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Te ne vai leggero se non hai niente; ma la ricchezza è un peso più leggero Johann Wolfgang Goethe

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 20 APRILE 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il direttore generale degli industriali, Giampaolo Galli: «Ci aspettiamo soluzioni vere in tempi brevissimi»

Il governo del non fare Confindustria boccia il piano di riforma. Retromarcia sul nucleare «Nessuna misura per la crescita: serve lo stesso coraggio del tempo di Maastricht». Tremonti butta la palla in tribuna: «Rivediamo i trattati». E l’esecutivo, per paura del referendum, blocca l’atomo

La Moratti vince il ballottaggio (con Lassini) Ultimatum della candidata sindaco sull’autore dei manifesti contro le Procure: «O lui o io». Alla fine l’aspirante consigliere si ritira con una lettera a Napolitano

Dall’economia all’energia

di Errico Novi

Il Pdl di Milano scosso dallo scontro sulla giustizia

La parola d’ordine è: rinviare tutto

ROMA. Un governo del rinvio. Sulla crescita e sul nucleare. Nel giro di poche ore emerge la vocazione a eludere i grandi nodi propria dell’esecutivo. Prima con una doppia audizione nelle commissioni Bilancio e Finanze di Palazzo Madama del direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli e del segretario generale di Confartigianato Cesare Fumagalli, poi con lo stop al nucleare. a pagina 2

di Giancristiano Desiderio

I

Oggi il Nuovo Polo presenta il contropiano

La Malfa: «Il berlusconismo ormai è immobilismo»

Osvaldo Baldacci • pagina 6

«Rapporto debito/Pil fuori controllo, crescita bassa e divario Nord/Sud sempre più pesante: la maggioranza sceglie di galleggiare scaricando tutto sulla prossima legislatura» Riccardo Paradisi • pagina 4

Il tentativo di aggirare lo scoglio del Senato

l governo dice improvvisamente no al nucleare e prende due piccioni con una fava: con un gran cuore di coniglio non si mette contro l’opinione comune del dopo-Fukushima che vede l’energia nucleare non come una risorsa necessaria ma un rischio gratuito e contemporaneamente cerca di salvare il quesito referendario sul legittimo impedimento calcolando la scommessa sul raggiungimento del quorum. È vero che Giulio Tremonti intervenendo al Parlamento europeo ha motivato la scelta anti-nucleare del governo pro nucleare dicendo che il dramma giapponese non è solo un incidente tecnico ma assume il valore di “cifra storica”. segue a pagina 2

Frattini promette di curare nella Capitale i feriti di Bengasi e Misurata

«Dopo le armi, le medicine»

Ora non provate a “truffare” il Terzo Polo Il leader libico Jalil a Roma: «I raid non bastano più» di Rocco Buttiglione

di Pierre Chiartano

erlusconi adesso vuole il cambiamento della legge elettorale e, subito dopo, le elezioni anticipate. Le esternazioni che gli sono attribuite a questo proposito non mancano di senso e di coerenza logica, se le consideriamo dal punto di vista dell’interesse di Berlusconi. All’inizio della crisi che stiamo vivendo, il Capo del Governo voleva le elezioni anticipate perché era convinto di vincerle a legge elettorale vigente. Per la medesima ragione, l’opposizione non le voleva e lanciava piuttosto l’ipotesi di un governo nuovo per fare una nuova legge elettorale ed andare dopo alle elezioni. a pagina 6

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I QUADERNI)

ROMA. Si è giocato sul tavolo verde della diplomazia nella capitale italiana – a favore delle telecamere – mentre si contavano ancora morti in Libia. Anche bambini. E oltre al flusso d’immigrati, fra poco ci sarà anche quello dei feriti. Il presidente del Consiglio nazionale di transizione libico, Mustafa Abdul Jalil, ieri è arrivato a Roma. Innanzitutto per garantire continuità e accoglienza a un flusso di feriti sempre più grande, verso le strutture ospedaliere italiane. Ma le trombe della Farnesina hanno suonato un’altra musica: dal capo degli insorti, il governo italiano ha ricevuto «l’impegno a proseguire sulla strada della democrazia». a pagina 10 • ANNO XVI •

NUMERO

76 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il fatto Galli, dg di via dell’Astronomia, definisce «deludente» la strategia sullo sviluppo. Abrogate con un blitz tutte le norme sull’atomo

Dire, non fare e rinviare

«Il piano di riforma ignora la crescita», denuncia Confindustria. Il governo, temendo il quorum al referendum, dice stop al nucleare la polemica di Errico Novi

ROMA. Un governo del rinvio. Sulla crescita e sul nucleare. Nel giro di poche ore emerge la vocazione a eludere e accantonare i grandi nodi propria dell’esecutivo. Prima con una doppia audizione nelle commissioni Bilancio e Finanze di Palazzo Madama: parlano il direttore generale di Confindustria Giampaolo Galli e il segretario generale di Confartigianato Cesare Fumagalli, che interviene a nome della Rete imprese Italia di Sangalli. Pronunciano i loro giudizi sul Documento di economia e finanza per il 2011 e, soprattutto, sul Piano nazionale di riforme: direttrici che l’esecutivo ha approvato la settimana scorsa e che, secondo i rappresentanti del mondo produttivo, peccano ancora una volta di eccessiva vaghezza sugli incentivi alla crescita, con Galli in particolare che definisce il Pnr «deludente». Più o meno contemporaneamente lo stesso esecutivo fa pervenire al Senato una variazione sul decreto legge Omnibus. Già vi era prevista una moratoria sul nucleare. Con l’ulteriore modifica si provvede addirittura a una «abrogazione di tutte le norme previste per la realizzazione degli impianti nucleari del Paese». Decisione singolare, e un po’sospetta. Perché pare fatta apposta per aggirare il referendum, tanto più che lascia aperta la porta a una non meglio precisata «definizione della strategia energetica nazionale» da adottare «entro dodici mesi dall’entrata in vigore della legge».

Esecutivo senza idee: dall’economia all’energia alla politica estera

Rimando, dunque sono di Giancristiano Desiderio segue dalla prima infatti, il governo Berlusconi rimanda tutto il risanabile dei conti pubblici e della spesa Ma è altrettanto vero che sono le parole di al biennio 2013-2014 che è come dire alle caun ministro che ormai lavora al di sopra del- lende greche dal momento che di mezzo ci le reali possibilità politiche dell’esecutivo di sono le elezioni. Quindi, riepiloghiamo: cui fa parte. La “cifra” che spiega il repenti- niente politica energetica, niente politica no e totale cambiamento del governo Berlu- economica, niente risanamento. Il governo sconi sul nucleare è solo furbizia per tutela- si dedica anima e corpo a quello che uno re il legittimo impedimento. Il presidente del scrittore napoletano chiamava «il resto di Consiglio, infatti, controlla bene i suoi par- niente». Domani i moderati presenteranno lamentari, ma neanche lui saprebbe come alla Camera un documento che fa il punto fare per esercitare un controllo vincolante della situazione proprio sul “resto di niente” sulla testa dei suoi elettori. Gli elettori del del governo Berlusconi. Si farà il punto delPdl (e della Lega) condividono anche le vir- la situazione su quello che ormai è un dato gole dell’intervista con cui Stefania Craxi ha acquisito: il peggio della crisi internazionadetto a Berlusconi «ti voglio bene e proprio le è passata, ma l’Italia stenta a crescere, è perché ti voglio bene ti dico che è finito il praticamente ferma, perché il governo è tempo delle barzellette e bisogna trovare il concentrato non sui problemi degli italiani modo giusto per uscire di scena». ma sui problemi di Berlusconi. Forse gli elettori non lo ricorderanno quasi più, ma ogni Dunque, il governo ha deciso che non è il tanto è bene rinfrescarsi la memoria: fu lo caso d’avere una strategia per le politiche stesso Berlusconi a chiamare il suo “il goverenergetiche. La priorità della classe dirigen- no del fare”. Da un po’ di tempo, avvertendo te che governa è la salvezza di Berlusconi e anche lui la forte contraddizione tra le parodel berlusconismo. Il “resto” viene solo dopo. le e i risultati, non fa ricorso a questa stucAllo stesso modo il governo non ha neanche chevole definizione. Anzi, il verbo “fare” è una strategia per la politica economica. stato praticamente abolito nel vocabolario Confindustria promuove il controllo dei di Palazzo Chigi. Anche “il governo del fare” conti pubblici e boccia l’inesistente linea di è finito nel “resto di niente” come la politica rilancio dell’economia reale. Se si aggiunge energetica, quella economica, e il risanache la “promozione” è più teorica che pratica mento dei conti pubblici. Tutto rinviato a dasi capisce che Confindustria non investireb- ta da destinarsi. Ormai a tutti, tranne a Fabe un euro sulla politica economica com- brizio Cicchitto, è chiaro che l’unica cosa da plessiva del governo. Nel Piano di Stabilità, fare è trovare una «uscita di sicurezza».

Sono due parlamentari del Pd, Roberto Della Seta e Francesco Ferrante, a far notare che in questo modo «si sospende semplicemente la procedura sine die, in attesa di tempi migliori e sicuramente dopo aver aggirato l’ostacolo del referendum». Non solo. Perché, come aggiunge il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, «c’è l’evidente volontà di evitare la debacle del 12 e 13 giugno, che avrebbe portato con sé anche l’abrogazione del legittimo impedimento».

Sospetti eccessivi? Può darsi. Di sicuro però, non appena il decreto Omnibus sarà stato convertito in legge dalle Camere, bisognerà attendere la Cassazione per capire se il quesito sull’atomo è da intendersi effettivamente superato, come sembra chiaro al momento. E in ogni caso si tratta di una ritirata non troppo onorevole su un fronte che pure l’esecutivo intendeva offrire come prova di slancio innovatore. Ma un colpo forse anche più duro viene inflitto all’esecutivo dai giudizi di Confindustria sul Piano nazionale di riforme. Galli non si rivolge ai senatori con toni polemici: si attiene al profilo tecnico analitico proprio del suo ruolo in Confindustria. E non manca nemmeno di rilevare l’impegno «estremamente ambizioso» fissato dal Consiglio dei ministri della scorsa settimana: «Si prevede di adottare per il biennio 2013-2014 manovre da circa 39 miliardi, cifra ben superiore ai 25 della manovra approvata la scorsa estate». Si tratta,


prima pagina

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il retroscena

Tremonti e la rottamazione d’Europa Il ministro lancia il suo progetto globale contro i vincoli Ue: «Bisogna cambiare i trattati» di Alessandro D’Amato ennesima proposta sul nulla? Il ministro dell’economia Giulio Tremonti apre all’ipotesi di un nuovo trattato europeo, perché quelli in vigore «Sono stati scritti prima della globalizzazione, sono stati adattati e adeguati ma sono il prodotto di un mondo passato». Parlando alla commissione affari costituzionali dell’Europarlamento, il responsabile dell’economia italiano afferma che l’idea di un nuovo trattato europeo è «una ipotesi da prendere in considerazione», visto che l’intensità degli ultimi anni con la crisi economica e quella geopolitica possono essere «una ragione per pensare a una nuova e ancora più intensa convenzione cogliendo il momento». Non è la prima volta che l’inquilino di via XX Settembre propone di ritoccare le carte europee; ma nell’intervento di Tremonti c’è più di un richiamo all’Europa a compiere un salto in avanti nella sua architettura istituzionale per rispondere ai profondi cambiamenti del mondo. Nell’Unione europea, secondo il ministro, deve essere avviata «una riflessione sul modello economico e sociale», prevedendo che oltre all’export e alla domanda interna almeno un’altra gamba dovrebbe essere rappresentata da «investimenti pubblici per l’interesse collettivo finanziati dagli eurobond». I prodotti finanziari marchiati Ue per lo sviluppo compaiono in diversi passaggi dell’intervento di Tremonti. «Spero che una volta ri-

L’

riconosce ancora il direttore generale di Confindustria, di uno «sforzo di gran lunga superiore a quello compiuto negli anni Novanta per rispettare i parametri di Maastricht e partecipare fin dall’inizio alla moneta unica europea».

Giampaolo Galli si limita a prendere atto di quello slittamento temporale, che trasferisce appunto le possibili stangate alla successiva legislatura. Non rimarca il dato. Provvede a evidenziarlo, però, un documento che i parlamentari del Nuovo polo discuteranno oggi in assemblea. Relazioni in cui il rilievo sulla tendenza al rinvio post-elettorale viene fatto in modo esplicito: «Il governo scarica sulla prossima legislatura gran parte del risanamento». Galli però incalza a sua volta l’esecutivo sul tema più delicato, quello del mancato sostegno alla crescita: «Senza stabilità della finanza pubblica non è

solti i problemi dei paesi periferici, il blocco dei paesi dell’euro trovi espressione negli eurobond», afferma Tremonti.

E gli eurobond tornano anche sul capitolo della “crisi atomica”, sulla quale assistiamo all’ennesima retromarcia del ministro: nel settembre 2010, nemmeno sette mesi fa, al Workshop Ambrosetti dichiarava che «dobbiamo fare il nucleare» per competere e risolvere la debolezza del Pil. Oggi, è tutto

Per il superministro è il momento di pensare a «investimenti pubblici per l’interesse collettivo finanziati dagli eurobond» cambiato per Tremonti: l’incidente alla centrale nucleare giapponese impone una riflessione. «È il momento di finanziare la ricerca e le energie alternative con gli eurobond». La crisi atomica, ha indicato Tremonti, non ha trovato nell’architettura istituzionale europea e nei trattati una risposta adeguata. «Sappiamo quale sarà l’onere delle pensioni nel 2050 - ha detto Tremonti - ma non sappiamo quali saranno i costi del decommissioning. Il nucleare genera benefici locali ma i malefici sono generali». Discorso diverso per le altre due crisi, quella economica e quella geopolitica che ha

possibile lo sviluppo economico», riconosce il dg di via dell’Astronomia, ma, aggiunge, «è vera anche la relazione inversa: senza crescita è molto difficile conseguire la stabilità finanziaria». E a tal proposito dunque il Pnr viene definito dagli industriali «deludente per quanto attiene alle azioni concrete per crescita e competitività».

investito il Mediterraneo. La crisi geopolitica ha registrato «una applicazione drammaticamente insufficiente dei trattati europei» ha sottolineato Tremonti. «L’Europa ha mostrato una visione politica totalmente insufficiente, eppure i trattati offrono un’ampia base di interventi». Il responsabile dell’economia ha sottolineato che «i trattati europei incorporano un sogno» ma devono essere applicati e interpretati tenendo conto delle condizioni che cambiano. «Nei matrimoni e nei trattati - ha detto ci si impegna nella buona e nella cattiva sorte». L’Europa invece ha risposto in modo adeguato alla crisi economica anche se ha fatto emergere «la mancanza di una sorveglianza efficiente sulla finanza privata». Ma anche sul terreno dell’economia sarebbero necessari passi in avanti. «Un frate italiano ha inventato la partita doppia, il conto economico e quello patrimoniale. Il primo è di breve termine mentre il secondo contiene i valori accumulati e destinati alle future generazioni».

Non è la prima volta che il ministro dell’Economia vira dalla linea della maggioranza e impone le sue decisioni al governo. E risulta anche che lo faccia in via non ufficiale, quando possibile: di qualche giorno fa è la pubblicazione delle sue dichiarazioni all’ambasciatore americano Ronald Spogli riportate da Wikileaks, nelle quali esprime perplessità sulla politica energetica italiana. «Nella collaborazione con i russi di Gazprom siamo andati un po´ troppo in là», diceva nella primavera del 2008 Tre-

è in particolare il settore che Confindustria teme di veder penalizzato di più? «Il taglio di investimenti pubblici prevede di scendere dai 38 miliardi del 2009 ai 27 del 2012, con effetti sull’infrastrutturazione del Paese» laddove l’Unione europea «chiede di effettuare il risana-

monti, e questo dà il senso di un eccesso nella strategia energetica italiana che molto ha fatto e fa discutere. L´interlocutore del ministro del Tesoro era l´ambasciatore, come si legge nei rapporti diffusi da Wikileaks. Vi si trova anche un Paolo Scaroni che confessa: «Più conosco i russi più mi preoccupo», o le autorità americane preoccupatissime «perché Silvio Berlusconi le dà tutte vinte e Putin e colpisce al cuore i nostri obiettivi di sicurezza in Europa». Tre anni dopo queste frasi suonano quasi profetiche. Tra gli intenti dei diplomatici americani, che allora riscrivevano l´agenda da rappresentare al quarto governo la Berlusconi, grande priorità era proprio disallineare la politica energetica italiana da quella di Mosca. E osteggiare la costruzione del gasdotto South Stream, visto come il colpo definitivo alle speranze di affrancare l´Europa dal giogo russo. Insomma, Giulio continua con la sua politica “personale”, mentre Berlusconi indica Alfano come suo delfino. Poco ma sicuro: il successore del Cavaliere dovrà fare i conti con lui.

una scossa all’economia italiana. C’è un’apprezzabile realismo, ma c’è sicuramente più enfasi per la stabilità che per la crescita». Coincidenza di vedute. Che però l’esecutivo prova a ignorare. Il ministro del Welfare Sacconi apprezza «il voto 10 che la stessa Confindustria ci dà per

«rassegnazione, stagnazione ed elevata disoccupazione soprattutto giovanile».

Nel documento in discussione oggi, i Parlamentari del Nuovo polo ricordano le amnesie della maggioranza sul Mezzogiorno e «il rischio che si crei un circolo vizioso: le misure di risanamento determinano un rallentamento della crescita, che a sua volta incide negativamente sul gettito fiscale e quindi impone ulteriori manovre deflattive». Bisognerebbe intervenire invece con una legge «di incentivazione fiscale degli investimenti, in particolare al Sud e nelle aree del Paese ad alto tasso di disoccupazione, con un’assegnazione straordinaria di risorse alla ricerca e agli investimenti pubblici, in particolare alle infrastrutture del Mezzogiorno». Questioni che per ora l’esecutivo non mostra di ritenere prioritarie.

Tra i rilievi degli industriali, l’ombra di stangate postume: «Nel 2013 sforzi superiori a quelli fatti per l’euro». Oggi un documento con le controproposte del Nuovo polo

Servirebbe «uno scatto d’orgoglio per affrontare le urgenze del Paese». In particolare, ci vorrebbero quelle azioni necessarie a rilanciare la crescita: «Siano definite e rese rapidamente operative». Come? «Si ridisegnino i meccanismi di spesa e lo stesso perimetro dello Stato nella società. Senza questi cambiamenti, i tagli alla spesa potrebbero rivelarsi difficili da sostenere e rischiano di tradursi nel rinvio di spese necessarie o in forme occulte di debito pubblico». E qual

mento senza penalizzare la spesa in infrastrutture».

Altro che scossa. Lo fa notare anche Rete imprese Italia con Cesare Fumagalli, che giudica a sua volta «insufficienti» le misure per lo sviluppo. Mancano, dice il segretario di Confartigianato ai senatori delle commissioni Bilancio e Finanze, «quelle indicazioni che configurerebbero

la politica di stabilità» e assicura che «le azioni concrete» chieste da Galli «arriveranno a giorni». Non concede fiducia Pier Luigi Bersani che parla senza mezzi termini di «Paese allo sbando», sospeso tra «l’acqua fresca sulle riforme» e «la bomba di manovre inimmaginabili». A rinforzo, il responsabile Economia dei democratici Stefano Fassina parla di «scenario da incubo», fatto di


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l’approfondimento

Le debolezze dell’economia, la stabilità e il legame con l’Europa: oggi il Nuovo Polo presenta il suo contro-piano

Non c’è tempo da perdere «Rinviando tutto al 2014, la maggioranza sceglie di galleggiare scaricando i problemi sulla prossima legislatura. Un atteggiamento suicida: il Paese non può perdere altri due anni per la ripresa». Parla Giorgio La Malfa di Riccardo Paradisi entre la Germania crescerà quest’anno fra il 2 e il 3%, nota preoccupata la presidente di Confindustria Emma Mercegaglia, l’Italia crescerà dell’1%.

M

Nel giorno in cui il Nuovo Polo presenta il documento per il rilancio dell’Italia Giorgio La Malfa spiega a liberal perché questa preoccupazione è giustificata muovendo dal piano di Stabilità che indica il raggiungimento nel 2014 del pareggio del bilancio ed una prima consistente riduzione del rapporto debito/PIL. «Un obiettivo che tiene in conto dei parametri europei ma che non spiega quali passi si dovranno fare per raggiungerlo. Questo traguardo richiederà infatti, dice La Malfa, tra il 2013 e il 2014, una manovra aggiuntiva di riduzione del fabbisogno di circa il 2,5%. D’altra parte – aggiunge La Malfa – se non c’è una politica di sviluppo economico che

consenta anche la ripresa delle entrate fiscali è impensabile che si possa realizzare questo obiettivo». Per questo è vitale che il Paese si muova in modo da far ripartire la crescita, in caso contrario le misure di risanamento diventano troppo dure. «Io temo un circolo vizioso, l’avvitamento della nostra economia: un risanamento del debito pubblico che presuma tali misure restrittive della finanza pubblica da causare una caduta verticale del reddito e una conseguente mancanza di entrate fiscali». Un circuito vizioso, appunto. E rischioso. Anche se, ammette La Malfa, l’Italia è un Paese strutturalmente ostile a politiche riformiste di lunga durata, chiuso alle liberalizzazioni, barricato nelle proprie sinecure corporative. Eppure questa riottosità non può essere un alibi: «I governi hanno il dovere di fare quello che un Paese ha bisogno. E di farlo subito, altrimenti si bara, si lascia in

eredità alla successiva legislatura e all’attuale opposizione un’eredità ingestibile. Come è accaduto con il governo Prodi nel biennio 2006-2008. La nostra posizione è chiedere che il governo faccia subito quello che deve fare non dopo».

L’Europa si diceva. Anche se il Vecchio Continente non attraversa un momento facile. «Le crisi finanziarie di alcuni Paesi membri dell’Euro e la necessità di procedere con misu-

«L’equilibrio fra stabilità e sviluppo richiede fiducia nell’Europa»

re di sostegno a loro favore – si legge nel documento del nuovo polo sulle politiche economiche del governo – hanno alimentato un clima di crescente diffidenza nelle relazioni intereuropee. Da qui è nata l’insistenza, in particolar modo da parte tedesca, sull’introduzione di vincoli ai comportamenti dei singoli Stati. Ebbene – continua il documento - bisogna evitare che l’Europa dei giusti vincoli divenga l’Europa degli ingiustificati egoismi. Bisogna,

in altri termini, riuscire a superare l’impasse che ha fermato il cammino dell’integrazione politica. L’equilibrio fra stabilità e sviluppo richiede un delicato governo politico frutto di una rinnovata fiducia tra i partner che oggi non c’è più. Senza tale fiducia anche gli obiettivi di stabilità finanziaria rischieranno di creare nuove anche insanabili divisioni tra I membri dell’Unione con esiti potenzialmente pericolosi per l’intero equilibrio mondiale».

L’Europa del resto sta gestendo male, barricata in difesa, questa crisi mediterranea che ha messo in vibrazione l’intero nord-Africa prima di culminare nella guerra civile libica. L’Italia– ma anche Francia e Germania – sembrano chiudersi a riccio, incapaci di elaborare una strategia chiara, unitaria e condivisa sulla Libia. «Quello che viene fuori di drammatico di questa crisi mediterranea – dice La Malfa – è che senza gli Stati Uniti l’Euro-


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Il cataclisma della Grecia e i bilanci del Portogallo mettono a rischio la stabilità dell’euro

L’allarme di Standard&Poor’s incendia l’Unione europea

L’outlook negativo dell’economia americana riaccende nel Continente il dibattito sui conti pubblici degli Stati a rischio. E Berlino deve decidere di Gianfranco Polillo allarme per i conti economici americani, che ha spinto Standard & Poor’s verso un outlook negativo sui titoli del debito pubblico, ha infiammato i mercati europei. Con reazioni più violente rispetto a quanto avveniva rispetto a quel Paese. Due le ragioni: da un lato il crollo di un idolo. Se i mercati penalizzano l’imperatore, mostrando una forza che sfiora l’incoscienza; perché dovrebbero salvare – questo il secondo motivo – economie più traballanti, in cui il peso del debito accumulato non è la conseguenza di una crisi finanziaria improvvisa, ma il frutto di antiche e pessime abitudini dure a morire? Ed ecco allora che il dibattito, fino a ieri circoscritto nel chiuso delle stanze degli specialisti, è esploso all’improvviso. Rimbalzato sui principali media, ha avuto un effetto devastante su mercati già resi sensibili dalle notizie che provenivano dagli Usa. Ed è stato un piccolo disastro. Borse a picco. Fuga dai titoli pubblici dei Paesi più esposti. Prezzo dell’oro alle stelle, nella ricerca di un ipotetico rifugio. Al centro del cataclisma soprattutto il debito della Grecia, quindi il contagio che l’eventuale default può estendere agli altri titoli del debito sovrano: soprattutto Irlanda e Portogallo. Ma nemmeno la Spagna o l’Italia possono dormire tranquille.

L’

Che la Grecia non sia in grado di far fronte agli impegni sottoscritti è ormai un dato quasi certo. Anche se George Papandreu si affanna a sostenere il contrario. Secondo il premier greco un’eventuale ristrutturazione non è necessaria, né desiderabile. Si comprendono le ragioni di questa levata di scudi. Se l’inevitabile dovesse prendere forma, le conseguenze sarebbero devastanti e per anni (una ventina) la credibilità di quel Paese nei confronti degli investitori sarebbe carta straccia. Senza contare poi i riflessi che questa scelta avrebbe sui delicati problemi europei, fino a mettere in forse l’euro così come lo abbiamo conosciuto. Non a caso, nel momento di maggior panico, la moneta europea ha perso l’1,4 per cento nei confronti del dollaro, malgrado la penalizzazione decretata da S&P sui titoli del debito espressi in quella valuta. C’è evidentemente un dato psicologico che, forse, fa la differenza. Il FMI ha calcolato che mentre gli Usa, per ricondurre il loro debito al 60 per cento del Pil, entro il 2020, dovrebbero mettere in cantiere una manovra pari al 17,5 per cento dello stesso Pil; lo sforzo fiscale greco dovrebbe essere molto più contenuto. Non dovrebbe superare, infatti, il 14 per cento. Ma, naturalmente, la Grecia non sono gli Stati Uniti. Come del resto gli europei sono diversi dagli americani. Ed è anche questo che incide negativamente sulle prospettive future. Sul sentimento dei mer-

cati ha agito un fatto apparentemente estraneo: la vittoria in Finlandia del partito conservatore – quello dei “veri finnici” – di cui sono note le pulsioni euroscettiche. Divenuta la terza forza nazionale, potrebbe impostare la sua politica sul rifiuto di concedere ancore di salvezza a favore di quei Paesi che hanno ecceduto: non solo la Grecia, ma la stessa Irlanda e Portogallo. Questa novità ha prodotto un effetto domino, dando corpo alle paure che, da tempo, agitano

Molti investitori hanno abbandonato i titoli Usa puntando su quelli tedeschi i principali Paesi europei: soprattutto la Germania. Angela Merkel è alle prese con una difficile situazione politica. In un anno elettorale deve convincere i suoi concittadini che l’Europa Unita rappresenta ancora un buon affare. Per ottenere questo risultato, deve imporre agli altri una linea di rigore e portarla avanti fino alle estreme conseguenze, che potrebbero essere, appunto, quelle del default di alcuni Paesi: a cominciare dalla Grecia.

Proprio in questi giorni, i principali quotidiani tedeschi hanno iniziato a dibattere del problema: conviene o no abbandonare al proprio destino coloro che son rimasti indietro? Qui la solidarietà conta fino ad un certo punto. Le banche tedesche sono esposte nei confronti di quel Paese per diversi miliardi di euro. Se si praticasse l’haircut (taglio dei capelli), come si dice in gergo, rimborsando solo una parte del debito, le prime a soffrirne sarebbero proprio loro. Il Governo, allora, sarebbe costretto a intervenire con operazioni di mini-salvataggio a spese dei soliti contribuenti. E’ poi facile prevedere che l’onda non si fermerebbe sulle coste dell’Egeo. L’effetto domino coinvolgerebbe, almeno, l’Irlanda e il Portogallo. Nei confronti di questi Paesi le banche europee sono esposte per 416 e 218 miliardi di dollari: secondo le valutazioni della Bri (Banca dei regolamenti internazionali). Il sasso lanciato nello stagno avrebbe, quindi, conseguenze drammatiche. Di fronte a queste incertezze, i mercati hanno reagito com’era prevedibile. Hanno snobbato i titoli più esposti o chiesto rendi-

menti da capogiro. La Grecia ha ottenuto prestiti – buoni decennali – solo a un tasso del 14 per cento. Per avere un’idea della differenza si consideri che il tasso di riferimento deciso dalla Bce è appena pari all’1,25 per cento. La differenza rispetto al bund tedesco si è ampliata a dismisura. Anche perché molti investitori, fuggendo dai titoli di stato americani, li hanno comprato a piene mani, facendo scendere il relativo rendimento. Attraverso questa via, il contagio si è esteso agli altri bond. Il Portogallo deve pagare, per la stessa scadenza, il 9,27 per cento; l’Irlanda il 9,95 e la Spagna il 5,5 per cento. Situazione, solo leggermente più tranquilla per l’Italia, che paga, comunque, il 4,79 per cento. Nei giorni passati la situazione era migliore, ma in conseguenza di questi fattori anche lo spread sui titoli italiani si è alzato, raggiungendo un valore pari a 154 punti base: comunque più contenuto rispetto al picco di circa 200 punti toccato nei mesi passati. Cosa dicono questi numeri? Le quotazioni del CDS (Credit default swap) rappresentano, in termini probabilistici, il rischio di un’eventuale default. Per la Grecia il loro valore è pari a1.211: con un aumento, nello spazio di un giorno, di circa 56 punti base. Ciò significa che i mercati scontano (probabilità del 65 per cento) l’ipotesi di una ristrutturazione del debito nei prossimi cinque anni. Reggerà la situazione fino a quella data? Difficile dire, essa è resa incandescente dal susseguirsi delle dichiarazioni e delle inevitabili smentite, nonché dal gioco politico interno tra maggioranza ed opposizione. La prima decisa a resistere, la seconda più propensa ad abbandonare gli investitori esteri al loro destino in un dibattito che, per molti versi, ricorda quello italiano. Quando a calamitare l’attenzione degli osservatori era la proposta di varare una patrimoniale per far fronte allo stesso problema.

pa non trova una politica unica. Questa crisi libica ha dei punti di somiglianza con quella del Kossovo. Fin quando Clinton non diede la linea dell’intervento l’Europa aveva tre quattro politiche diverse. In Libia è la stessa cosa: Italia Francia Gran Bretagna procedono in ordine sparso, solo che stavolta gli Stati Uniti, dopo aver aperto i fuochi, hanno deciso di non esercitare la propria leadership. E le contraddizioni europee e italiane sono emerse con impietosa evidenza».

L’Italia peraltro ha degli interessi vitali in Libia, che forse dovevano essere tutelati e difesi meglio. «Già, ma un Paese, per poter rappresentare con forza i propri interessi deve avere anche un prestigio internazionale, un peso per poterlo fare, per farli valere. Ammettiamo che fosse vero per l’Italia rimanere fuori da questa operazione libica, come lo avremmo spiegato? Ci sarebbe stata subito opposta l’obiezione che siamo amici di Gheddafi. D’altra parte anche ora non riiusciamo a spiegare in modo convincente per quale motivo l’Italia è contraria ai bombardamenti sulla Libia. Mentre è chiaro il perché la Germania resti fuori da questa operazione – capisci le motivazioni economiche, strategiche, geopolitiche di Berlino – non è chiaro perché Roma invece vi sia dentro a metà, in maniera poco convinta». «La politica estera italiana rischia invece di essere una pochade: il bacio dell’anello di Gheddafi, il caravanserraglio del colonnello a Roma ma anche l’oscillazione tra le richieste d’aiuto all’Europa e le minacce di secessione sono tutti segnali che ci penalizzano in termini di credibilità». Resta il fatto che l’Europa deve ritrovare il proprio ruolo nel Mediterraneo anche se non è impresa facile. «Intanto c’è una difficoltà di dare consistenza all’idea che è quella dello sviluppo del Mediterraneo. In questi anni sono state prioritarie le urgenze dell’est europeo sulle politiche del sud e del Mediterraneo ma adesso è arrivato il momento di riprendere il progetto di un’area euromediterranea. Si può sperare per esempio di rimettere in piedi il processo di Barcellona non appena si sarà chiarito il quadro libico o comunque sarà necessario pensare a qualcosa che abbia a che fare con il processo democratico del Mediterraneo analogo a quello che è avvenuto in Unione sovietica. Anche se la situazione in Africa è più difficile di quella che si presentava nell’est europeo alla caduta del muro. Nell’Europa orientale si trattava di gestire un ritorno alle democrazie e agli stati nazionali che nel caso africano si tratta di creare la democrazia in Paesi che hanno solo un passato coloniale. È un processo più complicato».


politica

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Ieri ennesima giornata di polemiche sul candidato indagato per i manifesti contro le Procure. «O lui o io», aveva detto il sindaco

La ritirata di Lassini La Moratti aveva chiesto la sua testa. Lui scrive a Napolitano: «Rinuncio» di Osvaldo Baldacci

ROMA. Capro espiatorio. Ma basterà o al contrario è il segno di scricchiolii sempre più pericolosi? «O io o lui» ha detto ieri Letizia Moratti parlando di Roberto Lassini, il candidato del Pdl indagato per i manifesti contro i magistrati. L’invito all’avvocato milanese a ritirarsi viene dalla candidata sindaco, è vero, anche anche nel Pdl ci sono molti malumori; e più ancora ce ne sono nella Lega che continua a considerare le «in-

ne è da valutare sotto molti aspetti. Sicuramente, l’idea che ha ispirato i manifesti «Via le br dalle procure» è in linea con il premier, e di questo allineamento esprime tutte le facce, anche quelle controverse. Perché è innegabile che le sortite di Lassini sono servite a spingere le amministrative di Milano su un crinale di valenza politica nazionale e di referendum su Berlusconi e sul suo conflitto con la magistratura,

La Lega è sempre più irritata per il caos sulla giustizia: non tollera che la corsa per conquistare Palazzo Marino finisca per diventare un referendum (di valore nazionale) sul premier temperanze» sulla giustizia un terreno scivoloso, troppo scivoloso in vista delle elezioni di Milano. Alla fine lui cede e comunica di rinunciare alla campagna elettorale, con una lettera rivolta al presidente della Repubblica.

Eppure non è vero che Lassini l’abbia fatta talmente grossa da essersi messo in una situazione senza uscita avendo tutti contro: anzi, l’impressione invece è che Lassini abbia svolto in un certo senso una ”missione”, e per questo c’è chi lo difende. Ecco perché la sua azio-

ma è altrettanto innegabile che proprio questo ha comportato le spaccature dentro il Pdl e con la Lega, e che il valore politico nazionale attribuito al voto per il comune può adesso anche ritorcersi contro Berlusconi se, come non è impossibile, avrà difficoltà nelle urne. Berlusconi ha scelto di attaccare frontalmente a Milano. E il rischio è che in realtà Lassini il suo scopo (o quello dei suoi eventuali mandanti) l’abbia ottenuto. Quello cioè di tornare a radicalizzare lo scontro delle elezioni amministrative, riportarlo alle polemiche su Berlu-

Letizia Moratti ieri si è schierata duramente contro Roberto Lassini (qui accanto), autore dei manifesti contro la procura di Milano (nella foto a destra). sconi, e far dimenticare ai cittadini che si va a votare su come si vuole che sia amministrata la città e su come è stata amministrata fino ad ora. Lo scontro sulla giustizia al centro delle elezioni amministrative? Sarebbe questa la maggior attenzione alle realtà locali? Che c’entrano i problemi di Berlusconi con il voto per scegliere gli amministratori delle città? Ancora una volta si preparano a scendere in campo gli eserciti degli opposti estremismi per trasformare il prossimo voto comunale in un referendum pro o contro Berlusconi.

E la questione è aperta soprattutto a Milano, sede della Procura che indaga sul premier e di conseguenza luogo anche delle maggiori manifestazioni di ostilità ai giudici. Ma forse non è tutto qui: a Milano infatti, insieme ad altre città ma più che in altre città, si gioca anche un valore politico delle prossime elezioni amministrative. Non semplifica le cose la discesa in campo in prima persona

del Berlusconi premier come capolista del Pdl al comune (da notare peraltro che la lista prevede 48 candidati, due dei quali già in partenza sono fuori gioco per il futuro di Milano, vale a dire il premier e Lassini: non un bel gesto verso la città e i suoi problemi). Si valuta anche la tenuta dell’asse Pdl-Lega, sottoposto a sempre mag-

giori cause di attrito, che peraltro in Lombardia e proprio a Milano non sono mai mancate. E mentre si fa più forte il desiderio leghista di impossessarsi sempre più del Nord, i militanti soffrono le continue prese di posizione in difesa di Berlusconi mentre si rimane lontano dai problemi locali cui sono certamente più interessati. D’altro

Berlusconi ha scoperto che al Senato non avrebbe la maggioranza e tenta un altro colpo di mano incostituzionale

Hanno paura del Terzo Polo e “truffano” erlusconi adesso vuole il cambiamento della legge elettorale e, subito dopo, le elezioni anticipate. Le esternazioni che gli sono attribuite a questo proposito non mancano di senso e di coerenza logica, se le consideriamo dal punto di vista dell’interesse di Berlusconi.

B

All’inizio della crisi che stiamo vivendo, il Capo del Governo voleva le elezioni anticipate perché era convinto di vincerle a legge elettorale vigente. Per la medesima ragione, l’opposizione non le voleva e lanciava piuttosto l’ipotesi di un governo nuovo per fare una nuova legge elettorale ed andare

di Rocco Buttiglione dopo alle elezioni. È stato allora che tutti i parlamentari che non volevano nuove elezioni in alcun caso perché temevano di non essere rieletti si sono schierati contro Berlusconi e si sono detti disposti a sostenere un governo di responsabilità nazionale.

In una seconda fase, Berlusconi si è convinto che, a legge elettorale vigente, avrebbe perso le elezioni.Tutti i sondaggi, infatti, indicavano (e indicano) che da nuove elezioni sarebbe uscito, sempre a legge vigente, un Parlamento in cui Berlusconi non avrebbe avuto la

maggioranza e il Polo Nuovo sarebbe stato decisivo. Nel Senato, infatti, non esiste un premio di maggioranza nazionale. Il premio di maggioranza è regionale. Di conseguenza è possibile (anzi probabile) che la presenza di un terzo polo che prenda più del dieci per cento dei voti faccia in modo che al Senato non ci sia nessuna maggioranza. Se ci fosse un simile risultato i voti del terzo polo sarebbero determinanti per costituire il governo. Potremmo imporre una grande coalizione per le riforme, che è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per fare le riforme econo-

miche ed istituzionali che né una coalizione di centro/destra né una coalizione di centro/sinistra sono in grado di fare da sole.

Di conseguenza, mentre si delinea nei sondaggi questa prospettiva. Berlusconi decide che non si possono fare nuove elezioni e si pone come il garante della continuazione della legislatura. Ed è così che i parlamentari che non vogliono in alcun caso le elezioni, stavolta si sono spostati verso Berlusconi, restituendogli una maggioranza in aula. L’opposizione comincia invece a guardare alle elezioni con minore preoccupazione. Ebbene, adesso si delinea un nuovo capovolgi-


politica

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quindi lasciamo che decidano gli elettori: se la cosa è così grave prenderà zero voti». È evidente che il gioco passa anche su questa forzatura: e se poi Lassini non dovesse lasciare e anzi, rimanendo in corsa prendesse parecchie preferenze? «Ignobile non è il manifesto, bensì il reato di vilipendio a difesa di burosauri e caste faraoniche, fattispecie tipica dei regimi totalitari. Di contro, ai berlusconiani ipocriti e tremebondi, che purtroppo non sono rari, affermo alto e forte d’essere solidale con Roberto Lassini, indagato sulla base di un articolo del codice fascio-comunista», ha sparato Giancarlo Lehner, deputato cosiddetto Responsabile. Dal canto suo, Lassini agita le acque: «Se mi arrabbio ho tanto da raccontare» dice a Repubblica l’indagato per vilipendio all’ordine giudiziario,

Ma non è l’unico fronte incrinato nel campo giustizia-Pdl. L’altra patata bollente l’ha provocata Stefania Craxi. Proprio l’antesignana della lotta a oltranza contro i magistrati e la Procura di Milano: In una intervista la Craxi ha ipotizzato il suggerimento che Berlusconi faccia un passo indietro, e si è scatenato su di lei il fuoco di fila. Nonostante che sui giudici non sia stata tanto tenera, non lesinando paralleli col padre: «Berlusconi e Craxi sono stati chiamati a combattere con gli stessi avversari politici. Certi clan della magistratura politicizzata, certi clan dell’informazione, un certo mondo finanziario che vuole un governo ai propri ordini... Ma Berlusconi è più forte di Craxi. E non può, anzi non deve, finire come Craxi. Silvio ha il consenso popolare che Craxi non aveva. E poi ha tv e denaro. Deve andare avanti per comple-

«Ignobile non è il manifesto, bensì il reato di vilipendio a difesa di burosauri e caste faraoniche, fattispecie tipica dei regimi totalitari fascio-comunisti», ha spiegato Giancarlo Lehner canto le divisioni dentro il Pdl emergono anche a Milano, e rendono più complicata l’impresa del Cavaliere.

Fioccano le prese di distanze da Lassini, soprattutto dopo che di fatto è intervenuto direttamente e massicciamente addirittura il Capo dello Stato Napolitano, che ha chie-

sto di dedicare il 9 maggio ai giudici vittime delle Brigate Rosse. Dopo la Moratti e il capogruppo alla Camera Cicchitto, anche il presidente del Senato Schifani ha chiesto da parte del Pdl una condanna senza ambiguità, e il capogruppo Gasparri ha definito “inaccettabili” i famigerati manifesti. Nessuna notizia però

dai coordinatori del Pdl, mentre quello che filtra dall’entourage di Berlusconi è che il premier non ha gradito i manifesti,“che però politicamente…”. È andata oltre Daniela Santanché, sottosegretario e personaggio di spicco in Lombardia: «Ci sono cose peggiori di questa, ci sono cose più gravi oggi di cui scandalizzarci. E

«Mi escludono perché sono indagato per un presunto reato di opinione. Mi sono assunto la responsabilità di quanto fatto dai militanti della Associazione dalla parte della democrazia - prosegue -. Quello slogan è forte, è vero, ma riprende quanto detto da Silvio Berlusconi sul ”brigatismo giudiziario” di certi magistrati».

mento di scenario. Berlusconi si è convinto che non sarà facile ridimensionare il nuovo centro politico e quindi vincere le prossime elezioni mantenendo ferma la legge elettorale vigente. Si annuncia dunque un nuovo cambiamento di strategia. Per sottrarsi alla situazione sfavorevole che minaccia di schiacciarlo, il capo del governo adesso vorrebbe di nuovo andare ad elezioni anticipate. Questa volta però vuole cambiare la legge elettorale ed istituire un premio di maggioranza anche al Senato.

Anche noi dobbiamo adattare la nostra tattica a questo cambiamento. Dobbiamo dire che non abbiamo paura delle elezioni ma dobbiamo dire anche che non si cambiano le regole quando è in corso la partita. Il premio di maggioranza al Senato non esiste per buone ragioni, che fece notare a suo tempo il presidente Ciampi. Il Senato si elegge su base regionale e costituisce la rappresen-

tare il lavoro sulla giustizia. Deve difendersi e impedire che la sovranità popolare si sposti dalle urne alle toghe. È la sua battaglia - conclude Stefania Craxi ma è anche la mia». Una battaglia cui i berlusconiani arrivano divisi e confusi, ma che sembrano decisi a combattere in primis proprio a Milano.Vada come vada. E non è detto che vada.

tanza delle regioni. È un elemento di federalismo che si trova già nella Costituzione del 1948. Per questo un premio di maggioranza nazionale al Senato sarebbe incostituzionale. Per di più sarebbe in contrasto evidente con la riforma federale che è l’asse centrale del programma di questo governo. Dobbiamo considerare la possibilità di andare ad elezioni anticipate in autunno. Non si è mai fatto ma adesso la legge finanziaria è stata molto rimaneggiata e forse c’è la possibilità di sistemare il calendario parlamentare di autunno in modo da rendere possibili le elezioni anticipate.

Il capo del governo voleva le elezioni anticipate perché era convinto di vincerle a legge elettorale vigente. Ora sa che non ce la farà mai, e cerca in tutti i modi di evitare lo scoglio

È comunque imperativo respingere questa tentazione autoritaria che serpeggia nella maggioranza. Già la legge attuale è una gabbia di forza per costringere in uno schema rigido prefissato la volontà degli italiani. Non ha bisogno di essere ulteriormente rafforzata (cioè peggiorata).


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ra tutte le contestazioni di epoca contemporanea contro il vertice della Chiesa Cattolica, quella messa in atto dal vescovo francese Marcel Lefebvre e dai suoi seguaci, sfociata nella scomunica comminata nel 1988 alla loro Fraternità San Pio X, è certamente la più nota e raccontata. Le ragioni di questa fama sono probabilmente diverse, anche se tutte, infine, rimandano ai caratteri di originalità della vicenda: le qualità carismatiche del personaggio Lefebvre, il suo profilo umano e sacerdotale, e la sua stessa biografia, tra la Francia, l’Africa, Roma e la Svizzera; le complessità e i problemi del Concilio e del post-Concilio; gli effetti del ’68, cattolico e non; il fatto che questa contestazione sia provenuta “da Destra”, in nome della Tradizione e della Chiesa tridentina; il paradosso che la critica alla “protestantizzazione” della Chiesa si sia risolto in una insubordinazione verso l’autorità di Roma e il Papa.

T

Sintetizzando, si può dire che la crisi lefebvriana è stata ed è uno specchio, talvolta anche rovesciato, dei problemi e delle lacerazioni che il cattolicesimo ha vissuto e affrontato nel secondo Novecento, tra dinamiche di aggiornamento, sforzi di fedeltà e inedite rivendicazioni. Marcel Lefebvre, sacerdote e religioso francese formatosi a Roma in gioventù alla severa scuola del tomismo, quindi missionario e vescovo nell’Africa francofona, prese parte al Vaticano II e lottò sin dagli inizi delle assise conciliari contro le tendenze modernizzatrici della maggioranza, aderendo alle organizza-

il paginone

La crisi nacque soprattutto durante il Concilio Vaticano II, su temi come la dottrina zioni e ai circoli del gruppo conservatore. Anche a uno sguardo di superficie si comprende come il dissenso fosse molto radicato e argomentato: riguardava la dottrina sulla libertà religiosa, il rapporto con i non cristiani e i non credenti, le fonti della Rivelazione e i metodi di studio e interpretazione della Sacra Scrittura, l’ontologia della Chiesa (“Società perfetta”o “Popolo di Dio”), la liturgia, i nuovi catechismi, le ipotesi collegiali e partecipative del governo ecclesiastico. C’era già allora, e permarrà anche dopo, una non piccola corrente di opinione, diffusa tra vescovi, religiosi, clero, studiosi, fedeli laici, che viveva con grandissime difficoltà i cambiamenti del Concilio, ritenendoli un’obiettiva messa in discussione del patrimonio irrinunciabile della Chiesa Cattolica. Marcel Lefebvre veniva a costituirsi come la punta di un iceberg ben più esteso, con la differenza data dal suo temperamento e dal suo carattere, che lo portarono nel giro di un breve tempo, negli anni successivi alla conclusione del Vaticano II, a trasformare il proprio dissenso in una autentica dissidenza. Complici probabilmente le tensioni portate dal ’68 anche in ambito ecclesiale, con polarizzazioni, abbandoni e indebolimento di molti capisaldi tradizionali, Lefebvre divenne il punto di riferimento di diversi ambienti nostalgici del vecchio ordine, un universo peraltro non privo di risorse, crediti e capacità di attrarre giovani vocazioni in anni di crisi. È in questo contesto che egli fondò la Fraternità di San Pio X, partendo con un seminario organizzato secondo il modello tridentino a Econe, in Svizzera. Siamo agli inizi degli anni ’70, e da quel momento in poi si assisterà a un’escalation di contrasti e prese di posizione assai critiche che opporranno la Fraternità alla Santa Sede, in una spirale ininterrotta che porterà alla scomunica del 1988 e all’unico scisma cattolico del Novecento. Oltreché sul catechismo e sull’interpretazione delle Scritture, la lotta di Lefebvre si focalizzò soprattutto sulla riforma liturgica e sulla “nuova” Messa promulgata da Paolo VI. Il contrasto mostrava, ben oltre il proprio perimetro, come la liturgia fosse (sia) non tanto e non solo una disciplina dei culti e dei riti, ma l’espressione fondamentale del credere (lex orandi e lex credendi, si dice) e la forma basilare dell’autocomprensione della Chiesa. La vicenda Lefebvre, inoltre, non fu priva di inevitabili collegamenti politici con settori della Destra autoritaria francese e internazionale. In ogni caso, il lefebvrismo ufficiale della Fraternità San Pio X fu accompagnato sin dagli inizi da un meno visibile lefebvrismo implicito, rimasto nel seno della Chiesa e diffuso ai suoi diversi livelli. Lo stesso Lefebvre ha sempre avuto interlocutori nella Curia Romana (che patrocinarono, ad esempio, un suo incontro con Giovanni Paolo II a poche settimane dall’elezione), e in generale sono esistite ed esistono associazioni e circoli vicini alla sua ispirazione. Papa Benedetto XVI ha avviato un processo di

Anatomia del movimento “figlio” del vescovo francese, che nonostante le aperture di Ratzinger continua sulla strada del dissenso A sinistra, il vescovo Marcel Lefebvre. A destra, un’immagine dei lavori del Concilio Vaticano II e uno scatto di papa Paolo VI. In basso a destra, una fotografia di Joseph Ratzinger

L’ingratitud

di Francesc ascolto e discernimento di tali esperienze e sensibilità, sollecitandole nel contempo a una purificazione che consenta di separare ciò che è essenziale e legittimo dal sovrappiù delle unilateralità, degli esclusivismi e degli equivoci.

Ratzinger si è mosso verso i tradizionalisti nel quadro della sua grande opera di rifocalizzazione di una corretta ermeneutica cattolica, partendo dall’approccio alla storia della Chiesa e alla lettura teologica di questa storia, mo-

possibilità di superamento, perché in una storia che, pur segnata dagli umani fallimenti, si sviluppa lungo un percorso di Grazia, non può esserci un passato da condannare come tale alla damnatio memoriae, come non può esserci una Tradizione “fossile” che non sia riguardata e non si arricchisca di forme nuove di comprensione e di segni del presente. Per favorire concretamente una nuova e più piena comunione, il Papa ha compiuto due gesti di grande portata, non privi di conseguenze polemiche e criti-

Complici probabilmente le tensioni portate dal ’68 anche in ambito ecclesiale, il sacerdote divenne nel tempo il punto di riferimento di diversi ambienti nostalgici del vecchio ordine strando – soprattutto con riferimento alla memoria e all’attualità del Concilio Vaticano II, ma poi in senso più vasto e metodologico – come continuità e discontinuità non siano categorie egualmente utilizzabili sul piano ecclesiale, e come nella vicenda bimillenaria della fede cattolica non si diano nuovi inizi e ricominciamenti, ma solo sviluppi lungo una strada segnata e promessa irrevocabilmente. In questa luce, la disputa con i tradizionalisti – lefebvriani espliciti o per così dire impliciti – trova la sua

cità: da una parte, con il Motu Proprio Summorum Pontificum Cura (2007), ha concesso la possibilità di celebrare con il “rito antico” (seppur in parte rivisto sotto Giovanni XXIII) a gruppi di fedeli stabili che ne facciano richiesta.

Ciò poteva in precedenza avvenire solo su concessione del vescovo diocesano, mentre ora non si prevede più tale permesso. Dall’altra, Benedetto XVI ha proceduto nel 2009 alla revoca delle scomuniche lefebvriane del 1988, con


il paginone sulla libertà religiosa, il rapporto con i non credenti, la liturgia e i nuovi catechismi

dine di Lefebvre

co Iacobini un atto che, se non ha ristabilito ancora la piena comunione, ha rappresentato comunque un’apertura di credito senza precedenti. Questi provvedimenti hanno scatenato critiche e resistenze di ogni tipo dentro la Chiesa e fuori, ma la sostanza dei problemi non si è rivelata tanto negli incidenti pur gravi come quello del vescovo negazionista Williamson o nei contrasti locali tra fedeli legati al vetus ordo e vescovi recalcitranti. La sostanza è rimasta sottopelle e ha a che fare ancora una volta con la visione della fede e della Chiesa, su una quantità di capitoli non trascurabile. È qui, a questo punto, che è diventato evidente come la questione lefebvriana abbia finito per trasformarsi in una sorta di alibi. Alibi anzitutto per quei settori cattolici, pienamente inseriti nella Chiesa, che mai hanno digerito i frutti del Concilio Vaticano II: in loro si è mantenuto un dubbio fondamentale, se non proprio un rigetto, circa la sostanza del Concilio, non solo sulle sue distorsioni.

Questi gruppi sono non troppo numerosi ma ben organizzati, generalmente dotati di mezzi e visibilità e collegati con settori gerarchici presenti a Roma e fuori. Pur non avendo mai messo in discussione la fedeltà alla Chiesa e ai Papi del post-Concilio, hanno vissuto in

questi decenni una permanente condizione di disagio, e oggi – non a caso – sono perplessi sulla beatificazione di Giovanni Paolo II, al quale imputano colpe molto gravi di sincretismo (si pensi ai raduni interreligiosi di Assisi), per il rapporto con la memoria (si pensi alle richieste di perdono nell’anno giubilare), per diverse scelte pastorali.

Ma la questione lefebvriana continua a essere un alibi ancor maggiore per settori importanti di cattolici novatori e progressisti, quelli che intendono il Vaticano II come nuovo avvio, in una logica di convinta frattura col passato. E’ da questi milieu che, nel corso degli anni e con gradazioni diverse ma tutto sommato coerenti nell’ispirazione, sono

Per favorire una nuova e piena comunione, Benedetto XVI si è mosso verso i tradizionalisti concedendo la possibilità di celebrare con il “rito antico” e revocando le scomuniche del 1988 provenuti orientamenti, proposte e linee di condotta volte alla progressiva rimodulazione in senso democratico della Chiesa, alla rivisitazione dello stato e dell’identità sacerdotale, a una decisa desacralizzazione. E anche su questo versante la liturgia (lex orandi e lex cre-

dendi, non dimentichiamolo) è stato il terreno del confronto e della prova, dato che l’ordine simbolico si costituisce come spazio eletto per la sperimentazione e la promozione diffusa e vissuta di una data sensibilità. La riforma liturgica postconciliare è così divenuta il

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punto di partenza di una serie di forzature modernizzanti, di creatività indebite, con giustificazioni altisonanti che hanno riguardato anche l’architettura sacra e che infine hanno restituito alla Chiesa un volto poco attrattivo, poco capace di evocare il Mistero e testimoniare l’Invisibile, proposto come sobrio e invece percepito troppo spesso solo come respingente se non squallido. Benedetto XVI ha sempre avuto chiaro che la disputa Tradizionalisti-Novatori si snodava lungo questi diaframmi reciproci, e che nella sua rappresentazione accentuata finiva per fornire pretesti di evasione, ciascuno a cercare quasi una propria Chiesa immaginaria, distante dalla comunione ecclesiale autentica e presa a interpretare fantomatici spiriti (del Concilio o dell’antiConcilio) più che a vivere corrette ed equilibrate realtà. Oggi è sempre più chiaro, proprio grazie al coraggio e all’impegno anche solitario di Papa Ratzinger, che la vera unità della Chiesa, a partire dalla liturgia, non si conquista favorendo inclinazioni autoreferenziali, ma inserendosi nel grande insieme della comunione cattolica, riconoscendo nel magistero del Papa e dei Vescovi la guida autorevole e credibile per andare avanti, anche quando non tutte le nostre sensibilità trovano immediata accoglienza.

Se la primavera conciliare non fosse stata trasformata in una bollente estate di esperimenti e interpretazioni libere e talvolta irresponsabili, le spinte all’indietro e le resistenze avrebbero trovato molte meno ragioni e molti meno spazi di agibilità. Se la liturgia riformata fosse stata compresa, celebrata e vissuta nella sua autentica profondità, e se si fosse valorizzato il suo potenziale di bellezza e significato, non si sarebbe avuto un diffuso desiderio di revanche da parte dei nostalgici del rito tradizionale. Come pure è innegabile che se i lefebvriani avessero avuto un corretto senso della Tradizione, da intendersi come patrimonio dinamico vagliato dal Magistero e dalla Chiesa nel suo insieme, e non come “fissità”, non si sarebbero spinti a una rottura disciplinare e a una ribellione verso l’autorità così paradossale e incomprensibile se si guarda alla loro ispirazione. Tutto ciò dimostra come l’opera di Benedetto XVI, fatta di singoli, difficili provvedimenti, certo, ma anche e soprattutto di un ben più vasto e profondo lavoro di nuova educazione, sia quanto mai necessaria, e sia anche il fronte difficile e ingrato nel quale un Papa testimonia a costi molto alti la fedeltà alla propria missione e alla propria coscienza di padre universale. I risultati, forse, non si vedranno subito, perché simili imprese richiedono tempi lunghi e semine pazienti. Inoltre, occorrerà forse avere prudenza operativa, per non inseguire su strade impervie e interminabili chi riceve credito e disponibilità e risponde ponendo condizioni sempre nuove e sempre più esose. Ma l’impegno per una sempre nuova comunione nella Chiesa va in ogni caso sviluppato, assieme a quello decisivo per l’identità dei credenti in Cristo, intesa anche come fattore di dialogo e di partecipazione positiva alle sorti del mondo. Sono queste, a ben vedere, oltre tutte le difficoltà, le esortazioni più accorate dirette ai cattolici dai grandi Papi del nostro tempo.


mondo

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Il presidente del Consiglio dei ribelli incontra il governo e Napolitano: «I raid non bastano più per garantirci un futuro»

Ospedale Italia Il leader libico Jalil a Roma chiede aiuti per affrontare l’emergenza feriti di Pierre Chiartano

ROMA. Si è giocato sul tavolo verde della diplomazia nella capitale italiana – a favore delle telecamere – mentre si contavano ancora morti in Libia. Anche bambini. E oltre al flusso d’immigrati, fra poco ci sarà anche quello dei feriti. Il presidente del Consiglio nazionale di transizione libico, Mustafa Abdul Jalil, ieri è arrivato a Roma. Innanzitutto per garantire continuità e accoglienza a un flusso di feriti sempre più grande, verso le strutture ospedaliere italiane. Ma le trombe della Farnesina hanno cominciato a suonare un’altra musica: dal capo degli insorti, il governo italiano ha ricevuto «l’impegno a proseguire sulla strada della democrazia, della lotta al radicalismo e del contrasto all’immigrazione clan-

to sull’individuazione di «strumenti finanziari trasparenti» da sottoporre agli alleati alla seconda riunione del gruppo internazionale di contatto, prevista a Roma agli inizi del mese prossimo. Forse facendo riferimento alla proposta inglese per la creazione di un fondo a favore di Bengasi. In tema di cooperazione economica, il ministro ha quindi ribadito che «saranno rispettati i trattati internazionali», a cominciare da quello di amicizia italo-libico, «che potrà essere ripreso quando le condizioni di sicurezza sul campo lo consentiranno». Insomma, per la Farnesina è una certezza. Da parte Bengasina invece la certezza è che l’intervento aereo occidentale non basta più. Le disorganizzate formazioni ri-

Sono decine di migliaia i libici colpiti, pare oltre 50mila, che preoccupano il governo ribelle e lo spingono a richiedere il supporto delle strutture sanitarie italiane destina». Dichiarazioni subito rilanciate sulle agenzie, per battere la gran cassa del governo. E recuperare l’immagine di un Italia che, in Libia, si è fatta portare via la sedia dove, da decenni, stava comodamente seduta. Impegno assicurato dallo stesso Jalil, che si è detto pronto a «lavorare insieme per chiudere i nostri confini ai flussi di sfollati africani che vengono sfruttati da Gheddafi per colpire i nostri figli». Per non parlare degli accordi e dei trattati tra l’Italia e la Libia: verranno sicuramente tutti rispettati. Dando per scontato che il signor Jalil rappresenti il futuro della Libia. Sarebbe già qualcosa ottenere assicurazioni sul presente, ma la politica virtuale segue altre logiche.

A Roma si bada al sodo, dicono nel governo. «Stiamo lavorando per individuare strumenti legali internazionali per consentire la vendita di prodotti petroliferi della Cirenaica a produttori, fornitori e acquirenti internazionali», ha in particolare sottolineato il ministro degli Esteri italiano Franco Frattini, ponendo l’accen-

belli andrebbero portate per mano anche sul terreno, e per aria si dovrebbe puntare ad attacchi mirati ai mezzi corazzati di Tripoli, anche nei centri urbani. Servirebbe poter colpire i tank del rais tra bancarelle di frutta, bar, supermercati e scuole.

È stato il responsabile esteri del Cnt, Ali Issawi, a ribadire che i raid Nato «non sono più sufficienti», che «servono alternative e una di queste è fornire armi e mezzi. Auspichiamo a questo proposito un ruolo dell’Italia per trovare una soluzione – ha proseguito Issawi – e fornire quanto serve al nostro popolo per proteggere i civili e ottenere la libertà». Jalil ha avuto nel corso della giornata incontri anche con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e con

il premier Silvio Berlusconi. Sempre secondo Jalil i morti in Libia avrebbero raggiunto la cifra di 10mila. Passando sopra l’attendibilità di cifre e notizie che vengono dal Paese nordafricano, che fin dall’inizio della rivolta, non sono mai state attendibili, è chiaro che dopo un periodo così lungo di combattimenti la popolazione civile stia soffrendo. Specie nella città assediata di Misurata, dove gli obici del rais non hanno mai smesso di martellare insorti e popolazione civile. E sono le decine di migliaia di feriti, sarebbero oltre 50mila, che preoccupano il Cnt e lo spingono a richiedere il supporto delle strutture sanitarie italiane.

Qualche notizia confortante viene proprio dal fronte dei raid aerei alleati. La Nato ha fatto sapere di aver lanciato, la scorsa notte, diversi attacchi contro i centri di comando delle forze del rais, anche nella regione di Tripoli. «La Nato ha condotto raid

multipli contro centri di comando e di controllo del regime», si legge in un comunicato. Tra gli obiettivi presi di mira figurano in particolare «infrastrutture di comunicazione utilizzate per coordinare attacchi contro civili e il quartier generale della 32esima brigata – quella comandata dal figlio di Gheddafi, Khamis – situato 10 chilometri al sud di Tripoli», ha precisato la Nato. Ieri, l’agenzia ufficiale libica Jana ha riferito di incursioni dell’Alleanza Atlantica a Tripoli, Sirte e Aziziyeh, situata 50 chilometri a sud della capitale. «Le città di Tripoli e Sirte sono state presa di mira nelle prime ore di martedì dai raid degli aggressori colonialisti crociati», ha scritto l’agenzia, senza precisare gli obiettivi degli attacchi. Quindi, citando una fonte militare ha riferito anche di incursioni contro il quartiere Al-Hira della città di Aziziyeh. In tarda mattinata, i giornalisti di France presse hanno sentito almeno un aereo sorvolare la capitale libica. Mentre nella «città martire» di Misurata, dove resistono da 50 giorni i ribelli, assediati dall’esercito di Tripoli, la carneficina avrebbe raggiunto proporzioni inaudite. Sarebbero morti anche 20 bambini secondo fonti Onu, e l’emergenza umanitaria non può aspettare, tanto che Tripoli pare d’accordo all’invio di aiuti. L’uscita politica dal


mondo

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L’allarme lanciato dall’ex ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite

Ma sul Medioriente cala l’inverno di Teheran

Mentre il mondo si compiace della primavera araba, l’Iran prepara il riarmo e la presa delle capitali di Siria e Bahrein di John R. Bolton a quando è iniziata la “Primavera araba” – quattro mesi fa in Tunisia – i media degli Stati Uniti si sono concentrati con costanza e generale ottimismo sulle sommosse in corso in Medioriente. Sfortunatamente, però, la crescente minaccia di un “Inverno iraniano” – che sia nucleare o di altro tipo – potrebbe probabilmente rovesciare e oscurare proprio quella primavera. Le ambizioni egemoniche dell’Iran si sono incarnate in un rapido processo di potenziamento dell’arsenale nucleare e in una continua sovversione per tutta la regione. Per fare un esempio che sottolinea la fragilità delle aspiranti democrazie, l’inverno iraniano è già calato sul Libano, dove l’influenza di Teheran ha aiutato il rovesciamento di un governo filo-occidentale e l’intronazione di un governo di coalizione dominato dagli alleati dei mullah, primo fra tutti Hezbollah. La scorsa settimana il primo ministro uscente di Beirut, Saad Hariri, ha condannato il “flagrante intervento” dell’Iran nel suo Paese. In Siria, nonostante una sostanziale opposizione alla dittatura di Assad, è poco probabile che si verifichi un cambiamento di regime. L’Iran non permetterà facilmente al suo semi-satellite di essere sconvolto da una protesta, e sta aiutando il governo del leoncino a fermare le manifestazioni. E poi c’è la Victoria, una nave con tonnellate di armamenti pesanti destinati ad Hamas, sequestrata dalle forze navali di Israele lo scorso mese. Questo episodio riporta alla mente la Karine A, una porta-container zeppa di armi inviata dall’Iran all’Organizzazione per la liberazione della Palestina e intercettata da Tzahal nel 2002. È chiaro che l’Iran è impegnata anche nell’armare i terroristi sanniti e sciiti.

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conflitto nel Paese nordafricano è dunque ancora lontana. La Nato non ha distrutto le forze fedeli al rais, ma almeno ha evitato un vero bagno di sangue. E da oltre Atlantico dove era in visita al segretario alla Difesa, Robert Gates, il suo omologo italiano Ignazio La Russa ha dichiarato, dopo una colazione al Pentagono, che «l’Italia non farà di più in Libia». Niente bombardamenti.

Ma nell’incontro di Roma con il rappresentante del Cnt è emersa anche la grande contraddizione di questa vicenda, dove le manovre dell’Eliseo hanno creato non pochi problemi, all’Italia, agli Usa e chissà come andrà a finire, se la Francia otterrà ciò che voleva: rifarsi un’immagine dopo la Tunisia e riprendere un ruolo attivo nel Sud del Mediterraneo dopo quasi mezzo secolo di Quaresima. Alcune parole di Jalil hanno però sottolineato quanto sia difficile la quadratura del cerchio, anche per il governo provvisorio di Bengasi. La Libia postGheddafi, ha assicurato Jalil sarà legata da rapporti di «cooperazione e amicizia con l’Italia, la Francia e il Qatar in primo luogo». E poi ha fatto una specie di classifica. «Dopo verranno paesi come gli Usa e il Regno Unito – ha concesso l’ex ministro della Giustizia libico – ma ciascuno in base a quanto ha dato oggi».

In alto, alcuni ribelli libici a Bengasi inneggiano alla vittoria contro Gheddafi. A sinistra il ministro Frattini che ieri ha incontrato il leader di ribelli Jalil promettendo sostegno medico oltre che logistico alla «nuova Libia». A destra, Ahmadinejad che sta cercando di sfruttare in tutte le maniere la crisi nel mondo arabo

teste di matrice sciite. Queste monarchie vicine agli Usa, colpite dallo scaricamento comminato da Washington nei confronti di Mubarak, sono preoccupate anche per il ritiro dall’Iraq annunciato da Obama e dalla riduzione del personale in Afghanistan. E non ci sono prove che il presidente abbia una strategia per trattare le continue minacce iraniane nella regione del Golfo, che si estende allo Yemen. Qui l’Iran potrebbe usare le tribù sciite per ottenere maggiore influenza, anche se al Qaeda sta cercando di rafforzarsi nella stessa area.

Dentro l’Iran, oggi sappiamo – grazie alle prove fornite questo mese da un gruppo d’opposizione interno, che sono poi state confermate persino dal regime – che i mullah hanno la capacità di produrre internamente componenti fondamentali delle centrifughe necessarie per arricchire l’uranio e produr-

Gheddafi rinunciò al progetto di armamento nucleare perché temeva di divenire un secondo Saddam: Ahmadinejad vede la nostra debolezza e non ha paura di noi

Il sostegno di Teheran ad Hamas è ancora più importante oggi che è finito il blocco della Striscia di Gaza da parte dell’Egitto. Quel blocco, ancorché spesso poroso, è finito con la caduta di Hosni Mubaraj. Hamas, una sussidiaria dei Fratelli musulmani (che la controllano), è ora libera di trasferire armi e uomini fra Gaza e l’Egitto, creando problemi in entrambi i posti. La vera punta della lancia in Medioriente potrebbe essere il Bahrein, dove si trova la Quinta flotta americana. Non più ricca di petrolio, la piccola monarchia è separata dall’Arabia saudita soltanto da un’autostrada. Le proteste popolari che si sono verificate in Bahrein, una monarchia sannita che domina una popolazione al 70 per cento sciita, pone il più complicato conflitto fra i principi statunitensi e gli interessi strategici. L’Iran accoglierebbe con gioia una “libera” elezione in quella monarchia, che porterebbe al potere con ogni probabilità una fazione a lei favorevole. Le truppe dai vicini Stati arabi, guidate dai sauditi, hanno assistito la monarchia nel sopprimere le pro-

re armi atomiche. Queste nuove notizie provano una volta di più l’inefficienza delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu e delle sanzioni contro un avversario. Quindi, mentre il programma di armamento atomico dell’Iran procede, il messaggio che passa al resto del mondo è che la persistenza paga. Muammar Gheddafi ha rinunciato al proprio programma nucleare, nel 2003, soltanto perché aveva paura di divenire il prossimo Saddam Hussein: oggi ha perso molta della propria timidezza. Un Iran con le armi atomiche provocherà una corsa al nucleare anche in Arabia Saudita, Egitto, Turchia e forse anche altri Stati dell’area. Vedremo inoltre una regione sempre più spostata sotto l’influenza di Teheran e meno incline ad ascoltare Washington e l’Occidente. Inoltre, l’incapacità americana di fermare i piani nucleari dell’Iran (perché è questo che il mondo pensa) darà un nuovo colpo all’influenza degli States nel mondo. I terroristi e gli Stati che li sostengono saranno pronti a riconoscere in Teheran il re della festa e il banchiere centrale cui attingere. La primavera araba è affascinante e potrebbe durare.Tristemente, però, le minacce egemoniche dell’Iran sembrano molto più sostanziali.


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grandangolo Uno dei fedelissimi di Vladimir costretto a dimettersi per conflitto d’interessi

2012 odissea al Cremlino: sarà sfida vera tra Putin e Medvedev? Prime crepe nel tandem formato dal presidente russo e dal primo ministro, che potrebbero correre l’uno contro l’altro alle prossime elezioni presidenziali. Terreno di scontro, il sistema di potere capillare fatto di uomini influenti che occupano posti-chiave nelle imprese e nell’amministrazione pubblica: i «siloviki» di Enrico Singer

embrava che tutto fosse già combinato. Che anche le presidenziali del 2012 fossero destinate a rivelarsi una di quelle elezioni alla russa che consentono di scommettere soltanto sulla percentuale che otterrà il vincitore, ma non sul suo nome perché quello è già deciso in partenza. E il nome era uno solo: Vladimir Vladimirovich Putin. Un trionfo annunciato: il ritorno del vero uomo forte della Russia sulla poltrona più importante del Cremlino ceduta nel 2008 all’allora fedelissimo Dmitrij Medvedev con il patto di ferro di rimettere le cose a posto alla prima occasione possibile. Dopo due mandati consecutivi, ottenuti nel 2000 e nel 2004, Putin era stato costretto dalla Costituzione da lui stesso riformata a passare un turno accontentandosi dell’incarico di primo ministro in attesa di riprendere – anche formalmente – il bastone del comando da Presidente senza più bisogno di giocare in tandem con Medvedev. Al quale, magari, sarebbe andato in premio il posto di capo del governo chiudendo, così, la staffetta. Ma, da qualche giorno, in questo schema sin troppo perfetto si sono aperte delle crepe. Non si tratta più delle divergenze di linea tra il moderato Medvedev e il duro Putin – l’ultima sull’intevento della Nato in Libia – che per tre anni hanno regolarmente punteggiato il loro rapporto in una specie di gioco delle parti che serviva a tutti e due. Questa volta lo scontro si è acceso sull’unico terreno che conta davvero: il controllo del potere reale e degli uomini

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che lo amministrano. I russi li chiamano i siloviki, una parola che deriva da silovye strukturi, strutture di forza: un termine in uso normale nei servizi segreti e nelle forze armate sin dai tempi dell’Urss che Putin ha travasato in tutti i gangli della vita sociale. Sono loro che hanno in pugno le istituzioni e gli affari. Sono loro che possono decidere – anche a costo di interventi poco ortodossi – chi uscirà vittorioso

È di Igor Sechin, capo della maggiore compagnia petrolifera russa, la prima testa a cadere dalle prossime elezioni presidenziali. E Medvedev ha avuto addirittura il coraggio di andare all’attacco del più potente dei siloviki: Igor Sechin, vice primo ministro, presidente di Rosneft, la maggiore compagnia petrolifera russa, ed eminenza grigia di tutta l’era Putin.

Per attaccare Sechin, Medvedev ha importato in Russia il conflitto d’interessi. In un discorso in televisione ha detto che gli

incarichi di governo sono incompatibili con quelli ai vertici delle maggiori società statali o private. Era il 31 marzo. Il guanto di sfida era lanciato. Il ricambio dei funzionari statali con manager indipendenti è stato inquadrato in un decalogo per modernizzare l’economia e migliorare lo stato delle imprese pubbliche che Dmitrij Medvedev ha definito «pessimo». Il presidente aveva dato come scadenza massima il mese di luglio per attuare il turnover, ma Sechin non ha aspettato nemmeno due settimane e si è dimesso tre giorni fa dalla guida di Rosneft, ufficialmente per «dare il buon esempio». Probabilmente per non esasperare il conflitto al vertice e per limitarne i danni politici. Ma, al di là delle interpretazioni, il fatto resta: l’attacco ai siloviki è il primo, concreto atto di una possibile battaglia per il Cremlino. Dopo tante voci e smentite sulle divergenze nel tandem che guida il Paese, è il segnale che tra un anno – la data delle presidenziali non è ancora fissata, ma quelle del 2008 si svolsero in maggio – Putin e Medvedev potrebbero gareggiare l’uno contro l’altro. O, almeno, è la prova che Medvedev ha finalmente deciso di testare le sue chanches perché una cosa è sicura: lo scontro diretto ci sarà soltanto se l’attuale Presidente si sarà convinto di avere qualche possibilità di successo. Altrimenti gli converrà accettare un nuovo patto con Putin a ruoli invertiti, o uscire del tutto dal Cremlino coltivando il suo profilo di tecnocrate moderato e

più aperto verso l’Occidente in attesa che venga il suo momento. Quello che Medvedev sa molto bene è che in Russia per vincere le elezioni non basta avere i sondaggi d’opinione a favore. I suoi, da qualche tempo, stanno rosicchiando la popolarità di Putin, ma fino a che la rete dei siloviki sarà fedele all’uomo che l’ha creata, sarà sempre in grado di influenzare il risultato finale delle elezioni. E lo stesso vale per il partito Edinaja Rossija, Russia Unita, di cui fanno parte sia Putin – che ne è presidente – sia Medvedev. Quello che dirà il partito, che ha il 64 per cento dei voti e 314


e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

seo, al Cremilino. E potrebbe anche essere un anno di grandi cambiamenti. Mai dire mai, sembra pensare Medvedev. Del resto, lo stesso Putin ha ammesso per la prima volta questa possibilità quando ha dichiarato, non più di una settimana fa, che né lui, né Medvedev «escludono» di candidarsi: «Prenderemo la nostra decisione basandoci sulla situazione sociale, economica e politica nel Paese, ma questa decisione prima o poi dovrà essere presa», ha detto Putin replicando a Medvedev che, a sua volta, non aveva escluso di ricandidarsi con una frase altrettanto diplomatica: «Nessuno può prevedere il futuro, ma posso dirvi che come Presidente in carica ci sto pensando perché è mio dovere farlo». Parole prudenti che rispecchiano anche l’incertezza degli ultimi sondaggi che circolano a Mosca: circa il 27 per cento dei russi vorrebbe di nuovo Putin al Cremlino, il 18 per cento Medvedev, il 25 per cento nessuno dei due.

deputati su 450, sarà molto importante e il partito, per bocca del segretario Boris Gryzlov, ha già fatto sapere che «seguirà le indicazioni di Putin».

Più del partito, però, contano i siloviki. Non si capisce la vera struttura del potere in Russia ragionando con le nostre categorie della politica. E nemmeno con quelle sovietiche, quando era il partito, il Pcus, a controllare tutto. Prima Eltsin e poi, soprattutto, Putin hanno formalmente diviso Stato e partito, ma hanno creato all’interno dello Stato una rete di alti funzionari che rispondono direttamente al loro capo supremo e, al tempo stesso, ne costituiscono i principali sostegni. Qualcosa a metà strada tra i boiardi della corte degli zar e i membri del politbjuro comunista. La rete dei siloviki è il gruppo di potere più forte all’interno del Cremlino e nel Paese. Putin se ne è servito anche nella resa dei conti con gli oligarchi: gli esponenti del neonato potere economico che cercavano di pesare nella vita politica della Russia e che sono stati letteralmente sostituiti dai siloviki che, in questo modo, hanno assunto il controllo anche di enormi fortune in una vera e propria redistribuzione di ricchezza e di assets statali. È in questa fase che Igor Sechin, collaboratore e amico di Putin sin dagli anni Novanta a San Pietroburgo (allora si chiamava ancora Leningrado), diventa presidente della Rosneft sommando questa carica a quella politica di capo dell’amministrazione presidenziale. Ma tra i soliviki non c’è soltanto Sechin. Nel consiglio di amministrazione della Almaz-Antei, maggior produttore di missili, entraViktor Ivanov, un altro dei principali consiglieri di Putin. La guida delle Ferrovie russe va a Vladimir Yakunin, già ufficiale del Kgb distaccato alle Nazioni Unite, a NewYork, tra il 1985 e il 1991. E Serghei Chemezov, che nel Kgb con Putin era stato a Dresda fra il 1985 e il 1990, sbarca prima alla testa di Rosoboronexport (gruppo che si occupa della vendita di armamenti) e poi, dal 2007, alla Rtsc, la corporazione delle società tecnologiche russe che comprende le maggiori aziende del comparto dell’industria militare. Posti-chiave nelle imprese e posti-chiave nell’amministrazione pubblica. Tutti siloviki, provenienti dalle forze armate o dai servizi di sicurezza, sono i responsabili dei sette distretti federali in cui Putin ha diviso, come suo primo atto da presidente nel 2000, la Federazio-

ne russa che, a sua volta, è composta da 21 Repubbliche con diversi gradi di autonomia politica.

Della rete dei siloviki, naturalmente, fanno parte anche i comandanti delle sette regioni militari che, non a caso, coincidono con i sette distretti creati da Putin il che consente al Cremlino un doppio controllo sul territorio. E lo stesso vale per i governatori delle 21 Repubbliche che, in base a un’altra riforma di Putin, possono essere rimossi direttamente da Mosca nel caso di «disobbedienza alle leggi federali». È evidente che tutto questo intreccio di poteri costituisce un’arma fortissima per controllare anche lo svolgimento delle consultazioni elettorali ed, eventualmente, per influenzarlo. Ecco perché l’attacco mosso da Dmitrij Medvedev a Igor Sechin non è soltanto un affronto perso-

Gli ultimi sondaggi dicono che circa il 27 per cento dei russi vorrebbe di nuovo Putin, il 18 per cento Medvedev nale a Putin di cui Sechin è vicepremier e grande amico, ma è il primo colpo assestato alla rete dei siloviki in vista delle presidenziali.

Medvedev non s’illude di demolire entro il prossimo luglio la spina dorsale del potere che comanda in Russia. Il suo, però, è un avvertimento. Il modo per dimostrare che dispone di una sua forza autonoma e, molto probabilmente, anche di suoi uomini all’interno della rete che è ancora saldamente controllata da Vladimir Putin, ma che potrebbe anche cambiare cavallo. Così come il partito Russia Unita, nel 2008, indicò Medvedev suo candidato alle presidenziali. Certo, allora con la benedizione di Putin che non poteva concorrere per un terzo mandato consecutivo. Questa volta sarebbe uno strappo totale. Ma il 2012 sarà un anno di elezioni presidenziali: dalla Casa Bianca, all’Eli-

Prudenza nelle parole, colpi bassi nei fatti, come dimostra l’attacco ai siloviki. E come dimostra anche quello che tutti gli osservatori hanno già definito il «programma fantasma» di Medvedev. Si tratta del rapporto, preparato da un think tank vicino al Cremlino, che attacca su tutta la linea la politica di Putin come premier. Autore del documento è l’Istituto per lo sviluppo contemporaneo, il cui direttore, Igor Yurgens, medvedeviano convinto, ha subito messo in chiaro che lo studio non è stato commissionato da Dmitrij Medvedev, ma che «spera potrà essergli di aiuto per ottenere un secondo mandato». In 120“passi”il rapporto individua in un «reset dei valori democratici»: la ricetta per evitare in Russia un collasso economico e la disintegrazione dello Stato. Intitolato “Alla scoperta del futuro. Strategia 2012”, il rapporto prospetta riforme economiche, sociali e delle infrastrutture nel quadro della spinta modernizzatrice più volte reclamata dall’attuale Presidente. Il documento critica il controllo statale su magistratura e mass media, chiede seggi uninominali per le elezioni parlamentari, il ripristino delle elezioni per i governatori regionali abolite da Putin dopo l’attentato di Beslan e propone di ridurre la presenza statale nell’economia, altro punto forte del putinismo. In pratica è la base ideologica della lotta al sistema dei siloviki e invita anche a facilitare le regole per gli investitori stranieri, altro cavallo di battaglia di Medvedev e del ministro delle Finanze, Alexei Kudrin, che è lo stesso che aveva invano proposto, all’interno del partito Russia Unita, di organizzare delle primarie per scegliere il prossimo candidato alla presidenza. Il clima, insomma, si sta scaldando. E il Wall Street Journal ha notato, appena la scorsa settimana, che nel primo trimestre di quest’anno c’è stata una fuga di capitali dalla Russia pari a 21 miliardi di dollari, una cifra che suggerisce qualche «incertezza molto reale da parte di coloro che hanno accumulato ricchezze sotto l’attuale regime», ha scritto il giornale. Secondo il Wall Street Journal, Medvedev rappresenta una figura cardine nell’evoluzione della classe politica russa: è un contrappeso più liberale rispetto al blocco di potere nazional-conservatore rappresentato da Putin. «Ma perché le sue idee prendano forza ha bisogno di credibilità. Una credibilità che può guadagnare soltanto smarcandosi sempre più da Putin». Probabilmente è proprio quello che Dmitrij Medvedev ha cominciato concretamente a fare in questi ultimi giorni. Ma la decisione finale sulla sfida per rimanere al Cremlino da Presidente, non l’ha ancora presa.

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società

La sfida dei giovani cristiani: un lungo cammino verso il domani, sulla strada dei valori tramandati da uomini del passato

La riconquista del futuro di Gianpiero Zinzi e Francesco Nicotri

on Tonino Bello, rivolgeva uno dei suoi ultimi messaggi pasquali a tutti coloro che «non hanno il coraggio di cambiare. Che non sanno staccarsi dal modulo. I prigionieri dello schema. I nostalgici del passato. I cultori della ripetizione. I refrattari al fascino della novità. I professionisti dello status quo». Nel constatare che non esiste scetticismo che possa attenuare l’esplosione dell’annuncio pasquale, per cui «le cose vecchie sono passate: ecco ne sono nate di nuove», esortava tutti a ri-trovare il coraggio di cambiare.

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Come giovani cristiani, abbiamo inteso vivere questo tempo di Quaresima, di fronte al degrado etico, sociale, economico, istituzionale e politico di cui sembra ormai prigioniero il Paese, nella logica dell’interpretazione degli “azzimi” data da San Paolo, ovvero eliminare ciò che è vecchio per far spazio al nuovo. Ma non ci può essere nuovo, senza l’assunzione di scelte e cammini (di pensiero e di azione) originali e controcorrente. Il nuovo, come soleva dire don Primo Mazzolari, è «strada che si fa perché qualcuno si è messo a camminare con animo di pioniere». La ri-conquista del futuro è per noi, oggi, una declinazione concreta (e, soprattutto, collettiva) della ricerca personale del nuovo e del credere inquieto, ancora più intimo, che come cristiani siamo chiamati a sperimentare. Abbiamo rifiutato le strade già (ampiamente) battute delle vuote declamazioni dei principi, per percorrere, invece, il più difficile (e meno garantito) cammino del vivere i valori. Alla ricerca di valori comuni, capaci di ridefinire le modalità di una convivenza (sociale, economica e politica) sempre più fragile, vogliamo misurare la nostra capacità di pre-visione del futuro nella lettura (in filigrana, si sarebbe detto in altri tempi) del presente. Questa sfida – in primo luogo politica, perché la politica è sempre, usando un’espressione di Moro, dominio degli eventi – non si vuole viverla da soli, ma bensì nell’orizzonte della costruzione di una comunità più ampia, in cui possa sperimentarsi il dono della propria parola e il controdono dell’ascolto. Nel ri-cercare e definire una identità culturale, sociale e po-

Qui sopra, un’immagine di Giovanni Paolo II, la cui beatificazione avverrà a Roma il prossimo primo maggio. A fianco, uno scatto del leader della Democrazia cristiana, Aldo Moro litica, ci interroghiamo se e come sia possibile se non realizzare, almeno pensare, un nuovo spazio pubblico, in cui riprendere la parola e ri-trovare significati nuovi a parole, troppo ingenerosamente, andate fuori corso. Questo desiderio di “segnare” la presente fase storica è «un sentire l’Italia, volerla più unita e migliore» – come ci ha ammonito il Presidente Giorgio Napolitano – che intendiamo approfondire intrecciando le molteplici esperienze (giovanili) di presenza e di azione cristiana, in forma associata, presenti (e attive) nel nostro Paese.

In questa voglia di futuro consideriamo l’indignazione un sentimento di reazione necessaria, ma non sufficiente, per affrontare tempi così “declinanti” verso il basso. Occorre ri-partire – almeno, noi crediamo - da quella “terza fase” aperta, nel 1975, da Aldo Moro, ossia sviluppare nuove relazioni tanto tra sistema politico e società quanto tra gli stessi attori. È il momento, insomma, della scoperta (o ri-scoperta) di valori, linguaggi, regole e territori, senza dimenticarsi delle cosiddette questioni di metodo. Focalizzando l’attenzione su

tre grandi sfide per il futuro lavoro ed equità intergenerazionale; sviluppo sostenibile e salvaguardia dell’ambiente; cittadinanza e integrazione sociale e culturale – in cui il nesso tra le generazioni resta la chiave di volta, e il Magistero sociale della Chiesa l’orizzonte di riferimento, intendiamo aprire un dibattito, tra i nostri coetanei, per disegnare l’Italia del domani, coltivando l’obiettivo della condivisione di un’“agen-

Bisogna quanto prima risvegliare i principi comuni, capaci di ridefinire le modalità di una convivenza sociale, economica e politica ormai sempre più fragile da di speranza per il futuro del Paese”, che abbia ricchezza di valori e profondità di sguardo verso il futuro. Muovendo dalle situazioni che concretamente viviamo, dai problemi che ci premono, l’obiettivo strategico è quello della riappropriazione di un futuro che sia sempre meno una somma di io e più un “noi”. È un’avventura che non possiamo permetterci di conti-

nuare a vivere in solitudine, senza connettere (quanto meno provarci) i tanti amici che si impegnano quotidianamente al servizio degli altri, pur su terreni differenti dalla politica, accumunati però da una medesima tensione spirituale. Nella creazione di relazioni e legami – ma soprattutto nella costruzione di momenti comuni e luoghi aperti di riflessione in cui sia possibile educarsi alla complessità - questo nostro cammino potrà offrire, probabilmente, una dimensione di impegno anche per tutti quei giovani lontani dalla politica perché reputata una cosa sporca. Da ultimo, punteremo a coinvolgere, nella prospettiva intergenerazionale già evidenziata, quelle personalità e istituzioni (associazioni, centri, fondazioni) culturali che, con generosità, accetteranno di mettersi in gioco rispetto a questa nostra sfida.

A poche settimane dalla Beatificazione del Servo di Dio Giovani Paolo II raccomandiamo e affidiamo, nelle sue mani, questo nostro piccolo seme di speranza, affinché le più giovani generazioni «non perdano mai la speranza nel futuro! Ricordino che il futuro è anche assegnato all’uomo come compito».


cultura n questa primavera referendaria - che oltre ai germogli dei fiori cova in sé le subdole contaminazioni del nucleare - in un clima brinato dal malumore di un Paese alla deriva svillaneggiato dall’arroganza di chi invece di prendersene cura e assicurarne la coesione ci mette alla berlina sulla scena del mondo, incapaci di reagire e unirci nel segno di un passato glorioso, cogliamo i frutti del dilagante malcostume. Nulla è più come dovrebbe, le calamità naturali si succedono sempre più ravvicinate a squassare un pianeta troppo sfruttato, teatro di guerre sanguinarie; il fanatismo religioso genera mostri intolleranti; e ancora ci dibattiamo con il peggiore dei mali: la fame nel mondo. Nel nostro piccolo poi ciò che fino a ieri pareva ovvio è oggi messo in discussione, persino il diritto di tutti all’acqua, all’istruzione, alla cultura - i cui fondi negli ultimi dodici mesi sono stati in varie fasi decurtati per essere successivamente parzialmente rabboccati -. Diego Rivera, il muralista messicano sposo di Frida Kahlo e amico di Picasso, sosteneva che «l’arte è come il prosciutto: nutre la gente». Come dargli torto?

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vo del conflitto tra libertà e necessità. Amleto rifiuta la logica dell’azione, «dell’entrare in politica» per riflettere sul significato esistenziale del non essere. «È William Shakespeare che ci ha resi suoi contemporanei illazionandoci tali...», aggiungerà Giuseppe Manfridi, autore, attore, regista di fama internazionale nel suo successivo intervento.

I

Franco Ricordi, classe 1958,

Al Teatro Argentina di Roma, un prezioso ciclo di incontri curati da Franco Ricordi

È arrivata la primavera (della cultura)

regista, attore, direttore artistico di teatro, filosofo e saggista non è restato a guardare e sotto l’egida del Teatro Stabile d Roma Capitale, ha messo a segno una contromossa tesa a reagire alla barbarie degli ultimi mesi: parafrasando il celeberrimo «essere o non essere» del Principe di Danimarca in «fare o non fare», e stilizzandolo in tre di Enrica Rosso incontri a tema riuniti a tracciare una benaugurante “Primavezionale si fa pressante la riflessione sul di sortire una stratera dei Teatri”. Il primo argomento su cui confrontarsi, rapporto tra Politica e Cultura: «Non è la gia fruttifera adeguanell’ambito del primo incontro avvenuto Cultura ad aver bisogno della Politica, ta alla realtà del Pael’8 aprile scorso negli spazi del Teatro ma è la Politica ad aver bisogno della se. Argentina, è stato la politica culturale Cultura in un’Italia ferma al talk show te- Su tutto impera la del nostro Paese. Prendendo spunto da levisivo», sviluppando «un’ideologia del grande truffa medialinguaggio da contrap- tica in cui il mezzo teIdeologia di Amleto, porre all’ideologia del levisivo viene utilizpensiero moderato e silenzio» da cui ripartire zato come piattaforrivoluzione culturale per sbloccare una situa- ma di lancio per pro(Franco Ricordi, ediduzioni commerciali zione degenerata. zioni liberal, 300 palontane anni luce da gine, 13 euro), l’autoDa una parte la Sini- qualsivoglia libera re ha introdotto la necessità di svincostra Storica che rivendi- espressione artistica. lare la Cultura e le ca la sua influenza sulle Si auspica quindi che Arti dal giogo della Arti e la Cultura - sep- un ragionare nuovo pure ad oggi non abbia prenda le mosse propolitica. Soffermandosi in particolare sul Teatro, che racchiude in sé il principio di tutte le arti e che vive un momento di grande sofferenza e conflittualità più quell’impatto che su prio dal Teatro, in quanto luogo per eccelcon uno Stato sordo di esse ebbe nel secolo lenza di espressione dell’uomo partendo alle sue urgenze e scorso, peraltro storica- dalla definizione Aristotelica. che, contrariamente Qui sopra, il libro mente rintracciabile nel al resto dell’Europa, di Franco Ricordi “Ideologia suo cammino dal dopo- Se l’“Orestea” di Eschilo ha rappresembra non coglierdi Amleto, pensiero moderato guerra ad oggi -, dall’al- sentato la nascita della democrazia teane la necessità. e rivoluzione culturale”. tra una Nuova Destra, trale, il Principe Amleto viene assunto Ed ecco allora che A destra, uno scatto del Teatro più sensibile al tema, come epicentro della cultura europea rappresentando qui Argentina di Roma. In alto, ma non ancora in grado del XXI secolo in quanto rappresentatiun Teatro Stabile Naun disegno di Michelangelo Pace

M entre il cr itic o teatrale Marco Antonio Lucidi, citando Il tradimento dei chierici di Julien Benda, che nella Francia post Richelieu sosteneva che la posizione degli intellettuali non dovesse basarsi su: “«Valori statici, disinteressati, razionali» bensì prendere posizione rispetto alla realtà sottolinea che: «Il teatro non è letteratura in movimento, ma filosofia in azione». Il prossimo incontro avrà luogo oggi, mercoledì 20 aprile, alle ore 17.00; tre i relatori: il professore di storia del Teatro Edo Bellingeri, il critico teatrale Tiberia de Matteis e il filosofo Marcello Veneziani, chiamati ad argomentare su «Roma Theatrum Mundi, il Teatro Stabile a 150 anni dalla designazione di Roma Capitale». Due i nuclei dell’incontro: prima di tutto focalizzare la centralità di Roma in quanto Capitale del Teatro di tutti i tempi; a seguire l’indagine sarà tesa all’individuazione di possibili strategie atte a sfruttare al meglio le possibilità che sicuramente matureranno in previsione delle Olimpiadi di Roma del 2020. L’ultimo appuntamento è per mercoledì 11 maggio, sempre alle ore 17.00, ancora una volta ospitato al Teatro Argenti-

Il regista, filosofo e saggista spiega la necessità di svincolare forme artistiche dal mero giogo della politica. Soffermandosi in particolare sul teatro, che racchiude in sé il principio di tutte le arti

na, saranno Giuseppe Bevilacqua, Paolo Mauri, Walter Pedullà a discettare sul tema «Verso un nuovo Teatro Politico, la relazione tra Drammaturgia e Potere nell’epoca della televisione». E speriamo che da lassù Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, Papa illuminato, Santo, uomo di cultura e amante del teatro, che tanto ha fatto durante il suo passaggio terreno, apprezzi e ancora una volta ci benedica e ci protegga.


ULTIMAPAGINA Le riforme decise ieri dal Comitato centrale comunista de L’Havana ricalcano la svolta cinese del 1979

L’urlo di Deng terrorizza di Vincenzo Faccioli Pintozzi urlo di Deng (Xiaoping) risveglia anche Cuba. A cinquantadue anni dalla cacciata di Batista e la successiva proclamazione della Repubblica, Fidel Castro e suo fratello Raúl compiono il passo compiuto dal secondo presidente cinese nel 1978 e “aprono” il mercato interno al capitalismo e alla proprietà privata. Certo, con tutti i limiti del caso; non ultimo, il fatto che l’intera Cuba è grande come Pechino. Ma l’importante è il gesto, che dimostra la necessità di riformare un’economia al collasso ma seppellisce anche quanti ancora sostenevano che l’economia statale possa essere un modello di sviluppo. Innanzi tutto, i fatti: il Congresso del Partito comunista cubano ha approvato ieri le riforme economiche proposte dal presidente Raúl Castro. Nel testo con cui il Congresso ufficializza la svolta si legge: «La politica economica del Partito seguirà il principio che solo il sociali-

L’

Lanciate per frenare il crollo dell’economia cinese, le aperture hanno dato il via alla ripresa della Cina. Ma tutta Cuba è grande come Pechino smo può vincere le difficoltà e preservare le conquiste della rivoluzione e che nell’aggiornamento del modello economico predominerà la pianificazione, la quale terrà conto delle tendenze di mercato. Oltre alla società statale socialista, che «resterà la forma principale nell’economia nazionale», Cuba riconoscerà «investimenti stranieri, cooperative, piccoli contadini, usufruttuari, e i lavoratori autonomi».

Le riforme prevedono inoltre il taglio di lavoratori statali, l’eliminazione graduale del libretto di razionamento e l’ampliamento dell’iniziativa privata. Finora 130mila contadini hanno ricevuto appezzamenti di terra e sono state concesse 171mila licenze per l’apertura di piccole imprese. Entro il 2015 il governo prevede che 1,8 milioni di cubani saranno impegnati nel settore privato. Il Congresso ha anche eletto il nuovo comitato centrale del partito, di cui Raúl Castro, 79 anni, potrebbe essere nominato oggi primo segretario al posto del fratello Fidel. Infatti Fidel Castro si è dimesso dall’incarico di segretario del Partito comunista di Cuba. La decisione, attesa da quando nel 2006 cedette la guida del governo a Raul a causa di una grave malattia, è stata annunciata dallo stes-

CUBA so líder maximo in un intervento sul sito Cubadebate.cu. « Raúl sapeva che non avrei accettato un ruolo formale; mi ha sempre chiamato Primo segretario e Comandante in capo, funzioni che delegai quando mi ammalai gravemente. Non ho mai cercato di esercitarle, neanche quando recuperai le capacità di analizzare e scrivere. Credo di aver ricevuto sufficienti onori. Mai ho pensato di vivere così tanti anni; i nemici hanno fatto il possibile per impedirlo, hanno cercato di eliminarmi innumerevoli volte e spesso ho “collaborato”con loro». Il paragone con la Cina non è peregrino. Pur non avendo mai avuto enormi contatti – troppo diverso il maoismo dallo statalismo targato Castro – il Partito comunista cubano ha compiuto una parabola simile a quello cinese. Considerando soltanto gli aspetti economici e politici, infatti, si può dire che nei primi anni il Partito cinese si guaFidel Castro dagna la stima incontra Hu della popolaJintao. zione: niente In alto Deng corruzione o Xiaoping divisioni come e, sopra, ai tempi di marce pro-Castro

Chiang Kai-shek; inflazione bassissima; industria pesante ricostruita (su modello sovietico); agricoltura in abbondante produzione. Ma la caparbietà di Mao e la sua incompetenza economica portano al Grande Balzo in avanti (1958-1961) che causa la morte per fame di circa 50 milioni di persone. Le storie della gente parlano di contadini disperati nella ricerca di cibo; di gente che muore ai lati delle strade; di affamati che si cibano delle carni dei cadaveri.

Per frenare le critiche del partito contro di lui (che gli vogliono togliere il potere), Mao lancia nel ’66 la Rivoluzione culturale. Questa, che viene ancora oggi ricordata come il periodo del “grande caos”, divide la società, distrugge famiglie, uccide milioni di persone; Guardie rosse e esercito; genitori e figli. Le aperture di Deng Xiaoping, alla fine degli anni ’70, considerate l’idea brillante del “riformatore”, sono state in realtà una necessità. Per salvare la Cina dalla fame e rialzare le sorti di un’economia distrutta, Deng ha aperto il Paese agli investimenti stranieri e ha cominciato quelle riforme economiche che hanno portato la Cina agli splendori attuali. Il problema con Deng è che le sue modernizzazioni (dell’esercito, della scienza, dell’agricoltura e dell’industria) mancano di una quinta: la democrazia. A causa di ciò, il Paese gode attualmente di uno status invidiabile dal punto di vista economico (in generale), ma continua ad essere un paria dal punto di vista dei diritti umani. Ancora dopo 30 anni dalle sue riforme, il Paese infatti non gode di libertà di stampa, di associazione, di parola, di religione; i poteri esecutivo, giudiziario, legislativo sono tutti sotto il controllo del Pcc. Stessa parabola per l’Havana, dicevamo, che può salvarsi dal crollo che minaccia anche Pechino soltanto aprendosi al mondo. Non bastano i diritti di proprietà privata: sono necessari i diritti umani.


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