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he di cronac

Quando i leader parlano di pace, la gente comune sa che la guerra sta per arrivare Bertolt Brecht

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 7 APRILE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il governo non spiega il piano rimpatri. Mentre l’Unione europea si dice disposta a intervenire per l’emergenza

Sono andati föra di ball

250 migranti vittime del mare e della paura di essere respinti Tragedia a Lampedusa: si ribalta un barcone con 300 profughi. Fra i morti ci sono anche bambini. In Libia sos degli insorti: «Non ce la facciamo». E Gheddafi scrive una lettera “ironica” a Obama 1 2 3 4 Così il raìs Perché si sono In Arabia forse «Tocca ai ribelli dimostrare vuole chiudere dati pieni poteri è primavera. di essere pronti i rubinetti al ministro Ma da noi (d’acqua) ai libici è pieno inverno a vincere» degli Interni? di Rocco Buttiglione

di William Kristol

colloquio con Vincenzo Camporini

di Enrico Singer

È penoso avere negli occhi le immagini delle ennesime tragedie del mare di questi giorni, tragedie che ci lasciano per l’ennesima volta senza parole.

Un certo fatalismo accompagna l’Occidente quando si parla di cambiare. Forse è per questo che la risposta alla Primavera Araba è stata riluttante.

«Misurata o non Misurata, gli insorti devono saper pazientare. Una guerra non si vince in quindici giorni». Parla il generale Vincenzo Camporini.

Quando fu inaugurata, Gheddafi la definì l’ottava meraviglia del mondo. Adesso potrebbe diventare l’arma finale. da pagina 2 a pagina 5

Il presidente visita il capoluogo a due anni dal sisma

Napolitano in Abruzzo: «Non dimenticare L’Aquila»

Giustizia e immigrazione i nodi caldi per il premier

Dopo le dieci firme, il presidente si dimette dal gruppo

Si lotta sul processo breve (in attesa del 31 maggio)

Scossa alle Generali: Geronzi sfiduciato dal cda

di Riccardo Paradisi

di Marco Palombi

di Francesco Pacifico

ROMA. Congelato il processo Ruby – che viene

ROMA. «L’Aquila non sarà dimenticata». Giorgio Napolitano ieri, a due anni dal sisma che uccise trecento persone e una città intera, era nel capoluogo d’Abruzzo. Quando la mattina è arrivato, applaudito dai cittadini, lo attendeva Gianni Letta, che in quella regione è nato. a pagina 14

ROMA. Dimissioni spinte dall’orgoglio che sembrano un colpo d’ala. Ma che non nascondono la resa di chi ha tanto brigato per conquistare le Generali anche per «amore delle cose complesse». Ieri, Cesare Geronzi ha trovato ad attenderlo una mozione di sfiducia di dieci membri del cda. a pagina 10

rinviato al 31 maggio per le questioni preliminari e la costituzione delle parti civili – al pettine della maggioranza si frappongono quattro nodi politici che assieme alla partita giudiziaria del premier caratterizzeranno i prossimi due mesi. a pagina 12 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

67 •

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• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la crisi libica

pagina 2 • 7 aprile 2011

Il Trattato d’amicizia con Tripoli è un campanello d’allarme

Tutti gli errori del ministro Maroni

L’orrenda sorte degli immigrati morti al largo della Sicilia deve farci riflettere tutti. Il leghista è stato lodevole, ma ha fatto troppi sbagli di Rocco Buttiglione penoso avere negli occhi le immagini delle ennesime tragedie del mare di questi giorni, tragedie che ci lasciano senza parole e dovrebbero lasciare spazio solo al silenzio. Ma è un doveroso tributo a quelle vittime cercare di riflettere seriamente e organicamente sul tema delle politiche in tema di migrazione. È certamente lodevole l’impegno con cui l’on. Maroni, ministro degli Affari Interni, segue la trattativa con la Tunisia relativa al rimpatrio degli immigrati illegali ed alle misure contro la immigrazione clandestina. È lodevole l’impegno ma lascia perplesso il metodo. Perché di queste cose si occupa il ministro degli Interni e non il ministro degli Esteri? Noi abbiamo già un esempio non positivo, anzi disastroso, di trattative internazionali condotte dal ministro degli Interni con la preoccupazione assorbente, anzi ossessiva, della immigrazione clandestina (cui si aggiunge in quel caso quella del petrolio). Si tratta del trattato con la Libia. Celebrato a suo tempo come un trionfo quel trattato si è rivelato alla fine essere un disastro. È lecito il dubbio che, se a condurre la

È

trattativa fosse stato il Ministero degli Esteri, forse i risultati sarebbero stati diversi e meno dannosi. Forse il trattato non vi sarebbe stato per niente. Una cosa infatti è comprare petrolio da un dittatore. Cosa diversa è legittimarlo come amico dell’Italia e benefattore dell’umanità. Se si vuole chiudere il contenzioso fra Italia e Libia è bene non farlo con un tiranno la cui base di potere già si va chiaramente sgretolando, come era probabilmen-

te chiaro agli esperti del Ministero degli Esteri ma non poteva essere noto agli esperti del Ministero degli Interni. Per lo meno gli Esteri avrebbero chiesto che la Libia aderisse alla Convenzione Internazionale sulla protezione dei profughi e richiedenti asilo. Questo avrebbe consentito di procedere ai respingimenti in mare senza violare il diritto internazionale perché coloro che hanno titolo per chiedere l’asilo avrebbero potuto farlo in Li-

bia. Possiamo noi appaltare alla Lega la conduzione della nostra politica estera nel Mediterraneo? Possiamo dare l’impressione che non ci interessa nulla della libertà del mondo arabo, della dignità delle persone, dello sviluppo economico e civile, infine della pace nel Mediterraneo, e che l’unica cosa di cui ci importa è il respingimento delle barche di disperati che solcano il Mediterraneo? Vediamo di affrontare realisticamente il proble-

Serve una Conferenza del Mediterraneo per stabilire come lottare insieme e con efficacia contro il dramma dell’immigrazione clandestina e come aprire i canali di quella legale ma. Prima di tutto è bene dire che il problema della immigrazione clandestina non coincide con quello delle barche dei disperati. Il 90 per cento degli immigrati arriva in Italia con un regolare visto turistico e rimangono dopo la fine del visto. Anche se affondassimo in mare a cannonate tutte le barche dei disperati non risolveremmo il problema della immigrazione clandestina e non allevieremmo se non in misura assolutamente marginale il disagio delle

nostre popolazioni. L’enfasi posta dalla Lega su questa parte assolutamente minoritaria della immigrazione tradisce un evidente intento propagandistico. Vengono in mente le osservazioni di un poliziotto/filosofo dei tempi del Terrore della Rivoluzione Francese. Questi dice che nulla allevia le sofferenze dei disgraziati come la visione del supplizio di altri ancora più disgraziati e ritenuti responsabili delle proprie sventure.

Si può accettare che la finalità primaria della politica della immigrazione sia il dare questa gratificazione psicologica ad una parte dell’elettorato della Lega? Si può accettare che la finalità principale della politica estera italiana nel Mediterraneo sia dare questa soddisfazione alle moderne tricoteuses (le donne che salutavano giubilando il funzionamento della ghigliottina)? Se vogliamo parlare seriamente di politiche contro l’immigrazione clandestina dobbiamo inquadrare queste politiche all’interno di un serio progetto di politica estera mediterranea e di una precisa visione dei diritti dell’uomo e del cittadino. La soluzione del problema non sta in un gesto di forza ma in un complesso processo negoziale. Il primo negoziato il Governo deve condurlo con la Magistratura italiana in modo di garantire procedure


la crisi libica di espulsione e rimpatrio rapido e rispettose dei diritti umani. Questo chiama in causa: a. la responsabilità del Governo che deve garantire procedure costituzionalmente corrette; b. la Magistratura che deve dare la necessaria cooperazione superando un atteggiamento pregiudizialmente contrario alle espulsioni che sussiste in una sua parte; c. la collaborazione delle ambasciate e delle autorità consolari dei Paesi di provenienza per la identificazione degli immigrati illegali e la esecuzione delle misure di espulsione. Con questo ultimo punto usciamo dal negoziato con la Magistratura ed entriamo in quello con i Paesi di provenienza della emigrazione.

Senza la loro collaborazione non ci sono soluzioni umane al problema. Collaborare, però, costa denaro e costa anche popolarità politica nei propri Paesi. L’emigrazione è comunque un alleggerimento della pressione sociale che deriva da masse giovanili disoccupate e prive di prospettive. Una politica di semplice repressione, evidentemente non genera consenso ed è difficilmente sostenibile. Occorrono dunque accordi bilaterali che prevedano il rimborso dei costi dei rimpatri e delle politiche di contrasto alla immigrazione clandestina e aprano canali di immigrazione legale commisurata alla domanda del mercato del lavoro italiano. Questi accordi vanno comunque inseriti in una visione politica più ampia. L’Italia, cercando prima di tutto il consenso degli altri Paesi mediterranei dell’Unione, deve stimolare una politica comune dell’Unione Europea nel mediterraneo. Come talvolta accade nell’Unione Europea, molti anni fa a Barcellona si è tracciato un itinerario, si sono dette tutte le cose giuste ma poi di queste non se ne è fatta quasi nessuna. Da lì bisogna ripartire. C’è bisogno di una Conferenza del Mediterraneo con la partecipazione di tutti i Paesi rivieraschi per stabilire come lottare insieme contro l’immigrazione clandestina e come aprire i canali della immigrazione legale. È necessario costruire un mercato comune dell’Africa Settentrionale con un piano di infrastrutturazione di quei Paesi. Bisogna associarli strettamente alla Unione Europea in un’area di prosperità condivisa del Mediterraneo. Dentro questa politica può trovare una soluzione anche il problema della emigrazione clandestina, che non si può risolvere facendo la faccia feroce contro i disperati. Chi non vuole vedere oltre il proprio naso non va da nessuna parte ed alla fine finisce anche con lo sbattere il naso.

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Il governo italiano ancora non spiega il piano rimpatri. L’Unione europea: «Pronti a collaborare»

Lacrime di una strage annunciata Un barcone con 300 profughi a bordo si ribalta a poche miglia dall’Italia. I dispersi sono 250 di Antonio Picasso ultima tragedia del mare, nel canale di Sicilia, avrebbe dovuto placare le polemiche. Se non altro per rispetto delle oltre duecento vittime annegate nella notte tra martedì e mercoledì. Il cordoglio, invece, è giunto prima dal Parlamento europeo riunito a Strasburgo, la cui seduta è stata interrotta per lutto, invece che dalle istituzioni italiane. Nel nostro Paese, purtroppo, lo scontro è proseguito. La cronaca dell’accaduto segue un triste canovaccio ben noto alla Guardia costiera. All’alba di ieri, sono stati avvistati i primi corpi in mare. Stando alla testimonianza dei sopravvissuti, si è trattato di un’imbarcazione di circa 13 metri che, dopo due notti di navigazione, si è rovesciata. A bordo vi erano circa trecento profughi, tra cui una quarantina di donne e bambini. Per la maggior parte di loro, i soccorsi si sono limitati al recupero delle salme. Nel frattempo da Lampedusa, le autorità comunicano che sono 1.500 gli extracomunitari attualmente presenti sull’isola. Di questi, 172 sarebbero minorenni. L’isola si conferma essere l’hub dell’immigrazione clandestina da tutta l’Africa. Viaggi della speranza, pagati centinaia di dollari e che terminano in tragedie ancora in mare, oppure che si consumano nella clandestinità delle città europee. Adesso che anche la Costa d’Avorio sta sprofondando nella guerra civile, bisogna attendersi un flusso di profughi ulteriore. Nigeriani, maghrebini, somali, eritrei, etiopi. Queste le nazionalità di chi fugge non solo dalle rivolte del mondo arabo e nordafricano.

L’

nostro Paese a pagarne le conseguenze. Malta, in tal senso, non risulta così colpita come Lampedusa. Sebbene non ne sia immune. Lo sviluppo del fenomeno infatti è: il nord Africa assorbe le masse, le rigetta in mare, Malta le rifiuta parzialmente, l’Italia è costretta ad accettarle. Del resto, quale dei governi egiziano, tunisino o addirittura libico può garantire, in questo momento, anche un minimo contributo al contenimento dei flussi migratori? Peraltro, è evidente che le posizioni geografiche della nostra penisola non aiutano.Tuttavia, non è questo il problema reale. Sul fronte politico interno, l’Italia si sta dimostrando totalmente impreparato a un fenomeno che poteva es-

bertà? Dall’altro capo del Paese, a Bolzano il consiglio provinciale ha respinto una mozione della Lega Nord, che proponeva l’apertura di Centro di identificazione ed espulsione (Cie). La consigliera leghista Elena Artioli ha motivato la sua richiesta sottolineando che «una volta arrestato un immigrato a Bolzano, questo viene mandato al Cie di Bologna, il quale è sempre pieno. Pertanto il clandestino è libero». Il governatore altoatesino, Luis Durnwalder, ha spiegato che però «non è nell’interesse della provincia istituire un Cie». Due realtà esplicitamente contrarie a qualsiasi solidarietà che si scontrano su chi è più duro nei confronti degli immigrati.

Nel frattempo, la Ue è intervenuta per dare una scossa ai 26 Paesi partner dell’Italia, affinché in questa emergenza diano il proprio contributo. Sempre ieri, il commissario europeo per gli affari interni, Cecilia Malmstrom, ha inviato una lettera in cui si chiede «un accordo in sede Ue su un piano di ripartizione dei rifugiati provenienti dalla Libia e dal Nord Africa ed essere pronti ad attivare, se necessario, la direttiva sulla protezione temporanea». L’iniziativa precede il summit del Consiglio dei ministri dell’interno, in agenda all’inizio della prossima settimana in Lussemburgo. «La ridistribuzione dei rifugiati può contribuire a mantenere lo spazio d’accoglienza e a sviluppare la cooperazione su altre questioni relative alle migrazioni e ai controlli delle frontiere», si legge ancora nella lettera. L’Europea s’è desta! O meglio, l’Italia si è accorta che Bruxelles non è del tutto impassibile alla crisi. A dispetto delle accuse il nostro governo troppo frequentemente ha rivolto alle istituzioni comunitarie. Va ricordato, infatti, l’impegno di Frontex, l’agenzia Ue per il controllo delle frontiere esterne, ma soprattutto i fondi che l’Italia avrebbe a disposizione per realizzare i necessari rimpatri. La Malmstrom ha dichiarato che si tratta di un contributo che supera i 10 milioni di euro. Risorse che possono essere sfruttare per il rinvio dei profughi nei Paesi di origine, ma anche per «eventuali programmi di prima accoglienza e formazione». Programmi, questi, che Bruxelles vorrebbe fossero realizzati in sede Ue, ma soprattutto in partnership con la Tunisia. Ammesso che a Tunisi si sappia con chi parlare.

Il nord Africa assorbe le masse, le rigetta in mare, Malta le rifiuta parzialmente, l’Italia è costretta ad accettarle. E questo perché nessuno dei governi può garantire un controllo dei flussi

Quei “fortunati” che riescono a toccare le coste italiane parlano di un contesto tunisino abbandonato a se stesso. Il governo Mezaba’a-Essebsi, al quale l’Italia ha strappato un accordo, non dà nessuna fiducia agli osservatori. In questo senso, la stampa francese sottolinea esplicitamente che la Tunisia è nelle mani di un regime post-dittatoriale. Caduto Ben Ali è rimasta la sua pletora gerontocratica, i cui obiettivi sono: sopravvivere al voto del 24 luglio, per l’elezione dell’assemblea costituente, e liberarsi della massa di sfollati di occupa le sue coste. Tenuto conto che molti di questi ultimi non sono propri connazionali, è anche comprensibile questa manovra di smaltimento. Comprensibile, ma non accettabile da parte delle autorità italiane. Specie se è il

sere previsto. Da anni gli analisti lanciano l’allarme per la potenziale creazione di un arco di crisi in Nord Africa. Caduti i singoli regimi, è logico che gli sfollati si rivolgano al mare e alle terre che questo separa per rifarsi la vita. È accaduto in Albania esattamente vent’anni fa. come pure al Nord America in un passato remoto. Ben più pernicioso si sta rivelando l’atteggiamento delle istituzioni centrali nei confronti delle amministrazioni regionali. Roma non è in grado di far pesare la propria autorità. La distribuzione degli immigrati dovrebbe nascere da un ordine che cala dall’alto e non, al contrario, diventare la fonte di un dibattito perenne. Nel frattempo, si consumano vicende di grottesca contraddizione. Ieri il governatore della Puglia, Nichi Vendola, tuonava contro «la vergogna di Manduria». Dov’è finito il lato solidale del leader di Sinistra Ecologia Li-


la crisi libica

pagina 4 • 7 aprile 2011

Per l’ex capo di stato maggiore della Difesa Vincenzo Camporini la Libia si dividerà in due e Gheddafi resterà al potere

Non attaccate la Nato

«Gli insorti non devono criticare l’Alleanza: sta facendo il possibile. Invece devono avere un progetto, delle Forze armate e molta pazienza» di Luisa Arezzo

Dal Cairo a Tripoli, da Tunisi a Damasco: basta essere fatalisti, bisogna dargli una mano isurata o non Misurata, gli insorti devono saper pazientare. Una guerra non si vince in quindici giorni. La Nato sta facendo tutto il possibile, ma è certo che questo conflitto durerà mesi e probabilmente non segnerà la fine di Gheddafi, ma solo una divisione del Paese. Insomma, il Raìs potrebbe restare in sella, seppur nella sola Tripolitania. Vincenzo Camporini - consigliere militare del ministro degli Esteri e fino a due mesi fa Capo di Stato maggiore della Difesa - è come sempre lucido e sintetico nelle sue analisi. Generale, la Nato lo ha ammesso: la conduzione di raid aerei mirati è diventata più difficile a causa dell’utilizzo di civili come scudi umani, in particolare nella città di Misurata. I ribelli però accusano l’Alleanza di lasciarli morire. Siamo o non siamo in grado di aiutarli? Io penso che tutto quello che era possibile fare sia stato fatto e lo si stia ancora facendo. Il problema della neutralizzazione delle singole sorgenti di fuoco in un contesto urbano è un problema che può avere delle soluzioni soltanto se ci sono tutte le componenti di un sistema informativo, ad esempio il local shoot. Uno degli elementi che oggi ci impediscono di essere più efficaci è che non c’è quello che da terra può guidare gli attacchi aerei. Nel campo della dottrina classica aeronautica questo si chiama closer support: il controllore a terra indica gli obiettivi e li designa con un laser tanto da renderli neutralizzabili con una precisione al metro. In Libia questa figura non c’è e non credo che il livello addestrativo delle milizie degli insorti sia tale da poter assicurare, nemmeno lontanamente, questa soluzione. Mi sta dicendo che la Nato mette in piedi una forza di siffatte proporzioni e non è in grado di infiltrare qualcuno in grado

«M

In Arabia è primavera e l’Occidente è impreparato di William Kristol n sommesso fatalismo accompagna l’Occidente quando si parla di cambiamenti. Forse è per questo che la nostra risposta alla Primavera Araba è stata, inizialmente, così riluttante. Ci sono tornate a mente molte primavere fallite o non andate a buon fine. Ci è stato insegnato che la delusione è inevitabile. Daltronde predire un fallimento sembra più terreno e facile che impegnarsi ad aver successo. Detto questo, la Primavera Araba merita di essere salutata con entusiasmo e sostegno. È stato chiaro, almeno dall’11 settembre 2001, che decenni di “stabilità” in Medioriente hanno prodotto una terra desolata di brutale autoritarismo, di estremismo islamico e di corrosivo antiamericanismo. Il presidente Bush ha veramente tentato di cambiare qualcosa, ma è innegabile che in quegli anni il Medioriente sembrasse essere impermeabile ai cambiamenti. Secondo alcune menti sofisticate lo status quo era meglio di qualsiasi altra probabile alternativa, dopo tutto - secondo il pensiero generale almeno l’arabo inverno «ci mantenne caldi, ottuse con immemore neve la Terra, nutrì con secchi tuberi una misera vita».

U

le straordinarie conquiste che sono state raggiunte negli ultimi quattro anni - e in Egitto e Tunisia. In Libia, le politiche della modesta amministrazione Obama dovrebbero dare la possibilità al popolo libico di liberarsi di Muammar Gheddafi. Un cambiamento di regime in Siria sembra possibile, e lo sarebbe senz’altro di più con il nostro aiuto e incoraggiamento. Insomma, bisognerebbere smettere di spacciare Bashar al-Assad come un “riformista”. E se a un certo punto la casa regnante saudita vacillasse, allora addio anche a loro e buona liberazione.

All’inizio del XXI secolo, sembra che gli arabi siano all’altezza della situazione. La domanda è: e noi lo siamo? Forse. E qui dobbiamo ricordarci dei risultati raggiunti da Winston Churchill, che ci suggeriscono di tenerci alla larga da un facile sentimento fatalista. Churchill non era il tipo da “terra desolata”. Era per molti versi un Vittoriano, o un neo-Vittoriano. Il 7 febbraio del 1952 rivolgendosi alla nazione inglese dopo la morte di re Giorgio VI, con la regina Elisabetta II che stava salendo al trono, Churchill concluse memorabilmente il suo discorso così: «Io, la cui giovinezza ho passato nelle venerabili, incontestate e tranquille glorie dell’era Vittoriana, riesco ancora a provare un brivido invocando la preghiera e l’inno “Dio salvi la Regina”». Certamente, come Churchill ben sapeva, le venerabili, incontestate e tranquille glorie dell’era Vittoriana non sarebbero mai tornate (ammesso che siano realmente esistite). Ma è forse troppo chiedere di riacquistare un po’ di quella vittoriana fiducia nel futuro? Non possiamo aggiustare tutto nel mondo, ma certamente possiamo fare in modo che qualcosa, nel mondo, migliori. Vale certamente la pena cercare di aiutare il Medioriente. E chissà, magari aiutando la Primavera Araba si potrebbe mettere in moto una Primavera Americana, una primavera occidentale di rinnovato orgoglio e di fiducia nella causa della libertà.

L’inverno arabo è finito. Donne e uomini in Medioriente non si accontentano più di una “misera vita”

L’invero arabo è finito. Gli uomini e le donne del grande Medioriente non si accontentano più di una “misera vita”. Ora ovviamente è possibile che questa si dimostrerà essere una falsa primavera. Ma sicuramente gli Stati Uniti e i suoi alleati avranno la capacità di aiutare i riformisti nel mondo arabo a raggiungere dei risultati significativi - in Iraq, dove dobbiamo essere sicuri di non sprecare

di svolgere queste operazioni? Non so se l’abbiano fatto, se lo stiano facendo o se lo faranno. Ma so per certo che finora tutto quello che si poteva fare è stato fatto. Il ritiro degli americani è dovuto anche al fatto che gli obiettivi fattibili sono finiti, o quasi. E adesso non c’è più modo di lanciare delle missioni che abbiano delle finalità consolidate. Questo dal punto di vista tecnico. E poi ci sono dei risvolti politici, dovuti alla percezione che ne hanno gli attori come quello di essere abbandonati dalla Nato (ovvio che non c’è nessun atteggiamento del genere). Non sarà dando agli insorti un certo quantitativo di armi che riusciremo a determinare le sorti di questo conflitto, che rischia di incancrenirsi e protrarsi per mesi, con l’unica soluzione finale che sarà la presa d’atto di una separazione, in ogni caso disastrosa per tutti. Dallo stallo alla divisione della Libia? Abbiamo sempre detto che questa situazione non si sarebbe risolta nell’arco di un paio di settimane ma che si sarebbe prolungata per molto tempo. Questo è ciò che sta accadendo. Ci vorrà ancora qualche mese, mentre diventa sempre più concreto il rischio di una spaccatura del Paese, benché contraria all’interesse della comunità internazionale in generale e italiana in particolare. La Libia si dividerà in due: Cirenaica e Tripolitania? Sì. Separazione significa che Gheddafi resterà in sella? Presuppone quantomeno che Gheddafi resti in Tripolitania. D’altra parte non è certo l’unico caso di leader inviso al resto del mondo che riesca a mantenere la sua posizione di potere. Nulla vieterà a Gheddafi, se riuscirà a mantenere il supporto di quella parte di popolazione libica di cui è espressione, di rimanere al potere. Lei ha detto che gli obiettivi sensibili in Libia sono praticamente esauriti. Però ieri la Nato ha detto che finora è stato distrutto il 30 per cento dell’arsenale del raìs. E l’altro 70 per cento? L’altro 70 per cento è costituito da quegli elementi che sfuggo-


Le contraddizioni della missione in Libia e gli scudi umani del raìs

Due eserciti in panne nelle stesse sabbie Il generale Yunis accusa Bruxelles mentre Misurata, sotto assedio dell’esercito di Gheddafi, è allo stremo di Pierre Chiartano

I ribelli libici sparano in aria a Misurata, teatro di violenti scontri. A destra il Colonnello, il dittatore Muammar Gheddafi. Nella pagina a fianco un giovane esulta durante le proteste no alla capacità di ricognizione satellitare o fatta ad alta quota. Distinguere da parte del pilota a bordo di un aeroplano se il camioncino porta il latte o una mitragliera non è la cosa più agevole di questo mondo. Diciamo che gli obiettivi tecnicamente fattibili, senza avere qualcuno a terra che li indichi, diventano francamente impossibili. Dunque o si fa un passo in avanti o altrimenti questi limiti segneranno la disfatta? A guardare le immagini che provengono da Bengasi non mi sembra che si sia davanti a una città travolta dalla catastrofe... Lo stesso non si può dire per Misurata e Brega però... Misurata è sotto assedio, è vero, ma questo significa due cose: la prima è che Gheddafi non può vincere, perché non è in grado di portare sotto il suo controllo un contesto urbano che lo respinge. La seconda è che gli insorti non hanno la capacità di liberarsi. Misurata è l’emblema dello stallo in cui ci troviamo.

Si è parlato della possibilità di fornire armi agli insorti. Il nostro ministro, seppur bollandola come “estrema ratio”, ha aperto a questa possibilità. È questa la via? L’intera comunità internazionale se lo chiede. Certo è che non è sufficiente dare armi a chi non è in grado di adoperarle. E poi bisogna capire dove finiscono. L’identificazione politica degli insorti ci deve indurre a qualche prudenza nel mettere a loro disposizione sistemi che potrebbero rivelarsi pericolosi. L’invio delle truppe è un tabù? Dal punto di vista squisitamente tecnico non si può escludere, ma oggi l’impegno delle forze armate occidentali in altri teatri praticamente lo esclude. Ai ribelli quale messaggio deve mandare l’Occidente? Dimostratevi di essere credibili, definite un progetto di medio periodo, non pensate di vincere nell’arco di quindici giorni, costruitevi delle Forze Armate. Ci vorranno sei mesi, sappiate pazientare, in sei mesi sarete addestrati. Dalla coalizione.

ROMA. In Libia le operazioni dell’Alleanza atlantica non funzionerebbero come preventivato. La denuncia è forte e proviene da una voce autorevole: il generale Abdel Yunis, ex paracadutista dell’esercito di Gheddafi passato sin dall’inizio della rivolta con i ribelli di Bengasi, ha denunciato la lentezza dei raid della Nato, addossando alla coalizione la morte di decine di civili a Misurata, la città dove ancora si sta combattendo. Ma l’Alleanza atlantica non ci sta e puntualizza che il ritmo dei raid aerei non è cambiato da quando c’è stato il passaggio di consegne con l’asse franco-britannico. Però i risultati dei raid non sono sufficienti a capovolgere il fronte, le truppe ribelli male coordinate e addestrate. E martedì le unità navali della Nato hanno anche bloccato alcune imbarcazioni che avrebbero portato armi ai ribelli della città costiera assediata, ma anche rifornimenti, medicinali e viveri. Fondamentali visto che la popolazione di Misurata è allo stremo. È quindi comprensibile una certa animosità del generale Yunis che, ricordiamo, comanda le uniche unità militarmente preparate nelle fila dei bengasini. Un accusa che ”brucia” tanto che la risposta è arrivata subito ieri. Un portatove della Nato ha infatti precisato che l’Alleanza è pronta «a fare tutto il necessario per proteggere i civili» della terza città della libica. La Francia ha annunciato che a breve potrebbero arrivare via mare aiuti e rifornimenti in città. E da Parigi filtrano anche le prime ammissioni sull’esito della missione. In Libia «rischiamo di impantanarci»: lo ha sottolineato il ministro degli Esteri francese, Alain Juppe. I bombardamenti sulla Libia comportano rischi maggiori, ha spiegato il capo del Quai d’Orsay, perché le truppe di Gheddafi si tengono vicino ai civili. Qualche buona notizia per il fronte dell’opposizione al rais viene invece dal fronte economico. La prima vendita di greggio al Quatar avvenuta ieri con il rifornimento di una petroliera, dovrebbe fruttare circa 120 milioni di dollari per le casse esangui del Consiglio di transizione di Bengasi. In Cirenaica sono collocati l’80 per cento dei pozzi petroliferi di tutta la Libia. Mentre il regime ha dovuto importare 19mila tonnellate di benzina, vista la scarsità di carburante a Tripoli. E il caso ha voluto che emergessero le prime prove degli eccessi delle truppe governative. Alcune foto che testimoniano le torture commesse dagli uomini del colonnello contro gli insorti sono state ritrovate da un gruppo di giornalisti al secondo piano di una stazione di polizia a Zawiyah. Come scrive l’inviato del New York Times, nel-

le foto sono ritratti uomini seminudi che portano sul corpo segni di torture e cicatrici, altri con le mani legate dietro la schiena, altri ancora in una pozza di sangue. In altre foto si vedono le armi bianche usate dai torturatori, tra cui bottiglie rotte e polveri. Le foto sono state scoperte per caso durante un tour per i giornalisti organizzato proprio dagli uomini del regime, per mostrare la devastazione di Zawiyah, città in cui si è combattutto per una settimana circa e ieri tornata sotto il controllo dei lealisti. Le notizie di feroci torture contro i ribelli circolano da tempo.

La perdita di terreno contro le forze di Muammar Gheddafi è «un fatto normale» quando si combatte nel deserto, perché questo tipo di guerre sono «molto fluide». Così, il portavoce dei ribelli, Mustafa Gheriani, commentando la battaglia di ieri a Brega nel corso della quale gli insorti sono stati costretti alla ritirata dai lealisti. «Durante la guerra di Tobruk, nella seconda guerra mondiale, ad esempio, ci si spostava di 50 chilometri ogni giorno», ha affermato Gheriani, secondo cui le truppe di Gheddafi potrebbero anche minacciare Ajdabiya. E una conferma che questo «tira e molla» sul fronte potesse essere una tattica, lo aveva anticipato a liberal anche il generale Fabio Mini la scorsa settimana. Il leader libico ha inviato un messaggio al presidente Usa Obama «in seguito all’uscita dell’America dall’alleanza coloniale dei crociati contro la Libia» riferisce l’agenzia Jana. Infatti continuano le operazioni di ritiro delle forze americane da Unified Protector. Sul fronte allarme terrorismo è invece arrivato un monito dall’Algeria, dopo le notizie sul passaggio di armi dalla Libia ai campi di addestramento di al Qaeda nel Mali. È stato il ministro algerino per gli Affari africani, Abdel Qader Masahil, in un’intervista ad un quotidiano arabo. «I terroristi islamici sono riusciti a ottenere armi pesanti molto sofisticate approfittando della guerra in Libia e questo fatto mette in pericolo tutta la regione», ha spiegato Qader Masahil ad alQuds al-Arabì (Gerusalemme araba). Mentre sul versante degli interessi nazionali arriva un monito dall’Eni. «Possiamo vivere senza gas libico ma il nostro grado di sicurezza degli approviggionamenti è diminuito». Lo ha affermato l’amministratore delegato del cane a sei zampe, Paolo Scaroni, al termine di una audizione alla Camera. «Guai se il prossimo inverno in aggiunta al calo del gas libico se ne aggiungesse un altro – ha aggiunto Scaroni – sarebbe un problema serio per l’Italia e forse per l’Europa».

Prosegue il ritiro delle forze americane dalla missione Nato, mentre Ankara continua a tessere la tela della mediazione diplomatica tra Tripoli e Bengasi


pagina 6 • 7 aprile 2011

Il Grande Fiume Artificiale porta l’oro blu al 70% del popolo libico. Voluto dal Colonnello, può diventare la sua arma finale uando fu inaugurata la prima condotta, da Murzuk a Tripoli, nel 1996, Gheddafi la definì l’ottava meraviglia del mondo. Adesso potrebbe diventare l’arma finale, l’estrema risorsa per mettere in ginocchio il neonato governo provvisorio di Bengasi. È il “Grande fiume artificiale” che parte dai quattro bacini scoperti sotto il deserto a Kufra, Sirte, Hamada e Murzuk e che fa arrivare il 70 per cento dell’acqua a tutte le città della costa attraverso una complessa rete di 4.000 chilometri di pipeline e di 270 stazioni di pompaggio che, in gran parte, sono sotto il controllo delle milizie del colonnello. Che potrebbe chiudere il rubinetto in qualsiasi momento

Q

Complessivamente i tubi, che hanno un diametro di quattro metri e sono in cemento, coprono un percorso di 4mila chilometri lasciando a secco l’intera Cirenaica. Nel suo ultimo discorso, il 4 aprile, il raìs lo ha minacciato: «Se i bombardamenti della Nato non finiranno, i ribelli rimarranno senz’acqua». Parole che sulla stampa occidentale non hanno trovato particolare attenzione perché pochi sanno quale importanza strategica ha questo gigantesco acquedotto che

è costato quasi 50 miliardi di dollari e trent’anni di lavori. E che per la Libia è vitale almeno quanto lo sono i pozzi di petrolio e gli oleodotti che li collegano ai porti: quelli in mano al regime e quelli conquistati dagli insorti. Fu proprio durante una campagna di ricerca di nuovi giacimenti di greggio nel profondo Sud del deserto libico, lanciata alla fine degli Anni Sessanta ancora durante il regno di Idris al Senussi, che furono individuate vaste riserve di acqua fossile di alta qualità: una specie di oceano sotterraneo di 35.000 chilometri cubi di acqua dolce. In un primo momento fu presa in considerazione l’idea di sviluppare progetti agricoli vicino alle sorgenti con pozzi scavati nel deserto. Un piano subito accantonato perché ci sarebbe voluta un’enorme rete di infrastrutture e un esodo quasi biblico della popolazione - che è concentrata lungo la fascia costiera - verso le nuove fattorie che sarebbero potute nascere tra il Sahara e il massiccio del Tibesti. Era molto più conveniente continuare a puntare sul petrolio e investire i milioni di dollari che entravano in cassa per costruire impianti di desalinizzazione sul mare come già facevano i Paesi del Golfo e la stessa Arabia Saudita.

Dell’oceano sotto il deserto non parlò più nessuno fino al 1979. Erano passati dieci anni esatti dalla “rivoluzione verde” di Gheddafi che aveva rovesciato re Idris il primo settembre del 1969 e uno studio di fattibilità per sfruttare questo tesoro fu affidato addirittura a una società americana, la Kellogg Brown & Root di Houston, specializzata in grandi lavori, concessionaria anche di molte commesse delle forze armate Usa. Allora non c’era l’embargo per le opere civili, pur se Gheddafi era già sotto osservazione speciale da par-

Il raìs pronto a chiudere l’enorme acquedotto creato da lui

Così Gheddafi vuole assetare i ribelli della Libia di Enrico Singer te di Washington. Il progetto della Kellogg Brown & Root piacque al raìs: portare l’acqua dalle viscere del deserto alle città della costa avrebbe rafforzato la sua popolarità tra la gente - e soprattutto tra le diverse componenti del mosaico tribale - che tiene molto di più ad avere in casa l’oro blù, l’acqua, piuttosto che vedere l’oro nero in mano ai clan del potere. Anche perché i pozzi già esistenti lungo la costa, con il passare degli anni, erano in parte esauriti e, in parte, inquinati dall’acqua salmastra del mare. Nell’ottobre del 1983 fu creata l’Autorità del Grande Fiume Artificiale e fu dato ufficialmente il via al Great Man-Made River Project, il progetto per scavare i pozzi, costruire

le condutture (interrate sotto la sabbia del deserto per evitare l’evaporazione), realizzare le stazioni di pompaggio per far scorrere l’acqua in un percorso pianeggiante e collegare tutto alla rete idrica esistente sulla fascia costiera libica. Un’opera faraonica. Complessivamente i tubi, che hanno un diametro di quattro metri e sono in cemento, coprono un percorso di quattromila chilometri.Tutto il materiale è stato prodotto localmente in uno stabilimento vicino a Brega realizzato da una società sudcoreana, la Dong Ah, che si è divisa con la Kellogg Brown & Root il colossale business. Ma il fiume sotterraneo si è rivelato un ottimo affare anche per il regime di Gheddafi. Non solo politico.


la crisi libica

Il costo di un metro cubo di acqua è pari a 35 centesimi di dollaro, mentre per ottenere un metro cubo di acqua desalinizzata ci vogliono 3 dollari. È vero che le riserve dei bacini di Kufra, Sirte, Hamada e Murzuk non saranno eterne, ma gli esperti stimano che la quantità d’acqua da sfruttare è equivalente almeno a 200 anni del flusso del fiume Nilo. La cerimonia d’inaugurazione fu una specie di trionfo personale del Colonnello che scelse, manco a dirlo, il giorno dell’anniversario della sua rivoluzione: il primo settembre. E se Gheddafi disse che il grande fiume artificiale era l’ottava meraviglia del mondo, uno dei suoi ospiti d’onore, il contestato leader musulmano nero americano, Louis Farrakhan, padre della Nation of Islam, andò ancora oltre parlando di “nuovo miracolo del deserto”. A quella festa parteciparono anche molti capi di Stato arabi al potere nel 1996: dall’egiziano Hosni Mubarak a re Hassan del Marocco, dal capo del Sudan, generale Omar el Beshir, al presidente di Gibuti, Hassan Julied. Muammar Gheddafi si rivolse in paricolare a Mubarak invitandolo a favorire l’emigrazione in Libia di migliaia di contadini egiziani per popolare le fattorie lungo la costa - anche quelle confiscate agli italiani cacciati nel 1970 che stavano per tornare a nuova vita grazie all’acqua del deserto. Altri immigrati erano già arrivati per costruire il “Grande fiume artificiale”: si calcola che la sudcoreana Dong Ah abbia impiegato circa 15mila operai per realizzare l’opera che è stata portata a termine in più fasi. Dopo il primo tronco da Murzuk a Tripoli, che è di circa mille chilometri e che è stato inaugurato nel 1996, sono stati scavati altri tremila chilometri di trincee nella sabbia dove sono stati deposti i tubi dell’acquedotto sia lungo la costa per unire

Tripoli a Bengasi, sia per raggiungere gli altri bacini di acqua fossile. Ancora oggi l’intero progetto del Great ManMade River non è completato, ma rappresenta già la più gigantesca opera di questo genere mai realizzata al mondo e trasporta circa due milioni di metri cubi d’acqua al giorno. Per scavare le trincee nella sabbia sono stati utilizzati 400 enormi Caterpillar americani, così come erano americani i camion Cummins adoperati per trasportare in lunghe carovane sulle piste del deserto le sezioni dei tubi di cemento costruiti nello stabilimento di Brega, a sua volta realizzato dalla Dowell Schlumberger, un’altra ditta americana. A tre anni dall’inizio vero e proprio dei lavori (nel 1983) il progetto rischiò di saltare per effetto delle sanzioni decretate dal presidente americano Ronald Reagan dopo che i rapporti tra gli Usa e il regime del colonnello erano arrivati sull’orlo della guerra in seguito all’attentato compiuto in Germania da terroristi libici contro un locale di Berlino - il bar La Belle che era frequentato da militari statunitensi che provocò tre morti e oltre duecento feriti. Era il 5 aprile dell’86. Reagan definì Gheddafi «il cane rabbioso di Tripoli», ordinò una rappresaglia aerea contro la residenza del raìs nella capitale libica e decretò l’embargo totale delle esportazioni verso la Libia.

Poteva essere un colpo mortale per la Kellogg Brown & Root e per quella che il Financial Times aveva definito «l’utopia del colonnello». Ma, a dimostrazione che business is business, la società americana passò la commessa alla sua filiale britannica associata con un’altra impesa anglo-americana, la Price Brothers, e il contratto andò avanti. L’Europa, infatti, non aderì alle sanzioni americane se non per la vendita di armi: i rapporti commerciali con la Libia erano troppo forti per molti Paesi europei, Italia in testa. E italiana fu anche una società - la Soilmec che, almeno secondo gli americani, realizzò una triangolazione per far arrivare una dozzina di sistemi di scavo per pozzi dagli Usa al deserto libico. Ma nella storia della costruzione del “Grande fiume artificiale” c’è anche un retroscena degno dei migliori film di

spionaggio e, per la verità, mai completamente chiarito. Gli esperti del Dipartimento di Stato e della Difesa Usa ipotizzarono che il mega-acquedotto poteva nascondere un sistema di gallerie da utilizzare anche per scopi militari. In effetti i tubi di quattro metri di diametro erano più che sufficienti per far passare uomini e mezzi da una parte all’altra del Paese verso la Tunisia, l’Egitto, il Ciad e il Sudan. Del resto, una galleria era stata realizzata da Gheddafi anche al confine tra Libia e Ciad, Paese che fu invaso dalle truppe del raìs che vi combatterono una lunga guerra tra il 1980 e il 1987. A insospettire l’intelligence americana, oltre alla considerevole dimensione dei tubi usati per l’opera, fu la realizzazione di grandi vasche sotterranee di circa venti metri per venti ogni 50, 60 chilometri del percorso della pipeline.

Secondo il progetto, si trattava di camere di decompressione per regolare la portata dell’acqua nella grande condotta. Secondo i servizi segreti americani, potevano anche essere delle aree per far sostare e riposare i soldati in transito. Non solo. Il percorso di

Gli esperti stimano che la quantità d’acqua da sfruttare è equivalente almeno a 200 anni del flusso del fiume Nilo una delle condutture sotterranee è molto vicino al monte Tarhuna dove, secondo la stessa intelligence americana, Gheddafi aveva realizzato il suo più importante stabilimento per la costruzione di armi chimiche e batteriologoche, poi abbandonato in cambio della normalizzazione con Washington. Robert Waller, un esperto del National Security Council, nel 1997, disse che - almeno in quel punto - il “Grande fiume artificiale” altro non era se non «un’estensione di Tarhuna». Il sospetto degli americani, insomma, era che una parte del mega-acquedotto fosse un impianto militare. Jane’s Defense Weekly, scrisse che «Gheddafi aveva imparato la lezione di Kim Il-

Dall’alto in senso orario: Gheddafi nel 1996 alla cerimonia di inaugurazione dell’acquedotto; una delle oasi nel deserto; fasi della costruzione dell’opera; Saif al Islam; la mappa degli acquedotti e altre fasi dell’opera ingegneristica

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sung, il dittatore nordcoreano grande specialista delle strutture militari sotterranee». Del resto, era noto che il colonnello, dopo il bombardamento americano della sua residenza nella caserma di Bab al Azizia, dove era stata uccisa anche una sua figlia adottiva, si era fatto costruire un bunker sotterraneo via via diventato una vera e propria cittadella con gallerie che arrivano fino al vicino aeroporto internazionale di Tripoli. È la cittadella in cui è asserragliato anche adesso e da dove lancia i suoi ultimatum ai ribelli, compreso quello del 4 aprile in cui ha minacciato di chiudere il rubinetto dell’acqua a Bengasi se i bombardamenti della Nato non finiranno. Gheddafi ha anche detto che gli stessi attacchi aerei potrebbero danneggiare il “Grande fiume artificiale” ed essere, quindi, la causa diretta dell’interruzione del rifornimento idrico alla capitale degli insorti. È un modo per rovesciare sulla Nato la eventuale responsabilità di quello che potrebbe succedere. È un alibi preventivo perché il colonnello sa molto bene che la sua “arma finale” è a doppio taglio. La risoluzione dell’Onu autorizza tutte le misure necessarie per proteggere la popolazione: assetare Bengasi e le altre città in mano ai ribelli sarebbe un’aggressione diretta contro i civili, anche peggiore dei bombardamenti che stanno martellando Misurata o altre zone contese.

E potrebbe far scattare delle contromisure adeguate da parte della Nato nel rispetto della risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Per ora è soltanto un’ipotesi. Ma tre giorni fa nel conflitto c’è già stata una svolta che a molti poteva sembrare sorprendente. Il Consiglio nazionale di transizione – che ormai anche l’Italia ha riconosciuto come suo unico interlocutore legittimo – è riuscito a far partire il suo primo carico di greggio dal porto di Marsa el Hariga. Il conflitto, così, ha cominciato a prendere i contorni anche di una guerra del petrolio. Se Gheddafi la trasformasse in una guerra dell’acqua tagliando il flusso del “Grande fiume artificiale”, gli sviluppi potrebbero essere ancora più gravi.


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il caso generali

Ecco chi è il tycoon della finanza che da Bankitalia è arrivato a domare il Leo

Dieci “coltella on c’è contrasto tra rigorosa tutela degli interessi aziendali e attenzione agli interessi generali. GeneraIi con la ‘g’ minuscola». Così rispondeva Cesare Geronzi a ottobre, alla domanda di un’intervista. E «Generali è l’azienda a maggiore capitalizzazione italiana, completamente internazionale; è importante ora che rimetta al centro dell’attenzione di tutti la valorizzazione e la buona gestione dell’azienda», ha ricordato la leader di Confindustria Emma Marcegaglia. Adesso Geronzi si è dimesso da Presidente delle Generali: per prevenire la manifestata intenzione di 10 dei 17 consiglieri del gruppo assicurativo di votare una mozione di sfiducia nei suoi confronti. Tra di loro Alberto Nagel e Francesco Saverio Vinci: rispettivamente, amministratore delegato e direttore generale di quella Mediobanca che è il primo azionista della compagnia triestina. E il titolo è volato in Borsa: cauto in avvio di seduta, dopo la notizia è schizzato fino al 5%, per poi assestarsi attorno al 3. Quando si dice: il gradimento del mercato…

«N

Nato a Marino nei Castelli Romani il 15 febbraio del 1935, a parte l’essere handicappato da un cognome il cui finale in italiano dà la stura a ogni tipo di rime goliardiche, Geronzi è un personaggio che è incappato in una quantità di guai giudiziari. Però, dalla maggior parte ne è uscito. Per la vicenda Federconsorzi, ad esempio, c’è stata un’assoluzione. Per il Crac Italcase un proscioglimento con formula piena, “per non aver commesso il fatto”. Per la vicenda Parmalat-Eurolat, con le accuse di aver costretto Tanzi ad accollarsi la società Ciappazzi del gruppo Ciarrapico facendo finanziare l’investimento da Capitalia con tassi da usura e anche di avergli imposto l’acquisto di Eu-

Nato a Marino nel 1935, è un personaggio spesso incappato in una quantità di guai giudiziari. Però, dalla maggior parte ne è uscito rolat dal Gruppo Cirio di Sergio Cragnotti ad un prezzo gonfiato minacciando di chiudere gli affidamenti bancari, il gup di Roma ha fatto cadere l’estorsione, passando alla Cassazione la sentenza riguardante la competenza a svolgere il processo per bancarotta. Resta il Crac Cirio: indagato per frode riguardo l’emissione e collocamento dei bond Cirio tramite Capitalia, con la richiesta da parte della Procura della Repubblica di Roma

Sfiduciato dal Consiglio di amministrazione di Generali, Geronzi si è dimesso ieri di Maurizio Stefanini di 8 anni per reclusione. E c’è il caso Telecom: la frode fiscale operata da quella lussemburghese Bell che era controllata da Hopa. La merchant bank di Emilio Gnutti partecipata anche da Geronzi. Eppure, Geronzi si è sempre risollevato, riuscendo a tornare protagonista. Vincitore del concorso in Banca d’Italia nel 1960, già l’essere riuscito a lavorare tra 1961 e 1976 nel settore cambi riuscendo a farsi largo e ad affermarsi professionalmente è particolare degno di nota: sia se si tiene presente in generale il dificilissimo ambiente politico degli anni ’60 e ’70; sia ancor più pensando al complesso profilo umano del Governatore Guido Carli, altrimenti soprannominato “il gauleiter della lira”, e con cui riuscì però a collaborare senza problemi. Che ebbe invece con Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini, da cui si ritrovò chiuso completamente.

E qui arriva la prima della sue resurrezioni: si mette sul mercato, e nel 1980 diventa vicedirettore generale del Banco di Napoli, al seguito dell’allora Direttore Generale Rinaldo Ossola. Capo due

anni, e tutti e due sono letteralmente cacciati. Ma come il misirizzi dei giochi dei bambini di una volta, come il sughero buttato in acqua, più provano a buttarlo giù, e più lui ritorna a galla. E subito rispunta fuori alla Cassa di Risparmio di Roma, come direttore generale. E lì, anzi, avviene uno scatto decisivo. Il Banco di Santo Spirito, storica banca romana di area cattolica, all’epoca è controllata dall’Iri, presieduto da Romano Prodi.

Ma si trova in gravi difficoltà economiche. Progetto di Geronzi: rilevarla. Ma dove trovare gli 800 miliardi che sarebbero necessari, e di cui Cariroma non dispone? Colpo di genio: vendere al Banco di Santo Spirito i propri sportelli; diventare una holding; e con il denaro così ottenuto rilevare il capitale azionario. Nel 1990 verrà aggiunto al gruppo anche il Banco di Roma, e nel 1992 dalla fusione tra le tre sigle nascerà la Banca di Roma. Se negli anni ’80 Geronzi è stato sostenuto da Andreotti, negli anni ’90 con l’eclisse del vecchio sistema politico riesce


il caso generali

one di Trieste. Passando indenne per Unicredit, Mediobanca e il crac Parmalat

ate” per Cesare La facciata della sede delle Assicurazioni Generali. A sinistra Giovanni Perissinotto, presidente di Banca Generali. A destra Vincent Bollorè, manager francese intimo del presidente Nicolas Sarkozy, che sosteneva la linea dell’ex presidente del colosso assicurativo Cesare Geronzi (nella pagina a fianco). Questi, nominato al vertice di Generali circa un anno fa, ieri si è dimesso dopo aver trovato una mozione di sfiducia contro di lui firmata da dieci membri del Consiglio d’amministrazione

lia del 49 per cento di Italpetroli: la società dei Sensi che controlla la Roma. Il che, sempre nello stesso spirito ecumenico, non impedisce a Capitalia di essere anche uno dei creditori della Lazio: dopo esserne stata anche azionista e averla salvata con un aumento di capitale.

però a ritrovare importanti appoggi in Bankitalia. D’altra parte, lui ha finanziato a destra e manca, con notevole liberalità multipartisan: Risparmio Oggi di Bruno Vespa; Il Messaggero di Francesco Gaetano Caltagirone; Class di Paolo Panerai; l’Unità; Il Manifesto; Tele Monte Carlo di Vittorio Cecchi Gori. Mentre la Mmp è una concessionaria di pubblicità che appoggia Topolino, Secolo d’Italia, L’Unione sarda, Qui Touring, Famiglia Cristiana, Osservatore Romano, fino a quando non sarà costretta a chiudere nel 1997 con 450 miliardi di perdite. Il 70 per cento a carico del settore pubblico.

Nel 1996 Banca di Roma fornisce anche 502 miliardi ai Ds. E pure notevole è l’impegno nel mondo del calcio. Luciano Gaucci accuserà Geronzi per il fallimento del Perugia Calcio, facendo sì che sua sentito dalla magistratura come persona informata sui fatti. Al 2004 risale l’acquisto tramite Capita-

Ma gli anni ’90 sono più in generale il periodo in cui la fine della Prima Repubblica e gli accordi di Maastricht impongono da un lato privatizzazioni che diano respiro alle esauste finanze pubbliche italiane; dall’altro la creazione di nuovi agglomerati bancari più in condizioni di reggere alla concorrenza nel nuovo mercato unico europeo in formazione. All’avanguardia in questo processo, la Banca di Roma compra la Banca Mediterranea; finanzia l’alta velocità delle Ferrovie dello Stato; fonda la holding turistica Ecp. Nel 1995 acquisisce la Banca Nazionale dell’Agricoltura, che sarà poi venduta cinque anni dopo all’Antonveneta per una volta e mezza il prezzo pagato. E il gruppo supera un giro d’affari di 10.000 miliardi di Lire, sbarcando anche al Sud con l’acquisto di Mediocredito Centrale e Banco di Sicilia. In cambio, la Regione Siciliana e la Fondazione Banco di Sicilia divengono a loro volta due soci importanti. Nel 2002 sono poi assorbite la Banca Popolare di Brescia e la Cassa di Ri-

sparmio di Reggio Emilia. È nel luglio del 2002 con questo continuo accorpare banche in crisi o in pre-crisi Geronzi arriva infine alla creazione di Capitalia. Ma quando Capitalia nasce, già in Argentina la crisi del regime di cambio fisso tra peso e dollaro, ormai insostenibile, ha avviato il processo che porterà al default dei bond del governo di Buenos Aires. Particolarmente redditizi, proprio perché particolarmente a rischio. E alla vicenda dei bond argentini si aggiungono presto anche quelle di Cragnotti e Tanzi, con i crac Parmalat e Cirio. E nel 2004 Geronzi e Capitalia sono investiti in pieno dai contraccolpi, anche se per la verità la stessa Capitalia non ha emesso alcun bond della Parmalat, e si è limitata a emetterne 2 sui 1100 della Cirio: per di più, assieme a Unicredito e JPMorgan. Come già ricordato la sentenza sul crac Italcase, col tribunale di Brescia che il 7 dicembre 2006 condanna Geronzi in primo grado, è ribaltata nella sentenza d’appello. Geronzi “non ha commesso il fatto”, Intanto, però, si è arrivari all’11 maggio del 2009.

Il 20 maggio 2007, con l’approvazione finale di quella fusione per incorporazione di Capitalia SpA in Unicredit SpA in cui la banca è valutata 22 miliardi di euro, Geronzi può così diventare in capo a un mese presidente del consiglio di sorveglianza di Mediobanca, di cui era già Vice Presidente. E nel marzo 2010 viene designato da Mediobanca quale Presidente delle Assicurazioni Generali: nomina concretizzata il 24 aprile 2010. La sua idea è di “lasciare un segno”, caratterizzandosi come “banchiere di sistema”. Insomma, un gruppo che continui l’espansione estera, magari in paesi in cui finora le Generali sono state poco presenti, come quelli del Sudamerica. E che in Italia dà il via libera al piano di housing sociale con la Cassa depositi e prestiti, controllata al 70 per cento dal Tesoro. Geronzi convoca inoltre i vertici con frequenza sempre maggiore, e rivitalizza una Fondazione Generali da tempo in sonno. «Sarà aumentato il patrimonio e sarà costituito un comitato scientifico di altissimo livello per farne uno strumento operativo per le attività legate alla ricerca, alla cultura», promette. Un ruolo forse troppo forte, per la tradizione di Generali. E infatti da Della Valle parte l’offensiva contro i “metodi petrsonalistici”, che porta a questa conclusione. Anche se forse non sarà tale.

Per la vicenda Federconsorzi, fu assolto. Per il crac Italcase, prosciolto con formula piena «per non aver commesso il fatto»

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il caso generali

Sfiduciato dagli azionisti il presidente di Generali presenta le dimissioni

Mediobanca libera Trieste da Geronzi Piazzetta Cuccia prepensiona il suo ex numero uno e rivendica il possesso del colosso di Francesco Pacifico

ROMA. Dimissioni spinte dall’orgoglio che sembrano un colpo d’ala. Ma che non nascondono la resa di chi ha tanto brigato per conquistare le Generali anche per «amore delle cose complesse». Ieri mattina, neppure ha varcato gli austeri saloni di piazza Venezia, che Cesare Geronzi ha trovato ad attenderlo una mozione di sfiducia firmata da dieci su diciotto membri del consiglio d’amministrazione. E non ha potuto che trarne le conseguenze.

Di lì a poco il banchiere ha comunicato le sue dimissioni, per evitare uno scontro dal quale ne sarebbero usciti con le ossa rotta sia lui sia la compagnia. Anche perché a sfiduciarlo c’era soprattutto Mediobanca, che oltre a voler chiudere i conti

menti e obiettivi di una partita che sembra ancora lontana dalla chiusura. In quella stilata ieri dal Leone si legge che «il presidente Cesare Geronzi, a seguito della situazione venutasi a creare per contrasti che non lo vedono partecipe nelle Generali, ha ritenuto, dopo pacata riflessione, nel superiore interesse della Compagnia, di rassegnare, oggi, le dimissioni dalla carica ricoperta». Al di là di quanto ci sia il suo zampino nelle recriminazioni francesi, Geronzi paga soprattutto per non aver mantenuto gli impegni che si era dato sedendo sulla un tempo poltrona di Desiata e di Bernheim: fare da garante tra gli interessi dei soci italiani e transalpini di Mediobanca. Ma questo avrebbe voluto dire – contemporanea-

Alla Merchant bank e ai soci italiani la prima vera battaglia nella guerra che li contrappone alla finanza transalpina. Da Rcs a Pirelli, tornano in gioco tutte le partecipazioni dell’assicuratore con il “barbaro romano” ne ha approfittato anche per riprendersi il controllo del Leone. A quanto se ne sa, le ultime 48 ore sono state scandite da frenetiche trattative sull’asse Trieste-Milano-Parigi, con le parti che ben presto si sono rese conto che il mercato avrebbe metabolizzato senza impatti il redde rationem. Infatti il titolo ha chiuso con un +2,7 per cento. Dal canto suo, l’ex presidente di Banca di Roma, Capitalia e Mediobanca si è resto conto che non aveva più alleati per difendersi: gli amici francesi, capitanati da Vincent Bolloré, erano andati troppo oltre per difendere i loro interessi; l’eminenza grigia per eccellenza, Gianni Letta, paga lo scotto delle inchieste che lo hanno lambito e del fuoco amico di Giulio Tremonti; per non parlare del mercato, che dagli anni dello scontro con Matteo Arpe, gliel’ha giurata. Mai, come negli altri divorzi del capitalismo, una nota ufficiale ha saputo racchiudere senti-

mente – creare le condizioni per aumentare la redditività del Leone, usare la sua ricca cassaforte tra 420 miliardi di attivi e 27 miliardi di patrimonio immobiliare a favore del capitalismo italiano, spingere l’azienda sempre più a est per non pestare i calli di Axa. Un programma tanto ambizioso che non si realizza in un intero mandato figurarsi nei quattro mesi che hanno visto il ragioniere di Marino fare la spola tra Roma e Trieste. Ieri mattina, in un’inusuale location romana, Cesare Geronzi si è presentato dimissionario al consiglio d’amministrazione straordinario, indetto proprio per discutere (o forse levargli) sulla sua delega sulla comunicazione e sugli atteggiamenti poco consoni all’istituzione tenuti dal vicepresidente Bolloré. Un’occasione non soltanto per fare chiarezza quanto per censurare chi non ha lesinato critiche al management dell’azienda. Perché se è pure vero che a dare la stura alla vicenda è sta-

to il consigliere indipendente Diego Della Valle bollando come un arzillo vecchietto l’ex presidente, ma Geronzi ha usato una sede troppo istituzionale come l’ultimo Forex per criticare la gestione dell’immobiliare fatta dall’Ad Giovanni Perissinotto. Il tutto con a mezzo stampa prima il finanziere francotunisino Tarek Ben Ammar ha parlato di bilancio poco chiaro, quindi Bolloré ha messo in dubbio la correttezza e la convenienza della joint venture voluta dalla prima linea con la ceca Ppt, controllata dal socio Petr Kellner. Non è la prima volta che negli ovattati saloni di Trieste scorra del sangue. Da almeno un trentennio la finanza di Francia e quella d’Italia rivendicano la paternità sulla seconda compagnia d’Europa, con le non poche ripercussioni che ci sono state sulla crescita del Leone. Ma mai a Trieste qualcuno aveva visto gli amministratori ricorrere a certi toni. E così, strappo dopo strappo, ieri è arrivata per iscritto la richiesta di dieci consiglieri per spingere il presidente a fare un passo indietro. Input accettato dal presidente, non appena ha visto che tra le firme c’erano quelle dei rappresentanti in board di Mediobanca, i suoi ex manager Alberto Nagel e Francesco Saverio Vinci. Certo, il regicidio è stato commesso da chi aveva vissuto sulla propria pelle il brusco allontanamento (anche per mano di Geronzi) del delfino di Cuccia Vincenzo Maranghi. Per non parlare che è facile leggere la rivalsa di chi è cresciuto pensando di lavorare nel salotto del capitalismo buono per poi scoprire di ritrovarsi in una camera di compensazione finanziaria con troppi risvolti politic, dove c’è spazio persino per l’“impresario” Berlusconi. Ma nella scelta di Mediobanca ci sono soprattutto la volontà di tornare a essere padrone del Leone con il 13,4 per cento del capitale e di salvaguardare una gestione prudente, che ha sempre portato utili nonostante il

Caltagirone presidente reggente. Bolloré pronto a rilanciare: «Ho fatto soltanto il mio dovere». Intanto il mercato festeggia l’uscita del banchiere : il titolo chiude a +2,97 per cento titolo sia da anni sottovalutato rispetto agli altri colossi del settore assicurativo.

Con il loro benservito Nagel e Vinci hanno voluto ricordare chi comanda a Trieste: un messaggio che vale per i soci francesi quanto per quelli italiani. Perché se Diego Della Valle non ha fatto mai mistero di ambire alla quota del Leone in Rcs, il resto del nocciolo duro italiano (Caltagirone, Ferak, De Agostini) non hanno mai nascosto il desiderio di Generali più remunerative e forse più impegnate nel capitalismo italiano. Non a caso, nel suo addio, Geronzi si sarebbe anche polemicamente dimesso dai cda delle controllate del Leone (come Mediobanca e

Rcs), che potrebbero finire sul mercato. È per tutto questo che la guerra di Trieste non finisce con il licenziamento di Geronzi. Anche perché il nucleo degli azionisti italiani continua a crescere, come dimostra il continuo rastrellamento di titoli da parte del nuovo presidente reggente Francesco Gaetano Caltagirone. Per non parlare della voglia di rivincita di Vincent Bolloré. Per una settimana i giornali hanno scritto che al consiglio d’amministrazione di ieri il finanziere bretone avrebbe fatto autocritica. Invece prima ha rivendicato di aver «soltanto fatto il suo dovere», quindi, a fine giornata, ha saluto la stampa con un beffardo «sono ancora vicepresidente, va tutto bene».


il caso generali

e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak

Entra nel vivo una contesa che va ben oltre il Leone e ha come prossime puntate Parmalat ed Edison

Cesare, caduto (con fervore) sul fronte franco-italiano

La lunghissima esperienza non è bastata al “ragioniere di Marino” per districarsi tra gli interessi contrapposti di Roma e Parigi di Gianfranco Polillo onostante gli anatemi dei liberisti puri e duri l’epilogo (provvisorio) di Generali è stato sconcertante. Cesare Geronzi, che nella vicenda Bollorè aveva dato grande prova di equilibrio, ha dovuto rassegnare le dimissioni dalla presidenza del Leone di Trieste. E c’è già chi inneggia ai vincitori: Perissinotto, Della Valle, del Vecchio (che si era dimesso, polemicamente, dal consiglio della società solo qualche mese fa) e quindi, per il principio della proprietà transitiva, Domenico Siniscalco. Erano stati gli uomini eletti nella lista di Assogestione a porre con determinazione il tema della resa dei conti, dopo l’astensione del vice presidente francese sul bilancio della compagnia d’assicurazione. E Giulio Tremonti? Per il momento tace. O meglio opera dopo aver predisposto gli strumenti non solo giuridici, per contrastare l’invasione dei nuovi barbari: quel capitalismo d’Oltralpe che vorrebbe conquistare le principali roccaforti italiane, espugnando quel po’ che resta dei nostri grandi santuari. Mediobanca e Generali, innanzitutto.

N

Fine della partita? La nostra impressione è che non siamo nemmeno alla fine del primo tempo. Troppi palloni restano da giocare prima del fischio finale. Quindi attenti a non cantar vittoria. Non vorremmo finisse come l’Inter nella lunga notte di San Siro contro lo Schalke: sempre in vantaggio per poi subire la disfatta finale. I motivi per invocare prudenza sono molti. C’è innanzitutto la personalità di Cesare Geronzi. Un uomo dalle nove vite, come i gatti. Del resto non si passa una lunga esistenza nelle grandi organizzazioni finanziarie, sempre in prima fila, se non si hanno qualità tattiche e capacità di manovra. Gli hanno permesso di sopravvivere a vicende incresciose e veri e propri scandali. Eppure, nonostante l’intervento di magistrati d’assalto, eccolo ancora là: nella più importante casamatta della finanza italiana. Ha fama di essere un paziente mediatore. Non si è scomposto nemmeno nello scontro che, in Capitalia, lo contrappose a Matteo Arpe. Perché dovrebbe abbandonare la partita e dar mano libera all’amministratore delegato? Per il gioco degli interessi contrapposti italo - francesi? È una tesi. Anzi la tesi prevalente. Ma lo schema in-

terpretativo è forse troppo semplicista né tiene conto della portata effettiva delle forze in campo. Ipotizziamo pure che di questo si tratti: Francia contro Italia. La prima considerazione è che la squadra azzurra è tutt’altro che unita. Basti pensare alla posizione di Confindustria. «Nessuna nostalgia dell’Iri», ha ribadito Emma Marcegaglia, quasi avesse più paura del colbertismo del ministro dell’economia che non dell’abbraccio soffocante dei nostri cugini francesi. Non tutti i consiglieri del Leone sono del resto schierati: qualche imbarazzo per l’eccesso di esternazioni è visibile in uomini come Francesco Gaetano Caltagirone (vice presidente vicario), Paolo Scaroni o l’avvocato Pedersoli. C’è poi la vicenda Botin. Dimissioni dal consiglio d’amministrazione annunciate due giorni prima della riunione. Ufficialmente si tratta di un fat-

Anche questa volta il Belpaese sembra non sapere e volere far fronte comune per difendere le roccaforti dagli invasori transalpini to personale: i maggiori impegni presso il Santander da parte della figlia di don Emilio, il patron della banca. Sennonché Anna Patricia è legata a doppio filo con Bollorè, presente anche nel capitale di Santander. Semplice coincidenza o attenta regia, nel momento in cui sono state rese note le ampie deleghe concesse a Perissinotto, che sembrano modificare in modo sostanziale gli equilibri di potere interni al consiglio? Ma il contenzioso con la Francia tra-

valica il campo economico. Basti pensare alle vicende libiche o al nodo dell’immigrazione. Reciproche mosse e contromosse per evitare di rimanere con il cerino acceso in mano. Un intreccio che si trasforma in un piccolo labirinto. Che dire della figura e del ruolo di Tarek Ben Ammar? Uno dei rappresentanti degli interessi francesi in Italia, ma anche buon amico del nostro Paese. Sua la mediazione che ha consentito al ministro Maroni di realizzare un nuovo accordo, in Tunisia, contro le migrazioni selvagge. Il finanziere franco-tunisino è in ottimi rapporti con il nostro presidente del Consiglio. Per non parlare Ma a parte questo, è anche uno dei protagonisti – in posizione più defilata soltanto rispetto a Bollorè – della vicenda Mediobanca-Generali. Poi ci sono gli altri dossier: il caso Parmalat, la cui assemblea è stata rinviata grazie al decreto antiscalata per cercare di radunare un esercito pronto a contrastare Lactalis. Sempre in sospeso è la vicenda Edf-Edison, con i francesi che hanno già licenziato l’Ad Quadrino. Ed è davvero chiuso il caso Ligresti-Groupama, con il solito Bollorè che vuole salvare Premafin anche per vincere la guerra di Mediobanca? Sullo sfondo, infine, il tema del nucleare. Le vicende giapponesi non hanno solo imposto uno stop, ma un generale ripensamento. La tecnologia francese, in tema di sicurezza offre le stesse garanzie? O, con il ritorno di Giuseppe Recchi in Italia, non si dovrà pensare alle centrali, forse più avanzate, realizzate dagli americani?

Alla fine della storia, comunque, ci vogliono sempre i “picci”. Dove sono i capitali italiani per fermare l’invasore sulla linea del Piave? E che possono fare le banche alle prese con difficili problemi di ricapitalizzazione per far fronte alle nuove regole di Basilea? Sono problemi, come si vede, che non si prestano a facili semplificazioni. Il tifo va bene. Ma in economia, come nel calcio del resto, alla fine sono altri i valori che s’impongono e decidono il finale di partita. Staremo quindi a vedere. Certo la posta in gioco è rilevante. Alla fine, come sempre accade, si dovrà trovare un compromesso accettabile per tutti. Sarà l’incontro previsto tra Silvio Berlusconi e Nicolas Sarkoz, già calendarizzato? Il nostro auspicio è che, almeno in quel caso, non vi siano voci dissonanti. Che non prevalgono piccole beghe di potere tra maggioranza e opposizione. Ma si sostenga semplicemente l’Italia.

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il caso ruby

Ostruzionismo alla Camera impegnata sul processo breve Fini: «Farò rispettare i tempi di intervento per evitarlo»

Un lungo aprile caldo Congelato l’affaire Ruby, restano immigrazione, giustizia e rimpasto di Riccardo Paradisi ongelato il processo Ruby – che viene rinviato al 31 maggio per le questioni preliminari e la costituzione delle parti civili – al pettine della maggioranza si frappongono quattro nodi politici che assieme alla partita giudiziaria del premier caratterizzeranno i prossimi due mesi. Annunciando una primavera che si prevede molto calda.

C

Il processo anzitutto: Ruby Rubacuori – fanno sapere i legali della ragazza in aula – ha deciso di non costituirsi parte civile al processo a carico del premier. Se lo facesse infatti – spiega l’avvocato di Karima – entrerebbe in contraddizione con quello che ha sempre detto, e cioè di non essere mai stata oggetto di atti sessuali da parte del presidente del Consiglio. L’altro motivo della sua scelta è che la ragazza ha sempre affermato di non essersi mai prostituita «mentre questo processo – sottolineano i suoi assistiti – dà per scontato che si sia concessa dietro pagamento». Insomma il sillogismo è questo: essere parte civile significa chiedere i danni e siccome Karima ritiene non avere avuto alcun danno per essere andata qualche volta ad Arcore né per aver frequentato il presidente del Consiglio non ci pensa nemmeno a costituirsi parte civile. «Per lei – ha concluso il legale – il danno è stato mediatico perché è stata additata in tutto il mondo come prostituta anche se non ci sono in questo senso dichiarazione di alcuna persona ma solo presunzioni». Stessa linea processuale viene sostanzialmente seguita da Giorgia Iafrate, la funzionaria di turno della Questura di Milano nella notte tra il 27 e il 28 maggio scorsi quando Ruby venne rilasciata per le presunte pressioni di Silvio Berlusconi: «non ha subito alcun danno e per questo non ci costituiamo parte civile» dice il suo avvocato Luca Gentilini, chiarendo inoltre che la procedura di affidamento della minorenne marocchina al consigliere regio-

Silvio Berlusconi parla con i giudici di Milano durante il processo Sme. A sinistra “Ruby Rubacuori”, che ha dichiarato di non volersi costituire parte civile. Nella pagina a fianco Denis Verdini, Ignazio La Russa e Maurizio Gasparri

Lettera aperta ai parlamentari della maggioranza

Basta con i vizi privati, è l’ora delle pubbliche virtù Il Paese non ha bisogno di ulteriori conflitti, ma di riforme, senso dello Stato e civiltà democratica di Pierluigi Mantini ttraversiamo tempi bui, la credibilità delle istituzioni politiche è ridotta al minimo, in una fase davvero difficile per il Paese e per il mondo che ci circonda. La crisi economica, i profughi del Nord Africa, il futuro dei giovani, la crescita che non c’è. Noi abbiamo bisogno di credere nei simboli, e dobbiamo aiutare davvero le ragazze e le persone in difficoltà. Non abbiamo invece bisogno di altri conflitti, né tra i poteri, né con noi stessi. Ma due giorni fa abbiamo assistito al più grande dei conflitti possibili in Parlamento, quello tra le libere coscienze di tanti parlamentari e la tesi, imposta, di tale Ruby “nipote di Mubarak”. Tutto può essere vero, ma non che Berlusconi volesse proteggere la nipote del presidente Mubarak. Voi lo sapete, onorevoli Colleghi della maggioranza: perché dunque avete mentito a voi stessi? «Quando il potere si afferma come solutus a lege hominum si arriva facilmente a credersi solutus a lege Dei, cioè superiori alla morale»: così scrisse Luigi Sturzo, in Politica e Morale, nel 1938. E io vi ripeto, perché avete mentito a voi stessi?

A

Fu un atto di governo, quella bugia detta dal presidente del Consiglio, fu un atto di politica internazionale, un’“alta ragion di Stato”? Fu un “preminente interesse pubblico” o un “preminente interesse privato”? Non vogliamo riper-

correre il quadro degradante delle serate di Arcore, delle escort, dei bunga-bunga, delle prostitute che hanno il numero privato del presidente del Consiglio, di quelle che hanno chili di cocaina nell’appartamento pagato dal presidente del Consiglio, del socio Lele Mora che seleziona ragazze, anche minorenni, di igieniste dentali promosse ai vertici delle istituzioni lombarde che ritirano ragazze come merce e le smistano, e molto altro ancora.

L’Italia non merita che si insista in questo racconto, che è un racconto dei suoi vizi peggiori, interpretati da un anziano signore che, anziché narrare favole ai nipoti, racconta barzellette indecenti ai cittadini di questo Paese. Come avete potuto imporci, con la forza di pochi numeri in più, di votare la cd. “ministerialità” di questi fatti? La tutela di Ruby è un atto di politica internazionale? Se questa è la vostra politica internazionale non ci si può meravigliare certo dello scarso peso del nostro Paese dinanzi al mondo. La riforma costituzionale dell’art. 96, fatta nel 1989, dopo che il referendum del 1987 abolì la Commissione inquirente, ritenuta un “porto delle nebbie” perché nessun ministro veniva giudicato, ha attribuito alla magistratura la valutazione della ministerialità o meno dei reati. È una scelta fatta dal legislatore, a torto o a ragione, e andava rispettata. La giurisprudenza


il caso ruby nale lombardo Nicole Minetti «è stata corretta». Secondo l’avvocato, inoltre, «non c’è stato alcuna accordo tra la Minetti e la Iafrate» sull’affidamento alla consigliera regionale di Ruby. La scelta dell’affidamento, ha concluso il legale, «è stata la migliore e la procedura è stata corretta». Il legale infine ha precisato che essere presenti nel processo come persona offesa comunque significa poter «presentare delle memorie ai giudici». La difesa del Premier naturalmente sottolinea l’elemento significativo che nessuna persona, né funzionari della questura né la signorina Ruby, si è costituita parte civile: «Siamo convinti che da questo processo verrà fuori l’estraneità di Berlusconi da tutti e due i reati contestati».

della Corte Costituzionale e della Suprema Corte di Cassazione è esplicita nel confermarlo. Nel recente caso Mastella è stato sentenziato testualmente che «il potere di qualificazione del reato, anche con riferimento alla sua natura, ministeriale o meno, spetta sempre all’autorità giudiziaria». E infatti – sempre secondo la sentenza del 3 marzo 2011 – «l’affermazione della Corte Costituzionale, nella sentenza n. 241 del 2009, secondo cui all’organo parlamentare non può essere sottratta una propria autonoma valutazione sulla natura ministeriale o non ministeriale dei reati oggetto di indagine giudiziaria, non può essere intesa – così come assume la difesa dell’imputato – nel senso di negare all’autorità giudiziaria procedente la potestà esclusiva di qualificare la natura del reato, ovvero di attribuirla sullo stesso piano al Parlamento». Non c’è, onorevoli Cicchitto, Reguzzoni e Sardelli, questo potere del Parlamento, non c’è alcuna vindicatio potestatis da reclamare, c’è solo la possibilità di un conflitto di attribuzione per menomazione nel caso in cui sia il Tribunale dei Ministri, investito del processo, a giudicare il reato comune e non ministeriale. Come nel caso Lunardi, appunto.

mento ad elevare conflitto dinanzi alla Corte su una tesi così infondata ed assurda. Vi abbiamo offerto un atto di pacificazione nazionale, proposte di conciliazione tra politica e giustizia, compresa la sospensione temporanea dei processi per la sola durata del mandato in corso.

Avete rifiutato anche quella, preferite lo scontro, la ricerca dell’impunità, non della conciliazione. Noi vi proponiamo riforme per l’efficienza della giustizia e la ragionevole durata dei processi per tutti i cittadini, voi rispondete con la prescrizione breve per favorire il presidente del Consiglio e con norme assurde sulla responsabilità per punire i giudici nell’interpretazione della legge. Così non si può andare avanti, le famiglie, gli italiani che ci guardano lo sanno. Il nostro Paese è attraversato da troppi conflitti, quello che ci proponete oggi è davvero inutile e dannoso. Berlusconi si difenda nel processo, con tutte le garanzie, non coinvolga le istituzioni in ulteriori conflitti. Non cerchi il diniego dell’autorizzazione a procedere, non pretenda la prescrizione breve, anzi la rifiuti, come dovrebbe fare chi rispetta la giustizia e il proprio Paese. Il ministro Alfano moderi le parole e i gesti, non evochi la piazza per riforme costituzionali che dividono l’Italia. Abbiamo davvero bisogno di ritrovare serenità, senso dello Stato, e civiltà democratica. Abbiamo finalmente bisogno delle pubbliche virtù e non solo dei vizi privati.

Berlusconi si difenda nel processo con tutte le garanzie. Non coinvolga più le istituzioni in altri violenti scontri e soprattutto rifiuti la prescrizione breve

Ma nel caso Ruby-Berlusconi nessun giudice ha ritenuto i reati per cui si procede «commessi nell’esercizio delle funzioni ministeriali». Si possono fare i ricorsi in sede giurisdizionale ma non si può pretendere che sia il Parla-

Da parte sua Berlusconi attraverso una lettera depositata dal suo legale ai giudici, ha fatto sapere che avrebbe voluto «partecipare» all’udienza, ma fa presente di avere per il 6 aprile «impegni istituzionali». Per quanto riguarda invece la possibilità di presentare un’istanza ai giudici per chiedere la sospensione del dibattimento in attesa che venga definita dalla Consulta la questione del conflitto di attribuzione «è un argomento che la difesa del premier valuterà in queste settimane».Vedremo insomma. Come da copione davanti al palazzo di giustizia di Milano si sono fronteggiati, senza inci-

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piedi Berlusconi per questo. Non c’è nessun bisogno di tenere in piedi Berlusconi, si preoccupino piuttosto di quello che stanno votando: un provvedimento che farà uscire dalle carceri dei delinquenti pur di salvare Berlusconi». La Lega per ora tiene il punto e replica con il suo capogruppo leghista alla Camera Marco Reguzzoni. «Le accuse lanciate dal segretario dei Democratici non sono argomentazioni di tipo politico». La Lega complice delle leggi ad personam per il premier? «Non si tratta di provvedimenti in difesa di Berlusconi, ma di una risposta all’attacco senza precedenti sferrato dalla magistratura nei confronti del presidente del Consiglio». E per quanto riguarda la sortita degli eserciti regionali, su cui il Pd ha minacciato di far saltare il tavolo sul federalismo, Reguzzoni taglia corto: «ma se non abbiamo neanche chiesto di metterlo in calendario...». Tutto a posto dunque? Mica tanto. Matteo Salvini candidato a vicesindaco di Milano nei giorni scorsi aveva mandato un messaggio molto chiaro alla maggioranza: «È un momento difficile se tutti, nessuno escluso, facessero un passo indietro, sarebbe un bene». Il momento difficile è reso tale naturalmente anche dall’emergenza migratoria. Per ora la coalizione di governo tiene anche questo fronte sul quale Pdl e Lega hanno trovato una linea comune. Bossi ha anche confermato il suo tormentato assenso ai

I responsabili vogliono andare all’incasso, ma la coperta degli incarichi disponibili è corta: qualcuno resterebbe sempre scoperto e basta poco per far mancare i numeri alla maggioranza denti ma con vicendevole scambio di insulti, sostenitori e detrattori di Berlusconi, il tutto per la gioia delle televisioni soprattutto straniere che avevano allestito un imponente set. Ma per ora appunto, il processo resta sullo sfondo, sul terreno ci sono le questioni cui si accennava: federalismo, giustizia, immigrazione e rimpasto governativo.Vediamole. Il federalismo anzitutto. L’insidia per la maggioranza è sulla tenuta della Lega, sull’equilibrio politico che Bossi intenderà scegliere. Certo è che le avances condizionate del segretario Pd Bersani sono risultate insidiose. Il federalismo, così come sta uscendo dai voti parlamentari al Pd non piace ma il Pd dice Bersani è pronto a dare il suo contributo se si accetterà il confronto e la Lega deve sapere che non è necessario tenere in vita il governo Berlusconi per arrivare al traguardo. Una ”sfida alla Lega”la chiama il segretario del Pd: «Non prenda a pretesto il federalismo, non dica che tiene in

permessi temporanei di soggiorno per gli immigrati, «così se ne andranno in Francia, in Germania, in Europa».

È vero infatti che con questa concessione gli stranieri potranno, per un periodo determinato, circolare e soggiornare nei Paesi Ue del Trattato Schengen. Ma se non ci saranno provvedimenti conseguenti a Tunisi lo stress da sbarco continuo continuerà a logorare anche il governo e soprattutto a mettere in contrasto i vertici del Carroccio con una base ogni di giorno in giorno sempre più agitata. Ultimo ma non per ultimo: il rimpasto di governo. I responsabili vogliono andare all’incasso, ma la coperta degli incarichi disponibili è corta: qualcuno resterebbe sempre scoperto e basta poco per far mancare i numeri. Certo per ora sembrano acquisiti i due lb-dem ma ogni giorno sembra avere la sua pena. Soprattutto il terreno politico comincia a vibrare per le amministrative. E sotto elezioni ognuno tira per se.


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Berlusconi e Bertolaso disertano la cerimonia e gli abitanti chiedono al presidente di essere garante per loro a Roma

«Non dimentico L’Aquila» Napolitano in Abruzzo a due anni dal sisma: «Il centro storico deve essere ricostruito» di Marco Palombi Aquila non sarà dimenticata». Giorgio Napolitano ieri, a due anni dal sisma che uccise trecento persone e una città intera, era nel capoluogo d’Abruzzo. Quando la mattina è arrivato, applaudito dai cittadini, lo attendeva Gianni Letta, che in quella regione è nato, e c’erano ovviamente i politici locali e il capo della Protezione civile Franco Gabrielli, che il giorno del terremoto era prefetto dell’Aquila e si salvò per puro caso. Due erano invece le assenze

«L’

pesanti, almeno per chi ha voglia di notare queste cose: mancavano i due “volti” del giorno dopo, Guido Bertolaso e Silvio Berlusconi. L’ex supercommissario per la ricostruzione - di recente assunto come docente di gestione delle emergenze dall’università di Pavia – non s’è fatto vedere nella città che pure per mesi l’ha osannato come il salvatore, ma di ancora più plastica evidenza è stata l’assenza del premier, l’eroe delle macerie, l’uomo dei record, che avrebbe fatto rinascere la città più bella e importante che pria: il Cavaliere a L’Aquila non va e non può andarci, non può rischiare la rabbia che già assaggiò a Roma il 7 luglio scorso, non può scontrarsi con

la faccia reale che sta sotto le magniloquenti promesse di un tempo.

Il premier è un uomo in fuga dalle sue parole e s’arrocca nell’unico posto che gli dà qualche certezza: la sua tv e i suoi giornali. A Forum può essere ancora l’uomo che ha ricostruito L’Aquila, su Panorama Bruno Vespa può scrivere – da aquilano – che il suo governo ha stanziato due miliar-

L’Aquila s’è presentato solo il capo dello Stato, perché quando si sta in mezzo alla gente la credibilità regalata dai media non conta niente: «Gli aquilani non devono aver paura di essere dimenticati», ha detto Napolitano e gli aquilani gli hanno creduto come non avrebbero fatto col premier.

«La mia presenza, al di là della mia persona, rappresenta sul piano istituzionale, in quanto capo dello Stato, la conferma di come gli italiani siano stati e siano sempre vicini e solidali», ha scandito mentre entrava nella Basilica di Collemaggio per assistere ad una messa commemorativa: «Nessuno ha cancellato neppure per un momento dalla memoria la tragedia del terremoto che ha colpito questa bellissima città e che ha poi visto impegnata la popo-

Diciottomila persone in marcia sin dalla notte per commemorare le vittime. A 2 anni dal 6 aprile, la catena di comando è intasata di commissari, comuni, province e regioni di e passa per la ricostruzione ma quei cattivoni sul territorio non li spendono. La realtà, invece, è tutto un altro carnevale: non solo in Abruzzo non si vede la luce, ma si resta nelle baraccopoli persino nella quindicina di comuni del Molise che vennero devastati dal sisma nell’ottobre del 2002, quando la scuola di San Giuliano di Puglia crollò addosso ai suoi piccoli alunni. Per questo ieri a

lazione e i cittadini, con il concorso di altre parti d’Italia, a uno sforzo straordinario per la sopravvivenza e il rilancio».

Non si è messo a fare polemiche, Napolitano, non s’è concesso l’uscita populista che gli avrebbe regalato l’entusiasmo di un uditorio deluso, arrabbiato e stanco: «I termini della situazione sono noti a chi ha responsabilità a livello comunale, regionale e nazionale», ha tagliato corto, «per completare la ricostruzione de L’Aquila oc-

corre il massimo sforzo di chi ha la responsabilità di amministrare, di governare, di risolvere i problemi, di chi ha la responsabilità di rappresentare le istanze dei cittadini».

Tradotto: datevi da fare, tutti, perché «è naturale che si discuta e ci sia diversità di giudizio e di opinioni nelle istituzioni, ma l’importante è il senso della misura e che queste distinzioni non superino mai un certo limite, che non diventino elemento distruttivo». Il capo dello Stato, però, non s’è tirato indietro sulla questione più spinosa, su cosa cioè serva alla città per tornare a vivere davvero. «L’Aquila non ha solo bisogno di lavoro, di studio e delle attività quotidiane dei suoi cittadini, ma anche della rinascita del suo bellissimo centro storico», ha messo in chiaro anche per quanti – a Roma – pensano che dedicarsi alla paziente e costosa opera di resuscitare la città medievale sia uno spreco di tempo e denaro. L’Aquila era già morta prima del sisma, disse qualche tempo fa il deputato PdL Giorgio Stracquadanio echeggiando opinioni non residuali lontano dall’Abruzzo. E invece, ha scandito Napolitano, «sappiamo che le questioni di prospettiva sono complesse, ma deve essere chiaro che per noi L’Aquila vale quanto la più grande delle città storiche del nostro Paese». Nel clima che s’è creato in questi anni, ormai al presidente della Repubblica tocca il ruolo di collettore dell’ansia di risposte di vasti strati della popola-


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Il sindaco Massimo Cialente lamenta i ritardi nella ricostruzione

«Da due anni aspettiamo la zona franca» Secondo il governatore abruzzese Gianni Chiodi «il problema non sono i soldi, ma il loro utilizzo» di Franco Insardà

zione: ieri, dopo la messa, la parente di una vittima del disastro ferroviario di Viareggio gli ha chiesto di non far passare il processo breve (risposta: «conosco le questioni e, come posso, le seguo»), tre ragazzi di un’associazione no profit gli hanno consegnato una lettera per denunciare che «L’Aquila è terra di nessuno, dove il partitismo vuole speculare», la gente ha urlato “non ci abbandoni”.

Il fatto è che il capo dello Stato rappresenta l’unità del Paese e il patto che ne lega i cittadini sancito nella Costituzione, ma non ricostruisce le case,

ti pubblici – continua la gestione emergenziale degli appalti in deroga. Nessuno sarà dimenticato, dice Napolitano, eppure c’è il sospetto che questo sia già avvenuto. La fiaccolata silenziosa con cui nella notte tra martedì e mercoledì, all’ora esatta del terremoto, ha percorso il cuore buio della città, sfilando tra le macerie, accompagnata da 309 rintocchi di campana, uno per ogni vittima.

Diciottomila persone, diciottomila cittadini dell’aquilano hanno attraversato la città per tre ore, arrivando in piazza

Unica nota positiva, la consegna del piano per la ricostruzione del piccolo centro di Onna distrutto dal terremoto. A presentarlo, però, una Commissione inviata dal governo tedesco non stanzia fondi e suo compito non è nemmeno fare l’opposizione a Berlusconi: quel che manca all’Abruzzo lo sanno tutti, è la legge organica sulla ricostruzione fatta per ogni altro sisma di rilievo e che però Giulio Tremonti non volle, preferendo trovare i soldi di volta in volta a seconda del bisogno e della disponibilità.

Duomo alle tre e mezza di una notte fredda e silenziosissima nella sostanziale indifferenza del resto del Paese: non è un’impressione degli abruzzesi, è un fatto, come non è un attitudine al vittimismo dei molisani ma un fatto che del sisma del 2002, nonostante la ricostruzione sia in media al 30%, non si parla più.

È un modello che non funziona: dopo 24 mesi ancora non si capisce quali siano i livelli istituzionali che devono decidere, a due anni da quel 6 aprile la catena di comando è intasata di commissari, poteri speciali, comuni, province e regione mentre – come ha recentemente denunciato l’Autorità di vigilanza sui contrat-

Va così: disastro, emergenza, promesse e fuga. Da L’Aquila al Molise, da Napoli a Lampedusa: la polvere del tempo va a finire sotto il tappeto. Ieri, se non altro, è stato consegnato al governo il piano di ricostruzione di Onna, piccolo centro devastato dal terremoto di due anni fa: peccato che lo abbia messo a punto il governo tedesco.

ROMA. Vista da Palazzo Combit (e da Gianni Chiodi) la ricostruzione de L’Aquila va avanti spedita. «E il problema non sono i soldi, ma il loro utilizzo». Vista da Palazzo Margherita (e da Massimo Cialente), la città è ancora in piena emergenza. «Nella ricostruzione c’è un ritardo di 12 mesi, forse dettato dalla volontà di darci nel 2012 il miliardo e 7 previsto per il 2011. Aspettiamo da due anni la zona franca che ci era stata promessa. Oggi agli abitanti di Lampedusa sono state dette le stesse cose riguardo alle tasse, ai mutui. Ai lampedusani consiglio di continuare a pagare i mutui altrimenti si ritroveranno con interessi pesantissimi, come è successo agli aquilani». A due anni di distanza da quella tragica notte e nel giorno del ricordo e delle celebrazioni il presidente della Regione e il sindaco del capoluogo abruzzese dimostrano un approccio diverso rispetto a quello che è stato e sul futuro. Cialente ha avuto parole di apprezzamento per Giorgio Napolitano: «Il presidente ha riconfermato la sua solidarietà alla città. Una delle poche cose che ricordo fu una sua telefonata la mattina del 6 aprile. Idealmente rappresenta tutto il Paese, i volontari, gli uomini della protezione civile, dell’esercito, dei vigili del fuoco, nei confronti dei quali tutti gli aquilani nutrono grande stima». Anche l’arcivescovo metropolita de L’Aquila, Giuseppe Molinari, durante la funzione solenne in memoria delle 309 vittime ha sottolineato che la presenza del capo dello Stato è «un grande dono per la città dell’Aquila, molto ferita e che ha bisogno di rinascita e di speranza». Per monsignor Molinari è «il momento del rispetto delle vittime. Di denunce ne abbiamo fatte tante, ora è il momento di risolvere i problemi».

sulla costa, pensando così anche al rilancio economico e produttivo. Finita l’emergenza si è creato un meccanismo di grande indecisione e livello locale la governance non ha retto».

Il sindaco de L’Aquila da tempo lamenta che «per ora è stata ricostruita la città di cartone, con 9mila unità abitative che rappresentano la ricostruzione leggera, gestita direttamente dal Comune. Nulla è stato fatto perla ricostruzione pesante e per l’edilizia residenziale pubblica; c’è un ritardo terribile per gli edifici pubblici, con pochissimi appalti assegnati, tutti ancora in fase di progettazione, nulla per il rilancio economico e produttivo. Il centro storico e le altre zone sono puntellate per oltre il 55 per cento. Non vorrei che in Italia passasse l’idea che è tutto risolto. Il governo è distratto, so-

Il primo cittadino: «Agli amici di Lampedusa consiglio di continuare a pagare i mutui per non ritrovarsi con interessi alti, come è successo a noi»

Ma il sindaco Cialente, sempre in prima linea e alla testa dei suoi concittadini nel reclamare attenzione e aiuti fino ad arrivare alle dimissioni, fa presente che «l’anno scorso, in occasione del primo anniversario del sisma, c’era più speranza perché si veniva da una fase in cui si riconosceva al governo una grande presenza e una forte solidarietà. Sono passati dodici mesi da allora e in questi giorni, l’unica cosa positiva è stata che il 29 marzo si è trovata un’intesa tra la struttura tecnica di missione e i nostri progettisti». Approfittando dei tanti riflettori puntati di nuovo sulla sua città Cialente dai microfoni di “Agorà”, la trasmissione di Andrea Vianello su Raitre, ha lanciato un appello: «Chiedo di fare dell’Aquila un caso nazionale. Lancio ai progettisti e alle imprese una proposta: che mi si diano mille appartamenti entro Natale per far rientrare le persone che sono ancora nelle caserme, negli alberghi e

lo il sottosegretario Gianni Letta ci segue». Cialente ricorda anche che «dopo la festa per l’addio della Protezione civile nel gennaio 2010 Berlusconi promise a me e al presidente della Regione, Chiodi, un incontro a Roma. Da allora ho cercato di contattarlo, ma non riesco a parlare neanche col ministro dell’Economia, Giulio Tremonti». Il presidente della Regione a Maurizio Belpietro durante “La telefonata” a Mattino Cinque, dice: «L’Aquila aveva 70mila abitanti prima del terremoto oggi sono solo 700 di meno. L’università aveva 25mila studenti oggi 23mila circa. Da quando sono commissario per la ricostruzione ho ricevuto stanziamenti per oltre 3 miliardi di euro: 1,5 sono stati già spesi, 1,7 miliardi sono ancora in cassaforte. Il problema non sono i soldi, ma il loro utilizzo. E gli interventi non spettano al governo, ma ai soggetti attuatori, che sono gli enti locali». E conclude: «Nel 2011 partiranno i cantieri l’ultimo termine per la presentazione dei progetti è il 30 giugno, pena la perdita del contributo. Se saremo bravi e se tutto andrà bene serviranno almeno dieci anni per completare la ricostruzione».


ULTIMAPAGINA «Encyclomedia»: il progetto multimediale dello scrittore per interagire con la storia, dall’antichità all’inizio del Terzo Millennio

E Umberto Eco mise online la

di Diana Del Monte uanti anni intercorrono tra Sant’Agostino e San Tommaso?». La dimensione storica sfugge ai più e la domanda che più di vent’anni fa il professor Umberto Eco poneva ai suoi studenti svelava inequivocabilmente questa mancanza. «Nessuno arrivava a dirmi che c’erano otto secoli», ha ricordato il nostro più celebre intellettuale durante la conferenza stampa per la presentazione dell’ultima versione del suo progetto: Encyclomedia, l’Aleph del ricercatore, il libro che contiene tutti i libri. La genesi del progetto-percorso verso l’enciclopedia multimediale come innovazione didattica, curato e diretto proprio da Umberto Eco, risale agli inizi degli anni Novanta, «quando non esistevano le e-mail, quando non esisteva internet» ha precisato Eco. Per questo, Encyclomedia ha avuto bisogno di una lunghissima gestazione; passato attraverso una collana di dodici cd-rom che copriva il periodo dal ‘500 all’800, il mastodontico progetto stava solo aspettando che la tecnologia fosse all’altezza delle idee dell’uomo. «Tutto è iniziato con una piccola azienda di quattro studenti e un disco, ma il primo cd-rom costava quasi 400.000 lire, le scuole non avevano le postazioni e, dunque, all’inizio non poteva che avere una diffusione sperimentale - ha ricordato il

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In alto, un’immagine di Umberto Eco. Sopra, un’illustrazione tratta dal sito internet del suo progetto multimediale «Encyclomedia»

CONOSCENZA curatore - il primo è stato il ‘600, poi è arrivato il ‘700, l‘800 e quando abbiamo finito il ‘500... i cd-rom non esistevano più». Umberto Eco è anche l’autore di un piccolo e prezioso saggio scritto a quattro mani con Jean-Claude Carriére: Non sperate di sbarazzarvi dei libri. Quello che ci ricorda il professore dei professori nell’incontro con lo sceneggiatore e drammaturgo francese è che, mentre abbiamo la prova scientifica che un libro può durare 1.500 anni, la memoria digitale non arriva a dieci, raramente anche a cinque. Eppure, viaggiare attraverso il tempo creando dei raccordi, «spazializzare le distanze storiche» per usare le parole del suo ideatore, è uno strumento didattico di spessore che può trasformarsi in una strada veramente interessante per l’apprendimento della storia, ma che necessitava delle nuove tecnologie per poter vedere la luce.

10.000 tra immagini, carte storiche, animazioni e filmati. Alla redazione dei contenuti di questo «progetto multimediale pensato per lo studio e la diffusione della conoscenza storica della civiltà e della cultura europea» hanno partecipato più di 500 tra ricercatori, professori universitari, esperti dei vari settori. Encyclomedia è già online, dal 4 aprile al primo settembre, infatti, un gruppo di insegnanti le cui scuole hanno aderito al progetto ospitato dagli Editori Laterza, e portato avanti dalla Encyclomedia publisher (marchio editoriale nato nel 2010, finanziato da Corrado Passera e diretto da Danco Singer), potranno accedere gratuitamente ai materiali attualmente in linea, dalla scoperta dell’America all’Ottocento. Nel frattempo, il neonato strumento di consultazione per le scuole verrà arricchito di nuovi documenti che, entro maggio, arriverranno a copri-

«Per spazializzare le distanze storiche - ha raccontato ancora Eco - ricordo che una volta entrai in aula e disegnai una lunghissima linea sulla lavagna, all’epoca all’Università c’erano le lavagne lunghe, all’americana. Poi cominciai ponendo il Big Bang, poi misi l’uomo di Neanderthal e poi, nell’ultimo centimetro... quello è Gesù Cristo». La cronologia, come una sorta di eredità genetica, è rimasta nell’attuale Encyclomedia «come l’osso sacro nel corpo dell’uomo ricorda la sua coda», ha scherzato Eco. Nonostante ciò, evolutasi anch’essa in un mezzo interattivo, questa sezione dell’opera rappresenta probabilmente una delle risorse più interessanti di tutto il progetto. Uno scheletro solido su cui poggiarsi durante le ricerche e che, al contempo, fornisce un quadro d’insieme modulabile sulle proprie esigenze.Tutto ciò è qualcosa di assai prezioso di per sé, come può intuirlo chiunque si sia cimentato in una qualunque forma di ricerca, ma attraverso la cronologia si possono anche raggiungere le singole schede tematiche, attualmente 40.000, e il repertorio iconografico, circa

La genesi dell’opera risale agli anni ’90. Dopo una collana di 12 cdrom sul periodo dal ’500 all’800, stava solo aspettando che la tecnologia fosse all’altezza delle idee dell’uomo re dall’antichità fino ai primi anni del nuovo secolo. Dal primo settembre, inoltre, a rendere più interessante la nuova Encyclomedia, ci saranno le immagini, le musiche e i video storici degli sterminati archivi messi a disposizione da Cinecittà Luce e da quel momento, in concomitanza con l’inizio dell’anno scolastico, Encyclomedia sarà gestita attraverso un sistema di licenze, acquistabili e rinnovabili attraverso la Laterza. Dal libro sui libri al libro dei libri, così, ancora una volta il semiologo, scrittore, linguista, filosofo italiano mette insieme gli opposti, creando un inaspettato ponte fra quello che, fino al giorno prima, sembrava essere destinato ad una lotta inestinguibile.


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