiare nel 1982, occupandosi di attività per coppie giovani di fidanzati e di sposi, in seno all’Associazione Faes Centri Scolastici e di Orientamento, di Milano». «Non serve soltanto per finire», continua a spiegarci forbito del dolore l’Orientatore Famigliare Alessandro Cozzi, nel filmato. «Anzi, il più delle volte è proprio lo spazio necessario per ricominciare. Per conquistare un percorso di autocoscienza, per andare avanti e crescere. Perché spesso il dolore è la forma principale della crescita». Tragico e sinistro, a risentirlo ora. Perché questo composto filosofo educatore, un personaggio che la sua collega di conduzione tv Maria Te-

resa Parsi definisce «un cattolico convinto che digiunava durante la Quaresima, molto attaccato alla famiglia, dotato di una forte capacità di mediazione», è finito ora in cronaca nera come feroce assassino. Un reo confesso, anche se la piena ammissione non segna altro che l’inizio del mistero. Fatale accesso di ira? Un romanzesco caso da Dottor Jeckyll e Mister Hyde? Oppure qualcosa di più complesso ancora? O magari alla fine salterà fuori che è stato un semplice eccesso di legittima difesa? «Assumendo responsabilità crescenti all’interno dell’Associazione, è stato prima cooptato tra i membri del Gruppo Ricerche e Studi dell’Associazione, poi membro della Direzione delle attività di Orientamento Familiare, infine cooptato tra i soci e ha occupato la carica di Segretario Generale dell’Associazione Faes tra il 1990 ed il 1994», continua il sito della trasmissione. «All’interno dell’Associazione, ha progettato ed erogato moltissimi Corsi di Orientamento Familiare, sviluppando in modo peculiare e personale la metodologia partecipativa di cui Faes è portatore. Come responsabile del settore Orientamento, ha anche guidato il progetto di partnership tra l’Associazione Faes e l’Università di Navarra (Pamplona - Spagna) che ha portato l’Associazione alla gestione per conto dell’Università del Corso Superiore a distanza per Orientatore Familiare. Nel 1999 ha fondato, insieme ad altri, l’Associazione Oeffe (Orientamento Familiare), erede dell’esperienza Faes, che oggi è sviluppata in diverse città Italiane (oltre che a Milano, sede

centrale, opera a Roma, Torino, Bologna, Bari, Genova, Trieste..). Responsabile delle Relazioni esterne dell’Associazione, ne cura lo sviluppo e l’apertura di nuovi servizi. Negli anni dal 1985 ad oggi, inoltre, contemporaneamente alle attività di Orientamento Familiare, ha curato l’attività di insegnamento ed ha acquisito vasta esperienza come formatore e consulente aziendale, sia in Italia che all’estero, lavorando con molte aziende nazionali e multinazionali». E così era finito in televisione, su Rai Educatio-

nal. Ma torniamo un attimo alla Faes. Sigla di “Famiglie e Scuola”, è un organismo che raccoglie un network di scuole private, e che riceve dalla Regione Lombardia 400 milioni.

Considerato in area Opus Dei, e fondato da Gianmario Roveraro: il finanziere in gioventù campione italiano di salto in alto, che negli anni ’90 collaborò con la Cirio di Cragnotti e fu


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A fianco, un’immagine del conduttore televisivo Alessandro Cozzi, da giovedì sotto i riflettori della cronaca nera per aver confessato il brutale omicidio di Ettore Vitiello, al quale doveva restituire circa 17mila euro. In basso a sinistra, uno scatto della vittima

artefice del collocamento in Borsa della Parmalat di Callisto Tanzi, ma poi uscì dal circuito della grande finanza, e nel 2006 fu assassinato all’età di settant’anni. Va da sé che un secondo omicidio attorno alla Faes in capo a cinque anni ha subito scatenato qualche emulatore di Dan Brown, alla ricerca di complotti stile Codice da Vinci o Angeli e Demoni. Ma i due casi sono in realtà molto differenti. Roveraro il 5 luglio 2006 tornava a casa da un incontro di formazione spirituale e di preghiera di quelli che l’Opus Dei abitualmente organizza per il fedeli, quando venne rapito.

Il suo cadavere sarebbe stato trovato vicino Parma il 21 luglio 2006, tagliato a pezzi all’altezza dell’addome. E per il delitto sarebbe stata arrestata una banda di tre elementi guidata da Filippo Botteri: un consulente finanziario di Parma che ha confessato di essersi voluto vendicare per un affare immobiliare in cui aveva investito 2 milioni e mezzo di euro nella speranza di quadruplicarli; ma da cui poi Roveraro si era sfilato facendolo fallire, quando aveva subdorato qualcosa di poco chiaro. «Ho perso la testa e l’ho ucciso perché anche dopo il sequestro ho capito che non riuscivo a recuperare i soldi. È vero che io ho molto rancore nei confronti del Roveraro perché lo reputo responsabile di miei gravi problemi economici, o per incuria o per incapacità, ma comunque mi ha fatto perdere molti soldi», sarebbe stato il tenore della confessione. Anche nel caso Cozzi c’entrano i soldi, che non avevano potuto essere rimborsati. In quel caso, però, l’assassino non è stato colui che li rivoleva indietro, ma colui che non poteva restituirli. Ettore Vitiello, 58 anni, era infatti il titolare di un’agenzia di formazione lavoro, che aveva ottenuto 34.000 euro di fondi regionali per un progetto comune con l’agenzia di Cozzi, “Milano per la donna”. Ma Cozzi non aveva mai saldato la sua parte, e Vitiello gli chiedeva il saldo di 17.000 euro. Che possono sembrare una stupidaggine per chi ce li ha: ma un’enormità per chi non ci arriva, specie se oberato da altri impegni. Come Cozzi, il cui conto in banca aveva ormai toccato i 70.000 euro di rosso. «Sono pieno di debiti,

non posso restituirti tutto, posso pagarti a rate?». «No, paga subito o ti porto in tribunale”». A quel punto, la lite. Secondo Cozzi sarebbe stato Vitiello a saltargli addosso con un coltello da cucina gridandogli «ti ammazzo!», e lo avrebbe anche ferito. Per cui lui glielo avrebbe strappato di mano. Se così è stato davvero, però, nella colluttazione a un certo punto l’ira ha oltrepassato i limiti della difesa. Accecato dall’ira e forse anche dalla paura, il forbito educatore che spiegava l’importanza di crescere attraverso l’accettazione del dolore ha colpito il suo persecutore una volta, e un’altra, e un’altra ancora. Fino a straziarlo con venti coltellate. Un macello. Ovviamente, trovandosi di fronte al cadavere insanguinato, Cozzi è stato colto

Il presentatore all’inizio aveva negato ogni coinvolgimento. Poi ha ceduto confessando agli inquirenti il barbaro assassinio dallo sgomento. È scappato via, ha cercato di far sparire nel Lambro coltello e abiti.

Ma i dipendenti dell’agenzia lo avevano visto, e sul cellulare della vittima erano restati i messaggi minacciosi a Cozzi. «Se non mi paghi procederò per vie legali». Arrestato e interrogato per ore, all’inizio l’assassino ha provato a negare, dicendo che i tagli alle mani se li era procurati in ufficio. Ma alla fine è crollato e ha confessato. L’unico dubbio, lasciato al medico legale, è se davvero la mecca-

nica è stata nell’eccesso di legittima difesa, come raccontato. «Non ci sono parole... fare una cosa del genere per motivi economici è agghiacciante, ora mi chiedo quale disperazione profonda covava quest’uomo», ha detto la ex-collega.

«Ci siamo scambiati delle mail di auguri. Lui era sempre molto carino e gentile con tutti». Diario di famiglia, «un progetto che tenta di gettare nuova luce sui piccoli e grandi temi che mettono a repentaglio la serenità delle famiglie. Una lente d’ingrandimento sul nostro quotidiano domestico per comprendere da vicino gli ostacoli relazionali che si frappongono fra noi e i nostri famigliari», era stato registrato l’anno scorso. Ma su Rai Educational le puntate continuavano ad andare in onda anche in questi giorni. Sembra allucinante. Ma perché la notorietà televisiva o l’attitudine al ragionamento dovrebbero mettere al riparo da quella bestia feroce che resta sempre dentro a ogni essere umano, e che le circostanze più impensate possono sempre ridestare? Se vogliamo, anzi, questa vicenda è abbastanza banale. Una lite per un debito degenerata. Anche la vicenda che l’anno scorso sconvolse gli inglesi, il presentatore della Bbc Ray Gosling che confessò di aver ucciso il suo compagno malato di Aids, rientra in pieno in quella tematica dell’eutanasia che può essere eticamente affrontata in vari modi, ma con la quale purtroppo tutti possiamo trovarci a dover avere a che fare. «Lui soffriva. Allora chiesi al dottore di lasciarci soli, lui uscì, io presi un cuscino e lo soffocai». Due anni fa in Spagna c’era stato il caso do un partecipante a un reality show che era risultato aver ucciso il padre e la madre. Ma lo aveva fatto a 15 anni, ne aveva scontati tre in un centro di riabilitazione, come minorenne non ne aveva avuta la fedina penale sporca, e non c’era nessuna legge che a trent’anni gli impedisse di partecipare al grande teatro della tv. Solo l’opportunità, per cui infatti quando qualche spettatore ha scoperto la sua storia attraverso Internet è stato allontanato. Ma lui ha pure brontolato: «Tutti possiamo cambiare». In fondo, è il caso opposto a quello di Giuseppe Valerio

Quando orientava le giovani coppie Alessandro Cozzi ha cominciato a lavorare nel settore dell’Orientamento Familiare nell’82, occupandosi di attività per coppie giovani di fidanzati e di sposi, in seno all’Associazione Faes di Milano. Assumendo responsabilità crescenti, è stato prima cooptato tra i membri del Gruppo Ricerche e Studi dell’Associazione, poi membro della Direzione delle attività di Orientamento Familiare, infine ha occupato la carica di Segretario Generale dell’Associazione Faes tra il 1990 ed il 1994. All’interno dell’Associazione, ha progettato ed erogato moltissimi Corsi di Orientamento Familiare. Nel 1999 ha fondato l’Associazione Oeffe (Orientamento Familiare), erede dell’esperienza Faes, che oggi è sviluppata in diverse città Italiane (oltre a Milano, anche Roma, Torino, Bologna, Bari, Genova, Trieste). Responsabile delle Relazioni esterne dell’Associazione, ne curava lo sviluppo. Negli anni dal 1985 adoggi, inoltre, contemporaneamente alle attività di Orientamento Familiare, ha curato l’attività di insegnamento e ha acquisito vasta esperienza come formatore e consulente aziendale, sia in Italia che all’estero, lavorando con molte aziende nazionali e multinazionali.

“Giusva” Fioravanti: a 10 anni divo in tv nella Famiglia Benvenuti, dove lo aveva imbucato un padre ex-annunciatore tv; ancora fino ai 17 anni attore di cinema, anche se non più con lo stesso successo; dai vent’anni terrorista nero pluriomicida; e dai 24 anni galeotto, anche se due anni fa è riuscito infine a tornare in libertà, 51enne. D’altra parte, poco più di due settimane fa è finito dentro pure Vittorio Vannutelli, raffinato attore di teatro anche pirandelliano, con partecipazioni tv alla Squadra. Per stupro e violenze particolarmente atroci ai danni di una ex-fidanzata, da lui addirittura marchiata a fuoco.

Cozzi, però, oltre a un personaggio tv era anche un educatore. E sotto questo punto di vista, il XX secolo ha visti finire dentro per uxoricidio addirittura uno dei giganti della filosofia del ‘900. Quel Louis Althusser, grande protagonista dello strutturalismo francese degli anni ’60, assieme a Claude Lévi-Strauss, Jacques Lacan, Michel Foucault, profeta del ’68 con la sua fin troppo originale rilettura di Marx, che il 16 novembre 1980 uccide, strangolandola sua moglie Hélène Rytmann nel loro appartamento presso la prestigiosa Ens,la Scuola Normale Superiore dive insegna. Lui stesso ai autodenuncerà al medico dell’università, che contatterà le autorità psichiatriche e lo farà dichiarare mentalmente infermo al momento dei fatti. Risparmiato dal processo, Althusser scriverà un’autobiografia per spiegare il suo gesto a sé stesso, che nel 2006 diventerà addirittura un’opera teatrale. Titolo, un morettiano Le Caiman.



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