10409
mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 9 APRILE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Offensiva di Berlino dopo il vertice di Milano. Intanto a Pantelleria gli scafisti gettano in mare i profughi
Adesso Maroni dice “oui” Nuova giravolta: «Sul trattato di Schengen ha ragione Parigi» Accordo per pattugliamenti comuni. Ma sul nodo dello scontro l’Italia cede: «I francesi hanno il diritto di controllare gli ingressi». Anche la Germania attacca: «No ai permessi temporanei» Parla Sergio Romano
GIRI DI VALZER
Un governo senza identità
«L’Italia esagera con la paura, la Francia esagera con il disimpegno»
di Vincenzo Faccioli Pintozzi el Novecento, l’Europa ha fatto i conti con i totalitarismi. Non solo il Vecchio Continente, a dire il vero, se consideriamo anche l’ondata maoista nell’Asia post-coloniale e il vento di destra che invece colpì l’America Latina. Governi guidati da idee forti, ricette economiche intoccabili e uomini politici che di umano avevano molto poco. Chiusi i conti con quell’esperienza, tragica da qualunque punto di vista, si è aperta quanto meno in Occidente la fase democratica: divise fra socialdemocrazie e Repubbliche più o meno conservatrici, le nazioni europee hanno iniziato un percorso fatto di dialogo fra maggioranze e opposizioni e alternanza di governo. Quella italiana è un’esperienza a parte. E quello di Berlusconi è un governo a parte.
N
«Il controllo comune del mare primo passo di un’Europa unitaria» Riccardo Paradisi • pagina 4
Parla Eric Jozsef
Retroscena
«Non è politica: Silvio e Nicolas pensano solo all’immagine»
Meeting riservato tra militari e geopolitici
«Dal summit è uscito un compromesso per salvare la faccia» Francesco Lo Dico • pagina 5
Sì, in Libia c’è stato un “complotto” di Sarkozy di Pierre Chiartano La crisi libica ha avuto una narrazione “strana” fin dal suo esordio. Se lo sono detto alcuni esperti militari riuniti a porte chiuse a Roma. a pagina 6
di Enrico Cisnetto
senza di inquinanti nelle verdure e nella carne, discutono se allargare la zona di sicurezza. Ma, tra reticenze e rassicurazioni, cominciano anche ad ammettere che il pericolo più grosso arriva – e arriverà – dal mare e non dall’aria o dalla terra. Perché se il tempo naturale di smaltimento dello iodio 137 è abbastanza rapido nel mare c’è una variabile micidiale: la “biomagnificazione”.
è Terza Repubblica e Terza Repubblica. Non basta chiudere il capitolo tormentato e fallimentare della Seconda – e Dio solo sa quanto ce ne sarebbe bisogno e urgenza – per essere sicuri che ciò che seguirà sia meglio. Capisco che la stanchezza per ciò che ci circonda sia tanta, ogni giorno crescente, ma non si deve cadere nella tentazione del «tanto nuovo tanto meglio». Prima di tutto perché non è necessariamente “nuovo” ciò che si autodefinisce tale, magari per far dimenticare in fretta di essere stato pienamente partecipe del “vecchio”. E in secondo luogo, perché il “nuovismo”è la malattia che all’inizio degli anni Novanta ci ha fatto commettere errori esiziali – maggioritario, bipolarismo, demonizzazione dei partiti – che oggi stiamo pagando con interessi usurari.
a pagina 24
a pagina 8
C’
«Ecco il vero rischio nucleare» La radioattività arriva dal mare: denuncia choc dell’Isde di Enrico Singer
D
seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
Non è caduto solo Geronzi ma un intero sistema
a pagina 2
Allarme dal Giappone: «Il contagio si diffonderà attraverso i pesci»
opo l’ultima scossa di terremoto che ha colpito il Giappone, quella che ha danneggiato anche la centrale nucleare di Onagawa, a circa cento chilometri a Nord di Fukushima, è ripartito il sinistro balletto dei numeri sui livelli di contaminazione da cesio 131 e iodio 137, i due radioisotopi più pericolosi per la salute umana. I tecnici misurano il fall out atomico, il percorso della nube radioattiva, la pre-
Il cda di Trieste sceglie Galateri come nuovo presidente
69 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 9 aprile 2011
la crisi italo-francese
l’editoriale L’«auto-smentita» del ministro dell’Interno
Le giravolte di un governo senza identità di Vincenzo Faccioli Pintozzi el Novecento, l’Europa ha fatto i conti con i totalitarismi. Non solo il Vecchio Continente, a dire il vero, se consideriamo anche l’ondata maoista nell’Asia post-coloniale e il vento di destra che invece colpì l’America Latina. Governi guidati da idee forti, ricette economiche intoccabili e uomini politici che di umano avevano molto poco. Chiusi i conti con quell’esperienza, tragica da qualunque punto di vista, si è aperta quanto meno in Occidente la fase democratica: divise fra socialdemocrazie e Repubbliche più o meno conservatrici, le nazioni europee hanno iniziato un percorso comune fatto di dialogo fra maggioranze e opposizioni e alternanza di governo. Quella italiana è un’esperienza a parte. E quello di Silvio Berlusconi è un governo a parte.Va bene aver cestinato l’idea totalitarista e va bene cercare di rimanere al timone più dei sei mesi canonici che hanno caratterizzato gli esecutivi degli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso; ma non va molto bene avere un governo che cambia idea ogni quarto d’ora. L’ultimo esempio di queste “giravolte capolavoro” viene dalla misera figura fatta ieri dal nostro ministro degli Interni, Roberto Maroni. Dopo aver accusato la Francia di non voler collaborare con noi – e, cosa ancora più grave, con Bruxelles – il nostro ha sostenuto ieri che Parigi ha tutto il diritto di vigilare sulle proprie frontiere con i mezzi che ritiene più opportuni. Mandando all’aria il sottilissimo piano secondo cui, con il trucchetto dei permessi di soggiorno temporanei, si potevano accogliere in Italia i profughi vittime della primavera araba e africana per poi accompagnarli con grazia alla frontiera alpina. Trucco tra l’altro deriso anche da Berlino. In questo modo si è legittimata una posizione anti comunitaria, che di fatto ha preso gli accordi di Schengen sulla libera circolazione sul suolo europeo e ne ha fatto carta straccia. Poco male, direbbero i duri e puri, se a parlare fosse stato Maroni“il leghista”: sempre avvezza alla vis polemica, infatti, la Lega Nord ha più volte espresso la propria opinione sull’Unione Europea con toni triviali e francamente imbarazzanti.
N
il fatto Al vertice di Milano con Gueant deciso un pattugliamento comune del mare
Contrordine, leghisti
Maroni costretto a rimangiarsi le minacce: «Parigi può controllare i profughi». Ma intanto anche la Germania, dopo la Francia, dice no ai permessi temporanei di Franco Insardà
ROMA. Tra il padano Roberto Maroni e il normanno Ma ad aver “abbracciato” il ministro Gueant è stato Maroni “il ministro”, che a Bruxelles – altra giravolta niente male – ha chiesto aiuto appellandosi proprio a quei valori che il suo Partito non reputa degni di essere onorati. Il problema, purtroppo, non si limita a questo. Il governo che attualmente tiene in mano le redini dell’Italia è maestro nell’arte del cambio in corsa: immigrazione, temi etici, misure economiche. Per non parlare dell’enorme scoglio della giustizia, che secondo il premier Berlusconi è l’unico problema serio (con buona pace del debito pubblico e del cuneo fiscale) che affligge il Paese. Ma anche su valori cristiani, bioetica e senso dello Stato il nostro esecutivo ha fornito prove che sarebbero comiche, se non fossero tragiche. La frase preferita dall’attuale maggioranza è quella che smentisce la precedente, e ogni occasione è buona per “spiegare meglio” un concetto assurdo – oppure offensivo, o irrealizzabile, o criminale – espresso qualche minuto prima. Non deve stupire dunque l’ultimo tango con Parigi di Roberto Maroni. In pieno spirito responsabile, infatti, il ministro degli Interni non ha fatto altro che accodarsi ai suoi colleghi.
Claude Gueant è il politico francese il vero leghista. Ieri, a Milano, il responsabile del Viminale ha provato in tutti i modi a scalfire la cortina di ferro innalzata al confine con Ventimiglia. Ma il collega francese è stato irremovibile: gli unici profughi che Parigi accoglierà dovranno avere passaporto in regola e portafoglio pieno. Alla fine dell’incontro Gueant infatti ha detto: «Siamo d’accordo sul rispetto stretto delle norme. Gli immigrati con un permesso di soggiorno temporaneo avranno la possibilità di circolare nel rispetto degli accordi di Schengen, ma nel rispetto dell’articolo 5 di Schengen che prevede il possesso di risorse finanziarie e documenti. Dipenderà dai singoli Paesi verificare queste condizioni».
Con queste premesse la riunione di lunedì prossimi a Lussembergo dei ministri degli Interni dei 27 si preannuncia molto calda. Nella giornata di ieri si è fatta sentire anche la Germania che giudica la decisione dell’Italia di accordare permessi temporanei ai migranti tunisini «contraria allo spirito di Schengen» e Berlino ha preannunciato che solleverà la questione lunedì. Questione ribadita anche dal portavoce del commissario europeo agli Affari interni Cecilia Malmstroem, Marcin Grabiec, che ha chiarito come per
«avere un permesso di soggiorno temporaneo non garantisce automaticamente il diritto a viaggiare negli altri paesi», essendo condizionato al rispetto di alcune condizioni previste dagli accordi di Schengen, così come sostenuto dal ministro degli Interni francese, Claude Gueant. Nella riunione di lunedì si lavorerà in particolare al potenziamento di Frontex, l’agenzia Ue per la gestione delle frontiere esterne, di cui è in corso una revisione del regolamento che dovrà essere approvata dai paesi Ue e dal Parlamento europeo. L’obiettivo, spiegano fonti della presidenza Ue, è quello di arrivare all’ok definitivo “entro giugno”, prima della fine del semestre di presidenza ungherese.
Alla fine dell’incontro di ieri Maroni ha ribadito che la gestione dell’emergenza immigrazione dal Nord Africa «non può essere solo dell’Italia o dell’Italia e della Francia. Serve uno sforzo comune a livello europeo. L’Europa svolga un ruolo più attivo nei confronti della Tunisia». Il nostro ministro degli Interni preferisce essere ottimista e sottolinea soprattutto la parte dell’accordo che prevede «un gruppo di lavoro congiunto per prendere iniziative per bloccare le partenze dei clandestini dalla Tunisia, con il pattugliamento congiunto delle coste
la crisi italo-francese
9 aprile 2011 • pagina 3
il retroscena
Gli scafisti gettano in acqua i profughi Dramma davanti a Pantelleria: subito soccorsi quaranta tunisini, arrestati i criminali ROMA. Basta coi tabù e soprattutto col tabù dell’immigrazione della sinistra buonista e basta pure con la cantilena di quando gli albanesi (o i tunisini) eravamo noi. Mentre a Pantelleria si replicano drammtiche storie di migrazione, a Roma si polemizza per queste parole. Salvo che a dirle non è Marine Le Pen, né il neocattivone Nicolas Sarkozy, né si tratta delle eruzioni politiche di qualche varesotto col fazzoletto verde: titolare di queste parole tanto mainstream quanto asseritamente controcorrente è nientemeno che Beppe Grillo. «L’Italia di oggi è sovrappopolata, uno degli Stati a maggior densità abitativa del mondo. La Francia ha il doppio del nostro territorio, con pochi rilievi montuosi, e circa lo stesso numero di abitanti», ha spiegato il comico (?) genovese sul suo blog alcuni giorni fa. E non è finita: «L’Italia dell’imbonitore Berlusconi, che promise casa e lavoro per gli immigrati alla televisione tunisina, ha il 20% di disoccupazione e almeno 100.000 extracomunitari disoccupati che diventeranno il doppio dopo il crollo ampiamente previsto del mercato immobiliare. Dove li mettiamo? Con che risorse li gestiamo? Gli daremo una casa, un lavoro? Li ospiterà D’Alema sul suo Ikarus o faranno compagnia ai nostri “ultimi”, pensionati e disoccupati delle periferie? Non riusciamo a fare un cazzo per gli aquilani e ci illudiamo di nutrire il pianeta?». Basta? Ma neanche per sogno: «Il tabù immigrazione ha effetti indesiderati, ma anche desiderati. Quelli indesiderati sono sotto gli occhi di tutti, con migliaia di miserabili lasciati a sé stessi e alle mafie. Quelli desiderati sono una manodopera a basso costo, spesso in nero, destinata di fre-
di Marco Palombi quente alla morte sul lavoro per il profitto dei padroncini e della Confindustria». Ma lo sguardo di Grillo guarda ancora più lungo: accogliamo pure i rifugiati, mette a verbale, ma «gli altri sono benvenuti solo se ci sono le condizioni per ospitarli, casa e lavoro, altrimenti si fa demagogia elettorale a vantaggio non delle sinistre buoniste e cialtrone, ma della Lega. Un’invasione, perché di questo si tratta, darà alla Lega il controllo assoluto del Nord Italia». Praticamente, sembra di intuire dalla prosa del nostro, l’anticamera di un nuovo fascismo europeo: d’altronde «la de-
stabilizzazione degli Stati è avvenuta da sempre anche grazie al fattore immigrazione».
Niente di nuovo, in realtà, anche all’epoca del delitto Reggiani a Roma il comico si scagliò contro l’invasione rumena, probabilmente perché i gran-
Intanto è polemica su una presa di posizione di Beppe Grillo contro l’accoglienza: «La destabilizzazione degli Stati avviene tramite l’immigrazione»
sia aereo che navale. E per sollecitare la Ue a contrastare l’immigrazione clandestina abbiamo concordato al necessità di sviluppare un’azione comune fra Italia e Francia». L’accordo siglato tra i due ministri dell’Interno prevede inoltre uno studio congiunto per un programma di rimpatrio volontario per gli immigrati con un permesso di soggiorno temporaneo. Maroni, comunque, si è definito soddisfatto dell’incontro: «da una crisi può nascere un’iniziativa forte, congiunta e compatta per dare una risposta concreta ai problemi che Italia e Francia stanno fronteggiando». Il titolare del Viminale ha sottolineato che sulla questione che ha determinato polemiche sulla libera circolazione «si applicano le regole di Schengen e gli accordi bilaterali Italia-Francia secondo le regole che ci sono. Le autorità francesi sono libere di verificare, in rapporto di leale collaborazione. Tutte le questioni potranno essere risolte».
di movimenti di persone non sono ecocompatibili. Stavolta, però, mentre i corpi di qualche centinaio di invasori galleggiano nell’immensa bara liquida del Mediterraneo, qualcuno s’è peritato di rispondere: i senatori ecologisti del Pd Roberto Della Seta e Francesco Ferrante. «Il neo-razzismo di Beppe Grillo conferma che il suo linguaggio ha sempre indossato i panni del populismo di destra», hanno scritto ieri sul Manifesto: «Quando il comico parla di immigrazione adopera idee e concetti presi di peso dalla retorica nemmeno leghista, ma lepenista». Il pregiudizio favorevole di cui gode nella sinistra radicale, dicono i due senatori, «non cambia un’evidenza di fondo: Beppe Grillo esprime un pensiero squisitamente reazionario e mette la sua tecnica, la sua “arte”di geniale polemista al servizio di perorazioni che molto spesso partono da denunce sacrosante ma quasi sempre rivelano una mentalità un po’
sesso del solo permesso temporaneo di soggiorno, rilasciato dalle nostre autorità. Il ministro Maroni aveva replicato duramente arrivando a dichiarare: «la Francia esca da Schengen o sospenda il trattato», ma dopo l’incontro milanese con Gueant i toni sono diventati molto più accomodanti. E i due insieme hanno dichiarato: «Insieme ce la faremo».
Non è, quindi, passata la linea italiana dei permessi temporanei quale soluzione agli sbarchi dei nor-
fascista». Al di là del solito utilizzo contundente del termine “fascista”, paiono assenti in questo accenno di dibattito dentro la sinistra italiana un paio di dati di realtà: quando masse enormi di persone si muovono non bastano motovedette e Centri di espulsione per fermarle, ma questo non ne fa una festa di libertà, e poi manca qualunque forma di conoscenza di chi siano queste migliaia di persone con cui da oggi conviviamo. Ci sono i profughi, una minoranza, ci sono i migranti dell’Africa subsahariana che lavoravano in Libia e se ne sono andati per la guerra e, soprattutto, ci sono i giovani nordafricani, quasi tutti maschi, quasi tutti cresciuti nel mito del viaggio che – differenza non secondaria - non è l’emigrazione. Molti di loro hanno abbattuto o visto cadere una dittatura e adesso vogliono tirare giù anche una frontiera che non capiscono: vogliono vedere e assaporare il nord ricco e lo fanno a rischio della vita e di molti soldi.
Lo fanno salendo su carrette sfondate impropriamente dette barche, alla mercè di Caronti per cui quell’umanità speranzosa e impaurita altro non è che un carico: ieri vicino a Pantelleria, tre di questi criminali chiamati “scafisti”, di nazionalità tunisina, hanno gettato la loro merce a mare quando hanno visto avvicinarsi le motovedette italiane. I cinquanta“pezzi”sapevano nuotare e se la sono cavata, i tre delinquenti sono finiti comunque in galera. Intanto si continua a tentare di svuotare il mare col cucchiaio: ieri, mentre gli invasori di Grillo sbarcavano sulle coste dell’intero Sud Italia, il governo di Roma e quello di Malta litigavano su chi dovesse soccorrere un barcone con 171 libici a bordo. Alla fine se li è accollati La Valletta, ma a chi importerà alla fine una cucchiata d’acqua in più o in meno?
nedì». A questo proposito Maroni ha annunciato che nel vertice l’Italia «chiederà l’attivazione della direttiva 55 del 2001 che stabilisce forme di protezione internazionale diverse rispetto alla protezione dell’asilo politico». E mentre la falla diplomatica sul fronte francese è stato in qualche modo tamponato, se ne è aperto uno con il governo maltese. Il ministro dell’Interno Carm Mifsud Bonnici, ha accusato infatti le autorità italiane di essere «irresponsabili» per essersi rifiutate di accogliere 171 migranti soccorsi in mare da una motovedetta maltese. «Gli italiani hanno violato i loro obblighi giuridici e umanitari e l’atteggiamento è sbagliato quando si tratta di tali circostanze», ha dichiarato Bonnici.
Lunedì si svolgerà un Consiglio straordinario dell’Unione europea, limitato al settore affari interni e dedicato all’immigrazione. In agenda le misure economiche e di sicurezza
Più giustificata, ovviamente, la soddisfazione del ministro degli Interni francese che ha laconicamente commentato l’incontro: «Abbiamo lavorato bene». Certo la vigilia dell’incontro era stato preceduto dalle minacce del governo francese di rimandare in Italia tutti gli immigrati che valicheranno la frontiera in pos-
dafricani che considerano l’Italia come una nazione di passaggio proprio verso la Francia, considerata terra di approdo per molti ricongiungimenti familiari. Da qui la reazione di Parigi per scongiurare una vera e propria invasione dal Maghreb. Ma la portavoce della Commissione europea, Olivier Bailly, ha giudicato l’incontro tra Italia e Francia molto importante «per chiarire le rispettive posizioni e per permettere di avanzare verso una soluzione europea in vista della riunione dei ministri degli Interni di lu-
Il presidente della Camera Gianfranco Fini, ha sottolineato che «il problema non è il rapporto fra noi e la Francia, ma un’Unione europea ”debole”, che deve battere un colpo o rischia di andare in pezzi la sua credibilità. In questo momento le istituzioni europee paiono inadeguate alle sfide». Secondo Fini esiste una «stridente contraddizione fra quello che tutti dicono, anche la Lega, e il fatto che lo dica chi in passato negava che si potessero cedere quantità di sovranità nazionale all’Europa».
pagina 4 • 9 aprile 2011
la crisi italo-francese
«È stato un grande errore lasciare che Lampedusa diventasse il palcoscenico dell’allarme. Ha condizionato Parigi e Bruxelles»
Il confine della colpa
«L’Italia esagera nel drammatizzare la vicenda dei profughi ma la Francia esagera nel lavarsene le mani. Il controllo comune del Mediterrano potrebbe essere il primo atto dell’Europa unitaria»: Sergio Romano e la sfida di Maroni Europa non c’è», dice il presidente della Camera Gianfranco Fini e le sue istituzioni appaiono inadeguate alle sfide come quella dell’immigrazione. «Il paradosso è che nel momento in cui è evidente a tutti che l’Unione europea deve avere politiche comuni, l’Ue balbetta.Tutti dicono che é una questione europea e non solo italiana ma alla prova dei fatti…».
«L’
Alla prova dei fatti la Francia non vuole saperne di immigrati, devono restare un problema italiano. Sergio Romano analizza con liberal la crisi mediterranea e la disputa italo-francese rilevando tre punti principali. Primo: l’Italia esagera il pericolo dell’immigrazione, la consistenza della migrazione finora è gestibile; secondo: la Francia non si assume le sue responsabilità e i suoi oneri; terzo: la scarsa autocoscienza europea rende il vecchio continente inadeguato a intraprendere una politica estera unitaria. «Ci sono tre paesi – Tunisia, Italia, Francia – che hanno serie preoccupazioni di politica in-
di Riccardo Paradisi terna in questo momento. La Tunisia non vuole vedersi rimandare a casa i suoi cittadini, o almeno vorrebbe che questo avvenisse a telecamere spente perché il governo tunisino non può fare la figura di lasciarsi trattare come terra di scarico da un paese europeo. In Italia, d’altra parte il problema dell’immigrazione clandestina è percepito come un’emergenza anche se i flussi migratori che penetrano nel nostro paese si traducono finora in cifre gestibili. È evidente che vi sia una sovrastima della questione ma questo si spiega con il fatto che l’insicurezza percepita costituisce il capitale politico della Lega. Tanto che in questi giorni è evidente l’imbarazzo del ministro Maroni nello sforzo di conciliare e gestire i due aspetti del suo ruolo». Ma secondo Romano è stato un grande errore lasciare che Lampedusa diventasse il palcoscenico dell’allarme. «Lasciando crescere il problema a Lampedusa è aumentata la percezione del rischio a livello nazionale. Una situazione che la Lega poteva capitaliz-
zare – così hanno pensato i suoi dirigenti – a livello elettorale ma intanto quella sovraesposizione mediatica dell’isola, quell’esasperazione che montava a Lampedusa per il sovraccarico che doveva sopportare ha contribuito ad allarmare anche il resto d’Europa e a rendere più difficile il negoziato con Parigi e Bruxelles».
Ma anche la Francia mostra i suoi tic e tabu. «Sarkozy le sue prime elezioni presidenziali le ha vinte prendendo voti alla destra lepenista, strappandole
Il centrodestra d’Oltralpe teme la competizione di Marine Le Pen
di mano la guerra all’immigrazione, lanciandosi nella crociata contro le banlieu. Per lui poi ora c’è un problema in più. Marine Le Pen ha in parte de-demonizzato il Front National, verso il quale, se esiste ancora una tradizionale diffidenza, stanno però cadendo le pregiudiziali più pesanti. Insomma Sarkozy ha concorrenti molto agguerriti e competitivi a destra e i tunisini vogliono andare in Francia. L’obiettivo è arrivare in un posto dove per loro la rete di accoglienza è straordinariamente efficace. Ecco,
Sarkozy questo non può permetterselo. I numeri di espulsioni e respingimenti sono il suo capitale elettorale. Se i numeri delle espulsioni gli saltano adieu Eliseo». Leghismo più educato e più cartesiano ma insomma…Del resto “la destra normale” in Francia deve suggere argomenti da quella estrema per non farsi scavalcare. Resta tuttavia curioso il comportamento francese: fuga in avanti in Libia, storico asse col regime tunisino e ora nessuna volontà d’assumersi gli oneri del terremoto che s’è scatenato in nordafrica. «Le democrazie semipresidenziali hanno questo tratto – spiega Romano – la carratterialità del leader ha un’importanza molto maggiore di quanto non abbia un sistema parlamentare vero e proprio. Del resto Sarkozy ha solo il 20 per cento di popolarità nei sondaggi e, a differenza di Berlusconi che ha istituzionalizzato la Lega, non può portare il Front national dentro la coalizione. Nemmeno Chirac riuscì a far entrare, tramite Pasqua, il Front national nel centrodestra». Ma il problema principale è
9 aprile 2011 • pagina 5
«Un compromesso per salvare la faccia, ma queste liti dimostrano la latitanza dell’Unione europea»
«A Roma come a Parigi si pensa solo all’immagine»
«Berlusconi e Sarkozy hanno puntato tutto su sicurezza e contrasto ai clandestini». L’opinione di Eric Jozsef, corrispondente di “Libération” di Francesco Lo Dico
ROMA. «Più che di un vero accordo, si tratta di un compromesso. Il ministro Maroni e il suo omologo Claude Gueant hanno pensato a salvare la faccia davanti all’opinione pubblica con reciproco vantaggio di entrambi. La Francia potrà continuare ad apparire fermamente motivata a non accogliere indiscriminatamente i migranti, e darà l’impressione di aver tenuto il punto, mentre l’Italia può sventolare davanti ai cittadini un accordo di cooperazione che tenta di rassicurare la gente sui prossimi sbarchi e può indurre a credere che le velate minacce dell’Italia abbiano influito». Nè vincitori nè vinti. È questo il verdetto di Eric Jozsef, corrispondente in Italia di Libération, all’indomani del faccia a faccia meneghino che ha prodotto un’intesa sui pattugliamenti congiunti delle coste tunisine. Il ministro Gueant ha fatto sapere dopo l’incontro con Maroni che la Francia rispetterà l’accordo di Schengen, e in particolare l’articolo 5. Ma non è la stessa posizione che ha preceduto il vertice? In buona sostanza è proprio così, perché quell’articolo prevede che la libera circolazione degli immigrati sia vincolata alla denuncia di risorse finanziarie sufficienti e a documenti in ordine. Possibile quindi che la Francia abbia smussato gli angoli, dopo gli attacchi del nostro ministro degli Interni? Quella di Roberto Maroni è stata una dichiarazione ad effetto, senza alcun tipo di conforto giuridico. Una maniera per rompere l’assedio e deviare l’attenzione pubblica su un altro Paese che non fosse l’Italia. D’altra parte lo stesso ministro degli Interni ha confermato che sulla base delle regole esistenti le autorità francesi sono libere di verificare i presupposti alla frontiera. Parole di segno molto diverso da quelle lanciate dal ministro l’altro ieri. L’unica novità sostanziale che emerge dal vertice a due è l’accordo sui pattugliamenti congiunti delle coste tunisine. Basterà per risolvere la questione migranti? Chi si è già insediato in Italia e in
Francia, difficilmente potrà essere rispedito al mittente tramite la politica dei rimpatri volontari. Per quanto riguarda il prossimo futuro, non si può certo pensare che i pattugliamenti congiunti siano sufficienti a ridurre il fenomeno migratorio. La verità è che le sorti della faccenda sono legate a doppio filo al peso e all’autorità politica del nuovo governo tunisino, che al momento resta un’incognita e avrà nella partita un ruolo ancora imponderabile. Quanto influisce la caduta libera dei consensi di Berlusconi e Sarkozy sulla gestione degli sbarchi dal Nordafrica? Entrambi hanno puntato forte sulla sicurezza e sul contrasto deciso all’immigrazione clandestina. E inoltre i due leader sono vicini ad appuntamenti elettorali importanti come le amministrative in Italia e le presidenziali d’oltralpe. Sanno bene di giocarsi un importante fetta di consensi sulla gestione della vicenda nordafricana,e anche se eviden-
«Il futuro dipende dall’autorevolezza di Tunisi. E nessuno può dire oggi quanta ne abbia davvero»
temente i flussi migratori sono fenomeni complessi, le esigenze elettorali di entrambi hanno forzato un dibattito che è particolarmente sentito da Sarkozy. Ci spieghi pure. Sarko non si occupa di immigrazione soltanto da quando è salito all’Eliseo, ma da molto prima. Esattamente dal 2002, quando fu nominato ministro degli Interni. Sono ormai dieci anni che il presidente rappresenta la Francia sulle politiche migratorie, e non puo commettere passi falsi in quanto gli riuscirebbe difficile additare gli errori commessi in passato dai suoi predecessori. L’attuale titolare degli Interni, Gueant, ha promesso di contrastare duramente l’immigrazione clandestina e di ridurre sensibilmente quella regolare: alzare i toni con l’Italia fa parte di una strategia per tenere in piedi la sua credibilità. Ma perché si è tardato così tanto ad approntare soluzioni, o quanto meno rimedi condivisi? Giù un mese fa, c’era stato un vertice dei Paesi europei che si affacciano sul Mediterraneo, da cui si era usciti con un profluvio di promesse di solidarietà ai più sfortunati. Peccato che poi non sia stato fatto nulla di concreto. Se si fosse intervenuto già trenta giorni fa, avremmo qualche morto in meno sulla coscienza. La verità è che nessuno è disposto a risolvere pragmaticamente la situazione, se non a parole. Perché tanto lassismo? L’Unione europea ha dimostrato di essere una pura astrazione. È la latitanza dell’Europa, la vera chiave per comprendere perché la situazione sia sfuggita di mano. Ciascun Paese, nessuno escluso, ha di volta in volta strumentalizzato il dibattito per incassare ritorno politico dalla vicenda dei migranti. Una vera comunità come quella che a parole si pretende l’Europa, si sarebbe fatta carico dei flussi in arrivo in maniera equa. E soprattutto si sarebbe mostrata accogliente e solidale, piuttosto che chiusa in tanti piccoli interessi di parte e sciovinismi d’accatto. Molti ritengono che le ondate migratorie siano solo all’inizio e che il peggio debba ancora venire. Risolveremo tutto con i pattugliamenti? Italia e Francia dovrebbero partire da un presupposto: a fronte di una popolazione complessiva di cento milioni di abitanti al di qua e al di là delle Alpi, si tratta di accogliere tra i ventimila e i trentamila migranti. Cifre molto lontane dalla minaccia alla civiltà su cui alcuni speculano. Detto questo, la chiave è una: il grado di consapevolezza che saprà dimostrare l’Unione europea in un frangente della storia così delicato.
l’Europa che, come dice Fini balbetta, mentre servirebbe proprio un pronunciamento europeo. «Se si ha Schengen bisogna che ci sia una politica dell’emigrazione comune. Va bene la clausola secondo cui il clandestino può che essere censito dal Paese in cui mette piede ma questo criterio funziona fino a quando ci sono flussi normali. La clausola salta quando di clandestini ne arrivano a decine di migliaia. Perché a quel punto si crea un problema di opinione pubblica e di gestione amministrativa e vanno filtrati uno per uno. Per questo ci vorrebbe una guardia costiera europea che sia composta da tutti i paesi dell’unione. Una guardia costiera che si assuma delle responsabilità collegiali e che sia davvero supernazionale. Con un uso non limitato al proprio paese».
Ma questa partita storica, di più, epocale, l’Europa non può giocarla solo in difesa, l’Europa deve lavorare perché le soluzioni sorgano sul continente africano. «il Processo di Barcellona cominciato dodici anni fa si è praticamente interrotto. Per mancanza di soldi soprattutto. Ci sono state le crisi del 2008, quella del 2009, la caduta del pil, ma c’è stata, a creare un po’ di disturbo, anche l’unione Mediterranea di Sarkozy che ha distratto energie e investimenti. Si deve ripartire però. Noi abbiamo un interesse a far funzionare i paesi della parte nord del Mediterraneo che per la verità non funzionavano poi così male. Stiamo parlando di regimi autoritari, dittatoriali è vero ma che avevano tassi di crescita al 4 per cento e dove in questi anni è cresciuto il benessere e la secolarizzazione insieme alle aspettative d’una vita migliore che hanno fatto esplodere le piazze e le situazioni politiche. Il problema vero dunque è il varco libico da cui proviene e passa l’immigrazione subsahariana. Ecco, mentre con i regimi nordafricani si potrà continuare a fare negoziati, anche per quanto riguarda la regolazione dei flussi migratori, più difficile sarà trattare con i preclari governi subsahariani». Berlusconi in affanno, Sarkozy che alza la linea Maginot antiimmigrati dopo aver accelerato le crisi nel nord-Africa: «La destra in Europa – dice il segretario del Pd Bersani – non sa gestire la crisi dell’immigrazione, non sa governare l’emergenza». «In Italia – taglia corto Romano – tutto viene inquadrato nell’ottica di parte, secondo il danno o il vantaggio di consenso immediato che si ricava dalle situazioni. Non è serio. Peraltro anche se non è popolare dirlo lo ripeto: l’accordo italo libico era geniale. Dal 2008 alla fin del 2009 l’immigrazione clandestina in Italia è scesa del 90 per cento».
pagina 6 • 9 aprile 2011
Disinformazione, grossi errori e una rapidità sospetta: per molti esperti c’è qualcosa di strano dietro la guerra al Colonnello a crisi libica ha avuto una narrazione “strana” fin dal suo esordio. Dopo il fiume informativo arrivato sui media dalla primavera araba, la rivolta libica era stata fin dall’inizio un grande buco. Dove le agenzie stampa internazionali erano palesemente a corto di notizie. Non si contano le telefonate fatte a cittadini libici apparse poi come “lanci”. Se ne è parlato, a porte chiuse, in una tavola rotonda organizzata dall’Institute for global studies a Roma, giovedì, presenti una selezionata rappresentanza di esperti italiani e stranieri d’analisi geopolitica. La «narrazione» della realtà ha preso il sopravvento sui fatti dall’epoca in cui i media e opinione pubblica sono diventati determinanti per la gestione delle grandi democrazie. Ma già ai tempi dell’antica Grecia esistevano i miti. Per capire cosa sia veramente successo in Libia servirà tempo, ma che qualcosa di poco chiaro sia successo incomincia a trapelare. Gli americani appena hanno messo “antenne” sul territorio, hanno voluto togliersi di mezzo. Sia perché le loro preoccupazioni sono in Bahrein e nel Golfo e sia perché un’altra guerra l’America e l’amministrazione Obama non se la possono permettere. Ma la rapidità con cui il Pentagono ha apparecchiato Odissey Dawn e l’altrettanta velocità con cui è uscita da Unified Protector, andrebbero interpretate. La narrazione ufficiale è quella che racconta di
L
una rivolta libica spontanea, seguendo il filo rosso delle ribellioni arabe, come in Tunisia ed Egitto. Quella emersa dal panel Igs è un po’ diversa. Racconta di un «colpo di Stato» anticipato per accensione spontanea. In pratica la rivolta popolare di Bengasi avrebbe costretto attori e registi dell’operazione «Eliseo» ad anticipare i tempi. Fin dall’assalto alla caserma di Bengasi, che a febbraio dette il via alla rivolta armata. «Si trattava di reparti speciali» che svuotarono i depositi della struttura militare per poi consegnare le armi ai rivoltosi.
Senza quel passaggio non ci sarebbe stato il primo capovolgimento di fronte e probabilmente quella sarebbe stata l’ennesima rivolta della Cirenaica – sempre riottosa nei confronti di Muammar Gheddafi – che il raìs avrebbe soffocato nel sangue. Poi c’è un’altra stranezza: il numero di ufficiali che hanno disertato dall’esercito del Colonnello, senza alcun legame apparente con i ribelli. Come se fosse scattato un meccanismo preordinato, ma non nei tempi previsti. Infatti le defezioni non sarebbero state nel numero auspicato, specie in Tripolitania. «Parallelamente» sarebbe partita la campagna del canale satellitare Al Jazeera. Alcuni partecipanti al panel sono stati testimoni diretti delle «bufale» della tv del Quatar. «Finti» bombardamenti di Bengasi. Resoconti di efferattezze «poco credibili». Una lunga serie di informazioni assolutamente «non vere». «Il novanta per cento delle notizie nella prima fase della rivolta erano false». Ma lo sceicco Al Thani, signore assoluto del Quatar e
Un meeting riservato tra militari e geopolitici
Rapporto (segreto) sul “complotto” di Sarkozy di Pierre Chiartano quindi padrone incontrastato della canale all news, può essere annoverato nella lista dei “cospiratori”? Dopo i fatti di Tunisia ed Egitto i media erano diventati assolutamente voraci di notizie e il black out informativo dalla Libia potrebbe aver ingenerato un effetto perverso. Al Jazeera, perseguendo in maniera assolutamente spregiudicata il proprio interesse di canale commerciale, avrebbe fatto il gioco di chi voleva imporre una propria «versione degli eventi». Tra i registi sicuramente una serie di personaggi «li-
bici», che potremmo definire lobbisti dell’informazione, che hanno agito da Washington e da Ginevra. Il presidente francese, Nicolas Sarkozy, è stato poi il primo ad agire, intervenendo sulla scena internazionale e imprimendo un marchio indelebile sulla fronte del colonnello: «Gheddafi è un criminale di guerra». Impedendo così a chiunque volesse perseguire una via diplomatica di poter intervenire senza “contaminarsi” con il dittatore libico. Ma analizziamo un attimo la consistenza dei rapporti preceden-
la crisi italo-francese
ti tra l’Eliseo e il rais. Sarkozy aveva cercato di fare affari con il colonnello, ma senza tanta fortuna. Obiettivamente la politica italiana – di tutti i governi – aveva creato una situazione privilegiata per Roma e non proprio facile per i transalpini. I francesi puntavano a due grosse transazioni: la vendita alla Libia di molti velivoli da combattimento, marca Dassault, e un colossale investimento per costruire centrali nucleari nella zona di Tripoli. I due affari erano stati concordati fra lo stesso Sarkozy e Gheddafi nel dicembre 2007 a Parigi, quando il leader libico piantò – anche lì fra mille polemiche – la sua tenda davanti all’Eliseo. Coperto da critiche che arrivavano da intellettuali, come il filosofo Bernard Henry Levy – fra i primi anche a giungere a Bengasi – e anche da esponenti del suo partito. Il presidente si era difeso sostenendo che aveva ottenuto oltre a un impegno sul rispetto dei diritti civili in Libia, anche la firma su contratti preliminari particolarmente corposi.
Un business che avrebbe portato alle imprese francesi più di 10 miliardi di euro. I contratti poi non si sono mai visti, nonostante il pressing dell’Eliseo. Dassault ha ottenuto soltanto una mini-commessa per sistemare
Un gruppo di analisti, riuniti dall’Institute for global studies, ha messo sotto la lente di ingrandimento le missioni internazionali in Libia quattro vecchi Mirage venduti nel passato a Gheddafi. E ogni accordo preliminare con la Francia contenuto in quel pacchetto del 2007 è stato reso carta straccia dal rais che progressivamente ha sostituito le imprese francesi con quelle russe o italiane, facendo imbufalire Sarkozy. E forse in quel contesto è maturata la “folle” idea. L’ostilità dell’Eliseo verso il dittatore libico è poi emersa periodicamente anche dalle note riservate di Maghreb Confidential, riportate anche dalla stampa italiana. Insomma, ci troveremmo di fronte a un «atto di neocolonialismo mascherato». Sicuramente spiegabile con l’amaro mangiato da Parigi fin dalla fine del Secondo conflitto mondiale, quando Washington rese chiaro – anche a Londra – che i tempi erano cambiati in quella regione. Ricordiamo Suez nel 1956, tanto per fare un esempio. Ma anche la cacciata di re Idris proprio in Libia, dove l’Italia svolse un ruolo non secondario. E il fatto che la Francia abbia pensato di riprovarci può essere un sintomo della debolezza americana nel Mediterraneo. Con Washington consumata da
due guerre lunghissime, in Iraq e Afghanistan, e da una crisi economica devastante. «La defezioni più deleteria per Gheddafi è stata quella di Nouri Mesmari, che nel novembre scorso arrivò in Francia con una valigia piena di soldi. Circa 180 milioni di euro». Soldi che potrebbero essere serviti per le prime operazioni coperte.Nella vicenda libica il Quai D’Orsay ha lamentato un’assoluta defenestrazione di competenze a favore dell’Eliseo che ha voluto mantenere il controllo assoluto. Si è parlato molto delle sfortune elettorali di Sarkò e della possibilità che abbia potuto giocare la carta dell’avventurismo in Nordafrica per risalire nel gradimento – assai basso – che gode oggi tra i francesi. Questa potrebbe essere stata una componente. Ma torniamo alla cronaca dei fatti. Siamo a febbraio e in Tripolitania si constata che gli ammutinamenti tra le truppe del rais sono esigui. Troppo pochi. Dopo la prima settimana di confusione, Gheddafi riprende in mano l’iniziativa. La presenza di mercenari è reale, ma secondo molto esperti è sovrastimata. Si tratterebbe di pochi ucraini, molti piloti istruttori poi utilizzati nelle poche missioni di bombardamento.Gli altri sarebbero rumeni. Qualche contributo più importante l’avrebbero dato gli addestratori richiamati dal Corno d’Africa.
Il grosso delle forze lealiste «è libico e fedele». Anche perché il rais avrebbe avuto buon gioco nello sfruttare l’etichetta bengasina della rivolta. Molti libici della Tripolitania, pur detestando il colonnello, mai si sarebbero fatti governare da un “orientale” della Cirenaica. Dall’altra parte c’erano elementi male addestrati e armati approssimativamente, fatta eccezione per le unità dell’ex generale dei paracadutisti Abdel Yunis. La presenza di forze speciali francesi è invece stata confermata anche dalla nostra intelligence: 250 uomini tra unità acquisizione obiettivi e agenti dei servizi con varie mansioni, tra cui anche l’outreach politico. L’ultima loro disavventura è avvenuta lungo il confine con l’Algeria, dove contrastavano l’approvvigionamento d’armi a Gheddafi. Si sarebbero persi nel deserto e il governo algerino avrebbe negato l’attraversamento del proprio spazio aereo per il loro recupero. Ora nel conflitto libico siamo arrivati allo stallo. O usando le parole del ministro degli Esteri transalpino, Alain Juppé al «pantano». Dove i combattimenti servono ormai «per stabilire i futuri confini» di una Libia divisa in due. La sensazione generale è però che nel Mediterraneo «postamericano» gli attori europei stiano giocando senza fare i conti con l’oste: la Turchia. E poi chissà, se anche la Francia non sia stata ingannata?
9 aprile 2011 • pagina 7
Parla l’ammiraglio Russel Harding
La Nato: «L’Italia deve bombardare»
L’alleanza ammette vittime di fuoco amico: «Dall’altro non sempre si può distinguere» NAPOLI. Il fuoco amico ha colpito ancora. La Nato ha ammesso le proprie responsabilità ma non ha intenzione di chiedere scusa ai ribelli per gli incidenti che a Brega hanno provocato la morte di diversi insorti appunto sotto il «fuoco amico» dei raid aerei dell’Alleanza. Lo ha detto l’ammiraglio Russell Harding, vice comandante dell’operazione Unified Protector condotta dalla Nato in Libia, in un incontro stampa tra Bruxelles e Napoli. «Non voglio chiedere scusa per le morti di civili per due motivi - ha puntualizzato Harding -: primo perché vedendoli dall’alto non possiamo identificare di che natura siano i mezzi e secondo perché vedendo quei veicoli che si spostavano avanti e indietro potevamo presupporre che fossero di forze leali al colonnello Gheddafi». Poco prima Harding aveva detto che i raid compiuti ieri (giovedì, ndr) dalla Nato in Libia potrebbero aver ucciso diversi civili. Quanto al fronte militare, ha detto l’ammiraglio, la situazione «è fluida», non di stallo. Giovedì sera, invece, il generale Carter Ham, comandante dello US Africa Command, parlando al Congresso Usa, aveva al contrario detto che in Libia «si è delineata una situazione di stallo» tra le forze dei ribelli e quelle proGheddafi. Sempre da ambienti Nato arrivano poi notizie di pressioni sull’Italia affinché modifichi le modalità della sua partecipazione alla missione, sostanzialmente prevedendo anche l’esecuzione di bombardamenti. Una sollecitazione in tal senso è arrivata anche dal Consiglio Transitorio dei ribelli a Bengasi, che hanno convocato il nostro rappresentante in Cirenaica, Guido De Sancits, insieme con i colle-
ghi britannico e francese. I tre si sono incontrari con Ali al-Isawi, responsabile dei rapporti con l’estero. «Ai tre è stato detto che le forze di Gheddafi si sono avvicinate e possono sfondare su Bengasi. Il Consiglio ci chiede di intervenire affinché la Nato colpisca dal cielo», ha confermato il portavoce della Farnesina, Maurizio Massari, secondo quanto riferito dal Corriere della Sera. Il quotidiano afferma che anche il segretario della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha sondato ieri sera il ministro degli Esteri, Franco Frattini, sull’argomento. Quanto agli Usa, hanno sempre chiarito che gli oneri delle operazioni dovevano essere per lo più europei, ricorda il quotidiano.
Domenica, nel frattempo, partirà la commissione di inchiesta delle Nazioni Unite sulle violazioni dei diritti umani nella crisi in Libia. Lo ha annunciato oggi a Ginevra l’egiziano Cherif Bassiouni, presidente della commissione, istituita a fine febbraio da una risoluzione del Consiglio Onu dei diritti umani. La squadra di esperti intende recarsi «nell’est e nell’ovest del Paese» così come in Tunisia ed Egitto, ha detto Bassiouni. Le date esatte della missione non sono state rese note, ma i membri della commissione partiranno domenica e torneranno entro la fine del mese, ha detto Bassiouni in una conferenza stampa. «Un’inchiesta deve essere giusta, imparziale e indipendente. E questo è quello che intendiamo fare», ha detto Bassiouni. La commissione dovrà presentare un rapporto in occasione della prossima sessione del Consiglio in giugno.
Commissione Onu sulle violazioni dei diritti umani dei libici da parte del regime del Colonnello
economia
pagina 8 • 9 aprile 2011
Cronaca di un «tutti contro tutti» nel quale molti hanno sbagliato per eccesso di dietrologia
La lezione di Trieste Nell’epilogo del caso Generali c’è la fotografia della crisi italiana di Enrico Cisnetto è Terza Repubblica e Repubblica. Terza Non basta chiudere il capitolo tormentato e fallimentare della Seconda – e Dio solo sa quanto ce ne sarebbe bisogno e urgenza – per essere sicuri che ciò che seguirà sia meglio. Capisco che la stanchezza per ciò che ci circonda
C’
scattato nel dare le patenti di “buoni” e “cattivi” in una storia che invece è un classico scontro d’interessi, alla lettura tutta politica che si è voluta dare alla vicenda, che porta a clamorose forzature della realtà – dire che esista un “polo” anti-Berlusconi che somma Tremonti, Montezemolo, Casini e Fini contrasta
Corriamo il rischio di “sporcare” il passaggio da una stagione che ineluttabilmente sta per chiudersi ad una i cui connotati devono ancora essere tutti definiti, commettendo vecchi errori sia tanta, ogni giorno crescente, ma non si deve cadere nella tentazione del «tanto nuovo tanto meglio». Prima di tutto perché non è necessariamente “nuovo” ciò che si autodefinisce tale, magari per far dimenticare in fretta di essere stato pienamente partecipe del “vecchio”. E in secondo luogo, perché il “nuovismo” è la malattia che all’inizio degli anni Novanta ci ha fatto commettere errori esiziali – per intenderci: maggioritario, bipolarismo, demonizzazione dei partiti ed esaltazione del leaderismo – che oggi stiamo pagando con interessi usurari.
Vorrei tanto sbagliarmi, ma ho l’impressione che la storia si ripeta e che anche ora – in una fase per molti versi somigliante a quella del 1992-1994, purtroppo – corriamo il rischio di “sporcare”il passaggio da una stagione che ineluttabilmente sta per chiudersi ad una i cui connotati devono ancora essere tutti definiti, commettendo errori non dissimili da quelli commessi vent’anni fa. Un esempio? Le lotte intestine al capitalismo nostrano, o per meglio dire a quel che resta del “salotto buono” della finanza made in Italy, e in particolare il caso delle dimissioni “spintanee” di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Generali. Ebbene, sono tanti i motivi che inducono a pensare che ci sia un approccio sbagliato: dal riflesso condizionato che è
Il cda di Generali ieri ha scelto Gabriele Galateri per la successione del presidente «dimissionato» Cesare Geronzi, dopo le polemiche dei mesi scorsi che hanno visto protagonisti sia l’ad del colosso triestino Giovanni Perissinotto sia Diego Della Valle
Il Cda si affida al manager amico di Agnelli, ora al vertice di Telecom
Il Leone sceglie Galateri, un ambasciatore di pace
Il neopresidente dovrà lavorare per blindare le linee del management e ricreare un equilibrio con i soci francesi di Francesco Pacifico
ROMA. Non contento di averlo pensionato, Alberto Nagel ha scelto di sostituire Cesare Geronzi con Gabriele Galateri di Genola. Lo stesso manager di casa Agnelli che nel 2007, da presidente di Mediobanca, dovette fare posto proprio al ragioniere di Marino. Una coincidenza, forse, se non fosse che il profilo del nuovo numero del Leone si confà al progetto di restaurazione messo in atto da piazzetta Cuccia. Ieri sera, nel Cda convocato per riassestare la governance di Trieste, i soci hanno cooptato nel consesso Galateri. Passo propeduetico al Cda di Generali di martedì prossimo che dovrebbe indicarlo come presidente e all’assemblea del Leone di fine mese che chiuderà l’era Geronzi.
Sono vari i motivi che hanno spinto Alberto Nagel e Renato Pagliaro a puntare su questo 64enne, che è passato per Banco di Roma, Saint Gobain, Ifi, Ifil Fiat, Mediobanca e Telecom. Intanto perché conosce bene i costumi di piazzetta Cuccia. Non causerà incidenti diplomatici come il “barbaro” Geronzi. Dovunque è andato, ha saputo barcamenarsi tra gli interessi dei soci, lavorato per limare le fratture tra le linee manageriali, rispettato con precisione militare gli ambiti previsti dalle deleghe. Non a caso nel 2002, da amministratore delegato della Fiat postromitiana, accetta senza discu-
tere il “licenziamento”imposto all’avvocato dalle banche del convertendo. Quelle, che di lì a poco, insedieranno con non poca arroganza Giuseppe Morchio.Trauma che Galateri, di casa con la moglie Evelina Christellin a villa Frescot, forse non ha ancora metabolizzato, visto che Agnelli gli annuncia il ben servito a cena. A Galateri i soci italiani chiedono soprattutto di mediare con quelli francesi, ormai i maggiori oppositori della gestione di Giovanni Perissinotto. Spazzata via con Geronzi ogni velleità di trasformare Trieste in uno strumento di sistema, l’Ad rafforzerà una strategia tutta volta alla prudente gestione, l’espansione verso est e un progressivo riallineamento tra asset management, settore danni e vita. Il che andrebbe bene anche ai soci francesi, da sempre interessati che Generali non pesti i piedi di Axa. Se non fosse che lo scontro in atto rischia una recrudescenza quando Perissinotto inizierà a dismettere le partecipazioni considerate finanziarie e non più strategiche. Parliamo del 3,7 per cento di Rcs, del 2 di Mediobanca, dell’4,41 di Pirelli, del 3,6 di Gemina, del 30 per cento di Telco (la scatola che controlla Telecom) fino al 4,97 in Intesa Sanpaolo, il 15 della compagnia ferroviaria Ntv o del 41,26 di Citylife. Partecipazioni spesso messe a bilancio come minusvalenze, poco performanti in Bor-
economia
9 aprile 2011 • pagina 9
con quanto si è visto finora sulla scena – fino alla contraddizione in cui sono caduti tutti coloro che sostengono che a Geronzi fosse imputato di voler fare delle Generali uno strumento del“sistema Italia”e poi attribuiscono l’ordito al ministro Tremonti, cioè proprio a colui che più di ogni altro sta lavorando in senso colbertista. Insomma, non c’è dubbio che le lotte di potere, quelle più cruente, accompagnano sempre i cambi di stagione politica, tanto più quelli che riguardano un intero
sa, ma che finiscono per dare al Leone un ruolo predominante nel controllo di gangli fondamentali del capitalismo italiano. Anche perché sono partecipazioni incrociate – come quella in Ca de Sass – che delineano le storture di un sistema finanziario già finito nel mirino dell’Antitrust, visto che creano una catena dove Unicredit è il primus inter pares in Mediobanca, piazzetta Cuccia il dominus di
Lo scontro ora si trasferisce su Mediobanca. Tra gli azionisti industriali e finanziari della merchant bank non solo Marina Berlusconi si lamenta del blitz di Nagel e Pagliaro Generali (e lo sarà di più dopo la cacciata di Geronzi) e Trieste, forte anche del 4,97 di Intesa, è il principale partner del bancassurance del primo concorrente di piazza Castello... Di conseguenza, è difficile credere che basteranno soltanto le capacità diplomatiche di Galateri per ricostruire gli equilibri tra soci italiani e francesi. Più facile scommettere che lo stesso dissidio si trasferirà sulla casamadre, su
Mediobanca, che avrà vita grama se vorrà tornare a controllare Generali con il 13,5 per cento come ai tempi di Cuccia. A Roma si vocifera di controrivoluzioni, visto che a Trieste non c’è più il banchiere che a metà degli anni Novanta ha salvato la Fininvest dalla bancarotta. A Milano, invece, non si dà peso alle letture politiche (anche perché il Cavaliere avrebbe altro a cui pensare, mentre il vero sponsor di Geronzi è Letta), ma si racconta che i soci italiani di Mediobanca, industriali e finanziari, da Marina Berlusconi in poi, non abbiano gradito il blitz di Nagel e Pagliaro, deciso senza consultarli.
Martedì prossimo si attende un Cda di Mediobanca molto teso. Accanto alla designazione di Galateri alla presidenza di Generali, l’agenda non dovrebbe fornire sorprese per un appuntamento di natura ordinaria. Invece, Ad e numero della merchant bank rischiano di dover chiarire perché non hanno interpellato i loro clienti su una partita così delicata. Da qui il passo sarà breve per discutere del patto di sindacato che scade a fine anno e che vincola il 44,34 per cento del capitale di Mediobanca. E che rischia di non essere confermato. Dalle colonne di Repubblica, Dieter Rampl, presidente di Unicredit e primo azionista e vicepresidente di piazzetta Cuccia, ha già fatto sapere «si dovrà fare qualche discussione sul funzionamento del del patto» e che si guarderà a un modello più leggero di controllo, forse non superiore al 30 per cento. L’obiettivo, va da sé, è quello di liberare le quote oggi detenute dagli investitori francesi guidati da Bolloré, uno dei pochi a sostenere fino alla fine Geronzi. Questo fronte difficilmente farà un passo indietro – Jean Azema si è chiesto perché Unicredit può salvare Fonsai senza dover lanciare un’Opa – tanto che si aprono due scenari: o i transalpini vengono risarciti a dovere in dossier come Parmalat o Edison oppure si dovrà cercare in piazzetta Cuccia un manager capace di mettere d’accordo tutti i litiganti. Uno, magari, con il profilo di Fabrizio Palenzona, non a caso candidatosi a diventare il nuovo Geronzi.
costruzione della Terza Repubblica, ma solo con la progressiva consunzione della Seconda. Pensare, per esempio, che si possa uscire da questo confuso e drammatico momento in cui stiamo vivendo – e che sta ingenerando una sfiducia così diffusa nel mondo del business da bloccare ogni investimento, anche da parte di chi i soldi li ha – con un capitalismo non solo non pacificato, ma addirittura nel pieno di una guerra senza quartiere, è un errore grave da evitare. Anche perché il paese
Potere politico e potere economico declinanti rischiano di crollare insieme rovinosamente. Questa è condizione necessaria ma non sufficiente per aprire una fase nuova sistema politico come la Seconda Repubblica. Ma immaginare che esse servano da cartina di tornasole per stabilire vincitori e vinti, significa non aver imparato la lezione della fine della Prima Repubblica, quando tutti hanno perso a favore di un outsider (Berlusconi).
Ricordiamoci che allora la scelta di Cesare Romiti di dare il benservito alla classe politica, in particolare a democristiani e socialisti, in nome della presa del potere anche politico da parte degli imprenditori – che non a caso appoggiarono Segni – fino al punto di cavalcare Mani Pulite si trasformò ben presto in un clamoroso boomerang: Romiti e la Fiat furono inquisiti, tanto che l’uomo forte di Torino dovette battersi il petto al cospetto di Borrelli; Cuccia di lì a poco dovette subire le prime sconfitte della sua lunga carriera, nonostante che il “nemico”Craxi fosse stato tolto di mezzo; a vincere la partita in politica fu l’unico dei grandi imprenditori a non far parte dei salotti buoni e che Cuccia considerava un impresario televisivo da quattro soldi. Ma al di là della prudenza nei giudizi su fatti e persone, questi ricordi dovrebbero indurre soprattutto a ragionare sul fatto che ciò cui stiamo assistendo non ha nulla a che fare con la
non se lo può permettere, vista l’esiguità della sua crescita. Il fatto che, saggiamente, si voglia ricostruire un tessuto sistemico di ciò che resta – tra banche che devono recuperare una quarantina di miliardi per sistemare i loro traballanti patrimoni, grandi gruppi che hanno sempre più la testa e il corpo altrove (Fiat docet) e imprese medie e piccole che soffrono, tra le altre cose, di eccesso di individualismo – la dice lunga sulla necessità di evitare come la peste una guerra dei poveri tra poteri che amano sentirsi e farsi definire “forti” e che invece sono drammaticamente deboli. Potere politico e potere economico declinanti rischiano di crollare insieme rovinosamente. Anzi, già sono in piena caduta libera. Tuttavia questa è condizione necessaria ma non sufficiente per aprire una fase nuova. Nella quale occorre traghettare quello che c’è rimasto – poco, purtroppo – e per la quale, soprattutto, occorre avere la capacità di ridisegnare il profilo del Paese, del suo assetto economico come di quello politico e istituzionale. Finora si vede solo un grande tramestio per buttar giù. Impalcature ricostruttive, poco o niente.Torno a ripetere: ci vogliono gli “stati generali” della Terza Repubblica. E “generali” è scritto minuscolo. (www.enricocisnetto.it)
politica
pagina 10 • 9 aprile 2011
Il premier fa lo spiritoso e invita due ragazze al «bunga bunga» ROMA. Le solite battute sul bunga bunga, le barzellette dal sapore antico e l’annuncio della necessità di «cambiare l’architettura istituzionale», con attacco al Quirinale e alla Consulta. Quello che si è presentato alla premiazione dei vincitori del progetto “Campus mentis” a Palazzo Chigi è il solito Silvio Berlusconi, sempre pronto a recitare il copione che ormai tutti conoscono a memoria. Un’altalena consumata tra insulti, populismo e ignoranza istituzionale.
Il Colle e la Consulta «nemici» delle riforme Solito show di Berlusconi: «Noi, di meno ma più coesi, abbiamo grandi progetti»
e al presidente del Consiglio e divisero il potere tra il capo dello Stato, la Corte Costituzionale e le Assemblee». A giudizio del Cavaliere «questo ha portato al fatto che il governo possa al massimo suggerire dei provvedimenti alle Camere che cominciano a dibatterle nelle commissioni, poi nell’Aula, poi nell’altra Camera, ancora commissione e Aula, e poi ritorna ancora nell’altra Camera. Il tutto ha sottolineato Berlusconi deve piacere al capo dello
di Gualtiero Lami
Durante la chiacchierata con i ragazzi premiati, Berlusconi raccomanda a tutti di essere ottimisti e ambiziosi, e di fare tutti i sacrifici necessari per raggiungere gli obiettivi che si prefiggeranno, prendendo ad esempio i propri successi personali e citando, ovviamente, il Milan. «Dovete avere fiducia in voi stessi: non esiste periodo difficile da cui chi è bravo e sa sacrificarsi non ne possa venire fuori. È nei momenti di crisi - sottolinea - che vengono fuori le vere capacità, il talento creativo». «Abbiate il sole in tasca», continua il premier, che ad un ragazzo calvo che siede in prima fila offre «il telefono del mio dottore, così avrai una chioma come dovrebbero averla tutti i giovani». «Siete così brave che mi verrebbe voglia di invitarvi al bunga bunga», dice invece credendosi spiritoso a due ragazze premiate nell’ambito dell’iniziativa, nel cortile di Palazzo Chigi. Poi, rivolgendosi ad un ragazzo, aggiunge sorridendo: «Anche tu sei abbastanza carino, potresti venire...». Avverte il giovane che ha dimenticato di radersi («la barba induce diffidenza nell’interlocutore, può nascondere una malformazione. Se troppo vasta può nascondere l’espressione del viso») e incalza il neolaureato timido, che dice di volere fare «un po’» di carriera: «Ma come, solo un po’ di carriera? Così cominci male - gli dice il Cavaliere - devi dire un carrierone. Sei tu che devi importi agli altri, non sono gli altri che devono accettarti». Insomma, una sana iniezione di ottimsmo a una generazione che ha davanti a sé un futuro radioso, se è vero che l’Italia di Berlusconi ha il record europeo di disoccupazione giovanile (siamo quasi al 30%, ormai, e la tendenza è drammaticamente in aumento). Ma, si sa, la formula vincente del nostro premier è la dissimu-
Benzina record; quasi 1,6 euro ROMA. Ancora record per la benzina: i prezzi hanno toccato ieri fino a 1,584 euro al litro. Proseguono infatti - riferisce Quotidiano Energia - le «code di rialzi sulla rete carburanti dopo i maxi-aumenti degli ultimi giorni frutto del caro-accise e delle tensioni sulle quotazioni dei prodotti petroliferi in Mediterraneo». Ieri mattina si sono registrati ritocchi ai prezzi raccomandati da parte di Shell (+1 centesimo su benzina e diesel) e Tamoil (+0,5 centesimi sul solo diesel). La media dei prezzi praticati della benzina ora va dall’1,577 euro/litro degli impianti Esso all’1,584, ieri era a 1,583, dei punti vendita Q8. Per il diesel si passa invece dall’1,484 euro/litro delle stazioni Esso all’1,493 rilevato negli impianti Q8. Il Gpl, infine, si posiziona tra lo 0,783 euro/litro Esso allo 0,797 Tamoil.
Silvio Berlusconi ieri è tornato ad attaccare il presidente Giorgio Napolitano e la Consulta: «Possiamo fare solo le riforme che piacciono a loro», ha detto lazione: non serve mentire (non sempre, almeno), basta parlare d’altro.
Così, tra battute e regalini, Berlusconi parla ogni tanto anche di politica. «Non sono riuscito a fare la
riforme», a cominciare da quella della giustizia. Il presidente del Consiglio spiega poi che bisogna mettere mano alla Carta e lo fa tornando a sottolineare il ruolo del Colle, a cui «devono piacere le leggi» e quello
Alla premiazione dei vincitori di «Campus mentis» il Cavaliere replica il solito copione: «Io non ho poteri contro i giudici di sinistra. Bisogna cambiare la Costituzione» riforma della giustizia - dice - perché non sono stato capace di avere il 51 per cento dei voti. Mi sono trovato ad avere una maggioranza di coalizione in cui c’erano dei partiti, quelli di Fini e Casini, che ogni volta stavano dalla parte dei privilegi dei giudici. Ora ho una maggioranza esile nei numeri, ma più coesa e dunque in grado di fare le
della Consulta che abroga i «provvedimenti non graditi» ai pm. «Lavoreremo assicura Berlusconi - alla riforma dell’architettura istituzionale che risente del fatto che i nostri padri della Costituzione, venendo dopo il periodo fascista, non vollero si potesse ripetere un pericolo come quello che era passato. E quindi negarono ogni potere al governo
Stato. Viene approvato, esce magari dal Consiglio dei ministri un bel purosangue e viene approvato, se va bene, un ippopotamo che il cavallo lo ricorda solo nel nome». Poi si parla anche di fisco: «Le aziende - dice il premier - sanno che è praticamente impossibile trovare la situazione giusta in una selva tale di leggi». Ecco perché «stiamo studiando la riforma tributaria e dobbiamo arrivare nei prossimi due anni ad avere un codice che unisca tutte le norme tributarie e che dia norme certe a cui ottemperare».
Poi, per chiudere in bellezza, l’attacco alla Consulta. «Se questa legge non piace ai pm di sinistra la impugnano, la portano alla Corte Costituzionale che, essendo composta da undici persone di sinistra e da quattro che provengono dall’area di centrodestra, la abroga. Quindi il popolo vota, il Parlamento lavora e discute e poi, non succede niente. Questo - ha concluso il premier - è dovuto al fatto che noi abbiamo questa architettura istituzionale: per arrivare a un Paese che sia una vera democrazia, dobbiamo cambiare l’architettura istituzionale, quindi serve una riforma della Costituzione». Una nuova promessa di grandi riforme, che, come sempre è difficile che venga seguita dai fatti.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
Trieste, Svevo e gli altri
LA COSCIENZA
DEL NOVECENTO di Pier Mario Fasanotti
na delle città che più hanno contato nella letteratura non solo italiana ma Città dove ha vissuto James Joyce. Città che ha prestato attenzione, e quanta, al anche europea è Trieste, che è «circondata da basse colline si estenviennese Sigmund Freud che con la scoperta dell’inconscio ha così brutalDall’autore de quasi interamente in pianura accanto alla costa» come mente disegnato la linea di demarcazione tra due secoli. Città dove alscrisse il triestino Renzo Rosso. Una città di confine e per cuni, con una tenacia sull’orlo della delusione tragica, hanno ladi “Zeno” a Basaglia, questo nevroticamente sensibile alle diversità etnico-culturasciato pietre di arte e di pensiero destinate a far da fondamenpassando per Saba, Slataper, li, macigno e vulcano di lotte e polemiche e migrazioni ta a pagine e opere finalmente nuove. Città dell’inettituBazlen, Marin, Magris e Joyce… ma pure tesoro da cui ricavare linfa, soprattutto ogdine, così come la leggiamo nei racconti e nei rogi - verrebbe da dire - visto che la borghesia manzi di Svevo, del disagio, del suicidio, della La città di confine dell’ultimo Nord-est italiano comincia ad apparifollia. Si lasci pur perdere la tentazione di vedeè tra quelle che più hanno contato re senile, e questo non solo per ragioni (che pur ci sore a tutti i costi nelle coincidenze la presenza di un denella letteratura non solo italiana. no) anagrafiche. Qualche nome. Solo qualche nome basta: stino, sta di fatto che proprio qui uno psichiatra come FranItalo Svevo, Umberto Saba, Scipio Slataper, Bobi Bazlen, Bruno co Basaglia ha soffiato ossigeno nelle celle e nelle anime dei maNe scrive Mughini nel suo Marin, Italo Tavolato, Fulvio Tomizza, Claudio Magris. Città di merlati di mente, riconoscendo e amando l’identità profonda di ciascuno ventiduesimo di loro, uomini e solo uomini, non più «legni storti» in un mondo che s’imcanti, di impiegati alti e bassi, di proletariato sofferente, scalo di navi da e libro per l’Oriente e quindi groviglio di pietre dove s’insinuava l’effluvio delle spezie. penna a pensare d’essere diritto.
U
Parola chiave Violenza di Gennaro Malgieri Bossanoveggiando con Nicola Conte di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Quelle parole scagliate da Rebora di Francesco Napoli
Nei segreti del boudoir di Mario Bernardi Guardi Cortellesi, Stiller, Crowe e l’Iran di Panahi di Anselma Dell’Olio
La gravitas secondo Anselmi di Claudia Conforti
La coscienza del
pagina 12 • 9 aprile 2011
Basaglia e i “matti” fuori dalle mura n tutto il mondo Trieste è nota perché ha dato il via a una nuovissima concezione della psichiatria, riconoscendo finalmente al malato mentale lo status del cittadino, di essere libero e di soggetto di diritti inalienabili. L’esperimento triestino, a forte carica sociale, è stato indicato come faro cui il mondo dovrebbe guardare. E oggi è ancora così. Qui di seguito riportiamo un passaggio del discorso che il professor Franco Rotelli, già responsabile dell’istituzione psichiatrica triestina, ha tenuto in memoria dell’uomo che aprì la strada scardinando migliaia di pregiudizi, ossia Franco Basaglia. «…La distruzione dell’ospedale psichiatrico di Trieste sarà allora possibile solo perché le lotte contro l’emarginazione e l’esclusione diventano, grazie al movimento di Psichiatria democratica, negli anni Settanta in Italia il patrimonio del movimento operaio, delle donne, dei giovani. Allora la fine del manicomio acquista il suo valore emblematico (e Franco Basaglia lo celebrerà affermando la nuova fase“dentro il contratto sociale fuori dalla tutela”). Rimprovererà a vari esponenti dell’“antipsichiatria” di non aver saputo cogliere la dimensione politica della psichiatria e delle istituzioni di controllo o di rinunciare dentro il mantenimento del narcisismo intellettuale dello psichiatra al rischio della pratica non in un terreno “alternativo”(che è la solidificazione dell’esistente), ma ben dentro il reale: ciò che ossessivamente andava definendo come il praticamente vero. Rimprovererà a certi movimenti sociali il loro rifugiarsi in una alterità agi-
I
Di Trieste, seguendo le malinconiche e a volte comiche vicende di Italo Svevo, si occupa Giampiero Mughini, il cui ventiduesimo libro s’intitola appunto In una città atta agli eroi e ai suicidi (Bompiani, 153 pagine, 15,00 euro). Le parole in copertina ricordano la frase di una lettera di Slataper: «Io non so che fare di uomini. Ho bisogno di eroi». A proposito del suicidio, non occorre scorrere le statistiche, ma solo ricordare alcuni personaggi, in carne o di carta, che scelsero il precipizio, la foiba esistenziale. Legame tra inettitudine e morte volontaria: c’è, eccome, nel primo romanzo di Svevo, inizialmente titolato L’inetto, storia di Alfonso Nitti, uomo che non riesce ad agire, roso dal morbo di Amleto, e finirà per suicidarsi. O, come scrive Mughini, «un inetto sulla direzione da dare alla propria vita, se imboccare la via del denaro da riscuotere ogni mese o quella delle lettere». È la nuova carta d’identità del Novecento. È pure il riflesso romanzato dei turbamenti dell’autore che così un giorno scrisse alla moglie: «Io sono in complesso un piccolo delinquente nevrotico e me ne sento a volte assai più infelice di quanto puoi credere».
È sempre lo stesso uomo, vuoi Svevo stesso, vuoi Nitti, vuoi il signor Cosini della Coscienza di Zeno, che «fuma come un turco», si propone di smettere, giura di smettere, riprende la sigaretta, dice bugie sulle passate astinenze tabagiche, si beffa e si compiace di sé, tristemente. A seguito di un incidente automobilistico, Italo Svevo - che all’anagrafe era ancora Ettore Schmitz: la burocrazia accolse la richiesta del nuovo nome a morte avvenuta - morì il 19 dicembre 1861. Al figlio (medico) di sua sorella Paola lo scrittore chiese «l’ultima sigaretta», una delle tante «ultime» della sua vita. Gli fu negata. La vita non gli aveva, però, mai negato il senso della morte. E dello sfinimento. Sempre confidandosi per iscritto con la moglie, quando aveva solo quarantadue anni, Italo disse di sentirsi già vecchio e consumato. In un’altra corrispondenza, precisò che la vecchiaia era stata l’unica «cosa seria» accadutagli nella sua «sciocca vita». Svevo fece per diciotto anni la vita dell’impiegato di banca. Per altri anni l’agente di commercio. Di giorno. Perché la sera e parte della notte scriveva. Ci ha raccontato il fratello Elio: «È apatico in apparenza, giacché la sua maggior vita la trova nella sua mente e in se stesso. A poco a poco gli venne l’idea di divenire uno scrittore». Un sogno che lo domina totalmente. Ossessionatamente. anno IV - numero 14 - pagina II
novecento
ta solo nel muoversi sul proprio terreno (dentro istituzioni separate o cosiddette alternative) dotandosi di un’ideologia propria autonoma rispetto alla cultura della classe avversa e di un sapere diviso. Questo è dovuto essere terreno di lotta per Basaglia e ci ha insegnato invece a non demonizzare il potere, a leggere e lavorare dentro le contraddizioni del campo avverso, che il servo è indissolubilmente legato al padrone e il padrone al servo, che le separazioni non eludono la servitù, che per gli oppressi è importante capire che la lotta per la sopravvivenza di sé e il problema della soggettività, dell’identificazione è altrettanto materiale di quello del nutrimento e che l’aggressione si associa ovunque all’incorporazione dell’aggressione. La lezione di Basaglia e la specificità italiana stanno tutte in questa contraddizione. Ha scritto: “Fanon ha potuto scegliere la rivoluzione, per evidenti ragioni obbiettive ne siamo impediti, la nostra realtà è ancora continuare a vivere le contraddizioni del sistema che ci determina, gestendo un’istituzione che neghiamo, consapevoli di ingaggiare una scommessa assurda nel voler far esistere dei valori quando il non diritto, l’ineguaglianza, la morte quotidiana dell’uomo sono eretti a principi legislativi”. Nacquero invece una legge nuova, principi legislativi radicalmente diversi, e questa non può essere la fine, ma il principio di un’altra fase…».
Pensava a sé come a un dilettante. Certo, non uno che cova ambizioni sbrigative e cerca di realizzarle in maniera superficiale. Il suo modello era, semmai, Niccolò Machiavelli che quando tornava a casa, prima di afferrare la penna, si spogliava della «veste cotidiana piena di fango e di loto». L’impiegato di banca e agente di commercio Svevo, annota Mughini, ha uno sconfinato e «irragionevole» bisogno di letteratura. Sempre alla moglie, per lettera: «Ho sempre vissuto nel sogno». E nel progetto di costruire un’opera così importante come La coscienza di Zeno, edito a spese dell’autore (come le altre opere) il primo maggio del 1923. Romanzo che trova inetti - è il caso di dirlo in questo modo - sia editori sia critici sia lettori. Ci volle qualche anno prima che il mondo si accorgesse di quelle pagine. Giovanni Comisso vede nella terza opera di Svevo lo spartiacque letterario del Novecento. A proposito di un suo racconto, disse di aver tastato «una compattezza di stile da far tremare tre quarti della letteratura italiana». Luigi Pirandello, assai vicino alle tematiche sveviane, ricevette il libro ma non commentò. È la molto meno provinciale Francia ad accorgersi del triestino, plaudendo a «uno dei più grandi scrittori europei di inizio secolo». La coscienza fu pubblicata dall’editore Licinio Cappelli, 1500 copie. Ma non fu un’esplosione, non fu un boato di approvazione. Ci furono, prima dell’acuto avvertimento parigino, due anni di buio e di silenzio. Lo scrittore comasco Carlo Linati riferisce, nel ’25, che «in tutta Milano non si trovò copia dei suoi libri». Svevo era del resto «assuefatto» all’insuccesso. Sono anni in cui non tutto era capito all’istante. Pirandello debutta al TeatroValle di Roma nel 1921 con Sei personaggi in cerca d’autore. Solo fischi. Va meglio a Milano con l’Enrico IV, storia di un pazzo che si finge pazzo ma non lo è. Enrico parla agli «uomini che s’abbuffano… s’arrabattano in un’ansia senza requie di sapere come si determineranno i loro ca-
si, di vedere come si stabiliranno i fatti che li tengono in ambascia e in tanta agitazione». Nevrosi e maschere del Novecento che avanza. Il siciliano Pirandello è vicino di camera (letteraria) del triestino Svevo. Il futuro Nobel per la poesia Eugenio Montale fu da sempre sostenitore di Svevo, cominciando con il considerare Senilità alla stregua di una vetta inarrivabile. Anni dopo riconobbe che sopra c’era da collocare Zeno. Giuseppe Prezzolini s’ingegnò a fare l’agente letterario di Svevo. Ma vide giusto quando osservò che «non è ancora aria» e quindi quel «bambino di 64 anni», così come si autodefiniva Italo, doveva pazientare un poco. Ma lui non aveva più tanta pazienza. Tanto è vero che, come ci ha raccontato Claudio Magris, pur di vedere su una rivista francese una nota di apprezzamento mandò un certificato medico «da cui risultava come riporta Mughini - che la sua aorta s’era pericolosamente ingrossata e che avrebbe potuto morire da un momento all’altro».
Ad applaudire Svevo ci fu un uomo non di poco conto. Si chiamava James Joyce. I due si frequentarono a lungo e assiduamente, a Trieste, precisamente nel quartiere Sèrvola (allora periferia, oggi non più) dove Svevo abitava con la famiglia. Lo scrittore dublinese decise, nel 1904, di «cercare sfortuna» nel continente europeo. Prima insegnò inglese a Zurigo, poi a Pola e infine a Trieste, giunto pieno di debiti e con in testa la trama dei racconti The dubliners. Conosceva l’italiano per aver letto e studiato Dante e Giordano Bruno. A chi gli rimproverava di dire «sirocchia» al posto di «sorella», lui rispondeva che la lingua che contava era quella del poeta fiorentino.Trieste diventa la sua seconda patria, qui nascono i suoi due figli. Quando Svevo morirà, Joyce detterà un articolo in italiano. I due narratori strinsero una forte amicizia partendo dalla necessità di Italo di imparare l’inglese, per lui idioma ostico. Joyce legge Una vita e Senilità, timidamente datigli dall’amico italiano, e ne ricava un’impressione che favorevole è dir poco. Nacque una buona intesa. Scrive Mughini: «Due scrittori che ognuno a suo modo faranno a pugni con il gusto corrente, con i critici, con gli editori, nel caso di Joyce con la censura». L’autore dell’Ulisse scriverà (nel 1924) a Svevo da Parigi: «Sto leggendo il suo terzo romanzo con molto piacere. Perché si dispera? Deve sapere che è di gran lunga il suo migliore libro». Parigi, l’allora capitale delle lettere europee, fa circolare La coscienza di Zeno. Sono in tanti a capirne il valore.
MobyDICK
parola chiave
9 aprile 2011 • pagina 13
VIOLENZA o, non c’entra niente il concetto filosofico. Non si parla qui della «levatrice della storia», né delle riflessioni soreliane che hanno segnato la storia della cultura e della politica del Ventesimo secolo. Neppure è il caso di scomodare i rivoluzionari di varia tendenza per tentare un approccio a un tema tanto vasto e così difficile da decifrare. Intendo, molto più modestamente, riferirmi alla quotidianità segnata da un orribile adattamento da parte di tutti noi alla violenza. Che sia effimera, estesa, sistematica, episodica ha poca importanza. Quel che rileva è la sua carica devastante che ha contagiato le nostre abitudini, i rapporti interpersonali, perfino gli svaghi. Negli stadi e nelle piazze, nelle private dimore, nelle scuole, nelle fabbriche e negli uffici, addirittura nelle aule parlamentari la violenza ha fatto irruzione con la forza di uno tsunami. Fermarla è impossibile. Ci si adatta, quando è il caso, a conviverci considerandola parte della nostra condizione umana. Per quanto possa sembrare assurdo è così.
N
Ognuno, naturalmente, è libero di spiegare come meglio ritiene questo fenomeno talmente coinvolgente che perfino i più miti ne restano in qualche misura soggiogati. E perciò non mi sembra il caso di formulare ipotesi che valgano a definirlo nei suoi prodromi, nel dispiegarsi e negli effetti che procura. La materia è sotto gli occhi di tutti e tutti sono consapevoli della sua complessità. Resta, tuttavia, l’interrogativo principale al quale è impossibile sfuggire: perché la conflittualità, su ogni cosa, è diventata accesa al punto di accecare la ragione? Venute meno alcune categorie dell’ordine morale e civile, non si può pretendere che quelli che una volta erano contenziosi ordinari, perlopiù banali, si risolvano pacificamente. Ognuno si sente votato a imporre il proprio punto di vista e spesso eccede al punto di seminare morte per accaparrarsi ciò che non gli è dovuto, come il suo piacere proibito o il possesso illegittimo di beni materiali. Si spiegano così anche i recenti fatti di cronaca che gettano una luce inquietante sullo stato di decomposizione della nostra società. Inutile citare i più noti e recenti. C’è anche nel gesto violento minimo un che di barbaro e di disumano che non può avere altra motivazione se non quella del disprezzo dell’altro, il disconoscimento della dignità umana. Si ritiene giusto predare ciò che si vuole perché è inammissibile sentirsi esclusi: questa è la credenza prevalente in ogni ambito e, dunque, non soltanto in quelli dove l’emarginazione crea il risentimento.
Male dei nostri giorni, è il prodotto di una cultura dell’egoismo elevata a modello comportamentale, a teoria sociale. Una sorta di neo-darwinismo che fa regredire la specie allo stato primario
Come se Dio non ci fosse di Gennaro Malgieri
Dai bambini indifesi alle donne, dai popoli massacrati dagli Stati che dovrebbero proteggerli alla diffusa mercificazione, dalle minoranze religiose ai linguaggi comportamentali e visivi di cui si nutrono i nostri figli... Il catalogo è ampio e le vittime numerose: tutti segni del dissolto legame sacrale tra l’uomo e la divinità La violenza è il prodotto, dunque, più maturo di una cultura dell’egoismo elevata a modello comportamentale, a teorica sociale; una sorta di neodarwinismo nella considerazione che la specie non deve progredire, ma regredire allo stato primario, elementare. Del resto se il mondo non ha un ordine, come si può pretendere che chi lo vive non si adegui nel perseguire la conquista di ciò che non è suo? E l’ordine è stato disconosciuto dal permissivismo illogico che ha puntato sul
soddisfacimento istintuale, in taluni casi addirittura codificato, l’estrinsecazione della libertà estrema. Sicché la bellezza, la felicità, l’onore, la sobrietà - per citare soltanto alcuni valori antichi e perenni nonostante tutto - sono stati travolti dall’inquieto egoismo portatore di esclusioni e di morte. La violenza sui corpi degli indifesi, siano essi bambini concepiti e non ancora nati o malati in stato vegetativo, è la più delinquenziale delle violenze che pure vediamo esaltata da leggi e lette-
ratura sempre in ossequio a quella libertà disordinata che nega in radice l’essenza stessa della libertà. La violenza sulle donne da possedere contro la loro volontà o da sfruttare per illeciti arricchimenti riempie di desolazione il nostro tempo così avaro nel riconoscere sul corpo femminile l’impronta divina che lo fa bello e desiderabile. La violenza che esercitano gli Stati senza ragione sui cittadini a cui dovrebbero provvedere è scandalosa almeno quanto quella che le società avanzate, evolute, affluenti esercitano sui bambini massacrandoli con gli stereotipi che vengono forniti dalla televisione e da certa pubblicistica, oltre che dalla brutalità criminale che si approfitta di loro come se fossero delle cose. La violenza che subiscono le minoranze religiose è il segno di un’epoca senza Dio poiché se venisse riconosciuto nessuno alzerebbe la mano sul vicino considerandolo comunque figlio di Dio. La violenza con cui viene mercificato qualsiasi sentimento a puro fine di realizzare profitti non è soltanto scandalosamente immorale, ma perverte il mercato stesso facendone un idolo mentre è soltanto uno strumento di veicolazione economica e di scambio. La violenza del linguaggio giornalistico, letterario, cinematografico, artistico l’assorbiamo quotidianamente schiacciando un semplice pulsante o girovagando in una libreria. Dove non dovrebbe entrare assolutamente, la violenza s’insinua invece subdolamente: nelle case, nelle famiglie, dove, come la cronaca dimostra, si consumano orrendi sabba che nulla hanno di umano.
Il catalogo è ampio, come si sa; potremmo continuare a sfogliarlo all’infinito. Ne varrebbe la pena, naturalmente, ma soltanto per affermare che le fattispecie nelle quali ci imbatteremmo sono segni della dissoluzione del legame sacrale che dovrebbe esserci tra l’uomo e la divinità, tra la legge scritta e il diritto naturale, tra i comportamenti e l’astratta spiritualità nella quale tutto si tiene. Ma chi potrebbe oggi, in questa autentica età del ferro, insegnare a quanti hanno disimparato i fondamentali dell’esistenza che esiste un’altra possibilità di vita al di là del primitivismo elevato a comportamento virtuoso? Le istituzioni, lo Stato, le agenzie di orientamento formativo? Non ho una risposta. Lo so, è desolante. Ed è questa la peggiore violenza che avverto su di me. Vorrei sottrarmi, ma non credo di averne le forze. Può darsi che il peggio debba ancora venire affinché una reazione si scateni e seppur violenta riconduca le nostre fragili società alla ragione.
pagina 14 • 9 aprile 2011
MobyDICK
Pop
musica
GARE CANORE per Palazzo Marino di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi icola Conte vuol dire fiducia. Ve lo dico io, che quando ne ho le tasche piene del rock caciarone e voglio azzerare i decibel con la lounge music stuzzicarella e l’easy listening per palati fini, so che c’è lui. Chitarrista, compositore e disc jockey nato a Bari, già mattatore negli anni Novanta del movimento musical-culturale denominato Fez, Nicola Conte mi ha conquistato da una decina d’anni con Jet Sounds, Bossa per due, Other Directions e Rituals. Dischi imbottiti di musica per buongustai. Speziati da un jazz che da acid s’è messo a flirtare con le colonne sonore di Ennio Morricone e Piero Piccioni e poi danzare al ritmo irresistibile della bossa nova. E quando il pugliese più internazionale che ci sia è sparito dalle sale d’incisione per un po’, assorbito da applauditissimi concerti al Blue Note di Milano, al Jazz Cafè di Londra e al Montreaux Jazz Festival, non mi sono fatto prendere dall’ansia: al suo posto, ho trovato l’impeccabile «facile ascolto» di gruppi e solisti abilmente prodotti da lui: Paolo Achenza Trio, Quartetto Moderno, Quintetto X, Schema Sextet, Balanço, quella sopraffina vocalist brasiliana che di nome fa Rosalia De Souza. E ho avuto la fortuna di scovare Viagem 1 e 2, compilation che il buon Conte ha confezionato con scrupolo da archivista scegliendo fior da fiore il miglior sound brasiliano possibile: quello che spesso e volentieri diffonde nei suoi stilosi DJ set («Mi sono messo a studiare composizione jazz, ma accanto alla visione del musicista conservo quella del disc jockey. In questo, credo, sta la mia contemporaneità», dice sempre). Se Viagem 1, pubblicato nel 2008, festeggiava i cinquant’anni dalla nascita della bossa nova
N
Jazz
zapping
l cantante in politica è sempre un affare. Se poi si parla della regina, in condominio con Mina, della canzone italiana, l’affare s’ingrossa. Si parla di Ornella Vanoni, a inizio carriera interprete delle canzoni di mala, e poi di spleen, di pioggerelline da dietro le tende di una stanza stilosa. Dell’Appuntamento, pendant di quel Sei grande grande grande portato al successo dalla Tigre di Cremona che i cantanti di pianobar di tutt’Italia pronunciano «sei glande glande glande», cambiando il senso del testo e ridacchiando sotto i baffi della performance. Insomma, la regina del «Mi sono innamorata di te/ Perché/ Non avevo niente da fare» forse non è più innamorata e ha qualcosa da fare. Entra in lista con Letizia Moratti candidato sindaco di Milano. Ex socialista craxiana, perciò legata in qualche modo all’ultimo periodo ruggente di Milano che poi è precipitata in una lunga faida Pdl-Lega contro Comunione e Liberazione, la Vanoni è un simbolo. Con tanti motivi di attrazione, appeal anche elettorale. È stata scelta per questo. E per questo potrebbe provocare guai: poiché anche le liste milanesi sono fatte di gente che raggranella i suoi voti, la presenza della Vanoni potrebbe risultare ingombrante. Capacissima di prendere una carrettata di preferenze e lasciare a casa qualche professionista della politica. E visto che Roberto Vecchioni ha pubblicamente dichiarato che appoggerà l’altro candidato sindaco, Giuliano Pisapia, la corsa a Palazzo Marino sembra sempre di più una gara canora nello standard: a sinistra il cantautore, a destra l’interprete. Viene solo da auspicare un’entrata in massa dei canterini in Comune. E viene un legittimo dubbio: da che parte staranno i raper? Club Dogo, Marrakash Fabri Fibra?
I
Bossanoveggiando con Nicola Conte con la rivisitazione dei classici di Baden Powell, Tom Jobim, Jorge Ben e Vinicius de Moraes e il secondo (2009) catturava il meglio del jazz & samba, lo smagliante Viagem 3 - A Collection Of 60s Brazilian Bossa Nova And Jazz Samba si spinge oltre: «Ho voluto, stavolta, dare la caccia a brani senz’altro più oscuri di quelli che avevo scelto per i precedenti due capitoli», puntualizza il musicista. «Diciotto pezzi incisi fra i primissimi anni Sessanta e il Settanta da artisti pressoché sconosciuti ma assolutamente brillanti, che in carriera hanno avuto la possibilità di realizzare solo singoli o extended play, mai album interi. Qui dentro c’è tanta bossa nova impreziosita da splendidi arrangiamenti, ma anche altro: ritmi africani, un’energia jazz mai così piena e creativa… D’altronde, la musica brasiliana ha sempre assorbito e rielabo-
rato stili e culture differenti». In perfetto equilibrio fra parti strumentali e cantate, Viagem 3 è un percorso senza ostacoli nel Brazilian Pop che incoraggia l’orecchiabilità lounge (Fora de Hora di Dalmo Castello, Chegar De Brigar di Henrique Benny & JT Meirelles, Litoral di Werther) e la genialità multietnica (Samba De Negro di Carlos Sodré, Batucada Negro di Eliana Pittman, Macumba di Claudia), dà spessore alle voci con una tromba jazzata in sottofondo (Vocé Que Nao Vem delle O Triangulo), dà fiato godereccio ai sassofoni (Tokyo Blues degli Octons), riesce a essere accattivante e sexy (Faz De Conta di Aizita; Vai Joao di Vera Brasil; Sem Fim di Marisa Barroso), inonda la bossa nova di scintillante jazz (Tema Em Do del Bossa Trio, Selvagem del Wan Trio) e il samba di contagiosi ritmi (O Samba Tá Ficando Bom di Kazinho, Copa 70 dei Brasil 40 Graus). Bossanoveggiando, meno male che Nicola c’è. Nicola Conte, Viagem 3 - A Collection Of 60s Brazilian Bossa Nova And Jazz Samba, Audioglobe, 15,99 euro
Appunti per un degno tributo a Louis e Miles
distanza di vent’anni sono scomparsi due grandi musicisti, Louis Armstrong nel 1971 e Miles Davis nel 1991, di cui quest’anno ricorrono gli anniversari. Mi auguro che il mondo del jazz ricordi questi due immensi solisti di tromba con adeguate manifestazioni, ma scorrendo le anticipazioni dei vari festival della prossima estate, vedo che i loro nomi sono assenti. Un tributo a Louis e Miles sarebbe assolutamente doveroso da parte di coloro che organizzano festival e manifestazioni varie. Ma c’è ancora tempo, Armstrong scomparve il 6 luglio, Davis il 28 settembre, pertanto mi auguro che qualcuno, leggendo queste righe, possa correre ai ripari. Ma non solo i festival, anche la Rai dovrebbe ricordare questi illustri musicisti. Permettetemi un ricordo personale. La mattina del 7 luglio 1971, quando giunsero le prime agenzie con la notizia della scomparsa di Arm-
A
di Adriano Mazzoletti strong, avvenuta nella notte del 6 nella sua casa di Corona a NewYork, Leone Piccioni, all’epoca vicedirettore generale della Rai, chiese di modificare il palinsesto previsto e inserire, in quella stessa giornata, un programma per onorare uno dei padri del jazz, che come scrisse Boris Vian «ha visto giusto. È nato nel 1900 con il jazz, ma in realtà è stato il jazz a essere nato con lui». Alle 13.15 del 7 luglio eravamo pronti ad andare in onda in diretta sul Programma nazionale (oggi Radio1). In quarantacinque minuti venne tracciato un ricordo di Armstrong attraverso le parole dello stesso musicista, con una intervista che avevo realizzato con lui qualche mese prima a NewYork, ma soprattutto con le
voci di Duke Ellington, raggiunto alle 5 del mattino nella sua casa negli Stati Uniti, Kenny Clarke a Parigi e Joe Venuti. Tutti ricordarono Armstrong, ma soprattutto raccontarono fatti e avvenimenti sconosciuti e mai riportati nelle biografie di questo musicista appena
scomparso. Ellington ricordò la sera del 23 febbraio dell’anno precedente quando con la sua orchestra si esibiva in un concerto al Madison Square Garden. Armstrong seduto in platea venne quasi obbligato dal pubblico a salire sul palco per esibirsi. Accompagnato da Ellington cantò Hello Dolly in un tripudio di applausi. O quando, dieci anni prima, il 17 dicembre 1961, durante l’Ed Sullivan Show, lui stesso venne invitato a prendere il posto del pianista regolare di Armstrong, negli All Stars. Ellington, malgrado lo avessimo svegliato, continuava a raccontare, quasi commovendosi, al ricordo dei due giorni (il 3 a 4 aprile 1961) passati negli studi di incisione della Roulette a New York per incidere il primo disco ufficiale che li vedeva assieme. E così Joe Venuti che ricordò gli incontri, negli anni Venti, fra Armstrong e Bix Beiderbecke. Era forse questo, rispetto a oggi, un modo diverso di «fare la radio».
arti Architettura In principio fu la gravitas
MobyDICK
9 aprile 2011 • pagina 15
architettura è la più astratta delle arti: essa è aniconica poiché non ha termini di confronto in natura. Del tutto artificiale, essa configura un’altra natura, inevitabilmente antropomorfica e antropometrica (come ci insegna Michelangelo) e perfettamente conforme all’uomo, che da solo l’ha creata e sviluppata. Si rifletta alle parole di Francesco Averlino, il Filarete (1400-1469), scultore e architetto fiorentino, nel Trattato di Architettura (c.1460-1465): «Io ti mostrerò l’edificio essere proprio un uomo vivo, e vedrai che così bisogna a lui mangiare per vivere, come fa proprio l’uomo: e così s’amala e muore, e così anche nello amalare guarisce molte volte per lo buono medico». Ritengo che questo assunto sia un punto fermo, dal quale prendere le mosse quando si procede all’esegesi critica di un’architettura o all’opera di un architetto: sono le logiche lessicali, sintattiche, costruttive e materiche dell’altra natura a segnare limiti e orizzonti del progetto. Pertanto quando un progettista si lascia irretire dalle suggestioni di forma naturalistiche e le traduce in edifici in forza della sconfinata libertà di tracciamenti concessa dai programmi di videografica, ne derivano architetture che hanno qualcosa di parodistico se non di puerile. Penso ad alcune opere di Hadid o di Calatrava: figurazioni zoomorfiche che, ignare della struttura zoologica, evocano simulacri immaginari della biblica balena di Giona o della feroce e nivea persecutrice di capitan Akab. Questa premessa è funzionale alla constatazione che le architetture di Alessandro Anselmi mi sembrano particolarmente consentanee ai più saldi e antichi statuti fondativi della discipli-
L’
Fotografia
di Claudia Conforti na del progetto di architettura. I visionari edifici e i fantasmagorici progetti di questo poco più che settantenne (è nato a Roma nel 1934) Maestro dell’architettura italiana ed europea, attestano infatti un’instancabile declinazione della gravitas, attributo e corollario dell’opera muraria, che Anselmi identifica con la radice profonda, se non con il principio fondativo dell’architettura. Le opere di Anselmi, localizzate
soprattutto in Francia e in Italia, narrano di una sperimentazione tenace, dispiegata nel tempo, che si nutre della cultura artistica moderna e contemporanea e trova solide sponde, etiche e formali, nella storia dell’architettura e della costruzione. Nella prima opera costruita, lo stupefacente cimitero di Parabita, in Puglia (1967 con Paola Chiatante), Anselmi, che all’epoca fa parte del laboratorio
Grau (gruppo romano architetti urbanisti), sperimenta con spregiudicatezza il rapporto non deterministico tra pianta e alzato, mettendo positivamente in crisi un assioma lecorbuseriano e costrittivo della modernità, che legge l’alzato come univoca derivazione della planimetria. Partendo da un tracciato planimetrico ironicamente conformato sul profilo di un capitello ionico, Anselmi innalza una serie di architetture in tufo dorato, dalle stereometrie solenni e variate, le cui filigrane composite contemplano l’antica Micene e la moderna Dacca di Louis Kahn. Ma queste vicende si possono leggere come ipotesto degli ultimi 25 anni di progettazione di Anselmi, che sono al centro del libro che gli ha dedicato, con ammirata devozione, Maria Argenti e che si focalizza sugli anni 1986-2009: ovvero dal municipio di Rezé les Nantes al progetto di un hotel per Papigno, presso Terni (Alessandro Anselmi, EdilStampa, 185 pagine, 20,00 euro). In questo intervello di tempo Anselmi costruisce numerose opere tra cui due municipi: uno a Rezé les Nantes e uno a Fiumicino. La stessa funzione approda a morfologie spaziali e a figure urbane intimamente imparentate quanto figurativamente diverse. Nel primo caso è un muro chiaro in curva che detta l’assetto spaziale e i legami sintattici tra le parti dell’edificio e dell’edificio con le preesistenze e il contesto. Nel secondo è un volume netto, tagliente, compatto, di laterizio vermiglio, che cattura la luce e i riverberi del mare, polarizzando in una forma stereometrica e inconfondibile l’identità frammentata dell’antico borgo marino, riscattandone con l’imperio della bellezza il precedente statuto di periferia metropolitana.
Geometrie del cuore di un’anticonformista
raro che in una stessa sede museale, sia pur lievemente distaccata, come la Calcografia di Roma, si possano vedere due mostre così simmetriche e così opposte (tenendo conto anche del tempo trascorso). Se quella di Mario Cresci, che lavora soprattutto di pensiero e di concetto, intorno a quel museo-laboratorio calcografico, che trattiene un tesoro di lastre trafficate o biffate di maestri del bulino e degli acidi, come Piranesi, Salvator Rosa, Morandi, può esser considerata esemplare della linea analitico-concettuale alla Filiberto Menna (Cresci opera dilatando e immortalando i solchi pantografati delle incisioni di Piranesi, per esempio), la straordinaria Principessa Anna Maria Borghese è davvero esemplare d’uno stile documentario-bressoniano, come lo chiamerebbe, con un po’ d’insofferenza, quel contestatore nato che è Cresci. Ma che straordinaria riscoperta, questa, del «diario fotografico» di un’aristocratica anti-conformista ed etnograficamente curiosa come la moglie di Scipione Borghese (erede omonimo dell’antico e coraggioso committente di Caravaggio), deputato radicale, diplomatico, esploratore, alpinista, pilota nella storica Pechino-Parigi, che vinse, nel 1907, avendo accanto il corrispondente del Corriere e scritto-
È
di Marco Vallora re Luigi Barzini. E anche la moglie, che lo seguiva, è vero, docile come ogni moglie virtuosa, ma avendo pure una sua straordinaria autonomia, rispetto ai costumi del tempo. Con al collo il cilicio della sua inseparabile Box-Camera Kodak, appena licenziata sul mercato (dunque una vera pioniera. E instancabile significa: non meno di 8000 lastre pervenute). E capace anche, probabilmente aduggiandosi dell’agonismo caparbio del marito, di voltare le spalle alla competizione e di proseguire, da sola, la sua foto-indagine antropologico-paesistica. Ma non già nei ben conosciuti terreni di casa e di caccia, bensì in Giappone, via Transiberiana, come divertentemente sottolinea Barzini, «ama talmente i viaggi che pur di viaggiare andrebbe persino in treno!». Barometro degli umori del tempo. Arrestandosi in una Mosca provata e ancora tolstojana (del resto il marito lo aveva accompagnato sino in Palestina, Persia, Uzbekistan, Afghanistan, fotografando quei posti intatti con un’arte dello stupore, pudico e rapito, che ha pochi confronti, all’epoca. Diverso per esempio
dall’imperturbabile decoro grafico d’un Charles Nègre o dalla passione romanzesca, concentrata, del flaubertiano Maxime du Camp). Come scrive lucidamente la curatrice, Maria Francesca Bonetti: «Un interesse divenuto presto una passione indomita e bruciante, controllata tuttavia dal riserbo di un’educazione tradizionale e di classe, vissuta e consumata con la discrezione e la timidezza che hanno caratterizzato tante nobili e meritevoli imprese femminili nella società dell’epoca». Ma non bisogna pensare a un’occupazione tipicamente femminile e vicaria, come un lavoro di cucito o di flebile acquerello. Basta vedere come, figlia d’una nobildonna russa e della sensibilità del montaggio formalista, sa inquadrare dall’alto la solitudine riottosa e già sconfitta d’un povero neonato in quell’Agro Pontino di cui i Borghese sono latifondisti (usando gli stessi occhi filantropici e gorkiani di Cambellotti, Nino Costa e della «socialista» Sibilla Aleramo). O fotografare con feroce asetticità, più avanguardistica che scientifica, un intestino resecato su un lenzuolo da infermeria da campo, di cui probabilmente è crocerossina, o documentare la lieta miseria della Sicilia vetero-borbonica o l’atavicità petrosa di Butera e Scano (paiono già delle icone sputate di Sellerio o di Giacomelli). Levità e sapienza, geometria e cuore.
Racconto di un’epoca. Fotografie della Principessa Borghese, Roma, Calcografia, fino a maggio; Mario Cresci - Forse Fotografia, Roma, Calcografia, fino a giugno
MobyDICK
pagina 16 • 9 aprile 2011
il paginone
Nei segreti del boudoir di Mario Bernardi Guardi ella sua opera Le Génie de l’architecture, ou l’analogie de cet art avec nos sensations, scritta nel 1780, il grande architetto - e teorico dell’architettura - Nicolas Le Camus de Mézières descrive le stanze di una casa come luoghi destinati a suscitare sensazioni, emozioni e passioni. La sua è una sintesi di alcuni decenni di innovazioni volte a costruire ambienti non tanto «a misura d’uomo», quanto a misura di un tipo «particolare» di uomo: quello che abita gli spazi eletti dell’aristocrazia. Dove il boudoir fa la sua bella figura come scrigno di calda intimità, intrigante dolcezza e raffinata voluttà. È qui che la dama accoglieva i suoi ospiti e seduceva ed era sedotta tra un variato gioco di confidenze e complimenti, impetuosi assalti e ritirate strategiche, capricci e sorrisi. Quest’arte del vivere caratterizza il Settecento di quelle parrucche incipriate di cui, a fine secolo, la ghigliottina avrebbe fatto scempio.
N
«Giustizia giusta» che colpiva la vacuità di un mondo dissipato e corrotto, ora ignaro, ora consapevole, ma quasi sempre indifferente, dinnanzi alle miserie del popolo? Be’, sui nobili intenti dei giustizieri, soprattut-
to di quei giacobini che avrebbero scatenato il Terrore, c’è da fare ampia tara. In ogni caso, non è questo il luogo adatto per riaccendere il dibattito su certi spinosi argomenti: altri sono i pensieri, altre le immagini che propizia il boudoir. Ed è, per dir così, naturale, che ci sovvenga una celebre osservazione di Charles-Maurice TalleyrandPérigord. Un finissimo politico, passato indenne tra regni, rivoluzioni e restaurazioni, che soleva ricordare come chi non aveva vissuto nella Francia dell’Ancien Régime non poteva capire che cosa fosse la «dolcezza del vivere». Dolce vita, dolce Francia. E il boudoir. Lo evoca e lo celebra Michel Delon, appassionato alfiere del «privato», in un gustoso libretto di ricognizioni (L’invenzione del boudoir, a cura di Valentina Vestroni, Le Lettere, 120 pagine, 15,00 euro). Da esso scopriamo che alle origini del boudoir si trova sicuramente lo «studiolo». Figlio del Rinascimento italiano, è la stanza che il principe consacra unicamente a sé. È dunque il suo «privato»: biblioteca, piccolo museo, gabinetto di lavoro, oratorio. Lontano dalle sale di cerimonia e ricevimento, lo studiolo (per certi versi somigliante a quella che sarà la «dimora filosofale» dei «decaden-
ra, di disbrigo della corrispondenza e di preghiera. E aggiungiamo che esso vale anche come toelette, come «gabinetto»: tanto per incipriarsi naso e parrucca quanto per fare i propri bisogni. Il boudoir fa la sua comparsa all’inizio del XVIII secolo come variante femminile del cabinet e diventa ben presto quel «lussuoso recesso d’amore», che nella letteratura avrà le declinazioni più varie. Ma ne parleremo in seguito. Cominciamo, invece, con l’etimologia del termine. Decisamente strana. La parola deriva infatti dal verbo bouder che significa «tenere il broncio». Dunque, un cabinet a esclusivo uso femminile, dove signore e signorine si ritiravano in solitudine quando erano di malumore. Ma, osserva maliziosamente Delon, «il broncio solitario non è, il più delle volte, che un abile pretesto o un preludio a un boudoir a due».
Per disegnarne il composito profilo, torniamo, comunque, al nostro architetto e a quel manuale che minutamente illustra l’analogia tra l’architettura «di genio» e le nostre sensazioni. Tanto per cominciare, del boudoir va fissata la decorazione: specchi e nicchie a profusione. I dipinti debbono raccontare «i luoghi galanti e gradevoli della
zioni, suggerire, coinvolgere, stimolare, provocare. Il corpo va «incastonato» in uno scenario ad hoc ove possano sciogliersi, con eleganza, i lacci della riservatezza pudica per abbandonarsi al dialogo amoroso, alla carezza, all’abbraccio, propiziati anche dalle citate immagini mitologiche, evocative di libertà e di ebbrezza. Se lo studiolo voleva offrire «il ritratto di un’anima, di una mente, di un ruolo storico», il
La parola deriva dal verbo “bouder” che significa “tenere il broncio”. Un posto in cui signore e signorine potevano ritirarsi quando erano di malumore. Preferibilmente non da sole... ti» Baudelaire e Husymans) è costruito a immagine e somiglianza di chi, messi per un attimo da parte i negozi della vita pubblica e tutti gli obblighi inerenti al proprio ruolo sociale, vi trova complice ricetto, tra ritratti, oggetti simbolici, motti ecc. cari al personalissimo immaginario. Allo studiolo fa seguito, nei palazzi e nelle residenze della Parigi settecentesca, il cabinet che nasce dal preciso intento di separare ciò che è aperto ai conoscenti occasionali da ciò che è riservato agli amici. Ma il cabinet è tante altre cose ancora: luogo di meditazione e di lettuanno IV - numero 14 - pagina VIII
Favola», e cioè evocare scenari mitologici e leggendari. La luce è affidata a candele «il cui splendore è attenuato mediante garze». Il mobilio deve inevitabilmente comprendere un letto da riposo o un’ottomana. Le pareti debbono essere tinte di bianco e di azzurro. Le Camus de Mézières «insiste sulla forma circolare che corrisponde al corpo femminile e ai gesti dell’amore». La segretezza della stanza «non vieta qualche finestra che dà sui giardini, trasformandoli in prospettive, in vedute pittoriche, confusi con gli altri quadri sospesi alla parete». Ogni cosa deve suscitare emo-
boudoir è «la messa in scena di una seduzione», una folie, un’utopia, un’isola felice, una di quelle tanto care alla filosofia del tempo, intesa «a spiegare l’essere umano mediante il suo contesto e la sua esperienza sensoriale». Uno dei nomina-numina dell’Encyclopedie, Charles Louis de Secondat, barone di Montesquieu, sviluppando la teoria dei climi, associa a ogni uomo un carattere, un tipo di società. La temperatura, determinata dalla latitudine e dall’altitudine, agisce sulle fibre «serrate nei climi freddi, allentate nei climi caldi». Per Madame de Staël, il Mediterraneo, terra «classica» per eccellenza, ama le forme plastiche (e il boudoir è questa ben modellata grazia, sottilmente vitale ed espansiva) mentre al Nord romantico sono cari l’indistinto e l’indefinito delle nebbie e delle brume.
All’interno di ogni società che è come dire all’interno di ogni clima, e viceversa - «l’individuo è costituito dalle sue esperienze personali, dalle informazioni sensoriali». Ed ecco, osserva Delon, che il boudoir può essere inteso come un microclima, «volentieri surriscaldato, e come un luogo sperimentale dove si mette a prova la determinazione dell’essere umano mediante lo scenario che lo circonda, me-
9 aprile 2011 • pagina 17
“Lussusoso recesso d’amore” variamente declinato in letteratura, fa la sua apparizione nel XVIII secolo come variante femminile del “cabinet”. È il luogo ideale per mettere in scena la seduzione e come tale, secondo Le Camus de Mézières, teorico dell’analogia tra architettura e sensazione, va progettato: in forma circolare per corrispondere al corpo della donna e ai gesti della sensualità. Un libro ne ripercorre la storia diante gli oggetti che colpiscono i suoi sensi». E gli oggetti il loro bel potere ce l’hanno al fine di attivare corrispondenze. Soprattutto quando l’aria è surriscaldata. Come in Le hasard au coin du feu (1763), dove l’autore, Claude-Prosper Jolyot de Crebillon ci pone davanti a un gioco amoroso - lei che fugge ma non chiede altro che d’essere inseguita; lui che, con spavalda galanteria, la incalza - che si svolge nel boudoir, accanto al fuoco che fiammeggia. «La saturazione della scena - scrive Delon - stimola tutti i sensi e limita la libertà degli individui che non chiedono che di lasciarsi condurre verso l’ottomana». Insomma, «il boudoir del XVIII secolo è un’isola polinesiana a portata di mano, un’utopia di qualche metro quadrato, un abitacolo senza gravità morale», benedetto da Venere e da Apollo. Frecce e intrighi d’amore, dunque, all’insegna di edonistica lievità, ma l’incanto è innegabile. Ed è davvero un incantesimo odoroso e colorato quello che spira dal boudoir di Zulmé, la signora della voluttà nella Galerie des femmes, costruita da \u0116tienne de Jouy: «Entrando in questo rifugio, consacrato al più giovane degli dèi, tutti i sensi cospirano insieme a immergere l’animo nella più dolce ebbrezza. I profumi più leggeri, più soavi si
ceri che aspetta e i desideri che prova». C’è da aggiungere che il lussuoso - e lussurioso - arredamento non si esaurisce nella preziosità degli oggetti e nella rarità delle opere d’arte. Si fa anche ricorso alle risorse della tecnica. E il Settecento vi attingeva copiosamente. Ricordiamo che il secolo è quello di un «meccanico di genio» come Jacques de Vaucanson, inventore del primo telaio automatico e abilissimo costruttore di auto-
Da sinistra in senso orario: un’illustrazione per “Les liasons dangereuses”, “Gabrielle aux Bijoux” di Renoir, particolare di “Allegoria con Venere e Cupido” di Bronzino, un angolo del boudoir di Maria Antonietta. In basso: il boudoir visto da Magritte e il Marchese de Sade secondo Man Ray
assistere, senza esser visti, alle più spericolate esibizioni amatorie. Ne dà testimonianza, in Histoire de ma vie anche un impenitente libertino come Giacomo Casanova. L’intraprendente veneziano, dopo gli amplessi gioiosamente consumati a Murano con una affascinante religiosa, apprende che la loro scena d’amore è stata seguita dall’amante titolare, ambasciatore di Francia e abate de Bernis. Grazie, per l’ap-
Bianco e azzurro i colori consigliati. Ma ci sono anche il rosso sangue e il nero della morte dell’anima, quando l’ebbrezza precipita nel disumano. Come raccontano “Les liasons dangereuses” e de Sade spandono da ogni parte. Gli occhi rapiti si arrestano su canestri di fiori che degli amorini sorreggono sulla testa: questi gruppi, riflessi negli specchi di cui sono ricoperti soffitto e pareti, riproducono in cento modi questo quadro delizioso, e portano alla fantasia l’immagine abbellita della primavera».
Tutto ispira e seduce: la luminosità diffusa e soffusa, i mobili, gli oggetti. L’amante di Zulmé non può non abbandonarsi alle suggestioni del luogo: «Da qualsiasi lato rivolga la vista, tutto gli parla del dio di cui è colmo, tutto gli illustra i pia-
mi, tra cui un flautista dotato di labbra e dita mobili, nonché di una lingua meccanica che serviva da valvola di sfogo per il flusso dell’aria. Naturalmente il flautista sapeva eseguire brani musicali. Meraviglie della macchina, abbondantemente illustrate nelle tavole dell’Encyclopedie. E portenti che non potevano mancare nel boudoir. Sia per accrescerne la segretezza con marchingegni di ogni tipo, sia per infrangere questa stessa segretezza con altre risorse artificiali a maggior gloria dei voyeur (spesso mariti «cornuti e contenti» oppure afflitti da calo di desiderio) che potevano
punto, a un nascondiglio ingegnosamente architettato.
Ma architetture del boudoir sono anche i raffinati, cinici e perfidi meccanismi seduttivi (e distruttivi) messi in opera, con deliberato zelo, dal visconte di Valmont e dalla marchesa di Merteuil, al fine dichiarato di profanare l’innocenza di una vergine, e mirabilmente descritti nel romanzo Les liasons dangereuses di Pierre-François Choderlos de Laclos. Dove il giudizio morale non chiede di essere esplicitato: basta il nitore cristallino della prosa a dare evidenza a un male partorito
dall’intelligenza senza coscienza e da un gioco in cui tutto e tutti costituiscono la posta. Bianco e azzurro i colori del boudoir come voleva Le Camus des Mézières? Sì, ma ci sono anche il rosso sangue e il nero-morte dell’anima. Nella gioia di vivere c’è il rischio dell’ebbrezza illimitata che sfida la vita, nostra e degli altri; e non di rado capita che la tensione verso il sovrumano (non si vorrebbe forse che il boudoir fosse un Olimpo, con tanto di dèi e dee che si rincorrono, si prendono e si lasciano, così come insegna la Favola?) precipiti nel disumano. A raccontarcelo, ma non per deprecarlo, anzi col compiacimento dell’edonista perverso e del dichiarato ateo immoralista, è Donatien-AlphonseFrançois de Sade in La philosophie dans le boudoir (1795). La «dinamica dell’eccesso» è l’insegna di una storia che trasforma l’elegante scenario del boudoir in luogo deputato a ogni sorta di violenza delittuosa. Ma paradossalmente nell’eccesso sta il difetto. Che è poi l’assenza di vita o, se si preferisce, il progressivo esaurirsi della vitalità nell’artificio di una esistenza sempre più intellettualistica, di un desiderio sempre più programmato. Ne deriva un corto circuito folgorante, ma perché brucia, non perché illumina.
Narrativa
MobyDICK
pagina 18 • 9 aprile 2011
libri
Antonin Varenne SEZIONE SUICIDI Einaudi, 277 pagine, 18,00 euro
o diciamo a bassa voce, forse per scaramanzia (solo letteraria, ovviamente): c’è oggi chi può prendere in mano l’eredità di Georges Simenon, padre del genere poliziesco europeo. Si chiama Antonin Varenne. È francese. Nel suo Paese ha già vinto importanti premi letterari e si è imposto brillantemente al pubblico e alla critica. La Einaudi ha appena mandato in libreria uno dei suoi tre romanzi (Fakirs in lingua originale, tradotto in Sezione suicidi), avvertendo nel risvolto di copertina che siamo dinanzi all’«astro nascente del noir francese». Nessuna retorica di marketing, basta leggerlo con attenzione sia pur criticando quei (pochi) passi in cui l’autore pone in vista, narcisisticamente, il suo funambolismo linguistico, col rischio di scivolare in non essenziali (tuttavia eleganti) vanità letterarie. In questo libro non c’è la consueta netta separazione tra chi indaga e chi è indagato. Il motivo è semplice: sotto la torcia dell’indagine non c’è un solo soggetto o alcuni soggetti, ma l’uomo in tutta la sua complessità e ambiguità. Quindi siamo lontani dalla caccia all’uomo, in stile western metropolitano (la vicenda è ambientata a Parigi), semmai ci troviamo all’interno della caccia alla colpa che, è facile intuirlo, attraversa l’intera umanità senza badare a reati e tipo di comportamenti. Cominciamo con il protagonista, il tenente della polizia giudiziaria Richard Guérin. Molto originale, al limite del patologico. Non di alta statura, mingherlino avvolto da un impermeabile giallo, figlio di una prostituta, vive in una casa disordinata assieme a Churchill, un pappagallo permaloso ed egocentrico versato al turpiloquio e all’aggressione col becco sul cranio graffiatissimo del padrone. Guérin, tormentato ma attivissimo, lavora al 36 di Quai des Orfevres, mitica sede della polizia, la stessa dove pensava, e beveva birra, il commissario Maigret. Stanze lugubri, ben adatte al nome: Sezione suicidi. Il tenente e i suoi collaboratori hanno il compito di arginare, quando si può, i tentativi di suicidio, ma anche quello di trovare le ragioni di un atto così misterioso. Col dubbio, disseminato in ben 48 faldoni, che di suicidi non si tratti sempre. Ragionamenti sul togliersi la vita non mancano nel testo, che però non ne risulta ap-
L
e la sua squadra, logorata dalla «sindrome dell’abitudine» e dalle frustrazioni d’un mestiere che sporca l’anima, hanno molto lavoro. Parallela fino a circa metà del romanzo è la storia di John e Alan, due americani trapiantati in Francia. Il primo è uno psicologo che si è trasformato in un solitario cacciatore nei boschi, il secondo è un fachiro (di qui il titolo originale del libro) che morirà dissanguato durante un’esibizione estrema davanti a un pubblico variegato, composto anche da «borghesi perversi» e pure da funzionari dell’ambasciata americana. Suicidio, incidente o delitto? Guérin e John alla fine sono destinati a incontrarsi. L’atletico americano racconterà i traumi della guerra in Iraq che stanno alle spalle dei reduci yankees, l’ideologia delle torture praticate dai cow-boys in divisa, la deriva a causa della droga, i segreti imbarazzanti che riguardano l’apparato politico-militare degli States. Se, come scrive l’autore, «i morti non hanno più modo di giustificarsi», c’è pur sempre qualcuno che anela alla verità. Non mancano le molle emotive. Sia il tenente sia l’ex psicologo cacciatore hanno perso due amici. Guérin si trova davanti al cadavere di Savane, suo collaboratore che s’è tolto la vita: «…in ginocchio, meditava sulla morte inutile di un poliziotto, consumato fino al midollo da un mestiere senza futuro, e sulla morte di un uomo buono, trasformato in mostro da una vita che non aveva avuto tempo di capire». John s’addentra pericolosamente nel labirinto di mezze verità e menzogne per arrivare agli ultimi istanti dell’amico che torturava se stesso mostrandosi come fachiro. Entrambi sono alla ricerca di legami, anche di natura invisibile e filosofica. I cosiddetti «rapporti di somiglianza», disseminati ovunque l’occhio attento vada a posarsi, inquietano l’uno e l’altro. Dietro a tanto sangue c’è «un mondo di uomini che sta maldestramente in piedi su un tappeto di chiodi, correndo e sfuggendosi a vicenda».
Forse Simenon ha un erede
Riviste
Si chiama Antonin Varenne e in patria viene acclamato come “l’astro nascente del noir francese”. Uno dei suoi tre romanzi esce ora in Italia di Pier Mario Fasanotti pesantito. Guérin sa bene che il crollo esistenziale ha valenza diversa a seconda che siano donne o uomini a compiere il gesto fatale: «…nelle donne è più raro ma più duro… forse perché sopportano più cose prima di decidersi a farla finita», mentre «gli uomini abbandonano la speranza con più facilità, una volta perso l’orgoglio per un lavoro o un matrimonio… si suicidano soprattutto in nome di un’idea di se stessi». Il tenente
Se la Storia è catturata in un nastro elettronico ompere gli antichi steccati fra i saperi e offrire una riflessione interdisciplinare sul ruolo e le conseguenze dell’innovazione scientifica e tecnica, ecco la ragione sociale e l’obiettivo della rivista trimestrale Nuova Civiltà delle macchine diretta da Guido Paglia e Massimo De Angelis nella convinzione che debba essere stabilito un nuovo rapporto tra scienza e umanesimo e che debbano essere superate le antiche barriere tra le «due culture». E così nell’ultimo numero di Nuova civiltà delle macchine troviamo affiancati il saggio diVito Cagli sulla medicina degli italiani nei 150 anni di unità - dalla corsa al Nobel alle difficoltà in cui versa la ricerca oggi - e l’intervento di De Angelis su Media e storia che apre la sezione scenario dedicata al rapporto tra mezzi di comunicazione e prospettiva della lunga durata. Il tema del rapporto tra la storia e i nuovi mezzi e tecnologie comunicative non riguarda solo la divulgazione ma anche le fonti della ricerca e della produzione storiografica. Inevitabilmente quella enorme e nuova mole di documentazione che teche radiotelevisive, archivi digitali e rete mettono a disposizione, influenza e sempre più influenzerà il mestiere di storico, chiamato a misurarsi con nuove forme di documento e con le interconnesioni, le logiche e i
R
di Riccardo Paradisi problemi ermeneutici dei nuovi linguaggi e della comunicazione massmediale. Eppure, dice giustamente De Angelis, le immagini cambiano anche la percezione della storia: «i filmati, per esempio, hanno fissato e diffuso in modo straordinario la tragicità dei crimini perpetrati dal nazismo. All’opposto, si può sostenere, che altri tremendi stermini, quello dei kulaki, degli armeni o quelli perpetrati nella Cina maoista o ancora in Cambogia, si sono fissati in misura assai minore nell’opinione pubblica mondiale a causa della mancanza di immagini, documenti e filmati». Ma coi nuovi mezzi telematici di comunicazione cambia, alla fine, anche il mestiere dello storico con mail, sms, chiavette e la nozione di documento ed è destinata a crescere la contraddizione tra memoria storica e proprietà delle fonti. Non solo: la mediatizzazione della storia sostiene Marc Ferro in un dialogo con Marco Dolcetta rischia, dando priorità agli scoop, di revocare una disinformazione generalizzata. Però se è vero che ci sono delle incognite sulle conseguenze del rapporto sempre più stretto tra storia e comunicazione di massa non è il caso di essere apocalittici. Il bilancio del-
Memoria e informazione nell’ultimo numero di “Nuova civiltà delle macchine”
la divulgazione storica attraverso la televisione - dice infatti lo storico Giovanni Sabbatucci - offre risultati senz’altro confortanti. È peraltro chiaro che a essa non si può chiedere quanto è lecito attendersi da scuola e università: «Il fatto è che alla televisione e agli altri mezzi di comunicazione di massa non dobbiamo chiedere più di quanto non siano in grado di darci. Il compito di provvedere all’alfabetizzazione di massa in materia di storia spetta ovviamente alla scuola primaria e secondaria, che negli ultimi anni ha troppo spesso abdicato a questo ruolo, vuoi per ristrettezze di tempo vuoi per il ricorso a discutibili pratiche pedagogiche». Resta indeterminato se la televisione possa essere una vera e propria fonte per la storiografia. È un tema su cui riflette Barbara Scaramucci: il catalogo multimediale della Rai è il primo modello europeo di utilizzazione degli archivi televisivi a disposizione del mondo culturale e dell’informazione. Quello che è sicuro è che film e fiction hanno espugnato la storia, come scrive Italo Moscati e il cinema «ha reso la storia impressionante». Presto le storie di Hollywood hanno cominciato a sovrapporsi alla storia reale. «La conclusione è sotto gli occhi di tutti. Ai giorni nostri i massmedia, i film e le fiction non accolgono soltanto la pelle della storia: la storia intera sembra cadere, rivivere, esaurirsi nella pellicola o in un nastro elettronico o nella memoria di un computer».
MobyDICK
poesia
9 aprile 2011 • pagina 19
Quelle parole scagliate da Rebora di Francesco Napoli e si può indicare per il Novecento poetico italiano il momento di massima entropia, bene forse è da evidenziare il decennio 1910-1920. Articolato e fertile come pochi, in quel lasso di anni si rintracciano contemporaneamente forti residui del magistero di Pascoli e D’Annunzio con lo straordinario fervore di autori impegnati nella ricerca di nuovi moduli tematico-formali per la poesia. Se è possibile azzardare un paragone, si può parlare di avvisaglie di un sommovimento tellurico che sfocia con viva forza nel secondo decennio del XX secolo caratterizzato da nuovissimi poeti, i veri iniziatori del Novecento: Montale, Ungaretti e Saba e poi via via i protagonisti dell’ermetismo, i fiorentini Luzi e Betocchi e i meridionali Gatto e Quasimodo. Nel contesto dei primi anni del Novecento agiscono molte spinte, dal crepuscolarismo al futurismo all’azione un po’ solitaria ma di grande fascinazione di Campana fino alla generazione vociana, generazione tormentata e inquieta, assillata da interrogativi pressanti, ribelle e innovatrice nel tentativo di creare nuovi linguaggi e stili quanto cosciente di una lacerazione epocale che esortava a una nuova moralità dell’atto poetico. Questi poeti, «maestri in ombra» secondo una felice definizione critica di Pier Paolo Pasolini, da Giovanni Boine a Carlo Michelstaedter, da Piero Jahier a Camillo Sbarbaro, hanno regalato alla nostra storia letteraria un lascito in parte ancora da mettere in luce. E tra questi Clemente Rebora (Milano 1885 - Stresa 1957) occupa sicuramente una posizione di spicco.
S
Il poeta lombardo si legò a Banfi e Monteverdi con i quali condivise la scelta universitaria laureandosi nella capitale meneghina su Giandomenico Romagnosi. Dal 1910, con un saggio su Leopardi, iniziò un’intensa attività letteraria avviando una proficua collaborazione alla Voce e vivendo quegli anni in un continuo tormento, non esclusivamente letterario. Partì per la prima guerra mondiale dopo aver pubblicato nel 1913, proprio per le edizioni della «Voce», i suoi Frammenti lirici. L’esperienza bellica che tanto incise su Ungaretti ebbe anche su Rebora un effetto quasi devastante. Nel 1922 pubblicò i Canti anonimi poco prima di dare una svolta al suo lungo travaglio spirituale entrando come novizio dai padri rosminiani nel 1931 e prendendo gli ordini sacerdotali cinque anni dopo. Nel primo
il club di calliope
periodo del suo sacerdozio Clemente Rebora arrivò a ripudiare la precedente attività poetica acconsentendo solo nel 1947 alla pubblicazione del suo lavoro per le cure del fratello Piero che in un’edizione successiva mise insieme anche quei Canti dell’infermità apparsi un anno prima della fine.
Se Boine pubblica i Frantumi, i Frammenti di Rebora solo apparentemente si mostrano vicini al gusto tutto vociano dell’impossibilità della compiutezza. La raccolta reboriana risulta invece molto compatta, con una organicità che confina con una studiata struttura poematica. Di frammentarietà si può parlare solo per il singolo componimento che sembra trapassare al successivo per un eccesso di affabulazione. La maggior parte dei testi si basa su una forte polimetria dove però continuano a dominare i classici endecasillabo e settenario pur con espansioni ritmiche su lunghezze quali dodici, otto o dieci sillabe. Sul piano linguistico i debiti del Novecento verso Rebora, forse l’espressione lirica più alta del vocianesimo, non son pochi. La parola assume per il poeta milanese una «carica di violenza deformante con cui egli aggredisce il linguaggio, lo sollecita a farsi azione e quasi lo scaglia contro la realtà» (Mengaldo) in un continuo e progressivo ingorgo tra tensione colta, non disdegnati arcaismi e una quotidianità di stampo espressionista. Tensione vibrante che si esprime con particolare efficacia in alcune scelte verbali quali intransitivi usati al transitivo o impieghi come «s’impasta e s’imbotta», di ascendenza dantesca, tutte adozioni che rifluiranno nella formazione della grammatica ermetica. Invece, in comune con gli altri vociani, anche Clemente Rebora mostra lo stesso rifiuto del positivismo; un marcato ripiegamento sull’io, evidente segno di un’avvertita sconfitta e di una crisi del soggetto; l’adozione di una parola per lo più scelta sulla base di una forza «evocatrice» della stessa intessuta tra eredità aulica e bassa quotidianità del linguaggio. Se la vita umana, priva di senso, si ridu-
Dall’intensa nuvolaglia Giù - brunita la corazza Con guizzi di lucido giallo, Con suono che scoppia e si scaglia Piomba il turbine e scorrazza Sul vento proteso a cavallo Campi e ville, e dà battaglia; Ma quand’urta una città Si scàrdina in ogni maglia, S’inombra come un’occhiaia, E guizzi e suono e vento Tramuta in ansietà D’affollate faccende in tormento: E senza combattere ammazza. Clemente Rebora (Da Frammenti lirici, III)
ce per un compagno ideale quale Sbarbaro all’«inseguire farfalle» ed è proprio la poesia vociana a cogliere ben prima dell’esistenzialismo la tragicità della situazione, Rebora allora scrive: «Vorrei così che l’anima spaziasse/ Dall’urto incatenato del cimento./ Se l’uom tra bara e culla/ Si perpetua, e le sue croci/ Son legno di un tronco immortale/ E le sue tende frale germoglio/ D’inesausto rigoglio,/ Questo è cieco destin che si trastulla?» (Frammenti lirici,V).
Altro tema centrale della riflessione reboriana è la città moderna, talvolta dialetticamente opposta alla campagna, una modalità che attrasse sicuramente Pasolini, non riprodotta nelle rumorose esteriorità a lui pressoché coetanee del futurismo, città che di volta in volta nei Frammenti tende a essere identificata con un registro ostile fino a punte di tensione polemica, divenendo via via «vorace», «rombante», «ansiosa», «irosa», «lasciva» e «senza amore». È in definitiva quella città in ascesa, titolo di un quadro di Umberto Boccioni, che rappresenta l’Italia nella sua trasformazione moderna dove «scienza vince natura» e tutto si sta mutando «in ansietà/ D’affollate faccende in tormento».
IL QUOTIDIANO ATTRAVERSO IL TELESCOPIO DI VILLALTA in libreria
Le ali nella morsa dello specchio dei tempi i tempi stretti tra fuoco e contraffoco dietro qualche parvenza di presente nella corsa all’immortalità dell’estinzione.
Ottavio Fatica (Da Le omissioni, Einaudi)
di Loretto Rafanelli
opo i due eccellenti romanzi mondadoriani, Gian Mario Villalta, giunge nella prestigiosa Collana de Lo Specchio con il nuovo libro Vanità della mente (160 pagine, 14,00 euro). Villalta è uno dei più importanti poeti della sesta generazione e questa uscita ne conferma il valore. Nelle varie, composite, sezioni, l’autore percorre i vari passaggi della sua esistenza, dai giorni nei campi accanto ai genitori a oggi, e tutto ciò non è un viaggio ma forse solo un fendente che penetra e stordisce, per l’alternativa semplice che invoca («Si diceva che una festa era stare così,/ con le braccia vicine, tutto il mangiare nei piatti,/ il buio degli alberi, l’estate piena dei suoi rumori»). La sua è una mappa di
D
persone, animali, piante, cose, colori, voci che quasi definisce un altro mondo, liberato dai noti connotati di volgarità. Egli volge lo sguardo, osservatore-scrutatore, su ciò che è lontanissimo o perduto, usando la poesia come un telescopio, che può riportare e rendere presente tutto.Villalta è un poeta dai toni pacati, nella dimensione di un linguaggio ricco, sicuro, articolato; che ama rimanere nel timbro quotidiano, quasi dimesso, ma che volge di frequente in vive profonde emozioni, in silenzi lancinanti, in luci mozzate («Anche la luce sui polsi è calma e dura») e fulminei bagliori che affascinano: «Sul margine/ dell’inverno, il cielo si è intanato nella sua notte/ e scaraventa uno sprofondo d’acqua».
pagina 20 • 9 aprile 2011
di Enrica Rosso i sono spettacoli, piccole perle di raffinatezza, gocce di luce in un mare di spazzatura, che non si esauriscono in una sola stagione. Non sono spettacoli da grandi numeri, allestiti in luoghi particolari, intimi, ma spesso la forza della messa in scena parte proprio da qui - mi viene in mente al proposito Il caffè del signor Proust di Salveti con un superlativo Angelillo, replicato per anni in una sala minima. In questo caso già il Teatro, Stanze Segrete, fondato da Aurora Cafagna nel ’92, è una realtà preziosa: un salotto chiaro, circondato da specchi, un’isola per spettatori dal palato fino con uno spiccato gusto per la letteratura. Ritratto di Sartre da giovane di Maricla Boggio ha di fatto debuttato l’anno scorso, ma chi l’ha perso ha oggi un’altra occasione. Ennio Coltorti, attuale direttore artistico dello spazio, firma una regia in cui i diversi piani di realtà si incontrano, quando addirittura non si sovrappongono. A volte sono i personaggi dei romanzi a prendere vita, in un caleidoscopio di situazioni, quasi si trattasse di piccoli set, regalando grande dinamicità e godibilità a un testo di per sé più votato, per qualità intrinseca del materiale, a una riflessiva staticità. La selezione musicale per opera di Lucianella Cafagna e Nicla Loiudice inanella canzoni memorabili eseguite da grandi interpreti: ed è subito Francia. «C’est lui pour moi, moi pour lui dans la vie/ il me l’a dit, l’a juré pour la vie/ et dès que je l’aperçois/ alors je sens en moi mon cœur qui bat… ». È la magia di La vie en rose che incastona il resoconto di due esistenze eccezionali saldate in un unico abbraccio: Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir. Due amanti eccellenti, due anime libere che hanno illuminato un’epoca con la forza del loro pensiero. Sfidando ogni regola hanno attraversato un periodo storico che ha visto nascere il nazismo, la guerra civile spagnola, la seconda guerra mondiale. Lui, filosofo, scrittore, drammaturgo e critico letterario (nel ’26 fu insignito del Premio Nobel per la Letteratura che lui rifiutò) fu uno dei massimi espo-
C
Televisione
Teatro
MobyDICK
spettacoli DVD
La vie en rose
di Jean-Paul e Simone
IN PRIMA FILA PER TINTORETTO arlo Ridolfi riferì che sul muro del suo studio era affissa la sintesi autografa del suo programma artistico: «Il disegno di Michel Angelo e il colorito di Titiano». Certo è che Tintoretto deve la sua fama alla straordinaria capacità sincretistica, capace di coniugare il cromatismo della scuola veneziana con l’icasticità del disegno toscano. E all’instancabile artista della Laguna, che dedicò alla pittura oltre mezzo secolo fino alla soglia del Seicento, è dedicato Tintoretto - Il secolo d’oro di Venezia. Spettacolo per gli occhi, documentario di valida impronta didattica edito da Cinehollywood.
C
PERSONAGGI
TRIBUTO AL GIAPPONE DI GALLAGHER E SOCI nenti dell’esistenzialismo; marxista, rifiutò il concetto freudiano d’inconscio. Lei, scrittrice, filosofa, teorizzò e mise in pratica l’idea di un femminile autonomo all’epoca impensabile. Di famiglia altoborghese, ma con seri problemi economici, intellettuale pura, così si descriveva: «...ho praticato tutti i vizi, la mia vita è un continuo carnevale». Si incontrarono a Parigi, all’Ecole Normale Supérieure, era il 1929. Entrambi radicalmente atei: «Ho sempre pensato che oltre la morte non ci fosse nulla a parte la fama», «Siamo come una stanza con una finestra che si affaccia sul mondo esterno… e sta a noi, e solo a noi, decidere di aprirla». Oltre al pensiero politico e filosofico li univa l’amore per l’arte, il cinema, il
jazz. Impossibile disgiungerli: (anche se la stessa Simone, sopravvissuta a Sartre di cinque anni scrisse: «La sua morte ci separa. La mia morte non ci unirà. È così, è già bello che le nostre vite abbiano potuto accordarsi per un così lungo tempo»). Oggi, comunque, le loro spoglie riposano protette da un’unica lapide nel cimitero di Montparnasse di Parigi. Insieme a Coltorti che ci restituisce un Sartre vivacissimo, con l’inseparabile pipa in bocca, l’elegante presenza di Gianna Paola Scaffidi, una Simone De Beauvoir luminosa e compatta e di Glenda Canino.
Ritratto di Sartre da giovane, Teatro Stanze Segrete di Roma fino al 17 aprile - Info: tel. 06 6872690 www.stanzesegrete.it
a parte della migliore tradizione rock, l’impegno civile. E i Beady Eye, un po’ perché fa cool e un po’ per animo caritatevole, non fanno eccezione. Liam Gallagher e soci hanno fatto un blitz nei Rak Studios di Londra e ne sono usciti con una cover dei Beatles, Across the universe, i cui proventi saranno devoluti al Giappone. L’iniziativa è naturale conseguenza della partecipazione degli ex Oasis al Japan Disaster Benefit, evento organizzato un paio di settimane fa alla Brixton Academy che ha visto protagonisti, tra gli altri, Paul Weller e Primal Scream.
F
di Francesco Lo Dico
Stevenson, Brodie e la vera storia di Mr. Hyde
el 1886 viene pubblicato il primo grande libro horror della storia. Il più diverso, che influenzerà tutti quelli che verranno dopo. È Lo strano caso del dottor Jekyll e di Mister Hyde, di Robert Louis Stevenson. L’autore, scozzese, trascorse un’infanzia piena di incubi: era malato ai polmoni, assumeva una medicina dietro l’altra e la sua infermiera, che praticamente lo allevò, gli raccontava storie orripilanti. Tra queste c’era anche quella di un certo William Brodie, erede di una fortuna, fabbro ed ebanista, che nella seconda metà del Settecento, a Edimburgo, conduceva una doppia vita: stimatissimo di giorno, era dedito al gioco d’azzardo, all’alcol e alla prostituzione di notte. Brodie era piccolo di statura, piuttosto sgraziato, qualcuno sorrideva della sua «aria da pollo». Era probabilmente lo zimbello dei suoi amici. Con l’oscurità
N
usciva dalla porta laterale della sua abitazione (proprio come Hyde del romanzo di Stevenson) e frequentava combattimenti di galli e lupanari. S’infilava nel volto oscuro di Edimburgo, a struttura medievale. History Channel ci ha rac-
contato la fonte vera di un grande romanzo. E l’ossessione dello scrittore per uno psicopatico del quale conosceva il nome in quanto impresso nel comodino
della sua camera. Il resto lo fece la tata Allison, devota calvinista, tra preghiere e racconti da brivido. Stevenson si iscrive all’università, ma nello stesso tempo è attratto dalla metà oscura della sua città. Fa come Brodie. Fino al ritorno violento della malattia respiratoria. A 30 anni sposa Fanny, divorziata americana più vecchia di nove anni. A poco a poco raggiunge il successo come scrittore per ragazzi (ricordiamo L’isola del tesoro). Ma l’incubo-Brodie esce dalle sue parti più recondite, si fa sogno ricorrente e si presenta come personaggio di romanzo. Stevenson diventa famoso e ricco, centrando un tema vicino a tutti noi: la doppiezza, la lotta tra bene e male. Brodie, nella mente del narratore, ha una forza straordinaria cui non può sottrarsi. Stevenson in un certo senso diventa Brodie-Hyde: non nelle sue notti ma nelle sue pagine. Del resto la storia del malfattore di Edimburgo era leggen-
da. Non soddisfatto della vita schizoide, cominciò a compiere furti, forte della sua abilità a riprodurre chiavi. Nessuno poteva dubitare di lui. Ladro? Incredibile: aveva soldi ed era circondato dal rispetto dei suoi pari. La sua ipersessualità, fonte di disturbi nervosi, si scatenava con donne prezzolate. Stevenson negli anni scapestrati si vestiva come Brodie, limitandosi però all’oppio, al tabacco e ai bordelli. Il segreto lo infastidiva. Tanto è vero che ruppe con la famiglia di stampo fortemente vittoriano denunciando il suo odio per l’ipocrisia sociale e la religione. Se mister Hyde muore sopraffatto dalla droga del male, Brodie, dopo un periodo vissuto come capobanda, fu condannato all’impiccagione. Corruppe il boia, si fece aiutare da un medico per evitare il colpo fatale del cappio. Alcuni lo videro cadavere. Ma molti anni dopo si scoprì che la sua tomba era vuota. Stevenson, ritiratosi alle Samoa, morì a 44 anni, per un colpo apoplettico. Troppe medicine (compresi oppio e lauda(p.m.f.) no). Fin da bambino.
Cinema
MobyDICK
9 aprile 2011 • pagina 21
di Anselma Dell’Olio
i sono dei buoni film da vedere subito, di vario genere e per tutti i gusti. C’è chi dice no è un film italiano innovativo nel tema e divertente. Irma (Paola Cortellesi, che merita film tutti suoi, come Tina Fey e Sandra Bullock) è un medico di qualità che dopo anni di sopravvivenza con borse di studio, vede un sudato contratto in arrivo. Samuele (Paolo Ruffini) è un asso del diritto penale; dopo anni di servizio come assistente e ghost-writer (negro è la parola scorretta) di un barone universitario, è sul punto di vincere, per merito, un concorso per un contratto da ricercatore. Max (Luca Argentero) è un bravo giornalista che scrive da anni su un quotidiano locale, costretto a bislacche collaborazioni per campare. Finalmente si libera un posto tutto per lui. I tre ex compagni di scuola si vedono soffiare i rispettivi posti da tre raccomandati dalla posizione sociale d’acciaio: la fidanzata del primario, il genero nullafacente del barone e una figlia di papà. I tre amici decidono di passare dal mugugno alla vendetta, improvvisandosi «pirati del merito» contro il malcostume, con spedizioni punitive e manifesti ai giornali: la città trema. Il finale è spiritoso e veristico, com’è giusto che sia. Con questo film, più Nessuno mi può giudicare, una riuscitissima commedia antimoralista, e I figli delle stelle, prima opera italiana a sfottere la demagogia rivoluzionaria eversiva, il cinema italiano inizia a dare segni di una nuova primavera. Speriamo in abbondanti rose.
C
Vale sempre la pena di vedere un film di Noah Baumbach, autore e collaboratore di Wes Andersen (The Fantastic Mr. Fox, La vita acquatica di Steve Zissou). Greenberg non fa eccezione. La sua specialità sono protagonisti irresistibili nella loro antipatia: Nicole Kidman in Margot at the Wedding, i genitori scrittori in Il calamaro e la balena, nominato all’Oscar per la sceneggiatura. Ben Stiller è così calato nel ruolo di Greenberg, che rischia di convincerci che sia un autoritratto. È un ex musicista che ha mollato il suo gruppo alla vigilia del successo, per trasferirsi a New York a fare il falegname. Quindici anni dopo il drop out torna a Los Angeles a presidiare la bella villa del fratello riuscito Phillip (Chris Messina) che parte in vacanza. Greenberg, reduce da un soggiorno in clinica psichiatrica, passa il tempo costruendo un canile e portando a spasso il cane di casa. Florence Marr (Gerta Gerwig) è la giovane assistente del fratello che conosce i segreti della casa. Greenberg l’assicura che ce la fa da solo, ma continua a chiamarla lo stesso. Gerwig, arrivata a Hollywood dal cinema mumblecore ultra indipendente, è attrice sottile, aggraziata, originale; brilla per normalità, l’assenza di patina divistica. Florence, sensibile ma non fragile, è laureata e senza un lavoro confacente. Organizza la vita di una famiglia abbiente per vivere ma senza frignare sulla precarietà, sul futuro non assicurato; la sua è solo una vita ancora informe. Greenberg è crudele, mordace, odioso e curiosamente accattivante, un quarantenne in goffa cerca di se stesso, di un posto nel mondo. Si vorrebbe prenderlo a pedate; si finisce per sperare che evolva, diventi uomo. Un film insolito, interessante, il migliore della settimana. Da vedere. Janafar Panahi è uno dei più premiati e meno noiosi registi iraniani. E forse il più vessato dal regime degli ayatollah. Off-Side, del 2006, è uscito solo ieri da noi. Arriva a fagiolo per onorare un artista ammutolito
Janafar Panahi fa il tifo per le donne
Una delizia il film del regista iraniano, condannato a sei anni di carcere e interdetto per i prossimi 20 anni dal fare cinema. È la storia di 5 ragazze di Teheran arrestate per aver tentato di assistere a una partita di calcio. Ma “Greenberg” è la migliore uscita della settimana
da un rigido sistema repressivo, oppressivo e liberticida. È una delizia di film, su cinque ragazze arrestate separatamente perché cercano d’infilarsi alla partita che deciderà se l’Iran va ai mondiali di calcio. Sono accanite tifose, ma le leggi islamiste vietano la mescolanza di maschi e femmine, e lo sport appartiene ai primi. È un fenomeno non ignoto, quello di travestirsi per infiltrarsi alle partite in Iran. La figlia di Panahi, respinta all’ingresso quando il padre ha cercato di portarla allo stadio, è tornata camuffata da maschio e ha visto la partita vicino al papà: «Mi sono comportata da ragazzo!». È così che gli è venuta l’idea per una commedia. Le ragazze sono tutte vere studentesse di Teheran, più spavalde, più sicure di sé di quelle che vivono fuori dalla metropoli, come nota con stupore un soldato vicino al congedo che le sorveglia, ansioso di tornare alla sua terra e alle sue vacche. Le arrestate sono diverse tra loro, ma tifose, non contestatrici politiche. Sono appassionate di sport e infervorate dall’amor di patria. Vogliono che la squadra iraniana sconfigga quella del Bahrain, punto. Alcune hanno la bandiera nazionale dipinta sul viso, altre quelle di stoffa annodate intorno alle spalle come si usa in tutto il mondo. I soldati messi a piantonarle fuori dallo stadio non sono cattivi, solo impauriti. Se qualcuna riesce a fuggire finiscono nei guai. Devono tenerle d’occhio finché non saranno portate dai temuti guardiani del buon costume islamico, per essere arrestate, multate, frustate e/o mandate a casa.Vale la pena di ripescare i dvd dei film precedenti dell’autore. Il palloncino bianco (Orso d’argento a Berlino) segue una bimba decisa a non farsi sottrarre i soldi per un sognato pesciolino rosso. Il cerchio (Leone d’oro a Venezia, 2000) è eccellente. Con una struttura circolare, segue donne ansiose che girano per le strade di Teheran, in fuga dalla polizia, dalla violenza domestica, dalle diverse punizioni sempre in agguato, in un Paese che sanziona l’autonomia femminile. Non ha nulla del film impegnato, ma come Off-Side racconta storie struggenti, autentiche. Jafar Panahi è stato arrestato il dicembre scorso, dopo che gli è stato negato il permesso di partecipare alla Berlinale e tolto il passaporto. È condannato a sei anni di carcere, con il divieto di dirigere o produrre film per i prossimi vent’anni. Da vedere con i vostri ragazzi.
The Next Three Days è un buon thriller ben ritmato di Paul Haggis, autore di Crash e sceneggiatore di Million Dollar Baby, due film premiati dall’Oscar che hanno fatto tremare molti d’emozione; noi no. È molto più onesto questo giallo competente con Russell Crowe nel ruolo di John Brennan, docente di letteratura, bimbo di sei anni e una moglie, Lara (Elizabeth Banks) condannata all’ergastolo per l’omicidio del suo capo. Esauriti tutti i gradi di giudizio (le prove contro di lei sono schiaccianti) decide di farla evadere. Studia un piano minuzioso in ogni dettaglio: intervista un ex-detenuto scrittore, evaso molte volte (Liam Neeson) e segue alla lettera e anche di più i suoi consigli. Si viene a sapere che la donna entro tre giorni sarà trasferita in un penitenziario lontano e più impervio. L’orologio fa tic tac, c’è il bambino da badare e i nonni da ingannare, molte leggi da infrangere (documenti falsi, chiave passepartout, auto da scassinare, referti medici da contraffare e sostituire a quelli veri ben custoditi, procurarsi una montagna di denaro e preparare la fuga). A metà film sorge il dubbio sull’innocenza di Lara. E se fosse colpevole? Ma nulla ferma il consorte determinato: «Questa non sarà la tua vita» le promette. Da vedere.
Babeliopolis
MobyDICK
pagina 22 • 9 aprile 2011
n quante maniere si può esprimere quel genere letterario che oggi si definisce con parole inglesi e francesi in molti modi: horror, noir, dark, splatter, weird, e che in italiano suona - forse banalmente - «orrore»? Nel mondo dell’ormai realizzato «villaggio globale» di McLuhan, oltre ai libri, ai fumetti, al cinema e alla televisione, c’è anche la Rete, ma se vogliamo riferirci ai media più tradizionali, c’è la pubblicazione periodica che continua a vivere sotto forma di «supporto cartaceo» (ugh!) lasciando il «supporto elettronico» a maggiori future glorie. Negli Stati Uniti la rivista specializzata, cioè dedicata di volta in volta a un argomento particolare, nasce all’inizio del secolo scorso. Lì, fra gli anni Venti e Trenta si sono imposti i pulp magazines (le pubblicazioni stampate su carta povera e poco costosa, fatta di polpa di legno: quindi deperibile - sbriciolabile - a distanza di tempo) che hanno realizzato la diffusione e l’affermazione della narrativa «di genere»: dall’avventura al fantastico, dalla fantascienza all’orrore, dal poliziesco ai vai generi di sport, dall’Oriente ai pirati, dal sentimentale al western e così via. Tutti i gusti erano accontentati, ogni lettore trovava il mensile o il settimanale che soddisfaceva la propria voglia di «evasione», realistica o fantastica, violenta o di un piacere più tranquillo. I nomi classici delle testate che a noi più interessano sono ben noti: è sufficiente ricordare Amazing Stories e Astrounding Stories per la fantascienza, e Weird Tales per l’orrore.
I
Sono stati questi mensili a rendere noti e popolari la science fiction e l’horror. È stato dunque il racconto breve e non il romanzo lungo a far attecchire e poi consolidare l’interesse, spesso la passione, per la science fiction, la fantasy, il weird in tutte le sue sfumature: la storia breve si legge rapidamente, la si legge dappertutto, la si legge tutta d’un fiato, provando magari maggior soddisfazione immediata rispetto alla vicenda lunga, lunghissima, in alcuni casi pubblicata a puntate. Il racconto, peraltro, si può anche considerare come più difficile da scrivere, sotto alcuni aspetti, del romanzo: certo, questi comporta una architettura e uno sviluppo maggiormente complessi, il racconto nella sua compattezza obbliga l’autore a scrivere in un modo che alla fine sia del tutto soddisfacente per il lettore. Idea, trama, personaggi, conclusione.
ai confini della realtà stravagante e illogico, irrazionale e misterioso, arcano. Insomma un termine, un po’come il francese insolite, in cui si concentrano molte caratteristiche della storia fantastica e dell’orrore, di fantasmi e di vampiri, di licantropi e spettri, di magia ed esoterismo, ma anche di alieni ed entità non umane. Si capisce allora quanto fosse tipico un mensile dal titolo Weird Tales che apparve nel marzo 1923 e che, fra alti e bassi, uscì ininterrottamente per 279 numeri sino al settembre 1954.
Strano, bizzarro… anzi Weird di Gianfranco de Turris La storia breve in determinati casi può avere, sia per l’autore che per il lettore, anche una funzione propedeutica per approdare poi alla storia lunga. Eppure, le dinamiche interne dell’editoria italiana non hanno consentito che ciò avvenisse in Italia, soprattutto nella seconda metà del Novecento. Sicché se fino al 1940 sono stati pubblicati nel nostro Paese periodici sia specializzati (pochi, ma importanti) sia generalisti come oggi si dice, che hanno ospitato racconti anche fantastici, fantascientifici e orrorifici, così non è più avvenuto dal dopoguerra in poi, a parte rare ma significative eccezioni che, se si
sibili scelte editoriali. Eppure l’horror, così come la science fiction, hanno avuto il loro maggiore veicolo di trasmissione con la storia breve, come si è detto. Un paradosso quasi insolubile, che non ha una spiegazione razionale, nonostante che moltissimi dei capolavori del nostro genere letterario siano proprio dei racconti, e la maggior parte degli scrittori dell’orrore abbia dato il meglio di sé attraverso la narrativa breve. Ad esempio, i cosiddetti «tre moschettieri» di Weird Tales, H.P. Lovecraft, Robert E. Howard e Clark Ashton Smith furono soprattutto autori di splendidi racconti e la loro fama si basa su di
Esce l’edizione italiana del mitico pulp magazine che dette dignità letteraria al genere horror. Uscì negli Usa dal marzo 1923 al settembre del ’54. Vi pubblicarono i “tre moschettieri” Lovercraft, Howard e Smith. Un progetto impegnativo e coraggioso affidato alla cura di Luigi Boccia fossero protratte nel tempo, avrebbero forse potuto mutare il gusto dei lettori e ri-orientarlo verso il piacere consolidato della narrativa breve. I lettori invece, a partire dal 1952, si sono abituati soltanto alla narrativa lunga, ai romanzi, per precise anche se non del tutto compren-
essi e non sui pochi romanzi che pubblicarono in vita (HPL uno, REH uno, CAS nessuno). Già, Weird Tales… Weird è un aggettivo inglese che ha un significato nello stesso tempo vasto e circoscritto: significa infatti strano e bizzarro, ma anche sovrannaturale e magico,
Uno dei tanti pulp magazines dedicati alla narrativa di genere che caratterizzarono la letteratura popolare americana negli anni Venti e Trenta? Sì, ma anche qualcosa di più dato che sulle sue pagine esordirono e si affermarono i maggiori scrittori del settore, appunto Howard, Smith e Lovecraft. E quando si ricorda la mitica testata è soprattutto a loro che va il pensiero e al tipo di storie strane e bizzarre, allora poco classificabili, che vi pubblicarono: dalla heroic fantasy di Howard e il suo eroe Conan, agli universi barocchi e assurdi di Smith oscillanti fra un lontanissimo passato e un lontanissimo futuro, all’orrore comico di Lovecraft e dei suoi Grandi Antichi. Insomma, la rivista era il veicolo cartaceo, di una carta a basso costo, di una «filosofia» dell’orrore e del fantastico che avrebbe modificato la percezione di questi generi letterari d’allora in poi. Dopo il 1954 Weird Tales ebbe almeno quattro tentativi di resurrezione, sino all’ultimo nel 2007 che la trasformò esteriormente in un moderno bimestrale formato magazine con su le firme dei maggiori scrittori weird contemporanei. Ora, ed ecco il motivo per cui abbiamo insistito su questa testata, la casa editrice FunFactory Entertainment di Terni insieme ad altre riviste ha lanciato da qualche giorno in edicola e nelle fumetterie, oltre che su internet ovviamente, la prima edizione italiana proprio di Weird Tales, affidata alla cura di Luigi Boccia. Un progetto impegnativo e coraggioso. Si sa, infatti, come oggi non sia facile imporre una testata di questo genere, ipnotizzati come sono soprattutto i ragazzi dal video dei computer e come il leggere, quello vero, sia considerato un po’ una fatica. Weird Tales affronta questa sfida con un primo numero dalla copertina accattivante, lovecraftiana si potrebbe dire, cui non manca dell’autoironia. All’interno racconti di Tanith Lee (Cuore di ghiaccio), Michael Bishop (Fusa) e Michael Moorcock (Petali neri), oltre ad articoli ovviamente su Lovecraft, interviste a Lansdale e Gaiman, fumetti, recensioni e un dizionario degli 85 più importanti autori weird tenendo conto non solo della letteratura ma anche del cinema, del fumetto, della pittura. Considerando l’archivio che WT ha alle sue spalle non dovrebbe essere difficile per i curatori pescare nel «meglio» del tempo passato, affiancando agli autori moderni anche quelli classici che ne hanno creato la fama. E, perché no, riprendere qualcuna delle suggestive copertine retrò della straordinaria Margaret Brundage che diede un tocco di stile tutto suo all’horror pulp anni Trenta con copertine di un erotismo fuori del comune all’epoca. Senza dimenticare naturalmente le firme italiane, perché ce ne sono e ottime, i cui racconti si possono affiancare senza timore a quelli stranieri.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Solidarietà alla comunità immigrata della Costa d’Avorio LAICI E CATTOLICI: LE RAGIONI DI UN INCONTRO (II PARTE) Mazzini, a proposito della questione sociale, sosteneva che il governo deve fornire aiuti di varia natura e che la proprietà deve essere resa accessibile ai «molti»; ma per lui il problema sociale doveva essere risolto nel rispetto della proprietà privata: «senza spoliazioni, senza violenze» (Doveri dell’uomo). C’è, così in Mazzini come in Rosmini (il grande pensatore politico cattolico ancora non abbastanza conosciuto), il primato della persona libera e responsabile rispetto allo Stato: la libera associazione - libera, non forzosa o imposta dall’alto - è la prima forma di comunità, preceduta soltanto dalla famiglia. Eppure c’è un insegnamento che è in massima parte prerogativa del versante laico. Anch’esso può essere condiviso da chi “laico” non è. Si tratta del pluralismo. Consiste nell’ammettere che la verità può essere cercata seguendo strade differenti e che ciascuno di noi conserva il diritto all’errore. È precisamente questa la migliore eredità del laicismo; non è la difesa dello Stato aconfessionale (anche perché nessuno ormai vuole, o può, riproporre una qualche forma di Stato teocratico). Luigi Einaudi, assai prima di Karl Popper, affermava che ciò che distingue i sistemi liberi dalle dittature è il metodo dei tentativi ed errori: trial and error... era il 1922. Anche il Nuovo Polo deve mantenere al proprio interno la diversità. È questa la possibilità di compiere in maniera differente i propri, umani e fallibili, tentativi di giungere al vero. Non questo è un elemento accidentale, ma è un tratto costitutivo di un partito nuovo che non vuole restare ancorato alle vecchie e superate forme del Novecento. Sono differenze che portano, non allo scontro (né tanto meno al “furore ideologico” di altri tempi), ma alla condivisione e all’impegno comune. I diversi orientamenti consentiranno di mettere a fuoco meglio i valori di fondo. Essi sono, in primo luogo, (giova ancora una volta ricordarlo) quelli della persona, della libertà, della responsabilità, e si candidano ad essere – me lo auguro vivamente – il nuovo orizzonte per l’Italia di domani. Luigi Neri C I R C O L O LI B E R A L FA E N Z A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Vorrei esprimere la mia più profonda e sentita solidarietà e vicinanza alla comunità ivoriana immigrata qui residente. In queste dolorose ore di guerra nella loro patria di origine, la Costa d’Avorio, l’unica speranza, ancora una volta, per il povero, è Dio. In nessun altro c’è speranza. Non voglio entrare nelle dinamiche politiche e nelle motivazioni delle varie fazioni in lotta. In questi tristi momenti giunge in tutto il mondo il grido di dolore delle popolazioni civili, vere vittime di ogni guerra. Certamente si rileva la solita latitanza delle Nazioni Unite e la crescente avidità neocoloniale dei Paesi dell’opulento e mai sazio Occidente. E siamo nel 2011! Un appello alle pubbliche istituzioni e in special modo ai parlamentari e ai governanti perché si attivino affinché la nostra politica estera diventi finalmente protagonista sullo scenario mondiale per una fattiva opera di pace e di riconciliazione.
Glauco Santi
TUTELA DELL’AMBIENTE E RESPONSABILITÀ PERSONALE
CRISI, TEMPO DI PASSAGGIO
Ho appreso che il comune di Lecce, con l’approssimarsi delle vacanze pasquali e per tutto il periodo estivo, ha emesso un’ordinanza che sostanzialmente vieta l’uso dei boschi e delle pinete. Scopo del provvedimento sarebbe quello di ridurre il rischio di danni al patrimonio ambientale, spesso oggetto di danneggiamenti da parte di vandali ed incivili. Se l’intento è indubbiamente apprezzabile, il mezzo per realizzarlo è eccessivamente restrittivo. È comprensibile vietare l’accensione di barbecue così come il divieto di parcheggiare auto, ma impedire genericamente qualsiasi attività che possa creare danno ai boschi e alle pinete è cosa obiettivamente troppo generica. Giocare a pallone sarà da considerasi attività vietata? Un pic-nic è potenzialmente pericoloso per la pulizia del bosco, visto che i rifiuti potrebbero essere gettati per terra? Una discrezionalità fin troppo ampia che rischia di generare incertezza ed ingiustizie, lasciando il cittadino in balia della pignoleria del pubblico ufficiale di turno. Il pericolo concreto a questo punto è quello di allontanare definitivamente la gente da quei luoghi di svago. Al solito si fa confusione tra tutela dell’ambiente e responsabilità personale, facendo di tutta l’erba un fascio e vietando ogni cosa con l’unico risultato di creare ulteriori dubbi e illegalità.
Alessandro Gallucci
C’era un tempo in cui bastava aver voglia di lavorare e i soldi arrivavano. Oggi non è più così, o almeno non per tutti. Cos’è successo? Dove si è inceppato lo sviluppo che portava il Pil a una crescita inarrestabile? La crisi è un tempo di passaggio, nel quale siamo chiamati a capire se dobbiamo arrenderci a un nuovo egoismo del “si salvi chi può”, o se possiamo ancora sperare di salvarci insieme.
Giacomo Vinti
A QUANDO LA DIMINUZIONE DELLE TASSE? Aumentano le entrate della lotta all’evasione ma non diminuiscono le tasse. Questa la sintesi di quanto è successo nel 2010 e che succederà nel 2011. Nel 2010 sono entrati ben 25,4 miliardi di euro in più ad opera di Agenzia delle Entrate, Equitalia e Inps, più della manovra fiscale biennale. Ci si potrebbe aspettare una dichiarazione del governo che annunci una diminuzione della pressione fiscale, che attualmente si attesta sul 43% del Pil, ma che in effetti è maggiore e arriva al 52%, come dichiarato dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi. Ancora di più si potrebbe fare razionalizzando la spesa pubblica ma questo governo non sembra ne abbia l’intenzione, visti i recenti accordi sul pubblico impiego che, di fatto, hanno vanificato i tentativi di riforma del ministro Brunetta. Ricordiamo, per coloro che hanno memoria corta, che nel 2001 Berlusconi promise solo due
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
Voglio essere una drag queen LONDRA. Collagen Westwood, una giovane donna di ventuno anni, avrebbe speso migliaia di euro in operazioni chirurgiche. Un fatto relativamente comune, solo che in questo caso “Collagen”, così preferisce farsi chiamare la ragazza, ha un ideale decisamente insolito. Vuole somigliare ad una drag queen. Per cui si è fatta fare una serie di operazioni per mascolinizzare i lineamenti, in modo da poter essere scambiata per un uomo anziché una donna. Collagen, tra l’altro, aspirerebbe a somigliare a Pete Burns, leader del gruppo musicale “Dead or Alive” e a diventare una cantante famosa. Anche il frontman della band in questione si è sottoposto nel corso degli anni a molteplici e costosissimi interventi di chirurgia estetica. Collagen avrebbe mostrato interesse sin dall’infanzia per lo stile drag queen e raggiunti i 18 anni si sarebbe sottoposta a vari ritocchi estetici: seno, labbra e naso. Parrucche eccentriche, abiti audaci e scollatissimi affollano il suo guardaroba. E se per strada qualche passante dovesse erroneamente scambiarla per un “travestito”non sarebbe affatto un’offesa per lei, poiché il suo ideale massimo di bellezza pare sia proprio rappresentato da un’immagine androgina e voluttuosa.
aliquote fiscali, 23% fino a 100mila euro e 33% oltre tale cifra. Siamo nel 2011, dieci anni dopo, e nulla è cambiato: le solite promesse da marinaio!
Primo Mastrantoni
CARBURANTI PIÙ CARI PER LA CULTURA Non voglio uniformarmi alle numerose critiche che tale provvedimento ha suscitato e susciterà in molta gente. Voglio solo dire che, avendo il sottoscritto la “sfortuna” di fare un lavoro che impone l’utilizzo dell’auto quotidianamente (oltre 50mila km all’anno), mi auguro almeno che la mia cultura personale, a forza di tanti pieni di diesel, migliori sensibilmente e sperare, chissà, in un riconoscimento personale, che so, una laurea honoris causa per aver contribuito fattivamente al sostegno e alla divulgazione della cultura nel nostro Paese.
Nunzio Longobardi
OLTRE ALLE CORRIDE, I CANILI-LAGER
Uno su mille ce la fa Da grande seminerà il terrore tra le prede con la sua corsa da record. Ma fino ad allora, questo cucciolo di ghepardo (Acinonyx jubatus), fotografato in Sudafrica, farà meglio a guardarsi le spalle. Quando la madre si allontana per cacciare, infatti, i piccoli della sua specie finiscono spesso tra le grinfie dei leoni, e la mortalità infantile può raggiungere picchi del 90%
Sono rimasto colpito dal servizio di Striscia la notizia riguardante i canili-lager spagnoli, dove delle povere creature incolpevoli vengono sterminate dopo un mese di detenzione se nessuno le adotta. E non solo perché sono proprietario di cani e gatti, ma in quanto tutto ciò è lontano da quell’idea di umanità che poi tutti pretendiamo di possedere. Mi sorprende che ciò accada in Spagna, la patria di “Bambi”Zapatero, in passato coccolato ed esaltato come concentrato di tutte le qualità del mondo. Cosa questa già smentita dal fatto che da quelle parti si continui nella barbara pratica della corrida, un omicidio perpretato per rendere famosi quei bellimbusti meglio noti come toreri. Come mai gli ambientalisti-ecologisti-animalisti di casa nostra non prendono provvedimenti riguardo a questo scandalo?
Marcello Giustina
pagina 24 • 9 aprile 2011
mondo L’allarme dell’International Society of Doctors for the Environment
«Ma il vero rischio nucleare arriverà dal mare»
Gli scienziati di tutto il mondo concordano: il problema dopo Fukushima non viene dai venti ma dalla biomagnificazione, l’effetto per cui attraverso gli oceani gli isotopi mortali non solo si spostano, ma crescono. E dopo lo tsunami e il terremoto che hanno colpito il Giappone, le coste asiatiche rischiano un’invasione di cibo atomico di Enrico Singer opo l’ultima scossa di terremoto che ha colpito il Giappone, quella che ha danneggiato anche la centrale nucleare di Onagawa, a circa cento chilometri a Nord di Fukushima, è ripartito il sinistro balletto dei numeri sui livelli di contaminazione da cesio 131 e iodio 137, i due radioisotopi più pericolosi per la salute umana. I tecnici misurano il fall out atomico, il percorso della nube radioattiva, la presenza di inquinanti nelle verdure e nella carne, discutono se allargare la zona di sicurezza. Ma, tra reticenze e rassicurazioni, cominciano anche ad ammettere che il pericolo più grosso arriva – e arriverà – dal mare e non dall’aria o dalla terra. Perché se il tempo naturale di smaltimento dello iodio 137 è abbastanza rapido – in otto giorni il suo potere di contaminazione si dimezza tanto nell’aria che nell’acqua – nel mare c’è una variabile micidiale. Si chiama “biomagnificazione”. Apparentemente evoca qualche cosa di positivo perché magnifica, cioè moltiplica, i meccanismi biologici. Ma quando si parla di inquinamento nucleare, il risultato di questo effetto può essere terribile.
D
In pratica, nel mare la biomagnificazione funziona così: poiché il pesce grande mangia il pesce piccolo e il pesce piccolo mangia il plancton, tutte le sostanze sia organiche, sia in questo caso radioattive, anziché ridursi, vanno ad aumentare via via che il pescato è di di-
mensioni maggiori. Non solo. I pesci si spostano nel mare. Percorrono anche migliaia di chilometri in banchi. Vere e proprie migrazioni. Dalle piccole sardine, fino ai tonni passando per le aguglie, gli sgombri, i pescispada e le ricciole. Così, mentre la contaminazione nucleare nell’aria e sulla terra tende a diminuire con il tempo, tra gli abitanti del mare può aggravarsi. Con il risultato di inqui-
ne e continua anche adesso perché l’acqua di raffreddamento dei reattori ormai fuori controllo viene riversata lungo la costa. E le ricadute sulla fauna ittica sono soltanto all’inizio. Un esperto di medicina dell’ambiente come Ernesto Burgio, dell’Isde Italia che fa parte dell’International Society of Doctors for the Environment, lo dice chiaramente. «Il vero problema è quello dei model-
Tutte le sostanze organiche (o radioattive) anziché ridursi aumentano in proporzione al pescato nare tutta la catena alimentare, arrivando fino all’uomo. Certo, se nei primi giorni del disastro di Fukushima il vento nucleare avesse investito l’area di Tokyo, invece di prendere la direzione dell’oceano, gli effetti sarebbero stati apocalittici perché nella regione della capitale giapponese vivono quasi 35 milioni di persone. Per fortuna non è stato così, ma l’inquinamento del mare è andato avanti per settima-
li che si usano per valutare i danni sulle popolazioni direttamente o indirettamente esposte alle radiazioni. Da Hiroshima in poi, quindi da 60 anni a questa parte, anche le più autorevoli agenzie internazionali di protezione dell’ambiente, continuano a valutare i danni essenzialmente su un vecchio modello che è quello della dose totale di radiazioni che colpisce una persona, valutando la radiazione a prescindere dal fatto che
sia una radiazione esterna, diretta o che venga dall’interno». La contaminazione della catena alimentare provoca proprio quest’ultimo effetto: chi introduce per via alimentare il cesio 131 o lo iodio 137, se li ritrova all’interno dell’organismo ed è come se avesse una piccola sorgente radioattiva che va a colpire moltissime cellule. «Questo è molto peggio rispetto all’esposizione a dosi magari anche massicce di radiazioni dall’esterno, come ad esempio i raggi gamma o i neutroni che passano ma non rimangono», dice Ernesto Burgio. Non solo. Le sostanze radioattive marcano le cellule staminali e i gameti. Marcando i gameti, il danno che si può misurare nel giro di pochi anni sulle popolazioni adulte di tutto il mondo è sempre da interpretare come qualche cosa che si può amplificare nella generazione successiva.
Per il momento, le cifre vanno prese con il beneficio del dubbio e non bisogna nemmeno cadere nella trappola dell’allarmismo. Ma il livello di radiazioni nell’oceano nei pressi della centrale di Fukushima è salito progressivamente. Dagli ultimi dati è almeno 4.385 volte superiore al livello considerato normale. L’aumento riguarda soprattutto il letale isotopo radioattivo iodio 131. La Tepco, la società che gestisce sia la centrale di Fukushima che quella di Onagawa, insiste nel rimarcare che la vita di questo radioisotopo è relativamente breve e che, già a 30 chilometri
mondo
dalla costa, il suo valore nell’acqua di mare è tornato normale. Queste rassicurazioni, però, non tengono conto del fenomento della “biomagnificazione” che ha già avuto una prima conferma nel fatto che tracce radioattive di cesio 137 e di iodio 131 sono state trovate in acciughe pescate nella baia di Chiba, una città di quasi un milione di abitanti, capitale dell’omonima prefettura, che si trova a Sud-est di Tokyo, vicino alla megalopoli giapponese, ma a ben 240 chilomertri da Fukushima. Una radioattività da iodio 131 pari a 4.000 becquerel per chilogrammo (il becquerel è l’unità di misura dei radionuclidi) è stata riscontrata anche in pesci pescati al largo della prefettura di Ibaraki, tanto che il ministero della Sanità giapponese ha consigliato di ridurne i consumi.
Perché se è vero, come dice la Tepco, che «l’acqua di mare non si beve», il pesce si mangia e molti ristoranti giapponesi stanno già dicendo addio alle alghe nori, al sushi e al sashimi. Per l’uomo, il rischio deriva dal fatto che le particelle contaminate, una volta entrate nella catena alimentare, vi permangono perché non possono essere eliminate né neutralizzate dall’organismo. E il consumo prolungato di alimenti anche debolmente contaminati costituisce un pericolo dal momento che le particelle radioattive si fissano in organi diversi a seconda della loro specificità: lo iodio radioattivo, per esempio, si fissa nella tiroide. Ma, prima che gli effetti possano arrivare all’uomo, il danno principale per l’ecosistema sono le mutazioni nel Dna degli organismi marini. Secondo Joseph Rachlin, direttore del Lehman Laboratory for marine research di New York, «il contatto con le sostanze radioattive può sconvolgere il sistema riproduttivo dei pesci perché le loro uova sono ancora più sensibili alla contaminazione nucleare». L’inquinamento accertato finora è quello da iodio e cesio, ma non è escluso che possano finire in mare anche plutonio e altri radionuclidi pesanti. Se gli effetti dello iodio 137 si dimezzano in otto giorni, già quelli cesio 131 si dimezzano in 30 anni e il plutonio in tempi dell’ordine delle migliaia di anni.
Secondo gli studi dell’Aiea, l’agenzia atomica internazionale, un pesce esposto al cesio lo accumula per un fattore 100, mentre per il plutonio è addirittura di 4mila. Una contaminazione da plutonio in mare potrebbe verificarsi soltanto nel caso di fusione del nucleo dei reattori, eventualità che sembra a oggi scongiurata, ma che non può essere nemmeno esclusa. A Chernobyl, nell’86, si arrivò all’esplosione, ma non ci furono ripercussioni sugli ecosistemi marini, troppo lontani dal luogo dell’incidente per essere raggiunti. In laghi e altri bacini chiusi, però, uno studio dell’Onu ha trovato tracce di sostanze radioattive nei pesci ancora nel 2000, 14 anni dopo
è stata tamponata all’inizio della settimana. L’allarme è altissimo. E dal Giappone ha già raggiunto sia la Cina che la Corea del Sud. Il governo di Seoul ha protestato con quello di Tokyo accusandolo di «non avere avvertito in anticipo dei pericoli di contaminazione del mare».
Pechino si è detta preoccupata e non ha nascosto la propria irritazione per il comportamento delle autorità giapponesi. «Come vicini auspichiamo che il Giappone agirà d’ora in poi in conformità con le norme del diritto internazionale e che adotterà misure efficaci per proteggere anche l’ambiente marino», ha detto il portavoce del ministero degli
Secondo gli analisti gli esperimenti bellici sottomarini degli anni ’50 non hanno provocato danni. Ma sono secretati il disastro. Il caso di Fukushima è molto diverso. Dalla centrale giapponese l’acqua di raffreddamento radioattiva è stata sversata direttamente in mare. In meno di una settimana la Tepco ne ha rovesciate nell’oceano 11mila tonnellate che rappresentano soltanto una parte delle 60mila tonnellate di acqua marina utilizzata per raffreddare l’impianto. Quella gettata in mare, secondo la Tepco, è la meno contaminata che è stata prelevata dai reattori 1 e 2 per fare posto nelle speciali cisterne di smaltimento all’acqua di raffreddamento ancor più radioattiva: quella che è stata a contatto diretto con le barre del nucleo.
Ma anche la sorte di queste altre tonnellate di acqua non è chiara ed è sempre minacciata da possibili nuove scosse di terremoto che potrebbero danneggiare le vasche e aprire altre falle come quella che
Esteri cinese, Hong Lei, che ha lanciato un avvertimento molto esplicito: «Chiediamo che ci siano trasmesse tutte le informazioni disponibili in maniera tempestiva, esauriente e accurata». L’unica nota positiva è quella che è arrivata dal Laboratorio internazionale di radioecologia che è stato creato in Ucraina, nella nuova città di Slavutych, a 50 chilometri da Chernobyl, proprio per studiare gli effetti di quel disastro.
Sergey Gashchack, vicedirettore del centro, non ha dubbi: l’incidente che avvenne della centrale dell’ex Repubblica dell’Urss «è stato migliaia di volte più intenso rispetto a quello di Fukushima». Il 26 aprile del 1986 nell’impianto nucleare intitolato a Vladimir Ilich Lenin, è avvenuto il più grande incidente nucleare della storia. Sergey Gashchack, dal 1990, sta raccogliendo dati sulla cosid-
9 aprile 2011 • pagina 25
detta “zona di esclusione” di Chernobyl, calcolando il rapporto tra radiazioni e condizioni di suolo, acque, flora e fauna. La differenza più importante tra i due incidenti è che la centrale in Ucraina è esplosa, quella di Fukushima no, anche se è stata danneggiata molto seriamente. Ci sono, poi, molte differenze nel livello delle radiazioni e nella loro deposizione al suolo. «I valori rilevati attorno alla centrale di Fukushima per il cesio 137, compresi fra 10 e 30 becquerel per metro quadrato, sono pari a quelli rilevati al confine della zona contaminata di Chernobyl», dice Gashchack. In prossimità della centrale ucraina i valori del cesio 137 andavano da 10.000 a 100.000 becquerel per metro quadrato.
Secondo questo ricercatore, nelle zone del Giappone colpite dalle radiazioni «non si prevedono conseguenze radiologiche a lungo termine». Considerando i valori dell’altro radioisotopo contaminante rilevato a Fukushima, lo iodio 131, e il suo tempo rapido di dispersione sarebbe addirittura «probabile» che a metà dell’estate a Fukushima non si registrerà più la presenza di iodio 131. Per Gashchack un’altra differenza importante tra i due incidenti è nelle misure adottate a tutela della popolazione: «Gli abitanti di Chernobyl sono rimasti per un mese nelle loro case, continuando a mangiare cibo contaminato. Questo non è accaduto a Fukushima dove la popolazione è stata immediatamente allontanata dalla zona più vicina alla centrale». Anche per Sergey Gashchack, tuttavia, l’incognita più pesante è rappresentata proprio dall’inquinamento radioattivo del mare. Certo, negli Anni Cinquanta, di esperimenti atomici sottomarini ne furono compiuti a decine nell’oceano Pacifico attorno all’atollo di Bikini e, almeno a quanto dice Gashchack, «non hanno comportato un’alterazione delle specie su larga scala e la struttura del fondale dell’oceano è rimasta inalterata». Ma è anche vero che gli studi fatti sugli effetti di quegli esperimenti sono ancora coperti dal segreto militare. E che i test atomici sottomarini furono bruscamente interrotti.
mondo
pagina 26 • 9 aprile 2011
Pechino aspetta la sua morte per schiacciare del tutto il Tibet L’Oceano di Saggezza ha sistemato ogni cosa per salvarlo
Il segreto del Dalai Lama Dopo anni di lotte il leader buddista si ritira dalla politica. Non è una resa, ma la sua vittoria di Vijay Kranti l Dalai Lama si è sempre presentato al mondo come “un umile monaco”. Coloro che non conoscono il rispetto – o che non considerano l’umiltà una delle virtù umane – potrebbero ritenere questo modo di porsi un segno di “debolezza” o di timidezza, tipico di una persona che si può tranquillamente schiaffeggiare. È ironico che le persone di questo tipo siano state – e siano tutt’ora – gli esponenti del Partito comunista che hanno trattato con il Dalai Lama sin da quando era un adolescente, chiamato a guidare quel Paese che poi sarebbe divenuto una colonia cinese. Come ha provato la storia nel suo corso, la Cina avrebbe guadagnato molto di più da tutta la sua situazione se i suoi leader avessero compreso meglio l’uomo, accettandolo per come è. Invece di scrivere ancora per spiegare questa tesi, preferisco immaginare per quale motivo coloro che governano un Paese con uno dei più potenti eserciti del mondo, enormi risorse economiche e 1,3 miliardi di abitanti si presenti in maniera così irritante (facendo una figura misera) davanti a un uomo senza Stato, che guida una microscopica comunità che conta 150mila rifugiati. La cosa peggiore è che abbiano deciso per questo atteggiamento comico anche quando questo “umile monaco”abbia deciso di lasciare i propri, limitati poteri derivanti dalla guida di questo pugno di persone. Sull’ultima proposta dell’Oceano di Saggezza, che prevede una “rottura” nel tradizionale processo di selezione del Dalai Lama tramite la rinascita, i leader di Pechino non possono continuare a comportarsi come pagliacci, dando proprio al leader buddista una lezione sulla “protezione delle tradizioni tibetane” e dei “rituali religiosi”. Hanno già dimostrato la loro vulnerabilità durante un incontro con i 47 rappresentanti eletti della comunità tibetana. Pechino ha usato Pema Choeling, il governatore della Regione autonoma del Tibet, per contestare e denunciare la proposta del Dalai Lama: «Dobbiamo rispettare le istituzioni storiche e i ri-
I
tuali religiosi del buddismo tibetano». Ha anche deciso, parlando con i giornalisti occidentali a Pechino, di ricordare al Dalai Lama che «il buddismo tibetano ha una storia di più di mille anni, e l’istituto delle reincarnazioni del Dalai e del Panchen Lama è rimasto intatto per centinaia di anni». Per poi aggiungere: «Mi dispiace ma nessuno ha il diritto di decidere altrimenti, sull’argomento». Le dichiarazioni di Pema erano soltanto un riflesso dell’irritazione e dello shock di Pechino, che si è visto destabilizzare il proprio piano di governare del tutto il Tibet imponendo un proprio uomo come Dalai Lama al momento della morte dell’attuale. Interessante da notare, questa decisione del Dalai Lama è arrivata quando il processo elettorale per il nuovo primo ministro e il nuovo Parlamento del governo in esilio era in conclusione. A giugno di quest’anno inizia infatti il nuovo mandato, della durata di cinque anni. Nella tradizione tibetana, le autorità temporali e spirituali della nazione si incarnano tutte nella figura del Dalai Lama, il cui ruolo passa dopo la morte al successore. L’attuale, Tenzin Gyatso, ha 75 anni ed è il 14esimo di una linea di successione che dura da 500 anni. Ha annunciato la sua decisione nel discorso che, ogni anno, recita a Dharamsala il 10 marzo per ricordare l’anniversario (quest’anno il 56esimo) della fallita sollevazione popolare del Tibet contro l’invasore cinese e la sua successiva fuga dal Paese, avvenuta appunto nel 1959. UN ATTO DISPERATO? A chi ha guardato questa scena da lontano – o l’ha considerata semplicemente una nuova, veloce dimensione dello scontro frontale con la Cina – la decisione del Dalai Lama potrebbe essere sembrata eccessiva, oppure una dimostrazione della sua disperazione per aver fallito nelle trattative con la controparte cinese. Ma, a chi invece ha seguito con attenzione le mosse politiche del leader buddista sin dai primi anni del suo esilio, l’annuncio del 10 marzo
è sembrato soltanto quello che è: la logica conclusione di un processo iniziato 50 anni fa. Quel processo aveva e ha lo scopo di creare una macchina politica alternativa, efficace e di lunga durata per mantenere in piedi la questione tibetana anche dopo la sua morte. Questo spiega l’irritazione cinese e la posizione quasi comica di Pechino. Che vuole “proteggere le tradizioni e i rituali tibetani”. UN DALAI LAMA DEMOCRATICO Partendo dalle basi, una delle prime decisioni che prese l’al-
Il Dalai Lama dà udienza ad alcuni monaci a Dharamsala nel corso delle lezioni mensili. A sinistra, il Karmapa Lama. Nella pagina a fianco, fedeli in fila
Il Karmapa e il Panchen Lama sono figure che la Cina ha cercato di manipolare. Hanno fallito nel loro scopo, arrivando a dover subire l’umiliazione di vedere i loro piani derisi dalla popolazione lora governatore del Tibet in esilio subito dopo essersi dato all’esilio è stata quella di rimpiazzare il sistema teocratico tradizionale con un sistema democratico. Nel 1963 ha presentato una bozza di Costituzione che chiedeva l’instaurazione di un governo democratico tramite un sistema parlamentare, basata sulla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite. Partendo da un governo nominato da lui, è arrivato a un Parlamento
eletto che ha scelto da solo il proprio primo ministro. Nel 1991 ha rivisto la Costituzione, per garantire al Parlamento eletto il ruolo di “governante supremo” della vita politica della diaspora. La nuova Costituzione, meglio nota come “Carta per il futuro Tibet”, permette al Parlamento persino di detronizzare il Dalai Lama – soltanto dal punto di vista politico, ovviamente – se viene provato che questi abbia fallito nei propri compiti nazionali. Nel
2001 il Dalai Lama ha democratizzato ancora di più il tutto, introducendo l’elezione diretta del primo ministro e limitando il proprio ruolo a quello di vertice “titolare” dell’esecutivo. Oggi, dopo un balzo di altri dieci anni, ha chiesto al Parlamento di levare al Dalai Lama ogni potere politico. I nuovi emendamenti costituzionali prevedono per l’Oceano di Saggezza una leadership esclusivamente di tipo religioso, che rompa con la tradizione politica ed esecutiva. Anche sull’altro fronte, quello religioso, ha fatto una proposta: ha chiesto al popolo di lasciare stare il sistema tradizionale e rimpiazzarlo con un sistema che passi il titolo di Dalai Lama a un religioso conosciuto e stimato per le sue capacità. UN COLPO DA MAESTRO Se messe in pratica, le nuove proposte del Dalai Lama potrebbero portare molti vantaggi politici e sociali, che sono vitali per la microscopica comunità tibetana in esilio. Hanno infatti il potenziale di levare dalle mani dei leader di Pechino ogni possibilità di governo sulla diaspora, anche se loro stanno aspettando con ansia il momento di intronare un proprio
mondo governo in esilio. Il suo nuovo status lo libera e gli permetterebbe di girare il mondo e incontrare quei capi di Stato e di governo che dicono di volerlo ricevere ma che «non possono farlo perché guida una nazione non riconosciuta». IL NUOVO RUOLO Rispondendo alla popolazione, il Dalai Lama ha chiarito che la sua proposta non rappresenta un ritiro dalla vita pubblica, e ha assicurato che rimarrà in attività per sostenere la causa tibetana. Ha anche aggiunto che rimarrà sempre con un ruolo consultivo all’interno del governo. E ovviamente non smetterà di parlare al mondo del Tibet. Questo nuovo sviluppo ha sconvolto i leader cinesi, che hanno cercato da molto tempo di presentare la questione tibetana come una questione legata semplicemente al Dalai Lama. Nelle loro campagne denigratorie, tese a sminuire il peso religioso e politico, hanno cercato di dipingere il leader buddista in tanti modi: “capo di un gruppo di banditi”e “lupo vestito da monaco” fra i più usati. Nonostante le dichiarazioni di facciata, i “dialoghi fra Pechino e Dharamsala” che durano da circa un decennio non hanno
pupazzo come Dalai Lama. Da un punto di vista interno, il nuovo“governo in esilio”– rivestito di tutti i poteri un tempo appartenenti al leader religioso, avrebbe uno status migliore nell’arena internazionale. Il nuovo sistema infatti dà ai tibetani una leadership politica istituzionalizzata, che ha molte più possibilità d’azione rispetto a quelle di un unico essere umano, fosse anche il Dalai Lama. La vera questione, in questo caso, è capire quanto sia capace e sincera la prossima tornata di leader eletti. E quanto dimostreranno di essere dediti alla causa negli anni a venire. UNA VALVOLA DI SICUREZZA? Il nuovo sistema ha anche il pregio di poter salvare il sistema politico tibetano dai pericoli fatali rappresentati da inerzia e confusione, generati dai circa 20 anni di leadership che seguono la morte di un Dalai Lama. I poteri esecutivi, nel sistema tradizionale, si passano al successore soltanto quando questi raggiunge l’età adulta. Tutti i governi tibetani che si sono succeduti negli ultimi 500 anni hanno sofferto di questo “bardo”, un termine spirituale che in tibetano si riferisce al periodo di transizione fra la morte di un individuo e la sua rinascita. Ci sono stati nella storia molti casi di potere manipolato o gestito male, da membri della Commissione dei reggenti che governa durante questo periodo. In alcuni casi, i
Il prossimo leader della diaspora non sarà “riconosciuto” ma eletto in maniera democratica. Così il Partito non potrà in alcun modo installare un proprio pupazzo alla guida della regione Dalai Lama ancora bambini sono morti in circostanze misteriose. È interessante però notare che, nonostante tutti questi vantaggi, il nuovo sistema non toccherà i vantaggi che l’attuale leader buddista ha accumulato negli anni: il suo carisma e la sua presa, anche dal punto di vista internazionale, rimarranno intatti. Anzi, il suo nuovo ruolo potrebbe dargli maggiore libertà da quelle catene che ha portato negli anni a causa del suo ruolo di capo del
mai dato frutti: la leadership comunista non ha mai offerto un ritorno sicuro dell’esiliato non dico in Tibet, ma neanche a Pechino. La parte cinese, rappresentata soltanto dal dipartimento del Fronte unito del Partito comunista – e non dal governo – ha sempre definito i tibetani “inviati del Dalai Lama” e non “inviati del governo in esilio”. La domanda da un milione di dollari è: continueranno questi dialoghi con l’inviato del nuovo primo ministro? Da-
9 aprile 2011 • pagina 27
ta la fissazione di Pechino per il Dalai Lama, non sorprende che la Cina abbia limitato la propria reazione soltanto alla proposta del leader sul ruolo futuro dell’istituzione. Ma questo modo di fare, la volontà di concentrarsi soltanto sull’abdicazione dei poteri, renderà le cose ancora più difficili e confuse per la leadership cinese. Potrebbero trovare molto più difficile di quanto pensino il trattare con la situazione post-Dala Lama, specialmente nel campo della scelta dell’erede. LA NUOVA STRATEGIA CINESE La proposta del Dalai Lama ha cambiato le carte in tavola per quanto riguarda l’intera questione tibetana. Oltre al proprio ruolo di campione delle tradizioni religiose e politiche del Tibet, il leader buddista è emerso come un campione della democrazia pronto a sacrificare i propri privilegi politici. Dall’altra parte ci sono i leader cinesi, che dopo essersi presentati per decenni con politiche anti-religiose, ora cercano di passare per i campioni della tradizione tibetana. Per capire questo intrigante scambio di ruoli, bisogna analizzare e capire la strategia degli ultimi anni che la Cina ha messo in campo contro il Tibet. Dall’occupazione della regione (1951) fino alla fine degli anni Ottanta, i leader di Pechino hanno incoraggiato apertamente l’annichilimento della religione e delle istituzioni religiose del Tibet. Questo modo di fare deriva dal fatto che, secondo loro, la fede e i valori religiosi della regione erano i maggiori blocchi sulla strada della “cinesizzazione” dei tibetani. Tuttavia, la storica rivolta contro la Cina e a favore del Dalai Lama che si è verificata nella regione nel 1989 ha dimostrato gli errori cinesi: in piazza c’erano infatti giovani nati, cresciuti ed educati sotto il dominio cinese. Questo fatto costrinse i comunisti a rivedere la strategia. Una rinnovata linea d’azione venne decisa durante l’incontro strategico del “Terzo forum di lavoro” del 1991: un miscuglio di repressione contro i dissidenti e strumentalizzazione delle istituzioni religiose tibetane. Questo doppio approccio ha incoraggiato gli amministratori cinesi della regione a concedere limitatissime libertà religiose ai tibetani. Vennero riaperti, in parte, monasteri e templi distrutti durante la Rivoluzione culturale. Il primo esperimento di “gestione” sotto questa nuova politica si ebbe dopo la morte del Karmapa Lama, che doveva essere riconosciuto dopo la morte del predecessore avvenuta (in esilio) nel 1981. Il governo cinese invitò in Tibet uno dei monaci anziani del seguito del defunto: questi, che si trovava in India, si mise a capo di un team di religiosi e trovò Ogye Trinley
Dorje. Il bambino, 7 anni, venne riconosciuto sia dal Dalai Lama che dal governo di Pechino. Il governo cinese patrocinò la cerimonia di intronazione del nuovo Karmapa, cui parteciparono molti seguaci europei. La cerimonia venne persino trasmessa dalla televisione cinese. Per questo, venne considerato da alcuni un “importato” nella gerarchia tibetana. L’ERRORE: IL PANCHEN LAMA Incoraggiati dal successo, i leader cinesi decisero di riconoscere il successore del decimo Panchen Lama, morto nel 1989. Si tratta della seconda figura per importanza nel sistema tibetano, successivo solo al Dalai Lama. La Cina lo ha usato per rintuzzare la fuga del Dalai Lama. Nel 1995, una commissione di monaci tibetani guidati da un rappresentante di Pechino venne incaricata di trovarlo: ma i piani andarono all’aria. Alcuni monaci, infatti, informarono dell’accaduto l’Oceano di Saggezza che, grazie alle loro ricerche, riconobbe invece il Panchen Lama in Gedhun Choekyi Nyima. Il bimbo, 6 anni, venne indicato senza che la Cina ne sapesse nulla. Furibondi, i cinesi arrestarono il ragazzo e i suoi genitori indicando invece in Gyancain Norbu, un loro prescelto, il “vero”undicesimo Panchen Lama. Da allora Gedhun è scomparso: Pechino rifiuta di dire dove si trovi nonostante una campagna internazionale a suo favore, che lo ha definito “il più giovane prigioniero di coscienza al mondo”. LA FUGA DEL KARMAPA Le cose sono peggiorate ancora per Pechino nei primi giorni del 2000, quando il Karmapa ha lasciato la Cina per unirsi all’esilio indiano del Dalai Lama. Pechino da allora presenta con regolarità il proprio Panchen Lama alla televisione, ma sa che questi non ha l’appoggio dei tibetani. Questo non li ha scoraggiati del tutto: hanno riabilitato molti monasteri, ma quasi soltanto per incrementare il turismo nella provincia e in quelle altre – cinesi – con alta presenza di tibetani: Yunnan, Sichuan, Qinghai e Ganzu. Questi monasteri sono incoraggiati a trovarsi i propri “Buddha viventi” – i tulku incarnati, che i tibetani chiamano Rinpoche – e a installarsi a capo dei monasteri. Ne ho visitati molti - Ganden, Drepung, Sera, Jokhang, Samten Ling, Shangri la, Karze, Lithang, Kirti e Robkong – e ho trovato molte cartoline colorate per i turisti e poca spiritualità. I dibattiti pubblici dei monaci – rituali nel buddismo tibetano – non hanno quasi contenuto, dato il controllo ferreo della polizia: ma sono un grande richiamo per le telecamere. Il Dalai Lama ha compiuto una scelta. E questa è l’unica che può salvare il suo popolo e il Tibet.
quadrante
pagina 28 • 9 aprile 2011
L’Europa «salverà» il Portogallo
Tempesta di sabbia killer in Germania
LISBONA. L’Eurogruppo ha accettato la richiesta di aiuti avanzata dal Portogallo. Lo ha comunicato nel corso di una conferenza stampa a Godollo, in Ungheria, il presidente dell’Eurogruppo, Jean Claude Juncker. Il governo portoghese è stato invitato ad avviare subito i colloqui con la Commissione Ue, con la Bce e con il Fondo Monetario. Juncker ha indicato la necessità di «un accordo fra tutti i partiti politici» portoghesi in modo da «arrivare a un programma di aggiustamento di bilancio entro metà maggio che possa poi essere eseguito rapidamente dopo la formazione del governo» che uscirà dalle urne a giugno. Il programma, secondo l’Ecofin, sarà basato «su tre pilastri: fisco, crescita e competività».
BERLINO. Un evento senza precedenti, almeno per la fredda Germania non proprio attraversata da deserti. Oltre 40 veicoli sono rimasti coinvolti in un incidente a catena, causato da una tempesta di sabbia, sull’autostrada A19 nei pressi di Rostock, nel Mecklemburgo Pomerania, est della Germania: diversi automobilisti - almeno 10 secondo il quotidiano tedesco Bild hanno perso la vita, mentre i feriti sarebbero almeno 60. L’incidente a catena ha causato un enorme incendio, che spiega l’elevato numero di vittime, in entrambe le corsie. Le auto si presentavano bruciate e ricoperte di sabbia. L’autostrada è stata chiusa in entrambe le direzioni di marcia. Sul posto le autorità competenti.
Cina, ancora latte mortale: 3 vittime PECHINO. Tre bambini morti e 35 bambini e persone intossicate per avere bevuto latte contenente nitrito, a Pingliang nel Gansu. Intanto Zhao Lianhai, attivista condannato al carcere per avere difeso i diritti dei bambini malati per il latte alla melamina, dice che la polizia lo ha “avvertito” che tornerà in carcere se continua a difendere i diritti umani. I 35 intossicati, per la gran parte bambini sotto i 14 anni, sono ricoverati in ospedale. L’agenzia statale Xinhua riportava ieri che il latte è confezionato da 2 ditte casearie locali. Ora le fabbriche sono state chiuse e sono in corso indagini. Il nitrito di sodio è usato nella preparazione delle carni, ad esempio per le salsicce, perché abbatte la carica batterica.
Cinque morti palestinesi, ieri, per la prima vera operazione militare bilaterale dopo la tragica operazione “Piombo Fuso”
Gaza, ancora prove di guerra Israele usa i raid aerei per rispondere ai razzi che piovono dalla Striscia di Antonio Picasso ra le mille sorprese che il Medioriente sta riservando in questi primi mesi dell’anno, non poteva mancare un’evoluzione del conflitto israelo-palestinese. Evoluzione però che non promette nulla di buono. Ieri, dopo una settimana di scontri a fuoco, il governo di Benjamin Netanyahu ha assunto una posizione di aperta condanna per il nuovo lancio di razzi provenienti dalla Striscia di Gaza. Nel frattempo Hamas ha invitato le altre fazioni armate cobelligeranti a un cessate il fuoco. Questa ultima notizia, in realtà, appare poco chiara. Si tratta infatti di una nota isolata, senza seguito né smentite. C’è da chiedersi, quindi, se quello del movimento islamista sia un invito a far fronte comune per prepararsi a una nuova guerra. Possibile che lo Stato maggiore di Tzahal stia meditando un’operazione Piombo fuso secondo atto? Nella congiuntura geopolitica attuale è assai improbabile. È lecito però pensare anche che Hamas abbia chiesto una tregua proprio agli israeliani. Il silenzio che aleggia in seno alla segreteria politica del partito, sia a Damasco sia nella sede operativa di Gaza, lascia in sospeso tutte le teorie.
Ieri, dopo una settimana di scontri a fuoco, il governo di Benjamin Netanyahu ha assunto una posizione di aperta condanna per il nuovo lancio di razzi provenienti dalla Striscia di Gaza. Nel frattempo Hamas ha invitato le altre fazioni armate cobelligeranti a un cessate il fuoco
T
A questo proposito, proprio ieri, il quotidiano israeliano Haaretz scriveva che né Khaled Meshal, dai suoi uffici nella capitale siriana, né Ismail Hanyyeh nella Striscia sarebbero in grado di controllare le milizie. Sicché, l’esponente dell’ala più intransigente, Ahmed Jabari, non si farebbe scrupolo di agire - e quindi di sparare - oltreconfine senza condividere la mossa con i decisori politici. Questo giustificherebbe l’attacco di martedì, quando un razzo anticarro ha colpito uno scuolabus, ferendo in modo grave un ragazzo. Si tratta del primo attacco dal 2009. Inoltre, finora Hamas si è sempre concentrata su obiettivi militari. Le città di Ashkelon e Sderot, notoriamente sotto il tiro delle milizie dalla Striscia, vanno prese purtroppo come target civile collateralmen-
te coinvolto nel conflitto. Lo stesso va detto per i civili palestinesi durante Piombo fuso e in tutte le altre operazioni. Tuttavia, l’ultimo caso è anomalo. Colpire un autobus di linea, che percorre regolarmente un determinato tragitto, significa effettuare un attacco premeditato. L’operazione sarebbe stata voluta da elementi estremisti, disinteressati alle ripercussioni. Anzi, ben lieti di sollevare un nuovo polverone intorno alla Striscia. Insomma, è difficile che Hanyeeh abbia potuto dare l’ordine di attaccare una scolaresca. Il vertice di Hamas è consapevole che un gesto tanto sconsiderato rischia di aprire un nuovo scontro a fuoco. Tant’è che sta accadendo quel che si temeva. Ieri da Praga, Netanyahu ha condannato i responsabili dell’attacco. «Lo loro teste colano sangue», ha detto, facendo riferimento alla Bibbia. E infatti, l’aviazione israeliana è stata subito mobilitata. Nel pomeriggio è stato compiuto un raid oltreconfine e
cinque palestinesi sono morti. Israele sta rispondendo colpo su colpo alle provocazioni di Hamas. O di chi agisce a nome di questo. La settimana si avvia a una precaria conclusione. Oltre al razzo contro l’autobus, il deserto del Neghev è tornato a essere un fronte di guerra a bassa intensità. Razzi dalla Striscia contro raid delle Iaf, le Israeli air force.
Si teme il peggio.Vale a dire una riedizione della guerra del gennaio 2009. Un conflitto sostanzialmente inutile che era costato la vita a 1.440 palestinesi e a 13 israeliani.C’è da dire che, presso l’opinione pubblica israeliana, all’intransigenza si è sostituita la perplessità. Un atteggiamento dovuto al totale congelamento del processo di pace. Molti avevano sperato che Obama potesse scardinare il problema. Altrettanto incisiva appare la fiacchezza dimostrata dal governo Netanyahu, il quale si era presentato con una veste di inflessibilità. Invece sta
pagando lo scotto delle divisioni interne alla maggioranza. Una perplessità, infine, dovuta alle inattese rivolte nel mondo islamico-mediorientale. Israele osserva l’Egitto e la Siria – solo per fare due esempi – con curiosità e timore. A tal proposito, non è da sottovalutare la presa di posizione della stampa nazionale in favore del regime di Bashar el-Assad a Damasco. Meglio un vecchio avversario, che si conosce, piuttosto che un nemico nuovo e ignoto.Coincidenza vuole che sia di questi giorni la pubblicazione di alcuni documenti di Wikileaks, in cui si apprende l’incertezza del governo israeliano sul futuro del processo di pace e su come approcciarsi con Hamas. Il report risale al novembre 2009. Sembra che il generale Yoav Galant, allora comandante della Regione militare meridionale di Israele e responsabile delle attività verso Gaza, fosse convinto che, nel breve termine, il movimento islamista sarebbe riuscito a imporre un controllo
9 aprile 2011 • pagina 29
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Ancora sangue a Dara’a: la protesta in Siria non si ferma DAMASCO. Sarebbe di almeno diciassette morti il bilancio degli scontri di ieri nella città di Dara’a, nel sud della Siria, secondo la tv araba Al Jazeera. Le vittime sarebbero tutti manifestanti colpiti dalle cariche della polizia, che ha cercato di disperdere una manifestazione di protesta contro il presidente Assad. Proteste sono esplose anche nella città di Homs, nella Siria centrale, il giorno dopo il siluramento del governatore della città da parte di Assad. Colpi d’arma da fuoco si sono sentiti anche ad Harasta, un sobborgo di Damasco. Lo hanno detto residenti e attivisti. Nell’onda dell’opposizione, ora la minoranza curda torna con forza ad avanzare le sue rivendicazioni di riconoscimento e autonomia. Manifestanti curdi sono scesi in strada a Qamishli e Amuda, due cittadine al confine con Turchia e Iraq, nella ricca regione nord-orientale. Il presidente Assad aveva concesso, dopo mezzo secolo, il diritto di nazionalità a de-
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
cine di migliaia di curdi della regione. Ma alcuni partiti curdi non riconosciuti dalle autorità avevano giudicato insufficiente la misura e avevano appoggiato la nuova mobilitazione anti-regime indetta per oggi in tutta la Siria. Intanto in Yemen prosegue la repressione sanguinosa della protesta dell’opposizione. Due persone sono morte a Taiz, a sud di Sana’a. dopo che le forze dell’ordine sono intervenute aprendo il fuoco per disperdere una manifestazione.
A sinistra il leader di Hamas Haniyeh Al centro il muro che divide l’area A destra il primo ministro Netanyahu
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
sull’intera Striscia e impedire il lancio di razzi verso Israele. Al contrario, pare che sul lungo periodo Israele non fosse interessata al suo rafforzamento politico e che avrebbe cercato di sventare l’evenienza di riprendere il controllo di Gaza, da cui si è ritirata nel 2005. Questo è plausibile. A suo tempo Sharon si liberò di una patata bollente. Oggi, i suoi successori certo non vogliono rientrare nell’inferno della Striscia.
Sulla stessa linea di sbigottimento dev’essere lo stato d’animo della leadership di Hamas. A Damasco si può immaginare un Meshal per lo meno inquieto,
Caduto il Faraone, a Tel Aviv è venuto a mancare il filtro che conteneva il traffico di armi e uomini fra Anp e il Sinai con il rischio che il suo protettore baathista faccia la fine di Mubarak. L’attuale mellifluità del movimento islamista lascia spazio alle più disparate leggende di geopolitica spiccia. Al di là del lancio dei razzi – notizia incontrovertibile – si è detto che molti miliziani palestinesi sarebbero giunti in Libia in supporto dei ribelli. Si tratterebbe di commando affiancati per giunta dai libanesi sciiti di Hezbollah. C’è da chiedersi come e perché i palestinesi, tradizionalmente vicini a Gheddafi, adesso dovrebbero sprecare risorse in una guerra poco inerente ai loro interessi di quartiere. Come contraltare, si è anche venuti a sapere che i generali libici, ormai disertori del regime, avrebbero venduto sempre ad Hamas ed Hezbollah quelle leggendarie armi chimiche, nel dettaglio gas nervino
e iprite, di cui sospettava che Gheddafi fosse in possesso. C’è da aggiungere, infine, il non meglio precisato attacco aereo in Sudan nella notte tra mercoledì e giovedì. L’episodio è ancora più contorto dei rumor di Libia. Si tratterebbe di un raid avvenuto a Port Sudan, in cui due persone sarebbero rimaste uccise. Obiettivo della missione: Abdel Latif Ashkar, alias “Mister arming of Hamas” e successore di quel Mahmud alMabhouh, ucciso a Dubai nel gennaio 2010 da un gruppo di spie di non precisata origine. È morto anche Ashkar? Chi può dirlo? Il governo di Khartoum ha accusato Israele della responsabilità del raid. Lo Stato maggiore israeliano si è detto estraneo alla vicenda.Tuttavia ieri, il Jewish journal – testata di cui si evince la linea politica – plaudeva al successo dell’operazione. L’assassinio di Ashkar, infine, è stato smentito sia da Hamas sia dalla famiglia del diretto interessato. Infine c’è l’incognita egiziana. Caduto il faraone, per Israele è venuto a mancare il filtro che conteneva il traffico di armi e uomini fra la Striscia e il Sinai. Il vuoto di potere al Cairo, tuttavia, non è detto che faccia gioco ad Hamas. Chiunque salirà al potere in Egitto, fosse anche un qualcuno vicino alla Fratellanza musulmana, darà la priorità ai rapporti con i vecchi interlocutori del regime (Usa, Europa e Israele), come pure ai governi arabi legittimamente costituiti. Cosa che Hamas certo non è.
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
pagina 30 • 9 aprile 2011
il personaggio della settimana Laurent Gbagbo: classe 1945, socialista, esiliato, imprigionato e da dieci anni presidente
Il Cicerone assassino
Ama i classici latini ma non li mette in pratica: chiuso con la moglie in un bunker, non molla lo scettro del potere. Ecco chi è l’uomo che ha trascinato la Costa d’Avorio sull’orlo del baratro di Luisa Arezzo o davano tutti per spacciato, pronto ad accettare esilio e resa, un uomo a cui restavano sì o no una manciata di ore, ma Laurent Gbagbo è deciso a vendere cara la pelle. Asserragliato (ed assediato) nel suo palazzo-bunker ad Abidjan (nonostante le trattative per la sua uscita di scena, benché venga detto il contrario, continuino), il presidente uscente della Costa d’Avorio non solo ha negato di essere prossimo alla resa ma ha ribadito di non avere nessuna intenzione di andarsene. «Perché mai dovrei rinunciare al potere? Io non riconosco affatto la vittoria di Alassane Ouattara (il presidente riconosciuto dalla comunità internazionale) e trovo veramente assurdo che il futuro del mio paese sia diventato una sorta di partita a poker tra alcune capitali straniere», ha detto in un’intervista alla rete televisiva francese Lci. «L’esercito ha chiesto la sospensione delle ostilità e ne sta discutendo con le altre forze sul campo ma sul piano politico non è stata presa assolutamente nessuna decisione», ha aggiunto. Nell’intervista all’emittente francese, ha detto anche che l’unico modo per far tornare la pace in Costa d’Avorio è che il suo rivale accetti un confronto faccia a faccia con lui, un leit motiv che lo accompagna da mesi, un po’ come il banner di Sky Tg24 che dopo l’ennesimo “no” ricevuto da Berlusconi per un faccia a faccia con l’opposizione, ha deciso di bypassre il nostro presidente del Consiglio chiedendo il sostegno agli ascoltatori.
L
Insomma, il presidente Gbagbo non molla e sfodera un piglio agguerrito (certo, magari destinato solo ad alzare la posta in gioco della sua fuoriuscita) assolutamente in controtendenza con chi lo vedeva già pronto a gettare la spugna. Anche se l’ostracismo della comunità internazionale (ormai lo ha abbandonato anche l’Unione africana) ne segnano co-
munque il destino e fanno di lui un presidente accerchiato. La situazione forse sarebbe potuta essere diversa se l’attenzione politica e dei media si fosse concentrata sulla crisi ivoriana, ma purtroppo le manifestazioni di protesta in Algeria prima (è dal 28 novembre che perdura questo scontro) e in Tunisia, Egitto, Libia,Yemen, Siria e Bahrein poi, hanno quasi eclissato lo scontro politico in corso ad Abidjan dove due candidati alla presidenza - il capo di stato uscente Laurent Gbagbo per l’appunto e il candidato dell’opposizione Alassane Ouattara (personaggio tutt’altro che raccomandabile, ma appoggiato dalla comunità internazionale, Francia in primis, non dimentichiamoci che Nicolas Sarkozy ha celebrato il suo secondo matrimonio quando era sindaco di Neuilly-sur-Seine) – sostengono entrambi di aver vinto il ballottaggio invernale per le presidenziali. Un disinteresse ingiustificato, visto che la crisi ivoriana è quella che ha finora prodotto il più alto numero di morti accertati (oltre duemila). Drammatico anche il flusso dei migranti visto che gli ivoriani fuggono temendo il peggio: a una media di 800 al giorno, cercano scampo nella vicina Liberia dove si stima che vi siano già 40mila profughi. Infine i danni sono enormi tenuto conto che l’economia del Paese già sconta gli effetti di otto anni di instabilità e tensioni, iniziate con il fallito colpo di stato contro il presidente Gbagbo organizzato nel settembre del 2002, in seguito al quale il paese è stato diviso in due: il nord in mano alle forze antigovernative, raccolte sotto la sigla Forze Nuove, il resto del territorio controllato dall’esercito fedele a Gbagbo e una missione Onu, la Onuci, a fare da cuscinetto lungo la linea di confine. Sarebbe troppo facile (e persino riduttivo) liquidare l’attaccamento al potere di Laurent Gbagbo con un semplice profilo biografico e, per quanto possibile, psicologico. Al di là della sua follia personale, bisogna scavare nella storia e nella sociologia della Costa D’Avorio per capire le ragioni del suo ostracismo. E queste ragioni ci spiegano: primo che una parte della popolazione ancora lo appoggia. Secondo che nessuno crede che il dopo Gbagbo possa essere migliore del presente. Perché Alassane Ouattara, il presidente riconosciuto (in corsa da oltre vent’anni!) dalla comunità internazionale, per molti rappresenta il classico: dalla padella alla brace. E per l’Occidente di fatto corrisponde alla famosa definizione kissingeriana: «È un bastardo, ma almeno è il nostro bastar-
do». Ci sono stati uomini molto più attaccati al potere capaci di andarsene: vedi Mobutu Sese Seko, il dittatore dell’ex Zaire che messo dinnanzi all’avanzata di Laurent-Désiré Kabila si fece da parte, volando alla volta di un esilio dorato in Marocco. Uomini, come Mubarak e Ben Ali poi, che non sono arrivati al punto di trattare un’umiliante resa con un semplice ambasciatore: esattamente quello che sta accadendo oggi a Gbagbo. Che è chiaramente pronto a scatenare una guerra civile.
Laurent Koudou Gbagbo è nato nel 1945 in una famiglia cattolica (di etnia Beté) vicino Gagnoa, nel lussureggiante distretto occidentale delle piantagioni di cacao. Soprannominato “Cicerone” per la sua sfrenata passione per il Latino (che lo porterà a laurearsi in Storia romana all’università di Abidjan e a prendere successivamente un Phd), diventa prima professore e poi preside della facoltà di lingue e culture straniere di Abidjan. Nel 1982 dà vita ad un movimento civile - il Fronte popolare ivoriano - che si propone come primo obiettivo quello di promuovere una profonda riflessione istituzionale circa le riforme da attuare nel Paese, a partire dalla richiesta del multipartitismo. Una proposta che - nel paese del partito unico voluto dal Felix Houphouet Boigny (già deputato francese e primo presidente ivoriano dopo l’indipendenza da Parigi il 7 agosto 1960) - lo costrinse a sei anni d’asilo in terra francese, dal 1982 al 1988. Dove si rifugiò assieme a sua moglie: Simone Ehivet, figura controversa, sicuramente donna di grande polso, soprannominata dagli ivoriani, per la sua influenza sulla politica del Paese (è presidente del gruppo parlamentare Fpi) e soprattutto sul marito, “Hillary Clinton dei Tropici”. Moglie di Gbagbo in seconde nozze, da lui ha avuto 2 dei suoi 5 figli, nel 2008 è stata sospettata di essere collegata all’omicidio del giornalista canadese Guy André Kieffer, che da alcuni mesi indagava sulla corruzione politica del Paese e del governo. Tanto da essere stata convocata formalmente da un magistrato francese (lei si è sempre rifiutata). Secondo alcune voci, tirerebbe le fila di presunti squadroni della morte, ma a fronte di varie indagini tali voci non hanno trovate conferme. Ma facciamo un passo indietro, storicamente parlando, e torniamo al primo presidente Boigny. Di etnia Baoulé, famoso anche per aver ideato e realizzato
9 aprile 2011 • pagina 31
dipartimenti. D’altra parte sembra del tutto probabile che nel resto del paese Gbagbo abbia fatto altrettanto. Siccome Nazioni Unite, Unione Europea, Ecowas (l’organismo regionale di cui la Costa d’Avorio fa parte), Stati Uniti, Unione Europea e Unione Africana si sono schierati dalla parte di Ouattara, che nel frattempo ha nominato primo ministro Guillaume Soro (ex capo delle Forze Nuove che tentarono il golpe nel 2002), la maggior parte delle analisi spiegano che l’unico ostacolo alla soluzione della crisi è l’attaccamento al potere di Gbagbo che rifiuta di cedere il comando all’avversario, indifferente al fatto che così facendo si rende responsabile di far degenerare lo scontro politico in un conflitto civile cruento come è successo in Kenya e in Zimbabwe dopo le elezioni del 2007 e 2008 o, peggio ancora, come accadde in Rwanda nel 1994.
la copia esatta della Basilica di San Pietro a Yamoussoukro, per il costo di 300 milioni di dollari, aveva designato come suo successore il presidente dell’assemblea nazionale Henry Koran Badié, ex ambasciatore negli Stati Uniti, che aveva avuto la meglio, in quella che venne definita la “battaglia della successione” proprio su Alassane Ouattara, il nuovo presidente e all’epoca primo ministro ed economista del Fondo Monetario Internazionale. Badié, che nel corso del suo governo aveva portato avanti una dura repressione nei confronti di Ouattara e di tutti coloro che, come lui, non erano in grado di dimostrare di essere ivoriani “puri” (elemento costante, questo, nelle lotte politiche per il controllo del paese africano, in cui coesistono diverse etnie, tra le quali una componente di ivoriani originari del Burkina Faso - tra i quali, si dice, lo stesso Ouattara - che occupano stabilmente la parte nord) venne rovesciato, nella notte di Natale
Da quelle elezioni, tra l’altro, era stato escluso lo stesso Ouattara, perché non in grado di dimostrare che i propri genitori erano entrambi ivoriani. La pace durò appena due anni, fino al 19 settembre del 2002, quando fallì un nuovo tentativo di golpe, nel quale rimase ucciso lo stesso generale Guei, misteriosamente assassinato due giorni dopo: un mancato colpo di stato, sventato grazie ad un accordo che prevedeva che Gbagbo restasse presidente, ma affiancato da un ministro neutrale. Un accordo che durò appena due anni, fino al novembre del 2004, quando i ribelli del nord si rifiutarono di deporre le armi. Nel 2005, intanto, sarebbe scaduto il primo mandato di Gbagbo, che fu prorogato di anno in anno nella speranza di una soluzione del conflitto. Una guerra civile che si trascinò fino all’accordo di Ouagadougou del 4 marzo 2007, dopo il quale Guillaume Soro, il leader delle forze ribelli, venne nominato dal presidente
Non si sa quale fra i candidati abbia vinto il ballottaggio del 28 novembre: la proclamazione non è figlia di alcun riscontro oggettivo. È stata faziosa del 1999, da un colpo di stato militare, per mano dell’esercito regolare ivoriano, il cui comandante in capo era il giovane generale Robert Guei. Già fedelissimo di Boigny, e pur non avendo partecipato di persona al golpe, Guei venne incaricato di gestire il potere fino alle future elezioni: che avvennero nell’ottobre del 2000, e che segnarono la vittoria di Laurent Gbagbo, con il 59% dei voti. Vittoria che non venne riconosciuta da Guei fino al 26 ottobre, giorno in cui una rivolta popolare consegnò il potere allo stesso Gbagbo, che divenne il primo presidente eletto nella storia della Costa d’Avorio.
Nella pagina a fianco, Laurent Gbagbo. In alto, la moglie Simone Ehivet e, a fianco, un soldato
Gbagbo primo ministro. Le previste elezioni, invece, hanno continuato a subire rinvii, anno dopo anno, fino al 28 novembre scorso. Pressato dalle richieste internazionali, la Costa d’Avorio è dovuta andare al voto. Ma non c’è dubbio che questo passo fosse ancora prematuro. Perché al di là dei risultati annunciati, nessuno in realtà può dire con certezza chi ha vinto il ballottaggio del 28 novembre: accreditare Ouattara o Gbagbo è una scelta, non il risultato di un riscontro dei fatti. La Commissione elettorale ivoriana ha proclamato vincitore Ouattara con il 54,1% dei voti. Ma lo ha fatto oltre il termine stabilito dalla costituzione la quale prevede in questo caso che l’incarico di nominare il capo di stato passi al Consiglio costituzionale. Quest’ultimo il 4 dicembre ha ribaltato il risultato comunicato dalla Commissione elettorale attribuendo a Gabgbo il 51% delle preferenze. Tutti dicono che il Consiglio costituzionale si è espresso in questo modo perché è in mano a Gbagbo dal momento che la maggior parte dei suoi membri sono stati da lui nominati. Ma è altresi vero che la Commissione elettorale è invece composta da membri per lo più vicini a Ouattara. È verosimile inoltre che nel nord Forze Nuove abbia fatto il possibile per manipolare i risultati a favore di Ouattara, il che spiegherebbe la decisione del Consiglio costituzionale di annullare il voto in nove
Questo è ciò che al momento si sta cercando di evitare. Ma ciò non significa che ci si riesca. Perché, sebbene Alassane Ouattara - salvo un improbabile colpo di scena - presto o tardi riuscirà a insediarsi, è anche vero che da quel momento dovrà cominciare a pagare i debiti ai suoi numerosi creditori in attesa, come ben spiega su Slateafrique.com, lo scrittore e giornalista ivoriano, Venance Konan. E i “grazie”che dovrà pronunciare una volta salito al potere influenzeranno il futuro della Costa d’Avorio. I primi a presentare il conto saranno ovviamente tutti i partigiani che lo sostengono da lungo tempo, che hanno sfidato vessazioni, incarcerazioni, torture e persino la morte, ma che non hanno mai dubitato di lui. Si tratta dei compagni di sempre, dei fedeli tra i fedeli, e della gran parte della popolazione del nord della Costa d’Avorio. È innegabile che Ouattara non sarebbe mai arrivato al potere senza il sostegno indefesso di tutta questa gente, tra cui molti che hanno dovuto soffrire come martiri sotto i regimi di Henri Konan Bedié, Robert Guei e Gbagbo. È dunque a buon diritto che esigeranno dal nuovo capo di Stato la loro ricompensa, o la loro parte della torta, magari dei posti importanti nell’apparato statale. Così facendo, però, Ouattara correrà il rischio di vedersi accusato di formare un potere etnocentrico. Già molti mormorii sono stati uditi ad Abidjan quando ha nominato i suoi primi ambasciatori nel mondo: i primi quattro, inviati a Parigi, Washington, Londra e alle Nazioni Unite, sono tutti originari del nord. Per non parlare di quelli che hanno accompagnato la nomina di Guillaume Soro, ex capo dei ribelli, a suo primo ministro e ministro della Difesa. Ma se questo era il prezzo da pagare per spingere Gbagbo all’angolo, è anche vero che Soro - classe 1972 - ha dalla sua parte l’età e un grande appetito. E potrebbe non voler restare a fare il numero 2. E subito dopo la dipartita di Gbagbo aprire un altro fronte di crisi. Un dato però è certo: 30 anni fa il prodotto interno lordo pro capite ivoriano era di 2.864 dollari, oggi non arriva a 1.700. Il paese del miracolo economico, portato a esempio all’epoca del primo presidente Felix Houphouet-Boigny, oggi è al 149° posto dell’Indice dello Sviluppo Umano dell’Undp, il tasso di mortalità materna è uno dei più alti del mondo, 470 decessi su 100.000 nati vivi, e 114 bambini su mille non raggiungono i cinque anni.