he di cronac
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Questa è la regola negli affari: «Fatela agli altri, perché loro la farebbero a voi» Charles Dickens
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 21 APRILE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Presentato con il leader Udc e Rutelli il “Contropiano” economico al documento della maggioranza
Famiglie, Imprese, Giovani Il Terzo Polo al governo: «L’Italia deve tornare a crescere. Ecco come» Un progetto con otto riforme di svolta. Il piano di Tremonti è totalmente privo di misure concrete per lo sviluppo del Paese. Casini: «L’esecutivo ci sta spingendo verso la recessione» CONTI E STABILITÀ
di Riccardo Paradisi
Ora l’Europa ci obbliga a dire la verità
ROMA. Il Terzo Polo lancia il suo contro piano per salvare l’Italia dal’immobilismo del governo. L’occasione è dato dalla nuova disciplina europea che impone vincoli rigidi in materia di bilancio, pur senza prevederte specifiche misure per la crescita. E infatti il governo, se da un lato, tiene i conti sotto controllo, dall’altro di fatto ignora la necessità di un rilancio. Ed è proprio sulla crescita che puntano, invece, i moderati.
di Gianfranco Polillo
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a pagina 2
Il testo del documento
a prima impressione che si ha, nel leggere i ponderosi documenti elaborati dal Ministero dell’economia è che l’Europa, su impulso della Commissione, almeno un risultato l’abbia ottenuto: negli anni precedenti era cattiva prassi di tutti i governi enfatizzare le previsioni sul possibile tasso di crescita dell’economia. Perché è importante indicare un tasso di crescita realistico e non fantasioso, come quello riportato negli anni precedenti? Perché su di esso si costruiscono i quadri di finanza pubblica. S’imposta, in altri termini, la manovra. Non solo quella relativa all’anno corrente, ma ai successivi. Invece avveniva che per l’anno di riferimento si andava con il bisturi, per i successivi si usava l’accetta. a pagina 5
Parla Linda Lanzillotta
Le proposte «Silvio e Bossi per dare futuro hanno ingessato all’Italia in crisi il superministro» Dal fisco alla ricerca, «Per non scatenare dalla lotta alla povertà le ire delle due anime fino al rilancio reale della maggioranza, delle infrastrutture resta tutto fermo» Errico Novi • pagina 2
a pagina 4
Ripa di Meana: «Hanno messo una pietra tombale sull’atomo»
Proposta una modifica della Carta contro il Colle
Berlusconi, quattro mosse di paura Processo Mediaset, legge elettorale, insulti ai moderati, rettifica della Costituzione: il Pdl ormai si sente accerchiato e “spara” contro tutto e tutti Marco Palombi • pagina 7
Le vere ragioni della scelta
Ha pesato Milano non Fukushima
Stop nucleare, sì del Senato Romani: «Tutto rinviato a dopo le verifiche Ue»
di Francesco D’Onofrio a complessa e tormentata vicenda della centrale di Fukuyama aveva prodotto in un primo tempo una vasta reazione di paura per l’uso del nucleare a fini energetici e, in un secondo tempo, un più vasto ripensamento complessivo sulla utilizzazione del nucleare per una compiuta definizione di politica energetica in generale. L’Italia viveva una stagione complessa rispetto al nucleare perché fin dal referendum del 1987 si era adottata una soluzione “pilatesca”. a pagina 11
L
di Pierre Chiartano
ROMA. Il freno a mano tirato dal governo potrebbe essere la pietra tombale sulle ambizioni atomiche dell’Italia. Ne è convinto Carlo Ripa di Meana, ecologista ante litteram e fine conoscitore della psicologia italica, che ha spiegato a liberal come le illusioni ambientaliste sulle rinnovabili non ci aiuteranno, sul breve, ad avere una bolletta energetica meno salata. Finita la pausa di riflessioni sull’onda dello tsunami, il ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani, ha dato lo stop alle centrali nucleari in Italia, scatenando le polemiche sul referendum di giugno, dove gli italiani dovevano decidere, tra altri quesiti, sul destino dell’atomo. a pagina 10 seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
77 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’intervista
prima pagina
Lanzillotta: alle liberalizzazioni ci pensiamo noi
pagina 2 • 21 aprile 2011
«Il superministro immobile tra Silvio e Bossi» di Errico Novi
ROMA. C’è una ragione, c’è una logica che può spiegare la scelta della paralisi. La suggerisce Linda Lanzillotta, che dell’assemblea dei parlamentari del terzo polo è uno dei coordinatori. «Il ministro Tremonti deve barcamenarsi tra Berlusconi e la Lega, in un gioco che lo obbliga di fatto a non spostare nulla. E il gioco è il seguente: da una parte lui non ha realizzato la riforma fiscale invocata dal capo del governo, molto irritato per questo; dunque il responsabile dell’Economia, già “in debito” con Palazzo Chigi, non potrebbe assolutamente permettersi di scatenare anche il rancore dei titolari di quelle rendite di posizione che tengono bloccata l’economia; dall’altra Tremonti è ormai il ministro della Lega, e la Lega si è trasformata da forza di cambiamento in partito della conservazione, perché ha occupato posti di potere nelle società di servizi, nelle agenzie, controlla la spesa e blocca così quelle risorse utili per incoraggiare la ripresa». Ecco, se è questa la dinamica dei vettori a somma zero che paralizza il governo, pare impossibile che l’attuale maggioranza sterzi e si riconvera a politiche sviluppiste. La Lanzillotta infatti dà per scontato che un’iniziativa liberalizzatrice possa essere assunta solo dal terzo polo: «E infatti noi proponiamo due cose: da una parte una spending review che incida sui costi sostenuti soprattutto nella sanità, per beni e servizi, e allo stesso tempo su un ridimensionamento di un apparato burocratico ormai multilivello, tra centro e periferie; dall’altra parte abbiamo deciso di chiedere l’iscrizione all’ordine del giorno della Camera di un provvedimento sulle liberalizzazioni. Questa iniziativa», spiega ancora la deputata del terzo polo, «consiste nel recuperare quella legge annuale sulla concorrenza tenuta colpevolmente nel cassetto dall’esecutivo». Il quale esecutivo ha preferito invece ritirarsi dal fronte, e ha così lasciato sul tappeto «l’apertura al mercato di settori come il commercio, il gas e i servizi pubblici locali». È la scelta di fondo, ricorda d’altronde la Lanzillotta, «compiuta finora da Tremonti: evitare tensioni sociali, mettere la polvere sotto il tappeto. Il che però significa che fra tre anni ci troveremo con una manovra da 90 miliardi, tra rientro del debito pubblico e contenimento del deficit. Si rinvia tutto per non entrare in conflitto con una serie di interessi. Dal punto di vista di questo governo, significa tradire tutte le promesse fatte, altro che rivoluzione liberale». Ma allora viene il sospetto che questa scelta del rinvio sistematico sia funzionale a una sconfitta ritenuta ormai probabile, dall’attuale centrodestra, nel 2013: «Il sospetto viene», dice Linda Lanzillotta, «è la teoria dell’avvelenamento dei pozzi. Eppure l’idea confligge con quella che lo stesso Tremonti sembra avere della sua prospettiva politica: lui si considera assai più longevo dell’attuale governo». Ecco perché la parlamentare moderata non può che ricorrere alla spiegazione della tenaglia, da una parte Berlusconi che tiene in ostaggio il ministro colpevole della mancata riforma fiscale, dall’altra Bossi «che non vuole mollare il controllo sulla spesa. E invece proprio spezzando il meccanismo delle utilities controllate dai partiti, per esempio, si troverebbero le risorse per i settori trainanti del nostro sistema. In Germania l’hanno fatto, hanno tagliato il numero dei lander recuperando fondi per il sostegno a ricerca e università. Quell’economia ora cresce più di tutte in Europa. Noi rischiamo di restare strangolati in una spirale fatta di recessione, necessario risanamento finanziario che, senza crescita, produce ulteriori effetti depressivi e impedisce di arginare una disoccupazione giovanile ormai drammatica».
il fatto Presentato il documento dei moderati per il rilancio dell’economia
Prima che sia troppo tardi «Mentre l’Europa si rimette in moto, questo governo rischia di spingerci verso la recessione», dice Casini. Ecco perché bisogna correre ai ripari prima possibile di Riccardo Paradisi
ROMA. L’Italia si presenta all’appuntamento con la nuova disciplina europea in condizioni particolarmente difficili. Si trova di fronte alla necessità di una riduzione di ben 3 punti l’anno del debito che si aggiungono al vincolo relativo al rapporto fra deficit pubblico e PIL, il quale a sua volta deve ridiscendere a un livello inferiore al 3%. A questo si aggiunge che l’Italia ha una crescita reale di medio periodo, che si colloca attorno all’1% mentre il divario fra il Nord e il Sud è tornato ad accentuarsi in misura rilevante.
È l’analisi preoccupata che emerge dal documento che i parlamentari del Nuovo Polo hanno presentato ieri a proposito del piano di riforma del governo. Piano all’interno del quale, secondo i moderati, non sono previsti interventi destinati a dare luogo a una crescita più vigorosa dell’economia: «Il governo propone una congerie di misure, circa ottanta, delle quali è evidente la disorganicità. Si proclama certo il rafforzamento della concorrenza e della competitività, ma non si indicano strade concrete, efficaci, incisive. Il Piano è solo una generica enumerazione di misure senza priorità». Particolarmente carente, secondo il Nuovo Polo, è proprio la messa a tema della questione meridionale mentre vengono totalmente dimenticate le liberalizzazioni che neppure vengono citate: «grave paradosso di un governo che aveva legato la sua missione alla rivoluzione liberale e che invece oggi ha abbracciato una pericolosa e regressiva linea statalista e neo protezionista». Insomma saremmo lontani anni luce, secondo l’opposizione centrista, dalla promessa scossa all’economia, anzi «nell’economia italiana si
sta creando un circolo vizioso: le misure finanziarie di risanamento, per le loro ripercussioni sulla domanda, determinano un rallentamento della crescita; la quale, a sua volta, a causa dei suoi effetti depressivi sul gettito fiscale, rende più difficile il raggiungimento dei traguardi di finanza pubblica e impone ulteriori manovre deflattive». Avendo rinunciato ad avviare una politica per la crescita, il governo italiano si starebbe affidando alla speranza «che la ripresa dell’economia italiana possa essere trainata dall’andamento di quella europea e mondiale. Ma questa scelta rischia di rendere proibitivo il conseguimento degli ambiziosi traguardi di finanza pubblica richiesti dall’Europa. Renderà indispensabili nei prossimi anni, come previsto da Bankitalia, ulteriori manovre di restrizione del bilancio, destinate a loro volta a influire negativamente sul nostro tasso di crescita. In definitiva, il governo condanna il Paese all’immobilismo».
Considerato poi che una crescita dell’1,5% è palesemente insufficiente a consentire un riassorbimento della elevata disoccupazione italiana e una attenuazione del grave divario fra il Nord ed il Sud, «é urgente – secondo il documento del Nuovo Polo – predisporre ed attuare una politica economica del tutto diversa che si proponga l’obiettivo di una crescita collocata annualmente fra il 2 e il 3%». È necessario prevedere misure a sostegno della crescita insomma, condizione indispensabile per la stessa stabilità dei conti pubblici e dunque per il rispetto dei vincoli dell’appartenenza all’Euro. Il Nuovo Polo indica tre proposte: una legge di incen-
l’analisi
E Bankitalia boccia ancora Tremonti «Un errore non prevedere subito correzioni sui conti», dice il vicedirettore Ignazio Visco di Francesco Pacifico
ROMA. Promossa la volontà di Giulio Tremonti di arrivare al pareggio di bilancio entro il 2014. Bocciata invece la tabella di marcia del ministro, soprattutto nella parte che non prevede correzioni per i conti pubblici in questo biennio. Bankitalia ribadisce il conto per mettere in sicurezza le nostre finanze – 35 miliardi di euro – e non perde l’occasione di esprimere i suoi distinguo dalla politica economica portata avanti dal governo. Così ieri, e nella stessa sede dove il titolare di via XX Settembre aveva smentito manovre straordinarie (le commissioni Bilancio e Finanze di Camera e Senato riunite in seduta comune) il vicedirettore generale, Ignazio Visco, ha sottolineato come «le nuove regole di bilancio prevedono che già a settembre siano definite concretamente le misure da attuare nel biennio 2013-2014 per conseguire il pareggio di bilancio». Da via Nazionale l’imperativo sembra essere quello di gettare acqua sul fuoco. C’è da tranquillizzare i mercati dopo che l’ultimo bollettino statistico, quello con la richiesta di un intervento di 2,3 punti di Pil, è stato letto come una bocciatura da parte di Mario Draghi al primo documento economico finanziario. E si sa, questo Def è decisivo visto che l’Italia, assieme con il piano nazionale delle riforme, si appresta a presentarlo a Bruxelles, dopo che i Ventisette hanno imposto maggiore collegialità nelle politiche di sviluppo dell’Unione.
Visco, che in curriculum può vantare anche cinque anni all’Ocse, sembra quasi sorpreso dalle pole-
miche di questi giorni. Prima ricorda che anticipare a quest’anno la correzione dei conti «potrà ancorare ulteriormente le aspettative degli operatori, esercitando un’azione di contenimento sui rendimenti dei titoli pubblici». Quindi sottolinea che la stima di Palazzo Koch – la manovra correttiva da 35 miliardi per conseguire il pareggio di bilancio nel 2014 – si evince proprio dal Def redatto dal governo. Nel testo «si parla di una correzione di 2,3 punti di Pil». Infatti c’è
«Servono scelte coraggiose sulle riforme strutturali», dice il numero 2 di via Nazionale durante l’audizione al Senato uno 0,5 per cento al netto degli effetti del ciclo per il primo anno e dello 0,8 nei due anni successivi. Numeri che inducono Visco a dichiarare ai giornalisti: «Non so cosa abbia detto Tremonti, ma questa cifra si trova sul documento: se si prende il 2,3 per cento e si moltiplica per 1550(il valore del Pil, ndr) si ha 35 miliardi». Mistero svelato? Macché. Dal Tesoro fanno notare che una parte di questi interventi il ministro la considera già effettuati con la Finanziaria 2010-2011, quella che ha sforbiciato le dotazioni ai ministeri e trasferimenti agli enti locali per 24 miliardi di euro e che anche ieri Comuni e Province hanno definito insostenibile. Bankitalia fa intendere che servirebbe uno sforzo in più per centrare gli obiettivi
tivazione fiscale (di carattere temporaneo e straordinario) degli investimenti produttivi, con un’articolazione diversa tra Nord e Sud in relazione ai diversi livelli di disoccupazione nelle aree del Paese. Secondo: un’assegnazione straordinaria di risorse a sostegno della ricerca pubblica e privata. Terzo: una destinazione aggiuntiva di risorse alla spesa per investimenti pubblici falcidiata nel corso degli ultimi anni con particolare attenzione al capitolo delle infrastrutture nel Mezzogiorno.
Per intanto la risposta di Tremonti agli stimoli di rilancio e alla sfida del rientro del debito e delle richieste europee si riassume nella riproposizione della maggiore libertà per le imprese. «L’oppressione fiscale» sulle aziende è eccessiva e «la dobbiamo interrompere» dice il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, nel corso di un’ audizione alla commissione Finanze alla Camera, all’ indomani della presa di posizione di Confindustria che pur apprezzando il rigore sui conti pubblici ha espresso «delusione» per la mancata azione del governo in tema di riforme e piani per la crescita. I controlli e le ispezioni alle aziende «sono eccessivi: ci sono costi per il tempo perso, oltre a stress e occasioni di corruzione. È un’oppressione fiscale che dobbiamo interrompere». La proposta però deve essere equilibrata e non può essere del tipo della legge 626 sulla sicurezza sul lavoro: «In molti settori potremmo immaginare un qualche tipo di concentrazione, che salvi le esigenze erariali e che tuttavia riduca il continuo meccanismo di frequentazione delle im-
di bilancio, visto il quadro macroeconomico mondiale non certo favorevole. Così, per fare maggiore chiarezza, bisogna affidarsi a quanto dichiarato ieri, davanti alle stesse commissioni Bilancio e Finanze di Camera e Senato, da Enrico Giovannini. Il presidente dell’Istat, tecnico stimato anche per i suoi trascorsi all’Ocse e consulente di Giulio Tremonti per la riforma fiscale, ha sottolineato che «l’economia italiana viaggia a una velocità troppo bassa per consentire il consolidamento dei conti pubblici». Tanto che «lo scenario macroeconomico di crescita moderata adottato dal Def (la decisione di abbassare la stima sul Pil 2011 dal +1,3 al +1,1 per cento e nel 2012 dal +2 al +1,3, ndr)» sul versante dell’occupazione fa ipotizzare «soltanto parzialmente un riassorbimento dell’area dell’inattività» . I timori di Giovannini si rivolgono sia al consolidamento dei conti pubblici sia ai tanti lavoratori under 30, che prima della crisi erano precari e che oggi hanno ingrossato le statistiche sulla disoccupazione giovanile, oggi al 29 per cento. Due fronti che rischiano di diventare incandescenti se l’inflazione continuerà a correre (per Prometeia si viaggia verso il 2,9 per cento) e le esportazioni resteranno deboli.
Di fronte a questo scenario, Bankitalia riconosce che «l’ambizioso contenimento della dinamica della spesa svolgerà un ruolo determinante». Ma basterà tutto ciò in un Paese dove tutti – da Tremonti all’opposizione, dalle im-
prese, per cui va via uno e dopo una settimana arrivano i vigili, e poi seguono gli ispettori. Se riusciamo a trovare un equilibrio tra l’esigenza del controllo e l’attività delle imprese credo che faremmo un servizio all’economia del Paese». Ci vuole un criterio equilibrato che potrebbe essere «un coordinamento dall’alto o il diritto dal basso di dire ”non mi rompere più di tanto». Tremonti parla anche della norma anti-scalate, sotto i riflettori dopo l’assalto francese a Parmalat. «È una norma generale, non particolare. Il provvedimento è in discussione. È importante che venga convertito e che venga rinnovato anche per l’anno prossimo». Tremonti fa un passaggio anche sulle quotazioni di
prese ai sindacati – concordano sulla scarsa produttività? Al riguardo Ignazio Visco lega i piani sulla spesa «all’innalzamento dell’efficienza delle diverse strutture pubbliche e a una valutazione dell’adeguatezza di ciascuna voce di spesa». Ma accanto alle spending review c’è la lotta all’evasione fiscale, che deve «proseguirsi e rafforzarsi, aprendo spazi già nel periodo di previsione a una riduzione delle aliquote fiscali, nella speranza di una redistribuzione con minore carico sul lavoro e più sui monopoli, le rendite di posizione, sulle cose anziché sulle persone». Infine c’è un altro deficit che spaventa via Nazionale, «la capacità di fare scelte coraggiose».Leit motiv nelle Considerazioni finali del governatore Draghi, anche ieri Bankitalia ha posto l’accento sul capitolo riforme. Perché per «un deciso innalzamento del tasso di crescita economica occorre affrontare le difficoltà strutturali che hanno fortemente contenuto l’espansione della nostra economia dalla metà degli anni Novanta. E occorre un forte impegno per definire e attuare in tempi brevi le riforme strutturali necessarie per riportare il sentiero di crescita del prodotto su un livello permanentemente più elevato».
re alle regioni. Ma non è detto che devono essere amministrati dalle regioni. La questione del Mezzogiorno - ha ribadito Tremonti - non è la somma delle questioni regionali. Un’enorme quantità di fondi non viene spesa. Noi, per fondi non spesi, siamo subito dopo la Romania. L’atteggiamento di chi non spende, pur avendo, è una follia che dobbiamo correggere. È fondamentale spendere e concentrarsi su alcune cose».
A fronte del documento economico finanziario del governo però l’Istat conferma le preoccupazioni di Confindustria e Terzo polo: «La crescita dell’economia italiana viaggia a una velocità troppo bassa per contribuire significativamente al riassorbimento dell’offerta di lavoro inutilizzata e al consolidamento della finanza pubblica», ha detto il presidente dell’Istat Enrico Giovannini nell’audizione alle Commissioni riunite di Senato e Camera per l’analisi del Def. Secondo Giovannini «la previsione per l’anno in corso di un tasso di disoccupazione all’8,4%, stabile, sui livelli del 2010, è compatibile con una ripresa moderata dell’occupazione, che andrebbe solo parzialmente a riassorbire l’area dell’inattivita», mentre il risparmio delle famiglie risulta in continua erosione. «Nel piano indicato dal Governo – dice il leader del Nuovo Polo Pier Ferdinando Casini – non c’è lo slancio necessario, per lo sviluppo, la cosa piu’ grave e’ l’assenza di una visione del futuro del paese, nessuna indicazione sulle misure indispensabili per rimetterlo in moto. Misure che il nuovo Polo ha indicato nel suo documento».
Nei prossimi anni, come previsto da Bankitalia, saranno necessarie ulteriori manovre di restrizione del bilancio. Senza scosse liberali però il rischio è la paralisi borsa: «Per quotare una società di 80 milioni i costi quotazione sono 8 milioni: è una follia. Le possibilità di riportare capitali sono molto alte ma bisogna offrire livelli di burocrazia competitivi. Quando si dice le barriere nell’economia, ma mica le fa solo lo Stato. L’8% per la quotazione è pazzesco. Ci sono tanti fattori, anche di scelta. Il nostro capitalismo è molto familiare. Se si va in assemblea e si chiede chi di voi è posseduto da una holding italiana? la risposta è nessuno. Da una holding del Lussemburgo? Tutti». Il ministro dell’Economia denuncia Infine l’enorme quantità di fondi per il sud che è stata dispersa: «I fondi europei devono anda-
pagina 4 • 21 aprile 2011
l’approfondimento
Il testo del documento del Terzo Polo contro l’immobilismo del governo che ha rinviato ogni intervento sui conti al 2014
Il Contropiano
Incentivi fiscali; detassazione degli utili reinvestiti; meno tasse per le famiglie; liberalizzazioni; contrasto della povertà; investimenti per la ricerca; un piano per i giovani e il rilancio delle infrastrutture. Ecco che cosa serve, subito, all’Italia l Piano di Stabilità approvato dal governo il 13 aprile in ottemperanza agli impegni definiti nel Consiglio Europeo del 24-25 marzo scorsi indica il raggiungimento nel 2014 del pareggio sostanziale del bilancio ed una prima consistente riduzione del rapporto debito/Pil. È del tutto evidente che tali traguardi richiederanno, tra il 2013 e il 2014, una manovra aggiuntiva di riduzione del fabbisogno del 2,5% circa. Ecco allora la nostra prima osservazione: il governo rinvia di fatto nel tempo la correzione richiesta dagli accordi in sede europea, scaricando sulla prossima legislatura gran parte dell’onere del risanamento.
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L’Italia si presenta all’appuntamento con la nuova disciplina europea in condizioni particolarmente difficili per tre essenziali ragioni: 1) uno stock di debito in rapporto al Pil pari al doppio di quanto previsto in sede europea e con l’obbligo di procedere alla riduzione di tale
differenza nella misura di un ventesimo per ciascun anno; il che implica una riduzione di ben 3 punti l’anno che si aggiungono al vincolo relativo al rapporto fra deficit pubblico e Pil che deve ridiscendere a un livello inferiore al 3%; 2) una crescita reale di medio periodo che si colloca attorno all’1%; 3) un divario fra il Nord e il Sud che è tornato ad accentuarsi in misura rilevante. Perciò osserviamo con preoccupazione come, nel Piano di Riforma, non siano previsti interventi destinati a dare luogo a una crescita più vigorosa dell’economia. Si propone una congerie di misure, circa ottanta, delle quali è evidente la disorganicità. Del resto, lo stesso esecutivo si mostra consapevole della fragilità del Piano: prova ne sia la valutazione che esso stesso fa dell’effetto di stimolo determinato dalle misure indicate, calcolato in un aumento della crescita di uno striminzito 0,4% del Pil. Siamo lontani anni luce dalla promessa “scossa” all’econo-
mia! E siamo lontani anni luce dalle necessità del Paese che, come ha correttamente osservato Confindustria, ha bisogno di mettere in campo uno sforzo simile a quello prodotto al tempo dell’adesione al Trattato di Maastricht. Perciò appare ancora più grave che il piano del governo sia stato elaborato senza alcun coinvolgimento né del Parlamento né dell’insieme del mondo produttivo. Ciò che più colpisce è la mancanza di un’analisi della relazione fra l’anda-
Il Paese deve essere rimesso in moto: non c’è tempo da perdere
mento del fabbisogno pubblico e il trend del reddito nazionale. È questo invece il punto più importante. Nell’economia italiana, infatti, si sta creando un circolo vizioso: le misure finanziarie di risanamento, per le loro ripercussioni sulla domanda, determinano un rallentamento della crescita; la quale, a sua volta, a causa dei suoi effetti depressivi, rende più difficile il raggiungimento dei traguardi di finanza pubblica e impone ulteriori manovre deflattive.
Sappiamo che questa contraddizione non verrà probabilmente rilevata dalle autorità europee. Ma ciò non costituisce una buona notizia per il futuro dell’Italia. Gli impegni chiesti dall’Europa attengono al rapporto deficit/Pil e debito/Pil. La crescita, cioé, non è considerata un vincolo. Il vincolo sono le grandezze di finanza pubblica senza ulteriori condizioni. È questo il limite che continua a permanere nel nuovo Patto europeo: esso non assume come
priorità la questione della crescita né attribuisce carattere strategico e vincolante all’attuazione dell’Agenda 2009 che della crescita europea ha dettato le linee. Peraltro non risulta che l’Italia si sia battuta per un esito del negoziato europeo che rafforzasse questo aspetto. Al contrario, il governo ha sostanzialmente rinunciato a avviare una politica per la crescita, affidandosi probabilmente alla speranza che la ripresa dell’economia italiana possa essere trainata dall’andamento di quella europea e mondiale. In definitiva, il governo condanna il Paese all’immobilismo.
Il Nuovo Polo denuncia dunque con forza l’inerzia del governo rispetto ai problemi della crescita. Al di là del continuo favoleggiare di una riforma fiscale che ormai è solo un’araba fenice esso non riesce ad andare. Considerato che una crescita dell’1,5% è palesemente insufficiente a consentire un riassorbimento della elevata disoc-
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Per il «consenso» della Ue, il governo ha dovuto rifare i conti
L’Europa ci costringe a dire tutta la verità
Le nuove regole impongono previsioni “attendibili”. Per esempio: il peso delle pensioni diventerà enorme... di Gianfranco Polillo a prima impressione che si ha, nel leggere i ponderosi documenti elaborati dal Ministero dell’economia (un totale di 714 pagine zeppe di tabelle e grafici) è che l’Europa, su impulso della Commissione, almeno un risultato l’abbia ottenuto: negli anni precedenti era cattiva prassi di tutti i governi (di destra e di sinistra) enfatizzare le previsioni sul possibile tasso di crescita dell’economia. Perché è importante indicare un tasso di crescita realistico e non fantasioso, come quello riportato negli anni precedenti? Perché su di esso si costruiscono i quadri di finanza pubblica. S’imposta, in altri termini, la manovra. Non solo quella relativa all’anno corrente, ma ai successivi. Invece avveniva che per l’anno di riferimento si andava con il bisturi, per i successivi si usava l’accetta. Risultato? La non percezione dello sforzo continuo che occorre realizzare per far fronte ai problemi di medio periodo: sia di natura finanziaria che afferenti l’economia reale. Tutta questa impalcatura è, finalmente venuta meno. Oggi la Commissione europea impone previsioni realistiche – il cosiddetto consensum internazionale – per tutto il periodo di riferimento. Dati che non si possono discostare più di tanto da quelli elaborati direttamente dalla Commissione o dagli altri organismi sovranazionali: soprattutto Fmi e Ocse.
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correre nei rilievi della Commissione, che ha il compito di un vaglio preventivo dei relativi “piani”prima dell’avvio del dibattito parlamentare. Nei prossimi quattro anni, il tasso di crescita dell’economia è stato quindi ridimensionato con una perdita complessiva, in termini di Pil, di circa 1,6 punti, trascinando con sé il quadro contabile complessivo. Per la verità si è fatto di tutto per non alterare le altre cifre. Un confronto tra i due scenari – quello del 2010 e del 2011 – dimostra, infatti, che le grandezze di fondo hanno subito solo variazioni limitate. Ma questo, paradossalmente, non tranquillizza. Nel complesso la spesa pubblica non dovrebbe subire variazioni. Cambiano invece i relativi addendi. Cresce ad esempio la spesa pensionistica, irrigidendo ancora di più il bilancio pubblico. Dal 2010 al 2014 il rapporto tra le pensioni complessive e le retribuzioni dei dipendenti del pubblico impiego cresce, infatti, dal 173 al 195 per cento. Quasi la metà della spesa primaria, al netto degli interessi (oltre il 45 per cento), se ne va per le “prestazioni sociali”(di cui le pensioni rappresentano circa l’80 per cento del totale). Dire che “siamo un Paese per vecchi” è semplice constatazione. Il problema non è solo italiano. La scorsa settimana, ad esempio, l’Economist ha dedicato all’argomento una lunga analisi. La copertina recava il titolo: «70 o il fallimento! Perché l’età di pensionamento (in tutti i paesi ricchi ndr) deve aumentare».
Nei prossimi quattro anni, la spesa per gli interessi dovrebbe aumentare «solo» di 0,8 punti
La conseguenza di questo diverso approccio è stato un piccolo terremoto. Lo scorso anno («Schema di decisione di finanza pubblica per gli anni 20112013») il governo aveva previsto un tasso di crescita dell’economia, per gli anni successivi al primo, del 2 per cento, in termini reali. Si fosse potuto confermare, i problemi sarebbero stati se non proprio risolti, almeno meno stringenti. Lo dimostra una simulazione recente, condotta da Banca d’Italia sul suo modello econometrico. Una crescita del 2 per cento, in termini reali, secondo quei risultati è sufficiente per garantire il rispetto delle nuove regole di Maastricht. Vincoli più stringenti a causa della crisi internazionale che attanaglia tutto l’Occidente e che costringe tutti gli Stati - si veda solo il duro scontro sul bilancio americano – ad una politica della lesina. Il ministero dell’Economia, pertanto, è stato costretto a ridimensionare l’obbiettivo dello scorso anno per non in-
Due ancora gli aspetti preoccupanti. Nei prossimi quattro anni la spesa per interessi dovrebbe aumentare di 0,8 punti. È realistica la previsione? Difficile rispondere. Si tratta di una variabile che sfugge a ogni determinazione preventiva. I tassi d’interesse, che ne sono il motore, risentono della complessa situazione internazionale. L’unico dato certo è che si è esaurito quel circolo virtuoso – tassi calanti – che negli anni passati avevano garantito risorse aggiuntive al bilancio dello Stato. Ed infine il dato più imbarazzante. L’equilibrio finanziario è garantito – ma sarà poi così? – da un forte contenimento della spesa in conto capitale, che, nei quattro anni subisce una contrazione di 1,4 punti di Pil, collocandosi, ormai ai minimi storici. Il che, per un Paese, che dovrebbe accrescere la sua capacità di produrre reddito non è un buon viatico.
cupazione italiana e una attenuazione del grave divario fra il Nord ed il Sud, é dunque urgente predisporre ed attuare una politica economica del tutto diversa che si proponga l’obiettivo di una crescita annuale fra il 2 e il 3%. Perciò è necessario prevedere precise misure a sostegno della crescita che, lo ripetiamo, è condizione indispensabile per la stessa stabilità dei conti pubblici e dunque per il rispetto dei vincoli dell’appartenenza all’Euro. Tali misure devono essere previste fin da oggi. Non c’è più, infatti, tempo da perdere. Il Nuovo Polo ritiene che occorra una grande manovra di rigore finanziario e di rilancio della crescita. Ma caratterizzata, a differenza di quanto avviene oggi, da precise scelte politiche, qualitativamente impegnative e quantitativamente sostenute. In particolare a difesa della famiglia, del lavoro, delle imprese e in direzione di un rilancio degli investimenti e dei consumi.
Per reperire le risorse necessarie occorre una totale e radicale revisione della spesa pubblica, una vera e propria spending review, orientata alla trasformazione dello Stato da erogatore a regolatore, anche nel settore del Welfare. Per ottenere ciò è indispensabile puntare sulla sussidiarietà. Tagli verticali specifici devono sostituire quelli orizzontali e generici. Immediatamente si può intanto procedere al severo contenimento di alcune voci specifiche di spesa corrente aumentate in modo anomalo negli ultimi anni e che contengono chiari indizi di sprechi, malversazioni ed aree grigie tra economia e politica: acquisti di beni e servizi delle pubbliche amministrazioni ammontanti ad oltre 140 miliardi di euro all’anno; fondi perduti elargiti a pioggia in conto corrente e conto capitale per 44 miliardi di euro all’anno; eliminazione-aggregazione di enti e società pubbliche; radicale riduzione del numero delle province. In questo quadro occorre promuovere immediati provvedimenti anti- corruzione. L’Italia ha davanti a sé due traguardi: correggere il deficit pubblico e finanziare una grande riforma fiscale (fattore famiglia, dimezzamento dell’Irap per le imprese, infrastrutture, ricerca). In particolare il Nuovo Polo indica alcune proposte da predisporre in tempi brevi: 1) Una legge sulla fiscalità di vantaggio degli investimenti produttivi, con un’articolazione diversa tra Nord e Sud in relazione ai diversi livelli di disoccupazione nelle aree del Paese. 2) Un intervento di sostegno della patrimonializzazione delle imprese attraverso la detassazione degli utili reinvestiti. 3) Il rilancio delle liberalizzazioni ormai bloccate da anni nei servizi, pubblici e privati, nelle professioni, nelle attività commerciali
per ridurre i costi della P.A. delle imprese e delle famiglie, creare nuove opportunità di lavoro. 4) Immediate misure di riduzione fiscale per le famiglie (introducendo il fattore famiglia) e per le imprese attraverso la riduzione dell’IRAP che con il federalismo fiscale rischia, al contrario, di aumentare. 5) Una forte iniziativa mirata al contrasto della povertà che sta investendo ceti che precedentemente ne erano al riparo. 6) Investimenti straordinari in favore della ricerca pubblica e privata. 7) Un piano straordinario per i giovani (istruzione, merito, lavoro, casa, nuove opportunità). 8) Rimettere in moto le infrastrutture con particolare riguardo al Mezzogiorno dove è indispensabile aumentare capacità di spesa e qualità dei servizi pubblici.
In conclusione, due osservazioni strategiche. Se avverrà, come è auspicabile, che i cambiamenti storici in atto nel Mediterraneo, liberino energie per troppo tempo represse e mettano in moto nuovi processi di sviluppo economico, ciò potrà rappresentare un’occasione straordinaria di sviluppo per l’Italia, sia come Paese esportatore, sia come piattaforma logistica dell’intero Mediterraneo, sia infine come fornitore di servizi (ad esempio l’istruzione universitaria). Intorno a queste nuove possibilità il Paese deve esser pronto a costruire una nuova stagione di sviluppo con particolare riferimento al Mezzogiorno. È un’occasione che non deve essere perduta, ma che finora è stata affrontata dal governo solo in termini di ordine pubblico. Inoltre, le crisi finanziarie di alcuni Paesi membri dell’Euro e la necessità di procedere con misure di sostegno a loro favore hanno alimentato un clima di diffidenza nelle relazioni inter-europee. Da qui l’insistenza, in particolar modo da parte tedesca, sull’introduzione di vincoli ai comportamenti dei singoli Stati. Ebbene, bisogna evitare che l’Europa dei giusti vincoli divenga l’Europa degli ingiustificati egoismi. Bisogna, in altri termini, riuscire a superare l’impasse che ha fermato il cammino dell’integrazione politica. Come Paese fondatore, l’Italia può esercitare un ruolo rilevante nella ripresa del cammino unitario, ma ciò presuppone due condizioni che l’attuale maggioranza non soddisfa: 1) Dovremmo mantenere saldo un atteggiamento favorevole all’ulteriore integrazione politica, senza oscillare fra perentorie richieste di aiuto e minacce di secessione. 2) Dovremmo dimostrare di saper perseguire una crescita economica più rilevante e, insieme, il risanamento dei conti pubblici. Affinché tutto ciò si realizzi è necessaria una diversa maggioranza e un governo capace di ispirarsi ad una nuova condivisa stagione di responsabilità nazionale.
politica
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Mentre viene proposta una modifica della Carta contro il Quirinale, il Consiglio dei ministri annuncia un nuovo conflitto di attribuzione
Le mosse della paura Terzo Polo, articolo 1 della Costituzione, processo Mediaset: offensiva a tutto campo del governo di Gualtiero Lami
ROMA. Berlusconi nel bunker. Solo, accerchiato, disperato: ormai i suoi guai giudiziari sono un’ossessione. Ma un’ossessione che il premier-padrone ha trasferito pari pari sui suoi parlamentari. Per il quali non c’è crisi economica, non ci sono problemi di politica internazionale, non ci sono allarmi europei: niente. Solo i processi del capo da fermare in qualunuque modo. Costi quel che costi. E se la sinistra è ferma sul crinale del giustizialismo, la vera bestia nera del premier sono i moderati, il Nuovo Polo da azzerare in qualunque modo, perché con la loro concretezza politica (ne è un esempio il documento economico presentato ieri dal Terzo Polo, di cui parliamo alle pagine precedenti) i moderati rappresentano davvero un’alternativa. Evidentemente credibile anche nei sondaggi di Berlusconi. Sicché ieri la trincea del premier ha tentato il contrattacco su tre fronti: la riforma costituzionale contro i giudici e contro Napolitano; la campagna elettorale contro il Terzo Polo e il processo Mediaset.
Andiamo con ordine. Ormai la creatività conflittuale del Pdl non ha conosce confini e parallelamente alla battaglia contro i giudici (solo scalfita dal passo indietro tardivo del milanese Lassini) si apre un nuovo fronte contro il Capo dello Stato in persona. Ma, ovviamente, sovrapponendo come al solito la persona con la funzione istituzionale, il Pdl proporne niente meno che di cambiare il primo articolo della Costituzione. Come? Ribadendo «la centralità del parlamento nel sistema istituzionale della Repubblica». Perché? Ovvio: perché almeno fino a fine legislatura il Parlamento è strettamente nelle mani del suo «proprietario» Silvio Berlusconi. E allora perché non sognare di rendere il Parlamento l’unico potere (quello legislativo, secondo tutte le democrazie del mondo) che controlla tutti gli altri (esecutivo e magistratura; ma anche, nel nostro caso, il presidente della Repubblica)? Non ha sempre detto, Berlusconi, che come capo del governo ha le mani legate? Bene: trasferiamo tutto il potere ai nominati del Cavaliere – i deputati della maggioranza – deve aver pensato Remigio Ceroni, onorevole Pdl, il quale ha appunto presentato la fantasiosa proposta di rettifica dell’articolo 1 della Costituzione. «Visto che al momento non è possibile fare una riforma in senso presidenziale come vorrebbe Berlusconi – ha spiega il bravo Ceroni - per ora ribadiamo la centralità del Parlamento troppo spesso mortificata, quando fa una legge, o dal presidente della Repubblica che non la firma o dalla Corte costituzionale che la abroga. Occorre ristabilire la gerarchia tra i poteri dello Stato. Se c’è un conflitto, occorre specificare quale potere è superiore». La legge proposta dal solerte deputato consta di un solo
La nebbia dei media del premier su tutto quello che sta accadendo
Un Paese tenuto all’oscuro della realtà di Achille Serra i fronte a quanto sta accedendo indisturbatamente sotto gli occhi degli italiani credo sia lecito porsi oggi alcune domande: la gente sa che il presidente del Consiglio sta utilizzando stratagemmi politici e giudiziari di vario genere per risolvere i suoi innumerevoli guai con la giustizia? Sa che per evitare il processo Mills in cui è imputato di corruzione aggravata e il cui presunto corrotto è stato già condannato a diversi anni di carcere, è passata alla Camera una ”piccola”norma che prevede di accorciare la prescrizione, già abbreviata dal precedente governo Berlusconi? Sa che i lavori del Parlamento sono rimasti bloccati per consentire alla Camera dei Deputati di trattare ininterrottamente la materia e al Senato nell’attesa di esaminarla quanto prima?
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Lo sa la gente che il Presidente supererà anche lo scoglio dell’imputazione di prostituzione minorile e concussione? Tutto ciò nonostante il rischio corso nella giunta in cui si discuteva il conflitto di attribuzione. Qui, infatti, due dei suoi adepti hanno aspettato a dichiarare il proprio voto in attesa della nomina a ministro di un altro seguace: prova evidente di un nuovo squallido ricatto, uno dei tanti cui il premier è sottoposto ormai quotidianamente da più parti. Lo sa la gente che il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato per affidare il processo al Tribunale dei ministri di fatto non sposta la competenza dei giudici di Milano ma sottopone il processo stesso all’autorizzazione del Parlamento? Lo sa la gente che la scelta della magistratura di andare avanti in attesa della decisione della Corte Costituzionale proprio sul conflitto di attribuzione sarà ancora una volta bloccata? Già, perché a ostacolarla ci sarà di nuovo un piccolo emendamento che la maggioranza, prona ai voleri di Lui, si accinge a proporre in Senato: quest’ultimo fa scattare la sospensione subito, non
appena il ricorso sul conflitto di attribuzione è depositato alla Consulta, senza aspettare la pronuncia della Corte.
E ancora: lo sa la gente che nell’ipotesi in cui la cosiddetta prescrizione breve dovesse risultare incostituzionale, la maggioranza ha già trovato un escamotage? Si chiama ”processo lungo” e prevede che il giudice non possa valutare l’ammissione dei testimoni, permettendo all’avvocato difensore di presentare infiniti elenchi. Un modo per allungare i tempi dei dibattimenti, rendendo ancora più farraginoso l’iter giudiziario. Gli interrogativi, dunque, si moltiplicano e coinvolgono oggi anche il nucleare: lo sa la gente che dopo essersi battuto per mesi perché venisse sfruttato anche in Italia, il governo ha deciso su questo tema di soprassedere di fronte all’ipotesi di perdere il referendum? Lo sa che tutto questo blocca il Paese e allontana l’esame di problemi seri quali la crescente disoccupazione, il precariato, la scuola o la sicurezza? Siamo ormai dissociati dalla realtà, non c’è dubbio. Mi chiedo, allora: il Paese aprirà gli occhi? Riuscirà l’intelligenza della nostra gente a prevalere sull’oblio imposto da un abile affabulatore e da una maggioranza a lui sottomessa? Fino a quando il pensiero della gente sarà offuscato dai messaggi lanciati attraverso i suoi mass media? Fino a quando dovremmo ascoltare quei mass media attaccare chiunque metta in dubbio il suo pensier? Fino a quando la gente dovrà credere che chiunque sia contro di lui non è altro che un comunista, rievocando con questa parola il terrore di periodi storici di cui tutti conserviamo la memoria? Tornerà la serenità necessaria ad affrontare i problemi reali? Sono molto scettico. Ecco perché, in cuor mio, spero si possano sciogliere in fretta la Camere e andare presto a nuove elezioni, restituendo speranza e futuro a questo Paese.
articolo: «Il comma 1 dell’articolo 1 della costituzione è sostituito dal seguente comma: ”L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro e sulla centralità del parlamento quale titolare supremo della rappresentanza politica della volontà popolare espressa mediante procedimento elettorale”». Attualmente, come è noto, l’articolo 1 della costituzione recita: «L’italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limi-
Il premier se la prende con un normale caso di omonimia fra i candidati delle amministrative di Torino e spara: «Così perdono la faccia». Intanto riprende corpo l’idea di cambiare regole al Senato ti della costituzione». Ma questo, per Ceroni, non è sufficiente a ribadire la ”superiorità gerarchica” delle Camere rispetto agli altri organi e poteri. Da qui l’idea della proposta. Possibilità di riuscita del blitz? Nessuna. Per fortuna, i padri costituenti immaginando anzitempo l’eventualità di maggioranze addomesticate, disposero che le modifiche costituzionali dovessero essere fatte a maggioranza qualificata. Se fosse stata sufficiente la truppa dei nominati dal premier-padrone, forse qualche problema in più ci sarebbe stato… Per esempio, Bersani ha fatto un commento faceto ed esplicativo: «La prossima volta proporranno di scrivere ”L’Italia è una repubblica fondata su Scilipoti”».
Quanto al livello di impazzimento elettorale a palazzo Chigi, se serve un esempio, è plasticamente rappresentato da una nota stampa firmata addirittura da Silvio
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«Il progetto presentato da Quagliariello ha un solo obiettivo: uccidere il Terzo Polo»
«Il secondo porcellum? È solo un’intimidazione»
Gianpiero D’Alia risponde alla provocazione del Pdl che vuole cambiare la legge elettorale al Senato e assegnare solo un premio nazionale di Marco Palombi
ROMA. «È un’intimidazione di chiaro
Berlusconi. Argomento: una lista di sostegno al candidato del Nuovo Polo a Torino intestata alla signora Mina Coppola. Il nostro candidato si chiama Michele Coppola, s’è lamentato il presidente del Consiglio, quindi si vuole «indurre in errore gli elettori torinesi e racimolare qualche voto in più con la furbizia e l’inganno». Quanto deve essere impaurito e/o confuso un capo di governo per occuparsi di qualche decina di voti a Torino non è dato sapere, comunque parecchio.
Infine, il fronte giudiziario vero e proprio. Detto che il processo MIlls è beatamente neutralizzato dalla prescrizione breve appena approvata alla Camera, detto che il caso Ruby è una scheggia impazzita (pure se dovesse essere bloccato da qualche norma ad personam, resterebbe in piedi quello parallelo a Minetti, Mora e Fede, i cui esiti danni i brividi a Berlusconi), ieri il governo si è occupato di quello per la truffa dei fondi neri Mediaset acquisiti - secondo l’accusa - tramite l’acquisto gonfiato di diritti televisivi: un processo per il quale Silvio Berlusconi è imputato di frode fiscale. Ebbene, la presidenza del Consiglio solleverà conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte Costituzionale per chiedere l’annullamento della decisione con cui i giudici di Milano del processo Mediaset non ritennero legittimo impedimento, il primo marzo del 2010, l’assenza in udienza di Silvio Berlusconi nonostante quel giorno il premier fosse impegnato a presiedere un consiglio dei ministri. Il consiglio dei ministri del primo marzo 2010 era stato fissato inusualmente di lunedì, in una data successiva a quella in cui era già stata stabilita l’udienza Mediaset (altre tre udienze erano precedentemente saltate). Insomma, un colpo di mitraglia nel complesso della guerra che Berlusconi e il suo cda (ops, il suo cdm) stanno combattendo con la magistratura.
stampo mafioso». Il capogruppo dell’Udc in Senato, Gianpiero D’Alia, non è uomo che s’abbandoni facilmente ai toni alti, ma in questo caso ha deciso di fare un’eccezione: si parla del rinnovato vigore con cui la maggioranza ha deciso di portare avanti la proposta di riforma della legge elettorale presentata in Senato da Gaetano Quagliariello il 5 ottobre scorso. Ci torneremo, ma in sostanza il Pdl vuole che anche a palazzo Madama sia valido il premio di maggioranza su base nazionale come alla Camera (oggi si assegna per ogni singola regione). «Non so fin dove arriveranno, ma solo averlo pensato è grave – dice D’Alia – si vuole uccidere una proposta politica emergente perché non si hanno proposte da contrapporle, tutto qua». In soldoni, Quagliariello vuole ammazzare il Terzo Polo: «È un tentativo fascista e autoritario, che si commenta da solo e dice pure tutto come uomo di chi l’ha proposto». Il fatto è, insiste il capogruppo centrista, che «non si vuole riformare la legge elettorale per migliorarla, ma solo per andare contro di noi: bisogna eliminare la concorrenza elettorale di un soggetto che dà una prospettiva diversa ai moderati, cioè alla gente che tradizionalmente ha votato Berlusconi. È un segno di abiezione».
A dir la verità, questa proposta il centrodestra la avanzò anche nel 2005, ma l’allora capo dello Stato Carlo Azeglio Ciampi gli fece notare che il Senato, a norma di Costituzione, si elegge su base regionale: «Il problema non è tecnico o costituzionale, ma di altro genere – spiega ora D’Alia - Basta leggere i giornali di Berlusconi per capire. Si tenta semplicemente di arrivare alla tirannide: tutto ciò che non è funzionale agli interessi del presidente del Consiglio deve essere delegittimato o eliminato».Va detto, poi, che il vicecapogruppo Pdl in Senato, cioè proprio Gaetano Quagliariello, non è che faccia molto per nascondere i suoi obiettivi: «Il sistema elettorale del Senato rappresenta l’elemento di maggiore criticità rispetto alle esigenze di governabilità e stabilità dell’esecutivo», scrive nella presentazione della sua legge, quindi «una modifica è urgente e necessaria anche solo in via cautelare e provvisoria, qualora si determinassero condizioni tali da rendere inevitabile il ricorso anticipato alle urne». Tradotto: hai visto mai che si va al voto e noi non ci siamo scelti il sistema che ci conviene di più? La-
sciamo stare che la legge l’ha scritta Roberto Calderoli, che poi l’ha pure chiamata “porcata”, oggi non va più bene e ovviamente non per colpa del centrodestra. E allora di chi? Di Ciampi, ovviamente. «La proposta originaria della Casa delle libertà si basava sull’attribuzione di un premio di maggioranza nazionale ripartito regionalmente. Tale soluzione non fu ritenuta conforme al dettato costituzionale di cui al primo comma dell’articolo 57 della Costituzione da parte dell’allora Presidente della Repubblica». E che dice questo benedetto articolo della Carta? «Il Senato della Repubblica è eletto a base regionale». Non c’è problema, dice Quagliariello, «sono state molteplici e prevalenti le voci di giuristi, esperti ed esponenti politici dei più diversi orientamenti culturali e politici – tra
Nessun problema, ci pensa l’uomo di Magna Carta (nel senso della fondazione): “premio di governabilità” nazionale fino a 170 seggi (sui 316 in palio) ripartito su base regionale, sbarramento al 5% sia per le liste che per le coalizioni sempre su base regionale. Neanche una soglietta sotto la quale il bonus non scatta: uno vince tutto anche se ha preso il 30% dei voti o meno, basta averne uno più degli avversari. Non è una persona insensibile, però, il vicecapogruppo del Pdl, e quindi ha pensato pure a «migliorare il rapporto tra candidati ed elettori»: la soluzione di Quagliariello è «suddividere il territorio regionale in circoscrizioni più ristrette in modo da avere liste composte da pochi candidati, fermo restando il calcolo del riparto dei seggi in ambito regiona-
Nelle intenzioni della maggioranza c’è anche la modifica delle circoscrizioni. Per il premio di governabilità non si prevedono soglie sotto alle quali il bonus non scatta tutti è sufficiente ricordare quella di Roberto D’Alimonte – a sostegno della piena conformità alla Costituzione dell’assegnazione di un premio di governabilità nazionale». Come si sa, il professore della Luiss è un bipolarista convinto, ma della proposta Quagliariello ha detto solo: «Non va bene e non servirebbe, non fosse altro perché gli elettori della Camera sono 6-7 milioni in più e più giovani rispetto al Senato: niente garantisce che esprimerebbero la stessa maggioranza». Nel 2006, ha ricordato D’Alimonte, con questo sistema avrebbe vinto Prodi alla Camera e Berlusconi in Senato. Solo che lo studioso ha pure spiegato che la prossima volta, con l’attuale legge elettorale e un Terzo Polo sopra il 10%, nessuno avrà la maggioranza a palazzo Madama.
le». Le circoscrizioni più ristrette, in sostanza, servono solo a non far affaticare gli occhi degli elettori con liste infinite di nomi. Preferenze? Giammai. Le campagne elettorali costerebbero troppo, dice il nostro, e «si vanificherebbe ogni serio tentativo di rinnovamento della classe politica e di bonifica amministrativa del Mezzogiorno, indispensabili per l’attuazione del federalismo fiscale». E no pure ai collegi maggioritari uninominali a uno o due turni: «Si acuirebbe la frattura Nord-Sud». Insomma, secondo il Pdl questa geniale uscita di Quagliariello ha due pregi: ammazza nella culla il Nuovo Polo e garantisce «l’unità nazionale». Adesso tocca solo spiegare a Umberto Bossi che la seconda parte è uno scherzo.
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n effetti, era stato con due settimane di anticipo che Barack Obama aveva preannunciato una visita al quartier generale di Facebook a Palo Alto, nel corso della quale sarebbe stato il primo presidente in carica a fare un’apparizione in diretta sul popolare sito di social networking. «Il presidente si connetterà con gli americani in tutto il paese per discutere le difficili scelte che deve prendere per rimettere la nostra economia su un cammino fiscalmente più responsabile, continuando ad investire in aree come l’innovazione che possono aiutare la nostra economia a crescere e rendere l’America più competitiva», aveva reso noto la Casa Bianca.
I
Aggiungendo che avrebbe trasmesso a sua volta in diretta l’evento anche sul suo sito whitehouse.gov, per rendere possibile il rivolgere domande al presidente. Insomma, una vera e propria Facebook Town Hall tra milioni di cittadini virtuali, assieme a Obama e allo stesso inventore della piattaforma, l’ormai celeberrimo Mark Zuckerberg. E l’idea originale era di bruciare le tappe per lanciare la campagna per la rielezione, ben 19 mesi prima del voto. Ma poi è successo che l’agenzia di rating Standard & Poors ha bocciato le ricette della sua amministrazione per contenere un livello del debito senza precedenti. E, con una decisione anch’essa senza precedenti per l’economia Usa, la prospettiva di mantenere la tripla A, il voto massimo, è passata da “stabile” a “negativa”, con “una probabilità su tre” di un declassamento entro due anni. Insomma, il momento è diventato altamente simbolico di una svolta storica: anche se solo il futuro potrà rivelare verso dove si sia svoltato. Da una parte, infatti, il presidente di una massima potenza mondiale “reale” in crisi che va a rendere omaggio a una potenza del mondo “virtuale”invece in ascesa potrebbe evocare un passaggio di testimone altrettanto drammatico di quando la Roma dei Cesari cedette il passo alla Roma dei Papi: mantenendo sempre il primato mondiale della Città Eterna, ma stavolta sul pano spirituale invece che temporale. D’altra parte, il fatto che gli Stati Uniti continuino a rivoluzionare il mondo con trovate del genere può anche ricordare come le grandi potenzialità del popolo americano restino intatte, e come sia dunque corretto fare appello a essere nel momento dell’emergenza. Anche Internet, d’altra parte, è stato un boom con cui gli Stati Uniti hanno rivoluzionato il mondo, nel momento in cui vari analisti discettavano sull’esaurimento della spinta propulsiva Usa di fronte alla potenza industriale del Giappone e a quella finanziaria della Germania. Oggi sul fronte di Internet gli Stati Uniti sono stati superati dalla Cina come Paese con il massimo numero di internauti, ma su quello di Facebook restano gli Usa il primo Paese al mondo: 116 milioni di utenti, contro 24 milioni a testa per Regno Unito e Indonesia. E già questa differenza di distribuzione dà una prima misura di quale sia il differente problema politico di Internet rispetto a Facebook. Internet, infatti, è un po’ come la stampa, la radio o la televisione. Cioè, uno strumento di comunicazione di massa dalle grandi potenzialità eversive, ma che segna d’altra anche un indispensabile momento di crescita economica. Piuttosto che vietarlo, dunque, anche i Paesi più autoritari hanno cercato
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Il social network di Zuckerberg si conferma leader indiscusso. In Italia lo usa il 2
di metterlo sotto controllo. La Cina ha dovuto accettare che i suoi cittadini si connettessero sempre più: se no, avrebbe dovuto rinunciare anche a diventare la potenza economica che è diventata. Al massimo, ha inventato filtri e sistemi vari per tenere la Rete sotto controllo. Mentre Cuba, che ha cercato di escludere i privati dalla Rete, alla fine ha dovuto rinunciare a questo divieto. Facebook, invece, è una modalità ulteriore di utilizzo del nuovo media, specificamente caratterizzata. Come i giornali rispetto alla stampa, o le dirette rispetto a radio e tv.
La lista dei Paesi che l’hanno bloccata, in modo più o meno intermittente, va dalla stessa Cina al Vietnam, all’Iran, all’Uzbekistan, alla Siria e al Bangladesh. Non solo per ragioni politiche: quella facilità di essere utilizzata come canali di mobilitazione dell’opposizione in realtà in cui altre forme di mobilitazione sono interdette, che ha fatto ad esempio di Facebook un motore delle ultime rivoluzioni arabe. Appunto, un po’ come la stampa aveva fatto da propulsione alla Riforma, i giornali alle rivoluzioni di ‘700 e ‘800, o le cassette alla rivoluzione khomeinista del 1979. Anche se, invece, le rivoluzioni del 1989 furono di molto posteriori alla diffusione della tv, e precedettero di qualche anno la scoperta planetaria di Internet: insomma, non tutto si può spiegare in termini di nuove tecnologie comunicative. Peraltro, il più spettacolare esempio di impegno politico di Facebook prima della rivolte arabe c’era stato in Colombia nel 2008, con il gruppo “Un Milione di Voci contro le Farc”. Lì l’obiettivo era invece quello di smentire l’immagine diffusa da ambienti di estrema sinistra nel mondo, sull’esistenza in Colombia di una vasta area di consenso popolare per le Farc. Facebook, in più, si è scontrata con la
Quando la politica cade nella Rete Non solo Barack Obama: in tutto il mondo ormai, sempre più uomini di governo e delle istituzioni si affidano a «Facebook» per organizzare comizi o presentare programmi e proposte di Maurizio Stefanini
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29% dei deputati e senatori, il 33% dei sindaci, il 66% degli amministratori locali
versi da quell’approccio individualistico che è la cifra fondamentale di Internet. E se invece avessero voluto creare siti personali apposta, la cosa non sarebbe stata proibitiva dal punto di vista dell’impegno di tempo o denaro: ma la visibilità sarebbe stata invece minima. Facebook, dunque, ha fornito un sito ai senza sito, e un blog ai senza blog. Per questo può anche aiutare a costruire un partito a chi è senza partito o si trova in un Paese dove i partiti non si potrebbe fondarli; o a lanciare una mobilitazione in Paesi dove le mobilitazioni sono sotto controllo; e così via.
Come mai, allora, Obama ricorre a Facebook, quando avrebbe già a propria efficientissima disposizione whi-
Tra i politici “contro”, la governatrice del Lazio Renata Polverini, che lo ha vietato a tutti i dipendenti «perché perdevano tempo invece di lavorare»
diffusa ostilità ad esempio dell’integralismo islamico: secondo il quale incentiva comportamenti libertini in contrasto con i valori propugnati dal Corano.
Qualche problema c’è stato anche nei Paesi occidentali. In Italia, ad esempio, con la storia delle foto di pazienti intubati, e con quella del gruppo di discussione “Uccidiamo Berlusconi”, e con quelle dei gruppi inneggianti a Salvatore Riina e al massacro di Srebrenica. Nel mondo anglo-sassone ci sono state pagine di negazioni dell’Olocausto o di promozione dell’anoressia e della bulimia. Ma quelli so-
no problemi di abuso della libertà di espressione, di natura analoga a quelli che si potrebbero riscontrare sulla carta stampata. Poi c’è stato che Facebook è un formidabile diffusore di virus informatici: ma questo è un problema generale di Internet. Piuttosto, specifico di Facebook è il problema di violazione della privacy che comporta. Lo stesso Zuckerberg lo ha preso di petto con una famosa intervista in cui ha spiegato che ormai il senso della privacy è evoluto, e che i giovani non hanno più paura a mettere in piazza cose e
proprie informazioni personali fossero sul web, oggi il numero delle persone che rende disponibile il proprio cellulare su Facebook è impressionante. Per i miei genitori la privacy era un valore, per i miei coetanei condividere è un valore». Renata Polverini alla Regione Lazio ha poi vietato Facebook semplicemente perché faceva perdere agli impiegati il tempo: una vicenda che si è ripetuta in molte altre situazioni, in tutto il pianeta, tant’è che già nel 2007 il governo della provincia canadese dell’Ontario aveva preso una misura analoga. Insomma: mentre Internet è ormai indispensabile per la gran parte delle attività produttive, Facebook resta essenzialmente un giocattolo per passare il tempo, costruire relazioni sociali, magari coltivare hobby. E, soprattutto, un modo per essere presente su Internet, a chi altrimenti ne sarebbe escluso. Un politico, un vip, un’impresa, anche un giornalista non hanno in realtà bisogno di Facebook per stare sulla Rete. Hanno già una propria visibilità, attraverso l’utilizzo di siti più o meno istituzionali, facilmente reperibili sui normali motori di ricerca.
Ma il problema primasentimenti che per i proprio genitori avrebbero invece dovuto restare confinati alla più rigorosa intimità. «Il concetto di privacy che ho io non è lo stesso che ha mio padre ed è diverso anche da quello di un ragazzo di quattordici anni. Sei anni fa nessuno voleva che le
rio da cui Zuckerberg prese le mosse era che gli ex-compagni di classe se non erano diventati vip in qualche modo, sui motori di ricerca non si trovavano. A meno di non collegarsi a siti degli stessi istituti scolastici o da creare associazioni: che però erano entrambi sforzi di tipo associativo strutturalmente di-
tehouse.gov? Come mai i politici italiani e di tutto il mondo gareggiano tra chi ha più contatti Facebook? Se vogliamo, è un po’ la stessa ragione per cui i politici hanno iniziato a debordare tra i vari Bagaglino e Domeniche In, pur imperversando già tra Tribune Politiche e Telegiornali. O perché ostentano il loro tifo sportivo: non solo facendosi vedere allo stadio, ma fondando addirittura club di tifosi a Montecitorio e palazzo Madama. O perché addirittura scendono in campo in maglietta e pantaloncini nella “nazionale politici”. Che è poi la stessa per cui Mussolini si faceva vedere a torso nudo mentre lavorava alla trebbiatura. O Saddam Hussein durante la guerra del Kuwait si mostrava a versare il sale e mescolare il pentolone della zuppa di agnello e ceci del rancio dei soldati.Voglia di visibilità ancora maggiore, e soprattutto ostentazione del condividere gli stessi gusti, passioni e problemi del popolo. Una recente ricerca dell’Università Sapienza di Roma indica in effetti che ha un profilo personale su Facebook il 29% dei deputati e senatori, il 33% dei sindaci, il 66% degli amministratori locali sotto i trent’anni. Per capire le dimensioni di questa moda: è evidente che il blog dovrebbe essere uno strumento molto più utile di Facebook, per chi deve portare avanti una battaglia politica. Ma solo il 13% dei deputati e senatori italiani ha un blog: meno la metà di chi ha un profilo Facebook. Ma se si obietta che però Facebook permette di avere un miglior rapporto con gli elettori, ecco qui un altro dato della stessa ricerca: solo il 55% dei parlamentari con un profilo Facebook negli ultimi mesi prima dello studio aveva interagito in qualche modo con gli utenti, e nel caso dei sindaci era solo del 53%, anche se poi tra i giovani amministratori cresceva al 68%. Insomma, sta crescendo una nuova generazione che ha un profilo su Facebook per la stessa ragione per cui possiede un’automobile, una televisione o un cellulare: perché non è esistenzialmente possibile starne senza. Ma molti degli utenti più anziani scambiano Facebook per una vetrina “statica”: errore che del resto si è fatto spesso anche per Internet. Ed è pure indicativo.
il caso
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Per il ministro Romani è «tutto rinviato fino alle decisioni della Ue». E Il Senato vota sì al blocco totale
Il boomerang nucleare «Lo stop serve solo a evitare il referendum: passata l’estate, l’esecutivo spera di riaprire la partita, dopo le verifiche europee. Ma ormai per gli italiani la questione è chiusa». Carlo Ripa di Meana boccia la furbizia del governo ROMA. Il freno a mano tirato dal governo potrebbe essere la pietra tombale sulle ambizioni atomiche dell’Italia. Ne è convinto Carlo Ripa di Meana, ecologista ante litteram e fine conoscitore della psicologia italica, che ha spiegato a liberal come le illusioni ambientaliste sulle rinnovabili non ci aiuteranno, sul breve periodo, ad avere una bolletta energetica meno salata. Finita la pausa di riflessioni sull’onda dello tsunami, il ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani, ha dato lo stop alle centrali nucleari in Italia, scatenando le polemiche sul referendum di giugno, dove gli italiani dovevano decidere, tra altri quesiti, sul destino dell’atomo. Martedì il governo, in aula al Senato, ha recepito un emendamento presentato da Francesco Rutelli e ha di fatto manifestato l’intenzione di fermare, con una modifica al decreto omnibus, il «piano nucleare». Trasformando così la moratoria di un anno, sul tema annunciata dopo il disastro di Fukushima, in una cancellazione dei programmi,
di Pierre Chiartano soprattutto per quello che riguarda la realizzazione di nuovi impianti.
«Se hanno pensato di fare una furbata, credendo di ritirare fuori l’argomento fra un po’, hanno fatto male i loro calcoli». È questo il commento a caldo di Carlo Ripa di Meana, ambientalista della prima ora, poi passato attraverso un lento ripensamento sull’utilità e la pericolosità del nucleare a uso civile. Oggi si occupa dell’associazione Italia Nostra e può guardare e giudicare con un certo distacco le vicende politiche nazionali. L’opposizione ha subito criticato la scelta della maggioranza. «Il governo vuole solo scappare dal confronto sul referendum» ha sottolineato, il segretario del Pd, Pierluigi Bersani. Ripa di Meana parte da lontano per spiegare come le scelte nucleari abbiano storicamente spaccato il Paese e i partiti. «Carlo Cassola, che amavo molto come scrittore, nel 1960, pubblicò La
Ragazza di Bube. Mi raccontò come uscì dal Partito comunista. Avendo vissuto a lungo a Volterra, dove insegnava, aveva bazzicato la sede del Pci di Grosseto. La sua passione politica terminò dopo una grande iniziativa che aveva organizzato contro il disarmo. Era un campione del pacifismo universale. Era oltre le guerre giuste o sbagliate, oltre ogni considerazione selettiva. Era per il no e basta. E tra i tanti no, c’era anche quello al nucleare: a
«Così si mette una pietra tombale sull’autonomia energetica»
lettere cubitali. Il segretario provinciale del Pci di Grosseto aveva dato una risposta a una sua domanda che allo scrittore non era piaciuta: s’impegna il Pci ad escludere qualsiasi utilizzazione militare e civile del nucleare?. “Caro compagno Cassola non posso risponderti, come tu mi chiedi, con un sì o con un no. Devo e voglio risponderti così: è una questione d’opportunità”. Cassola ruppe col partito. Nel pronunciamento di quell’oscuro funzionario
comunista, di oltre mezzo secolo fa, ritrovo il pronunciamento tattico del governo. Lo si sente lontano un miglio. Non lancia neanche una pietra. Mette una pietra tombale sul nucleare in Italia». La moratoria di un mese fa che chiedeva una pausa di riflessione sul futuro dell’energia nucleare sembra dunque essersi trasformata in un no definitivo.
Alcuni sono convinti che il ripensamento dell’esecutivo non sia figlio dell’effetto Fukushima ma bensì dell’effetto quorum referendario. Secondo la maggior parte dei sondaggi infatti, la consultazione referendaria del 12 e 13 giugno su nucleare, acqua pubblica e abrogazione della legge sul legittimo impedimento, avrebbe potuto raggiungere il quorum grazie al quesito sul nucleare, essendovi una forte maggioranza di elettori convinta e determinata ad andare alle urne per dire di no. «Ogni calcolo possibile è stato fatto senza tenere conto dell’umore degli italiani. Dopo il referendum del
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Tutto diventa oggetto di conflitti radicali. Anche a costo di cavalcare la paura
Su questa scelta ha pesato più Milano che Fukushima
Ancora una volta, dietro la decisione di Berlusconi non c’è un progetto ma solo la voglia di radicalizzare lo scontro. Come per la giustizia di Francesco D’Onofrio a complessa e tormentata vicenda della centrale di Fukuyama aveva prodotto in un primo tempo una vasta reazione di paura per l’uso del nucleare a fini energetici e, in un secondo tempo, un più vasto ripensamento complessivo sulla utilizzazione del nucleare per una compiuta definizione di politica energetica in generale. L’Italia viveva una stagione complessa proprio in riferimento al nucleare perché – come è noto – fin dal referendum del 1987 (certamente avvenuto nel contesto della esplosione della centrale di Chernobyl) si era in sostanza adottata una decisione apparentemente conclusiva, ma di fatto “pilatesca” perché non si smantellavano le preesistenti centrali nucleari, pur vietando apparentemente in modo definitivo l’autorizzazione alla costruzione di nuove centrali. Il lungo passare del tempo aveva finito con il far riemergere un dibattito proprio sull’uso del nucleare per la necessaria politica energetica italiana, nella convinzione che l’effetto Chernobyl si fosse andato sostanzialmente illanguidendo. L’emergere di una più generale tendenza alla cosiddetta green economy da parte del neo Presidente Usa, Barack Obama, aveva finito con il riattivare anche in Italia un dibattito sul nucleare capace di mettere insieme la pur contestata sicurezza delle centrali di prima e seconda generazione, e le modalità tuttora incompiute per quel che concerne lo smaltimento dei rifiuti nucleari medesimi.
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In questo contesto, il governo italiano aveva ritenuto di proporre una sostanziale politica nuclearista superando le obiezioni interne alla sua maggioranza parlamentare, e collocandosi in sintonia con diverse posizioni nucleariste presenti anche nelle opposizioni di governo e, quel che più conta, sostenute da autorevoli studiosi dell’atomo. Il passaggio, pertanto, da una prima reazione sostanzialmente di paura – conseguente al recente e devastante terremoto giapponese – alla formale adozione di una pausa di riflessione capace ora di giungere persino alla riproposizione del tema della sicurezza delle centrali nucleari in vista delle determinazioni non ancora assunte sulla ubicazione territoriale delle medesime. Questa ubicazione era stata fortemente contestata sino ad oggi da presidenti di Regioni di diverso schieramento politico, anche grazie alle nuove competenze regionali in materia di territorio e di ambiente. Non sorprende pertanto la recentissima decisione del governo italiano che ha colto al balzo l’occasione fornita proprio da un emendamento di una delle opposizioni parlamentari ed è conseguentemente passato dalla fase della
pausa di riflessione alla affermazione della necessità di ulteriori elementi scientifici acquisibili proprio sul tema della sicurezza delle centrali nucleari.
La razionalità complessiva di questa decisione va peraltro collocata all’interno di due questioni: l’una concernente il preannunciato referendum popolare tendente alla abrogazione in quanto tale della stessa legge di delega al gover-
Cultura scientifica e intelligenza politica dovrebbero convivere in caso di scelte così delicate per il Paese
no sul tema del nucleare; l’altra relativa all’imminenza delle elezioni comunali di Milano. Proprio in riferimento al risultato di queste elezioni, il presidente del Consiglio, che è anche capolista comunale del Pdl, aveva infatti affermato che il voto milanese ha un significato nazionale. Si è venuto pertanto a creare una sorta di corto circuito tra il referendum nucleare fissato al prossimo 12 giugno e il voto comunale di Milano che per quel che concerne il primo turno è previsto per i prossimi 15 e 16 maggio. La questione dell’energia nucleare non si pone infatti in termini di schieramenti politici di centrodestra o di centrosinistra perché – come è noto – il nucleare costituisce oggetto di opinioni fortemente divergenti all’interno di entrambi gli schieramenti. Il voto di Milano, invece, è anche in questo caso visto alla luce della elezione diretta del sindaco, che rende particolarmente significativo il compito di soggetti politici che non fanno capo all’uno o all’altro schieramento, proprio come è avvenuto nel caso del passaggio dalla riflessione conseguente a Fukuyama alla decisione di fare della sicurezza delle centrali nucleari una questione non soltanto nazionale.
L’intreccio ulteriore tra nucleare e giustizia, come risulta dal fatto che il referendum fissato al prossimo 12 giugno concerne anche quesiti referendari concernenti l’acqua e il legittimo impedimento, finisce pertanto con il saldare in termini politici il voto milanese con la decisione assunta dal governo italiano in riferimento alla costruzione di nuove centrali nucleari. Si tratta pertanto di un intreccio non conseguente ad una scelta di astratta razionalità scientifica, né ad un effettopaura conseguente a Fukuyama, ma di un fatto di evidente rilievo politico ed energetico allo stesso tempo. Cultura scientifica ed intelligenza politica sono pertanto necessarie contestualmente: la prima – in tempi anche più lunghi – dovrà essere posta alla base di una scelta definitiva sul nucleare nel contesto di una necessaria politica energetica nazionale non emotivamente motivata; la seconda – in tempi più brevi – dovrà essere dispiegata a Milano non meno che altrove, sapendo proprio che il voto di Milano sarà considerato in quanto tale di valore nazionale.
1987, dopo la stentatissima messa a punto di una ripresa del progetto, fatta con un lavoro pluridecennale, con i contributi di personaggi come Chicco Testa, Umberto Veronesi, Franco Battaglia e Sergio Romano, non c’è più molto da fare». Insomma, l’onda giapponese avrebbe cancellato ogni ”speranza” nucleare. Una componente essenziale su cui lo stesso Giappone ha costruito, nel Secondo dopo guerra, la propria fortuna economica. Ma che oggi mostra la corda. La variabile energetica scatena conflitti, spinge speculazioni e il passaggio in un solo decennio da un consumo mondiale quotidiano di 14 milioni di barili di greggio, agli attuali 84 milioni, non facilità i giochi per il presente e per il futuro. Ma il fattore psicologico non incide solo al Nymex di New York, la più importante piazza petrolifera del mondo, le cui dinamiche parossistiche rendevano il nucleare quasi auspicabile. Sicuramente accettabile per Ripa Di Meana.
«Fukushima ha riorganizzato in un battibaleno il fronte del terrore generico. Quello del grande fungo atomico. Oltre le intenzioni tattiche, con questa decisione penso che cada la pretesa dei membri dell’attuale governo di essere degli statisti. Si scivola nella mediocrità più totale. Non ci sono ragioni insuperabili. Anche se Giuliano Ferrara sul Foglio (ieri) afferma che sia accaduto qualcosa, le cronache dal Giappone non ci raccontano tecnicamente di un requiem per il nucleare. Neanche nelle relazioni più crude, si evincono prove sulla necessità di congedarsi dall’atomo. Questa è la mia opinione». Anche se, a sentire il ministro Romani, il governo ci spera ancora. «Il quadro di compatibilità nucleare in Italia potrà essere chiaro solo dopo» la riflessione in atto in Europa dopo l’incidente di Fukushima. «Questo è già un motivo ampiamente sufficiente per rinunciare oggi all’impostazione data nel 2009 e a rinviare una decisione così importante al chiarimento complessivo in sede europea». L’Italia dovrà lavorare per «il nuovo nucleare europeo», ha aggiunto il ministro. «La possibilità di estrarre petrolio dalle sabbie bituminose è molto costosa. E rinchiudersi nel primitivismo: nucleare sì o no, è miope – prosegue Ripa di meana – già l’ex ministro Alberto Clò, che non ha un pregiudizio antinucleare, è convinto che non sia solo una mossa tattica. Cioè schivare il referendum nella realtà non semplicissima che vive la maggioranza. Si vorrebbe disinnescare un voto ad alto rischio per il governo. È una grande scelta quella del tipo di rifornimento energetico. Per quanto la rigirino, la damigiana delle fonti rinnovabili non risolverà nulla, almeno in questo secolo».
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mondo
Dopo tre settimane di rivolte (e 200 morti), il presidente si sta rendendo conto che la linea di intransigenza non è più sostenibile
La Siria verso la svolta?
Assad lavora ai decreti per revocare lo stato di emergenza, abolire la Corte suprema della sicurezza dello Stato e regolamentare le manifestazioni di Antonio Picasso una concessione parziale quella del presidente Bashar el-Assad alle opposizioni. Da oltre 24 ore, si parla dell’avvenuta o meno abrogazione dello stato di emergenza. Molti osservatori sostengono che la legge marziale sarebbe, di fatto, ancora in vigore e che il rais starebbe cercando di formulare un norma alternativa. «Non esiste alcuna legge per abolire lo stato d’emergenza», diceva però ieri Haytham al Maleh, avvocato e fondatore dello Human Rights Association in Syria (Hras). «Per abrogare questo decreto presidenziale basta una decisione dello stesso presidente». Lo stato di emergenza è vecchio di 48 anni. Nel ’63, con la sua entrata in vigore, il partito Baath assunse il controllo del Paese. Sette anni dopo, Hafez el-Assad, la volpe di Damasco e padre dell’attuale presidente, si proclamò leader indiscusso del regime. Attraverso questa legge ha creduto di proteggersi da Israele e dalle sue eventuali operazioni di sostegno in favore della dissidenza.Visto inoltre che il potere è nelle mani della minoranza religiosa degli alawiti, Damasco ha ritenuto opportuno tenere sotto pressione la maggioranza sunnita. Lo stato di emergenza prevede che le forze di sicurezza intervengano in tempi record per limitare le libertà individuali e di riunione, oltre che le attività di lavoro, comunicazione e circolazione in tutta la Siria.
zione della Corte suprema per la sicurezza dello Stato. Quel tribunale speciale che finora ha fornito una legittimità ai massacri perpetrati dagli uomini delle forze speciali.Terzo e ultimo step, l’abrogazione dello stato di emergenza in sé. Il fatto che questo resti l’ultimo passaggio nella filiera delle opzioni da una parte conferma l’“indecisionismo” di cui è preda il governo, dall’altro permette alle opposizioni di dubitare della buona volontà di Bashar el-Assad. Del resto, su quest’ultimo è stato detto di tutto.
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Dopo più di tre settimane di manifestazioni e con oltre 200 morti, Bashar el-Assad si starebbe rendendo conto che la linea di intransigenza adottata all’inizio della crisi è insostenibile. D’altra parte, come fare per abrogare lo stato di emergenza e, al tempo stesso, sopravvivere alla rivolta? In sede tecnica, Assad e la sua coorte starebbero lavorando su tre progetti di legge. Il primo dovrebbe garantire la libertà di manifestazioni, «in termini pacifici e com’è già riconosciuto dalla costituzione del 1973», dice l’agenzia di Stato Sana. C’è da chiedersi come mai, se i cortei sarebbero costituzionalmente garantiti da quasi quarant’anni, solo adesso il governo voglia agevolarli. La seconda bozza prevedrebbe l’aboli-
Il presidente siriano Bashar Assad si appresterebbe a promulgare i decreti per la revoca definitiva dello stato di emergenza, in vigore ininterrottamente dal 1963, per l’abolizione della Corte suprema della sicurezza dello Stato, e per la regolamentazione delle manifestazioni
Alcuni pensano che non sia lui a muovere le fila del regime e che si limiti a essere una sorta di marionetta nelle mani del vecchio establishment paterno. Altri lo difendono sostenendo che la Siria, come tutto il Medioriente, ha i suoi tempi di reazione e che non bastano dieci anni - tanto è il periodo di presidenza di Bashar - per introdurre un sistema democratico. Riflessioni a cui è facile obiettare. Possibile che Assad come presidente, non disponga di una sua autonomia decisionale? Al di là delle tendenze riformiste, da lui nutrite, sempre promesse, eppure mai messe in opera, non si può non riconoscere al rais la propria quota di responsabilità per quanto riguarda i 200 morti di queste settimane. Peraltro, il fratello Maher el-Assad Maher, comandante della guardia presidenziale, è ben visibile in un filmato mentre assiste imperturbabile alla conta dei morti a Dara’a. Sarebbe ingenuo credere che i due non si parlino e non stabiliscano una linea comune per la repressione. Sul fronte della propaganda, il rais ha detto di essere vittima di un complotto esterno. Se all’inizio di aprile il regista di questa eventuale manovra appariva il solito acerrimo nemico israeliano, adesso l’indice accusatorio sembra essere orientato contro i salafiti. Il Baath insiste a negare che la rivolta del mondo arabo nasca da una frustrazione collettiva e spontanea, ispirata dai nuovi mezzi di comunicazione e condotta dalle nuove generazioni. La Siria nega che la sua rivolta possa essere associata a quella egiziana o tunisina. Tuttavia, dopo che da Israele è giunto il messaggio per cui meglio gli Assad piuttosto che un regime islamista, Damasco si è trovata
mondo
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Libia, istruttori italiani a Bengasi Anche Francia e Gran Bretagna ne invieranno 10 a testa. Sarkozy: «Intensificheremo i raid» di Martha Nunziata a una parte la richiesta di “cessate il fuoco”, dall’altra l’assicurazione che l’Occidente è ancora, o forse di più, a fianco dei ribelli. Quella di ieri potrebbe essere stata una giornata cruciale per gli sviluppi della guerra in Libia, anche se la realtà la conosceremo, forse, solo tra qualche giorno. Intanto, però, Mustafa Abdel Jalil, il capo del Consiglio Nazionale Transitorio che amministra le aree liberate della Cirenaica, è stato ricevuto all’Eliseo dal presidente Sarkozy, dal quale si è sentito rassicurare sul fatto che Parigi intende intensificare ulteriormente i raid aerei contro le forze fedeli a Gheddafi. Lo stesso Jalil, reduce da un’analoga missione in Italia, si è impegnato a costruire una vera democrazia in cui, ha sottolineato, il capo dello Stato salga al potere «attraverso le urne, e non in cima alla torretta di un carro armato».
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L’Italia, invece, sulla scia di iniziative analoghe di Francia e Gran Bretagna, ha deciso l’invio in Libia di 10 istruttori militari. Una decisione assunta «dopo un colloquio tra il premier Berlusconi e David Cameron», come ha spiegato il ministro della Difesa La Russa, dopo l’incontro con il suo omologo britannico, Liam Fox, che ha elogiato l’Italia per il comportamento tenuto finora nel quadro complessivo della crisi libica, criticando, al contrario, pur senza mai nominarlo, il costretta ad accusare altri avversari. E qui siamo all’estremizzazione del paradosso. La Siria sembra implicitamente vicina a Israele e combatte quelle rivolte che l’Iran, invece, sta salutando come un risveglio islamico ispirato dalla rivoluzione khomeinista del 1979. I salafiti stanno assumendo il ruolo di capro espiatorio. Nel suo discorso del 30 marzo, Assad aveva messo in guardia contro la “fitna”, la discordia tra le diverse fazioni etniche e religiose. Damasco teme di cadere nel baratro della guerra civile. Il regime, tuttavia, chiamando in
governo tedesco. «Davanti alla crisi in Libia - ha detto Fox - c’è in Europa chi è incline a parlare e chi ad agire». Quella assunta dal governo italiano, ha spiegato La Russa, è una scelta importante per andare incontro alle richieste degli insorti libici, che «sono giovani desiderosi di battersi per la causa, ma non hanno le necessarie capacità», ha aggiunto il ministro, precisando che esperti italiani «andranno là dove ci sono le condizioni di sicurezza per fornire il nostro know-how e consentire di contrastare un esercito che, invece, è professionale». Il premier britannico Cameron era stato il primo ad annunciare l’invio di una decina di propri consiglieri militari in Libia, mentre una nota dell’Eliseo ha reso pubblica, poche ore dopo, la decisione della Francia di spedire a Bengasi un ristretto gruppo di ufficiali di collegamento. Membri delle forze armate francesi, ma con il compito di «fornire consulenze e assistenza dal carattere essenzialmente tecnico, logistico e organizzativo», ha precisato il portavoce governativo, Francois Baron, e per «rafforzare la protezione della popolazione civile» e migliorare la distribuzione degli aiuti umanitari. Nessuna azione militare diretta, comunque, a
causa la fronda salafita, persiste nella sua strada del divide et impera. In qualità di espressione, sebbene parziale, degli alawiti, cerca di conservare l’appoggio dei cristiani, minoranza ricca ma polverizzata in troppe chiese. Ma soprattutto spacca in più parti il mondo sunnita, cercando di scremare i moderati dal fondamentalismo. A quest’ultimo, infine, verrebbe associato il sostegno esterno dell’ex vice presidente, Abdel Halim Khaddam e del generale Hikmat Shehabi, già capo di stato maggiore. Entrambi, dopo aver seduto alla destra del rais,
cui il governo d’oltralpe sottolinea di essere contrario, fatta eccezione per i raid aerei. Intanto, però, il regime di Gheddafi continua a stringere la morsa su Misurata e lungo la linea del fronte che va da Agedabia a Marsa elBrega: un’azione durante la quale sono state utilizzate anche le famigerate bombe a grappolo, il cui utilizzo è stato duramente stigmatizzato dall’Onu.
Un paese dove stupri di gruppo, artiglieria contro i civili, bombe a grappolo sono ormai all’ordine del giorno. In un comunicato stampa diffuso nel primo pomeriggio di ieri, infatti, l’Alto Commissario Onu per i Diritti Umani, Navi Pillay «ha condannato l’uso delle armi conosciute come bombe a grappolo» precisando che «attacchi del genere, in aree urbane densamente popolate potrebbero violare il diritto internazionale ed essere ricondotti a crimini contro l’umanità» e ha rinnovato il suo appello affinché si ponga fine alla guerra civile che sta dilaniando il paese nordafricano. Nel frattempo il governo libico, o ciò che resta di esso, prosegue nel tentativo di spezzare l’isolamento internazionale e di presentare proposte proprie per la soluzione della crisi. In un’intervista concessa alla Bbc, infatti,
Jalil, il capo del Consiglio Transitorio che amministra le aree liberate della Cirenaica, è stato ricevuto all’Eliseo
sono caduti in disgrazia e ora, dall’esilio, si ingegnano per mettere i bastoni fra le ruote del regime. Senza poi contare il supporto economico degli Usa, come sostiene Wikileaks. Se fossimo di fronte a un paziente di psichiatria, potremmo parlare di soggetto schizo-paranoide. Del tipo: «Non sono io, come dittatura, a fare del male, sono gli altri che mi odiano».
In questo modo, gli Assad dimenticano ancora una volta che è la piazza siriana la vera responsabile della rivolta e che se qualche agente esterno sta
il ministro degli Esteri libico, Abdul Ati al-Obeidi, ha affermato che, se cessassero gli attacchi alleati, sarebbe anche possibile andare alle urne «dopo sei mesi» e «con la supervisione dell’Onu». Una dichiarazione che l’emittente pubblica del Regno Unito ha interpretato come un’esplicita richiesta di fermare i raid aerei e intavolare un abbozzo di trattativa politica. Gli Usa pensano sia arrivato il momento di chiudere la partita, trattano per trovare un Paese che accolga il raìs in esilio. Il presidente del Sudafrica Zuma, che ha tentato una mediazione tramite l’Unione africana, ha chiamato il rais. Mistero fitto sul contenuto della telefonata: molti sperano che Zuma abbia offerto al rais ospitalità.
A fronte di tali velate aperture, rimane la facciata più arrogante e appariscente della gerarchia al potere: il secondogenito di Gheddafi, Saif elIslam, è tornato a ripetere di essere molto ottimista sull’evoluzione della guerra. Alla fine, ha detto: «Saremo noi a vincere». La realtà, in ogni caso, è che la guerra lampo, prospettata dalla coalizione, si sta prolungando in una lunga agonia, senza vinti né vincitori. Il numero dei morti è arrivato a 10mila, quello dei feriti a 50mila; e in massima parte si tratta di donne e bambini. Sono loro, da qualunque angolazione la si guardi, le vere vittime di questa guerra.
cercando di cavalcarla si tratta solo di una strumentalizzazione. Per dovere di cronaca, però, bisogna ricordare che, forse, qualche segnale di apertura dai palazzi siriani si può intravedere. Sempre ieri, in antitesi con i tentennamenti sull’abrogazione dello stato di emergenza, è stato arrestato un ufficiale responsabile delle violenze di Banjas. Si tratta di Amjad Abbas. Nel frattempo, il rais ha riconosciuto la cittadinanza siriana a 120mila curdi, apolidi fin dai tempi dell’ultimo censimento, celebrato nel ’62. Si tratta di due gesti con cui il regime
vorrebbe tenere a bada la popolazione. Ciononostante, il contemporaneo arresto del dissidente Mahmoud Issa lascia pensare che Damasco non sia effettivamente intenzionata a cambiare passo. Issa è stato fermato perché aveva formulato illazioni in merito all’omicidio del generale Abdo Khodr al-Tellawi, massacrato da mano ignota due giorni fa, insieme ai suoi due figli e a un nipote. Le autorità parlano di un’esecuzione perpetrata da «un gruppo di bande armate». Ennesima reticenza nelle comunicazioni da parte del governo.
cultura
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Da “Stasera alle undici” a “Cose dell’altro mondo”, da “L’albergo degli assenti” a “Traversata nera”: il modello sono sempre gli Stati Uniti
E l’Italia diventò un giallo Negli anni Trenta, i primi tentativi del genere poliziesco al cinema. Tra imitazione e parodia di Orio Caldiron o strepitoso inizio di Giallo (1934) di Mario Camerini, con lui e lei che si abbracciano furtivamente nel treno durante la notte, mette in scena esplicitamente il meccanismo della rappresentazione teatrale avviando ironicamente il rapporto tra finzione e realtà che è al centro del film. Si tratta di un divertissement a spese della moda del giallo.
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Nel raccontare la storia di Giorgio (Sandro Ruffini), di sua moglie Henriette (Assia Noris) e del giovane conte Amati (Elio Steiner) - dalla finta aggressione alla scoperta dell’omonimia del marito con un terribile assassino, a tutta una serie di
dell’indagine, il brivido del pericolo che fanno scattare il meccanismo del giallorosa, in cui il gioco di specchi è portato all’estremo. L’ipoteca teatrale si ritrova anche nell’attività di Raffaello Matarazzo, che s’incontra per la prima volta con il genere in Il serpente a sonagli (1935), sceneggiato da Guglielmo Giannini. L’anonima Roylott (1936) riprende l’ambientazione similamericana di una commedia dello stesso Giannini. L’attenzione agli stereotipi dal poliziotto con i piedi sulla scrivania alla segretaria seduta sulle ginocchia dell’avvocato, dalla telefonista in panne alle dattilografe curve sulle macchine da scrivere, dal chiassoso piano bar alla buia cabina te-
La tentazione di mettere in scena l’America rifacendo il verso alle tipologie di un cinema d’azione popolare e riconoscibile come quello hollywoodiano, è molto forte in diversi film dell’epoca strane coincidenze - il regista non fa vera e propria satira, e tanto meno la «satira giallissima» promessa dalla pubblicità, ma punta tutto sulla parodia. Squisito giallo per ridere, il film è tratto molto liberamente da L’uomo che ha cambiato nome, la commedia di Edgar Wallace del 1928. Nessuno paga allora i diritti per la versione cinematografica, ma il finale con Sandro Ruffini che legge di nascosto un supergiallo di Wallace per raccontarlo come una sua avventura alla moglie sembra chiedere scusa e rivolgere un piccolo omaggio al maestro inglese del brivido. La sceneggiatura è firmata da Camerini con Mario Soldati che, di ritorno dagli States, è pronto a mettere a frutto la sua conoscenza del modello americano, anche prendendone le distanze attraverso il capovolgimento ironico. Soldati e Camerini ci riprovano sceneggiando Stasera alle undici (1937) per Oreste Biancoli. L’appassionata di gialli è anche qui la moglie insoddisfatta, frustrata, sognante. Un cliché che incontra un altro cliché nello scenario incantato delle rêverie amorosa? Solo fino a un certo punto, perché sono ancora una volta l’eccitazione dell’avventura, il piacere
lefonica - non esclude il senso plastico dell’immagine, segnato da cupe ombre espressioniste. Nel film si danno appuntamento i due mattatori del palcoscenico giallo, Romano Calò e Giulio Donadio, il volto raziocinante e il volto passionale del poliziesco anni Trenta.
La tentazione di mettere in scena l’America, di rifare il ver-
so alle tipologie di un cinema d’azione popolarissimo e riconoscibile come quello hollywoodiano, è molto forte anche in altri film del periodo che raccontano strabicamente l’“altro mondo”, prendendosi libertà impensabili in questo, come avviene in Cose dell’altro mondo (1939) di Nunzio Malasomma ambientato nelle prigioni-modello americane, dove i detenuti entrano e escono tranquillamente. Joe il rosso (1936) ripropone la commedia già collaudata a teatro, scritta su misura per Armando Falconi che incarna una variante del collaudato personaggio del rubacuori. Il gangster-detective mette in moto una scombinata ma accattivante parodia del giallo e dei suoi classici rituali che s’impone proprio per la disarmante freschezza artigianale con cui volge in caricatura i modelli americani. Come in un cannocchiale rovesciato, la presa in giro dei miti dell’american way of life, almeno di quelli che più frequentemente si riflettono sullo schermo, si risolve nella caricatura dei tic, delle manie, degli scheletri nell’armadio di un mondo di aristocratiche apparenze. L’albergo degli assenti (1939), che comincia e finisce come una commedia mondana, contamina giallo e fantastico, horror e grottesco. Renata (Paola Barbara), rapita al posto della ricca ereditiera di
cui è la dama di compagnia, si risveglia nell’universo claustrofobico di uno strano albergo con porte e finestre murate, da dove nessuno è mai uscito vivo. Il clima misterioso cresce su se stesso, mentre si moltiplicano i segnali inquietanti che fanno lievitare l’insolito.
Se gli altri ospiti sono un campionario di caricature, la banda che regge le fila è una repellente corte dei miracoli all’insegna dell’esagerazione. Quando la protagonista si aggira nei meandri dell’albergo inseguita dalla propria ombra, il film è al meglio e attraversa con disinibita efficacia la soglia
Tutto il “noir” in un libro Nei primissimi anni Trenta la via italiana al“giallo”passa per il teatro. Se si esclude qualche timido tentativo all’indomani dell’avvento del sonoro - da Corte d’Assise (1930) di Brignone a L’uomo dall’artiglio (1931) di Malasomma - l’anno uno del giallo italiano è il 1933, l’anno di II caso Haller di Blasetti, Il trattato scomparso di Bonnard, Il treno delle 21.15 di Palermi, tutti e tre da testi teatrali. Accanto alla prima collana mondadoriana «I Libri Gialli» nata nel ’29, nel ’33 prendono il via «I Gialli Economici». L’anno prima era nata la Compagnia Spettacoli Gialli di Romano Calò. Nel ’34 anche Donadio dedica al teatro giallo la sua compagnia, con cui mette in scena polizieschi italiani e stranieri. È uscito da poco Giallo & thrilling all’italiana (1931-1983) di Bruschini e Piselli (Glittering Images, Firenze, 2010, pagine 110, euro 29) che prende il via dai film degli anni Trenta per arrivare alla esplosione del giallo sexy dagli anni Sessanta in poi con un ampio apparato iconografico di foto di scena, locandine e flani d’epoca.
cultura
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
tativi di rimettere in moto il meccanismo di base del racconto criminale, più che la formula nuova dell’avventuroso moderno annunciata dalla pubblicità. Il significato dell’impresa non sfugge a Cesare Zavattini: «Abbiamo bisogno soprattutto di sollecitare l’immaginazione, di abbandonare per qualche tempo in un’isola deserta Elsa Merlini. Immaginazione, viva l’immaginazione. Evviva il crepitio delle mitragliatrici, l’urlo nel buio, gl’inseguimenti delle automobili, ma cerchiamo i volti fuori dal teatro, gente che si sporchi di fango e di olio senza paura. In tutto il film Cialente non si scompone un ricciolo. O anima di Salgari, fa ch’egli si trovi una notte davanti a un thug: vedremo i suoi lineamenti sconvolti, finalmente, dal terrore vero». Il romanziere a grande tiratura appare di persona in Brivido (1941) e Cortocircuito (1943) di Giacomo Gentilomo, divertenti commedie giallorosa che sanno dosare gli ingredienti in modo che la presa in giro non ammazzi l’indagine. Quando l’abi-
mito dell’altrove, è ancora una volta la città delle avventure incredibili, piena di delitti capricciosamente assurdi. Se c’è chi rimescola le carte per confondere lo spettatore, qualcuno riprende pari pari il modello del giallorosa, alla mitica coppia di Nick e Nora Charles, per non parlare del rough-terrier Astra, protagonisti della serie inaugurata da L’uomo ombra (1934) di Van Dyke: è il caso di Validità giorni dieci (1940) di Camillo Mastrocinque, con Laura Solari e Antonio Centa. Il più sfacciato nel rifare il verso al cinema d’oltreoceano è Grattacieli (1943) di Guglielmo Giannini, che mette in scena un’America che più finta non si può, nonostante la volenterosa topografia newyorchese e la facile onomastica piena di Flynn, Millstone, Wingham, Manners, Brick, Williams, Stoll. Al gangster movie si rifà esplicitamente Harlem (1943) di Carmine Gallone, che culmina con il match al mitico Madison Square Garden tra il campione italiano Massimo Girotti e l’imbattuto pugile di colore Charles Lamb,
Il più sfacciato nel rifare il verso al grande schermo d’Oltreoceano è “Grattacieli” di Giannini, che mette in scena un’America che più finta non si può, nonostante la volenterosa topografia newyorchese dell’incertezza, in bilico tra mistero e svelamento. Chi passa il testimone tra muto e sonoro è Domenico M. Gambino, il popolare Saetta dei serial silenziosi, che realizza uno dietro l’altro Lotte nell’ombra (1938), Traversata nera (1939), Il segreto di Villa Paradiso (1939), mediando a suo modo tradizione nazionale e stile hollywoodiano. I film sono regolarmente stracciati dalla critica ma costituiscono un caso proprio perché si collocano al grado zero della scrittura cinematografica, mescolando con grande disinvoltura spie internazionali, agenti segreti, colonnelli col monocolo, inventori celebri, castelli solitari, stazioni radio, alberghi di lusso, bar americani, tavoli da bridge, commissari scemi, panfili, motoscafi, scene di torture, automobili che si trasformano in bare.
le stratega delle intricate trame poliziesche si agita a vuoto nel suo studio tra le schedature dei grandi casi criminali, il gioco si fa scoperto, anche perché Umberto Melnati, sguardo sornione e voce in falsetto, è impagabile. Se in Brivido l’omicidio avviene addirittura al piano di sopra, in Cortocircuito è la realtà
Nella sua ingenuità, il cinema di Gambino serve a ricordarsi che c’era una volta il giallo italiano e che bisogna cercarlo nell’universo limaccioso del feuilleton, nelle imprese sciagurate di Za la Mort, nelle acrobatiche avventure degli Uomini Forti, nei melodrammi imparentati strappalacrime con le dispense d’appendice. Come dire nella memoria storica di un giallo all’antica italiana che nasce fortemente ibridato, tra ridondanze romanzesche e inattese folgorazioni. Quanto ai film, altrettante girandole di rivoltellate, corse, cazzotti, sono soltanto dei ten-
a copiare la fantasia per ingarbugliare ancora di più la matassa e mettere lo scrittore-detective alla prova. La formula del giallorosa richiede la scorrevole disinvoltura, il garbo discreto di chi conosce i meccanismi e i tempi delle macchinette, oliati marchingegni dal cuore d’acciaio che vanno a segno senza incepparsi o cigolare.
l’idolo di Harlem, uno scontro da applauso. Naturalmente, Gallone è più bravo di Giannini, ci vuole poco, ma l’intento propagandistico prevale, mentre lo sfondo pesca a piene mani tra le convenzioni del cinema hollywoodiano. Irresistibili la dark lady di Elisa Cegani e il gangster di Osvaldo Valenti.
Nella diffusa imitazione finto-
Come avviene nei telefoni bianchi dello stesso periodo, girati nel quartiere Coppedè a Roma, anche i due film di Gentilomo sono ambientati a Budapest, una Budapest brillante, spensierata, drammatica. Città-
americana, si impone anche un modello diverso, contrassegnato dalle sottolineature ambigue se non morbose: il modello francese, che qualcuno chiama addirittura il mal francese. Stasera niente di nuovo (1942) e Labbra serrate (1942), gli ultimi due capitoli dei mattoliani film che parlano al vostro cuore, tra scene forti e appuntamenti fatali, si richiamano al cinema d’oltralpe, senza escludere il melodramma e il thriller giudiziario, in un clima di disinibita contaminazione e di gusto dell’accumulo, mentre la fotografia insiste nelle tonalità plumbee e le zone d’ombra. Sarà un caso, o forse no, ma Aldo Tonti, operatore anche di Stasera niente di nuovo, firma con Domenico Scala la fotografia di Ossessione (1943) di Luchino Visconti, il film che volta pagina, riportando in primo piano la trasgressione criminale senza di cui il meccanismo poliziesco non si mette neppure in moto. Il giallo è pronto a fare sul serio, a ritrovare il rapporto con il mondo senza pietà dove anche il paradiso è nero e gli uomini sono nemici.
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ULTIMAPAGINA
Il governo di Delhi sbaglia e mette su un sito ufficiale una cartina nazionale che taglia la regione contesa
E l’India “regalò” (per errore) 21 ottobre una lunga fila di camion carichi di frutta fresca e secca e miele aveva lasciato Salamabad, nel Kashmir indiano, in direzione della frontiera con il Pakistan, salutato dalla folla e dalle autorità locali.
di Vincenzo Faccioli Pintozzi l Kashmir, regione montuosa al centro dell’Asia meridionale, è una regione contesa tra Pakistan, India e Cina. Si tratta di una zona non particolarmente ricca, ma estremamente strategica per lo spostamento di mezzi e uomini (da intendere come soldati) in caso di guerra o di difesa. E da decenni le tre nazioni si combattono l’un l’altra per rivendicarne la sovranità. Certo è che la causa indiana non sembra andare nella direzione migliore, se persino un sito governativo mette online una mappa che “regala” il territorio agli altri due contendenti. È accaduto al Direttorio per la coordinazione della polizia indiana, che nel sito https www.dcpw.nic.in ha mostrato una cartina che “taglia” dal territorio nazionale il Jammu e il Kashmir. La mappa sembra essere una copia esatta di quella pubblicata dal sito della statunitense Central Intelligence Agency, la famigerata Cia, che si beccò una reprimenda niente male da Delhi per la svista. Per entrare nello specifico si può dire che a sparire sono state sia il Gilgit Baltisan, area settentrionale del Kashmir, e l’Aksai Chin. Il primo è stato occupato militarmente dal Pakistan durante la guerra del 1948, mentre la Cina ha il controllo fattuale del secondo – che si trova a est di Ladakh – sin dalla guerra del 1962.
I
Il Direttorio, per ora, non commenta: ma l’errore ha scatenato una ridda di polemiche nel Paese che riecheggiano quelle dello scorso agosto, quando fu Google a regalare al Pakistan e alla Cina il Kashmir. Fino allo scorso Ferragosto, cliccando sulla mappa del continente indiano per ampliarla con la funzione Google Insights for Search, appariva una cartina dell’India mutilata. Le autorità di Nuova Delhi avevano segnalato il grave errore a Google India, che era incappata nell’errore per la seconda volta. Qualche mese prima era stato Google Analytics, uno strumento di statistiche per siti web, a mostrare una mappa simile con il Kashmir nel territorio del Pakistan. Eppure, quanto meno per quanto riguarda i rapporti fra Delhi e Islamabad, la questione del Kashmir sembra sulla strada di una risoluzione pacifica. La svolta era avvenuta il 21 ottobre del 2008, giornata storica per India e Pakistan
Dal fronte opposto, nella tarda serata, erano giunti mezzi contenenti riso e sale. La riapertura della via del commercio è parte integrante degli accordi di pace del 2004 fra Pakistan e India, che rivendicano entrambi il controllo del Kashmir; essa costituisce un ulteriore passo in avanti per la normalizzazione dei rapporti fra i Paesi sebbene, nelle settimane precedenti la riapertura, si erano verificate diverse schermaglie fra i rispettivi eserciti lungo il confine. Lungo la linea di controllo sono già stati attivati dei collegamenti ferroviari e delle tratte percorse da autobus di linea; la ria-
IL KASHMIR Il passo montuoso, l’accesso al mare e le rotte commerciali sono nel mirino anche della Cina, che da anni cerca di mantenere con le armi l’occupazione di una parte che, a 60 anni dalla guerra del 1947-48, avevano deciso di comune accordo di riaprire la Linea di controllo e ripristinare la vecchia “via del commercio” nella zona di confine del Kashmir. L’area, al centro di un conflitto decennale fra i due Paesi, era rimasta chiusa per 58 anni e solo nel 2005 si era cominciato a parlare di una parziale apertura in cinque diversi punti, in seguito ai primi accordi di pace sottoscritti l’anno precedente.
La strada, lunga oltre 170 chilometri, collega Sringar nel Kashmir indiano a Muzaffarabad, sulla sponda pakistana; i due fronti sono uniti dal cosiddetto “Ponte della pace”, Aman Setu nella locale lingua kashmiri. Pur fra ingenti misure di sicurezza, la mattina del
pertura al commercio privato serviva per garantire un traino per l’economia, con un giro di affari ipotizzato dagli analisti che potrebbe sfiorare persino quota 6 miliardi di dollari in caso di completa liberalizzazione. Lo scambio di prodotti odierno, infatti, è visto solo come il primo passo di un lungo processo che porterà al rafforzamento dei commerci bilaterali. I camion in partenza per il Pakistan erano decorati con bandiere e scritte che inneggiavano a una “Lunga vita per il commercio tra i due fronti” e l’auspicio era che una volta per tutte i rapporti fra le due potenze nucleari dell’Asia del sud possano diventare “più amichevoli”. Per l’India, inoltre, l’apertura della frontiera aveva costituito una via di accesso immediata non solo al mercato pakistano, ma anche al bacino dell’Asia centrale e dei Paesi del Golfo. Speranze di breve durata. Da allora a oggi, la regione è tornata ad essere teatro di provocazioni e scontri, attentati e rivendicazioni nazionaliste. Troppo importante, per ora, ottenere sbocchi sul mare e rotte commerciali. E Pechino, Delhi e Islamabad non hanno intenzione di cedere. “Regalare” la zona per un errore burocratico è un autogol niente male.