mobydick
ISSN 1827-8817
ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
10416
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 16 APRILE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il voto sulla prescrizione breve rischia di diventare una vittoria di Pirro: il partito del premier sta implodendo
Apriamo la Terza Repubblica Appello bipartisan di Pisanu e Veltroni per un governo di tregua L’esponente Pdl e l’ex leader Pd firmano una lettera comune per superare la “guerra istituzionale”. La lotta per la successione a Berlusconi sta rendendo ancora più pericolante il quadro politico A cosa puntano gli islamo-fascisti
Una ricerca Lorien su fiducia nei partiti e intenzioni di voto
L’esecuzione di Arrigoni: ora Hamas non controlla più Gaza
NUOVI SISTEMI
Esecutivo mai così in basso, Bisogna agire Casini il leader più stimato con urgenza,
In pochi mesi la maggioranza dal 27,8 al 19,9 di gradimento È un’Italia inedita, quella che emerge da una ricerca dell’Istituto Lorien Consulting: fuori dai cliché da guerra civile destra-sinistra e infastidita da un governo che si occupa solo di edificare un fortino di leggi personali intorno al premier. Tanto per incominciare, il poco meno di otto mesi, il governo ha perso otto punti percentuali di consensi, passando da 27,8% a 19,9%, mente il gradimento di Berlusconi è tramontato fino al 23,3%. Forse anche per questo è clamorosa, invece, la costante crescita di stima per Pier Ferdinando Casini, ormai al 30,6% di fiducia. Dato che si specchia nel 12,5% di consensi elettoriali assegnati dagli italiani al Nuovo Polo.
Le tabelle alle pagine • 2, 4 e 6
Parla Massimo Cacciari
Gli opposti stupidismi (bellici)
o sarà il caos
di Enrico Cisnetto sondaggi sono negativi, stavolta lascia». «Macché, prende tutti per i fondelli, vuole che i pretoriani si scannino e si riconfermi la sua indispensabilità». Siamo di fronte all’ennesimo dibattito inutile. Chi in queste ore s’interroga sull’attendibilità o meno della volontà di Berlusconi di non ricandidarsi a premier, spreca il suo tempo. a pagina 4
«I
Napolitano scrive alla madre: «Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze civili». E la Striscia è sempre più tentata da al Qaeda Antonio Picasso • pagina 24
Pdl, la battaglia di successione
In gioco il seggio per settembre «Il premier sa Il caso Asor Rosa. Non è il tempo che è finito. Fotografia di un delfino. Non vogliono che l’Onu Ora Terzo Polo del baratro Ma di un curatore riconosca la Palestina e Montezemolo» di destra e sinistra fallimentare di Enrico Singer
l massacro della famiglia Fogel - padre, madre e tre bambini sgozzati nel sonno - nel villaggio di Itamar, nella Cisgiordania settentrionale, esattamente un mese fa. L’attentato alla stazione degli autobus di Gerusalemme, il primo dopo sette anni, il 23 marzo scorso. La pioggia di razzi Kassam che dalla Striscia di Gaza si rovescia sulle cittadine israeliane con il corollario della reazione da parte dei cacciabombardieri di Tsahal con altre vittime. L’ingresso nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane che, con l’autorizzazione del governo provvisorio egiziano, hanno attraversato il Canale di Suez per la prima volta dal 1979. a pagina 26
I
«L’opposizione resta Solo un bipolarismo Tremonti è l’unico selvaggio può litigare che ha già un nuovo debole, occorre una scelta di rottura» sul golpe impossibile progetto: ecco quale Errico Novi • pagina 3
Riccardo Paradisi • pagina 5
seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
Stefanini e Palombi • pagine 6 e 7 NUMERO
74 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 16 aprile 2011
la crisi italiana
La forzatura sul processo breve e l’inevitabile intervento di Napolitano: un punto di svolta per la maggioranza
Aria di fine impero
La lotta per la successione destabilizza il quadro politico e la lettera di Pisanu e Veltroni rompe il conformismo bipolare: «Governo di tregua» di Franco Insardà
ROMA. È da sempre il Cavaliere dei sondaggi. Silvio Berlusconi li consulta, li commissiona e li tiene in grande considerazione soprattutto quando ci sono appuntamenti elettorali e momenti particolari della sua attività. Come dimenticare la sua visita in Bielorussia, alla fine di novembre del 2009, e la sua ammirazione per il gradimento che il dittatore Lukashenko aveva ottenuto alle elezioni (l’80 per cento).
In quest’ultimo periodo il suo umore non sarà certamente alle stelle vista l’aria che tira sia sul gradimento degli italiani per lui, sia per la sua maggioranza e per il governo. Il sondaggio che pubblichiamo, effettuato dalla Lorien Consulting, evidenzia come il governo sia in caduta libera da settembre dello scorso anno. «La rilevazione è dell’11 aprile - dice Antonio Valente, amministratore delegato della Lorien Consulting - ed è stato effettuata a livello nazionale su mille casi». Dal sondaggio emerge che anche il Cavaliere è passato dal 30,3 per cento del settembre 2010, dopo essere salito al 32,3 per cento in occasione della fiducia del del 14 dicembre, al 23,3 per cento. Per lui l’unica magra consolazione è che negli ultimi quindici giorni ha recuperato uno 0,8 per cento, ma per un campione di consensi è ben poca cosa. Per quanto riguarda i leader, invece, si registra una notevole avanzata di Pier Ferdinando Casini che, insieme al governatore pugliese Nichi Vendola, è considerato tra i più autorevoli dagli italiani. Lo stesso vale per l’Udc che, con Api e Lega Nord, fa registrare un aumento significativo. L’aridità dei numeri, però, consegna un quadro della situazione chiaro. Il berlusconismo è decisamente nella sua fase conclusiva e il finto bipolarismo mostra tutte le sue criticità, ma mentre prima erano solo in pochi a dirlo, giorno dopo giorno questa consapevo-
lezza aumenta nella stessa maggioranza e nella classe dirigente del Paese. Non è un caso che il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, si sia lamentata che gli imprenditori italiani si sentono abbandonati o che l’ex numero uno di viale dell’Astronomia Luca Cordero di Montezemolo sembra voler rompere gli indugi per affrontare la sfida politica. Anche sul fronte interno al Pdl si registrano fibrillazioni, soprattutto in quella parte del partito più moderata che in questi ultimi anni è stata un po’ messa da parte, a tutto vantaggio dei fedelissimi del Cavaliere e che, come l’ex ministro Claudio Scajola, chiede di avere un ruolo e un confronto all’interno del Pdl. Fibrillazioni che sono anche aumentate da quando Berlusconi ha ufficializzato, subito dopo l’approvazione a Montecitorio della legge sul processo breve, il ministro della Giusti-
Prescrizione breve. solo il 29,4% degli italiani è favorevole ROMA. L’Istituto Lorien Consulting ha condotto una ricerca sugli uomori politici degli italiani realizzando un sondaggio su un campione rappresentativo della popolazione maggiorenne italiana di 1.000 cittadini. A proposito della norma sulla prescrizione breve appena votata dal Parlamento, si deduce che solo il 29,4 gli italiani si dice favorevole alla norma. Il 41,8% è nettamente contrario alla legge sul processo breve e sulla prescirzione breve. Mentre il 21,5%, se fosse stato chiamato a votare quella legge avrebbe preferito astenersi. Insomma, al contrario di quanto accaduto in Parlamento, con i deputati sostanzialmente divisi in due, nel Paese reale solo un’esigua minoranza degli italiani avrebbe approvato la norma.
zia Angelino Alfano come suo successore. Tutto questo in un periodo molto particolare come la vigilia delle elezioni amministrative che per città come Milano, Napoli, Torino e Bologna assumono un significato politico molto significativo.
Ma il fatto più importante delle ultime ore è senza dubbio la proposta congiunta lanciata da Giuseppe Pisanu e Walter Veltroni, che in una lettera, pubblicata dal Corriere della Sera, ritengono che sia «necessario un periodo di decantazione, di rasserenamento del Paese». «Perciò un nuovo governo – scrivono Pisanu e Veltroni, – che nascesse da un ampio ed esauriente confronto parlamentare, potrebbe porre mano alle emergenze in corso, riformare la legge elettorale e consentire poi ai cittadini di scegliere tra proposte alternative di governo, proposte non “contro”qualcuno ma “per l’Italia”». Una sorta di nascita della Terza Repubblica perché «dopo venti anni di bassa crescita e di contrasti paralizzanti – spiegano il presidente della commissione Antimafia e l’ex segretario del Pd –, è giunto il tempo di voltare pagina e segnare una netta discontinuità con la fase attuale. Dobbiamo far nascere un nuovo clima di dialogo fra visioni e indirizzi programmatici differenti. Uniti sui valori fondanti e sulle regole del gioco». Pisanu e Veltroni interpretano un sentimento che si sta diffondendo nel Paese, anche dopo le vicende legate all’approvazione alla Camera della legge sul processo breve e alla inevitabile presa di posizione del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Infatti nella lettera spiegano che «non si può restare inerti e silenziosi quando si vede il Parlamento ridursi a teatro di manifestazioni indegne; l’equilibrio dei poteri democratici vacillare quotidianamente; lo spirito pubblico spegnersi nella corruzione dilagante e persino nel disconoscimento dell’unità nazionale e dell’Unione europea».
Una guerra civile latente attraversa l’Italia, passando dai nodi politico-istituzionali, ai rapporti con l’Unione europea, fino al dibattito culturale, è l’evidente segnale che non si può perdere altro tempo. Così come osservano anche Pisanu e Veltroni nella loro lettera-appello: «Altro che scontri e risse: le forze politiche hanno il dovere di mobilitare le energie migliori al servizio del bene comune». Per i due la soluzione a questo stato di cose non è certamente quella delle elezioni anticipate, perchè come scrivono: «Noi paventiamo il rischio, in ragione del clima politico e della legge elettorale,che esse si risolvano in uno scontro frontale dagli esiti imprevedibili e tra schieramenti costruiti più sulla contrapposizione che sulla proposta».
Sull’idea lanciata da Pisanu e Veltroni si sono espressi in maniera favorevole molti esponenti politici tra i quali lo stesso presidente della Camera Gianfranco Fini che ha detto di trovarla «condivisibile dalla prima all’ultima parola». Anche l’associazione di Enrico Letta “Trecentosessanta” in una nota sottolinea come l’immagine della decantazione utilizzata da Pisanu e Veltroni sia «molto appropriata per raccontare la necessità di questo momento di transizione». Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione, secondo il quale «la lettera di Pisanu e Veltroni va decisamente nella giusta direzione. Il Paese ha bisogno di riaprire un dialogo politico serio e corretto. Dalla grave situazione di crisi in cui ci troviamo, crisi economica, politica, istituzionale, sociale e morale, ne possiamo solo uscire tutti assieme». Sul fronte Pdl si registra la dichiarazione del coordinatore Sandro Bondi: «Stimo Veltroni e Pisanu, non condivido per niente le motivazioni e le proposte contenute nella loro lettera aperta, ma reputo che prenderla in esame e discuterla sia utile per elevare il tenore del confronto politico che essi stessi auspicano».
La ricerca Lorien Le azioni del governo sono in caduta libera, passando dal 27,8% di consensi nel settembre scorso al 19,9% di oggi: segno che gli italiani percepiscono perfettamente l’inattività dell’esecutivo occupato solo a confezionare scudi legali al premier sotto processo. È utile notare che i consensi al governo sono aumentati dopo il voto di fiducia del 14 dicembre ma poi sono di nuovo calati drasticamente in concomitanza con la crisi libica.
Solo un italiano su 5 approva l’esecutivo
Base: Totale Campione
Dal filosofo e padre del Pd critiche a Confindustria: «Si schiera solo a vittoria certa»
«Il premier sa che il suo ciclo è finito, Terzo Polo e Montezemolo unica chance» Cacciari: se il Cavaliere pensasse di ricandidarsi nel 2013 andrebbe ricoverato. Opposizione debole, ma il presidente della Ferrari può rompere gli equilibri di Errico Novi
Nelle foto: in alto Massimo Cacciari; sopra Giuseppe Pisanu; in basso Walter Veltroni. Nella pagina precedente il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano
ROMA. E certo che i segnali ci sono. Forse il cambio di scena che pure si intravede, però, avverrebbe più in fretta se in Italia «ci fosse l’abitudine di schierarsi prima di conoscere il nome del vincitore». Massimo Cacciari osserva con la consueta freddezza questa fase di “trapasso”. Non gli sfuggono gli indizi di una crisi ormai irreversibile della vicenda berlusconiana, ma nemmeno «le esitazioni di Confindustria, per esempio, che si limita a fare analisi identiche a quelle di Tremonti. Si dicono preoccupati per la crisi, ma anche il ministro lo è. Non mi pare di aver notato invece un appoggio esplicito alla discesa in campo di Montezemolo, ad esempio. Lui sì in grado, potenzialmente, di alterare gli equilibri». Chi pure ha capito che una stagione va a chiudersi, aggiunge il filosofo che è stato tra i padri del Pd, è proprio Berlusconi: «L’uscita su Alfano lo dimostra. Ma attenti: è un’investitura che porta il segno del potere, non proprio un cedimento». D’altronde sarebbe impossibile anche per il premier ignorare gli scricchiolii. E l’iniziativa comune di Pisanu e Veltroni è un’altra prova di un quadro che si sta modificando. Direi che è una giusta affermazione di buone intenzioni. Nella lettera tornano le questioni di cui si parlava in autunno, quando il governo era più in difficoltà di quanto lo sia adesso. Tutte cose condivisibili: è chiaro che ci vorrebbe una fase di decantazione, un esecutivo di larghe intese, un clima adatto ad avviare le riforme necessarie. Ma tutto è subordinato all’uscita di scena del Cavaliere. Che, purtroppo, non si vede. Un sondaggio commissionato dall’Udc dà il governo in forte crisi di popolarità, con lo stesso Berlusconi in sostanziale calo.
C’è sicuramente del vero in questi sondaggi, non ho difficoltà a credere che sia così. Ma non vedo cosa possa succedere di nuovo fino a quando l’opposizione resta questa. In che senso? È un’opposizione debole. Il Terzo Polo mi pare lontano dal definirsi. Il Pd non ha superato nessuna delle sue contraddizioni. In una situazione del genere, le persone che avevano votato Pdl lo farebbero di nuovo, nel 90 per cento dei casi. Magari turandosi il naso. Lei dice che la crisi politica della maggioranza da sola non basta. Dal punto di vista parlamentare non c’è spazio per una spallata. L’occasione è passata il 14 dicembre ed è andata perduta. Ma la questione è più generale: se ci fosse un’opposizione con le idee più chiare Berlusconi sarebbe messo alle corde. Semplici appelli non bastano. Cosa serve esattamente? Il Terzo Polo dovrebbe evolvere in qualcosa di più. La discesa in campo di Montezemolo per esempio altererebbe profondamente gli equilibri attuali. Motezemolo potrebbe avere consensi molto ampi, sottraendoli al centrodestra. Ma si impegnerà sul serio? Ancora non è chiaro. Il presidente della Ferrari è tornato a criticare con asprezza il governo e si è trovato su posizioni vicine a quelle di Emma Marcegaglia. Dicono cose sovrapponibili, ma Confindustria ben si guarda dall’appoggiare esplicitamente un ingresso in politica di Montezemolo. Non ci credono fino in fondo. O meglio, hanno paura di esporsi. Ancora non sanno chi vince. E in Italia, si sa, ci si sbilancia solo quando è chiaro il nome del vincitore. Lei crede che Confindustria resterebbe impassibile anche se Monte-
zemolo rompesse gli indugi? Certo a quel punto dovrebbero dire come la pensano. Dovrebbero spiegare se ritengono o no necessario un governo di transizione. Finché si limitano ad annunciare che c’è la crisi... L’investitura di Alfano, dicono, è la solita astuzia tattica di Berlusconi. E se invece nascesse dalla consapevolezza del premier che il suo ciclo si è chiuso davvero? Penso che Berlusconi lo comprenda eccome, di essere al tramonto. E che attenda solo di sistemare gli affari personali. Certo che ha capito. Dà chiari segni di stanchezza. Ma l’uscita su Alfano gli serve anche a dire: posso pure andarmene ma il successore lo scelgo io. È un’affermazione di potere. Il suo partito si divide in correnti, lui avverte: arrotate pure i coltelli, tanto la scelta sul dopo sta sempre a me. Se è così, è già un cambio di prospettiva notevole. Mettiamola così: l’uomo di cui parliamo ha dimostrato di non essere troppo a posto con la testa. Ma vuole che non veda lui stesso quanto sarebbe folle ricandidarsi nel 2013? A 75 anni? Che facciamo, il ventennio? Un altro? Vuole davvero che il Cavaliere dica di voler fare ancora il premier? Magari sogna il Colle. Ma se pensasse di ricandidarsi presidente del Consiglio ci vorrebbe il 118 e un serio supporto clinico. A tutto c’è un limite. Nel Pdl hanno capito che il tramonto è iniziato? Certo. I due poli stanno franando. E nel Pd lo smottamento forte potrebbe esserci già dopo le amministrative. Nel Pdl bisognerà aspettare comunque che Berlusconi esca di scena. Fino a quel momento sopravviveranno. Ma certo, chi è là dentro si rende conto che i titoli di coda cominciano a scorrere.
La ricerca Lorien
Il Nuovo Polo decisivo per governare
Se si votasse oggi, il Senato non avrebbe una maggioranza e destra e sinistra sarebbero sostanzialmente appaiati alla Camera, con il Nuovo Polo al 12, per cento dei voti. Osservando i trend generali, si nota che il Pdl è in calo costante dal scorso dicembre mentre il Pd è sostanzialmente fermo intorno al 24% dei consensi. L’Udc, invece, è in crescita dallo scorso anno, come pure appaiono in forte rialzo le azioni del partito di Vendola.
Base: Dichiaranti voto
La discesa in campo del Cavaliere ha inquinato tutto, limitando il Paese a scegliere fra essere “anti” o “pro” Berlusconi
Urgenza e incoscienza L’uscita di scena del premier non comporta successione, perché il sistema politico che ha creato è “ad personam”. Serve subito un nuovo progetto per riscrivere le regole e chiudere la stagione della Seconda Repubblica di Enrico Cisnetto
sondaggi sono negativi, stavolta lascia». «No, sta solo testando le reazioni sul nome di Alfano». «Macché, prende tutti per i fondelli, vuole che i pretoriani si scannino e si riconfermi la sua indispensabilità». Siamo di fronte all’ennesimo dibattito inutile. Chi in queste ore s’interroga sull’attendibilità o meno dell’asserita volontà di Silvio Berlusconi di non ricandidarsi a premier, spreca il suo tempo. Perché quale che sia la scelta del Cavaliere – e io scommetto senza alcuna esitazione per quella, a lui naturale, dell’autoperpetuazione – il tema della successione non esiste, è un nonsenso. Infatti, la leadership carismatica, di stampo peronista, non può essere lasciata in eredità ad alcuno – anche ammesso, e comunque in questo caso non concesso, che tale sia la volontà dell’uscente di scena – ma può solo essere conquistata da qualcun altro che s’imponga con gli stessi mezzi. Diverso, invece, un passaggio di testimone che avvenisse nella dimensione politica. Ma non è questo il caso. Sia perché Berlusconi il ruolo di “padre nobile”, come ha ora definito un suo guidare il partito nella campagna elettorale per poi lasciare lo scettro del governo a qualche “figlio prediletto”, lo avrebbe potuto scegliere già nel 1994, quando molti gli consigliarono di mandare a palazzo Chigi qualcuno che di governo e di macchina dello Stato avesse esperienza, e di ritagliarsi lo spazio di leader di Forza Italia. Non lo fece, purtroppo.
«I
Ma sperarlo fu una puerile ingenuità. Non solo perché significava non conoscere bene il personaggio – il sottoscritto, ammaestrato dall’aver vissuto in prima persona le vicende Mondadori, non commise quell’errore – ma perché, soprattutto, significava non aver capito quali implicazioni avesse la scelta bipolar-maggioritario-leaderistica che lo portò, come “figlio” della stagione di Mani Pulite, a battere la “gioiosa macchina da guerra”di Occhetto. Scelta che non soltanto ha introdotto, in modo surrettizio rispetto al dettato costituzionale, la prassi della premiership strisciante, ma soprattutto ha permeato (nel senso di inquinato) la Seconda Repubblica della dinamica contrappositiva “berlusconiani-antiberlusconiani”, tuttora vigente, che per sua natura prevede la presenza sulla scena politica di Berlusconi e solo di lui, non di un suo sostituto. Quale che esso sia, e anche se fosse da lui indicato. Voglio dire, in altre parole, che così come per chiudere la stagione politica chiamata Seconda Repubblica occorre l’uscita di scena di Berlusconi, altrettanto l’eventuale chiusura dell’esperienza politica di Berlusconi comporta la fine della Seconda Repubblica. Rendendo con ciò impossibile la cosiddetta “successione”. Poi possiamo discutere, sia in termini di probabilità che di opportunità, se questo passaggio è realizzabile attraverso un qualche passaggio parlamentare – ma il 14 dicembre sembra aver messo una pesante ipoteca ne-
gativa su questa ipotesi – oppure direttamente per via elettorale. Opzioni, queste, molto importanti, perché a seconda di quale delle due strade si dovesse imboccare, gli scenari politici e i protagonisti, sarebbero destinati a cambiare. Naturalmente, tutto questo dipende molto da Berlusconi, ma non esclusivamente da lui. Voglio dire che il suo perpetuarsi, anche i dopo i reiterati e acclarati fallimenti, è dipeso in buona misura dall’incapacità dei suoi avversari di costruire e rappresentare agli italiani
Il centro-sinistra ha puntato tutto solo sul sentimento avverso al Cavaliere, raccogliendo così un’armata Brancaleone che poi gli ha impedito di governare un’alternativa. Attenzione, non solo un nome e una coalizione da contrapporgli, perché quello è avvenuto e per ben due volte è riuscito, ma l’idea di un sistema alternativo. Invece il centro-sinistra ha puntato tutto solo sul sentimento avverso a Berlusconi, raccogliendo così un’armata Brancaleone che poi gli ha impedito di governare, rispondendo alle osservazioni critiche relative al sistema di contrapposizione armata che si era creato con il banale, e inutile, auspicio che si potesse affermare un “bi-
polarismo maturo”. Senza capire che quello all’italiana è un bipolarismo armato non per sfortuna o immaturità, ma proprio perché si è costruito intorno alla figura di Berlusconi, a sua volta prodotto inevitabile delle contraddizioni insite nel processo di caduta della Prima Repubblica, nella fase malata di egemonia della magistratura sulla politica iniziata nel 1992 e tuttora vigente, e della scellerata scelta di cancellare i partiti e i loro radicamenti culturali a favore di un individualismo senza limiti che nel migliore dei casi ha prodotto leader ma non statisti e nel peggiore, quello che stiamo vivendo, un caravanserraglio di mediocri, incapaci e spesso lestofanti.
Dunque, sarà bene evitare di entrare per l’ennesima volta nel tunnel di una discussione tanto assurda quanto inutile. Berlusconi, anche volendolo, non può avere eredi. Con lui finirà la Seconda Repubblica, e il tema per chi pensa al futuro – speriamo più prossimo possibile – è quello di come dar vita alla Terza. Certo ponendo la questione di chi incarnerà questo passaggio, ma sapendo che sarebbe un errore esiziale – per chi lo commettesse, ma soprattutto per l’Italia – ripercorrere la strada tutta berlusconiana del preoccuparsi solo dell’individuazione dei leader, misurati sulla base del grado di consenso che gli deriva dalla loro immagine, e non dell’elaborazione delle idee, dei progetti, dei programmi. (www.enricocisnetto.it)
la crisi italiana
16 aprile 2011 • pagina 5
Preso tremendamente sul serio l’appello per «salvare la democrazia con i carabinieri»
Asor da sinistra, Rosa da destra: la guerra civile in un bicchiere Solo in un bipolarismo nevrotico come quello italiano il proclama del professore poteva trovare sponde polemiche così larghe di Riccardo Paradisi n quel di Capalbio, tra amene colline e verdi pascoli, Alberto Asor Rosa si starà lisciando i baffi per l’effetto prodotto dal proclama-appello per la restaurazione, dall’alto e previo intervento di polizia e carabinieri, della democrazia in Italia. Chi se lo sarebbe aspettato – dirà tra sé e sé il professore, in quell’emiciclo illuminato che è la sua mente – che l’ennesimo fremente temino indignato e allarmato sul fascismo incipiente, pubblicato sul Manifesto, avrebbe scatenato un tale casino? Che sarebbe stato preso così tremendamente sul serio, addirittura letto come bozza e prolegomeno teorico di un’approntabile tecnica per un colpo di stato… E invece il colpo di Asor Rosa va a segno e quel suo proclama, che peraltro non ha nemmeno tutti i congiuntivi a posto, viene registrato dai radar della contraerea non per quello che in fondo è – una bizzarria scomposta e delirante concepita tra lo spleen della passeggiata in campagna con il cane e il sentimento dell’impotenza politica, un’intemerata grottesca condotta con sprezzo del ridicolo meritevole al più di sorrisi di compatimento. No, il fremito asoriano, la sortita incendiaria, viene tradotta come il segnale atteso e finalmente impartito per la mobilitazione golpista, cenno d’innesco per le coup d’état, ordine impartito dal più alto momento pensante del direttorio giacobino italiano «alle forze sane dello Stato perché evitino la crisi verticale della democrazia… una prova di forza che scenda dall’alto, instaura un normale “stato di emergenza”, che si avvale più che di manifestanti generosi, dei carabinieri e della polizia di Stato, congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari...».
I
Le cose stanno in modo diverso naturalmente e le inquadra con la giusta misura sul Corriere della Sera Pierluigi Battista. Trattasi, dice Battista, dell’eruzione «d’un’emozione primaria di frustrazione culturale», di «disperazione politica», patologie di cui chi vi è affetto dovrebbe suscitare costernazione ma non allarme: «Mai come oggi – scrive Battista – serpeggia nella sinistra un’invincibile sfiducia nel voto, nella demo-
crazia, nel verdetto popolare che si esprime nelle urne. Mai come oggi si scende in piazza con cadenza pressoché quotidiana, dove l’indignazione surroga una fiducia in se stessi oramai prossima allo zero. Si invocano autorità terze, garanti, indipendenti, super partes, istituzionali nello spasmodico tentativo di ritrovare un equilibrio che lenisca il senso di svantaggio in cui la sinistra sembra irrimediabilmente immalinconirsi».
Ma poi diciamoci la verità a parte qualche manciata di malcentrati giustizialisti chi può prendere sul serio, anche a sinistra e persino nella sinistra più spinta, un appello come quello di Asor Rosa, scritto poi con quell’ufficialità, quella prosa assertiva e mobilitante da Scrittori e popolo, con quel sogno infantile e piccolo borghese di disporre di polizia e carabinieri. Il direttore di Repubblica manca poco che gli dia dell’imbecille ad Asor Rosa, dagli spalti del Pd si manifesta un senti-
Asor per la destra, che vi proietta l’incarnazione del grande inquisitore antiberlusconiano, Rosa per la sinistra che vi specchia la propria impotenza mento tra l’imbarazzo e l’incredulità: «Sono rimasto esterrefatto dalla lettura dell’editoriale di Asor Rosa sul Manifesto in cui propone lo stato di emergenza con carabinieri e polizia per risolvere i problemi politici di questa legislatura – afferma costernato il vicesegretario del Pd Enrico Letta – non ci sono parole per commentare simili assurde tesi». Oddio, è vero che tutto questo avviene dopo che Giuliano Ferrara ha ripreso e evidenziato l’alzata d’ingegno dell’italianista della Sapienza come è vero che Asor Rosa estremizza ed esaspera un sentimento diffuso sottotraccia come sogno inconfessabile e mostruosamen-
te proibito di certo goscismo ultrazionista, ma il fatto che nessuno si fosse mai spinto a dire chiaramente quello che Asor Rosa ha messo nero su bianco dimostra che quello del professore è il fuor d’opera d’un signore che confonde la narrativa con la realtà; errore blu, peraltro, per un fine conoscitore delle gabbie teoriche di quel poliziotto del pensiero che era Lucack. Eppure il fuor d’opera, l’assolo tremendista del professore incendia la prateria del dibattito politico-culturale. La destra lo prende sul serio e per riflesso condizionato tende l’orecchio ai suoi lai anche parte d’una sinistra magari contigua ma non racchiusa nel perimetro dell’altro philosoph del direttorio giacobino italiano: Paolo Flores d’Arcais anche lui aiutato nella scena dal doppio cognome settecentesco e floreale.
Potenza e miracolo del bipolarismo binario, un meccanismo così coatto e stretto da trasformare in materiale incendiario anche queruli professori in pensione che s’impancano a implacabili Saint just. Nome floreale, settecentesco e anche palindromo per assolvere fino in fondo all’esigenza di scena d’una rappresentazione da commedia dell’arte : Asor per la destra, che vi proietta l’incarnazione del grande inquisitore antiberlusconiano, Rosa per la sinistra che nel gioco di specchi fatalmente generato rivede in lui la luce di Antonio Gramsci leggendo in una dichiarazione d’impotenza l’ottimismo della volontà. Incredulo di tanta fama ma compreso nel ruolo il professore si gode il quarto d’ora di celebrità che il bipolarismo della clava non nega a nessuno di quelli che sparano qualche raffica verbale di mitra nel campo avverso, così, tanto per vedere l’effetto che fa. E per uno che come Asor Rosa scriveva ormai della sua arca di Noè domestica – il cane, il gatto, l’uccellino di casa ”come quartetto di voci che si fondono armonicamente senza solisti”, esito consolatorio e disneyano della perfetta società marxiana – l’effetto è quella che si dice una bella botta di vita.
la crisi italiana
pagina 6 • 16 aprile 2011
Breve storia dei “successori” rimasti impigliati nella rete di Berlusconi
Macché delfino, qui ci vuole un curatore fallimentare
Rimonta di Casini
Angelino Alfano è soltanto l’ultimo di una lista che parte da lontano. Ma non si può parlare di “erede”: il ruolo in lizza è quello di liquidatore di Maurizio Stefanini adesso tocca a Angelino Alfano. All’inizio fu Gianfranco Fini: quando il Cavaliere era appena sceso in campo, e cercava di agganciarsi a quella che sembrava la locomotiva inarrestabile della Destra. Tra parentesi: la metafora potrebbe ora evocare il ministro della Giustizia, che malgrado il curriculum formativo ultra-benpensante di giovanissimo segretario provinciale del movimento giovanile dc della natìa Agrigento, ospite del collegio Cardinal Ferrari, laureato in Giurisprudenza presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e dottore di ricerca in Diritto d’Impresa, è fin da ragazzino un noto fan del cantautore libertario e anarcoide Francesco Guccini. Non fosse che la Locomotiva della famosa canzone gucciniana, piuttosto che trainare, finiva per schiantarsi su una linea morta, con impeto da kamikaze… Poi venne Pier Ferdinando Casini: diventato Berlusconi Presidente del Consiglio nel 2001 dopo i sei anni di traversata nel deserto seguiti al ribaltone, quel nuovo erede designato era il tentativo di accreditare la propria immagine di continuatore della grande storia della Democrazia Cristiana. E anche Angelino Jolie, soprannome in realtà dovuto alla semplice assonanza, viene come si è già accennato da un pedigree del genere.
E
Un altro dei suoi molti soprannomi, d’altronde, è “il Monsignore”. E questo lascia intravedere un profilo addirittura andreottiano. Solo che lui non è di quelli che cercarono in qualche modo di aggiornare la gloriosa storia dello Scudo Crociato pur nel nuovo clima politico, ma nel 1994 visto il naufragio della barca si imbarcò subito direttamente in Forza Italia: di cui sarebbe divenuto nel 1996 deputato regionale, nel 2000 capogruppo all’assemblea siciliana e nel 2005, dopo l’elezione a deputato nazionale, coordinatore nell’Isola. Terzo dei delfini via via indicati, do-
po il ritorno al potere del 2008, fu Guido Bertolaso. Dopo due professionisti della politica, lo specialista in malattie tropicali e ospedali di guerra.
Il super-commissario a tutto: terremoto dell’Aquila, vulcani nelle Eolie, aree marittime di Lampedusa, bonifica del relitto della Haven, rischio bionucleare, Mondiali di ciclismo, presidenza del G8 del 2009, area archeologica romana… E qui c’era invece il messaggio del “partito del fare”, come premessa alla definitiva liquidazione di ogni residua fumisteria ideologica identitaria nel nuovo PdL. E anche Angelino Alfano ha un certo profilo di persona rapida nel fare: non fosse altro, studi in Diritto d’Impresa a parte, per essere stato, a 37 anni, il più giovane Ministro della Giustizia dell’Italia Repubblicana. Anche se, a dirla tutta, nell’epoca delle Carfagna e delle Minetti l’assurgere a incarichi importanti ad età ancora acerbe ha cessato di essere considerato un indice di particolare vocazione per la politica. Pur se l’essere uomo esenta se non altro Alfano da quel tipo di pettegolezzi che, magari a torto, ha finito per riversarsi su alcune star di sesso femminile più giovani della galassia berlusconiana. Non tutte: ieri Viviana Beccalossi o oggi Eugenia Meloni sono sempre state chiaramente giovani leader selezionate dalla militanza, e della stessa Gelmini neanche gli studenti che l’hanno contestata a tutto spiano hanno mai avanzato il sospetto che fosse stata selezionata per una sua particolare avvenenza… Comunque, Casini e Fini hanno poi rotto con Berlusconi. Si sono messi anzi alla testa di quel movimento che ha contestato il preteso “bipolarismo compiuto italiano” come una truffa. Mentre Bertolaso ha finito per essere travolto nel polverone di scandali che il Cavaliere si porta appresso: è materia di contendere per colpe sue
Base: Totale Campione
La ricerca Lorien I due leader politici nei quali gli italiani nutrono la fiducia maggiore sono Nichi Vendola (30,8%) e Pier Ferdinando Casini (30,6%) con la differenza sostanziale che il primo è in forte discesa mentre Casini è in crescita. In lieve crescita rispetto al rilevamento precedente (il 23 marzo scorso) è anche Berlusconi, passato dal 22,5% al 23,3%; ma per il premier nel complesso si tratta di un risultato lontanissimo dalle cifre trionfali che egli stesso ha da tempo smesso di sbandierare. Da segnalare anche il buon risultato di Gianfranco Fini (21,9%).
16 aprile 2011 • pagina 7
Scajola,Verdini, gli ex colonnelli di An: siglano una tregua in attesa dell’inevitabile diaspora
Il solo che ha già un progetto si chiama Giulio Tremonti
Aumentano le voci che vogliono il superministro in cordata con Sacconi, Bonanni e Fioroni per fare un nuovo soggetto politico di Marco Palombi acciamo una bella tregua. Alla fine tutti i capibastone, i valvassori, i signori della guerra di quell’esercito federato che è il PdL hanno deciso di darsi una calmata in vista del voto amministrativo. L’hanno fatto alla cena di giovedì sera, a cui stavolta hanno partecipato tutte le componenti e tutti i leaderini, tranne i due che contino qualcosa: Berlusconi, rimasto a palazzo Grazioli, e Tremonti, che era a Washington per il G20. «Abbiamo fumato il calumet della pace», ha detto Fabrizio Cicchitto alla fine, «il gruppo dirigente è stretto attorno al premier». Più che stretto, però, il gruppo dirigente è aggrappato al premier, l’unica boa che li tenga in qualche modo insieme, peraltro al governo. Insomma, bloccata l’operazione “azzurri della libertà”immaginata dall’inquieto Claudio Scajola, messa la mordacchia all’agitato sudista Gianfranco Miccichè, fatta una cazziata agli ex colonnelli di An ormai orfani di padre, le prospettive per il corpaccione del partito del predellino si spostano alla fine della legislatura, a quando – come ha detto e poi smentito di aver detto – Berlusconi lascerà la cadrega ad Angelino Alfano. È il 2013 l’anno della fine del mondo nel privato calendario Maya dei potenti del berlusconismo: tutti ci pensano e tutti ritengono che il modo migliore di prepararsi al trapasso del padre diciamo nobile sia fare man bassa ai congressi che prima o poi bisognerà convocare. Qualcun altro invece – si dice - s’attrezza diversamente.
F
È appena il caso di parlare dell’onusto d’anni e d’onori Beppe Pisanu, che ieri ha chiesto sostanzialmente al Cavaliere di farsi da parte a mezzo stampa (in una lettera scritta con Walter Veltroni e inviata al Corriere della Sera). Il presidente della commissione Antimafia non parla certo per ambizioni personali (sull’ex sindaco di Roma, invece, qualche dubbio c’è), ma più succulento è invece il gossip che agita le fila dei pidiellini in questi giorni: cosa farà Giulio Tremonti? In questi ultimi anni s’è acconciato, anche se non di buon umore, a fare il numero 2 di Berlusconi, ma non lo farà di certo per il giovane Alfano: il ministro dell’Economia vuole che finalmente la sua statura di leader e filosofo politico venga riconosciuta con la premiership. Per riuscirci, del PdL non ha bisogno: Tremonti pensa che imploderà un attimo dopo l’uscita di scena del Cavaliere e allora occorre muoversi in un’altra direzione. Certo c’è il rapporto con Umberto Bossi e la Lega – anche se le ambizioni di Roberto Maroni potrebbero essere un problema – ma serve pure un soggetto politico autonomo, diciamo un’area culturale nel centrodestra: vogliono i rumors del Transatlantico che il titolare dell’Economia, in queste settimane, abbia intavolato conversazioni sul tema col collega di governo Maurizio Sacconi e col segretario della Cisl Raffaele Bonanni, da mesi peraltro impegnato a portare nell’orbita di un futuribile centrodestra la componente popolare del Pd che fa capo a Beppe Fioroni.
Tutti uniti dalle elucubrazioni anti-mercatiste e quasi cattolico-sociali del Tremonti di questi ultimi anni. Scenario, questo, che i capibastone del predellino accarezzano con terrore vero: all’uomo di Sondrio infatti non mancano nemmeno – come ha ampiamente dimostrato la vicenda della defenestrazione di Cesare Geronzi da Generali – gli agganci nel mondo del potere economico. Mentre pensano a cosa farà o non farà il ministro «che ci ha evitato la fine della Grecia», giusta la vulgata di questi anni, le varie anime del partito berlusconiano si organizzano. Tra gli ex An è guerra aperta: Altero Matteoli ha sostanzialmente aperto le ostilità contro Ignazio La Russa che amministra nel PdL il 30% degli ex missini non si sa bene più per conto di chi: «Basta con le quote – ha detto mercoledì in una cena (un’altra) che ha sancito la sua alleanza con Andrea Augello e col più riluttante Gianni Alemanno – Il PdL deve diventare un partito vero: facciamo i congressi». La Russa dal canto suo, col “pacifista” Gasparri, sa che i congressi sono di là da venire e intanto – da coordinatore – si dà da fare per piazzare uomini suoi nelle liste per le amministrative e dentro la macchina del partito sul territorio. Il ministro della Difesa, però, è in difficoltà: gli ex Forza Italia gli riservano ormai un rotondo odio e in molti credono che a breve lascerà l’incarico di coordinatore. “Non mi faccio rappresentare da un fascista”, urlava Micciché la settimana scorsa all’indirizzo di Massimo Corsaro, uomo di La Russa e vicecapogruppo alla Camera,“non mi rappresenta”, pare abbia detto Matteoli mercoledì.
Dice Giuliano Urbani «Conoscendo Berlusconi sono convinto che nel 2013 il Pdl non ci sarà più: il Cavaliere detesta la routine, si inventerà qualcosa di nuovo» Lo stesso rapporto difficile peraltro, il nostro lo ha con gli scajoliani, con la componente ex liberale, con i ministri emergenti di Liberamente (Gelmini, Frattini, Prestigiacomo, eccetera). L’unico con cui va d’amore e d’accordo è Denis Verdini. Il banchiere-editore toscano è inamovibile visto il successo con cui continua a condurre la cosiddetta campagna acquisti (ma adesso anche La Russa ha un obiettivo: Andrea Ronchi), in queste settimane è tanto addentro al cuore del Cavaliere che persino i quarantenni ex Forza Italia – che da mesi tentano di soppiantarlo – gli hanno proposto un accordo: via Ignazio, tu fai il coordinatore unico fino ai congressi. In realtà non si vede come si potrebbero mettere tutte queste ambizioni d’accordo. Anzi se ne vede una sola: l’intervento di Silvio Berlusconi, l’unico che abbia potere di vita e di morte nel partito. Solo che al Cavaliere del PdL non gli è mai fregato niente. Di più: «Conoscendo Berlusconi sono convinto che nel 2013 il Popolo delle Libertà non ci sarà più: il presidente detesta la routine, si inventerà qualcosa di nuovo». Parola di Giuliano Urbani, fondatore di Forza Italia.
o per accanimento altrui; ma certo con la conseguenza di travolgere molto più di sé stesso chi gli sta attorno, a partire dal fratello Paolo. Ci sono stati poi quegli altri personaggi che sono stati indicati come delfini del Cav dalla stampa, e anche come tali indirettamente dal Cav designati con gesti particolari. Ma non investiti formalmente come tali.
Ad esempio Giulio Tremonti: che la prima volta che Berlusconi vinse le elezioni lui era stato addirittura eletto con un altro schieramento, il Patto Segni; ma in seguito è diventato sempre di più il cervello dei vari partiti berlusconiani. Come uomo del recupero dell’asse con la Lega, come stratega economico, come ideologo di un’ideologia neo-colbertiana a para-gollista. Oppure Michela Brambilla, quando fu incaricata in pratica di organizzare una Forza Italia bis, che si sarebbe rivelata il pre-partito del predellino, e che peraltro finì il liquidazione una volta che il partito del predellino nacque sul serio. Ma nessuno dei due ha mai tenuto a rivendicare questa etichetta di erede designato. Probabilmente, proprio come misura cautelare. Nulla da stupirsi, dunque, se anche Alfano alla indicazione di fronte alla stampa estera ha reagito con toni da «Padre se puoi allontana da me questo calice» che sono sembrati molto poco di circostanza, e abbastanza sinceri. «Se io dovessi parlare con lui del futuro gli consiglierei almeno cinque nomi che ho in mente, e che non dico per non danneggiarli, di esponenti del Pdl e della Lega che sono senz’altro più bravi e meritevoli di me per avere future incombenze di governo». Indicativo quel: «Non dico per non danneggiarli». E rivelatore anche il fatto di aver parlato di “esponenti del Pdl e della Lega”. Sebbene la prassi contingente del momento sia stata quella di creare con i “Responsabili”una nuova terza gamba della maggioranza Pdl-Lega, la confidenza di Alfano è addirittura nel senso di un nuovo superamento perfino del Pdl, e in vista di un contenitore unico di tutta la maggioranza post-berlusconiana. Anche perché, se davvero pensa di poter arrivare a Palazzo Chigi, difficilmente un siciliano come lui potrebbe avere un via libera; se con la Lega non si arriva a una qualche compensazione definitiva. Insomma, l’ipotesi minima è che Angelino Alfano sia un erede indicato della blindatura. Il ministro della Giustizia che cerca di portare finalmente in porto la riforma che permetterebbe a Silvio Berlusconi di potersi ritirare dalla politica in pace, e che anche dopo questo ritiro potrebbe continuare a vegliare a che il chiavistello regga. Data la sua giovane età, fino a una risoluzione definitiva per cause naturali: anche se Don Verzè ha rivelato di aver ricevuto dal Cavalier Berlusconi un incarico formale, per riuscire a farlo campare fino ai 150 anni. L’ipotesi massima, è che sia pure l’agente liquidatore. Colui incaricato di sistemare un’eredità con beneficio di inventario che rischierebbe se no di trasformarsi in una partita passiva, magari per trasfonderla in una proprietà nuova. Le due cose, il blindatore e il liquidatore, non si escludono necessariamente l’un l’altra. È stato comunque Panorama a raccontare che tra le tante canzoni di Guccini la sua preferita è Argentina. «E allora, perché non andare in Argentina? Mollare tutto e andare in Argentina, per vedere com’è fatta l’Argentina». Sarebbe per questo che lo sfotterebbero al canto di «Don’t cry for me, Angelinooo…».
mondo
pagina 8 • 16 aprile 2011
I dissidi nell’Alleanza, i ribelli che chiedono maggiori aiuti militari il raìs che resta in grave difficoltà anche sul fronte militare: in Libia occorre una svolta
«Sfida contro il tempo» Il generale Camporini lancia l’allarme: «Uno stallo porterà gravi rotture nella Nato. Servono nuove armi» di Pierre Chiartano
ROMA. I tre presidenti, Obama, Sarkozy e Cameron vorrebbero dare il benservito a Gheddafi. Mentre sul campo le truppe lealiste danno filo da torcere ai ribelli, ma non riescono a schiacciarli, grazie anche ai raid della Nato. Che però non sono sufficienti a sbloccare la situazione militare. Di fronte allo stallo libico che si sta trasformando in un pantano politico – soprattutto per un’Europa che non riesce a trovare le ragioni dell’unità – il rischio è che la malattia passi anche alla Nato, ultimo baluardo d’unità sul Vecchio continente. Con Parigi e Londra che premono sull’acceleratore di un maggior coinvolgimento militare e Berlino, Roma, Madrid e altri paesi che frenano. Abbiamo chiesto al generale Vincenzo Camporini, già capo di stato maggiore della Difesa di fare il punto sullo «stallo» in nord Africa e sulle conseguenze cui potrebbe condurre.
conflitto urbano. L’assedio di Misurata ne è una prova. Più di ciò che ha compiuto non riesce a fare. Neanche di fronte a formazioni di oppositori male addestrati e a corto di rifornimenti. Dall’altra parte gli insorti della Cirenaica non riescono assolutamente ad esprimere una capacità operativa in grado di opporsi alle truppe regolari lealiste. Da questo punto di vista nulla è cam-
biato. L’unico fattore che potrebbe aiutare gli insorti, cioè la potenza di fuoco aerea, trova dei limiti nel numero degli aerei a disposizione. La richiesta di avere nuovi mezzi nel ruolo di cacciabombardieri è un termometro importante. Poi c’è un problema chiaro di identificazione degli obiettivi. Così la tattica di Tripoli di inserire gli assetti più pregiati, come i mezzi corazzati, nel contesto urbano in maniera da innalzare il rischio di danni collaterali può funzionare».
«Sul terreno ci troviamo di fronte a uno stallo assoluto: come ieri, l’altro ieri e la settimana scorsa. Da un lato abbiamo Gheddafi che porta avanti le operazioni, dimostrando peraltro l’impossibilità per lui di avere ragione sui ribelli in una condizione di
Per il generale fino a quando non si deciderà di usare i mezzi più sofisticati, già in dotazione in molti eserciti della Nato, per colpire con chirurgica precisione i giocattoli del colonnello, ben poco potrà cambiare. E per una decisione si-
Il governo dice no alla richiesta del Patto Atlantico di un maggiore coinvolgimento nei raid su Tripoli e Misurata
Berlusconi: «Non bombarderemo Gheddafi» ROMA. «L’Italia non parteciperà ai bombardamenti in atto su Tripoli e sulla Libia, pur continuando a garantire tutto l’appoggio necessario all’azione della Nato». La presa di posizione del Governo italiano è netta e decisa: il Ministro della Difesa, Ignazio La Russa lo ha annunciato al termine di un Consiglio dei Ministri convocato per l’occasione. Niente bombardamenti, dunque, e nessuna fornitura di armi pesanti ai ribelli libici, secondo quando dichiarato anche dal Ministro degli Esteri Frattini. Durante lo stesso Consiglio dei Ministri, il premier Silvio Berlusconi ha detto: «Facciamo già abbastanza», sottolineando
di Martha Nunziata che quello che l’Italia sta facendo in Libia «è in linea con la risoluzione Onu» e che «considerata la nostra posizione geografica ed il nostro passato coloniale, non sarebbe comprensibile un maggiore impegno». Il Presidente del Consiglio, poi, ha anche sottolineato che «le nostre missioni all’estero vanno riviste, anche riducendo i contingenti ed il numero di militari impegnati».
Il tutto, va detto, avviene proprio all’indomani di una richiesta di maggior coinvolgimento rivolta a tutti gli alleati
dalla Nato nelc orso del vertice che si è tenuto giovedì scorso a Berlino. Insomma, l’Italia rispode no, ma tanto più questo ”disimpegno” stride perché coincide con un intervento congiunto pubblicato sull’Herald Tribune, su Le Figaro e sul Times di Londra, Barack Obama, David Cameron e Nicolas Sarkozy scrivono che Muhammar Gheddafi non deve restare al potere in Libia e che lasciarlo continuare a governare «sarebbe un tradimento inconcepibile». «Fino a quando Gheddafi resterà al potere, la Nato ed i suoi partner
di coalizione dovranno proseguire le loro operazioni in modo da proteggere i civili e aumentare la pressione sul regime», spiegano i tre leader, sottolineando che i loro governi «sono uniti riguardo a quanto dovrà accadere», per porre fine alla crisi libica.
Nel frattempo, in Libia e nello Yemen escono allo scoperto i dittatori. Uno, Gheddafi, ha deciso di farsi vedere in giro, sprezzante del pericolo, in una capitale sotto assedio; l’altro, Saleh, ha scelto di parlare ad un popolo, quello yemenita, che non lo vuole più, e che da settimane prova a cacciarlo.
mondo
16 aprile 2011 • pagina 9
dotta, grazie alla maggior precisione. Alcune forze armate le hanno in dotazione e le stanno utilizzando. È il nuovo trend delle armi. Ci sono progetti per minibombe portate da Uav (aerei senza pilota, ndr) di piccole dimensioni, che possono avvicinarsi molto all’obiettivo. Le testate a carica cava è la tipica carica che si utilizza nelle armi controcarro». Insomma poco esplosivo, ma nel posto giusto per eliminare le minacce, anche in mezzo a inermi civili. Questo almeno in teoria, ma il generale è un tecnico e lascia intendere che rispetto ai bombardamenti «chirurgici» di un tempo, che sembravano usassero la mannaia piuttosto che il bisturi, si sono fatti notevoli passi in avanti. I corazzati del rais anche tra una pescheria e un supermarket di Misurata non avrebbero dunque più scampo. Ma finché si spara sul terreno di intervento umanitario non se ne parla nemmeno. E si spara anche per definire meglio i futuri confini di una Libia divisa in due.
«Qualcuno ipotizza anche in tre. Si sta indubbiamente lavorando a un progetto del genere. Per l’Italia non sarebbe un buon affare. Non deve essere questo l’esito del conflitto, ma serve un’azione politica molto determinata per scongiurare una fine
“
Libia non è di stretto interesse americano. C’è un problema ma ha detto agli alleati: andate avanti voi». Ma la divisione della Nato tra partner bellicosi e altri timidi rischia di far perdere incisività all’azione militare e semina problemi futuri per la coesione dell’Alleanza. «Non dico che necessariamente si debba sposare la tesi franco-britannica, ma servirebbe una maggior condivisone degli obiettivi. L’Occidente è diviso su cosa fare.Tutti vogliono una Libia unita e libera da Gheddafi. Ma c’è il totale disaccordo su come raggiungere lo scopo. È una situazione drammatica».
Anche perché gli interessi su quel Paese dell’Italia e della Francia appaiono divergenti. «Più che divergenti sono diversi. La Francia ha un problema strategico: riaffermare la propria presenza nel Mediterraneo e la propria immagine, dopo l’esito delle vicende tunisine. La Gran Bretagna... non riesco a capire che interessi possa avere, se non quello di dare corpo all’accordo franco-britannico del novembre scorso. Noi abbiamo interessi energetici. Ma se guardiamo la geografia il gas libico conviene venderlo a noi e non ad altri. Chi vende e chi compra è sullo stesso piano». Sul futuro neanche il generale si sbilancia. «Ciò che vediamo ora durerà
Sul territorio libico ci vorrebbe personale addestrato, non solo per utilizzare le nuovi armi di precisione da terra, ma anche per mantenere le comunicazioni con i mezzi in volo
mile serve un accordo politico. «Per superare questo problema servirebbero dei designatori che indicassero con precisione, tramite puntatori laser o altra strumentazione, gli obiettivi da colpire. Ci vorrebbe personale addestrato, non solo per utilizzare questi strumenti, ma anche in grado di mantenere le comunicazioni con i mezzi in volo. Che sia personale preparato locale o di altra provenienza è irrilevante».
Una valutazione che darebbe senso alla ormai vecchia notizia dello sbarco di truppe speciali francesi, proprio della specialità «acquisizione obiettivi». A dimostrazione che fin dall’inizio si sapeva che uno dei problemi sarebbe stato quello. Ma il generale non commenta. «È il problema del targeting. Le bombe di estrema precisione che oggi esitono hanno bisogno di questo tipo di ausilio a terra». Ci sono molti ordigni ”tecnici”, come quelli a te-
stata cava o quelli a dimensioni estremamente ridotte che servono a distruggere obiettivi specifici, come i mezzi corazzati le prime, e target in ambiente urbano le seconde.
«C’è una tendenza a ridurre le dimensioni delle testate. È un programma molto importante che conosco che punta alla produzione delle cosiddette small diameter bomb. Con dimensioni e capacità distruttiva molto ri-
simile.“Purtroppo”la capacità di Gheddafi di resistere si sta dimostrando molto superiore alle aspettative. Oggi, leggevo sull’International Herald Tribune l’intervento di Barcak Obama, Nicolas Sarkozy e David Cameron che partivano da un assunto che non condivido. Che il colonnello abbia perso il supporto del popolo. È tutto da dimostrare». L’Europa agisce divisa per conto proprio e Washington «ha riconosciuto che ciò che accade in
Destini incrociati, nel venerdì di preghiera mussulmano. La tv di stato libica ha mostrato immagini del colonnello Muhammar Gheddafi in giro per Tripoli a bordo di un Suv, con il tetto aperto. La “passeggiata” del rais, secondo il canale televisivo, sarebbe avvenuta mentre la capitale libica veniva bombardata dalla Nato: Gheddafi, in piedi nell’abitacolo, sporgendosi dal tettuccio della macchina, ha salutato la gente, alzando i pugni in aria.
E le forze fedeli al Colonnello hanno bombardato pesantemente il porto di Misurata, che è stato chiuso proprio dopo l’intensa azione operata dai sostenitori del rais: «Il porto di Misurata ha subito gravissimi danni. Io c’ero, l’ho visto con i miei occhi», ha riferito un portavoce degli insorti, che ha aggiunto: «Hanno bombardato qui perché Misurata è l’unica porta verso l’e-
Nel corso del Consiglio dei ministri il premier scopre una vena pacifista: «Le nostre missioni all’estero vanno riviste, anche riducendo i contingenti ed il numero di militari impegnati»
”
per mesi. Dopo è molto difficile indovinare cosa succederà». Magari non in Libia, ma in seno alle già deboli alleanze. «Il rischio è proprio questo, che la vicenda libica non si risolva prima che la frattura all’interno dell’Alleanza atlantica diventi insanabile. In particolare faccio riferimento alla posizione tedesca, che potrebbe seriamente mettere a rischio la solidarietà della Nato. Quella dell’Europa ormai l’abbiamo archiviata».
sterno». ma come si diceva quello di ieri è stato un venerdì difficile anche nello Yemen, un altro paese da decenni sottoposto a dittatura: centinaia di migliaia di manifestanti, infatti, hanno invaso le strade della capitale, Sana’a, dopo la preghiera. Una città letteralmente spaccata in due, con le forze di sicurezza a evitare possibili scontri. Mentre Ali Abdullah Saleh, rivolgendosi ai suoi sostenitori ha ribadito di essere ”il legittimo leader, in base alla costituzione dello Yemen”. Saleh, però, è sempre più solo: anche i capi tribali e religiosi dello Yemen, riuniti nella notte si sono uniti all’opposizione chiedendo che lasci immediatamente il potere. All’incontro presieduto dal leader della tribù Hashed, la stessa della famiglia di Saleh, ha partecipato anche la maggioranza dei membri del consiglio degli Ulema, che riunisce tutti i capi tribali e religiosi yemeniti.
società
pagina 10 • 16 aprile 2011
Il Tesoro annuncia perdite per 500 milioni: l’ultima tappa di un servizio pubblico in ginocchio ROMA. Nemmeno le pompette salvavino del fido Minzolini, avrebbero potuto preservare meglio l’inconfondibile retrogusto etilico distillato ieri in cooperazione tra viale Mazzini e via XX settembre. Il dicastero del Tesoro comunica che il canone Rai è in caduta libera, 938 milioni di incasso nel primo bimestre del 2011, con una perdita netta di 562 milioni rispetto all’anno scorso. I vertici dell’azienda invece sostengono che non sono mai stati meglio: «I dati riportati dal Bollettino del Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia – smentiscono – sono errati. La raccolta del canone nei due mesi gennaio-febbraio 2011 ha avuto un incremento di oltre 15 milioni di euro rispetto al medesimo periodo dello stesso anno».
Due verità diametralmente opposte, che sembrano attingere direttamente alla fonte del paradosso logico berlusconiano. Quello che buon ultimo, proclama urbi et orbi che Ruby non è una prostituta, per poi annunciare che la stessa era sì pagata, ma affinché non si prostituisse più. Nel giugno del 2008, un premier sussiegoso dettava la linea al servizio pubblico: «Abolire il canone Rai? – si faceva una domanda e si dava una risposta – «Dipende dal ruolo che si vuole dare alla tv pubblica. Il canone avrebbe senso se la Rai rinunciasse ad agire come una televisione commerciale». Se è vero quindi che la tassa sul canone registra 562 milioni di euro in meno, gli italiani reputano che la Rai è ormai diventata un televisione commerciale. Viceversa, se gli introiti sono addirittura aumentati di 15 milioni, Berlusconi dovrebbe spiegare agli italiani perché il canone, quella tassa che secondo il premier medesimo avrebbe senso solo se la Rai facesse servizio pubblico, non è stata da lui abrogata. Il presidente del Consiglio spiegava nel 2008 che «la televisione pubblica e la radio pubblica dovrebbero avere come prima funzione quella di formare, poi quella di informare e infine, magari, anche quella di divertire». Nell’ipotesi che il canone è in caduta libera perché la Rai è ormai una tv commerciale, bisogna poi capire in base a quali logiche di mercato si muovano i vertici di viale Mazzini. Innanzitutto i debiti: perdite per oltre 650milioni di euro e un passivo in crescita di 116 milioni, quest’anno sottostimato per almeno venti milioni. In grave
E la Rai rimase con le casse vuote
Nessuno paga più il canone: -37,5%. «Sono dati sbagliati», dice l’azienda di Francesco Lo Dico
Qui sopra, la sede Rai di viale Mazzini. Accanto, il dg Mauro Masi
ritardo, per far fronte alla cosa, è arrivato perciò il piano industriale del direttore generale Mauro Masi: taglio del 20 per cento di appalti esterni, consulenze e «auto blu», una riduzione del personale di oltre mille unità tra prepensionamenti, esodi incentivati e blocco del turnover. Sacrifici per tutti, dunque. Ma non tanti quanti se ne fanno per lacrime e sangue che ha messo sul piede di guerra i sindacati. È la dura legge del mercato, bisogna fare sacrifici. E se ne fanno moltissimi soprattutto per Vittorio Sgarbi, quattro puntate per uno show ancora incognito dal costo di 8 milioni di euro. E per il seggiolone rotante di Giuliano Ferrara e il suo Qui Radio Londra: 32mila euro a
cancellarle dal palinsesto. E se la Rai è servizio pubblico, non lo dice Berlusconi che la priorità è “informare”, e “infine, magari anche divertire?”. Chi segue il premier, sa bene che gli va data tutta la buona fede: talvolta mente sapendo di smentire. Perché in Rai, negli ultimi tre anni, c’è stato soprattutto di che divertirsi. Soprattutto a pensare al pluralismo. L’Osservatorio di Pavia ha reso noto che soltanto nel mese di gennaio, Tg1, Tg2 e Tg3 hanno visto il presidente del Consiglio presente per 6 ore e quaranta minuti mentre tutti gli altri leader politici messi insieme hanno la metà del suo tempo. Che il presidente della Repubblica Napolitano ha avuto 169 minuti nei tg di Stato, contro i 402 minuti del premier. Quando si tratta di divertire, il Cavaliere è un intrattenitore che non teme confronti. Vidierre ha calcolato che se unissimo tutte le parole da lui pronunciate nei telegiornali Rai e Mediaset degli ultimi dieci anni otterremmo un monologo di 10.260 minuti, circa una settimana ininterrotta di one man show. Tanta fantasia, non l’avrebbe avuta neppure Shakespeare. Ma il circo della tv pubblica, ha avuto diversi numeri di varia e alta goliardia, in questi ultimi anni. Molto acrobatico quello della Bonev, attrice bulgara premiata alla Mostra del Cinema di Venezia con un riconoscimento ad personam per la celeberrima opera prima Goodbye Mama. Un onore che non è toccato nemmeno a Goddard. Ma an-
Un passivo in crescita di 116 milioni, debiti per 650 e i tentativi di chiudere i talk di punta: Masi ha tagliato risorse per milioni di euro, per poi darne 15 a “Qui Radio Londra” orbitazione, tre anni di contratto per un totale di 15 milioni di euro, e già 1,6 milioni di spettatori in meno rispetto all’esordio, che hanno lasciato l’Elefantino a roteare da solo.
Ma la Rai non si limita a difendere i suoi insuccessi commerciali come un qualsiasi servizio pubblico intento a “formare”. E anzi tenta di azzoppare i suoi cavalli migliori: Ballarò che costa 3 milioni e 500mila euro, e ne ricava 8 in pubblicità; Che tempo che fa, 10 milioni e 400 mila euro di costo e 17 milioni e 600 mila euro di incasso, Report che frutta all’azienda 4 milioni e 100 mila euro di spot, e Anno Zero, 6 milioni di incasso puliti. Se la Rai è di fatto una tv commerciale, si tratta di un marketing suicida tentare di
che un onere: un milione di euro scucito da RaiCinema per l’amica del premier. E ancora miss Kulyte, modella lituana improvvisamente balzata da Arcore a il Lotto alle Otto. E ancora, attrici, prezzemoline, berlusconiane a vario titolo, planate in fiction, programmi assortiti e quant’altro. Canone o non canone, il disastro della Rai non è affatto incomprensibile. E il bello di Silvio, è che ogni risposta può essere attinta direttamente alla fonte: «In Rai lavorano soltanto quelli di sinistra, e quelle che si prostituiscono». Ci sentiamo di escludere che le talentuose donnine da lui lanciate in Rai, abbiano letto Marx. Un utile indizio per comprendere perché, la gestione d Silvio ha messo il servizio pubblico in ginocchio.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
MA CHE RE LEAR D’EGITTO! Shakespeare e le rivolte in nord Africa
di Nicola Fano ermi tutti, questa è una rapina. Ai danni di Shakespeare, non vostri, la successione. Pensa di spartire il suo regno tra le tre figlie (Regana, GonerilAveva tranquilli; ché tanto Shakespeare c’è abituato e vedrete che non la e Cordelia) o, per essere più precisi, tra i di esse mariti, poiché in fondo farà troppe storie. Perché poi, se la storia avesse dovuto pagarquesto re maturo vuole che a governare dopo di lui sia egli medesigià previsto gli i diritti d’autore per tutto quanto ha raccontato in anmo, nominando all’uopo non un reggente ma tre fantocci da etetutto il Grande Bardo: ticipo, è sicuro che si sarebbe fatto ricco davvero (ben al di ro-dirigere («Noi, con una scorta che ci riserviamo di cento la caduta dei tiranni Mubarak, là delle due case e delle terre a Stratford che quand’ecavalieri a vostro carico, verremo a vivere, un mese ra in vita gli valsero le sue opere). Ma del resto presso l’uno un mese presso l’altro di voi, a turno. Ben Ali e Gheddafi è come quella del Del re noi riterremo unicamente il nome e gli non ebbe discendenza (salvo due figlie che maturo sovrano che, avendo il problema della però non lo fecero nonno) sicché le sue riconori che comporta», dice Lear espressamente chezze, se la storia gli avesse pagato i diritti d’autonel cedere i poteri). Come è noto, Lear si sbaglia. successione, vuole spartire il suo regno re che gli spettano, si sarebbero sparse al vento. EsattaSbaglia eredi: premia la logorrea vuota e retorica di Retra le tre figlie. Una questione gana e Gonerilla («Signore, io vi amo più che non valga a mente così come in effetti è accaduto, giustificando le nostre che riguarda anche ruberie. Va bene, ma di che rapina di tratta? Prendiamo Re Lear e esprimerlo parola umana; più che la vista dei miei occhi, la libertà, lo spazio», bum!) e boccia la lealtà «democratica» di Cordelia («Amo vodiscutiamone un po’ con calma. La storia è nota ma va rammentata. Un noi... stra maestà quanto si deve amare un padre»). re maturo (vecchio è una parola politicamente scorretta) ha il problema del-
F
Parola chiave Audience di Franco Ricordi Ridere amaro a Montrose Place di Maria Pia Ammirati
IL PAGINONE
Le Muse metropolitane di Leonardo Sinisgalli di Pasquale Di Palmo
La versione di Mordecai di Francesco Lo Dico Robert De Niro, simulacro di se stesso di Anselma Dell’Olio
Nerone? C’è chi lo preferisce “cattivo” di Rossella Fabiani
ma che re lear
pagina 12 • 16 aprile 2011
Finirà male: i fantocci si ribelleranno e cacceranno Lear. Che se ne andrà in preda a un manipolo di pazzi fedelissimi, ai quali si aggiungerà più tardi la povera, diseredata Cordelia, prima rinnegata e ora tanto amata. Ecco, molte magnifiche parole adopera Shakespeare per raccontare la sua storia (che, sia detto a suo onore e per inciso, non ha fonti dirette: la inventò lui dal nulla). Molte splendide parole e altrettanto sublimi occasioni di teatro (come quando il re in esilio si fa allestire un processo farsa nel quale pubblica accusa, pubblica difesa e pubblica giuria sono tutti pazzi da sembrare più veri che fantocci: un vero e proprio processo breve). Ma pure molto è il non detto. Anzi: il più. Per esempio: perché questo Lear s’è stufato di governare? Perché vuole godersi la pensione? Difficile da crederci: s’è mai visto un uomo di potere - tanto meno un monarca assoluto - lasciare ad altri il potere così, per farsi qualche partitina a briscola, per fare un bel viaggio in India? O non è forse che questo Lear non è più abbastanza amato dal proprio popolo? Shakespeare non ci dice se fuori dal palazzo reale ci siano moti di piazza oppure no. Vuoi vedere che questo Lear è un tirannetto al tramonto, che ha rubato e dilapidato i tesori e l’onore della corona al punto da dover passare la mano per evitare scandali? A giudicare da come sceglie i propri successori - per essere onesti - non lo si direbbe un governante di vasto ingegno, se ha gestito gli interessi del suo popolo seguendo gli stessi principi che ne ispirano la debolezza di fronte alle bugie servili delle figlie compiacenti.
Tutto questo, Shakespeare non ce lo dice, ma il suo dramma è sufficientemente ambiguo da consentire ogni interpretazione. Ogni furto, appunto. Perché i grandi classici questo hanno di bello: il prima, il dopo e tutto quello che sta intorno (ossia la storia e il mondo) noi altri possiamo immaginarceli come ci pare. Io, se permettete, m’immagino un Lear tiranno al tramonto, che ha governato male, che ha prodotto luogotenenti traditori e alleati pronti a voltargli le spalle. Insomma: un Mubarak, un Ben Ali, un Gheddafi. Ecco il furto: alla luce di Re Lear la storia delle rivolte in nord Africa assume un significato epocale. Molto, molto shakespeariano. E, come pezza d’appoggio, porto a mia discolpa la predilezione di Shakespeare per la dissimulazione; non solo in politica. I suoi personaggi, specie quelli italiani, guarda caso, fanno le proprie scelte sovente per distogliere l’attenzione generale da qualche altro fronte, da qualche altro guaio. Pensate al Petruccio della Bisbetica domata: arriva a Padova da Verona per trovare un sistema che distolga clamore dai suoi guai (economici?, giudiziaanno IV - numero 15 - pagina II
ri?). La confusione che solleva con il corteggiamento della bisbetica Caterina assolve perfettamente a questo ruolo. Ebbene: è lecito il sospetto che anche Lear voglia distogliere l’attenzione generale sul suo malgoverno inscenando la magnanimità del vecchio padre. Ripeto: il suo errore grave, la sua debolezza di fronte all’adulazione non possono essere considerati elementi causali del dramma. Ma torniamo alla rapina e cominciamo col dire che Mubarak, Ben Ali e Gheddafi, pur tra moltissime differenze, hanno un dato in comune: sono vecchi e hanno avuto problemi sostanziali di successione. Loro, personalmente, erano considerati interlocutori sostenibili dalle potenze occidentali ma non altrettanto i loro figli, ai quali volevano cedere il potere. I loro sudditi fino a un certo punto sono stati disposti a tollerare le loro ubbie di potere, le loro esagerazioni, finanche le loro ruberie e la loro illiberalità, ma non se la sono sentiti di trasferire questo odioso credito a dei figli ancor più avidi e - probabilmente - inetti. Faccio un esempio concreto per capirci: se io fossi un egiziano avrei potuto tollerare Mubark senior come una jattura necessaria ma a tempo. Dover accettare Mubarak junior dopo il senior mi avrebbe dato la sensazione di dover sopportare il peggio per l’eternità. Non siamo più ai tempi delle monarchie assolute nemmeno nei mondi cosìddetti in via di sviluppo.
Lear, in modo stolto e frettoloso, commette lo stesso errore: predica e pratica un assolutismo che non ha nulla da spartire non solo con il buongoverno ma nemmeno con la ragion di Stato (e non parliamo di democrazia perché ai tempi di Shakespeare non c’era né pienamente c’è oggi in Egitto, Tunisia o Libia). Ben Ali, Mubarak e Ghedda-
fi hanno commesso lo stesso errore. I primi due, in particolare, l’hanno commesso due volte. Perché hanno pensato in un primo momento (il presidente egiziano molto più a lungo di un momento, per la verità) di potersi salvare dal giudizio del proprio popolo cedendo immediatamente i poteri a un fantoccio (il figlio) da etero-dirigere.
Esattamente come Lear sperava di fare, dividendo il suo regno (che Shakespeare ci fa immaginare grande, ma non vastissimo) in tre: è quasi una banalità ricordare il moto millenario dividi et impera. D’altra parte il pittoresco e prolifico Gheddafi di figlioli ne ha ben più di tre. (Sia detto tra parentesi per non mescolare troppo le cose: ricordate che un certo Saddam Hussein incappò nello stesso errore quando riempì di figli la
propria corte prima ancora di organizzare una successione come si deve?).Va pure detto che quello del delfinato è un nodo shakespeariano - che non riguarda solo i tiranni del nord Africa. Prendete il vecchio Berlusconi (più vecchio di Lear) che affoga non solo per la sua ormai conclamata immoralità ma anche perché non ha preparato una buona successione. E si parla di eredità politica, perché nella finanza ha piazzato la figliola in Mediobanca e ha candidamente confessato la sua contrarietà alla cacciata di Geronzi da Generali dicendo: «Non ne sapevo nulla, nessuno ha avvertito mia figlia» a dire che lui e sua figlia sono la stessa cosa e che comunque la figliola è lì nel board di Mediobanca per interposta persona. Comunque, in politica lo stesso si disse di Tony Blair e prima ancora di Maggie Thatcher (per dire: il caso Kohl-Merkel va in controtendenza, ma i tedeschi si sa so-
d’egitto!
no pignoli e meticolosi in tutto). Ma se su le eredità di Berlusconi, Blair e Thatcher le opinioni possono essere discordanti, su Gheddafi & Co. è più difficile avere dubbi: la loro incapacità di nominare un delfino credibile si specchia nella loro tirannia: lo stesso errore di Lear. E qui arriviamo alla grandezza di Shakespeare, perché il suo dramma politico è anche umano: universale da entrambe le angolature, Il Matto (invenzione tipica e magnifica del teatro elisabettiano, quella figura comica che dice la verità fingendo di straparlare), a un certo punto recita: «Se un padre porta stracci, i figli l’accolgono distratti. Ma se porta fagotti, i figli si fanno premurosi. La Fortuna, puttana preclara, con i poveri è sempre avara». Verità banale e terribile, come ogni verità umana e come tutte le considerazioni di Shakespeare. Anzi, proprio dall’accostamento costante di banalità e profondità deriva la sua eterna grandezza. Il fatto è che spesso ci si dimentica come il teatro di Shakespeare abbia anche una sfaccettatura politica: un discorso che vale per tutte le sue opere.
Ma se il teatro di Shakespeare è politico e ha lanciato germi importanti al futuro dell’umanità, ci consente anche la mitica domanda: come andrà a finire? Il lieto fine non era obbligatorio al tempo degli elisabettiani (non s’era a Hollywood) ma era comunque gradito. Quindi succede spesso che i cattivi siano sconfitti e i buoni riscattati. In Re Lear non è chiaro chi siano i buoni, ma certo moltissimi sono evidentemente cattivi. Non solo le figlie di Lear, ma anche altre progenie. Senza contare che i «genitori» non paiono meglio. Tutti. L’unica salvezza semmai è la pazzia: è incredibile come molti si facciano matti in questo copione, come a dire che la perdita di potere non si concilia con l’assennatezza (altro capo d’accusa ai danni di Lear: non si può cedere il governo senza perdere anche la testa…). Nei rapidi epiloghi delle rivoluzioni del nord Africa abbiamo una conferma di questa legge shakespeariana, nel senso che la confusione che regna tra i ribelli dei vari Paesi mal si concorda con la chiarezza della «ragion politica». Sembra anzi che si sia persa una strategia comune ben identificabile. Come che sia, la risposta definitiva di Shakespeare va cercata altrove. In Riccardo III, dopo la morte di re Edoardo (non uno stinco di santo) e prima della sanguinaria ascesa al potere di Riccardo (un tiranno nudo e crudo) c’è una scena inquietante e solo apparentemente oziosa. In una strada di Londra, un popolano chiede a un altro: che succederà, ora, dopo la morte del re? E l’altro risponde: non sempre le cose migliorano e spesso ci si ritrova a rimpiangere il peggio. Speriamo che stavolta la realtà smentisca Shakespeare.
MobyDICK
parola chiave
16 aprile 2011 • pagina 13
AUDIENCE i sono tante parole che possono essere considerate come «chiave» del momento, e questa rubrica sta a dimostrarlo; tuttavia interrogandomi su quella che possa essere presa in assoluto per parola chiave nella nostra epoca, temo che non ci possano essere dubbi, essa è certamente Audience. È questa la Parola-Spettro che si aggira per il mondo intero nel secolo XXI, verso le cui leggi non si sottrae ormai più nessuno. L’Audience è ciò che determina il corso politico, economico, culturale, esistenziale, scientifico, artistico e naturalmente editoriale del mondo che stiamo vivendo. Chiunque voglia impegnarsi, anche per il bene dell’umanità in qualunque disciplina, non può fare a meno di misurarsi con le leggi dell’Audience, che evidentemente sono leggi tanto impalpabili e non specificate quanto assolute e totalitarie. La sanzione di questo assolutismo è avvenuta in un giorno ben preciso, l’11 settembre 2001, di cui fra pochi mesi ricorrerà il decimo anniversario. In quella data il mondo intero è stato unito in nome dell’Audience, nel momento in cui un’organizzazione terroristica del mondo orientale ha inteso colpire quello che si ritiene il simbolo più forte ed evidente del mondo occidentale, gli Stati Uniti d’America e in particolare il World Trade Center con le due Torri Gemelle di New York. Ma quel terrorismo ha inteso utilizzare le stesse armi dell’Occidente, si è insomma adeguato anche a livello culturale al grande show business occidentale, realizzando quello che forse è stato lo spettacolo più visto di tutti i tempi, in maniera che più di tre miliardi di esseri umani potessero divenire spettatori più o meno inorriditi di quell’evento.
C
In quella occasione l’Audience ha in certo modo realizzato se stessa, creando immancabilmente una sorta di nuova Caverna platonica, una condizione umana che ci vede ormai nella volente o nolente accettazione della nostra situazione di «spettatori-nel-mondo». Quelle poche migliaia di attori che hanno preso parte al suddetto evento, vale a dire le vittime e i terroristi, rappresentano sotto tale aspetto una assoluta minoranza. Qui sta anzitutto la forza dell’Audience: nell’aver creato una «maggioranza spettacolare» che si spaccia per democrazia, ma che in realtà è il principio inavvertito del nuovo totalitarismo che si sta sempre più imponendo su scala mondiale. L’Audience possiede questa peculiarità: essa è il principio dell’antidemocrazia, spacciato per democrazia. Dividendo il genere umano in attori e spettatori, e lasciando la maggioranza dell’umanità nella condizione dei secondi, l’Audience sta sempre più infrangendo lo stesso principio in cui nacque la democrazia, al tempo dei greci. Anche se abbiamo vissuto e viviamo in Stati che consideriamo democratici, al di là delle problematiche delle singole nazioni e dei retaggi storici, il secolo XXI si sta inoltrando in una dimensione dove per
Determina il corso politico, economico, culturale, esistenziale, scientifico, artistico. Alle sue leggi assolute non si sottrae ormai più nessuno. A causa sua, siamo tutti “spettatori-nel-mondo”
L’impero della sondocrazia di Franco Ricordi
Per la prima volta le società democratiche non vengono minacciate dalle tirannie, dalle ideologie o dai «nemici delle società aperte». La minaccia promana da ciò che appare come quintessenza dell’informazione democratica, accessibile a tutti. Così la democrazia vende la propria anima al totalitarismo spettacolare la prima volta le società democratiche non vengono minacciate dalle tirannie, dalle ideologie o dai «nemici delle società aperte», come vuole Popper; la minaccia antidemocratica promana in questo caso proprio da ciò che appare come quintessenza dell’informazione democratica, ovvero apertura della comunicazione. Se tale possibilità comunicativa diviene il solo tramite delle relazioni fra soggetti, inficiando lo spartiacque fra quelli che sono sempre stati i contatti normali fra le persone, in una millenaria società umana che ha sempre conosciuto le problematiche
della massa ma che non ha mai subito divisioni «assolute» fra attori e spettatori, ecco che il vero nemico della democrazia rischia di nascere proprio dall’interno delle sue stesse prerogative: è per tale motivo che Pier Paolo Pasolini affermava che la televisione fosse da considerarsi alla stregua della bomba atomica; ed è assai suggestivo vedere come il poeta friulano si sentisse a disagio all’interno di quelli che sono stati i primi talk show dell’Italia repubblicana: basta vederlo in un filmato di circa quarant’anni fa cui si accede senza difficoltà tramite Internet, dove
compaiono anche Enzo Biagi, Sergio Telmon e altri, laddove Pasolini afferma, a differenza dei suoi interlocutori, non soltanto di non poter «dire quello che vuole» in televisione; ma soprattutto di sentirsi in una posizione di disagio proprio perché lo strumento televisivo, riservato ai pochi eletti che vengono ripresi, costituisce di per sé una alienazione del rapporto democratico fra normali interlocutori: chi parla in tv, anche se fosse un analfabeta, è sempre comunque «ex cathedra» nei confronti dei milioni di telespettatori che non possono interloquire. Pertanto è lo stesso principio televisivo a risultare antidemocratico nella sua quintessenza. E al di là dello strumento tv, che senza dubbio nella nostra epoca è stato e rimane il principale veicolo di informazione spettacolare, anche tutti gli altri mezzi che concorrono in questa fondamentale alterazione delle coordinate spazio-temporali, rischiano in maniera analoga, anche se simile e contraria, di risultare in egual maniera antidemocratici, anche e soprattutto nella loro apparenza di democrazia. Qui non si tratta più di concepire forme diverse di democrazia, dirette o indirette, a livello storico o politico, come potrebbe darsi da un raffronto fra vari sistemi europei o d’Oltreoceano: è in gioco qualcosa di completamente diverso che viene dall’alto, e che si impone su scala mondiale e globale.
L’Audience è in ogni caso il surrogato di questo totalitarismo spettacolare, la giustificazione «democratica» della stessa imposizione totalitaria. Proprio perché non pretende una partecipazione democratica che si possa qualificare nei termini attivi, come avviene nel caso del voto, è semmai essa stessa che attraverso l’impero della sondocrazia riesce a regolare ovvero condizionare le stesse prerogative elettorali. L’Audience è «democratica», come lo sono anche i sondaggi: e tuttavia infrange proprio il principio della democrazia laddove il principio del voto politico e democratico rimane il segreto dell’urna, ovvero la possibilità che resta al cittadino di non esplicitare pubblicamente le proprie dichiarazioni di voto. Così il segreto dell’Audience rimane semplicemente nella sua apparente neutralità, nel fatto che se milioni di spettatori hanno guardato un tale programma e a esso si sono rifatti, vuol dire che quel programma è in ogni caso «democratico», e tutti hanno il diritto di poterlo guardare. E in questa maniera è proprio la democrazia che ha venduto la propria anima alla dittatura dell’infiltrazione spettacolare che, al contrario di quanto si possa pensare, assume da sempre delle regole molto precise e circoscritte, al di fuori delle quali non è permesso accedere in nessun modo. E in questa maniera la democrazia è intaccata nella sua stessa quintessenza, laddove da sempre essa garantisce al cittadino non solo quella che oggi si definisce privacy, ma anche la scelta di una discrezione delle sue possibilità comunicative.
pagina 14 • 16 aprile 2011
MobyDICK
Pop
musica
SE IL BUNGA BUNGA fa concorrenza al rock di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi iù vado avanti e più mi rendo conto che il 2011 sta suonando come l’anno delle donne. Strada facendo ho incontrato (e vi ho raccontato) le mirabilie di due londinesi: 21 di Adele, disco traboccante di soul music nera come la pece; e Anna Calvi dell’omonima dark lady, succoso frutto d’un vizioso romanticismo. E aggiungo, con spirito patriottico, il jazz in punta di voce di Border Life griffato Betty Vittori da Salò. Tre fior di interpreti, dunque, che diventano quattro con l’americana Joan Wasser splendida protagonista di The Deep Field. Quarantenne, in arte Joan As Police Woman, nata a Biddeford
P
Jazz
a il rock non era legato in termini costitutivi alla faccenda acchiappo? Non si diceva «sesso, droga e rock ’n roll»? E allora com’è che da nostre rilevazioni empiriche l’acchiappo non ci sta? Chi scrive ha fatto il meglio possibile, abita a Milano, e quindi ha fatto in modo, il sabato sera, di ritrovarsi alle Colonne di San Lorenzo, tra i Navigli e il centro. Luogo ove vari esemplari della fauna giovanile di tutte le tendenze fanno aperitivo e chiacchiere. Tra i fashionist, gli universitari della Bocconi che tengono viva la tradizione goliardica (ce ne era uno che per scommessa aveva una bottiglia di vino scotchata alla mano, doveva berla tutta) c’era in giro il classico branco di metallari. Con radio sottobraccio. Tra i grandi classici del genere, dagli Iron Maidein ai Metallica, non c’era una femmina. O forse solo una. Rapporto uomini/donne una a dieci più o meno. Tutta la tradizione delle groupies, delle riot girls, bruciata in un tramonto milanese. E come se non bastasse chi scrive si è trovato pochi giorni dopo al Cox di via Conchetta, per il concerto dei Fratelli Calafuria, rock band ironica e potente, un po’ il punto di riferimento di certa scena indie meneghina. Bene, anche lì masculi molti, donne pochissime. Potrebbe essere una caratteristica tutta milanese, l’omosessualizzazione del rock. E invece no, perché l’anno scorso alla festa di Rockit a Roma la percentuale di masculi era altissima. Possibile che le girls siano tutte nascoste all’Hollywood, il tempio milanese delle ragazze bunga bunga? Se così fosse la transizione sarebbe perfetta. Il vero rocker sarebbe davvero il politico attuale, con dotazione di groupies, e ai rocker veri resterebbe un solo ruolo: quello del filologo sfigato, con gli occhiali, la teoria della liberazione e la pratica della solitudine. Sic.
M
bum come «il più estroverso e gioioso, scritto con l’intenzione di raccontare l’umanità in modo positivo, alla maniera di Stevie Wonder. Ci sono già abbastanza “bassi” nella vita di ognuno di noi, che non ci tengo proprio a cro-
diche, la stessa emotività di Prince e Sly Stone; oppure The Action Man: rhythm & blues prezioso, con un organo Wurlitzer da favola e un sax tenore da pelle d’oca. Quando invece è la soul music, a dettar legge, ecco la gioiosità di The Magic da mandar giù a memoria per sentirsi in armonia col mondo intero; la sostanza magmatica di Run For Love; la raffinatezza felpata di Human Condition, che se ne sta in
Joan, la poliziotta tutta soul nel Maine, cantante e polistrumentista, ha suonato con Rufus Wainwright, Antony Hegarty, Lou Reed e Nick Cave. Lo confesso: essendomi sfuggiti i suoi tre album precedenti (Real Life del 2006; To Survive, 2008 e Cover, 2009) non sapevo che musica masticasse. Ingenuamente, dopo averla osservata così ascetica e visionaria sulla copertina di The Deep Field e memorizzata partner dei succitati calibri del rock plumbeo, ero convinto fosse altrettanto scura, ispida, poco incline all’orecchiabilità. Oltretutto, la Poliziotta è stata fidanzata con Jeff Buckley, songwriter più che crepuscolare misteriosamente annegato il 29 maggio 1997 nelle acque del Wolf River, affluente del Mississippi. Invece, altro che dark: Joan As Police Woman è piena zeppa di soul. Tant’è che identifica il suo al-
zapping
giolarmi nella negatività anziché spassarmela. Alla paura e alla frustrazione, preferisco la gioia e il trasporto dei sensi. Roba da matti? Meglio così, credetemi». Meglio darsi, come fa lei, alla black music: da vocalist bianca che spesso e volentieri dà la paga alle cantanti nere sempre più bionde, stilose, patinate. Mi spiego meglio: la Poliziotta sfodera con voce screpolata/ cristallina un canzoniere che è figlio di Marvin Gaye, Stevie Wonder, Al Green e Smokey Robinson. Ma lo fa con una raffinatezza e una flessuosità da Joni Mitchell, Carole King, Laura Nyro. The Deep Field, disco d’ammaliante bellezza, ascolto dopo ascolto svela nuove idee, suoni, diversità. Quando il passo è spinto, ecco Nervous: ritmo urbano/tribale, unghiate funk, insospettabili aperture melo-
bilico fra Marvin Gaye e il David Bowie soulman di Station To Station; l’eleganza dal sapore vintage di Kiss The Specifics, I Was Everyone e Chemmie, col suo finale in crescendo che derapa nel rock prestando orecchio a Lenny Kravitz. Quando tutto rallenta, ecco il mantra psichedelico di Flash, ideale fil rouge fra i Radiohead e Jeff Buckley; e l’intimista, sussurrata Forever And AYear: canzone d’una bellezza che commuove. Siccome ci ho preso gusto, vi dico: donne, fatevi ascoltare! Il 2011 è ancora giovane e suonerà anche per voi. Con un’avvertenza, però: non sarà un gioco da ragazze battere Joan As Police Woman. Joan As Police Woman, The Deep Field, Pias/Spin-Go!, 15,99 euro
Due riedizioni contro la “damnatio memoriae” ella serie The best Jazz Albums Ever sono stati recentemente ristampati in cd, dischi che ottennero, al loro apparire, recensioni assai favorevoli sulla rivista americana Down Beat. Quando nel 1960 le case discografiche Prestige e Riverside pubblicarono queste incisioni, il sassofonista Gene Ammons e la tromba Blue Mitchell erano musicisti altamente apprezzati e conosciuti. Oggi sorge spontaneo l’interrogativo: quanti giovani appassionati di jazz conoscono questi importanti solisti? Non molti sicuramente, anzi pochi assai. La ragione principale dell’oblio in cui sono caduti Ammons e Blue Mitchell e non solo loro, va ricercata soprattutto nei due mezzi di informazione su cui da sempre si è basata e si basa la conoscenza e la divulgazione del jazz:
N
di Adriano Mazzoletti riviste specializzate e radio. Le prime dedicano lunghi articoli all’attualità, la seconda, mi riferisco al servizio pubblico, ha soppresso gli spazi dedicati a questa musica. Solo la terza rete ha una programmazione dedicata al jazz, ma anch’essa, come le riviste specializzate, soffre di sindrome sincronica. Ma veniamo ai due cd. Boss Tenor di Gene Ammons comprende i sette brani pubblicati nel Lp Prestige in cui Ammons è accompagnato da una splendida sezione ritmica con il pianista Tommy Flanagan, uno dei più originali pianisti dell’epoca, il contrabbassista Doug Watkins, il batterista Art Taylor e il percussionista Ray Barreto. A questi brani ne sono stati aggiunti altri sei provenien-
ti da due successive sedute. Ma sono i primi che rendono il disco significativo, a cui il critico del Down Beat Ralph J. Gleason attribuì tre stelle. Epigono di Coleman Hawkins, di cui possedeva l’identica sonorità, Ammons è stato uno dei promotori, con il contemporaneo Dexter Gordon, delle famose chase di sassofoni dove i due solisti cercavano di superarsi a vicenda per fantasia, nuove idee e velocità di esecuzione. Ma Gene Ammons, scomparso nel 1974 a quarantanove anni, è stato anche un eccellente interpete di melodie in forma di ballata, come è possibile ascoltare in My Romance, uno dei temi musicali inseriti nel disco. Blue Mitchell, nel disco inciso nel settembre 1959, è ac-
compagnato invece da musicisti di diversa estrazione, il pianista Wynton Kelly, uno dei musicisti che ha largamente determinato lo stile delle sezioni ritmiche negli anni Cinquanta e Sessanta, il contrabbassista Sam Jones e Philly Joe Jones, uno dei più illustri batteristi del jazz moderno. Lo stesso critico, Ralph J. Gleason, attribuì tre stelle e mezzo al disco Blue’s Mood. Forse quel Lp avrebbe meritato un mezzo punto in più, ma sappiamo che Gleason era critico severo. Incisioni molto importanti queste di Blue Mitchell, anch’egli scomparso a quarantanove anni, che hanno giustamente meritato la riedizione. Gene Ammons, Boss Tenor; Blue Mitchell, Blue’s Mood, Essential Jazz Classic, Distribuzione Egea
arti Archeologia MobyDICK
di Rossella Fabiani
utto comincia nella mente di una madre. Si chiama Agrippina e ha deciso che suo figlio deve salire al trono. La sua è un’ambizione ben fondata: Agrippina è pronipote del grande Augusto, il primo imperatore romano, sorella di Caligola, secondo successore di Augusto, moglie di Claudio, il sovrano in carica. Il figlio che Agrippina vuole portare al sommo potere le è nato, però, da un precedente matrimonio: si chiama Lucio Domizio Enobarbo ed è soprannominato, come molti suoi antenati, Nerone, una parola che vuol dire “il forte”». Con queste parole, Andrea Giardina descrive l’imperatore più amato e odiato della storia - Nerone dal 12 aprile in mostra fino al 18 settembre nei luoghi che lo hanno visto protagonista: dal Colosseo, alla Curia Iulia, al Tempio di Romolo, al Criptoportico neroniano, alla Domus Tiberiana (scavi in corso), al Museo Palatino, alla Vigna Barberini e alla Coenatio Rotunda (la famosa sala da pranzo girevole di cui parla Svetonio), attraverso un percorso che copre l’area archeologica centrale di Roma. Sadico persecutore o vittima della politica di corte, tiranno divorato dalla follia o adolescente sopraffatto dagli eventi, mostro al potere o sovrano dalle grandi prospettive? Svetonio, Cassio Dione e Tacito ci parlano di Nerone come di un despota sanguinario che fa uccidere Britannico, sua madre Agrippina, la prima moglie Ottavia e anche la seconda consorte Poppea. Tacito ci dice anche che per volere imperiale vengono uccisi tanti personaggi del suo tempo, come Seneca, il suo maestro. Le fonti alimentano la leggenda di un uomo innamorato della cultura greca e dell’arte, del grande rinnovamento
«T
Mostre
16 aprile 2011 • pagina 15
Nerone?
C’è chi lo preferisce “cattivo”
urbanistico - da lui voluto - che stravolge l’aspetto di Roma. «Una mostra palpitante», la definisce Andrea Carandini che si dichiara sentimentalmente legato al Nerone cattivo, a differenza di quanti da tempo stanno cercando di riabilitarne l’ambigua figura. «Nerone era un aristocratico e come tutti gli aristoricratici era un perverso. I nobili sanno vivere i vizi in modo intelligente e anche lui aveva un talento tale che dalla sua figura emerge qualcosa di demoniaco, per fortuna non banale. Dopo la morte di Tarquinio il Superbo, dobbiamo aspettare molti e molti anni per avere a Roma un altro tiranno che aveva capito che il nemico è l’aristo-
crittura e pittura hanno in comune un gesto archetipico: entrambe si articolano sul movimento fluttuante della mano che scorre in bilico su un piano obliquo, dove lascia una traccia fluida che s’asciuga e s’imprime. A quell’iniziale gesto, ne seguono altri che rincorrono la prima scìa e tracciano la figura come un solco che sfonda i confini. La pittura di Alessandra Giovannoni persegue questo obiettivo come realizzazione del «vero», quanto l’occhio ha registrato nella prima analisi. I suoi taccuini d’artista sono la testimonianza manuale di un lavoro che si articola per fasi: l’immersione, la registrazione e poi la rappresentazione, secondo un dettame antico per la pittura: la persistenza del vero. Il suo è un lavoro che si articola secondo il Verum ipsum factum, quindi «la verità è nel fare stesso», secondo la formula usata da Giambattista Vico a indicare le linee guida della «nuova scienza» secondo cui l’uomo conosce solo ciò che da lui è prodotto e fatto, in quanto testimone dell’esatta genesi. Materia che sussume questa testimonianza è, per una pittrice, il colore. Alessandra Giovannoni ha considerato il colore una materia e un fluido dotato di una qualità eccellente, la sedimentazione, che può assumere valore strategico nei suoi intenti. Le grandi tele, i grandi paesaggi lavorati a lungo su poche tonalità cromatiche risolti con soluzioni iconografiche statuarie (quanto le è valso il confronto con Sironi), si sono trasformati negli anni in campi di battaglia dove l’artista è ingaggiata in una lotta contro il tempo, con l’intendimento di attraversare lo schermo inerte della tela per tirarne fuori ogni possibilità di modificazione e trasformazione. È in questa operazione titanica che il suo lavoro ha prodotto un’intepretazione articolata della pittura, vicina a una cultura antica del dipingere che ha molte assonanze con il senso originario di produrre il cibo, e il vino, intesi come fonti di nutrimento della vita. Quel forte impegno nei confronti della pittura l’ha condotta a una fase anali-
S
crazia, l’élite, mentre il suo grande e unico sostenitore è la plebe». È per questo, per accogliere le grandi masse che volevano osannarlo e nello stesso tempo per blandirle, che Nerone ha bisogno di grandi spazi dove avvenivano gli incontri del tiranno con la plebe di Roma e che oggi raccontano alcuni dei suoi momenti pubblici e privati. Come la Curia dove si possono vedere le immagini della famiglia imperiale e dei protagonisti del tempo; il criptoportico mostra, invece, l’idea politica neroniana e il lusso sfrenato delle sue realizzazioni; il ninfeo o specus estivo - chiuso da sessant’anni e di nuovo visitabile da ottobre
Riflessi di verità alle soglie dell’invisibile di Angelo Capasso
Alessandra Giovannoni “Villa Borghese.Camminatori” (1996)
prossimo - un capolavoro di architettura con marmi policromi e stucchi d’oro e pietre preziose tra cui il lapislazzulo. Secondo le fonti qui era raffigurato l’intero ciclo pittorico troiano - sembra che ancora in tenera età, nel pieno dell’infanzia, Nerone prese parte ai giochi troiani - e forse qui cantò la caduta di Troia mentre Roma bruciava. Promossa dalla Soprintendenza Speciale per i Beni archeologi di Roma, la mostra è curata da Maria Antonietta Tomei e da Rossella Rea come anche il catologo Electa ricco di contributi firmati, tra gli altri, da Andrea Carandini, Marisa Ranieri Panetta, Clementina Panella e Andrea Giardina.
tica e decostruttiva della tela che si apre a un altro stadio di presentazione dell’immagine, dove la sedimentazione non è più del colore, ma dei gesti che hanno prodotto l’opera e al processo di lettura dei fenomeni esterni in atto, di cui la pittura diviene testimone. Gli strumenti del pittore sono quelli più vicini alla luce, non solo come fonte, ma anche per il suo prodursi come immagine inarrestabile del suo lavoro inarrestabile, ascetico. Il tempo quindi si conferma come realtà vera e storia, vera essenza dell’unica possibile verità che il pittore ha a disposizione: l’occhio vivido e vivente. Per giungervi diventa pertanto necessario che a un certo punto, sulla soglia che separa e unisce il visibile dall’invisibile, il pensiero debba arrestarsi per poter far posto alla memoria, e che il formarsi accetti la forma, la sedimentazione, il silenzio del tempo. Ricordando un grande lettore di un grande pittore, Francis Bacon, Gilles Deleuze comprende come l’atto del tempo si articola nello svolgersi della sensazione. In quel caso Deleuze sottolinea come l’ossessione dell’artista inglese sia quella di produrre il movimento: ovvero dispiegare il corpo senza organi in una linea di divenire, di trasformazione che renda possibile la sperimentazione su un piano cinetico. Quello di Alessandra Giovannoni è invece un tentativo insistente di intendere il corpo nella sua fissità impossibile. Il «camminare», oggetto della mostra al Museo Bilotti di Roma (luogo della sua ultima grande retrospettiva), è un movimento che riguarda lei, nelle sue transmigrazioni tra i luoghi della città (Roma, Piazza del Popolo,Villa Borghese soprattutto), diviene al contempo una questione propria della pittura stessa: il suo percorso lento, umano, a passi brevi, dell’essere che si muove nel nulla camminando. Alessandra Giovannoni, In cammino, Roma, Museo Bilotti, fino al 10 maggio; Le carte di Villa Borghese, più una, Roma, Galleria Il Segno
MobyDICK
pagina 16 • 16 aprile 2011
il paginone
Fu uno dei primi intellettuali italiani che mise insieme sapere umanistico e scientifico in un’epoca dominata da arretratezza e provincialismo. E se a Roma maturò il distacco dalla vocazione matematica in favore di quella artistica, fu a Milano che incontrò la tecnica. Un libro che raccoglie gli articoli dedicati dall’autore lucano alla città meneghina, ci restituisce l’atmosfera che si respirava negli anni Trenta… di Pasquale Di Palmo n questi ultimi decenni abbiamo assistito al ritrovamento e alla pubblicazione di un certo numero di scritti inediti o rari di uno degli autori più rappresentativi e versatili del nostro Novecento, quel Leonardo Sinisgalli che seppe mirabilmente coniugare sapere umanistico e scientifico in un panorama dominato da un’arretratezza culturale e da un provincialismo spesso soggiogati dall’idea, tutto sommato, ancora crociana della conoscenza. Laureato in ingegneria, Sinisgalli rinunciò a far parte del famoso laboratorio di fisica di via Panisperna diretto da Enrico Fermi, «culla dell’atomica», per dedicarsi alla poesia, come si evince dai versi di Vidi le Muse, il testo da cui prende il titolo la sua prima raccolta mondadoriana, pubblicata nel 1943 nella collana dello «Specchio»: «Sulla collina/ Io certo vidi le Muse/ Appollaiate tra le foglie./ Io vidi allora le Muse/ Tra le foglie larghe delle querce/ Mangiare ghiande e coccole./ Vidi le Muse su una quercia/ Secolare che gracchiavano./ Meravigliato il mio cuore/ Chiesi al mio cuore meravigliato/ Io dissi al mio cuore la meraviglia».
I
Nonostante questa scelta Sinisgalli fu uno dei primi intellettuali italiani che concepirono la cultura alla stregua di un’interdisciplinarietà che solo l’epoca attuale, irrimediabilmente dominata dalla tecnologia, ha definitivamente sancito. Innumerevoli furono le iniziative di Sinisgalli tese a manifestare il sodalizio tra poesia e scienza. Basti ricordare, in tal senso, le straordinarie riviste a cui diede vita, con collaborazioni quanto mai prestigiose: da Civiltà delle Macchine a Pirelli a La botanno IV - numero 15 - pagina VIII
te e il violino. Uno spaccato inimitabile dell’Italia del secondo dopoguerra, con scelte grafiche e tematiche di straordinaria modernità. Nelle opere di Sinisgalli la campagna lucana fatta di «luce arida» e di «pascoli magri» si alterna alle visioni dei quartieri metropolitani attraversati come in delirio dal poeta. «Di là dalla dolce provincia dell’Agri» si accendono le luminarie di San Babila, dello scalo di Narni-Amelia, di Rue Sainte Walburge. Orazio va a braccetto con Lautréamont, i reperti vascolari di origine greca si stagliano sullo sfondo dei quadri allucinati di Max Ernst o Dalì. Le gemme che spuntano sui salici meritano la stessa attenzione dedicata alle equazioni o agli esercizi di meccanica, in uno stile che andrà con il tempo sempre più scarnificandosi, arrivando alla mortificazione dell’epigramma. Il tentativo dell’autore lucano
Le Muse metropo di Leonardo Sini lunga permanenza a Milano negli anni Trenta, Sinisgalli rimanesse affascinato dalle tecniche compositive e dall’ingegno poliedrico di Leonardo. Giuseppe Lupo suggerisce al riguardo: «Milano [...] è la città in cui si mette a fuoco il progetto di
esponenti dell’arte d’avanguardia, dagli astrattisti a Lucio Fontana, con il quale condivise in seguito l’esperienza di un paio di memorabili cartelle, come l’Ode a Lucio Fontana, pubblicata dal compianto Brenno Bucciarelli nel 1962 in 50 esemplari nume-
Lavorò per alcuni enti che hanno segnato la storia dell’industria italiana, dando vita a riviste prestigiose, con scelte grafiche e tematiche all’avanguardia. Un titolo per tutti: “Civiltà delle macchine” di cantare le mathématiques sévères di ducassiana memoria può essere paragonato a quello, ben più vistoso, di Paul Valéry, laddove la poetica di quest’ultimo si contraddistingue, rispetto a quella di Sinisgalli, per un più accentuato orientamento classicistico. Per Valéry la figura che idealmente rappresenta l’archetipo di tale ricerca non poteva che essere quella di Leonardo da Vinci cui dedicherà vari studi, tra i quali l’Introduction à la méthode de Léonard de Vinci. Non è un caso dunque che, durante la sua
una cultura segnata dal dialogo tra i linguaggi, proiettata verso quella particolare dimensione politecnica che individua in Leonardo da Vinci il modello e il maestro».
Molto intenso fu anche il rapporto di Sinisgalli con le espressioni artistiche più avanzate dell’epoca. Il poeta frequentava infatti abitualmente alcuni tra i più importanti
rati. Ma, oltre a Fontana, bisogna ricordare anche i poeti Alfonso Gatto, Raffaele Carrieri, Salvatore Quasimodo (esponenti del cosiddetto «ermetismo meridionale»), il critico Edoardo Persico, lo scrittore Cesare Zavattini, i pittori Domenico Cantatore, Anton Atanasio Soldati, Fiorenzo Tomea, gli architetti del movimento razionalista Marcello Nizzoli, Giuseppe Pagano,
Giò Ponti, Giuseppe Terragni, l’industriale Adriano Olivetti. La varietà di queste frequentazioni basterebbe da sola a testimoniare l’innata predisposizione di Sinisgalli ad abbracciare nello stesso ambito dottrine considerate fino a quel momento pressoché antitetiche, documentata oltre che dalla sua produzione saggistica, comprendente titoli di rilievo come Furor mathematicus (1950) e Calcoli e fandonie (1970), anche dal suo impegno sul versante professionale.
Il poeta lavorò infatti per alcuni enti che hanno segnato in maniera inequivocabile la storia dell’industria italiana: dall’Olivetti alla Pirelli, dalla Finmeccanica all’Eni e all’Alfa Romeo. Esce ora, a cura di Giuseppe Lupo, con il titolo Pagine milanesi (Hacca, 120 pagine, 12,00 euro), una serie di articoli di Sinisgalli che rievoca l’atmosfera che si respirava a Milano negli anni Trenta, con particolare riferimento alle frequentazioni dell’autore con i pittori e i poeti dell’epoca. Gli articoli, apparsi tra il 1933 e il 1936 sulla rivista L’Italia Lette-
16 aprile 2011 • pagina 17
olitane isgalli raria (che riprende la vecchia testata La Fiera Letteraria), si inscrivono dunque in quella fase dell’opera di Sinisgalli che vede il suo esordio poetico, rappresentato da una minuscola plaquette, uscita nel 1936 con il titolo 18 poesie. Si tratta del primo volumetto edito da Giovanni Scheiwiller nella celebre collana «All’insegna del Pesce d’Oro».
Il nome di questa collana derivava da quello di una trattoria toscana che si trovava a Milano in via Pattari presso il Verziere, come precisava il figlio, Vanni Scheiwiller, in un contributo del 1983: «La celebre insegna del “Pesce d’Oro” ha un’origine conviviale: nel 1925 Giovanni Scheiwiller insieme a un gruppo di amici, tra cui Sinisgalli, Cantatore, Quasimodo, Solmi, Carrieri, Melotti, decise di iniziare una nuova collana minuscola, che prese il nome dalla trattoria toscana “All’insegna del Pesce d’Oro”presso la quale si riunivano». Il libriccino, dalla copertina rossa, fu stampato «il 15 ottobre 1936 dalle Industrie Grafiche Pietro Vera di Milano in 200 esem-
plari numerati su carta uso mano e 27 esemplari su carta “Japon” numerati da I a XXVII per gli Amici del Libro», come si ricava dal colophon. Il formato minuscolo (cm 9,5 x 7,5), che diventerà uno dei tratti distintivi della collana, derivava dal motivo che la
ceduta da un volumetto di liriche, introvabile ai nostri giorni, contrassegnato dal semplicissimo titolo Cuore, stampato a Roma a spese dell’autore nella primavera del 1927, presso la Tipografia dei Salesiani, e dal Quaderno di geometria, estratto della rivista
le cupole della Capitale è avvenuto lo strappo nei confronti della vocazione matematica a vantaggio della futura vocazione artistica - un evento che Sinisgalli racconta nel capitolo che dà il titolo al Furor mathematicus (1950), ricordando la visita in una casa di piacere di via Baccina - nel capoluogo lombardo sembra che tutto si ricomponga e che la letteratura non solo continui a convivere con il versante delle arti, ma cominci anche a nutrirsi di architettura, di suggestioni scientifiche, di interessi per la tecnologia, le macchine, l’industria». Si passa così dall’iniziale senso di smarrimento nei confronti di una città appena intravista («Sono giunto in questa città una sera d’inverno: faticosamente il sangue ha fatto abitudine agli agguati della nebbia») che contraddistingue l’Introduzione a Milano del 3 dicembre 1933 al coinvolgimento con il quale si descrivono gli aspetti urbani meno appariscenti in Lettera da Milano del 19 luglio 1936: «A guardare certe facciate tirate a lucido come i mobili di legno compensato ci si affeziona perfino alle brutte case di Monforte, intasate di lucidi rosolacci, al nuovo rinascimento di corso Venezia, allo stile di piazza Castello, a certe croste dei quartieri dell’Indipendenza». Un omaggio che conserva i crismi di uno stupore quasi infantile nell’avvicinarsi a una realtà in perenne movimento, ben rappresentata dal dinamismo plastico dei quadri o delle sculture dei futuristi, qui rievocati attraverso la figura del loro capostipite, Filippo Tommaso Marinetti: «Ogni volta che Marinetti ha un’idea nuova viene a Milano» (Rosai 1933. Marinetti e l’ubiquità. Habanita del
Le pagine milanesi coincidono con il suo esordio poetico: quelle “18 poesie” edite dall’amico Scheiwiller che incontrarono il favore di poeti e critici del calibro di Ungaretti e De Robertis carta era razionata e si doveva fare economia. Curiosa è la dedica di Sinisgalli in una copia delle 18 poesie indirizzata al suo editore qualche giorno dopo la stampa: «Al caro Scheiwiller, nostro angelo misericordioso, con tanta gratitudine e affetto il buon ladrone Leonardo Sinisgalli, Milano 21 ottobre 1936». Le 18 poesie, nonostante la loro esiguità, conobbero una fortuna critica considerevole, tanto da interessare poeti e critici del calibro di Ungaretti e De Robertis. Ma, a ben vedere, la raccoltina era stata pre-
Campo Grafico n. 9-10-11-12, edita a Milano nello stesso 1936. Quest’ultima pubblicazione contiene sei bellissime tavole di uno dei maestri dell’astrattismo italiano, Luigi Veronesi.
In questo contesto nascono dunque le rievocazioni milanesi di Sinisgalli edite dall’Italia Letteraria, tanto che Lupo giustamente asserisce che «se fra i palazzi e
17 dicembre 1933). Ma numerose sono le occasioni che hanno ispirato questi piccoli e gustosi cammei: un incontro con Le Corbusier, arrivato a Milano per una conferenza, il frugale matrimonio di Alfonso Gatto con la sua Jole («Ma seduti per terra alla turca c’erano Alfonso Gatto e Jole, Soldati e sua moglie, Cantatore. Tornavano dalla chiesa del Redentore, una chie-
sa di periferia, dove i nostri due amici all’alba si erano sposati con sette lire in tasca e senza avvertire nessuno»), la commozione per la morte prematura dell’amico Edoardo Persico, suggellata da una chiusa che sembra tratta da una sua poesia: «Camminavamo, la notte, rasente i muri delle case di Monforte». Ma sono soprattutto i resoconti delle mostre a farla da padrone, con giudizi sintetici e sempre pertinenti, sia quando si affronti l’opera di artisti di prima grandezza come Arturo Martini o Lucio Fontana (ma si era negli anni Trenta, dunque ben lungi dalla consacrazione del maestro dei «tagli») sia quando ci si misuri con le espressioni di pittori minori, compreso lo Zavattini dei suoi quadretti di dimensioni lillipuziane.
Giuseppe Lupo ben rileva come siano presenti passaggi che si richiamano esplicitamente all’opera in versi, dichiarando inoltre che tale «versatilità di motivi favorisce la sensazione che anche sul piano stilistico la scrittura si apra alla sperimentazione». Motivi che ritroviamo sviluppati in un contesto ambientale analogo, quasi si trattasse di una sorta di insistita variazione sul tema. Diamo qui conto soltanto di un paio di esempi, rimandando alla prefazione di Lupo per un più approfondito esame filologico: «l’alba si spegneva nella sua falsa luce con occhi d’agnella» dell’Introduzione a Milano rimanda al verso 1 dell’Olona, «L’alba guarda con occhi d’agnella»; «Quella mattina per i viali della periferia gli angeli passavano in bicicletta con in testa le sporte di pane caldo» di Matrimonio d’un poeta rinvia ai versi 1-2 di Aprile in Monforte, «Portati dal vento due angeli/ passano in fuga in bicicletta». E adesso il lettore mi consenta di accennare a un piccolo ricordo tratto dal mio album personale. Qualche anno dopo la scomparsa di Sinisgalli, avvenuta nel 1981, mi recai, in una sorta di pellegrinaggio laico, a Montemurro dove ebbi occasione di visitare la casa natale, situata a strapiombo sul fosso di Libritti, celebrato tante volte nei suoi versi. Nello studio, dove i fratelli gentilmente mi fecero accomodare, tutto era in ordine: figurava ancora la sua giacca bianca appoggiata allo schienale di una sedia, come se il poeta fosse uscito per comprare le sigarette e fosse stato di ritorno di lì a poco. Sulla sua tomba, nel piccolo cimitero del paese, aveva fatto incidere questi versi: «Risorgerò fra tre anni/ o tre secoli, tra raffiche/ di grandine nel mese/ di giugno».
Narrativa
MobyDICK
pagina 18 • 16 aprile 2011
libri Mario Fortunato ALLEGRA STREET Bompiani, 247 pagine, 16,50 euro
i ride amaro nelle strade affollate e allegre di Londra, una Londra ricca e up, dove filippini, domestici e animali da compagnia non sono solo figure secondarie. Si ride con amarezza (e stupore) già dall’incipit - «Questa storia comincia con la morte di Celia e finisce con quella di Lucrezia» - da queste prime frasi e dalla scena d’apertura che s’apre con un incidente. Celia viene investita nella strada tranquilla e ricca di giardini di «Montrose Place… forse il posto più elegante di Londra», investita mentre attraversa la strada, forse compiendo l’imprudenza di non attenersi alle più semplici regole umane: si attraversa guardando con attenzione a destra e a sinistra. Ma lo straniamento, nonché lo shock per il lettore, di sapersi già in medias res, in una piccola tragedia che ci sottrae d’immediato un personaggio, si capovolge appena dopo qualche riga quando scopriamo che Celia, il primo personaggio che s’era affacciato nella storia (sic), è una gatta. Un meraviglioso animale che s’imbatte nel suo destino finale perché attraversa, come suo impulso, imprudentemente la strada. Attraverso la morte di Celia in realtà risaliamo ai due protagonisti del romanzo, Paula e Carlo, che potremmo definire grossolanamente una coppia ben assortita, un ritratto di alta borghesia, impegnata più in attività secondarie come feste, party, vernissage e triangoli, che in dura routine quotidiana. «Lui era un uomo corpulento e taciturno… lavorava moltissimo… lei dedicava gran parte del tempo allo shopping, ai tè e agli aperitivi mondani». Allegra street, ultimo romanzo di Mario Fortunato, è un libro all’insegna della fluidità, tutto è fluido, la morte, le relazioni amorose, le inclinazioni sessuali dei personaggi. Una fluidità che nasconde una ferrea costruzione architettonica, un mondo fluido contenuto in un articolato congegno narrativo. L’allegria del titolo allude sia a questa sospensione del dramma, sia al tono da commedia, commedia anglosassone, acre e caustica rivelatrice del vero, di uno spaccato sociale preciso
S
Ridere
amaro a Montrose Place “Allegra street”, il nuovo romanzo di Mario Fortunato all’insegna della fluidità. Che però contiene un articolato congegno narrativo
Riletture
di Maria Pia Ammirati
dove emerge un tratto di noia e di falsificazione, e forse anche per questo le morti che aprono e chiudono il libro sono «leggere», cioè sopportabili. La morte della gatta Celia è in realtà una svolta narrativa, avviene in un momento preciso, il 15 dicembre, e riavvia la storia di coppia di Paula e Carlo che si è incrinata: «l’idillio fra Paula e Carlo comunque durò poco più di tre anni. Al quarto anno non era cambiato nulla: lui lavorava sempre troppo e lei passava da una boutique a un cocktail… erano esausti». Seguendo le peripezie amorose dei due protagonisti, la storia si affolla di personaggi minori che circondano Paula e Carlo, scrittori che inseguono il bestseller e scrittori che con titoli improbabili vincono il Booker Prize, massaggiatori brasiliani, ambasciatori gay. Questa piccola folla di figure ben delineate è un gruppo coeso, anche se ricco di contraddizioni, che elegantemente danza attorno alla coppia principale colta dal narratore in quella fase amorosa che prelude la fine. Carlo, numero due dell’ambasciata italiana a Londra, si innamora del massaggiatore brasiliano, Paula di un giovanotto aitante e focoso. Entrambi dirigono la loro noia e stanchezza coniugale verso l’eros diverso, scoprendo, come accade a Carlo, l’attrazione verso gli uomini e il mondo omosessuale. Amore e morte coniugati nella claustrofobia del luogo comune; i personaggi convinti della loro eccentricità in realtà recitano degli stereotipi. La commedia acidula messa in scena da Fortunato, che già nell’ultimo racconto breve - Certi pomeriggi non passano mai - aveva dato un assaggio di riso amaro, è costruita come un romanzo circolare, si consuma con le due morti e si compie con le due città, Londra ricca e quasi solare, Roma grigia e volgare. In realtà in un romanzo che vive di svelamenti anche le città rivelano un po’ della loro reale natura senza infingimenti di luoghi comuni.
Dimenticare Garibaldi? Prima andrebbe conosciuto uca Marcolivio, direttore del settimanale web L’Ottimista, ha scritto il pamphlet Contro Garibaldi edito da Vallecchi nella bella collana Avamposti. Si tratta di un chiaro invito a rileggere la vita avventurosa dell’eroe dei due mondi che per Luca Marcolivio non è affatto un eroe. Il giornalista scrive proprio come se si trovasse in un avamposto e spara palle incatenate contro il mito di Pepìn. L’eroe dei due mondi esce dal libro molto malconcio perché il giornalista non gliene fa passare liscia una che sia una.Tuttavia, più del libro di Marcolivio e del titolo Contro Garibaldi conta qui parlare del sottotitolo che recita «Quello che a scuola non vi hanno raccontato». Infatti, tutto quanto in questo libro c’è scritto di male e di peggio su Giuseppe Garibaldi non viene mai detto a scuola. Ma non per difendere Garibaldi e il Risorgimento e l’impresa dei Mille, ma perché la scuola è la scuola. Il vero libro «contro» da scrivere sarebbe Contro la scuola. Non scopriamo l’acqua calda se diciamo che nella scuola italiana si studia poco e male. Anzi, lo abbiamo detto tante volte e tante volte ci siamo soffermati sui mali storici della nostra scuola di Stato nella
L
di Giancristiano Desiderio sua versione pubblica e privata. Ma il peggio della scuola italiana è forse lo studio della storia. Solitamente ci si sofferma sui risultati dell’insegnamento della matematica e dell’inglese che sono pessimi, ma lo studio della storia non è da meno. Il mito di Garibaldi, del Generale, dell’Eroe, del Dittatore, di Anita e di Caprera è proprio un mito. A scuola non si dedica poi chissà quanto tempo e quali sforzi allo studio del nizzardo: si potrebbe dire che lo studio delle imprese di Pepìn è fatto proprio alla garibaldina. Forse, quest’anno, vista la speciale ricorrenza, si dedicherà a Garibaldi e Mazzini, a Cavour e Vittorio Emanuele un po’ più di tempo e di attenzione, ma poi tutto ritornerà nella tranquilla quiete della storia studiata un po’ come si compra la pizza da asporto: da qui a qui, da pagina 150 a pagina 156. Ragion per cui il pamphlet di Luca Marcolivio, pur ben fatto e documentato, è indirizzato contro un mito per modo di dire, un mito di cui si conosce solo il nome e il colore della camicia. Insomma, un mito italiano. Non è infatti un mistero che gli italiani siano dei pessimi co-
Il pamphlet di Marcolivio contro l’Eroe dei due mondi e il ritratto di Montanelli e Nozza del 1963
noscitori della loro storia. Nessuno più degli italiani ha la memoria così corta. Vien dunque da dire che prima di smitizzare Garibaldi bisognerebbe mitizzarlo. Perché non basta il «corso Garibaldi», la «piazza Garibaldi», il «monumento a Garibaldi» a fare di Garibaldi un mito conosciuto e sentito come mito. Dunque, il mito di Garibaldi non è da dimenticare come invita a fare il pamphlet - ma da ricostruire, quindi smontare e finalmente capire. In omaggio alla nostra rubrica diciamo pure che si tratta di un mito da rileggere. Del resto, già Indro Montanelli (insieme con Marco Nozza) ci aveva messo del suo per riportare nel mondo senza eroi di quaggiù l’Eroe dei due mondi di lassù. Lo aveva fatto con un libro né pro né contro - giustamente citato in abbondanza da Luca Marcolivio - semplicemente intitolato Garibaldi di cui uscì poi anche l’edizione illustrata. Rileggere il libro di Montanelli dopo aver letto quello di Marcolivio mi è venuto naturale. Il giornalista di Fucecchio ha come obiettivo quello di uscire dalla leggenda ed entrare nella storia per considerare Garibaldi uomo tra gli uomini con difetti, vizi, limiti e debolezze umane, troppo umane. A pensarci bene, caro Marcolivio, è questa un’operazione di revisione che non può che farci sentire Pepìn più autentico e vicino.
MobyDICK
Storia
16 aprile 2011 • pagina 19
ALTRE LETTURE
QUANDO LO STORICO È IL LETTERATO di Riccardo Paradisi
di Francesco Lo Dico
e da qualche parte esiste un girone infernale dove il penitente può fare ammenda della propria trascuratezza, questo non può che somigliare a un club per uomini di lettere. È soltanto nel privé degli accoliti della penna, che lo sgarbo a un romanzo può essere riparato con successo. Così che, insieme allo scritto perduto, si possa rintracciare persino il maltolto a un autore straordinario. E mutare agevolmente la terribile amnesia, in un mitico entusiasmo della prima ora. Sono stati in molti, nei salotti buoni, a rivendicare la primogenitura su Mordecai Richler. Ma la verità è che senza il felice innesto praticato dal Foglio, la pianta di Barney sarebbe rimasta qui da noi una pallida specie esotica. E siccome l’illustre canadese se n’è andato vecchio ma appena maggiorenne nella gloria, si procede in questi casi come accadde per un altro genio postumo come Bufalino: a ritroso, verso l’uomo che fu quel romanziere dispettoso. Scoperto all’improvviso, amato ancora prima, ma soprattutto già morto. Esemplare è in questo senso Sulle strade di Barney di Christian Rocca (Bompiani, 208 pagine, 10,50 euro), pellegrinaggio nei luoghi di Richler che si pretende del tutto spoglio di ogni sacertà, e anzi appassiona per la scanzonata maniera di porgere volti e vicende che hanno accompagnato dalla vita alla pagina la storia di Mordecai. Nel primo anniversario della sua morte, avvenuta il 3 luglio 2001, il giornalista che insieme ad altri foglianti aveva condiviso il merito di aver diffuso il suo verbo sgangherato, ha messo lo zainetto in spalla e ha preso a scorrazzare nei ricordi di Barney. Luoghi ancora vividi, liberati dal riflesso letterario, che restituiscono il quadro anamorfico in cui la lente di Panofsky ha indagato. Le strade che il personaggio ha percorso, i pub dove ha tracannato d’un fiato l’amato Macallan, le partite di hockey in cui s’è mischiato agli amici in un tifo tutt’altro che composto: in questo carosello che spesso ha il pregio di romanzare il romanzo stesso, prende corpo il mondo nudo di Mordecai tra piacevoli aneddoti e pregevoli testimonianze. Tra tutte, quelle di familiari e amici, capaci di raccontare molto di più con una semplice frase, che un’autorevole saggio letterario in mille giravolte.
S
Reportage in forma di diario, dunque, che devia a largo da complicate disanime dell’irregolare rapporto tra Richler e l’autore, che ha inviperito alcuni e divertito tutti per la straordinaria autoironia. Come già ci ha fatti persuasi il suo traduttore italiano Matteo Codignola, anche Rocca ci affida la convinzione che non bisogna attendersi la piena sovrapposizione tra Barney e Mordecai. E sebbene nei picchi d’ira, negli scoppi di un’intelligenza acuminata e piena di rabbia deliziosa, sia giocoforza ritrovare Panofsky, non va taciuto come Richler
a scrittura di narratori e poeti (per decenni trascurata dalle storie letterarie) ha sempre incrociato la storia trattando eventi epocali o dettagli di vita quotidiana. Anche se frutto d’invenzione infatti, eventi e personaggi narrati si rivelano inesorabilmente storici in quanto specchio del proprio tempo o di epoche trascorse o ancora di futuri possibili. Questo connubio, nel corposo saggio di Enzo Golino Madame Storia & Lady Scrittura (Le Lettere, 1109 pagine, 48,00 euro), disegna attraverso saggi, cronache, interviste pubblicati dall’autore in cinquant’anni di manovalanza culturale, un mosaico animatissimo ovviamente incompleto - di episodi, opere e protagonisti quasi tutti del secondo Novecento letterario.
L
La versione di Mordecai Nessuno come Richler ha prodotto nella sua opera un cortocircuito tra narratore e narrato, tra l’autore e il suo personaggio. Tanto da far proliferare schiere di esegeti pronti a mettersi sulle tracce dell’uno e dell’altro contemporaneamente. Leggere per credere il libro di Christian Rocca e il tributo del figlio Noah sia stato di indole più mite e riservata di quella del suo alter ego. «Non ho mai incontrato Mordecai Richler, eppure mi sembra di averci fatto il militare insieme», chiosa Rocca nell’incipit del libro. E in effetti, quando l’immaginario di un autore è stato scolpito nella memoria altrui con tanta pittoresca leggiadria, è difficile resistere alla tentazione di un’amabile labirintite. Inoltrarsi nella pagina, come nel singolo luogo che ne ha prodotto ogni parola. Gioco letterario, ma non un semplice diletto per aficionados. Perché a leggere lo smilzo ma brillante libretto che manda in stampa Adelphi, Mordecai (106 pagine, 7,00 euro), è arduo resistere anche se armati del più fiero scetticismo. Negli scritti che compongono il tributo a Richler, a firma del figlio Noah e del suo traduttore Matteo Codignola, il vecchio bisbetico di Montreal sembra davvero la carne e il sangue di Barney Panofsky. Richler viene narrato alle prese con la tragicomica promozione di se stesso, costretto a fare opera di marketing tra battute taglienti e scene devozionali ridicole prim’ancora che patetiche. Noah lo ricorda affettuosamente sul set di La versione di Barney, che in fondo è stato qui da noi la cartina di tornasole di un personaggio complesso. L’ottimo adattamento cinematografico ha polarizzato la critica, spiega Codignola.
Ed è accaduto che chi aveva letto il libro prima di assistere al film, ha ritrovato in Giamatti la perfetta incarnazione di Barney. Chi invece si è gettato a capofitto sul film, nutrendosi degli aspetti più pruriginosi del nostro, ne ha invece tratto l’amara sensazione di un equivoco. Qualcuno ha biasimato un certo buonismo, nel Barney cinematografico. Ma se una verità c’è, nel gorgo del leggere ad libitum secondo le proprie inclinazioni, è che Richler fu certo scorbutico. Ma altrettanto amabile e per niente a disagio in certi impegni che l’autore assume con l’agenda mondana. L’eroe del politically uncorrect, fu lo stesso che si lasciò andare al termine di una conferenza a lui dedicata. Lo stesso che disse: «È stato un evento meraviglioso, ma aveva un unico difetto: è stato troppo breve».
Non bisogna essere troppo avvertiti per sapere che i cortocircuiti tra io narrante e io vivente sono frequenti in letteratura. Ma forse è giusto notare come il celeberrimo libro del nostro, La versione di Barney abbia confortato e nutrito a dismisura il malinteso. Si beve d’un sorso, Richler, ma tutto sommato è più che una lunga invettiva. E anzi, come di rado in passato, gli strali partono da un arco narrativo di tutta importanza. Che come un salto doppio, presenta con il romanzo il suo disporsi nella pagina. Sempre si sente Richler dettare a Barney la sua versione. All’origine del paradosso c’è l’uomo che duetta con la creatura. Mite ma scostante, eccentrico ma routinario, sinistrorso ma in fondo reazionario. Così è se ci pare, il personaggio Richler. E null’altro si può dire in fondo, se non che la Versione di Barney è tutto quello che ci ha lasciato. E che la versione di Mordecai, ognuno se la immagina a suo modo.
L’INGHILTERRA SCOPERTA NUOTANDO *****
rendendo spunto dal racconto di John Cheever Il nuotatore, Roger Deakin decide di attraversare a nuoto il territorio della Gran Bretagna e di raccontare in un libro la sua esperienza. Diario d’acqua (EDT, 394 pagine, 20,00 euro) è il racconto di questo viaggio: laghi, fiumi, canali, ogni specchio d’acqua che incontra merita un’immersione, sia per riaffermare il diritto di nuotare liberamente contro ogni divieto, sia per acquistare un punto di osservazione molto particolare nei confronti dell’ambiente. Mescolando narrativa di viaggio, storia naturale, autobiografia e storia della cultura, Diario d’acqua è una sorta di viaggio di iniziazione personale, e al tempo stesso un’ affermazione della necessità dell’acqua per la sopravvivenza fisica e culturale dell’uomo.
P
CALCIOMANI, PUTTANIERI FAZIOSI... CIOÈ ITALIANI *****
annulloni, puttanieri, superstiziosi, corrotti, ignoranti, ubriaconi, calciomani… Ma anche generosi, ospitali, socievoli… Di chi stiamo parlando? Degli italiani naturalmente, visti dagli stranieri. Meglio dai giornali, le radio e le televisioni straniere. È in base a queste informazioni che «gli altri» decidono se venire in Italia come turisti, studenti o investitori. Klaus Davi esamina da anni duecento autorevoli testate straniere, raccogliendo ogni articolo sull’Italia. Porca Italia (Garzanti, 321 pagine, 15,50 euro) è una sintesi di questo archivio: 500 mila voci, con vecchi luoghi comuni e nuovi pregiudizi. Da leggere ma con una avvertenza. Che gli stranieri che ci guardano e ci giudicano prima di scagliare la pietra dovrebbero farsi un’esame di coscienza anche loro.
F
Televisione
MobyDICK
pagina 20 • 16 aprile 2011
Da Losanna a Brembate sulla scia dei “non so”
spettacoli
D
Musical
NERO COME IL PETROLIO, NERO COME IL MISTERO ispirazione per questo documentario mi è venuta da una pagina di Petrolio in cui Pasolini comincia a tracciare un diagramma, una rete di collegamenti... in un lavoro che purtroppo per noi e per il nostro Paese è rimasto incompiuto». Roberto Olla presenta così il bel documentario Nero Petrolio, prodotto da RaiCinema e ora disponibile in dvd. Ispirata dal noto romanzo incompiuto di Pasolini, l’opera ripercorre l’epopea nazionale dell’oro nero, che tra omicidi, complotti, tangenti e giochi di potere attraversa in maniera palpabile ma misteriosa il Novecento italiano.
«L’
di Pier Mario Fasanotti omanda di base: sentivamo, noi telespettatori, la necessità di un programma di approfondimento virato tutto sulla cronaca nera più recente? Verrebbe subito da rispondere «no». Eppure Italia 1, ben dopo la mezzanotte, manda in onda «Studio Aperto Live», col titolo Senza giustizia. Si assemblano immagini, dichiarazioni, confessioni, testimonianze su ragazzine uccise (o scomparse). Bisogna dire che la regia è buona. Così come buoni sono la conduzione e il coordinamento di Gabriella Simoni, che per alcuni anni è stata inviata nei vari fronti di guerra. A ciò si deve aggiungere l’ora tarda: non pochi sono insonni e cercano di prendere sonno con la tv accesa. Del resto anche La 7 ha più volte offerto la serie Delitti precedentemente allestita su rete Sky. Un’altra ragione della scelta: se la cronaca politica rimane sempre deprimente e ripetitiva, quella nera risulta almeno nera e non ossessivamente grigia. Infine c’è l’ipotesi che Mediaset abbia scoperto la necessità di riempire uno spazio notturno. Politica no. Quiz no. Un film imporrebbe di stare svegli
DVD
per quasi due ore, dato che ci sono gli inserti pubblicitari. Gabriella Simoni è andata in Svizzera, alle spalle di Losanna, per la scomparsa delle due gemelline di padre (ingegnere) elvetico e madre italiana. Poi ad Avetrano (Puglia) per l’omicidio di Sarah Scazzi. Poi a Brembate (Bergamo) per il ritrovamento di Yara in un desolato campo di grano. Seguendo la giornalista e i suoi colleghi corrispondenti si capiscono meglio le differenze ambientali. Gli svizzeri o non parlano o, se lo fanno, non dicono quasi nulla, a parte un bravo cronista locale (MatinDimanche) che insiste su un fatto inconfutabile: «Non c’è prova obiettiva che le bimbe abbiano lasciato la Svizzera». L’allarme lanciato dalla mamma ha avuto riscontri tardivi. Il suo ex marito, che per lettera ha praticamente rivelato che le «bimbe ora sono in pace», si è gettato sotto un treno alla stazione di Cerignola (Puglia). In terra italiana la partecipazione emotiva è scattata subito. Un ristoratore ha chiamato i carabinieri appena s’è accorto di aver scorto il volto di quell’uomo. La madre delle bambine continua a implorare
che le indagini proseguano: «Non lasciateci soli, per favore». Da parte delle autorità elvetiche si paventa l’ipotesi di sospendere la ricerca perché «troppo costosa». Ad Avetrano ormai la fine di Sarah viene definita «un enigma». Se in Svizzera è esplosa una miscela composta da rabbia coniugale, meticolosità e depressione, in Puglia si è sempre sfiorato, di ora in ora, il nucleo della tragedia greca. Con al centro l’inestricabile groviglio di relazioni familiari. A sporcare il dramma il protagonismo mediatico di personaggi-chiave. Ora che lo zio e la cugina di Sarah sono in carcere s’è spento il coro, o l’assordante brusio, di quella che pareva davvero essere tragedia. Al suo posto rimane l’enigma, elemento assente nella tragedia, che vuole una soluzione («un mostro» diremmo oggi) e la catarsi. Lo stesso dicasi della morte di Yara di Brembate. Non ha certamente aiutato la fiducia nella giustizia un procuratore che ha indetto una conferenza stampa. Per dire che cosa? «Non so». La breve frase è stata ripetuta ben 23 volte. Complimenti, signor magistrato.
CONCERTI
SOTTO LA MOLE CON FABI E SUBSONICA ove ore di musica per celebrare il 25 aprile. Come da tradizione a Torino, piazza San Carlo ospita a partire dalle 15 il concertone gratuito giunto alla sua quarta edizione. Ad aprire l’evento la Fanfara della Brigata alpina taurinense, e a chiudere in bellezza i Subsonica, da poco usciti con l’ultimo disco Eden. Ma in scena ci sono anche il talentuoso Gian Maria Testa, il redivivo Niccolò Fabi e i Mambassa che proporranno anche brani dal loro quinto disco Lonelyplanet. Chiara Canzian, Gema, Carlotta e Serena Abrami, arricchiscono il parterre di voci femminili.
N
di Francesco Lo Dico
Flashdance made in Italy: anche loro saranno famosi ell’ambito dello spettacolo popolare, la forma del musical è senz’altro la più diffusa in questo periodo. L’ultima produzione del settore approdata nei teatri della capitale è quella della Stage Entertainment: Flashdance il musical. Dopo Milano, Trieste, Firenze, Padova, Torino, Napoli, Bologna e Bari, infatti, da mercoledì la storia di Alex Owens è in scena al Teatro Olimpico di Roma per l’ultima tappa della sua lunga e fortunata tournée italiana. Ad annunciare l’appuntamento capitolino, un flashmob inscenato a Piazza di Spagna lo scorso 9 aprile: sulla scalinata di Trinità dei Monti, 300 tra appassionati e membri del cast hanno iniziato a ballare sulle note di Maniac di Michael Sembello una coreografia concordata via web. Un moltiplicarsi dell’offerta, quella del mondo dei musical, che suggerisce una riflessione. Se da una parte, infatti, va riconosciuto a questo settore il merito di essere entrato nei budget familiari di coloro che non erano abituati ad andare a teatro, dall’altra, questa forma spettacolare è spesso guardata con supponenza dagli estimatori dell’arte tersicorea, e non sempre a torto. Popo-
N
di Diana Del Monte larità e qualità non sono due concetti in antitesi fra di loro, almeno in teoria, ma questo avviene spesso nella realtà. Concretamente, siamo ancora in cerca del nuovo Bob Fosse, il coreografo di Sweet Charity (1969) e Cabaret (1972), vincitore di otto Tony Awards per la coreografia, che grazie alla sua cultura è riuscito a portare la storia della danza all’interno di quell’intrattenimento popolare che è il musical. Una combinazione splendida, sfortunatamente irripetuta. Sulla stessa onda si pone l’obiettivo dichiarato dalla società fondata da Joop Van den Ende nel 1998, ovvero portare la qualità di Broadway in Europa; così, dopo aver preso in prestito dagli Stati Uniti Mamma Mia e La Bella e la Bestia, la Stage
Entertainment Italia ha deciso di produrre uno spettacolo completamente nuovo, Flashdance appunto. I risultati, nei termini della vendita dei biglietti, sono già arrivati e certamente il giovane team creativo, così come quello produttivo, può ritenersi più che soddisfatto e trarre lo spunto per impegnarsi, come ha confermato il regista Federico Bellone durante la conferenza stampa, nella prossima avventura. I lavori della Stage Entertainment sono tra i migliori a calcare le nostre scene, ben curata e figlia di un’ottima professionalità è anche la coreografia dell’inglese Gail Davies. Dal punto di vista del pubblico è quasi superfluo dire che le musiche e la storia rapiscono. Espressi nel sottotitolo «Io ce la farò»,
i sentimenti che muovono il film e, di conseguenza, lo spettacolo appartengono alla nostra umanità. In segreto e non necessariamente abbigliati con scaldamuscoli e maglietta strappata, chi di noi può onestamente negare di sognare seguendo la storia Alex Owens? Sotto la cascata in pieno palcoscenico, seguendo le note di Maniac e sicuramente durante l’ultimo salto eseguito di fronte alla commissione dell’Accademia di Danza di Pittsburgh - che per le riprese venne affidato a cinque diversi danzatori, tra cui un uomo - qualcosa all’interno dello spettatore è destinato ad animarsi ogni volta. I ragazzi sono bravi, tutti italiani, giovani e «senza nome», come è stato sottolineato dalla produzione stessa. Una scelta che poggia su due certezze, hanno spiegato durante la conferenza stampa, la prima delle quali si lega a quella tradizione di Broadway che non prevede i grandi nomi a tutti i costi, la seconda, certamente più in linea con lo spirito del musical stesso, è che questi ragazzi il nome se lo faranno.
Flashdance - il musical, Roma, Teatro Olimpico, fino al 22 maggio
MobyDICK
Cinema
16 aprile 2011 • pagina 21
di Anselma Dell’Olio
ei pigro; stai usando solo un frammento del tuo potenziale». Una ramanzina simile l’abbiamo sentita o pensata molte volte, specie davanti a procrastinazioni ingiustificate. Per le defaillances sessuali c’è il Viagra ma per i nostri sogni frustrati - successo, soldi, il romanzo bloccato nella penna che proprio non vuol uscire? Alan Glynn, scrittore irlandese, ha immaginato per il suo romanzo The Dark Fields (2001) un farmaco che permette di ricordare e correlare ogni informazione, dato, notizia, fatto, appreso attivamente o passivamente da quando siamo nati, accessibile all’istante. Si dice che utilizziamo solo una piccola percentuale della materia grigia che abbiamo. E se potessimo utilizzarla tutta? Saremmo super produttivi, dei superuomini, dei semidei se non delle divinità, rispetto ai non drogati. Limitless è un techno-thriller tratto dal romanzo dalla sceneggiatrice e produttrice Lesile Dixon (Mrs. Doubtfire, Freaky Friday, Hairspray) che esamina le conseguenze di una pillola simile. NZT orrisponde al desiderio del quick-fix, la soluzione rapida e indolore che tutto risolve, con naturalezza e senza sforzo.
«S
Eddie Morra, (Bradley Cooper) aspirante autore, ha il blocco dello scrittore da anni. L’editore è spazientito; vuole il manoscritto o i soldi dell’anticipo indietro. Anche Lindy (Abby Cornish, Bright Star), la ragazza di Eddie, donna in carriera, non ne può più di vederlo ciondolare scarmigliato, depresso e nullafacente, con il computer accesso a vuoto e sempre al verde, e a inizio film lo lascia. Il suo appartamento-topaia è sempre più sporco, disordinato, il lavabo colmo di piatti sporchi. Scende per comprarsi da mangiare e s’imbatte prima nell’asiatica che minaccia di sfrattarlo se non paga tre mesi d’affitto arretrato, e poi nell’ex-cognato Vernon (Johnny Whitworth), uno spacciatore che ora si occupa di farmaceutica. Regala a Eddie la NZT, una pillola trasparente «già approvata e di prossima distribuzione.Te la do in anteprima: ti cambierà la vita». Scettico ma senza più nulla da perdere, il disperato lo ingoia. In pochi attimi, tutto quello che Eddie ha letto, sentito o visto gli ritorna chiaro in mente. Da anima persa da compatire, si trasforma in homo faber super-efficiente come nemmeno sognava di poter essere: pulisce casa in un baleno, si tira a lucido, compra abiti decenti, va dal barbiere, seduce l’indisponente orientale che lo tartassava per l’affitto e butta giù il romanzo di getto, scrivendo tutto in bella copia alla prima stesura. Consegna il manoscritto all’incredulo editor che non ci sperava più. Poi gioca con successo in borsa in Internet, facendosi prestare i soldi da Gennady (Andrew Howard), uno strozzino russo. Il gangster si pappa una delle pillole e dopo non vuole indietro solo il suo denaro, ma tutta la scorta di Eddie e il nome del suo pusher. Intanto Vernon è morto non per cause naturali, e parte il thriller, con Eddie inseguito da malviventi decisi a tutto per procurarsi la droga che li trasforma in padroni dell’universo senza limiti (limitless, appunto). I poteri scatenati dalla NZT fanno ri-innamorare Lindy, e le strabilianti vincite in borsa portano Eddie all’attenzione di Wall Street, fino a stuzzicare l’interesse di Carl Van Loon (Robert De Niro), un finanziere stimato, un Warren Buffett al cubo, affascinato dall’irresistibile ascesa e dall’acutezza analitica dello sconosciuto genio della finanza più ardita
Robert De Niro
simulacro
di se stesso
e creativa. E qui ci s’imbatte in una delle debolezze del film. De Niro, come si dice a Hollywood di un attore demotivato, phones it in. Più che recitare, manda a dire per telefono. Non s’impegna, non aggiunge nulla allo scritto nudo e crudo, è piatto come non era nemmeno nell’ultimo, esecrabile film comico-demenziale con Ben Stiller, Vi presento i nostri. È il simulacro del premio Oscar che ci ha sedotto in Mean Streets, New York, NewYork,Toro scatenato, ma anche in commedie commerciali come Terapia e pallottole e Un boss sotto stress, con l’indimenticabile Billy Crystal. Era persino più coinvolto in Manuale d’amore 3, forse ringalluzzito dalla burrosa Monica Bellucci. Cooper, poi, non è un primo attore classico. Ha occhi piccoli (uno svantaggio sullo schermo) redenti dal colore, un blu acrilico catarifrangente, e il classico appeal del cattivo seducente e infido. Il successo in film comici come Una notte da leoni lo ha catapultato in ruoli da protagonista. È perfetto per l’inquietante Eddie Morra, che scopre che la NZT ha effetti collaterali pericolosissimi, con violenze e black-out accennati e lasciati irrisolti nel film. Il finale mi ha sorpreso; non lo anticipo, ma elide le conseguenze morali e metafisiche della scorciatoia farmaceutica per un paradiso in terra. Anche se non pienamente soddisfacente, è da vedere.
Se sei così ti dico sì è un titolo che va perdonato, perché il film è meglio di quanto potrebbe sembrare. Piero Cicala (Emilio Solfrizzi) fa il cuoco nel ristorante della ex moglie (Iaia Forte) nel paesino pugliese d’origine. Negli anni Ottanta era un cantautore con il disco dell’estate in testa alla hit parade, una canzonetta bubblegum. La sua vera vocazione era la ballata romantica ma il suo Amami di più non interessa a nessuno e il successo evapora veloce com’è arrivato. Un giorno un emissario del programma tv di Carlo Conti, I migliori anni, gli propone il ritorno in tv. Prima rifiuta ma la tentazione della fama è troppo forte. A Roma alloggia in un albergo lussuoso dove gli rifanno il look: parrucchino, capelli tinti, traje de luz da Las Vegas de’ noantri. Nello stesso hotel passa la diva planetaria del momento, Talita Cortés (Bélen Rodriguez), per il lancio del suo nuovo profumo, con codazzo di tirapiedi, gossipari e fotografi. Inspiegabilmente l’icona sexy invade la suite di Piero con il suo entourage. Poi lo vede in tv, s’incapriccia della sua esibizione canora con mossette d’epoca e lo porta in America sull’aereo privato a cantare a un party privato, con esiti prima umilianti e poi sorprendenti. Il ritratto del mondo televisivo fa pensare a Ginger e Fred, la caleidoscopica, geniale, misconosciuta meditazione sul tema di Federico Fellini, di cui Cappuccio è stato assistente alla regia proprio per quel film. Solfrizzi è attore di rango; la Forte è potente e sprecata, la Rodriguez calzante in una parte fatta su misura per lei. Il film ha il pregio di essere godibile e non ombelicale; ma dopo l’opera del maestro di Rimini, ci si domanda perché è stato fatto.
Più che recitare, lo manda a dire per telefono… L’indimenticabile interprete di tanti film è l’anello debole del techno-thriller “Limitless”. Convince però Emilio Solfrizzi in “Se sei così ti dico di sì”. Poi c’è il Mediterraneo del “Colore del vento”
Il colore del vento è un documentario di Bruno Bigoni girato durante un viaggio in cargo per porti del Mediterraneo, con attracco a Barcellona, Bari, Sousse (Tunisia), Sidone (Libano), Lampedusa, Dubrovnik, Genova. Ci sono testimonianze di guerre, d’ondate d’immigrazione, con spettacolari immagini e buona musica. Colpisce il racconto della guerra d’indipendenza della Croazia, raccontata da una trentenne che all’epoca era bambina. Istruttiva e illuminante l’esperienza ormai ventennale dell’isola siciliana, invasa a ripetizione da orde di disperati nordafricani e africani. Nella loro comprensibile ricerca di una nuova vita, sconvolgono quella degli isolani.
Camera con vista
pagina 22 • 16 aprile 2011
di Sandra Petrignani
li editori non amano i libri di racconti, vogliono romanzi. E pazienza se poi i romanzi, in grandissima parte, non sono che racconti dilatati, e quindi romanzi sbagliati. Perché un romanzo è qualcosa di diverso da un racconto. Il primo ha una costruzione complessa, personaggi che evolvono nel corso della storia, un intreccio con un certo numero di sorprese e cambiamenti (psicologici, esistenziali, temporali). Nel racconto è essenziale un punto focale, perché centrale è il dettaglio. Detto altrimenti: il racconto va in profondità, è verticale; mentre il romanzo è prevalentemente orizzontale. La morte di Ivan Il’ic, per esempio, non è un romanzo, anche se gli editori si affannano a presentarlo come tale e anche se è abbastanza lungo perché i lettori abbiano l’illusione di aver letto un romanzo. Ma cos’è questo dettaglio illuminato dal racconto? È il perturbante della vita. Nel caso di Ivan Il’ic è la morte in persona. Un racconto riuscito mette a fuoco una crisi, una crepa nello scorrere liscio dei giorni.
G
Sembra un discorso che lascia il tempo che trova, ma non è così, viste le difficoltà che i libri di racconti hanno a entrare in libreria, ammesso che riescano a superare lo scoglio editoriale. Il pubblico non li vuole, è la giustificazione. Quale pubblico, mi viene da chiedere. Quello che si contenta dell’ultimo libricino - targato romanzo - di un ennesimo esordiente? Ma dove andranno a parare tutti questi esordienti, autori spesso di un solo libro, destinati a non tirare fuori l’opera numero due? Questa, però, è un’altra storia. Torniamo ai racconti e, in particolare, a quelli che ha scritto Patrizia Zappa Mulas per et al. /edizioni, con il bel titolo Purché una luce sia accesa nella notte. Sono quattro in tutto e la bandella di copertina si affretta ad avvertire l’eventuale acquirente che si tratta «forse di quattro capitoli sparsi di un romanzo nascosto», a proposito di quanto andavamo dicendo prima. Ma non importa. Siano o no capitoli di un romanzo a venire, quel che conta è che sono racconti molto belli, capaci di mettere a fuoco uno stato d’animo incerto e perturbante. Tre di essi sono ambientati a Milano, una Milano insolita, una Milano «che fa ombra troppo presto sui palazzi inghiottiti dal buio», perché poche sono le
MobyDICK
ai confini della realtà
Perché i berlinesi amano i cani
finestre delle case illuminate in una città dove la gente sta tanto in ufficio. Una Milano vista con gli occhi di una bambina che si sente «diventare grande» (S. Siro) e poi lo diventa e studia danza (Piazza Fontana) e le sue ambizioni si scontrano con la violenza incomprensibile di una bomba e la ragazza capisce che non potrà sopravvivere «in quella devozione muscolare esclusiva». Eppure è ancora e sempre il corpo che trionfa nella scalata al vulcano del racconto Stromboli, dove la forza d’ani-
felici dell’età adulta. Patrizia Zappa Mulas è un’attrice teatrale di riconosciuto talento. Ma è anche scrittrice di rari romanzi (L’orgogliosa e Rosa furia, pubblicati dalla Tartaruga) e del racconto Tigre adorata (nottetempo). È la generosa curatrice dell’opera omnia di Alice Ceresa e di alcuni testi di Franca Valeri. La sua scrittura è nitida, corporea: riesce a far passare un’impostazione raziocinante della vita (ha fatto studi filosofici) dentro la fisicità di corpi che s’incontrano e scontrano, che combattono lotte -
Gli editori preferiscono i romanzi, ma i racconti riservano illuminanti sorprese, proprio perché la grandezza alberga nel dettaglio. Così il libro di Monika Maron si è rivelato un’ottima guida alla città tedesca e ai suoi abitanti. Un’insolita Milano è invece lo scenario dei quattro capitoli di un “romanzo a venire” di Patrizia Zappa Mulas. Mentre l’eccentricità è la cifra di Eugenio Baroncelli mo si misura nella resistenza fisica e nel conclusivo Via Solferino, raccontato da un punto di vista maschile, ma dove l’ex bambina ballerina torna come antico amore del protagonista, amore mai superato «perché niente era mai passato». Neanche la giovinezza, se alla sua forma fantasmatica si oppone la volontà di vivere e di essere
anche spirituali - con se stessi, si attrezzano per parare i colpi del destino e, a volte, battagliano (vincendo) contro di essi.
In un recente viaggio che ho fatto a Berlino, è stato un libro di racconti la mia guida, di una scrittrice tedesca che avevo conosciuto e dimenticato senza mai leggerla. Avevo fatto molto male, ma i libri sanno trovare da soli la loro strada e ci cadono nelle mani quando ne abbiamo bisogno. La scrittrice è Monika Maron, nata a Berlino Est nel ’41 e poi domiciliata nella parte Ovest della città. Il libro, La mia Berlino, è stato tradotto nel 2005 da Bollati Boringhieri (72 pagine, 14,00 euro); malgrado i tempi che corrono, in cui i bei libri non strombazzati da uffici stampa aggressivi e giornalisti culturali suggestionabili spariscono nel giro di poche settimane dalle librerie, si può ancora trovare previa ordinazione. Dai brevi testi autobiografici della Maron ho capito un sacco di cose sulla città e sui suoi abitanti che in nessu-
na delle mie numerose visite, prima e dopo la caduta del Muro, avevo colto. Una per tutte: è evidente anche a un turista distratto che ai berlinesi piacciono i cani. Ne possiedono molti più che in ogni altro posto e li portano a passeggio sotto la neve come sotto l’acqua con sorridente consuetudine. Ma perché improvvisamente ora gli amati quattrozampe sono tutti al guinzaglio? Era così amichevole vederli scorrazzare liberi per la città, in qualsiasi quartiere e a qualsiasi ora. Beh, la Maron ce lo spiega, dopo aver dato questa stravagante spiegazione del legame fra berlinesi e cani: «È anche possibile naturalmente che la parlata berlinese, che spesso, per il tono a tratti abbaiante, porta a non capirsi nelle relazioni con altri ceppi tedeschi, sia particolarmente adatta a comunicare coi cani». Ma insomma, ammette, «esiste a Berlino anche una decisa frangia di persone che li odia, specializzate soprattutto nel combattere la cacca…». Ecco, questa bellicosa minoranza ha vinto e adesso «tutti i cani berlinesi, anche il terrier della mia vicina, dalle dimensioni di una scarpetta, devono essere tenuti al guinzaglio». Non posso che associarmi alla sua finale considerazione: «i nemici dei cani e quelli dei fumatori non solo perseguitano con analogo furore i loro avversari, ma paiono ugualmente ossessionati dal ritenere che un mondo privo di fumatori e di cani sarebbe finalmente un mondo pulito, felice e pacificato». E dato che abbiamo difeso i fumatori, mi viene in mente Eugenio Baroncelli, autore di eccentrici racconti pubblicati con Sellerio. Cito dal Libro di candele. 267 vite in due o tre pose il capitoletto dedicato ad Anton Webern, che comincia così: «Certo che il fumo uccide». Webern fu impallinato nel ’45 da un soldato americano perché, incurante del coprifuoco, era uscito sul balcone a fumarsi un sigaro, che brillava nella notte.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
La Corte Costituzionale dice no ai “sindaci sceriffo” CRISI EDUCATIVA: COME AFFRONTARLA? Il Presidente degli Stati Uniti Obama, chiamato alla revisione della legislazione scolastica, più nota come No child left behind, davanti ad un pubblico di studenti e docenti, ha testualmente affermato: «Voglio che ogni bambino possa tornare a scuola in autunno sapendo che la sua educazione/istruzione è la priorità dell’America». Cosa non ha funzionato nell’attuale sistema educativo americano? Pur riconoscendo la bontà delle intenzioni dei legislatori, è mancata la flessibilità per rendere efficace la norma e soprattutto non si è investito sufficientemente nei docenti e nelle scuole. In più i risultati del sistema scolastico pubblico, sempre più misurati su test standardizzati, hanno prodotto una forte pressione su docenti e studenti. Così, facendo eco alle preoccupazioni di genitori ed educatori, Obama ha ribadito con determinazione che un bilancio che sacrifica l’impegno per l’educazione equivale a un bilancio che sacrifica il futuro del Paese. Investire, quindi, nell’educazione è la sfida che l’amministrazione americana si è posta per restituire fiducia ai giovani, recuperare competitività e leadership. E in Italia? Il riordino dei cicli di istruzione secondaria superiore è operativo dal 2010, ma non pare sufficiente risposta alle aspettative di un effettivo cambiamento della scuola italiana per lunghi decenni legata al modello gentiliano. Cosa manca per dare forza ed efficacia al nostro modello educativo? 1. La valorizzazione della professione docente che impone una revisione dello stato giuridico del ruolo, mediante l’introduzione del principio di progressione di carriera, in relazione alla professionalità e le competenze maturate, per premiare effettivamente il merito. 2. Il riferimento a standard nazionali in un quadro di riferimento, almeno europeo, su cui misurare e controllare il raggiungimento delle competenze degli studenti e la bontà del modello didattico e pedagogico delle singole scuole. 3. Il completamento della costruzione dell’Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema di istruzione), che oltre a valutare gli apprendimenti, sottoponga a valutazione anche l’organizzazione didattica e la leadership educativa ed amministrativa. Investire nella scuola, dunque, deve essere un impegno di tutti, per rispondere alle esigenze di formazione dei giovani e alla valorizzazione dei loro talenti, in modo da renderli protagonisti di una nuova fase di crescita e sviluppo del Paese. Lucia Failla C I R C O L O LI B E R A L VE R O N A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Addio ai sindaci sceriffo. Questo in sostanza quello che dice la Corte costituzionale nella sentenza n. 115 dello scorso 7 aprile. I poteri riconosciuti ai primi cittadini dal d.l. n. 92/08 sono costituzionalmente illegittimi. Nell’affermare ciò i giudici sono categorici: i sindaci possono vietare determinati comportamenti e sanzionare la trasgressioni solo in casi contingibili e urgenti. In sostanza niente più ordinanze che vietino indiscriminatamente i più svariati modi di fare. O c’è un motivo realmente indifferibile per farlo o l’ordinanza è illegittima. Sono tante le città italiane dove i sindaci, per i più disparati motivi, hanno deciso di vietare una serie di comportamenti altrimenti leciti. Le ordinanze spesso si sono rivelate buone solo a fini propagandistici e per mascherare l’incapacità di governare il territorio. Si vieta tutto finendo per non sanzionare quasi nulla se non per far cassa. Nulla di tutto ciò sarà più possibile. Non solo: chiunque, d’ora in poi, venisse multato sulla base di quei provvedimenti amministrativi potrebbe fare giustamente ricorso. Caduti i poteri dei sindaci, infatti, anche le ordinanze sono da considerarsi illegittime.Vogliamo sperare che le amministrazioni comunali interessate annulleranno, nell’interesse dei propri cittadini, quei provvedimenti illegittimi.
Alessandro Gallucci, Aduc
PRESCRIZIONI BREVI PER GLI INCENSURATI
LE BANCHE RIPARTANO DALLE FAMIGLIE
L’introduzione nel nostro ordinamento giuridico di una prescrizione più breve dei reati nei casi in cui l’imputato sia incensurato, a parte le considerazioni che la indicano come una ulteriore legge ad personam o che può essere considerata come una amnistia mascherata, di fatto rischia di diventare un’amnistia permanente per i reati futuri. E infatti gli enormi carichi di lavoro degli uffici giudiziari aggravati dai tagli operati per il settore giustizia, la mancanza da più di un decennio di concorsi per il ruolo dei cancellieri dell’ex carriera direttiva, la mancata definizione della magistratura onoraria che finora ha svolto preziosa opera di collaborazione e di supplenza incidendo notevolmente a ridurre l’arretrato, per citare solo alcuni esempi, non lasciano prevedere una accelerazione nello smaltimento del carico lavorativo. Perché può diventare una amnistia permanente? È facile dirsi: oltre che per il carico di lavoro perché c’è il rischio concreto che chi delinque per professione cerchi di coinvolgere sempre più degli incensurati convincendoli che con la prescrizione breve la faranno franca. Un po’ quello che avviene, come saltuariamente si legge sulla stampa, a proposito di barche da diporto o macchine di grosse cilindrate intestate a nullatenenti.
La famiglia ha rappresentato per il nostro Paese un bacino fondamentale di creazione di risparmio e il motore del miracolo economico a partire dal dopoguerra. Essa è stata capace di attutire l’impatto della crisi economica, mentre la forza del risparmio delle famiglie ha consentito alle nostre banche di restare “salde”di fronte alla crisi finanziaria globale. Auspichiamo che il soggetto “famiglia” sia valorizzato, riconosciuto e rilanciato dai nostri istituti di credito, tramite politiche creditizie ad essa dedicate, nell’ambito del provvidenziale ritorno ad un credito ed a una finanza, autenticamente a servizio dell’economia reale. In particolare chiediamo che le aziende di credito: istituiscano apposite politiche creditizie per incoraggiare la costituzione di nuove famiglie; amplino, sia per importi sia per durata, le agevolazioni previste dal “Fondo di Credito per i nuovi nati”, avviato con la convenzione tra Abi e Dipartimento per le politiche della famiglia attualmente in scadenza; incoraggino il credito, la consulenza ed i servizi a favore dell’impresa familiare, costitutivamente orientata sul lungo periodo e, grazie al valore unico ed irripetibile della trasmissione generazionale delle professionalità e delle conoscenze, istituzione affidabile e solida anche per merito creditizio. Misure essenziali per ri-
Luigi Celebre
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
Viva le calorie Abbasso la dieta TRENTON. Di solito una persona sovrappeso vuole dimagrire. Donna Simpsons, del New Jersey, invece no, vuole ingrassare ancora di più. E non che pesi poco: adesso pesa oltre 290 chili, ma vuole arrivare a 1.000 libbre (494 kg). Non che sia un compito facile, perché il suo sforzo richiede 12.000 calorie al giorno (contro le 2.000 di una dieta bilanciata), e annullare ogni sforzo fisico. «Correre dietro a mia figlia mi impedisce di aumentare di peso», ha spiegato la Simpson, aggiungendo però che si è dotata di una sedia motorizzata per gli spostamenti. Non che prima corresse veramente, dato che ogni 5 o 6 metri era comunque costretta a sedersi per prendere fiato. Per poter coprire i costi della sua alimentazione (circa 750 dollari a settimana) Donna Simpson ha creato un sito web dove gli utenti, a pagamento, possono guardarla mangiare via webcam. Una forma di feticismo più diffusa di quel che si crederebbe, negli Usa, dove ci sono anche dei siti di appuntamenti per persone oversize, nei quali la signora ha anche trovato marito. Inutile dire che la Simpsons non si preoccupa minimamente degli effetti sulla sua salute del suo stile di vita.
spondere al grave declino demografico che mette a rischio il futuro modello di welfare del nostro Paese e per rivitalizzare l’impresa familiare che rappresenta ancora oggi un elemento imprescindibile per costruire il futuro economico dell’Italia.
Daniele Nardi Forum delle associazioni familiari
SCANDALO PARMALAT L’ulteriore prescrizione per i banchieri dello scandalo Parmalat è inaudita, soprattutto perché gli 80mila risparmiatori, invece di iniziare la strada della discesa per ottenere i soldi che gli spettano dopo il crac, riceveranno l’ulteriore freno per una serie di contemporaneità e cavilli legati al processo di primo grado che rischia di negare la giustizia a tantissima gente. Ecco il vero volto della crisi nel nostro Paese.
Bruno Russo
PATENTE OVER 80
Tanto di cappello Monete, palline d’argento, perline, pon-pon e fili di lana colorati: i tradizionali cappelli delle donne Akha, una popolazione che vive nelle montagne della Cina ma anche in Laos, Myanmar e nord della Thailandia, hanno un significato che va al di là della semplice moda. I vari tipi di decorazione denotano la località di appartenenza ma anche lo status della proprietaria
La circolare del ministero della Salute che illustra i principi applicativi in ordine al nuovo Codice della strada precisa che le persone che hanno compiuto gli 80 anni possono continuare a guidare ciclomotori e/o veicoli a condizione che ottengano dalle Commissioni mediche locali uno specifico attestato comprovante la persistenza dei requisiti fisici e psichici, a seguito di una visita specialistica biennale. Il rinnovo della patente per gli ultraottantenni deve avvenire esclusivamente per il tramite della Commissione medica locale, istituita presso le unità sanitarie locali capoluogo di provincia. Questo fatto comporta una serie di problematiche per le migliaia di ultraottantenni che vogliano rinnovare la patente, dovuti ai lunghi spostamenti, ai tempi di attesa e all’aumento dei costi da sostenere, oltre a causare spesso disagi a tutti i cittadini della provincia che si rivolgono al servizio sanitario del capoluogo. Bisogna che il governo intervenga.
Marco Desiderati
il caso Arrigoni
pagina 24 • 16 aprile 2011
Il presidente Napolitano ha scritto alla madre della vittima: «Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze»
L’altra guerra di Gaza Dietro la tragica esecuzione dell’italiano c’è la sfida al potere di Hamas nell’area di Antonio Picasso assassinio di Vittorio Arrigoni è la dimostrazione della tragedia che la Striscia di Gaza sta vivendo da anni. Non solo perché cinta d’assedio da Israele e chiusa, sul suo fianco occidentale, da un Egitto che lascia passare solo con il contagocce poche risorse alimentari per la popolazione palestinese. L’incubo di Gaza è soprattutto interno. Dettato da una politica, da parte di Hamas, priva di strategia e votata alla autodistruzione. Il 36enne attivista italiano è morto perché era convinto di combattere per una causa giusta. «Questa barbarie terroristica suscita repulsione nelle coscienze civili» ha scritto il capo dello Stato Giorgio Napolitano, in una lettera inviata alla madre. L’Ong di cui era membro, l’International solidarity movement (Ism), accusa Israele di adottare una linea di apartheid nei confronti dei palestinesi. È una visione schierata in maniera radicale. Per la cronaca, l’Ism è stata fondata nell’agosto 2001 su iniziativa congiunta di israeliani e palestinesi. Questo fa intendere che si tratti di un progetto ideologicamente schierato, ma non ad excludendum. Non è questa la sede per discutere dell’interpretazione attribuita dall’Ism al conflitto israelo-palestinese.
L’
Il corpo di Arrigoni è stato trovato dalla polizia di Hamas, intervenuta per liberarlo nottetempo e prima che scadesse l’ultimatum lanciato dai rapitori. Tuttavia, non è stato il blitz a causare l’omicidio. Sembra infatti che Arrigoni sia morto nel pomeriggio di giovedì. Vale a dire almeno otto ore prima dell’intervento dei miliziani. Il perché sia stato ucciso non è chiaro. Altrettanto si potrebbe dire del suo sequestro. La fantomatica “Brigata dei valorosi compagni del profeta Muhammad bin Muslima” aveva chiesto in cambio il rilascio dello sceicco Abu Walid al-Maqdisi, comandante della cellula del gruppo At-Tawheed wa al-Jihad, legato al defunto leader di al-Qaeda in Iraq, Abu Musab al-Zarkawi. Al-Maqdisi è stato ed è ancora
Immotivato attacco del portavoce nostrano di Ism, Alfredo Tradardi
Ma così i suoi amici lo hanno tradito di Luisa Arezzo gomento, sconcerto, cordoglio, turbamento, condanna, angoscia, dolore, desiderio di verità. Con queste parole il mondo delle Ong e quello istituzionale, a partire dal nostro presidente Giorgio Napolitano («L’orrendo crimine di cui è rimasto vittima il nostro Arrigoni impone che si accertino la verità e la responsabilità per quello che è accaduto»), è intervenuto ieri sulla barbara esecuzione di “Vic”, l’attivista filopalestinese di 36 anni rapito e poi giustiziato da un commando ultra-estremista salafita. Colpiscono dunque come un pugno nello stomaco per la loro violenza le dichiarazioni di Alfredo Tradardi, coordinatore di Ism Italia. L’acronimo sta per International Solidarity Movement, ed è la Ong in cui militava da anni il volontario italiano ammazzato ieri. «Nell’uccisione di Vittorio Arrigoni - ha sentenziato Tradardi - ci sono responsabilità precise, politiche e morali, dello Stato di Israele con la complicità del governo italiano che è tra i suoi più fedeli e cinici alleati. Non a caso pochi giorni fa il presidente del Consiglio ha dichiarato che non avrebbe fatto partire la prossima Freedom Flotilla», la nuova nave di attivisti che dovrebbe salpare in maggio con aiuti destinati alla popolazione di Gaza, con l’obiettivo di violare l’embargo israeliano». E ancora: «In questo momento ci sono parecchi Stati che stanno cercando di alzare il livelo di tensione perché il problema generale è quello di contrastare le rivoluzioni arabe». Insomma, un dagli addosso a Italia e Israele sgrammaticato, senza
S
il coraggio di un affondo politico motivato nei dettagli, prettamente ideologico e totalmente fuori luogo nel clima di dolore che si sta vivendo. Ma c’è di più: in tutto il suo comunicato non una riga, non un accenno a chi, materialmente, ha rapito e poi giustiziato “Vic”, il suo collega. Non una riga di condanna, fatta eccezione per un «Ci chiediamo chi siano le forze che muovono un’iniziativa simile». Una frase inserita più per dovere di circostanza che per imperativo desiderio di conoscere la verità.
Eppure la pista salafita, al di là del fatto che sia quella di Tawhid wal-Jihad, il gruppo estremista filo al Qaeda, è cosa certa. Possibile che non abbia sentito il dovere di condannarla e di spendere una parola contro gli esecutori materiali dell’omicidio e contro il jihadismo salafita, ovvero la peggior espressione del fascismo islamico? Parliamo di fondamentalisti che non rifiutano soltanto i valori e i diritti occidentali, li combattono. Con lo stesso odio che li ha portati ad ammazzare un giovane volontario filo palestinese, colpevole di essere comunque espressione di quei valori e diritti. Colpevole di aver sostenuto la mobilitazione dei giovani di Gaza per abbattere, sull’onda della primavera araba, lo stato di sopravvivenza della Striscia. La furia omicida che ha ucciso “Vic” è nemica di ogni modernizzazione dell’Islam e vuole imporre un vero e proprio emirato in una terra etnicamente pura. È per questo che si batteva “Vic”? Assolutamente no. Ma Tradardi non sembra averlo capito.
A sinistra, Vittorio Arrigoni, l’attivista di Ism ucciso dai salafiti ieri nella Striscia. Sopra, un’immagine di Gaza, dove troneggia una finta moschea. A destra, Michael Herzog e in basso militanti islamici una personalità influente nel mondo salafita. I suoi libri hanno ispirato il jihad più estremo. Perseguitato dalla stessa Hamas, è in prigione proprio a Gaza ormai da oltre un anno. Ma allora perché sequestrare proprio Vittorio Arrigoni per reclamare la liberazione di al-Maqdisi? E ancora: perché ucciderlo senza sia stato aperto un negoziato con Hamas?
È evidente che nella Striscia sia in corso una polverizzazione delle milizie armate. Dopo la guerra di inizio 2009, le frange più aggressive del movimento islamista hanno preso il sopravvento. Ismail Hanyyeh, leader di un governo locale non riconosciuto da nessuno oltreconfine, sta perdendo progressivamente quota rispetto ad Ahmed Jabari, esponente delle istanze più intransigenti contro Israele e l’Autorità palestinese. In meno di dieci giorni, si è tornati al lancio di razzi su Sderot e Ashkelon. Martedì della scorsa settimana, un razzo anticarro lanciato dalla linea di confine della Striscia ha colpito uno scuolabus israeliano, ferendo in modo grave un ragazzo. Si è trattato del primo attacco dal
2009. Finora Hamas si è sempre concentrata su obiettivi militari. Al contrario, colpire un veicolo civile significa provocare Israele e rischiare una terza Intifada. È plausibile che tutto questo nasca dalla volontà di Jabar. Adesso tra le mani abbiamo anche l’omicidio di un attivista straniero. E proprio per questo, a rigor di logica, amico di Hamas. Possibile che né Hanyyeh né Kaheld Meshal – leader del movimento ma basato a Damasco – si rendano conto che una serie di incidenti così gravi torni solo a loro stesso svantaggio?
Nel frattempo è evidente come dalla Siria – oggi impegnata a sopprimere la rivoluzione – e dall’Iran non giunga più quel supporto operativo, politico e finanziario che era vitale per il governo islamista.Teheran è rimasta profondamente delusa dalla cattiva conduzione della controffensiva a Piombo fuso, all’inizio del 2009, da parte di Hanyyeh. Il regime iraniano non ha ancora chiuso quel capitolo. C’è da chiedersi, d’altra parte, come le milizie di Hamas avrebbero potuto fronteggiare l’esercito meglio equipaggiato
il caso Arrigoni
16 aprile 2011 • pagina 25
La tesi di Michael Herzog del Washington Institute for Near East Policy
«L’estremismo islamico. Ecco chi lo ha ucciso» Secondo Israele, il responsabile dell’omicidio sarebbe il gruppo estremista Tawhid wal-Jihad di Pietro Vernizzi gruppi salafiti si sono diffusi nella Striscia di Gaza soprattutto in seguito al colpo di Stato compiuto nel 2007 da Hamas, che ha consentito l’islamizzazione dell’area permettendo una lenta infiltrazione dei movimenti radicali che si ispirano ad Al Qaeda». Michael Herzog, Brigadiere Generale della riserva dell’esercito israeliano e International Fellow del Washington Institute for Near East Policy, spiega così le trasformazioni nella Striscia di Gaza all’origine del rapimento e dell’uccisione del cooperante italiano Vittorio Arrigoni. Da Gerusalemme, Herzog rivela le ragioni della diffusione del terrorismo internazionale in una zona che, ai tempi del partito Fatah di Yasser Arafat, era attraversata da rivendicazioni di carattere esclusivamente nazionalistico. Herzog, chi c’è dietro le persone che hanno giustiziato Arrigoni? I salafiti sono divisi in diversi movimenti. Quello che sembra coinvolto in questo caso è Tawhid walJihad, che significa «Monoteismo e Jihad». Sono affiliati alla Jihad internazionale e ad Al Qaeda, ed è nota la loro identificazione con queste realtà. Nella striscia di Gaza ci sono altri gruppi affiliati ad Al Qaeda, e ciò che vogliono non è solo imporre la Shari’a, cioè la legge islamica come guida della vita quotidiana dei musulmani, un obiettivo che fa parte anche del programma di Hamas. I salafiti vogliono ritornare a un’applicazione della Shari’a molto più rigorosa, tradizionalista ed estremista. Non sono aperti a uno stile di vita moderno, vogliono stabilire una dominazione islamica che trascenda lo Stato nazionale, ma inglobi l’intera Ummah, cioè la comunità musulmana di tutti gli Stati islamici del mondo. I salafiti interpretano l’Islam in una forma davvero estrema, ancora più di Hamas. Per quali motivi i movimenti palestinesi hanno perso il carattere nazionalistico proprio di Fatah? La stessa Hamas ha contemporaneamente un programma nazionale e degli obiettivi religiosi islamici. I salafiti ritengono invece che l’impegno e l’affiliazione religiosa dovrebbero trascendere l’identità nazionale.Vanno oltre i confini politici, nei quali non credono. Sposano un programma religioso estremista, credono nella violenza, vogliono far avanzare i loro obiettivi religiosi e non si fermeranno a nessun limite. Che cosa mi dice in particolare di Tawhid wal-Jihad, l’organizzazione che avrebbe rapito Arrigoni? Questa organizzazione è ormai conosciuta da diversi anni e nel 2006 è stata coinvolta in attacchi terroristici ai danni di turisti nel Sinai.
«I
di tutto il Medioriente. Il movimento islamista ha fatto quel che ha potuto. Tuttavia, ha perso. Questo ha provocato da un lato il progressivo disinteresse dell’Iran – che ora guarda con meticolosa attenzione il Libano – dall’altro l’allontanamento delle milizie che, in precedenza, avevano costituito una costellazione di realtà armate. Differenti tra loro sì, ma tutte al
Il perché sia stato ucciso non è chiaro. Altrettanto si potrebbe dire del suo sequestro, compiuto da una brigata sconosciuta a coloro che lavorano in zona comando di Hamas e contro Israele. Con un Hanyyeh sempre più debole e un Jabari che lo tallona in seno alla segreteria, il trust di frange armate ha cominciato a perdere i pezzi. Il movimento islamista non è più politicamente credibile. La sua propaganda ha perso lo smalto di quando vince le elezioni nel 2006. Adesso i suoi uomini armati – dopo aver sgominato i concorrenti di Fatah – sono chiamati a fronteggiare jihadisti di vario tipo. Dal 2007 – anno della presa di potere di Hanyyeh a Gaza – a oggi, il movimento islamista ha ospitato con caotica accondiscendenza qualsiasi gruppo armato giunto a bussare alle porte della Striscia. Convinto di acquisire forze utili alla causa, Hamas ha offerto rifugio ai reduci di Fatah
al-Islam, scappati dal campo profughi di Narh el-Bared, una volta che il loro comandante, Sharik al-Absi, era stato ucciso. È questo il caso di un ulteriore gruppo salafita, anch’esso di origine irachena, com’è AtTawheed wa al-Jihad, quindi palesemente estraneo alla causa palestinese in quanto tale. Un terzo soggetto di identità simile è quello dei Mas’ada alMujaheddin fi Falistin (I leoni dei combattenti per la Palestina). Dato il nome, questo è probabilmente più vicino ad Hamas. Ma sull’obbedienza verso quest’ultimo in pochi sono pronti a scommettere.
La morte di Vittorio Arrigoni è la dimostrazione della presenza di nuclei qaedisti, o simil tali, attivi a Gaza, senza che Hanyyeh possa controllarne le mosse. «Solo Israele trae vantaggio dalla morte dell’attivista italiani», ha detto un portavoce di Hamas, Fouzi Barghou. È vero. In realtà, si potrebbe aggiungere anche i benefici tratti da Abu Mazen a Ramallah. Il movimento islamista rischia di essere attaccato dai suoi stessi cobelligeranti. Si può addirittura ipotizzare una guerra interna alle milizie, dalla quale nemmeno le Ong si sentono immuni. Di conseguenza, tendono ad abbandonare la Striscia e la sua popolazione. Israele e Autorità palestinese, in tal caso, non farebbero altro che assistere pazienti alla autodistruzione del fondamentalismo islamico locale. Gaza è come se fosse condannata al suicidio. La colpa però non è di Israele. Bensì di Meshal e di Hanyyeh.
Tawhid wal-Jihad ha attaccato alcuni hotel e ristoranti e ucciso diverse persone. Si tratta certamente di un gruppo pericoloso, e che deve essere considerato come tale. Sono tutti palestinesi, o tra di loro ci sono anche elementi da altri Stati arabi? Sono assolutamente palestinesi e si sono insediati a Gaza, pur essendoci anche alcuni beduini nel Sinai che stanno collaborando con loro. Ma quanto sono diffusi i salafiti nella striscia di Gaza? Non sono l’elemento dominante, in quanto la striscia di Gaza è ancora controllata da Hamas.
Con l’arrivo di Hamas è iniziato un lento processo di islamizzazione, con un’espansione del numero di moschee, dell’educazione islamica e della Shari’a Ma i salafiti hanno visto la loro forza crescere nel corso degli ultimi due anni. Alcuni di questi gruppi sono affiliati con Al Qaeda, e negli anni recenti si sono sviluppati. Parte del problema è che quando Hamas ha conquistato il potere con il colpo di Stato nel 2007, pur essendo un movimento jihadista, ha dovuto fronteggiare l’amministrazione quotidiana nella striscia di Gaza. Questo ha dato spazio alle critiche del movimento salafita. Quali sono le ragioni della diffusione dei salafiti nella striscia di Gaza? Non appena Hamas ha stabilito il suo dominio su Gaza, è iniziato un lento processo di islamizzazione della Striscia, con un’espansione del numero di moschee, dell’educazione islamica e della Shari’a, che ha aperto la strada ai movimenti islamisti radicali. Mentre in precedenza, quando Fatah controllava Gaza, non consentiva che avvenissero tali attività. © www.ilsussidiario.net
pagina 26 • 16 aprile 2011
il caso Arrigoni
Israele si aspetta circa 110 preferenze per il riconoscimento, ma spera che l’Occidente voti contro per vanificare il risultato
Ma Hamas combatte l’Onu Dietro l’omicidio di Arrigoni e la scia di sangue di Gaza c’è il voto alle Nazioni Unite che dovrebbe riconoscere lo Stato palestinese. Gli islamici non vogliono che questo avvenga, e faranno di tutto per evitarlo l massacro della famiglia Fogel - padre, madre e tre bambini sgozzati nel sonno - nel villaggio di Itamar, nella Cisgiordania settentrionale, esattamente un mese fa. L’attentato alla stazione degli autobus di Gerusalemme, il primo dopo sette anni, il 23 marzo scorso, con una donna uccisa e più di cinquanta feriti. La pioggia di razzi Kassam che dalla Striscia di Gaza si rovescia sulle cittadine israeliane con il corollario della reazione da parte di dei cacciabombardieri Tsahal con altre vittime. L’ingresso nel Mediterraneo di due navi da guerra iraniane che, con l’autorizzazione del governo provvisorio egiziano, hanno attraversato il Canale di Suez per la prima volta dopo la rivoluzione khomeinista del 1979.
I
E adesso l’assassinio di Vittorio Arrigoni, ucciso dalla banda di terroristi salafiti che lo aveva sequestrato giovedì. C’è una lunga scia di sangue e di segnali di massimo allarme che s’intreccia agli sviluppi, sempre più contrastati e incerti, del terremoto che, dalla caduta di Ben Ali e di Mubarak in Tunisia e in Egitto, arriva fino alla guerra in Libia. Quanto sta accadendo in queste ultime settimane tra Israele e i territori palestinesi, però, non è soltanto un contraccolpo perverso della “privavera araba”. Per tutti i protagonisti di questa interminabile
di Enrico Singer crisi, c’è un appuntamento di cui ancora poco si parla, ma che si avvicina e che potrebbe essere dirompente: in settembre l’Assemblea generale dell’Onu potrebbe approvare a maggioranza il riconoscimento dello Stato palestinese. Anche senza un preventivo accordo di pace che le tensioni di oggi, anzi, fanno apparire molto poco probabile. A meno di qualche colpo di scena – ma sarebbe davvero il caso di definirlo miracolo – tra qualche mese si potrebbe realizzare uno scenario ancora più difficile di quello at-
quanto sta accadendo a Gerusalemme, a Ramallah e a Gaza. E se l’obiettivo di Benjamin Netanyahu è di trovare una strategia capace di scongiurare – anche al prezzo di qualche concessione – lo tsunami diplomatico che la risoluzione dell’Onu sul riconoscimento dello Stato palestinese potrebbe scatenare, lo scontro è particolarmente aspro all’interno dell’Anp tra le due fazioni principali di Fatah e di Hamas e gli altri gruppi – come le nuove sigle dell’estremismo islamista – che si contendono il potere in un conflitto
I leader dell’Autorità nazionale di Ramallah scommettono sul ruolo che gli Stati Uniti potrebbero avere nel convincere Tel Aviv a trovare un compromesso dell’ultima ora tuale. L’Anp, l’Autorità nazionale palestinese, potrebbe essere promossa dall’Onu – sia pure con molti, e pesanti, voti contrari – al rango ufficiale di Stato e le forze armate israeliane che ancora controllano una parte della Cisgiordania si ritroverebbero ad agire nel territorio di un altro Paese formalmente sovrano. Così come gli insediamenti civili diventerebbero d’un colpo una specie di accampamenti di immigrati clandestini. È in questa prospettiva che bisogna leggere
sempre più aperto e cruento di cui il rapimento e l’uccisione di Vittorio Arrigoni non è che l’ultimo, tragico episodio.
A Gaza la febbre era già alta da un mese. Da quel 15 marzo in cui le milizie di Hamas avevano attaccato le migliaia di persone scese in piazza per manifestare a favore dell’unità tra i palestinesi. Era la prima volta che l’autorità di Hamas veniva sfidata così, in pubblico, dopo che, nel 2007, aveva strappato a Fatah il controllo della
Striscia che rappresenta la metà del territorio palestinese: l’altra metà è la Cisgiordania, con Ramallah capitale, dove vive il presidente Abu Mazen e opera il governo del premier Salam Fayyad. A Gaza, invece, è Ismail Haniyeh, il capo di Hamas, a guidare un esecutivo che non riconosce l’autorità delle istituzioni dell’Anp.
È una situazione che ha fatto scrivere a Kenneth Bandler, uno degli opinionisti del Jerusalem Post, che «i più grossi ostacoli al conseguimento dell’obiettivo di Salam Fayyad che spera di ottenere il riconoscimento dello Stato palestinese dall’Onu si trovano nel suo cortile di casa e sono l’incapacità di indire nuove elezioni prima di settembre, nonché la spaccatura fra Fatah e Hamas». Il dissidio interno palestinese si sta manifestando in modo ancora più chiaro da quando, tra il Maghreb e il Medioriente, è esploso il movimento popolare per rimpiazzare le dittature con nuovi governi più democratici. Per ironia della sorte, secondo Kenneth Bandler, sono stati proprio i palestinesi ad aprire la strada dibattendosi in questa dicotomia politica e ideologica, finora senza successo. «Con un regime islamista alleato dell’Iran nella Striscia di Gaza e un governo filo-occidentale soste-
nuto da Stati Uniti e Unione europea in Cisgiordania, come ricomporre i pezzi del potenziale Stato bicefalo rimane un formidabile quesito che molti nella comunità internazionale continuano a ignorare». Ma quale Stato palestinese potrebbe essere riconosciuto dall’Onu? Chi avrà la responsabilità di governarlo? La sua leadership sarà impegnata sulla via della pace e della democrazia, oppure sarà vittima dell’estremismo islamista? Soltanto dall’esito dello scontro che è in atto all’interno del fronte palestinese potranno arrivare le risposte a queste domande. Ma lo scontro è appena all’inizio e i precedenti non sono incoraggianti. Alle ultime elezioni nell’Autorità palestinese, che si sono tenute nel gennaio del 2006 in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, Hamas ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi. Diciotto mesi dopo, ha preso il potere con la forza a Gaza.
Da allora Abu Mazen – che conquistò la presidenza nel 2006 – ha evitato di indire nuove elezioni, anche se i termini del mandato presidenziale e di quello della legislatura parlamentare sono scaduti sin dal gennaio del 2009. L’ultimo tentativo di tenere nuove elezioni, nel gennaio del 2010, è stato annullato da Abu Mazen perché Hamas si è rifiutata di partecipare o anche soltanto di A sinistra, uno scorcio dell’Assemblea generale dell’Onu, dove a Settembre dovrebbe essere discusso il riconoscimento dello stato palestinese. In alto: il presidente Obama assieme ad Abu Mazen e Netanyahu. A destra, il segretario di Stato Usa Hillary Clinton
il caso Arrigoni
premettere agli abitanti di Gaza di votare. Nel febbraio scorso, sull’onda della caduta di Hosni Mubarak in Egitto, Abu Mazen aveva annunciato che nuove elezioni amministrative si sarebbero tenute entro luglio e quelle per la presidenza in settembre. Ma è stato costretto a ritirare anche questo progetto quando Hamas ha puntato i piedi rinnovado il proprio rifiuto a riconoscere la sua autorità. A questo punto Abu Mazen si è offerto di visitare Gaza e d’incontrare Ismail Haniyeh, ma ancora prima che i miliziani di Hamas sparassero decine di razzi e di colpi di mortaio su Israele, gli ostacoli per realizzare la visita – che sarebbe stata la prima dal 2007 – si sono dimostrati insormontabili. Così anche questo tentativo di ricomposizione del fronte palestinese è fallito e tra i collaboratori più stretti di Abu Mazen e di Salam Fayyad si è diffusa una convinzione molto netta: fino a quando Hamas non cambierà, ogni riconciliazione sarà impossibile. Non solo: lo scontro in atto anche nel resto del mondo arabo fra islamisti e sostenitori della democrazia potrebbe acutizzare il dissidio interno ai palestinesi.
In questo groviglio d’interessi contrapposti, Abu Mazen e Salam Fayyad puntano a ottenere un successo di fronte all’Assemblea dell’Onu anche per ridimensionare il ruolo di Hamas e per recuperare credibilità all’interno di tutta la popolazione palestinese. E scommettono sul ruolo che gli Stati Uniti potrebbero avere nel convincere Israele a trovare un compromesso dell’ultima ora – quel miracolo che qualcuno considera ancora possibile – per raggiungere un accordo di pace prima di settembre. Del
resto era stato proprio Barack Obama a dichiarare, di fronte all’Assemblea generale dell’Onu nel settembre del 2010, che si augurava di «vedere l’anno prossimo un rappresentante dello Stato palestinese nell’emiciclo del Palazzo di Vetro».
Subito dopo erano anche cominciati i colloqui diretti tra governo israeliano e Anp che, purtroppo, però, si era poi arenati qualche mese più tardi sulla questione degli insediamenti. Adesso Abu Mazen spera che Washington rilanci la sua azione diplomatica e ha sollecitato gli Stati Uniti a prendere una “posizione chiara sul riconoscimento dello Stato palestinese con le frontiere del 1967, con Gerusalemme est come capitale e con una posizione ferma sulla colonizzazione israeliana della Cisgiordania”, come ha testualmente indicato il suo portavoce, Nabil Abu Rudeina. È un appello che arriva dopo la dichiarazione del segretario di Stato americano, Hillary che Clinton, pochi giorni fa ha definito «non più sostenibile lo status quo tra palestinesi e israeliani soprattutto dopo che sono crollati in questi ultimi mesi i regimi dittatoriali arabi». Abu Mazen, insomma, si augura che l’iniziativa diplomatica annunciata dalla Clinton – «adesso i nostri sforzi si concentreranno sulla questione israelo-palestinese» – si traduca in nuove
Netanyahu sarebbe pronto a fare delle concessioni, almeno in Cisgiordania. L’incognita rimane l’atteggiamento di Barack Obama
pressioni su Gerusalemme per raggiungere un compromesso prima di settembre. Che la diplomazia americana sia in movimento è dimostrato anche dal rinvio, chiesto proprio da Washington, della riunione del Quartetto per il Medioriente (Stati Uniti, Unione europea, Russia e Onu) che era in programma per ieri e che doveva discutere dei tempi e dei modi della ripresa negoziati tra israeliani e palestinesi: evidentemente il compromesso non è ancora pronto, ma gli Usa credono di avere qualche buona carta in mano e vogliono prendere tempo. Netanyahu, per ora, non si fida di Obama. È convinto che il presidente americano «mal consigliato dai suoi assistenti che non lo aiutano a prendere le decisioni giuste», come ha scritto il quotidiano Haaretz, non abbia valutato tutti i rischi di un riconoscimento unilaterale dello Stato palestinese. Il premier israeliano, secondo lo stesso giornale, sarebbe pronto a ritirare i soldati dalla Cisgiordania per assecondare le pressioni internazionali mantenendo, però, gli insediamenti ebraici la cui esistenza non è in discussione adesso e potrebbe essere oggetto soltanto di un accordo di pace. Netanyahu, comunque, è ben determinato a fare pressione sui Paesi occidentali per convincerli a non riconoscere lo Stato palestinese quando e se la risoluzione sarà messa ai voti di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite. Il premier israeliano si aspetta il voto di oltre un centinaio di Paesi – sembrerebbe 110 sui 192 ufficialmente rappresentati – a sostegno del
16 aprile 2011 • pagina 27
riconoscimento, ma per Netanyahu «ciò che conta non è soltanto la quantità dei voti ma anche la qualità degli Stati che li esprimono» e se votassero contro, o si astenessero, i grandi Paesi del fronte occidentale, quella dei palestinesi sarebbe una vittoria di Pirro.
Il premier avrebbe già inviato una lettera a tutti i governi occidentali, compreso quello italiano, in cui sottolinea che il sostegno internazionale guadagnato negli ultimi anni dalla causa palestinese avrebbe avuto un effetto negativo sul processo di pace perché avrebbe spinto l’Anp a rinunciare ai negoziati con Israele e a puntare direttamente al riconoscimento internazionale della propria autorità. Il governo israeliano sostiene che «un’eventualità del genere sarebbe in violazione con quanto stabilito dagli accordi di Oslo». Il messaggio di Netanyahu sarebbe stato inviato già da alcuni giorni anche se continua ad essere coperto dalla massima riservatezza. Con i Paesi occidentali si sta muovendo anche l’Anp. Il primo ministro, Salam Fayyad, ha illustrato a Bruxelles ai maggiori Paesi donatori di aiuti un rapporto su come l’Autorità palestinese ha impiegato le centinaia di milioni di dollari ricevuti in assistenza per salute, educazione, energia, acqua, sicurezza, giustizia. Un documento di 63 pagine che dovrebbe dimostrare come le istituzioni di governo palestinese siano già pronte ad assumere «tutte le responsabilità che le verranno assegnate con la completa sovranità». Hamas permettendo. Perché il nodo centrale è proprio questo. E Hamas, ora contestato da forze ancora più estremiste come quelle che hanno ucciso Vittorio Arrigoni, ha l’interesse di dimostrare il contrario.
pagina 28 • 16 aprile 2011
grandangolo Un serial televisivo ha riaperto il dibattito sulla laicità dello Stato
Suleimano il Magnifico Dopo 5 secoli invade ancora la Turchia Noto anche come Salomone, conquistò tutto il mondo conosciuto nel 1500. Sposato con una russa, ha fatto uccidere i suoi eredi designati per compiacerla: ma ha anche trattato l’islam come nessuno prima di lui aveva mai osato. La sua figura, amata e odiata, mette in crisi l’islamizzazione voluta da Erdogan di Mauro Frasca
issa televisiva e politica in Turchia, attorno a un imperatore del ‘500. Il suo nome Süleyman, in realtà, non sarebbe che la traduzione in turco del biblico Salomone. Ma nell’Italia del XVI secolo lo si tradusse come Solimano, e come Solimano il Magnifico, è da noi tuttora conosciuto. Anche se, in realtà, i turchi lo hanno sempre chiamato Kanuni Sultan Süleyman: il sultano Solimano il Legislatore, per quel “Canone” in cui fissò il Diritto dell’Impero nei secoli a venire. Il Traiano dell’Impero Ottomano, insomma, e allo stesso tempo il Giustiniano. Comunque il sultano che regnò più a lungo: dal 1520 al 1566. Con lui i soldati sotto le bandiere della Mezzaluna tolsero ai Cavalieri di San Giovanni Rodi; presero Belgrado; occuparono l’Ungheria; posero l’assedio nel 1529 a Vienna e nel 1656 a Malta; sottomisero il Nord Africa fino all’Algeria, ributtando a mare gli spagnoli che si erano insediati tra Tripoli e Capo Bon; scacciarono i persiani Savafidi da Bagdad e da Tabriz; stabilirono una base a Aden. Solimano mandò pure una flotta in aiuto dei musulmani di Aceh, attuale Indonesia, in lotta contro l’invasione portoghese; e stipulò anche una famosa alleanza in chiave antiasburgica con Francesco I, grazie alla quale poté far arrivare le sue navi a Tolone e tenere per un po’ Nizza. Insomma, un attore della politica globale come poi, e forse l’unico a provare a sfidare l’Europa in ascesa al momento della
R
globalizzazione cinquecentesca. In più era anche un raffinato intellettuale: apprezzato poeta; abile orefice; generoso mecenate; fluente in ben sei lingue, dal turco all’arabo, al persiano, all’urdu, al serbo e al chagatai. Quest’ultimo, un dialetto turco dell’attuale provincia cinese dello Xinkiang Uighur. Chi ha visitato Gerusalemme ricorderà anche quelle magnifiche Mura di Solimano,
Con lui i soldati sotto le bandiere della Mezzaluna tolsero ai Cavalieri di San Giovanni l’isola di Rodi e presero Belgrado che testimoniano del suo impegno di urbanista e restauratore. E Solimano diede anche ospitalità agli ebrei espulsi dall’Impero Ottomano, favorendo in particolare il decollo della grande metropoli di Salonicco. Il suo grande problema fu però la famiglia. Con la storia della sua favorita ucraina: Alexandra Anastasia Lisowska, figlia di un prete ortodosso. Al padre fu rapita da una scorreria di predoni tatari di Crimea,
vassalli dell’Impero Ottomano, oltre i confini dell’allora Confederazione Polacco-Lituana. E i predoni la portarono schiava a Costantinopoli. Lì riuscì a far girare a tal punto la testa del sovrano, a tal punto che questi la sposò. Cosa inaudita da oltre due secoli: da quando cioè nel 1402 Bayzid I era stato sconfitto in battaglia dal mongolo Tamerlano, che per umiliarlo lo aveva richiuso in una gabbia, e aveva obbligato la moglie del sultano a servire nuda a tavola.
Per evitare che si ripetesse, appunto, fino a Solimano nessun imperatore turco aveva più avuto una sultana formalmente indicata come tale: limitandosi a riprodursi con le schiave dell’harem. Hürrem, come la ribattezzarono in turco, fu chiamata dagli ambasciatori europei Rosselana: più o meno, “la russa”, o “la slava”. E lei approfittò della sua influenza per sottrarre la Polonia-Lituania alle mire espansionistiche del marito, e anche per far cessare le scorrerie dei tartari di Crimea in cerca di schiavi nelle terre della sua gente. Ma non fece solo beneficienza. Rosselana, che diede a Solimano tre figli, per spianar loro la strada del trono lo convinse su un presunto tradimento del primogenito Mustafa, che era invece figlio della precedente favorita Mahidevran Gülbahar: più o meno, “Rosa di Primavera”, che l’arrivo di Rosselana nell’harem aveva accolto a graffi e morsi. Solimano fece allora strangolare il ragazzo da sette si-
cari, cui era stata tagliata la lingua per evitare che in caso di fallimento e cattura potessero rivelare il mandante, e assistette al delitto da dietro una grata. Ma anche il primo figlio di Rosselana Bayezid fu fatto eliminare dal padre in seguito a false accuse di complotto: queste, dovute a una differente lobby. Insomma, finì che erede divenne Selim II: passato alla storia come “Selim il biondo”, per i capelli ereditati dalla madre; ma anche come “Selim l’ubriacone”, per un’affezione all’alcool molto poco in linea con i doveri di un Califfo dei credenti di Allah e custode del Corano, ma probabilmente anch’essa derivata dai cromosomi slavi materni. Per capire il tipo: Selim II fu colui che fece guerra ai veneziani per prendere Cipro, solo perché lì si produceva uno dei suoi vini preferiti. E in effetti la conquistò, ma coalizzando contro di sé spagnoli e Stati italiani in quella Lega Santa che nel 1571 gli distrusse la flotta a Lepanto, segnando l’inizio della decadenza ottomana. Anche se i turchi sarebbero ancora riusciti a porre l’assedio a Vienna nel 1689, e se il collasso dell’Impero non sarebbe avvenuto che tra la seconda metà del XIX secolo e la Prima Guerra Mondiale.
«Illanguidisco nella montagna della tristezza/ dove sospiro e gemo giorno e notte/ domandandomi che destino mi aspetta/ ora che la mia amata se ne è andata”, furono i versi che Solimano scrisse dopo la morte di Rosselana. A lei i
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)
musulmani ucraini hanno di recente dedicato una moschea, ma nel bilancio bisognerebbe aggiungere che lei fece fare fuori anche un gran visir che di Solimano era stato amico di infanzia e compagno di giochi, per mettere al suo posto un altro da lei controllato. Insomma, un personaggio dalle tinte forti. D’altronde venuto poco dopo i Borgia, e contemporaneo sia dell’Enrico VIII delle sei mogli di cui due decapitate e altre due ripudiate; sia dello zar russo Ivan il Terribile.
Quando Solimano arrivò sul trono, era ancora vivo Niccolò Machiavelli. E poco prima della sua morte, iniziò in Francia la sarabanda di sangue delle guerre di religione tra cattolici e ugonotti. Non a caso a Rosselana Haydn dedicò una sinfonia, mentre Mustafa ebbe un’elegia dal grande poeta turco Tasliocali Yahya, e a Solimano è intitolata una tragedia seicentesca di Prospero Bona-
Il sultano è stato un raffinato intellettuale, apprezzato poeta, abile orefice e generoso mecenate relli. Ma forse ancora più significativo è che nel 1934 Rosselana sia stata l’eroina di L’ombra dell’avvoltoio: un romanzo del Robert Howard famoso come creatore di Conan il Barbaro. Perché dunque, nell’epoca della televisione, non farci un serial tipo proprio quel Tudors che raccontando le vicende delle sei mogli di Enrico VIII tra 2007 e 2010 spopolò sugli schermi anglo-Usa? E infatti un serial stile Tudors è partito il 6 gennaio su Show Tv: Muhtesem Yüzyil,“Un secolo magnifico”. Solimano lo fa Halit Ergenç: un attore quarantenne che è diventato famoso per un ruolo del re del Siam nel famoso musical Il re ed io. La bionda Rosselana è la 27enne Meryem Uzerli: fisico del ruolo in quanto nata da padre turco e madre tedesca. D’altronde anche la rivale Rosa di Primavera è una turca nata in Germania: la trentenne Nur Asyan. La madre di Solimano è in-
vece Nebahat Çehre, una ex-modella 66enne. Pargali Ibrahim, il visir giustiziato, lo fa il 32enne Okan Yalabik. Tra gli altri personaggi anche il Papa, interpretato da un Alp Öyken che deve aver tenuto presente Alessandro VI Borgia. “Manisa 1520”, è la presentazione della prima inquadratura. In una foresta dove si sente un abbaiare di cani e un galoppo di cavalli, e poi appare un gruppo di cavaliere di cui il primo sventola una bandiera rossa con tre mezzalune bianche. Inquadrature dall’alto e di lato, gli zoccoli dei cavalli che guadano un corso d’acqua, una musica del genere epicoprecipitante: nel senso che avverte del precipitare di qualche evento. Poi un cervo che zoppica, ancora i cavalieri, un falco che si tuffa, la musica che si arresta bruscamente, il cavaliere in testa con la barba che fa segno anche lui agli altri di arrestarsi mentre guarda con meraviglia verso una galleria di alberi. Gli arcieri tendono le frecce, il falconiere richiama la bestia sul suo guanto di cuoio, primo piano degli sguardi di un uomo lievemente strabico e di un falco, il falco viene di nuovo lanciato, un armato mette la mano alla spada, ancora gli arcieri all’erta, arriva un altro gruppo di cavalieri con gli alti cappelli che chi conosce un po’ di storia ottomana identifica immediatamente come giannizzeri (i personaggi visti finora portano colbacchi). Ancora scambi di inquadrature tra strabico, arcieri e giannizzeri. Ma uno di questi si inginocchia, consegnando allo strabico un messaggio arrotolato.
Ahimè: a questo punto tutti iniziano a parlare in turco, e l’autore di queste note appartiene a quella quasi totalità di italiani che non ci capisce più niente. Ci pare di capire dal contesto che vengano a dire all’erede al trono che Selim I è morto e che ora il sultano è lui: ma non ci metteremmo la mano sul fuoco. Anche se i suoni gutturali del turco non sono particolarmente gradevoli, però, il fllmato è comunque una gioia per gli occhi. Begli gli scenari, sontuosa l’ambientazione, sgargianti i costumi. È un peccato che non ci sia modo di avere uno straccio di sottotitolo. O meglio: ci sono un po’ più avanti, quando una ragazza bionda in cui intuiamo la Rosselana al momento del pasto monta una baraonda all’interno della nave dove la stanno portando schiava, e devono immobilizzarla. Tanto per far capire il temperamento… Ma i sottotitoli sono in turco,
per spiegare e sue grida in ucraino. Se non si capisce la lingua, in compenso, si capisce bene che in Turchia sia stato un successo strepitoso.
Purtroppo, è stato però anche un altrettanto strepitoso scandalo: che è iniziato da prima ancora che la prima puntata andasse effettivamente in onda, e ha fatto sì che a quel Consiglio Asudiovisuale che in Turchia è l’equivalente della nostra Commissione di Vigilanza siano arrivate 75.000 proteste in 25 giorni. Più che in tutto il resto dell’anno. Già dalle anticipazioni, infatti, si era visto un Solimano che beve vino a gargamella, e se la spassa nell’harem con favorite pochissimo vestite. Alpleren Ocaklari, organizzazione giovanile ultra-nazionalista, ha protestato leggendo il Corano di fronte alla moschea che dallo stesso Solimano prende il nome. La gioventù del partito islamista Saadet ha lanciato uova sulla sede di Show Tv. Un altro gruppo ha bloccato una strada per 10 minuti. Lo stesso partito islamista oggi al potere, l’Akp, per bocca del vicepremier Bülent Arinç ha minacciato “castighi” contro coloro che “vogliono umiliare i grandi personaggi della nostra storia”. Mentre lo storico Beyazit Akman ha accusato il serial di indulgere in “stereotipi barbari”. Ma la soggettista Meral Okay ha risposto con sarcasmo: “gli ottomani avevano harem e non si riproducevano per impollinazione”. E vari altri storici hanno osservato che l’unica vera “licenza poetica” sta piuttosto i modi della spedizione a Rodi: non certo nell’affezione abbastanza comprovata del Magnifico per gentil sesso e vino speziato. In mezzo ci sono le elezioni del 12 giugno, in cui per la prima volta i laici del Partito Repubblicano del Popolo appaiono all’offensiva, dopo nove anni di governo dell’Akp. Ma comunque i fautori del serial si sono visti arrivare in soccorso addirittura un erede della dinastia: Orhan Osmanoglu, pronipote del sultano Abdulhamit II, che ha accettato di interpretare suo nonno Abdulkerim Efendi, assassinato in esilio nel 1925, in un altro serial di prossima produzione. Da noi, a fare il ruolo di Umberto II in tv Emanuele Filiberto non era ancora arrivato.
Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
pagina 30 • 16 aprile 2011
il personaggio della settimana Negli ultimi giorni le piazze di tutta Italia sono state prese d’assalto dai precari che chiedono rispetto
Il giovane ignoto
Solo il 18,7% degli italiani ha tra i 14 e i 30 anni: una minoranza non tutelata, vittima di una maggioranza schiacciante di adulti. Sono loro i veri eroi del nostro tempo di Gianfranco Polillo econdo gli ultimi dati dell’Istat, relativi al 2010, l’Italia è uno dei paesi più vecchi d’Europa, secondo solo alla Germania. A un indice italiano pari a 143,1 si contrappone quello tedesco, pari a 150,2. Il valore medio nell’EU è: 108,6. Dai dati del censimento del 2001, si evince che i giovani dai 14 ai 30 anni – il target che può interessare la politica – erano pari al 18,7 per cento della popolazione complessiva, con una prevalenza di maschi: 19,6 per cento, contro il 17,8. Da allora la situazione è nettamente peggiorata. In dieci anni la popolazione in età attiva (14 – 65 anni) ha subito una contrazione a favore degli anziani dell’1,6 per cento. In attesa dei risultati del nuovo censimento i giovani (14 – 30 anni) possono essere valutati nel 16 per cento della popolazione, esclusi gli immigrati.
S
In queste pagine, una serie di manifestazioni giovanili. Nella foto grande, un corteo a Torino a sostegno della Fiom nella battaglia contro il contratto di Mirafiori. A destra, le proteste di Roma e Milano contro i tagli ai fondi per l’università
Questi dati spiegano, al di là di qualsiasi altra considerazione, il perché in Italia esista una “questione giovanile” irrisolta. Siamo di fronte ad una “minoranza”. Con l’aggravante di una minoranza non organizzata e quindi esposta alla“tirannia”della maggioranza. Questo stato di minorità risulta in tutti gli aspetti della vita del Paese. In Italia la spesa pensionistica, nonostante le riforme effettuate, è ancora la più alta d’Europa. Altri Paesi sono destinati a seguirci lungo questa strada – almeno secondo le proiezioni al 2050 – ma questo significa solo che in Italia si è solo anticipato un fenomeno di carattere più generale, anch’esso marcato dal progressivo invecchiamento della popolazione di tutto l’Occidente. Più volte è stato proposto di “togliere” ai padri – ma sarebbe forse meglio dire ai nonni – per “dare” ai figli. Riflessioni intelligenti da fare nei talkshow, ma prive di conseguenze effettive. La situazione sociale italiana è addirittura peggiorata rispetto alla denuncia del “Rapporto Onofri”, che ormai data oltre 13 anni. Ma non è solo sul terreno del welfare che emerge la punizio-
ne nei confronti dei giovani. Nel campo principe, che è l’educazione scolastica e la formazione, le istituzioni hanno logiche di funzionamento che premiano gli addetti (insegnati, personale didattico ecc.) invece di porre al centro dei propri obiettivi un’offerta formativa in grado di preparare i giovani ad affrontare le difficili sfida del futuro. Sfide rese più ardue dall’accelerazione del cambiamento che è implicito nei processi di globalizzazione. Il tratto distintivo che caratterizza questa nostra epoca, rispetto al pur recente passato. Un solo dato significativo: la padronanza dell’inglese. Fino a qualche anno fa elemento complementare di una normale educazione scolastica, oggi è divenuto uno strumento essenziale non solo per comprendere il mondo moderno, ma per fruire di un’informazione – si pensi a Internet – che è di carattere globale. Senza pensare poi all’evoluzione tecnologica, che marcia, di pari passo, con la conoscenza di questo essenziale strumento di comunicazione.
Nella concreta organizzazione del lavoro, i giovani subiscono la più forte discriminazione. Pagano in termini di disoccupazione di massa. Nel 2010 i disoccupati sono stati pari all’8,4 per cento della popolazione attiva. Quelli compresi tra i 15 ed i 24 anni, al 27,8 per cento. Nel mezzogiorno la disoccupazione giovanile femminile ha raggiunto il 40,6 per cento del totale. Pagano in termini di precarietà: pari al 9,5 per cento degli occupati. Il superamento del modello “fordista”, imposto dai processi di globalizzazione, ha comportato la necessità di una liberalizzazione parziale del mercato del lavoro. Ma il suo “dualismo” – come denunciato proprio in questi giorni dall’Ocse, quale causa non secondaria del basso tasso di crescita dell’economia italiana – non è stato risolto. Le aziende –
in precedenza costrette a realizzare impegnative innovazioni di processo per recuperare sul terreno della produttività ciò che cedevano in termini di aumenti salariali, a causa della rigidità del mercato del lavoro – hanno utilizzato i giovani come massa di manovra per risparmiare sugli investimenti. Con la crisi, questo piccolo volano è stato immediatamente disattivato, mentre gli insider – i lavoratori più anziani e protetti – venivano nuovamente “salvati” grazie all’estensione del sistema degli ammortizzatori sociali. Modificare la logica più profonda del “modello contrattuale”, ristabilendo regole uguali per tutti – gli anziani e i giovani – resta pertanto una priorità essenziale. Ma, sebbene, giacciano in Parlamento proposte di legge bipartisan – una delle più importanti è quella di Piero Ichino – non esiste alcuna volontà politica per af-
frontare il problema. C’è l’ostacolo dei sindacati, che difendono solo i loro iscritti e i relativi privilegi. C’è quello delle forze della maggioranza, sostanzialmente sorda di fronte a questi moderni desaparecidos. C’è infine quello dell’opposizione, incapace di fare i conti con la parte più conservativa – nonostante le proclamazioni “rivoluzionarie” – del suo sindacato di
riferimento. Leggi Fiomm e, quindi, per un gioco di scatole cinesi, la stessa Cgil.
Nell’organizzazione interna sono ancora i lavoratori più anziani a dominare. I giovani, nonostante abbiano in genere una maggiore preparazione, sono costretti a vere e proprie corvèe. Occupano i gradini più bassi delle gerarchie interne. Offrono le prestazioni più qualificate, ma senza alcun riconoscimento. L’idea che un dirigente di cinquant’anni possa prendere posto nel limbo del top
pari al 17 per cento degli occupati – i processi sono ancora più lenti. Il rinnovamento, a causa del blocco del turnover, più lento. Ed i giovani ancor più mortificati da logiche incentrate sull’anzianità ed il totale disconoscimento del merito.
Finora il sistema ha retto grazie alla grande ricchezza finanziaria – l’Italia occupa ancora i primi posti nel mondo – accumulata dalle famiglie. Ma questo ha creato un rapporto di dipendenza ancora più forte. L’immagine dei cosiddetti “bam-
gerarchico. Nelle imprese questo meccanismo è ancora più stringente. Il capo azienda rinuncia a malincuore alla direzione effettiva dell’impresa anche se in età avanzata. Gran parte del “nanismo” industriale italiano si spiega anche a causa di questa configurazione sociologica. L’assetto complessivo di queste relazioni non sarebbe censurabile, se la società italiana fosse comunque in grado di produrre un adeguato tasso di sviluppo. Ma questo è sempre più difficile a causa della rapidità impressa al cambiamento
L’esecutivo li ignora, l’opposizione li usa, nessun sindacato li difende davvero: questa è la realtà management – vedi il caso di Mediobanca – è salutato come una notizia straordinaria. E questo in un mondo che cambia rapidamente, con i ritmi che abbiamo indicato. Solo dieci anni fa la Cina faceva parte del mondo sottosviluppato, oggi è la seconda potenza economica del Pianeta. Nella pubblica amministrazione – dove si concentrano oltre 4 milioni di lavoratori,
boccioni” non è tanto la conseguenza di un mondo giovanile dominato da legami ancestrali, quanto la risultante dei meccanismi di redistribuzione del reddito. Si privilegia ancora il capofamiglia, specie se di sesso maschile, che diventa il depositario di flussi finanziari che poi ridistribuisce in seno alla famiglia, perpetuando un rapporto che non è solo affettivo, ma anche
dai processi di globalizzazione e dall’innovazione tecnologica. Le generazioni più anziane sono più refrattarie verso le novità: tant’è che gran parte dell’economia italiana – specie quella più avanzata – vive in nicchie tecnologiche che sono più il riflesso del passato che la proiezione verso il futuro. Più in generale: la rigidità dei rapporti sociali tra le diverse generazioni
riduce la concorrenza verso l’alto. Consolida il pregresso ed impedisce l’affermazione di nuovi valori basati sulla professionalità e la maggior rispondenza alle mutate esigenze del mercato. Basta un dato per certificare la situazione più complessiva di arretratezza strutturale. I laureati, compresi nella fascia d’età tra i 15 ed i 24 anni, sono il 4 per cento del totale. Ma coloro che sono occupati sono inferiori all’1 per cento. Ed a pensare che quella attuale – secondo la “strategia di Lisbona” – doveva essere la “società della conoscenza”. Quindi in luogo in cui una moderna formazione culturale trova il suo habitat naturale.
Il fallimento di quest’obiettivo consente di illuminare un aspetto della più recente storia nazionale. Negli anni passati, quando dominava il modello fordista e le tecniche keynesiane, i giovani avevano maggiori occasioni di lavoro. L’intensità dei ritmi psicofisici richiedeva soprattutto lavorati maschi – compresi in un’età tra i 18 ed i 45 anni – il cui inquadramento – terzo livello operaio – era l’elemento emblematico del panorama industriale italiano. Il superamento di quel modello, grazie all’introduzione di tecniche nuove (automatismi, controllo elettronico, ecc.), ha comportato una drastica diminuzione della forza lavoro tradizionale e consentito ai lavoratori più anziani di svolgere più a lungo le vecchie mansioni. Il processo è stato indubbiamente positivo, ma quello che è mancato è stata una riqualificazione più complessiva della domanda di lavoro, nonostante essa fosse connaturale all’evoluzione del processo tecnologico. Non si di-
mentichi che negli USA, il maggior tasso di crescita relativa di questi ultimi anni, è il risultato della maggior diffusione dell’ICT, che ha consentito guadagni di produttività enormi nel comparto dei servizi. In Italia, invece, la scarsa diffusione di questa tecnostruttura – si pensi ai ritardi nella rete a banda larga – ha penalizzato soprattutto i lavoratori più professionalizzati e in particolare i giovani.
Dal complesso degli argomenti evocati, risulta chiaro che il tema dei giovani non è tanto un problema di policy – anche se tentativi in questo senso possono essere compiuti – ma di politics. Questa distinzione è tipica della cultura anglosassone. La policy è l’insieme delle misure che possono essere prese per risolvere un determinato problema. La politics attiene invece ai meri rapporti di forza e agli strumenti necessari per determinare i cambiamenti voluti. Nel caso dei giovani italiani il problema principale è dare voce a una “minoranza” (attualmente) disorganizzata. Chiamarli alla lotta politica per cambiare in profondità quelle condizioni, di carattere strutturale (dal mercato del lavoro, al welfare, ai rapporti sui luoghi di lavoro), che impediscono loro di emergere e quindi di contribuire a determinare, al tempo stesso, un cambiamento nel modello di sviluppo della società italiana che è oggi è condizione necessaria ed indispensabile per arrestare il possibile declino. La sfida è indubbiamente difficile, ma una forza politica, che si propone di rompere i vecchi steccati della politica politicante, può rappresentare una grande opportunità.