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Spesso le grandi imprese

nascono da piccole opportunità Demostene

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 5 APRILE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Oggi il ministro Maroni non riferisce alla Camera e vola di nuovo in Nord Africa per cercare a tutti i costi un’intesa

Italia-Tunisia: zero a zero Berlusconi torna da Tunisi senza alcun accordo sui rimpatri. Il premier Essebsi esprime “disponibilità”ma rimanda ogni decisione. 500 migranti a Napoli, sbarchi in Sardegna Finita la liaison con Gheddafi

Roma riconosce il governo di Bengasi Frattini legittima il Consiglio degli insorti e non esclude (del tutto) l’invio di armi. Anche Casini e D’Alema incontrano Ali Al Isawi Luisa Arezzo • pagina 10

Giusto (ma in ritardo) il credito concesso ai ribelli

Finalmente un punto fermo, dopo settimane di altalena di Osvaldo Baldacci ra ora. Come liberal aveva chiesto da tempo e come Francia, Stati Uniti e Qatar avevano già fatto, finalmente il ministro Frattini ha riconosciuto il Consiglio Nazionale Transitorio costituito dagli insorti libici. Oddio, visto che il governo italiano finora non ne ha azzeccata una speriamo non ci siano controindicazioni per i ribelli. Prendiamo il buono. Non si capiva davvero perché l’Italia dovesse continuare a dare questa sensazione di rimanere ancorata alla nostalgia di Gheddafi, un leader già poco apprezzabile ma ora quasi certamente finito e comunque condannato all’isolamento internazionale. Al contrario il CNT di Bengasi ormai rappresenta non solo i ribelli della Cirenaica, ma anche le realtà del resto della Libia, che hanno dichiaratamente voluto aderire a una istituzione pluralistica. Certo, si tratta ancora di una realtà di emergenza, in fieri, democratica solo nel senso di provare ad avere la più ampia rappresentanza, ma non certo perché eletta. a pagina 10

ROMA. Dalle coste tunisine arrivano in Italia migliaia d’immigrati, a bordo di natanti di fortuna. Ne sono sbarcati altri 800 giusto ieri. Il nostro Paese non poteva continuare a rimanere passivo senza reagire. Così, sempre lunedì, dall’Italia è arrivato a Tunisi un aereo con a bordo un premier e un ministro degli Interni. Silvio Berlusconi e Roberto Maroni, sono giunti nel Paese nordafricano in mattinata. Il primo appuntamento della missione si è svolto al palazzo presidenziale di Cartagine con il presidente ad interim della Repubblica tunisina, Fouad Mebazaa. Successivamente il premier si è recato nella sede del governo per incontrare il primo ministro Beji Caid Essebsi. E Maroni ha incontrato il suo omologo tunisino Habib Essid. a pagina 2

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seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

Parla il politologo Paolo Feltrin

di Pierre Chiartano

BRACCIO DI FERRO

«Il Carroccio è in crisi: Bossi ricatta, alza la voce per tentare il governo cede di non implodere» di Giancristiano Desiderio Le nuove strategie usate da Via Sellerio «indicano lo smarrimento padano» Franco Insardà • pagina 5

Cronistoria di un disastro annunciato (da lui)

Roberto Maroni, ovvero l’arte di non darsi retta Aveva previsto tutto, ma non è riuscito a gestire praticamente nulla Maurizio Stefanini • pagina 3

e navi partite domenica sera da Lampedusa con a bordo i migranti sono arrivate a destinazione: Trapani, Catania, Taranto, Napoli. I migranti vanno da Sud a Sud. Al Nord, per ordine e ricatto della Lega, non si va. Il governo, cioè il presidente del Consiglio, subisce il ricatto. Berlusconi che ha già tanti problemi non vuole aggiungere anche le grane leghiste. Per cui la linea “fuori dalle balle” di Umberto Bossi è diventata la strategia del governo in materia di immigrazione. Ma con una rilevante determinazione: «Fuori dalle palle del Nord e così fuori dalle balle del governo». Una vera arte diplomatica e politica. a pagina 2

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Domani si apre lo scontro finale per il controllo del gruppo

Il domatore del Leone

Perché Bolloré punta a guidare il colosso Generali di Giancarlo Galli on dimentichiamo che all’inizio del Novecento le Assicurazioni Generali annoverarono fra gli impiegati il praghese Franz Kafka. Quindi perché stupirsi che lo scontro in atto a Trieste, nel cuore nobile della finanza italiana, sia... kafkiano?». Sorride il tycoon di Piazza Affari a Milano, aggiungendo: «Intrighi ad al-

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

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to livello originati dagli smisurati appetiti del francese Bolloré, intimo di Nicolas Sarkozy, gran predatore. Ha però trovato sulla sua strada la maggioranza del Consiglio, il potere azionista ceco Petr Kellner, quasi un nipotino di Kafka, con in mezzo il presidente Geronzi, ormai vaso di coccio». a pagina 12

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’editoriale

prima pagina

Ora basta con i ricatti della Lega

pagina 3 • 5 aprile 2011

di Giancristiano Desiderio e navi partite domenica sera da Lampedusa con a bordo i migranti sono arrivate a destinazione: Trapani, Catania,Taranto, Napoli. I migranti vanno da Sud a Sud. Al Nord, per ordine e ricatto della Lega, non si va. Il governo, cioè il presidente del Consiglio, subisce il ricatto. Berlusconi che ha già tanti problemi non vuole aggiungere anche le grane leghiste. Per cui la linea “fuori dalle balle” di Umberto Bossi è diventata la strategia del governo in materia di immigrazione. Ma con una rilevante determinazione: «Fuori dalle palle del Nord e così fuori dalle balle del governo». Una vera arte diplomatica e politica.

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Con questa alta strategia il capo del governo si è recato a Tunisi per trovare una soluzione in loco alle navi che salpano in direzione di Lampedusa, Pantelleria e ora anche la Sardegna. La missione di Berlusconi in Tunisia punta a raggiungere un accordo in tempi brevi per impedire nuovi sbarchi di clandestini. Se, infatti, gli sbarchi dovessero continuare il governo si troverebbe in grande difficoltà perché la linea-ricatto della Lega sarebbe a rischio e così sarebbe a rischio caos il governo e di conseguenza il governo dei migranti clandestini e non. La vera questione, dunque, è che il governo è privo di una sua politica strategica e si è fatto sorprendere impreparato anche se tutti sapevano da tempo che, data la situazione del Nord-Africa, ci sarebbero stati numerosi sbarchi. Puntualmente la cosa si è verificata ma - e questo è il punto importante della storia - con un numero molto minore di clandestini rispetto alle previsioni. Nonostante ciò il governo paraleghista si è fatto regolarmente pescare impreparato. Il problema nasce qui prima che sulle coste africane e i porti periferici italiani. Il tutto si riassume in questa formula sintetica: con la politica leghista non si governa il fenomeno immigrazione. I problemi che si pongono con il ricatto leghista sono vari, ma due sono quelli più importanti: uno internazionale e uno nazionale. Quello internazionale è la difficoltà che ha il governo italiano a farsi sentire in Africa, in Europa e dagli altri Paesi che pure sono investiti dal fenomeno: Spagna e Francia soprattutto. Qui la linea di Bossi “fuori dalle palle”non è efficace come a Palazzo Chigi. Il governo spagnolo e quello francese non si trovano, forse, in una condizione di debolezza come quello italiano che deve assecondare ogni capriccio leghista che tutela il “suo” territorio padano ma non sa cosa sia il territorio nazionale. È evidente che con questa linea l’Italia sarà sempre un vaso di coccio tra vasi di ferro. La seconda questione è nazionale: la debolezza del governo o, meglio, la debolezza del premier e il suo disinteresse per una politica nazionale si scaricano sul Mezzogiorno. L’idea che i migranti non debbano superare il confine interno del Garigliano è l’immagine stessa della indisponibilità del governo Berlusconi a porsi il problema della necessità d’avere una strategia nazionale in tema di immigrazione. In queste condizioni si potrà anche fare un accordo con la Tunisia, ma il fenomeno dell’immigrazione clandestina sarà comunque destinato a riproporsi in poco tempo perché il governo per sua scelta e immobilismo ha deciso di non affrontarlo avendo come sua bussola la tutela dell’interesse nazionale. Le soluzioni tampone fatte sotto la spinta del ricatto leghista condannano l’Italia ad essere una nazione minore nel Mediterraneo e in Europa. Detto in due parole: più il governo pensa di cavarsela con la linea-ricatto della Lega e più espone l’Italia e gli italiani ai ricatti. Un suicidio.

il fatto Lampedusa si svuota, ma gli immigrati iniziano a risalire la Penisola: in 500 a Napoli

Un pareggio annunciato

Con la missione a Tunisi, Berlusconi riesce a non ottenere nulla se non delle generiche “rassicurazioni” dal governo di Essebsi. Oggi un nuovo summit con le autorità locali di Pierre Chiartano

ROMA. Dalle coste tunisine arrivano in Italia migliaia d’immigrati, a bordo di natanti di fortuna. Ne sono sbarcati altre centinaia giusto ieri. Il nostro Paese non poteva continuare a rimanere passivo senza reagire. Così, sempre lunedì, dall’Italia è arrivato a Tunisi un aereo con a bordo un premier e un ministro degli Interni. Silvio Berlusconi e Roberto Maroni sono giunti nel Paese nordafricano in mattinata. Il primo appuntamento della missione si è svolto al palazzo presidenziale di Cartagine con il presidente ad interim della Repubblica tunisina, Fouad Mebazaa. Successivamente il premier si è recato nella sede del governo per incontrare il primo ministro Beji Caid Essebsi. Roma ha venduto l’accordo come quasi fatto, mentre l’agenzia tunisina Tap ha battuto «nessun accordo sul dossier immigrazione clandestina».

E Maroni ha incontrato il suo omologo tunisino Habib Essid. Sullo sfondo di questa tappa maghrebina del governo italiano si intravedono le ombre cinesi prodotte dalla politica francese nella regione. È infatti una strana partita quella che si gioca tra Roma e Parigi. Dove l’Eliseo tenta ora di ricucire con Berlusconi, sul dossier immigrazione. Dopo essere stato bacchettato da Bruxelles. Domenica c’era già stata la telefonata di Nicolas a Silvio. Strana partita, perché sulla Libia i francesi hanno giocato contro di noi, per mettere l’Italia fuori gioco nel dopo-Gheddafi. Hanno giocato le carte delle covert operation, che tanto bene non devono essere andate. Ma non era facile, le forze speciali di molti Paesi blasonati, qualche tempo fa nel Kosovo, ci misero due anni per preparare l’esercito indipendentista dell’Uck. Comun-

que Roma negli ultimi anni aveva favorito l’ingresso d’interessi transalpini nello Stivale. Sarkozy non poteva certo lamentarsi del governo italiano. Ma ora sembra che qualcosa si sia incrinato, oppure che certe notizie che dovevano rimanere nei cassetti siano ahimé circolate. Il governo Berlusconi si è trovato dunque spiazzato, in un primo momento, nello scoprire le “furbate”dell’Esagono nel deserto libico. Poi, investito in pieno dallo «tsunami» degli immigrati, ha cominciato a lanciare messaggi poco amichevoli verso Parigi. Allora nel giorno della visita ufficiale a Tunisi del presidente del Consiglio, l’Eliseo ha deciso di porgere un ramoscello d’ulivo sulla vicenda immigrati. «È stato deciso di organizzare un vertice tra i ministri italiani e francesi – Esteri, Interni ed Economia – a cui parteciperanno anche il presidente Sarkozy e il presidente Berlusconi», si legge in una nota di palazzo Chigi. Non si conosce ancora la data precisa dell’incontro, ma Berlusconi ha assicurato che si terrà «presto». Anche perché, dopo il giochetto alla frontiera di Ventimiglia, dove si vedevano uscire e rientrare immigrati come se il confine fosse diventato una porta girevole, è arrivato – domenica – lo stop da Bruxelles. La commissaria Ue agli Affari interni Cecilia Malmstrom aveva ammonito la Francia sui respingimenti al confine.

Secondo la Malmstrom, Parigi non può respingere gli immigrati nordafricani provenienti dall’Italia, in quanto i confini nello spazio di libera circolazione di Schengen non esistono più. L’Ue aveva auspicato una soluzione bilaterale tra Francia e Italia. Ed ecco arrivare da Parigi la proposta del vertice congiunto. «Siamo in


l’analisi

Maroni, il ministro che non si ascolta Aveva previsto tutto, non è riuscito a gestire praticamente nulla: cronistoria di un fallimento di Maurizio Stefanini a una parte, nel Pdl circola addirittura la voce che il ministro dell’Interno Maroni abbia lasciato apposta che la situazione a Lampedusa degenerasse: apposta per permettere alla Lega di cogliere qualche dividendo di facile demagogia elettorale, salvo la decisione finale di un Berlusconi forse avvertito di volare lui nell’isola, per prendere in mano personalmente lui la questione. Dall’altro, c’è invece l’idea che far scoppiare la situazione per poi minacciare una concessione generalizzata di permessi di soggiorno che avrebbe poi impedito a Parigi di continuare a bloccare la frontiera di Ventimiglia sua stata una strategia calcolata a uso esterno: assieme al viaggio di Berlusconi in Tunisia e al riconoscimento di Frattini al Consiglio di Bengasi, la mossa che ha infine costretto Sarkozy ha smettere di snobbarci, ed ha convocarci a un vertice.

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Certo che se non si è fatto tutto apposta, diventa difficile inquadrare il modo di fare confusionario di un ministro dell’Interno che in questi ultimi anni si era fatta una solida fama di efficientismo decisionista. L’ondata delle rivolte arabe inizia il 18 dicembre dalla Tunisia, ed è il 14 gennaio che Ben Ali è costretto alle dimissioni. Ma è solo l’11 febbraio, lo stesso giorno in cui anche Mubarak è travolto, che Maroni inizia a parlare di “emergenza umanitaria”: dopo aver prima disposto di continuare con la normale opera di pattugliamento e respingimento, come se nulla fosse; e aver anche evocato l’”energenza terrorismo”. E solo dopo che il 13 febbraio sbarcano 1000 immi-

grati tunisini in meno di ventiquattr’ore, su pressione di sindaco e prefetto Maroni dispone di riaprire il centro di accoglienza di Lampedusa. Per rendersi conto che c’è un drammatico salto di qualità, ha dovuto provare a incontrarsi col ministro degli Esteri tunisino e vedersi rinviare l’incontro, perché con lo sviluppo delle contestazioni lo stesso ministro si è dimesso. In compenso, quando il 15 febbraio inizia la rivoluzione anche in Libia, a quel punto l’allarme dovrebbe essere già scattato. Ma mentre il governo cerca ancora di deci-

Qualcuno nel Pdl arriva a sussurrare che la crisi dei migranti sia stata lasciata montare ad arte dalla compagine lombarda dere se bisogna “disturbare” Gheddafi o no, la situazione invece peggiora, per la micidiale confusione che anche a livello di media viene fatta tra l’ondata già in arrivo dalla Tunisia, e quella non ancora in arrivo dalla Libia. Mentre l’Italia non sa che fare con la Libia, Maroni dice che ci sono 80.000 tunisini in arrivo, e propone di mandare militari italiani in una Tunisia in piena effervescenza. Respinto, ovviamente, al mittente. E allora Maroni se la prende con l’Ue.“L’Europa non ci aiuta!, si lamenta.“Maroni ha rifiutato il nostro aiuto”, lo rimbecca la Commissaria

un Paese amico per risolvere i nostri problemi in un clima di collaborazione e di amicizia», sono le frasi di circostanza espresse dal premier italiano, entrando nella sede del governo tunisino, dove era andato ieri per incontrare il premier Beji Kaid Essebsi. Ma la partita per Roma si gioca su più tavoli. Il primo è naturalmente quello tunisino e il premier ha portato in dono una linea di credito di 150 milioni di euro, messa disposizione dalla Farnesina, per il microcredito e le piccole attività economiche.Tanto per dire che l’Italia aiuta il nuovo gover-

Il 21 febbraio Maroni accoglie comunque la proposta Casini per un’unità di crisi aperta all’opposizione. Ma il 24 rilancia il catastrofismo: “arriverà un milione e mezzo di profughi”,“c’è un rischio Al Qaida”. Solo che questo milione e mezzo di persone, ripete il 28 febbraio, pensa che possano essere fronteggiata con la sola Mineo: da lui indicata come “modello di eccellenza dell’accoglienza”, che tanto c’è la rivolta dei sindaci locali a stopparlo. Infatti il 3 marzo, insistendo che l’Italia sarebbe

sia, l’Italia ha solo da perderci, un mare di gas e petrolio. E da guadagnarci, come ha detto il comico Maurizio Crozza, «solo gli immigrati». Comunque si sta lavorando «per una possibilità di rimpatrio. C’è la volontà del governo di Tunisi e nostra per farlo in modo civile», ha affermato ieri il Cavaliere, in

Sullo sfondo del viaggio del governo di Roma c’è la crisi dei rapporti con Parigi, genericamente sanati dalla proposta di Sarkozy per un summit sull’immigrazione no di Tunisi. Visto anche che, facendo due conti, questa rivoluzione sarebbe costata qualche miliardo di euro all’economia del Paese maghrebino. Poi c’è l’addestramento della polizia di frontiera e delle altre forze coinvolte nel controllo dei flussi migratori. Poi c’è la partita interna al governo, con la Lega Nord trincerata su posizioni oltranziste. Le dimissioni del sottosegretario agli Interni, l’ex An Alfredo Mantovano, hanno naturalmente complicato il quadro. Il sottosegretario oltre a protestare per le condizioni del campo profughi di Manduria, sosteneva anche l’approvazione di un permesso transitorio per gli immigrati. Fatto che avrebbe subito creato problemi alla Francia. E il vecchio governo di Ben Ali, il presidente cacciato dalla rivoluzione, era molto vicino all’inquilino dell’Eliseo. Nello scambio tra Libia e Tuni-

Malmstrim. “Non è vero che l’Italia ha rifiutato l’aiuto offerto dalla Commissione europea”, ribatte. “Ho sentito la commissaria sabato scorso (= il 19 febbraio) e ho avanzato alcune richieste, peraltro non nuove: l’intervento di Frontex per controllare il Mediterraneo, gestire i centri per gli immigrati e rimpatriare i clandestini, nonché il rispetto del principio del ’burden sharing’, che cioè siano tutti i paesi dell’Unione a farsi carico di rifugiati e clandestini. Rispetto a queste richieste per ora non abbiamo avuto risposta”. Berlusconi firma un’ordinanza di protezione civile che contiene le misure per affrontare l’emergenza immigrazione con la nomina del prefetto di Palermo a commissario straordinario e l’erogazione di fondi per la trasformazione in centro di accoglienza. del Villaggio degli aranci a Mineo, in provincia di Catania. Per cui: ho la battuta sugli 80.000 tunisini in arrivo era demagogia elettorale: oppure è una battuta l’idea di ospitare 80.000 persone tutte a Villaggio degli aranci. Il 21 febbraio si iniziano a trasferire da Lampedusa 200 immigrati con due voli: misura che, rispetto alla massa di gente che sta arrivando, è quasi come il proverbiale cercar di vuotare il mare con un secchiello.

conclusione degli incontri. «C’è un’assoluta volontà di trovare una soluzione. Il ministro dell’Interno lascia qui una commissione di tecnici al lavoro e domani (oggi, ndr) tornerà per verificare il lavoro fatto e sottoscrivere un accordo». «La Tunisia sta vivendo un momento difficile – ha poi sottolineato il premier italiano – e molti giovani deci-

“disponibile a fornire mezzi e personale di polizia per un maggiore controllo dei porti” della Tunisia, avverte che in ogni caso è pronto “un piano B: i prefetti fanno una ricognizione sul territorio per gestire la prima accoglienza”. Insomma, gli Aranci non bastano, e gli immigrati saranno ridistribuiti tra le varie regioni. L’impatto è comunque ridimensionato: 50.000 persone.

Ma il 7 marzo arrivano 1620 in 24 ore. E Maroni torna a dare segnali catastrofici.“L’allarme che avevamo lanciato era assolutamente fondato e c’è il rischio di una invasione di massa Abbiamo segnalazione di migliaia e migliaia di persone, di ragazzi, che si dirigono verso i porti di Zarzis e Djerba, nel sud della Tunisia. Noi siamo pronti a fare quel che abbiamo fatto con l’Albania negli anni ’80 ma da soli non ce la possiamo fare”.“Perché non mandano 10 navi da crociera per soccorrere questa marea umana che non può soffermarsi nell’isola?”, è la risposa domanda del governatore Lombardo il 15 marzo. Una prima nave, la San Marco, è inviata da Maroni una settimana dopo. Pure il 22 Maroni parla di redistribuire 50.000 persone sul territorio nazionale, in ragione di “uno ogni mille abitanti”. Ma poi il 23 spiega che si riferisce ai profughi che “arriveranno” dalla Libia: quelli di Lampedusa non sono rifugiati ma clandestini e dunque vanno rimpatriati in Tunisia. Il 28 dice che prima di rimpatriarli bisogna però mandarli in due aree militari dismesse. Il 31 arrivano infine le sei navi, che caricano tutti: ma invece di trasferirli uniformemente sul territorio nazionale li concentrano al Sud. L’ultima promessa: rimpatriare cento immigrati al giorno. Se la Tunisia accetterà effettivamente di collaborare…

dono di guardare all’Europa in cerca di libertà e di democrazia: è comprensibile la loro volontà di cercare una nuova vita in una situazione di civiltà e di benessere». L’esodo ha sicuramente comportato «inconvenienti, come quelli per una piccola isola che ha visto arrivare un numero di immigrati maggiore degli stessi abitanti. Questo ha creato difficoltà, ma siamo intervenuti, e da ieri sera (domenica, ndr) l’isola è ritornata ai suoi abitanti, perché siamo riusciti a dislocare in altre parti d’Italia i migranti. Ma questa notte ne sono arrivati già altri 800». Dunque, ha concluso il premier, «dobbiamo trovare una soluzione». Insomma, il tappo va messo in Tunisia, ma in un modo assolutamente «civile». Ma oltre i termini assolutamente generici del presunto accordo non c’è altro. Intanto a Lampedusa stanotte c’è stata una veglia di preghiera, guidata dal parroco dell’isola don Stefano Nastasi, che ha auspicato per i suoi poveri e dimenticati isolani – quanto i derelitti del mare – almeno «un momento di tregua».


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l’approfondimento

Salvini va oltre: «Stia attento chi, anche nel centrodestra, fa trapelare irrealizzabili ipotesi di permessi di soggiorno temporaneo»

Bossi attack!

Non solo la polemica sui migranti: va all’assalto di poltrone nei consigli di amministrazione e di visibilità autonoma nelle prossime amministrative. Reggerà l’alleanza con il Pdl? Ecco cosa hanno in mente gli uomini della Lega di Riccardo Paradisi e è vero che la Lega deve ancora capire che cosa vuol fare da grande – se essere partito di lotta o di governo – in compenso lo stato maggiore del Carroccio ha le idee chiarissime sulla strategia d’azione da impiegare a petto dell’emergenza migratoria che allarma il Paese e in vista delle prossime amministrative di maggio.

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Strategia d’attacco senza riserve per consolidare le posizioni esistenti ed estendere il proprio baricentro di potere territoriale. Strategia obbediente al solo richiamo del suono di cornamusa della jungle ideology che sull’elettorato leghista ha riflessi di risposta immediata. Strategia incurante della constatazione messa in chiaro da Ernesto Galli Della Loggia ieri sul Corriere della Sera, ossia che «Con l’ideologia leghista si può essere ottimi sindaci di Varese e perfino di Verona, ma non si riesce a governare l’Italia». Un ele-

mento di debolezza quello rilevato dall’editorialista del Corriere che la Lega, fedele all’idea che la miglior difesa sia l’attacco, rovescia in paradossale punto di forza costituendosi in pacchetto di mischia e d’offesa. Qualcosa che sa più d’etologia che di politica ma che finora ha funzionato e garantito la lunga durata dell’esercito di Umberto Bossi. Sono tre i fronti su cui la Lega si prepara a dispiegare la sua azione di forza. Il fronte delle amministrative – andare da soli dove possibile tallonare insidiare il Pdl dove si è costretti ad andare alleati; il fronte immigrazione, rilanciando la linea dura dopo le incertezze e gli errori del suo ministro Maroni; il fronte degli enti pubblici, intesi come casematte da occupare nella guerra di posizione per l’insediamento sul territorio. Primo fronte: le elezioni amministrative. Alle «Non è che Berlusconi concede, è la Lega che decide». All’i-

nizio dello scorso marzo il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, era stato molto chiaro parlando al direttivo federale nella sede di via Bellerio a Milano: «Ci sono undici province che vanno al voto e 1.300 comuni molti dei quali sono al nord. Noi decidiamo cosa fare, compresa la possibilità di andare da soli, e poi facciamo quello che abbiamo deciso». Intanto la Lega piazza il suo candidato alle comunali di Bologna collocando il suo Manes

Al premier arriva anche l’invito per un passo indietro sulla giustizia

Bernardini costringendo il Pd all’accordo e a schierarsi sulla scelta del Carroccio. Lega e Pdl si presenteranno alle elezioni del 15 maggio ognuno con il proprio simbolo sulla scheda, in sostegno del candidato sindaco Bernardini. Candidati leghisti saranno anche quelli alle presidenze delle provincia di Mantova e Treviso. Silvio Berlusconi capisce il pericolo d’un eccesso di autonomismo leghista e a Milano, capoluogo d’una regione

che la lega ha preso d’assedio, prende le contromisure per arginare gli appetiti del Carroccio.

Domenica 17 aprile Berlusconi sarà presente alla kermesse ufficiale di presentazione del programma e dei candidati ma sarà in compagnia di Bossi la cui presenza è stata chiesta dalla Moratti per non indispettire troppo il Carroccio che ha già schierato come candidato vicesindaco


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Il politologo Paolo Feltrin analizza la nuova strategia di via Bellerio

«Ma il Carroccio alza la voce per nascondere le sue sconfitte» «Maroni aveva già intuito l’emergenza di Lampedusa, ma non è riuscito a trovare una soluzione perché occorre il sostegno del Nord» di Franco Insardà

ROMA. «La Lega attacca per difendersi» ne è convinto il politologo Paolo Feltrin, professore di Scienza dell’Amministrazione dell’università di Trieste. Eppure, professore, si ha l’impressione che gli esponenti del Carroccio abbiano assunto un atteggiamento molto netto soprattutto sull’immigrazione. È un tentativo di mantenere una posizione nei confronti del loro elettorato tradizionale, così come l’idea di chiedere posti è un modo di alzare il prezzo e dimostrare la loro indispensabilità nella maggioranza. Secondo qualche sondaggista la questione immigrati potrebbe far perdere 3 punti in percentuale alla Lega: è d’accordo? È una semplificazione che mi convince poco. Quello degli immigrati è l’argomento che può fare da argine all’effettiva difficoltà che ha con il suo elettorato. Il problema principale è l’estinguersi dell’orizzonte ideale e della sua ragion d’essere. La questione federalismo fa perdere più voti, dal momento che gli elettori leghisti sono delusi da questa riforma che non significa affatto “Padania libera”e dagli atteggiamenti della dirigenza che non fa nulla contro “Roma ladrona”, ma anzi si insedia nella Capitale. Alcuni esponenti del Pdl hanno preso le distanze dalle posizione leghiste: sta cambiando qualcosa nell’alleanza? Il Pdl non ha alternative immediate alla Lega, anzi dovrà porsi il problema dell’allargamento della maggioranza. C’è un oggettivo punto di forza sul quale il Carroccio può contare: senza il Nord non si governa. La Lega, però, dimostra di essere in difficoltà ogni volta che c’è da fare un governo nazionale. Maroni è considerato un bravo ministro, non ha avuto problemi finché c’è stato da varare le cosiddette leggi manifesto, più per accontentare un’identità, che per ottenere risultati, come quella sulle ronde. Oppure quando si è trattato di intervenire contro la criminalità organizzata, obiettivo facile dal momento che è diventata una sorta di lotta al meridione. Quando, invece, bisogna farsi carico nazionalmente di un problema, che solo casualmente ha la sua origine al Sud, come la vicenda immigrati a Lampedusa la questione si complica. Eppure Maroni aveva intuito la cosa già a gennaio. Infatti non era assolutamente impreparato, ma non è riuscito a trovare una soluzione perché occorrerebbe la cooperazione del Nord e qui nasce la

sua difficoltà. Inoltre sarebbe necessaria un’azione di governo nazionale che mal si concilia con l’ipotesi di federalismo secessionista, tipico della propaganda leghista. A questo si aggiunge che se c’è una forza antieuropeista questa è la Lega, ma il ministro Maroni è stato il primo a invocare la solidarietà dell’Unione europea per la vicenda di Lampedusa. È paradossale, ma dà l’idea dell’oggettiva debolezza di partiti local-territoriali.

«Quello degli immigrati può essere un argine per l’effettiva difficoltà che ha con il suo elettorato» È di questi giorni anche anche lo scontro con Formigoni sul modello di federalismo. Vengono al pettine alcuni nodi di ambiguità che il nostro Paese si trascina da almeno venti anni. Nei comizi del Carroccio lo slogan principale è “Padania libera” che fa presupporre appunto l’ipotesi separatista. Con queste premesse è im-

pensabile governare una nazione, mentre la Lega da qualche anno deve registrare in alcune aree, dove è forte, un’insofferenza elettorale. E il tentativo di piazzare suoi uomini nelle partecipate? Fa parte comunque della strategia del governo locale ed è tipico della logica spartitoria di sottogoverno. Anche nella Prima Repubblica il Pci utilizzava gli stessi metodi. Ma il governo del Paese è tutt’altra cosa e su questo terreno emergono le contraddizioni della Lega. Come spiega questo atteggiamento di Bossi e dei suoi? Che la Lega in questo momento sia sulla difensiva è evidente da molti segnali. Una poltrona come quella di ministro dell’Interno che in tempi normali è ambita ed è, tutto sommato, tranquilla, si sta dimostrando un letto di Procuste. In che senso? Come abbiamo più volte osservato la Lega assomiglia non tanto alla vecchia Dc, ma al Pci, riuscendo a governare bene localmente e interpretando il ruolo del partito di lotta e di governo quando amministra comuni e province. Tutto, invece, diventa più complicato quando si tratta della politica nazionale. Basta ricordare, continuando nel parallelo, che i guai del Pci cominciarono proprio quando si avvicinò all’area di governo sia nel periodo ’76/’79 del compromesso storico, sia negli anni ’90. Come lo spiega? Il Pci allora, come la Lega oggi entrano in contraddizione con alcuni miti che contraddistinguono la loro identità. La sinistra con l’ala pacifista e sindacale, il Carroccio con le spinte secessioniste padane. E a ribadire il carattere territoriale aggiungerei che la Lega sta a Lombardia e vento come il Pci stava a Tosca a ed Emilia Romagna. Proprio in Emilia e in altre regioni la Lega sta cercando di conquistare spazi: è un modo per smarcarsi dal Pdl? La Lega ha dei tetti naturali di consenso, oltre ai quali fa fatica ad andare. In molte zone del Nord ha già raggiunto la sua massima espansione ed è quindi naturale che cerchi altri ambiti dove non è molto forte e nei quali ha più possibilità di allargare il proprio elettorato. In quest’ottica va letta la vicenda emiliana e la candidatura leghista al comune di Bologna.

Matteo Salvini. Lo stesso Berlusconi sarà di nuovo a Milano otto giorni prima del voto, per la chiusura politica della campagna elettorale, che potrebbe tenersi al Castello Sforzesco. Intanto la Lega persegue una tattica di non coinvolgimento nelle questioni che agitano il governo e preoccupano il presidente Berlusconi: dalla partita sui processi a quella delle Giustizia passando per le risse da rimpasto.

«Ora, che la giu st izia vada riformata è assodato – dichiara Matteo Salvini – Ma in una situazione così è difficile, se non impossibile, prevedere come uscirne. Certo, se tutti, e dico proprio tutti, facessero un passo indietro...». Secondo fronte, quello dell’immigrazione. Basterebbero anche in questo caso le parole di Matteo Salvini, ancora lui, a spiegare quale sarà il contegno della Lega anche all’interno della maggioranza: «Ora dobbiamo chiudere gli arrivi e avviare i rimpatri. Stia bene attento chi, anche nel centrodestra, lascia trapelare irrealizzabili ipotesi di decine di migliaia di permessi di soggiorno temporaneo». La Lega sarà dunque una forza di governo che ha dato prove di grande lealtà, come dice Quagliariello, che non si capacità di come il Carroccio possa pensare di fare uno spot elettorale lungo un mese e mezzo su un tema epocale come quello dell’immigrazione, ma che la tendenza sia proprio questa è qualcosa di più che un’impressione. Considerando anche l’ultima proposta di legge presentata il 15 marzo ed annunciata ieri alla Camera quella sulla costituzione degli eserciti regionali, sul modello della Guardia nazionale americana, «che siano pronti a intervenire in caso di calamità naturali, di gravi attentati, di incidenti alle infrastrutture o ai siti produttivi e per mantenere l’ordine pubblico qualora il Consiglio dei ministri o i Governatori regionali lo deliberino». Il provvedimento, che porta la firma di quasi tutti i componenti del gruppo del Carroccio (ad eccezione del capogruppo Marco Reguzzoni) prevede che le squadre siano composte, tra l’altro, da cittadini italiani volontari cessati dal servizio senza demerito con età inferiore ai 40 anni. Terzo fronte quello degli enti pubblici: È vero che sono state bloccate delle nomine leghiste alla terna all’Enel e in Finmeccanica. Ma i leghisti ci sono arrivati vicino la notizia è questa e gli uomini del Carroccio. I suoi uomini sono saldamente piazzati nelle fondazioni che controllano le più importanti banche del Piemonte e del LombardoVeneto.


diario

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Oggi al via il Democrazia Day ROMA. Un network di protesta. A meno di ventiquattro ore dalla Giornata della Democrazia, ieri il web italiano si è lanciato in fermento. Appelli, raccolte di firme, discussioni e migliaia di commenti. Tanti interventi, un segno comune: dire no all’ennesima legge ad personam per Silvio Berlusconi. A quel combinato di processo e prescrizione breve che oltre a trasformare il premier in un cittadino al di sopra della legge, rischia di inceppare la macchina della giustizia italiana. Per tirare la volata alle mobilitazioni di piazza - a Roma, dalle 14 in piazza Montecitorio e dalle 20 alle 24 in piazza Santi Apostoli - con l’attivismo e la partecipazione sul web. Tantissime le attività, virtuali e reali.

La Lega pensa al suo esercito

Abruzzo, la strada è tutta in salita

ROMA. Costituire degli eserciti

L’AQUILA. A due anni di distan-

regionali, sul modello della Guardia nazionale americana, che siano pronti a intervenire in caso di calamità naturali, di gravi attentati, di incidenti o ai siti produttivi e per mantenere l’ordine pubblico qualora il Consiglio dei ministri o i Governatori regionali lo deliberino. È l’obiettivo che si propone di raggiungere la Lega con la proposta di legge presentata il 15 marzo e annunciata oggi alla Camera. Il provvedimento, che porta la firma di quasi tutti i componenti del gruppo del Carroccio (ad eccezione del capogruppo Reguzzoni) prevede che le “milizie” siano composte, tra l’altro, da cittadini italiani volontari cessati dal servizio senza demerito con età inferiore ai 40 anni.

za dal terremoto, sono ancora 37.733 (15 mila in meno rispetto al 2010) le persone assistite in Abruzzo. Poco meno di 23mila risiedono in alloggi Map (le famose casette), in 19 new town; circa 13 mila sono beneficiarie del contributo di autonoma sistemazione (200 euro a persona ogni mese) e 1.328 sono ancora in strutture ricettive abruzzesi e nelle caserme. In questi giorni sono tutti in fermento. Si attende l’ordinanza, l’ennesima, che dovrebbe finalmente chiarire tutti i dubbi su come debbano essere i progetti da presentare all’approvazione, per aver poi i rimborsi. E se in Giappone sono bastati 6 giorni per costruire un’autostrada qui ci sono voluti in media 8-10 mesi per ripartire.

Imputato per corruzione, sarebbe stato secondo i magistrati “socio occulto” dall’interno di Palazzo Chigi. Nuovo blitz in Commissione

La giustizia al tempo di Berlusconi I pm del processo Mediatrade vogliono vedere il premier in aula di Marco Palombi uesto lunedì il presidente imputato non ha potuto assolvere al suo ruolo: era in Tunisia a cercare di bloccare l’emorragia di migranti che parte da quelle coste verso Lampedusa. La storia giudiziaria della sua premiership però è andata avanti lo stesso: ieri s’è infatti tenuta l’udienza preliminare del processo Mediatrade, in cui Silvio Berlusconi è accusato – in concorso con altre 11 persone, tra cui suo figlio Pier Silvio e il presidente di Mediaset Fedele Confalonieri – di appropriazione indebita e frode fiscale. Come previsto il pm Fabio De Pasquale ha chieso al gup Maria Vicidomini di rinviare a giudizio il presidente del Consiglio e i coimputati, le difese hanno negato che l’accusa abbia un qualche fondamento: la decisione è prevista entro maggio. Più interessanti, però, sono le opinioni espresse in udienza dal pubblico ministero: Berlusconi frodò il fisco «anche quando era presidente del Consiglio», di più il reato viene contestato fino al 2009, ma «a quanto ne so potrebbe essere ancora in corso», avrebbe detto De Pasquale (l’udienza preliminare si tiene a porte chiuse). D’altronde sulla questione dei diritti tv – la fonte della frode – «in Mediaset cambiano i manager, ma non cambia nulla»: vale a dire che, secondo l’accusa, le pratiche illegali proseguono nonostante l’avvicendarsi di diversi amministratori perché, a garantire continuità, è la volontà di Silvio Berlusconi. Indagine complessa, quella per il processo Mediatrade, dice il pm, resa ancor più difficile dagli ostacoli che le sono stati frapposti: «C’è stata un’attività di ostruzione sulle rogatorie, basti ricordare che non abbiamo ricevuto neanche una risposta da Stati Uniti, Irlanda e Hong Kong».

Sul processo breve è probabile che oggi PdL, Lega e Responsabili tentino un nuovo blitz per portarlo al voto per primo: la scorsa settimana, la maggioranza aveva già portato a casa il risultato, ma poi s’era incartata tra le parolacce di Ignazio La Russa, un’ingenuità del segretario d’aula Simone Baldelli e la voglia di andare a casa giovedì di molti parlamentari di maggioranza

Q

Fin qui la cronaca di ieri, ma occorre forse ricordare cos’è e come nasce questo processo (uno dei quattro che vedono attualmente coinvolto il presidente del Consiglio). Le radici di Mediatrade sono lontane e si intrecciano con più an-

tichi procedimenti a carico del Cavaliere: in particolare il peccato originale sta nelle indagini (e relativi due processi) su All Iberian, la catena di società off shore con cui Berlusconi controllava il suo impero e di cui ha a lungo negato l’esistenza (negli anni Novanta arrivò a giurare sui suoi figli, oggi che quelle aziende siano sue non lo mettono in dubbio nemmeno i suoi legali). Il premier uscì indenne dalle sentenze All Iberian: prescritto nel primo caso, assolto nel secondo perché il falso in bilancio non era più previsto dalla legge come reato. È’appena il caso di ricordare che la legge la cambiò proprio Berlusconi durante il suo secondo governo, ma è invece necessario riportare a galla che fu proprio in quel dibattimento che l’avvocato inglese David Mills – architetto della sud-

detta catena di scatole cinesi off shore – mentì in Tribunale per salvare l’attuale capo del nostro governo, il quale lo ricompensò con 600mila dollari: una verità, questa, sancita dalla Cassazione che ha in parte prescritto il legale londinese ma ha confermato la ricostruzione dei fatti tanto da costringerlo a risarcire… la presidenza del Consiglio. Come che sia, indagando su questa complicatissima struttura off shore, i pm hanno individuato strani movimenti di soldi intorno alla compravendita dei diritti cinematografici internazionali da parte di Mediaset. Il gruppo milanese, infatti, non acquisiva direttamente dalle case di produzione, ma comprava tramite intermediari, ovviamente con sede in paradisi fiscali. Di più, l’intermediario non era neanche uno solo, ma diversi, e ad ogni

passaggio questi diritti finivano per costare un po’ di più: secondo l’accusa, in questo modo Mediatrade (il braccio operativo di Mediaset per i diritti) creava una provvista di fondi neri nella diretta disponibilità dei manager e di Silvio Berlusconi, mero proprietario giusta la legge Frattini.“Socio occulto” del premier, un potente agente cinematografico di origini egiziane, Frank Agrama.

È da questo filone d’indagine che scaturiscono due processi ancora in corso: diritti tv e, appunto, Mediatrade, che riguarda gli anni più recenti (appropriazione indebita fino al 2006, frode fiscale fino al 2009). Non di soli soldi, però, vive il premier sulla terra e dunque non va dimenticato che domani inizia a Milano (assente l’imputato) il famigerato


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Istat, cala il rapporto deficit-Pil: nel 2010 al 4,5%

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

ROMA. Scende il deficit pubblico nel 2010. Secondo i dati diffusi dall’Istat l’indebitamento netto delle amministrazioni pubbliche l’anno scorso si è attestato al 4,5% rispetto al 5,3% dell’anno precedente. Nel quarto trimestre il deficit è stato pari al 3,8% dal 4,1% dello stesso periodo del 2009. Sempre nell’ultimo trimestre 2010, il saldo primario è stato positivo per 3,712 miliardi, con una incidenza sul Pil di +0,9%. Nel 2010, però, è stato negativo per lo 0,1%. Il saldo corrente (risparmio) è stato positivo nel trimestre per 999 milioni, con un’incidenza sul pil di +0,2%. Negli ultimi tre mesi del 2010, le entrate totali sono scese dello 0,6% su anno, il rapporto tra entrate totali e pil è stato pari al 53,8%; nel 2010 le entrate totali sono aumentate dello 0,9%, con un’incidenza sul Pil del 46%. Le entrate correnti sono aumentate del 2% su anno, per la crescita delle imposte indirette (+2,7%), di quelle dirette (+3,2%) e dei contributi sociali

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

(+1,1%) e il calo delle altre entrate correnti (-3,8%). Il crollo delle entrate in conto capitale (-82,9% su anno) si deve al venir meno di versamenti una tantum. Sul fronte delle uscite, le totali sono scese dell’1% su anno, con un rapporto sul Pil del 57,6%; nel 2010, le uscite totali hanno segnato -0,7%, con un’incidenza sul pil del 50,5%. La spesa corrente è salita dell’1,5% tendenziale nel trimestre, trainata da redditi da lavoro dipendente (+0,9%) e dai consumi intermedi (+0,7%).

Da sinistra l’avvocato Mills, Ruby Rubacuori e il deputato di maggioranza Paniz

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

processo Ruby per prostituzione minorile e concussione, in cui – si dice – la giovane marocchina potrebbe costituirsi parte civile (sarebbe una bruttissima notizia per il Cavaliere).

Le centinaia di troupe e giornalisti stranieri che non potranno assistere alle udienze – vietate le telecamere – oggi pomeriggio avranno però un piccolo antipasto: alla Camera infatti si vota per il conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale. In sostanza la maggioranza ritiene che il Cavaliere debba essere processato dal Tribunale dei ministri: ora, a parte che Montecitorio non è parte in causa nel processo, il fatto è che non c’è nessun atto contro cui “sollevare conflitto”visto che gli avvocati di Berlusconi si sono ben guardati dal chiedere al giudice di decidere sul punto. Così fosse stato, infatti, della cosa avrebbe dovuto occuparsi il giudice naturale, la Cassazione, la cui giurisprudenza in merito è abbastanza univoca da far disperare i legali del premier: in questo modo invece si butta tutto in politica e si coinvolge la Consulta - che boccia oltre il 90% dei conflitti di attribuzione parlamentari - solo per poter dire che si tratta di un organo politico eccetera eccetera. Nessuna riflessione di merito, in ogni caso, farà sì che la Camera si risparmi questo happening pomeridiano. Oggi si voterà: servono 316 voti - e probabilmente ci saranno - in modo che (non per scatenare connessioni irrispettose) “l’utilizzatore finale”del Parlamen-

Oggi la Camera vota per il conflitto di attribuzione alla Corte costituzionale. Il Pdl vuole il Tribunale dei ministri to sia soddisfatto. Che, d’altronde, la partita la si voglia chiudere alle Camere e non in Tribunale è fatto evidente: dopo il clamoroso autogol della settimana scorsa, in aula a Montecitorio tornano questa settimana la legge Comunitaria (in cui è stata piazzata la mina della responsabilità civile dei magistrati) e, a seguire, il fondamentale processo breve con la ovviamente breve prescrizione che ucciderebbe il processo Mills e mettere parecchia fretta ai giudici di quello sui diritti tv. Proprio sul processo breve, peraltro, è probabile che già oggi PdL, Lega e Responsabili tentino un nuovo blitz per portarlo al voto per primo: come si ricorderà, la scorsa settimana, la maggioranza aveva già portato a casa il risultato, ma poi s’era incartata tra le parolacce di Ignazio La Russa, un’ingenuità del segretario d’aula Simone Baldelli e la voglia di andare a casa giovedì

di molti parlamentari di maggioranza. Settimana piena dunque, ma c’è chi vuole sempre stare un passo avanti agli altri: è il caso di Maurizio Bianconi, focoso deputato aretino proveniente da An, avvocato di professione, assurto agli onori delle cronache ad agosto quando – dopo aver sostenuto che il capo dello Stato stava “tradendo la Costituzione”– il Quirinale gli rispose a brutto muso: allora chieda l’impeachment.

Oggi Bianconi ha deciso di fare qualcosa di più che mettersi in imbarazzo da solo e ha presentato una bella proposta di legge per tagliare la testa al toro su un problema che al Cavaliere sta assai a cuore: va bene utilizzare le intercettazioni per fare le indagini, ma poi divieto assoluto alla pubblicazione e persino all’uso nel processo. Tradotto: non vanno nemmeno trascritte. Sai quanto starebbe meglio il mondo in generale, e il premier in particolare, se non dovesse leggere un’intercettazione in cui gli si dà del fondoschiena “flaccido”? La faccenda, pare, alla fine si risolverà in piazza: all’invito caudillista del Guardasigilli Alfano a scendere in strada per difendere la riforma “epocale” della giustizia, ieri ha risposto Bersani dandogli del “servo” e annunciando che in strada scenderà il Pd. Dal che si deduce una cosa sola: non basta più, con Aldo Moro, dire no ai processi nelle piazze, bisogna pure attrezzarsi per evitare che, nelle piazze, qualcuno si faccia assolvere.

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il paginone

Parla il presidente della sezione di Roma, Benedetto Coccia: «Non abbiamo un nostro linguaggio, nostri canti o segni liturgici. Parliamo la lingua di tutta la comunità cristiana» i parla poco dell’Azione Cattolica. Sembra quasi che la “Chiesa dei Movimenti” l’abbia messa in secondo piano, per una diversificazione delle esperienze associative tesa più a valorizzare singole intuizioni (in ecclesialese si direbbe i “singoli carismi”) che cammini e realtà di grande tradizione. Eppure l’AC è viva, e di nuovo al centro delle attenzioni e delle attese dei Vescovi e del Papa, soprattutto in Italia, e tanto più in una stagione in cui c’è da rimodulare e dare forme nuove – ma non estemporanee – al contributo dei laici cristiani alla vita della Chiesa e della società. Liberal ha parlato di questo impegno col presidente dell’Azione Cattolica di Roma, Benedetto Coccia, 43 anni, storico, ricercatore e Coordinatore scientifico presso l’Istituto San Pio V, da sempre nell’Associazione. «In effetti – esordisce Coccia – ciò che caratterizza l’Azione Cattolica rispetto ad altre realtà ecclesiali è appunto il suo “modo” di stare nella Chiesa, il suo stile. Noi non abbiamo un “nostro” linguaggio, nostri canti o segni liturgici, parliamo il linguaggio della comunità cristiana tutta. La specifica caratteristica dell’Azione cattolica è di non avere una missione speciale se non quella della Chiesa intera, e così si spiega il particolare legame che lega l’Associazione al Papa ed ai Vescovi, che ci fa diversi dai Movimenti e da altre esperienze». Guardando un po’ al panorama romano, la percezione è quella di una diffusione non grandissima dell’Azione Cattolica, ma forse si tratta di un dato di visibilità più che di sostanza. Il fatto però rileva, perché se è vero che il luogo dell’Azio-

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ne Cattolica è la parrocchia, un rapido viaggio nelle parrocchie cittadine porta a constatare quasi immancabilmente la grande assenza in esse della generazione dei 30/40enni, quella che esordisce davvero nei fronti del lavoro, della famiglia, della vita sociale e a cui il cammino formativo dell’Associazione dovrebbe indirizzarsi in una maniera quasi preferenziale. «In parte forse è vero – dice Coccia - ma la vita delle parrocchie romane sta profondamente cambiando. Per esempio, se si vogliono incontrare gli universitari occorre andare in parrocchia dopo le 21,00. Certo la fascia dei 30/40 enni è quella che in assoluto fatica maggiormente, anche nella società civile, e per la quale probabilmente la pastorale non riesce ad elaborare una proposta adeguata, ma ci stiamo attrezzando e alcune esperienze in realtà già ci sono».

Quanto alla presenza specifica di AC, «è sicuramente ancora molto diffusa. Noi ci rivolgiamo ad ogni età (ragazzi, giovani, adulti), offriamo una formazione personale ma anche una concreta esperienza di Chiesa, un “luogo” accogliente nel quale maturare la propria fede per scoprire la propria vocazione al servizio della comunità cristiana e della società. Poi c’è da dire che Roma è un caso unico nel suo genere, pure a livello ecclesiale, con tutte le sue varietà e ricchezze, con tutti i Movimenti del mondo presenti. Nonostante questo l’Azione Cattolica è presente in circa 100 parrocchie e in questi ultimi anni la sua specificità sembra nuovamente apprezzata, dopo un lungo periodo in cui era stato un po’ sva-

Gli azioni

Un viaggio nell’Azione cattolica, sempre di più al centro di nuove aspettative sociali (e politiche) da parte dei vescovi e del Papa di Francesco Iacobini lutato il ruolo della comunità cristiana radicata nel territorio (la parrocchia). È stato Giovanni Paolo II a richiamare la centralità della parrocchia, e in questo l’Azione Cattolica trova un suo compito di cui sembra che ultimamente i parroci romani si stiano nuovamente rendendo conto».

La diversità delle esperienze ecclesiali, però, rende forse necessario definire meglio anche la specificità di ciascuna di esse, in modo che chi lo desidera possa eventualmente avvicinarsi con motivazioni chiare, e anche per non dare la sensazione di una Chiesa articolata in una molteplicità di gruppi la cui ragione profonda e la cui distinzione restano difficili da cogliere. Ec-

co, oggi cosa significa essere Azione Cattolica? «Sicuramente, rispetto alle tante “offerte” del panorama ecclesiale, Azione Cattolica vuol dire una esperienza di gruppo, ecclesiale, parrocchiale, associativa, democratica, e ognuno di questi aggettivi meriterebbe un serio approfondimento», risponde Coccia. «I laici di AC sono dei battezzati che prendono sul serio il proprio battesimo, che hanno compreso la dimensione comunitaria della fede e che si sentono, come Papa Benedetto XVI ci ha ricordato in occasione del 140° anniversario dell’Associazione, chiamati personalmente alla santità. Ho detto prima che la nostra missione non è speciale, ma è quella della Chiesa inte-


il paginone l’impegno per gli altri e per la città. Certo, forse non sembriamo “attrattivi” come altri, anche perché nella società dell’apparire una esperienza che forma ad essere è di per sé poco attrattiva. E però siamo convinti questa scelta alla fine pagherà, perché nel tempo delle appartenenze multiple, in cui durante la settimana si è studenti modello per abbandonarsi allo “sballo” del weekend o si è devoti cristiani la domenica per comportarsi da “squali” gli altri giorni sul posto di lavoro, la proposta di essere cristiani a 360° è impegnativa ma, a mio avviso, l’unica possibile».

L’Azione Cattolica vive anch’essa le stagioni della Chiesa, e quella attuale è particolarmente intensa. C’è un pontificato come quello di Benedetto XVI, altissimo e insieme profondissimo, che affronta le questioni e non le aggira. C’è una discussione ampia sulla riforma della Chiesa, e insieme sul rapporto con la Tradizione, con la Liturgia e sull’interpretazione del Concilio. Su questi temi l’Azione Cattolica spesso è frettolosamente associata al campo dei “novatori”, ma l’etichettatu-

Dopo la parcellizzazione di esperienze, colpisce l’insistenza sul servizio alla missione e alla vocazione

isti di Dio ra, e qui vorrei soffermarmi in partico- te da cammini più particolari, ove collare su un’altra nostra caratteristica tivare stili, forme e domande peculiari, “fondante”, che è la scelta democrati- con modalità più originali e identificaca fatta nello Statuto del 1969 e ribadi- tive. In questo contesto, l’Azione Catta in tutte le versioni successive. Da tolica sembra meno attrattiva. Perché noi la democrazia si vive e si manifesta un giovane o un adulto dovrebbero nell’elezione dei responsabili, i cui in- parteciparvi? carichi hanno una durata determinata «Direi perché diamo priorità alla fore non possono essere ricoperti per più mazione personale, all’impegno a servizio dell’edudi due mandati, e cazione e al non c’è posto per servizio specipersonalismi o per fico alla Chiecapi carismatici; sa e alla città piuttosto, si vive di Roma, couna significativa me abbiamo esperienza di fede e stabilito ansi fa un’autentica che nella no“palestra di demostra Assemcrazia”, merce rara blea dello di questi tempi…». scorso noIn un’epoca di parvembre. E cellizzazione di perché ci preesperienze e perme una forcorsi, talvolta anmazione non che tra cristiani, finalizzata a colpisce l’insistenza Il logo dell’Azione cattolica. “fare qualche sul servizio alla In alto, la consegna della croce dei giovani cosa” (educamissione della della Gmg. Nella pagina a fianco, tore, catechiChiesa tout court, e Benedetto XVI benedice i membri dell’Ac sta, operatore quindi alla vocazione unitaria, diocesana e parrocchiale della carità) ma piuttosto a conformadell’Azione Cattolica. Resta però il fat- re a Cristo, a radicare un’autentica to che molte persone sembrano attrat- identità cristiana, da cui poi deriva

Karol Wojtyla era un uomo «completo, totalmente uomo e totalmente consacrato a Dio, in grado di guardarti negli occhi»

ra è generica e superficiale come tutte le classificazioni, tanto più quando si tratta di Chiesa. «Sì, è vero, queste classificazioni sono prive di senso, anche se giornalisticamente inevitabili, forse» sostiene Coccia. «Questa è certamente una stagione complicata, ed è il Papa il primo a sottolinearlo con coraggio. Però se siamo “capitati” in questo momento storico non è un caso, e direi che la nostra fede non è nostalgica per un passato che non c’è più. Ci impegniamo qui e ora, e fortunatamente oggi la Chiesa è guidata da un Pastore che ad una infinita cultura teologica ed umanistica affianca una rara capacità di attualizzazione. Anche questa dialettica tra innovatori e tradizionalisti appartiene solamente al dibattito sulla vita della Chiesa e non a quello nella vita della Chiesa. È più una rappresentazione che una realtà, anche perché la Tradizione rappresenta uno dei pilastri della nostra fede». Alle grandi questioni che sembrano agitare la scena ecclesiale si affiancano poi quelle più tipiche della Chiesa italiana, che ha vissuto decenni ricchi di avvenimenti, dibattiti, progetti e anche contrasti, in un susseguirsi di fronti sempre nuovi e sempre diversi.

La Chiesa ha dato corpo alla ripresa e alla ricostruzione del Paese, ha ispirato e supportato la Democrazia Cristiana, ne ha accompagnato la crisi, ha assistito al passaggio tra “Prima” e “Seconda” Repubblica, ha affrontato le conseguenze della secolarizzazione, i vari referendum, l’applicazione del Concilio nella propria vita pastorale, la dialettica anche energica tra visioni ed esperienze associative, quindi l’esplosione delle Leghe, l’avvento del berlusconismo, la crisi dell’Occidente e le nuove questioni antropologiche. Una cavalcata frenetica di più di mezzo secolo, insomma, che certo non ha lasciato dormire sonni tranquilli. Il Pre-

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sidente romano di AC ne conviene: «Sicuramente, è stata una stagione lunga e non comune. Oggi poi c’è il nuovo impegno della Chiesa sul fronte della cultura, nel tentativo di riconciliare vita di fede e vita vissuta, che è certamente figlia di una visione antropologica a sua volta discendente da una riflessione culturale. Noi dobbiamo educare persone non scisse, non separate in sé stesse, e per questo parlavo dello sforzo dell’AC di formare cristiani a 360°. In tal senso i cristiani non debbono più arzigogolare su visibilità o mescolanza, su mediazione o presenza, sono cose vecchie, datate. Oggi si tratta davvero di essere luce e lievito, e la luce nascosta non serve a nessuno, come il lievito, se non è mescolato nella pasta, non svolge la sua funzione. D’altra parte nel contesto attuale sarebbe anche difficile per un cristiano non distinguersi, perché in una società, in una politica prive di speranza perché prive di progetto e di futuro, la presenza dei cristiani dotati di una speranza “certa e affidabile”(per dirla come Benedetto XVI) appare quanto mai indispensabile». Coccia ha 43 anni, è quindi un “adulto-giovane” della generazione-Wojtyla. Liberal gli domanda cosa ha rappresentato il Papa polacco, Beato dal prossimo 1° maggio, per la sua vita e la sua formazione di giovane, e di giovane romano impegnato nella Chiesa.

«Per 6 anni, come Responsabile dell’Azione Cattolica Ragazzi di Roma, sono andato nel suo studio privato per il lancio delle colombe della pace, l’ultima domenica di gennaio» risponde. «Karol Wojtyla era un uomo completo, totalmente uomo e totalmente consacrato a Dio, in grado di guardarti negli occhi e di farti sentire al contempo infinitamente piccolo al suo cospetto e insieme infinitamente grande nella sua considerazione e in quella di Dio. A parte questo dato più personale, comunque, egli ha messo al centro del suo messaggio l’originaria vocazione alla santità di ogni battezzato, come era stato affermato dal Concilio, dando senso pieno a quel concetto di “santità laicale” che forse, agli inizi, faceva un po’ fatica ad essere acquisito da tutti. Non è un caso, tra l’altro, che tantissimi Santi e Beati riconosciuti durante il suo pontificato siano appunto dei laici». Un ultimo pensiero lo dedichiamo alla Diocesi di Roma, al suo stato di salute e al ruolo dell’Azione Cattolica in essa. «La Chiesa a Roma sta bene, anche se sembra avere a volte il fiato un po’ corto, ma essenzialmente perché per la sua missione è una Chiesa che ha il respiro dell’umanità. È una realtà unica, che vive le ansie e le gioie della Chiesa di tutto il mondo e che vive in una città che è essa stessa, per sua vocazione, universale. Noi, come Azione Cattolica diocesana, vogliamo prepararci a essere sempre di più al servizio di questa peculiare dimensione romana, rilanciando il nostro impegno in forme sì diffuse, ma comunque qualificate, esigenti, non meramente attivistiche. Preferiamo costruire su basi solide, più che su emozioni di una stagione, perché non siamo chiamati a fare animazione ma a rispondere alla chiamata dei nostri Vescovi, che ci chiedono di educarci ed educare alla vita buona del Vangelo».


la crisi libica

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Ieri la svolta dopo l’incontro con Ali Al Isawi, “ministro degli Esteri” del Cnt. Gheddafi: «Stop alle bombe o lascio tutti senz’acqua»

Roma riconosce Bengasi

Frattini “scarica” il Raìs: il governo dei ribelli è «l’unico interlocutore legittimo». E non esclude l’invio di armi come estrema ratio di Luisa Arezzo l dado, finalmente, è tratto. L’Italia ha riconosciuto il Consiglio nazionale transitorio (Cnt) libico come «unico interlocutore legittimo» e si è spinta anche oltre, non escludendo l’ipotesi di armare i ribelli come «extrema ratio per progeggere la popolazione civile». Dopo giorni di ingiustificata ambiguità e arrivando in coda alle analoghe decisioni prese già da Francia, Portogallo e Stati Uniti, ieri Franco Frattini, il nostro ministro degli Esteri, ha fatto sapere che «Gheddafi non è più un interlocutore credibile». Liberal lo sosteneva da tempo, e da tempo (vedi la copertina del giornale del 26 marzo scorso) spingeva affinché la politica estera italiana facesse una scelta di campo netta. La svolta durante l’incontro di ieri alla Farnesina con il “ministro degli Esteri”del Cnt di Bengasi, Ali Al Isawi (ex ambasciatore a New Delhi e tra i primi a dissociarsi dal regime del Colonnello) con il quale è stata anche concordata l’assistenza italiana ai feriti gravi, l’invio di una nave ospedale al largo di Misurata e la prossima apertura («questione di giorni») di un’ambasciata nella cittadina cirenaica capitale della rivolta (al momento c’è solo il nostro consolato retto da Guido de Santis).

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Sostegno confermato anche dal leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini e da Massimo D’Alema durante l’incontro con il ministro libico presso la sede del Copasir. Contatti, ma questa volta solo telefonici, con il Consiglio nazionale di transizione sono stati presi anche dall’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni, «per far ripartire la cooperazione in campo petrolifero». Bisogna «cooperare - ha detto infine Frattini - per evitare che il cessate il fuoco porti al consolidamento dello status quo della divisione in due della libia, che è inaccettabile». Frattini ha spiegato che l’Italia vuole «una Libia unita, che attraverso il Consiglio nazionale di transizione promuova una riconciliazione nazionale». Una riconciliazione che al momento potrebbe anche dover

Giusto (anche se arriva in ritardo) il credito concesso al Cnt di Mustafa Abdel Jalil

Finalmente un punto fermo dopo settimane di altalena di Osvaldo Baldacci ra ora. Come Liberal aveva chiesto da tempo e come Francia, Stati Uniti e Qatar avevano già fatto, finalmente il ministro Frattini ha riconosciuto il Consiglio Nazionale Transitorio costituito dagli insorti libici. Oddio, visto che il governo italiano finora non ne ha azzeccata una speriamo non ci siano controindicazioni che danneggino i ribelli. Prendiamo il buono. Non si capiva davvero perché l’Italia dovesse continuare a dare questa sensazione di rimanere ancorata alla nostalgia di Gheddafi, un leader già poco apprezzabile ma ora quasi certamente finito e comunque condannato all’isolamento internazionale. Al contrario il Cnt di Bengasi ormai rappresenta non solo i ribelli della Cirenaica, ma anche le realtà del resto della Libia, che hanno dichiaratamente voluto aderire a una istituzione pluralistica che riconoscono.

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lia intrattenere rapporti privilegiati, più seri e autentici di quelli macchiettistici che il governo aveva con Gheddafi in virtù del trattato italo-libico. Oltre che per quanto riguarda i rapporti politici e l’opzione prioritaria che un Paese come l’Italia deve sempre avere nei confronti della scelta della libertà e della democrazia, i vantaggi dei rapporti col Cnt potranno concretizzarsi anche sul piano dei futuri accordi economici ed energetici, con le realtà italiane già ben presenti sul terreno. Senza dimenticare che una situazione di libertà, di sviluppo, e soprattutto di speranza sulle sponde sud del Mediterraneo sono il miglior incentivo per la popolazione a non partire per cercare fortuna da noi.

Armare gli insorti significa cambiare la situazione. Non è una cosa di cui discutere. È una cosa da fare

Certo, si tratta ancora di una realtà di emergenza, in fieri, democratica solo nel senso di provare ad avere la più ampia rappresentanza, ma non certo perché eletta. Nel Consiglio comunque ci sono rappresentanti di diverse realtà e istanze, dai giovani insorgenti alle realtà locali, dai movimenti di ispirazione religiosa agli ex del regime che se ne sono distaccati per tempo. Nel Cnt sono presenti le realtà tribali, che sono l’altro protagonista con cui è assolutamente necessario interloquire. I consigli tribali sono decisivi nella vita libica e bisogna interagire direttamente con loro, ma l’interfaccia formale per dire che l’interlocutore non è più Gheddafi è il Cnt. Con loro si può pensare anche alla nuova Libia del futuro, quella con cui è vitale per l’Ita-

Poi c’è l’altra questione di cui si discute. Dare o non dare armi ai ribelli? Devo dire che sono allibito da questo dibattito. È il segno del degrado della diplomazia e della capacità di azione internazionale. Ma come si può dire una cosa del genere? Per la verità anche in questo l’Italia arriva buon’ultima, dopo che da giorni ne stanno discutendo ampiamente leader e opinioni pubbliche delle maggiori nazioni mondiali. Dunque, la risoluzione Onu parla di proteggere i civili, e formalmente non autorizza a scendere in campo per una delle due parti contro l’altra, se non per tutelare gli aggrediti. Fornire armi a una parte vuol dire cambiare la situazione. Non è una cosa di cui discutere. È ovviamente una cosa da fare. Si fa ma non si dice. Sto dicendo qualcosa di politicamente scorretto? O solo di logico? Mi resta una curiosità intellettuale: da dove sono saltate fuori fin dai primi giorni tutte quelle belle bandiere libiche sicuramente vietate sotto Gheddafi?

passare per un riarmo dei ribelli: è innegabile, infatti, che da quando la Nato ha preso il comando delle operazioni (e non dimentichiamo che da oggi diminuisce il supporto americano a Odyssey Dawn) i bombardamenti sulle truppe di Gheddafi siano drasticamente diminuiti, ridando un minimo di fiato ai lealisti e terrorizzando gli insorti che temono, soprattutto a Tripoli (dove i cecchini sono appostati su ogni tetto) il gheddafiamo anatema: «Vi staneremo casa per casa».

Il riarmo, però, è questione controversa. Sia la risoluzione 1970 che quella 1973 parlano di embargo verso la Libia (un embargo che proprio l’Italia sta facendo rispettare al largo delle coste libiche con la missione navale Nato), ma quest’ultima autorizza gli stati a a prendere tutte le misure necessarie per proteggere la popolazione civile e tra le misure in questione potrebbe rientrare la fornitura di armi ai ribelli a “scopo difensivo”. Insomma, il cavillo a cui aggrapparsi c’è, eccome. Resta invece la spaccatura fra i diversi governi: Usa, Francia e Gran Bretagna (e da ieri anche l’Italia) si sono pronunciati a favore della fornitura di armi agli insorti, la Russia è invece nettamente contraria. Resta poi il fatto che un semplice riarmo potrebbe essere inefficace senza l’invio di istruttori militari. E infatti si pensa a rifornirli ai armi che già conoscono e sanno impiegare, come lanciarazzi usa e getta o missili anticarro. Da Bengasi, intanto, fonti anonime dei rivoluzionari hanno fatto sapere di aver raggiunto un accordo con il Qatar per ricevere armi e di essere in trattativa con l’Egitto. Al colpo di reni italiano, fa intanto eco lo stallo delle trattative sulla transizione del potere in Libia. I ribelli hanno bocciato sul nascere l’ipotesi avanzata da Saif Al islam e Saadi Gheddafi e resa dal New York Times, rispedendo al mittente un tentativo di mediazione che non è affatto piaciuto al Consiglio nazionale di transizione


Abidjan verso la battaglia finale. Allarme Ue. Sarkozy invia rinforzi

Costa D’Avorio e Yemen due crisi sottovalutate La polizia spara sui manifestanti a Taiz: è una strage. Obama “molla” Saleh e i soldati bloccanno la polizia di Antonio Picasso emen e Costa d’Avorio: ovvero crisi marginali. Solo ieri, la comunità internazionale ha espresso la preoccupazione per il rischio di guerra civile che entrambi i Paesi stanno attraversando. Nel primo, la giornata è stata nuovamente testimone di ulteriori scontri. A Taiz, con il suo mezzo milione di abitanti e unico polo industriale del Paese, le manifestazioni hanno portato alla morte di una ventina di persone. La strage ricorda quella di Sana’a due settimane fa, con 52 vittime e la diserzione in massa dei militari, tra cui il generale Ali Mohsen al-Ahmar, ex Capo di Stato maggiore. La persistenza al potere del presidente, Ali Abdullah Saleh, è in contraddizione con quanto egli stesso sta dichiarando da un mese a questa parte. Il leader yemenita, infatti, al potere da oltre trent’anni, ha offerto l’apertura di un tavolo di confronto con le opposizioni. Queste vi hanno creduto inizialmente. Al punto che è stata tracciata anche una road map per il dopo Saleh, con il suo vice, Abdu Rabu Hadi, che dovrebbe fare da Capo dello Stato provvisorio, coadiuvato da un consiglio per la ricostruzione politica del Paese,Tuttavia, le parole del presidente non sono state seguite dai necessari gesti concreti. Le forze anti governative non riescono ad avere la meglio nemmeno sul piano operativo. Sempre ieri, le unità dell’esercito che si sono ribellate hanno respinto sì l’attacco dei poliziotti, senza ottenere però quella vittoria sul campo che sarebbe utile per controllare il Paese. Lealisti e contestatori, infatti, sono smembrati solo in termini concettuali. Non c’è una linea del fronte, ma chi è ancora in favore di Saleh e chi, invece, lotta per abbatterlo. La distrazione della comunità internazionale non agevola nessuna delle due parti. Appare tardivo infatti il ritiro di Washington del suo appoggio a Saleh, giunto solo ieri.

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In alto: un ribelle di Bengasi; a destra, Gheddafi, Frattini e la prima pagina di liberal del 26 marzo. A sinistra: l’ivoriano Ouattara l’Onu - ha spiegato il leader iraniano - a causa della cattiva volontà degli Stati Uniti e di alcuni Paesi europei, non è in grado di gestire correttamente gli svi-

Anche Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni, ha avviato un contatto telefonico con i ribelli per far ripartire la cooperazione in campo petrolifero. Ma sul futuro nessuna conferma che, attraverso il portavoce Shamseddin Abdulmelah, ha rimarcato la linea già ampiamente sottolineata in tutti i precedenti comunicati: «Gheddafi e i suoi figli devono andarsene prima di qualunque negoziato diplomatico». Inutile anche provarci dunque, nonostante il regime sia già al lavoro per mettere in atto l’ennesimo tentativo di sopravvivenza attraverso la mediazione dei governi di Ankara, La Valletta e Atene. Obiettivo della strategia del Colonnello è infatti il coinvolgimento dei tre Paesi del Mediterraneo come mediatori con l’Unione Europea. Un grosso aiuto alle strategie “gheddafiane” potrebbe arrivare dal presidente iraniano Ahmadinejad che in una telefonata al segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon (che avrebbe avuto un contatto diretto anche con il Colonnello) ha chiesto un intervento «per mettere fine alle interferenze degli Usa e di alcuni Paesi europei nella crisi libica». «Il Consiglio di sicurezza del-

luppi nella regione e le interferenze degli Usa e di questi Paesi europei nei Paesi regionali sono motivo di preoccupazione in quanto l’Occidente cerca solo di soddisfare i suoi interessi». Una presa di posizione forte, quella di Ahmadinejad, che potrebbe innescare una serie di contro-misure politiche della coalizione ancora non ipotizzabili. Intanto il Consiglio nazionale di transizione accelera il lavoro sul campo mediatico. Gli insorti hanno messo on air “Libia Al Ahrar” (Libia dei liberi), un canale satellitare che servirà a far giungere la voce del popolo libico al mondo intero in modo obiettivo e neutrale e senza le interferenze del regime di Gheddafi. Le trasmissioni sono iniziate mercoledì scorso da Doha, capitale del Qatar. Per ora va in onda un palinsesto di tre ore al giorno, ma l’obiettivo è quello di coprire l’intero arco della giornata. Ieri, dalle sue frequenze, al mondo sono arrivate le testimonianze sull’inferno di Misurata.

le istituzioni a Sana’a hanno perso il loro sostegno principale, l’ex presidente egiziano Hosni Mubarak. Caduto il faraone, anche le ragioni di una permanenza al potere da parte di Saleh sembrano insostenibili. Tra l’Egitto e lo Yemen c’è sempre stata sintonia per il mantenimento della sicurezza in Mar rosso e per disturbare la potente monarchia saudita. Al Cairo, oggi, la struttura governativa è acefala. Lo Yemen, quindi, ne paga le spese con un’eventuale caduta di Saleh e con il rischio di una guerra civile, che dividerebbe nuovamente il Paese in due realtà indipendenti, una al nord e l’altra al sud, come ai tempi della guerra fredda.

Diverso è il caso della Costa d’Avorio. L’identità del conflitto, qui, è tutta africana. C’è un presidente uscente, Laurent Gbagbo, che rifiuta la sconfitta elettorale e c’è un rivale, Alassane Ouattara, che invece reclama il potere, in nome delle scelte che la popolazione avrebbe fatto alle elezioni del 31 ottobre 2010. Entrambi hanno deciso che, una volta chiuse le urne, la soluzione migliore per stabilire chi sia il vero presidente sia quella armata. Che la situazione potesse degenerare era nell’aria da oltre quattro mesi. Ma l’ondata di violenze si è scatenata solo negli ultimi giorni. Nel passato fine settimana, sono stati contati circa mille morti. Le forze repubblicane hanno attaccato l’ex capitale, Abidjan, e si sono concentrate nel cingere d’assedio il vecchio Palazzo presidenziale e la sede della radio-televisione nazionale, attualmente nelle mani dei ribelli. Ieri però, si è percepita una sorta di quiete prima della tempesta. «Il silenzio prima dell’assalto finale», ha scritto ieri Le Figaro. Ai combattimenti si sono sostituite le operazioni di evacuazione degli stranieri presenti nel Paese, soprattutto francesi e cinesi, e l’arrivo di altri 150 uomini agli ordini del governo di Parigi. Sono 1.650 i soldati francesi dislocati in territorio ivoriano. Vanno a sommarsi ai 10mila caschi blu già presenti in loco. È plausibile pensare che, una volta sgomberato il campo dai civili e con i soldati appostati a mo’ di osservatori armati fino ai denti riprenderanno le violenze. Tant’è che l’Unione europea ha lanciato l’allarme sul rischio della crisi umanitaria in cui starebbe precipitando la Costa d’Avorio. La popolazione ivoriana non è nuova a drammi di questo genere.Tra il 2002 e il 2007, la guerra civile provocata da Guillaume Soro era stata combattuta sempre contro Gbagbo, il quale da ormai un decennio non riesce a essere scalzato. Nemmeno dalla Francia, palesemente intenzionata a riconquistare il controllo della regione.

Da oltre un decennio Gbagbo non riesce a essere scalzato. Nemmeno dalla Francia, tesa a riconquistare il controllo della regione

Del resto il Paese, per quanto occupi una posizione strategica nelle rotte commerciali est-ovest del mercato globale, ha sempre fatto da “sorella povera” nell’ambito della penisola arabica. Privo com’è di risorse petrolifere e tradizionalmente legato agli usi clanici. L’analisi geopolitica non si occupa dello Yemen se non nei casi di emergenza relativi ad al-Qaeda e pirateria. Entrambi però oggi risultano marginali, rispetto alle criticità che sta attraversando il Paese in queste settimane. La sua rivoluzione, per quanto uguale a quelle in Egitto, Libia, Tunisia e Siria, non incide nemmeno sulla rivalità confessionale tra la maggioranza sunnita e la ridotta ma agguerrita comunità sciita degli zaidithi. Dal canto loro,


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grandangolo La partita coi cugini d’Oltralpe: tra finanza, Libia e immigrazione

Mi manda Sarkò Che cosa vuole da noi il Napoleone di Bretagna Classe 1952, da sempre considerato un ragazzo prodigio, ambizioso, agguerrito, nonché amico fidato del presidente di Francia. Carta d’identità di Vincent Bolloré, l’ultimo rampollo di una solida (e assai potente) dinastia francese, che con grinta da Imperatore si propone di conquistare la società. Alla vigilia del Cda di Generali di domani... di Giancarlo Galli on dimentichiamo che all’inizio del Novecento le Assicurazioni Generali annoverarono fra gli impiegati il praghese Franz Kafka. Quindi perché stupirsi che lo scontro in atto a Trieste, nel cuore nobile della finanza italiana, sia... kafkiano?». Sorride il tycoon di Piazza Affari a Milano, aggiungendo: «Intrighi ad alto livello originati dagli smisurati appetiti del francese Vincent Bolloré, intimo di Nicolas Sarkozy, gran predatore. Ha però trovato sulla sua strada la maggioranza del Consiglio, il potere azionista ceco Petr Kellner, quasi un nipotino di Kafka, con in mezzo il presidente Cesare Geronzi, ormai vaso di coccio. Il 6 aprile sarà storica battaglia. Ma per capire, occorre far emergere la storia di vita, le ambizioni di Bolloré, che vengono da lontano...».

«N

Raccontiamo allora questo Bolloré, ultimo rampollo di una dinastia bretone, fra gli uomini più ricchi e soprattutto potenti di Francia, che si propone, con grinta napoleonica, di conquistare l’Italia. È robustamente presente nella Mediobanca del “dopo Cuccia”, e da quella piat-

taforma pur disponendo di appena uno zero virgola per cento di azioni Generali è riuscito ad entrare nel board esecutivo con i galloni di vicepresidente. Evidentemente puntando ancora più in altro. Ambizioso, certo, non però megalomane: basterà ricordare che nel maggio 2007 sul suo yacht Paloma ancorato a Malta, accolse con abbracci e champagne l’amico

no dalla parigina Port d’Auteuil. Il “cambio di dame” non incide tuttavia sul sodalizio maschile. Sarko ha in Vincent lo stratega finanziario, il consigliere ultra fidato; Vincent cui è stato accreditato dalla rivista Forbes un patrimonio di parecchi miliardi di euro, può contare su monsieur le President per manovre su scala planetaria. Forse non è del tutto campato in aria quel che in questi giorni si sussurra a Parigi: Sarko, rendendo pane per focaccia, si sarebbe irrigidito con l’Italia su Libia ed immigrazione, a ricambiare i supposti “sgarbi” patiti da Vincent fra Mediobanca e Generali. In aggiunta il piglio del nostro Giulio Tremonti per la difesa dell’italianità di Parmalat dal proditorio assalto di Lactalis, la multinazionale agroalimentare transalpina che già si era mangiata la Galbani. Senza scordare l’alto là! della Consob alla scalata di Groupama alla Fondiaria-Sai della famiglia Ligresti in affanno, evitando un’Opa (Offerta pubblica di acquisto), unica tutela per i quasi trenta-

Da Napoleone III, i Bolloré ottengono il monopolio per la produzione di carta e di imballaggi fraterno Nicolas Sarkozy e la consorte Cecilia, reduce dal trionfo elettorale che lo aveva portato all’Eliseo. Da quella radiosa primavera parecchio è cambiato. Cecilia ha lasciato Nicolas che ha poi impalmato la nostra Carla Bruni; Vincent ha divorziato da Sophie che gli aveva dato quattro figli, sposando Anais Jeanneret con la quale divide la fastosa residenza a Montmorency, non lonta-

mila azionisti minori. Fra coloro che vedono come il fumo negli occhi di Bolloré, a torto o a ragione, ma con qualche storica pezza d’appoggio, si sprecano aggettivi poco benevoli: «pirati», «amici dei potenti di turno». Infatti il capostipite Alain, marinaio, venne condannato per filibusta nel 1478. Nel 1822 René-Guillaume fonda nella natia Quimper una cartiera ad acqua. Modernissima per l’epoca. In società con un meccanico inglese a nome Doidge ed un quartiermastro di Napoleone, Jean-Marie Josset. Se ne sbarazzerà presto, ed i Bolloré divengono gli unici proprietari de Les Papeteries. Autentica miniera d’oro, grazie all’intraprendenza (innegabile) ed al sostegno politico. Davvero “specialità di famiglia”quella di allearsi, spesso spregiudicatamente, coi potenti di turno. Da Napoleone III, i Bolloré ottengono il monopolio per la produzione di carta ed imballaggi destinati alla pubblica amministrazione dell’Impero ed alla nascente editoria. Con un plus in esclusiva: la carta da riso per le sigarette. Rivoluzionario prodotto che Jean-René, nipote del fondatore e medico in marina, ha importato dalla Cina.

Bretoni, quindi provetti navigatori, i Bolloré si sono attrezzati a cogliere ogni vento. Sull’albero maestro del loro vascello, sventola il tricolore di Francia: fondamentale per capire i successi di una Dinastia imprenditoriale dal nazionalismo, con talvolta venature scioviniste, sempre presente. «Prima di tutto francesi», è la loro filosofia.

Un così stretto legame fra Affari & Politica, dalle nostre parti provocherebbe indignazione, polemiche a non finire. A Parigi, al massimo, qualche timido mugugno fra gli intellettuali. Poiché qui la Storia industriale, compresa quella dei Bolloré, è patrimonio nazionale, componente di una Grandeur mai spenta. I Bolloré che regnante Napoleone III ottennero dal Vaticano di Papa Pio IX il privilegio per la stampa e la diffusione su scala planetaria di libri religiosi. (Concessione rimasta in vigore sino al Concilio Vaticano II). I Bolloré che di generazione in generazione hanno costantemente intrattenuto relazioni con i vertici dello Stato: dal socialista-radicale Leon Blum nell’anteguerra, ai tempi del Fronte Popolare; con il generale De Gaulle, Georges


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Pompidou, Giscard d’Estaing, François Mitterrand, Jacques Chirac. Infine Sarkozy. «C’è sempre un Bolloré dalle parti dell’Eliseo», si dice nei caffè della Rive Gauche.

A ben vedere dunque, Vincent non ha fatto che muoversi nel solco della Famiglia e della tradizione. “Tradizione” che va interpretata leggendo in controlu-

nizzazione degli anni Sessanta, maschiata dall’indipendenza di Algeria, Marocco, Tunisia, li costringe ad una revisione strategica: puri imprenditori. Eppure ovunque siano presenti in Africa c’è sempre un distaccamento della Legione Straniera, dei paras francesi a vegliare sui loro interessi. Pardon: sulla democrazia! Il mosaico di Potere & Finanza costruito da Michel Bolloré sembra tuttavia perdere pezzi, in parallelo col declino dell’influenza della Francia sullo scacchiere mondiale. Le brucianti sconfitte in Indocina, Marocco, Algeria, le rivolte in Centrafrica, fanno sprofondare nel rosso i conti della Famiglia. Per non fallire, dovrebbero cedere l’intero patrimonio. Senonché, nei panni del Salvatore della Dinastia entra in scena Antoine Bernheim, partner della Lazard; ed in un susseguirsi di manofre di alta ingegneria finanziaria, Michel Bolloré trova la zattera di salvataggio. Il “dettaglio” che i Bolloré siano cattolici, la Lazard anticpo tempio della finanza ebraica non è d’ostacolo. Antoine Bernheim pone una condizione: papà Michel (morirà nel 1997) ceda il bastone di comando ai figli, Michel-Yves e soprattutto Vincent, nato nel 1952, considerato “ragazzo-prodigio”. Onorerà il titolo, imprimendo alla Ditta un nuovo, vigoroso impulso. Come? Per capacità indubbie, ma non estraneo il matrimonio con la ricca e bella Sophie Fossorier che imparentata col ministro delle poste Ge-

Dal Vaticano di Pio IX ottennero il privilegio per stampa e diffusione planetaria di libri religiosi ce i più recenti eventi. Dall’interventismo francese in Libia a quello, assai meno noto, in Costa d’Avorio, ex colonia francese dal sottosuolo ricco di materie prime. Attraverso i secoli i Bolloré si sono costruiti una fama di capitalisti dal volto umano. All’inizio del Novecento René II, a braccetto dei magnati della gomma Michelin, fecero da battistrada al paternalismo aziendale. Agli operai che rifiutavano di scioperare regalavano bottiglie di rhum, alle donne una moneta d’oro a Natale. Senonché la nonaria facciata nasconde la cruda sostanza di un capitalismo aggressivo e vorace. Michel Bolloré, padre di Vincent, nell’immediato Dopoguerra, si erge a braccio secolare dell’imperialismo francese, con le sue attività industriali, commerciali ed agricole che avvolgono l’intera Africa. La decolo-

rard Longuet, accredita il giovanotto presso il presidente Giscard d’Estaing ed il primo ministro Jacque Chirac. Con quegli appoggi, ed una comune visione del “riolo della Francia” che non può ammainar bandiera rispetto allo strapotere americano, ad appena 29 anni (siamo nel 1981), e sempre contando sul sostegno di quel genio della finanzia che è Antoine Bernheim, Vincent ricostruisce l’impero degli avi. Ancora l’Africa, i traffici marittino, e molto di più: entrare nel vitale settore delle comunicazioni (giornali, tv, pubblicità), e trovare un nuovo sbocco per l’inguaribile virus che sta nel Dna francese: l’espansionismo. Questa volta con un obiettivo preciso: l’Italia. Impresa agevolata dal fatto che Bernheim, amico-nemico a fasi alterne di Enrico Cuccia, ha già messo piede, e che piede!, sia in Mediobanca che in Generali. Traduzione a beneficio del lettore: l’Italia è considerata dal francesi terra di conquista. E se quel gran banchiere che è Giovanni Bazoli non avesse messo i paletti, già attraverso il Crédit Agricole giunto con i falsi panni del “cavaliere bianco”, si sarebbero mangiati l’Ambroveneto, poi Gruppo Intesa. Vincent Balloré, con le spalle larghe e ben coperte, per restare al Fronte italiano ha dunque un preciso obiettivo: impadronirsi delle Generali, chiave di volta dell’intero nostro sistema finanziario. Attraverso il grimaldello sia di Mediobanca che della Compagnia triestina controlla circa il 15 per cento del capitale. Cadesse quel caposaldo, i francesi dilagherebbero. In pubblico, con sofisticata ipocrisia,Vincent Balloré sostiene che gli investimenti in Italia sono «unicamente finanziari». Difficile fargli credito, anche perché a prescindere dall’“affaire Generali”, è ormai chiaro pure ai ciechi che l’accanimento spacciato per umanitario con cui Sarkozy ha intrapreso la campagna di Libia ben altro nasconde. La volontà dei francesi, in difficoltà in Algeria, a mettere le mani sulle enormi riserve di gas e petrolio libiche, estromettendo la nostra Eni. E mettendoci in grave difficoltà politica e diplomatica rifiutando di collaborare alla gestione dei flussi migratori dal Nord Africa.

Pur senza la pretesa di leggere nella sfera di cristallo della politica internazionale, è evidente che il duo Sarko-Vincent va mostrando il dente dell’appetito nei nostri confronti. Per questo ciò che accadrà domani a Trieste assume un significato che va ben oltre una vicenda finanziaria. Il che va detto nonostante nelle ultimissime e convulse ore, sull’“affaire” BolloréGenerali, abbia preso a spirare un infido venticello di pacificazione, in omaggio all’antica e mai smentita regola del Regno della Finanza: «Gnomo non mangia gnomo»!

Lo spettro delle ricapitalizzazioni indebolisce ancora Piazza Affari

Ma a Trieste oggi si decide anche chi salverà le banche di Francesco Pacifico

ROMA. Non c’è soltanto da decretare sul futuro di Geronzi e sul potere d’interdizione dei francesi su Generali. Ridimensionata l’unica delega in mano al presidente (quella pesante della comunicazione) e spinto all’autocritica il vicepresidente (Bolloré), il Cda straordinario di domani del Leone potrebbe anche decidere modi e tempi della stagione di aumenti di capitali nel mondo del credito ormai alle porte. Decidere chi salverà le banche: sarà soltanto il binomio pubblicistico e un po’ promiscuo Tesoro-Fondazioni ad accollarsi il fardello oppure si daranno da fare anche i privati? Giovanni Perissinotto potrebbe imporre in questa contesa anche la sua linea (prudenziale) anche sull’aumento di capitale che la controllata IntesaSanpaolo dovrebbe annunciare questa mattina. Nel pieno del botta e risposta con Diego Della Valle, Geronzi aveva promesso che, se fosse rimasto arbiter del capitalismo italiano, avrebbe dirottato verso le banche in perdite non poche delle risorse presenti nella ricca cassaforte di Trieste, forte di 470 miliardi di attivi e un patrimonio immobiliare da 27 miliardi. Adesso le cose sono cambiate e Perissinotto ricorderà che anche la quota in IntesaSanpaolo (il 4,973 per cento) è meramente finanziaria, non più strategica. Di conseguenza, un’adesione all’aumento di capitale sarebbe valutato soltanto in termini di onerosità e ritorno dell’investimento. Va da sé che un sì o un no da Trieste è capace non soltanto di riscrivere gli equilibri nel settore bancario, ma anche le troppe partecipazioni incrociate del nostro capitalismo. Lo dimostra la lunga discussione che si è verificata ieri nella deputazione del-

la Fondazione Mps, dove è stato chiaro a tutti che anche diluendo la propria quota in Intesa, l’azionista di controllo di Rocca Salimbeni dovrà mettere in conto un’emissione superiore al miliardo di euro. Lo dimostra le fibrillazioni mostrare in questi giorni dalle Borse, con i bancari anche ieri in calo a Piazza Affari: Unicredit -1,66 per cento, Mps -1,85.

Angelo De Mattia, che conosce bene l’argomento per aver passato oltre vent’anni in Bankitalia, consiglia innanzitutto di mettere in pratica quanto suggerito da «Gli Draghi: aumenti di capitale è bene farli prima della pubblicazione degli stress test. Ogni banca parte da condizioni e valutazioni diverse, ma irrobustirsi è positivo, non fosse altro perché con una migliore situazione patrimoniale si possono ottenere forme di raccolta più a buon mercato. Non possono mancare una serie di misure che incidano su organizzazione, costi, razionalizzazioni e remunerazioni. Ma bisogna partire da tutto ciò che si può fare autonomamente, nell’ambito del mercato e della gestione degli azionisti. Apporti esterni potrebbero essere previsti soltanto in casi straordinari e non a 360 gradi». Bisogna quindi chiedersi che cosa c’è dopo i privati. Tremonti, al di là dei propositi, con i quattro miliardi di Cdp deve già far partire le infrastrutture, impiantare la banda larga, ridare linfa all’edilizia popolare e difendere l’italianità di Parmalat. Le fondazioni bancarie hanno già presentato il prezzo per il loro intervento: una nuova autorità di controllo indipendente che gli permetta di liberarsi dal giogo del Tesoro.


economia

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ROMA. Prove tecniche di riforma della rappresentanza sindacale. Con le sigle dei bancari – tutte – pronte a offrire un importante strumento che va ben oltre le esigenze della categoria. E che, se esteso e accettato anche dagli altri settori, potrebbe evitare in futuro nuove Pomigliano, ulteriori accordi separati. Ma soprattutto far superare le spaccature esistenti tra Cgil e le altre confederazioni. Giovedì Lando Maria Sileoni (Fabi), Giuseppe Gallo (Fiba Cisl), Agostino Megale (Fisac Cgil) e Massimo Masi (Uilca) presenteranno un’intesa che introduce una serie di passaggi obbligati per tenere al tavolo le parti, anche quando le trattative volgono verso la rottura.

Un contributo non da poco, anche perché condiviso trasversalmente, in una materia sulla quale le segreterie nazionali litigano sia sui contenuti sia sul ricorso a una legge. Spiega Agostino Megale, dal giugno scorso alla guida dei bancari della Cgil ma soprattutto storico baluardo del riformismo di Corso d’Italia: «Giovedì noi segretari del settori presentiamo una dichiarazione d’intenti, la prima di questo genere in Italia, con lo spirito obiettivo di evitare contatti separati. Per superare il modello Fiat, per non ripetere quando avvenuto in Federmeccanica o nel commercio». Al centro di que-

Giovedì Fabi, Fisac Cgil, Fiba Cisl e Uilca presentano un nuovo schema pattizio

Dai bancari una lezione di unità sindacale Dalle sigle del settore una proposta sulla rappresentanza per evitare contratti separati di Francesco Pacifico

Susanna Camusso. In alto Agostino Megale, segretario dei bancari Cgil, con l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano

sto «schemo pattizio» c’è una clausola che prevede di sospendere per quindici giorni, se al tavoli emergono divisioni tra le parti. Superati i quali, «le organizzazioni sindacali favorevoli al raggiungimento delle intese devono, per proseguire e chiudere gli accordi, avere almeno ll 60 per cento degli iscritti». Condizione, quest’ultima, abbastanza facile da appurare nel settore bancario, visto che le organizzazioni devono dichiarare i loro lavoratori all’Abi, l’associazione datoriale dei banchieri. Ma una volta raggiunta un’ipotesi d’accordo, «questa deve essere vagliata con un voto.Voto che può tradursi in un’alzata di mano o in uno scrutinio segreto durante un’assemblea, come in un referendum, che dia voce anche a chi non è d’accordo». Questa proposta è stata al centro di un seminario nella sede del Partito democratico di

Sant’Andrea delle Fratte, con il quale il segretario Pier Luigi Bersani si è candidato come promotore di una nuova unità sindacale. Perché dopo aver passato in rassegna con gli storici Andrea Ciampani e Fabrizio Loreto i fatti che hanno portato allo stallo di oggi, il numero del Pd ha dato la sua totale disponibilità a Susanna Camusso (Cgil), Raffaele Bonanni

maggio del 2008, prevedevano che le regole della democrazia sindacale fossero attuate «per via pattizia attraverso un accordo generale quadro», mentre per la misurazione della rappresentazione ci si sarebbe affidate a un modello applicato nel pubblico impiego: cioè basandosi sugli iscritti (con i dati associativi rilevati dall’Inps) e i voti nelle Rsu.

Per chiudere un’intesa bisognerà rappresentare il 60 per cento degli iscritti. Previsto anche un voto di conferma tra i lavoratori. Megale (Cgil): «Non rassegnarsi a quanto avvenuto in Fiat» (Cisl) e Luigi Angeletti (Uil) a lavorare assieme per superare le incomprensioni. In questa logica diventa un importante benchmark il testo che i bancari si accingono a presentare giovedì va ben oltre le proposte di Cgil, Cisl e UIl. Le quali avevano raggiunto una prima intesa nel più generale preaccordo sulla riforma della contrattazione, che poi si risolse con una spaccatura con corso d’Italia da un lato e via Po e via Lucullo dall’altro. Quegli impegni, firmati nel

Uno schema poi superato dagli eventi (leggi Pomigliano d’Arco), con la Fiat pronta a concedere piena agibilità sindacale soltanto alle liste firmatarie delle intese, la Fiom Cgil decisa a spingere sul referendum confermativo e Susanna Camusso, che invece sosteneva un patto fondato sul fatto che un accordo poteva passare soltanto con il sostegno delle sigle che rappresentano il 51 per cento dei lavoratori. Megale sottolinea soprattutto «il lavoro fatto da tutti i segre-

tari del mondo bancario. Alla base ci sono un grande rispetto per la dignità altrui e la volontà di dimostrare che il sindacato, non si deve arrendere, impotente o rassegnato, alle divisioni. Altrimenti non sarebbe stato raggiunto un compromesso avanzato come questo per la storia di una categoria che molto ha dato alle regole di democrazia. Non avremmo ottenuto una mediazione con la quale superare l’anomalia di un voto finale che, come avvenuto in Fiat, non è valso per tutti». L’accordo finisce sia per ridare centralità agli accordi nazionali sia per dare una spinta alle intese di secondo livello in un settore che è al centro di forte ristrutturazioni dopo la crisi. E che non è immune da spaccature simili a quelle registrate con il Lingotto, come dimostra il contratto separato firmato in IntesaSanpaolo nel febbraio del 2010.

Attualmente c’è un confronto molto serrato sul contratto scaduto nel dicembre scorso, con i sindacati che chiedono 205 euro di aumento mensile da spalmare in 3 anni e un piano per occupare i neolaureti o un piano per stabilizzare i precari, mentre l’Abi è pronta a mettere in discussione il fondo di solidarietà, uno degli strumenti più all’avanguardia nel welfare privato. Eppoi quest’intesa potrebbe persino portare alla realizzazione del dettato dell’articolo 39 della Costituzione, quella sulla democrazia rappresentativa, quando recita che «i sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».


cultura

5 aprile 2011 • pagina 15

La biografia del nostro Paese attraverso gli ultimi venti anni di politica conservatrice, nel libro del «futurista» Bocchino

E Italo disse qualcosa di destra di Gabriella Mecucci

A sinistra, un’immagine del «futurista» Italo Bocchino. A destra, la copertina del suo libro “Una storia di destra” (Longanesi). In basso, uno scatto del leader di Futuro e libertà e presidente della Camera, Gianfranco Fini

a parte più interessante e anche più divertente del libro di Italo Bocchino (Una storia di destra, Longanesi) è il botta e risposta finale fra lui e il vecchio amico Pietrangelo Buttafuoco, suo convivente a Roma in una giovinezza fatta di passioni politiche e di incontri importanti. I due sono diversissimi fra loro: napoletano frizzante, puntuto, razionale, tutto immerso nelle logiche del partito il primo; siciliano doc, originale sino al paradosso, scrittore di vaglia il secondo. Entrambi da ragazzi aderenti al Movimento sociale italiano: uniti dalle origini provinciali e dalla fiamma tricolore. Uniti? L’uno, Italo, che il padre chiamò così per ricordare Balbo il trasvolatore, il fascista irriverente e cosmopolita, oggi non ha esitazioni a dichiararsi antifascista e crociano. L’altro che sulla militanza politica ci ha messo da tempo «una pietra sopra, anzi una lapide», ma che resta gentiliano e che non applica mai a se stesso la definizione di antifascista: «Perché gli si agitano nel cuore ricordi lontani, non ultimo quello di zio Nino che non glielo perdonerebbe mai».

L

I due, il napoletano e il siciliano, nelle poche pagine finali discutono su come è andata la storia d’Italia. Italo pensa che il fascismo sia colpevole di aver bloccato la nascita di una destra italiana liberale, anglosassone. Pietrangelo ritiene che questa tesi sia un «luogo comune», un cedimento alla moda. E riafferma: fra il fascismo e la destra non c’è rapporto. Ma lo scontro vero è su Berlusconi. Italo antiberlusconiano doc come del resto testimoniano le sue inesauribili presenze a tutti i talk show, fiero di lavorare ad una destra moderna che «l’orgoglio missino aveva reso romantica ma polverosa». Una destra in grado di anche andare oltre le «impresentabilità» e le degenerazioni di Arcore e dintorni: «Si è passati da Colletti a Minetti». E Pietrangelo, surreale difensore del Cavaliere al tramonto, da lui descritto come «il più smagliante fra i sovversivi capitati in questa nostra Italia». I due, Bocchino e Buttafuoco, battibeccando fra aneddotti e punzecchiature, rappresentano due delle anime degli “ex ragazzi” del Msi. Ce n’è una terza: quella ministeriale dei Gasparri e dei La Russa, lontana ormai sia dall’uno sia da l’altro. Se lo scambio fra Italo e

zii o i chissà chi altro erano nostalgici del fascismo, o custodi della memoria di Salò a cui avevano aderito da ragazzi. L’occhio, insomma, più rivolto al passato che al futuro. Italo percorre dunque una strada tutt’altro che originale quando inizia a militare, ma lo fa a passo di marcia. Sino a diventare il collaboratore più stretto di Pinuccio Tatarella, vero deus ex machina della sua vita e della grande svolta del Movimento sociale italiano.

Pietrangelo costituisce lo scoppio di mortaretti finale, prima si può leggere una biografia politica di destra. Il libro di Bocchino infatti non è un’analisi politologica della nascita e della crisi di An, né dell’esperimento berlusconiano. Né rivela fatti sconosciuti: retroscena politici sinora insondati. Chi vi si avvicinasse con queste attese, rischierebbe di restar deluso. Ma se lo si gusta come il racconto di un giovane uomo che attraversa gli ultimi venti anni della politica italiana con la voglia di starci, di cambiarla, di arrivare in alto; se si coglie come la grande storia e i grandi personaggi si mescolino con le piccole storie di tutti i giorni, allora l’impasto è gradevole e interessante. E la lettura diventa fruttuosa.

Scopriamo così che in tanti si sono iscritti al Msi per tradizioni famigliari: i padri o gli

Il sogno di una destra laica, moderata e non populista, con gli stessi principi di quella occidentale ed europea

Il ritratto del leader pugliese che esce dalle pagine di Bocchino è quello di un politico lungimirante, il vero artefice della svolta di Fiuggi. Tatarella capisce al volo la grande occasione che tangentopoli, con tanto di caduta dei partiti della Prima Repubblica, offre al Movimento sociale. Comprende che occorre puntare tutte le carte sulla capacità di rendere “alleabile” un partito sino ad allora ridotto a poco più che alla testimonianza. Del resto era stato proprio lui – con il giovane Bocchino come “ragazzo di bottega” – ad “inventarsi”, nel 1987, dopo il ritiro di Almirante, il nuovo leader del partito: Gianfranco Fini. Fu lui a volerlo e fu lui a convincere tutti della bontà della scelta. E si inventò anche quella dinamica corrente che portava il nome di “Destra in movimento”. Il giovane segretario “regnò” per due anni, poi venne battuto da Rauti, ma fu il suo exploit alle elezioni di Roma, nel 1994, ad aprire la strada verso l’alleanza con Berlusconi, verso la prima vittoria elettorale del centrodestra e verso la nascita di An. La strada sembrava tutta in discesa, ma Tatarella non era solo un abile politico, era anche un uomo intelligente a tutto sesto che si divertiva a circondarsi di quei giovani un po’ nostalgici, un po’ scapigliati e un po’ paradossali del

gruppo Bocchino-Buttafuoco. E poi era un antiberlusconiano di destra sin dai primi anni Novanta: del Cavaliere lo innervosiva il formalismo e quell’aria da “sono io il più bravo di tutti”, ma vedeva in lui la chiave di volta di un’ alleanza vincente. L’altro personaggio su cui Bocchino si sofferma a lungo, è Francesco Cossiga. Con lui l’autore ha intrattenuto un rapporto non solo politico, ma anche di simpatia e di amicizia. Il ritratto dell’ex presidente della Repubblica è pieno di sfumature interessanti e divertenti. Il terzo personaggio del libro è Gianfranco Fini: il racconto che Bocchino fa di lui è “incompiuto” così come resta ancora incompiuta la vicenda politica dell’ex leader di An. Ma è sicuro che Fini sin dalla fondazione del Pdl avesse ben chiaro – così racconta l’autore – che presto sarebbe arrivato il tempo in cui dire: o me o Silvio Berlusconi. Per ora lo sconfitto è lui, ma l’uomo è abituato a perdere e a risorgere.

Il libro non racconta solamente il cammino della Destra nell’ultimo ventennio, è anche un’ autobiografia privata: è popolata di amici, della storia d’amore – di recente messa a dura prova – con la moglie Gabriella, della famiglia di lei, colta e ricca, così diversa da quella piccolo borghese di lui, dei due figli. È anche la storia di “un ascensore sociale”, preso dal “ragazzo di bottega” curioso, abile, sveglio, capace di intrattenere rapporti e di lavorare sodo, che è arrivato molto in alto. Adesso la grande sfida: costruire una destra liberale contro Silvio Berlusconi. La prova vera è arrivata. Buona fortuna.


ULTIMAPAGINA È scomparso Manning Marable, autore di una scottante biografia dedicata all’attivista a giorni in libreria

L’ultimo sogno, la verità su di Francesco Lo Dico uomo bianco ha commesso l’errore di farmi leggere i suoi libri di storia», amava ripetere Malcolm X quando già presentiva che gliene sarebbero stati dedicati un bel mucchio. Ma fra tutti quelli a lui dedicati, virati fra i due estremi del pamphlet e del mito prometeico, Omowale rischia di essersi perduto il più completo. Che per uno strano balzello imposto dal destino ne ha castigato l’autore, tre giorni prima che la monumentale biografia vedesse la luce. Non aveva ancora sessant’anni, Manning Marable, storico e attivista afroamericano, professore alla Columbia University di New York. E venti abbondanti li aveva trascorsi tra archivi e bibliografie sterminate, nel compilare quella che si preannuncia come la più rivoluzionaria opera storica dedicata all’attivista nero: Malcolm X: A Life of Reinvention, che il New York Times preannuncia ricca di rivelazioni scottanti.

«L’

Al centro delle molte controversie documentate dal libro c’è il clamoroso passo indietro della polizia, che di fronte alle minacce di morte rivolte a Malcolm X, si lavò le mani in quanto i pericoli a cui era esposto un pericoloso estremista come lui non avevano priorità assoluta nell’agenda della sicurezza nazionale. Curare, insomma, era assai più vantaggioso

Non ci fu cospirazione, ma una convergenza d’interessi dietro i fatti del ’65. Che coinvolse Nypd, Fbi e Nation of Islam

MALCOLM X l’altro dimostrano a scanso di accuse di partigianeria come il leader nero volle enfatizzare i suoi trascorsi delinquenziali, per dimostrare al popolo nero quanto fosse prodigioso il potere salvifico della Nation of Islam. E inoltre, le ricerche di Marable, tratteggiano un leader molto meno acerrimo di quanto lo si dipingesse, attraversato com’era da forti perplessità su religione e polizia.

che prevenire nell’esplosivo clima che portò all’assassinio del 14 febbraio 1965. E altrettanto sommarie, furono di conseguenza le vicende legali seguite all’attentato. Il professor Marable sostiene infatti che per l’omicidio furono condannati ingiustamente due uomini, e che altri quattro loschi figuri coinvolti nell’assassinio furono prosciolti senza fondate ragioni. E non inganni il forte coinvolgimento di Marable nell’indagine, nè la facile tentazione di dare libero corso all’emotività come di solito accade nel revisionismo d’assalto. «Ogni parte del suo corpo è stata dedicata a questo libro. È davvero straziante il fatto che non sarà qui con noi per il giorno dell’uscita», conferma l’editore di Marable all’indomani del triste annuncio. Durante la sua vita l’accademico afflitto da tempo da gravi problemi di salute ha messo in fila migliaia di brogliacci dell’Fbi e della Cia, che tra

In alto, l’attivista politico Malcolm X. Qui sopra, il professor Manning Marable, autore della scottante biografia “A life of reinvention”

Contrariamente a quanto tramandato dalla tradizionale opera guida firmata da Alex Haley, su cui Mirable annota: «Haley era repubblicano. Era estremamente contrario al nazionalismo nero. Il suo scopo era dimostrare che il separatismo razziale della N.O.I. fosse qualcosa di patologico, la logica estremizzazione di esclusione e isolazionismo razziali. E Malcolm, carismatico com’era, una figura molto affascinante, nondimeno riassumeva in sé questi tratti negativi. Haley sentiva di poter creare un forte argomento a favore dell’integrazione razziale, mostrando all’America bianca quali fossero le conseguenze del suo appoggio al separatismo razziale, che avrebbe finito di produrre solo odio». Ma Marable, a proposito di quello che è ritenuto il testamento spiritua-

le del leader nero, ha importanti rivelazioni:tre capitoli sono stati espunti, e li ha in custodia Greg Reed, un avvocato di Detroit che li tiene gelosamente custoditi. Il perché fu suggerito dal professore in un’intervista a Democracy Now: «Credo che se potessimo leggere i capitoli mancanti del libro, capiremmo meglio perché forse, sottolineo forse, l’Fbi, la Cia, la polizia di New York e altri componenti delle forze dell’ordine, temessero fortemente i progetti di Malcolm X, dato che stava tessendo una inedita, trasversale e larghissima coalizione nera, tra nazionalisti e integrazionisti. In un certo modo, preconizzava con trent’anni di anticipo la Million Man March». Ma veniamo ai terribili eventi della Audubon Ballroom, che chiusero a 39 anni la parabola di Malcolm X.

Il professor Marable argomenta nel libro che «alla fine si dimostrerà che non c’è stata una vera e propria cospirazione, quanto una convergenza di interessi nell’eliminazione della voce e della visione di Malcolm X». Concorso in omicidio, dunque. È questa la scomoda eredità che contro il quetismo diffuso tra le cattedre del pianeta, ci lascia Mirable in un’opera che segna la fine della sua esistenza. E forse l’inizio di una lunga cammino, alla ricerca della verità.


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