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BUONA PASQUA AI NOSTRI LETTORI CI RIVEDIAMO IN EDICOLA MERCOLEDÌ PROSSIMO
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 23 APRILE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Riesplode la polemica. Anche la Lega dice: «Se sarà eletto, dovrà lasciare». Ma nessuno può obbligarlo
Milano non è Arcore
Nuova lite Lassini-Moratti. La città ormai è ridotta a retrovia del Pdl L’autore dei manifesti: «Berlusconi mi appoggia, non mi dimetterò». Il sindaco: «Non se ne parla». Ma la Santanchè: «Non decide lei». La “capitale morale” sempre più ostaggio di una lotta fra bande LABORATORIO PER IL PAESE
LA SINDROME CENTRISTA
Aprire una fase nuova
Anche stavolta, Destra e sinistra: da lì la storia l’ossessione può cambiare del Terzo Polo
Basta giochi, ci vuole una Costituente
di Savino Pezzotta
di Giancristiano Desiderio
di Enrico Cisnetto
e elezioni per il rinnovo del Consiglio Comunale di Milano hanno ormai assunto una dimensione politica nazionale, che rischia di far passare sottotraccia i problemi della città e dell’hinterland. È vero che le elezioni comunali di Milano hanno sempre avuto una risonanza nazionale ma, tradizionalmente, tendevano a concentrarsi sulle dimensioni urbane con la convinzione che “ciò che era bene per Milano lo era per il Nord e per il Paese”. segue a pagina 3
ilvio Berlusconi e Walter Veltroni hanno qualcosa in comune: l’ossessione per il Terzo Polo. Il primo lo vorrebbe cancellare attraverso un’operazione elettorale spacciata per riforma-stabilizza-sistema che, invece, stabilizzerebbe solo il governo da qui all’eternità. Il secondo lo vorrebbe suo alleato insieme con tutto quanto c’è a sinistra nell’unico intento di battere l’odiato Cavaliere, liquidarlo e quindi tornare a dividersi secondo la vecchia logica bipolare. a pagina 2
a strampalata proposta di legge di modifica dell’articolo uno della Costituzione presentata dal deputato Pdl Ceroni, e le indiscrezioni circa l’intenzione del centro-destra di modificare la legge elettorale al Senato, sono solo gli ultimi di tanti segnali che la “maionese impazzita” della politica italiana possa generare pericolosi cambiamenti delle “regole del gioco”. Mostruosità giuridiche e forzature politiche che vanno evitate, non solo in nome dell’antiberlusconismo. a pagina 5
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Parla l’economista Marco Vitale
«Solo la rivolta dei milanesi può battere le corporazioni» «Da donna indipendente che era all’inizio, ora Letizia è diventata come una dei dipendenti del premier» Errico Novi • pagina 4
Il Cavaliere: «Noi, generosi con i profughi». E Sarkozy: «Sospendiamo Schengen»
Siria in piazza: sangue a Damasco Centinaia di soldati del raìs si consegnano alla frontiera tunisina L’Europa “senza valori”
L’avanzata della destra è colpa del Ppe di Rocco Buttiglione n un editoriale sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia osservava che in Europa si è creato uno iato crescente fra le elite dirigenti ed il popolo.
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di Pierre Chiartano
Più attacchi, o sarà un nuovo Vietnam
ROMA. Mentre la Siria si infiamma con decine di morti anche a Damasco, in Libia scoppia la guerra dei droni. Gli Stati Uniti hanno iniziato ad usare Uav armati contro i soldati di Muammar Gheddafi, che combatte i ribelli per le vie di Misurata, malgrado l’Occidente minacci di intensificare la guerra che dura da un mese. E che qualcosa stia cambiando lo annuncia anche la fuga in massa di militari del rais. Intanto, se in Italia Berlusconi dice «Siamo stati generosi con i profughi», in Francia Sarkozy pensa di sospendere Schenghen. a pagina 8
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
di John R. Bolton oloro che si opponevano alla guerra del Vietnam – un conflitto che sembrava infinito, senza conclusione logica, sempre più impopolare, sempre più mortale e sempre più costosa – la chiamavano “il pantano”. Dicevano che era una guerra che non si poteva vincere e che non si sarebbe mai dovuta combattere; e aggiungevano che in futuro gli Stati Uniti avrebbero dovuto evitare simili guerre. Oggi, il nostro reale rischio di “pantano” è la Libia. a pagina 9
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NUMERO
79 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
la polemica
prima pagina
Gli insulti del premier e le proposte di Veltroni
pagina 2 • 23 aprile 2011
Destra, sinistra e l’ossessione del Terzo Polo di Giancristiano Desiderio ilvio Berlusconi e Walter Veltroni hanno qualcosa in comune: l’ossessione per il Terzo Polo. Il primo lo vorrebbe cancellare attraverso un’operazione elettorale spacciata per riforma-stabilizza-sistema che, invece, stabilizzerebbe solo il governo da qui all’eternità. Il secondo lo vorrebbe suo alleato insieme con tutto quanto c’è a sinistra nell’unico intento di battere l’odiato Cavaliere, liquidarlo e quindi tornare a dividersi secondo la logica bipolare. E il Terzo Polo? È fedele alla sua posizione “terza”e si oppone all’escamotage berlusconiano che cancella per decreto la cultura moderata e i suoi rappresentanti, ma non sposa l’idea veltroniana della sacra unione contro Berlusconi per toglierselo dai piedi una volta per tutte. Come a dire che ci sono anche altri modi per fare le scarpe a Berlusconi. Ma, al di là dell’alleanza, ciò che conta è l’autonomia della cultura moderata che, dai rappresentanti politici agli interpreti liberali, tutti hanno il dovere di accrescere e conservare come un bene utile per la vita della democrazia.
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il fatto L’autore dei manifesti: «Non mi dimetto, Berlusconi è con me». E riesplode la polemica
Uno scontro tra valvassori
L’ossessione - amore-odio - per il Centro è la più manifesta dimostrazione della crisi di sistema e di idee del bipolarismo. Se c’è una cosa di cui gli schieramenti di una democrazia dell’alternanza non possono fare a meno questa è la consapevolezza della propria forza ideale e materiale che riposa su interessi e valori bipartisan. In Italia accade il contrario: i due schieramenti sono perennemente, per dirla con Manzoni, “l’un contro l’altro armati”. Sono divisi da tutto e uniti da nulla. Lo scontro ideologico e antropologico di cui sono entrambi vittime è al contempo il loro ricostituente. Per utilizzare ancora un’immagine manzoniana possiamo dire che sono molto simili ai capponi di Renzo: litigano e si beccano mentre a entrambi verrà tirato il collo, ma, soprattutto, litigano e si beccano mentre condannano l’Italia all’immobilismo e al declino. Tanto che quindici anni addietro la democrazia dell’alternanza era l’orizzonte verso cui muoversi per uscire dalla Prima repubblica, oggi il bipolarismo ideologico è la palude da cui tirarsi fuori per sopraggiunto fallimento della Seconda repubblica.
Il Terzo Polo ha come sua caratteristica la lezione del fallimento del bipolarismo. Non nutre alcuna illusione di un “sistema”che dia agli italiani una democrazia sbloccata e considera più saggio muoversi sui problemi di governo: economia, lavoro, fisco, scuola. La fine della stagione bipolare porterà con sé inevitabilmente un riassetto di quello che un tempo si chiamava il “quadro politico”. Quando le danze si apriranno, il Terzo Polo suonerà la musica giusta. Ma per farlo deve stare alla larga ora dai due pericoli estremi: la elettoralizzazione e la cooptazione. Il primo caso, come sappiamo, è il tentativo di appropriarsi dei voti moderati mettendo mano al premio di maggioranza al Senato e portando i moderati nel berlusconismo; il secondo, anche qui come sappiamo, è l’idea di ricondurre la cultura moderata nell’alveo del antiberlusconismo con la grande alleanza da Fini a Vendola. Ma rispetto a questi due estremi, che sono tra loro speculari, il Terzo Polo non può che conservare la propria autonomia che è l’unica chance che gli italiani hanno per uscire da quella militarizzazione delle anime e delle loro teste pensanti che è stata diffusa da un bipolarismo nato male e cresciuto peggio. Sia Berlusconi sia Veltroni sanno che senza il Terzo Polo non si vince, ma i moderati sanno che sia con Berlusconi sia con Veltroni l’Italia è destinata a perdere.
Moratti, Lassini, Santanchè, la Lega: tutti con il premier ma in feroce lite tra di loro. Trattano la città come un proprio feudo e dimenticano i problemi dei milanesi di Riccardo Paradisi ilàn non l’è più semper Milàn. Anche i milanesi più irriducibili non ci credono più tanto che il cuore morale ed economico dell’Italia pulsi all’ombra della Madonnina.Tra risse politiche, divisioni interne, scandali Milano è una città provata. Non ha più la fiducia in se stessa di un tempo, sembra vivere lo stesso trauma che ha spaesato Bologna, l’altra città che ha smarrito la propria autostima con l’addio al buon governo e alla tradizione vera o presunta dell’amministrazione virtuosa. Eppure Milano, pur ammaccata, pur depressa, è ancora una volta cardine e pietra angolare della vita politica nazionale, stavolta più che mai.
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È qui che si giocherà infatti la sfida decisiva delle amminstrative, nella culla del berlusconismo, dove il premier, preoccupato, ausculta il polso della sua fortuna politica.“La Moratti non tira”ha detto il Cavaliere di fronte allo scarto rilevato da Euromedia tra la popolarità del sindaco uscente – attestata al 50,8 per cento – e il consenso alla coalizione delle liste che la sostengono, che potrebbe raggiungere il 52 per cento. Insomma non è detto che la Moratti possa farcela al primo turno. E il secondo turno per il centrodestra è un rischio fatale. Non solo perché i moderati tornano malvolentieri alle urne ma perché sul candidato di centrosinistra Pisapia – dato al 41 per cento di popolarità – potrebbero convergere i voti dei delusi e del terzo polo che presumibilmente lascerà libertà di coscienza ai suoi elettori. Non a caso nell’eventualità del ballottaggio i sondaggi prevedono addirittura la vittoria di Pisapia con il 52,4 per cento, contro il 47,65 della Mo-
ratti complice un’area di astensione e di non voto che si allarga fino al 46,5%. Sulla base di queste paure che serpeggiano nel centrodestra circola da giorni la voce che il sindaco uscente abbia speso per la sua riconferma a palazzo Marino cifre americane. Voce smentita dalla stessa Moratti che assicura come la sua corsa a sindaco non costerà più di quella del 2006, cioè circa sei milioni di euro e che quelle impiegate nella campagna elettorale sono ”risorse”proprie e non del partito. Quanto alle richieste di un faccia a faccia in televisione con gli altri candidati Moratti ha ricordato di avere già avuto un confronto nella sala del Premier affollata dagli scout dell’Agesci. Non si è trattato di un dibattito aperto a tutti, ma il sindaco ha sottolineato che in questi giorni si confronta ”con la città”e con i suoi cittadini. Comunque sia Berlusconi è deciso a calare su Milano il rullo compressore della sua presenza, aprendo una campagna elettorale totale e centrata sulla sua persona. Come nel suo stile presenterà l’inventario delle cose fatte nel capoluogo lombardo, cose concrete: nessuna tassazione ulteriore per i milanesi durante il governo di centrodestra degli ultimi cinque anni, niente addizionale Irpef, la bolletta dell’acqua più bassa d’Italia. E poi le promesse sulla città futura: liste d’attesa azzerate negli asili, raddoppio degli anziani assistiti a domicilio, operatori ecologici di quartiere, due milioni di metri quadrati di verde in più, cinque nuovi parchi, sue nuove linee di metropolitana entro il 2015. E poi poliziotti di quartiere, sgombero dei campi rom e via securitando. All’inventario della cultura del fare il Cavaliere salderà – ha già cominciato a farlo – nuovi attacchi alle “toghe rosse”e alla “magistratura politiciz-
lettera da Milano
A Milano può di nuovo cambiare la storia L’unica alternativa è quella centrista, nuova rispetto agli schieramenti inefficaci di Pd e Pdl di Savino Pezzotta segue dalla prima Oggi, con la diretta entrata in campo di Berlusconi che si candida a guidare la lista del Pdl in sostegno della Moratti, le problematiche della città e del territorio urbano vengono declassate a seconda questione. Credo che questo sia realmente un “vulnus”nei confronti della tradizione lombarda, che ha sempre fatto del municipalismo un elemento centrale. Non possiamo che prenderne atto, e prendere atto che con questa decisione il sindaco Moratti evidenzia tutte a debolezza del suo passato e futuro amministrativo. Spiace che invece di poter discutere della città, della sua vivibilità, dei suoi problemi, dell’integrazione, del lavoro saremo costretti a discutere d’altro. Dice Silvio Berlusconi, capolista del Pdl a Milano: «Dobbiamo vincere alla grande al primo turno. Milano è un test su di me». Discutere “su di lui” che cosa vuol dire? Che affronteremo i problemi dei suoi processi, di un Governo che non ha saputo affrontare la crisi economica lasciando che fossero le piccole e medie imprese lombarde ad “arrangiarsi”, del continuo ricorso alla Cassa integrazione e ai licenziamenti? Il tessuto produttivo milanese e lombardo è sotto stress e non sembra che le politiche (Def) diano da questo punto di vista delle prospettive e delle speranze. Le dichiarazioni di Berlusconi sono molto chiare: si deve con coraggio prenderne atto e sicuramente mettono a tacere coloro che impropriamente, come l’on. Urso , aveva dichiarato che il “terzo polo”al ballottaggio doveva schierarsi con la Moratti. A parte l’intempestività della dichiarazione, non si può essere all’opposizione di Berlusconi, avergli continuamente votato la sfiducia e contestare i suoi provvedimento e poi allearsi con lui a livello milanese. La sua entrata in campo preclude ogni possibilità di questo genere. Dunque, le elezioni amministrative milanesi diventano un test importante a livello nazionale. Lo sono soprattutto per la coalizione del Terzo polo, che presenta come candidato sindaco Man-
fredi. Si deve fare una “operazione verità” e mettere in campo un’idea riformatrice che faccia perno sulla città e sui suoi bisogni, che affronti in un ottica glocal la “vicenda Expo”, cercando di superare tutti i ritardi di cui si è fatta protagonista la giunta Moratti, la Provincia e la Regione.
C’è una questione di vivibilità ambientale e sociale della città, di come produrre processi di integrazione e di reale contrasto all’emarginazione. Serve che la tradizione riformista milanese torni ad animare la città, il dibattito e le speranze per il futuro. Sono convinto che la giunta Moratti abbia fatto il suo tempo e che abbia ormai perso ogni spinta propulsiva: non può incarnare i valori del centro una persona che si fa tirare la volata da Berlusconi e dalla Lega. E che pertanto non può essere il futuro di Milano. Servono proposte nuove, slegate dal passato ma aderenti alla dinamica urbana. Le elezioni milanesi per il loro valore politico pongono delle questioni che vanno oltre la vicenda meneghina. La Lega deve spiegare come mai, dopo aver proclamato il federalismo come risolutore di tutti i mali non vede la contraddizione tra il federalismo conclamato e la partecipazione diretta alle elezioni di ciò che più romano non c’è come il presidente del Consiglio. La vicenda milanese fa cadere molti slogan, ma poi mantiene con Roma rapporti “indissolubili” con i poteri forti. Come si fa a parlare di federalismo e poi essere complice con chi vuole importare a Milano i problemi romani? Forse anche per i leghisti è arrivato il tempo di porsi qualche domanda, ma di porsela con serietà e rigore. Il Pd aveva l’occasione di proporsi come una delle forze del cambiamento, ma non ne ha avuto il coraggio e ha preferito scegliere di attestarsi su schemi e paradigmi consolidati. Non si riesce a proporre qualche cosa di nuovo che possa andare oltre il consunto schema ulivista o di sinistra alternativa. Credo che questo sia un guaio perché rimanere ancorati, magari in forma inconscia, al modello della rigida contrapposizione bipolare finisce per
È necessario che la tradizione riformista meneghina torni ad animare la città, il dibattito e le speranze per il futuro
zata”che proprio a Milano, secondo il premier, ha la sua base operativa e il suo epicentro d’azione. Solo che ci son delle grane che al Cavaliere tolgono il sonno.
Il caso Lassini anzitutto. Il Cavaliere lo avrebbe volentieri derubricato e fatto dimenticare, invece lei, Letizia, s’è impuntata a non volerlo in lista l’attacchino dei manifesti che paragonano certi magistrati a brigatisti. Il contenzioso è ancora aperto soprattutto sul destino di Lassini. Resta in lista o no? La Moratti assicura che l’incidente è chiuso ma il candidato del Terzo Polo Manfredi Palmeri, presidente del Consiglio comunale di Milano, è sicuro del contrario. «La Moratti continua a ripetere la cantilena che il caso Lassini è chiuso, perché non sa o non vuole affrontare la questione con coraggio e chiarezza. Dimissioni irrevocabili da cosa? Dalla lista del Pdl collegata alla Moratti non è possibile perché il candidato da loro inserito non può essere tolto. Dal Consiglio comunale non è possibile perché ci si può dimettere solo da una carica che si ricopre, e direttamente o indirettamente con delega». Per Palmeri «il caso non è affatto chiuso dunque. Dal punto di vista tecnico-giuridico non si può chiudere, dal punto di vista politico si apre sempre di più, perché anche nel centrodestra i moderati, i liberali, i cittadini normali sono sconcertati e prendono le distanze dalla Moratti». Caso controverso quello di Lassini. In un’intervista a Repubblica Gianluigi Pellegrino, avvocato amministrativista, esperto in materia elettorale e candidato nelle liste del Pdl a Milano spiegava che «la Corte Costituzionale venti anni fa
favorire l’avversario e inibisce la costruzione di cose nuove. Insistere come fa Pisapia su questioni di natura etica rende tutto molto complicato. Mi pongo alcune domande anche rispetto al mondo cattolico. Abbiamo tutti seguito con attenzione il magistero del cardinal Tettamanzi e lo abbiamo condiviso nell’intimo del nostro cuore. Pongo ai tanti amici cristiani della città di Milano una domanda: non è forse venuto il tempo di una rinnovata presenza in politica, o dobbiamo essere sempre costretti a scegliere tra chi finge una cattolicità di bandiera di cui si avverte sempre più il puzzo strumentale, o chi proclama idee e valori che si fondano su una antropologia diversa dalla nostra? Per concludere vorrei rivolgermi agli elettori moderati, democratici e riformisti: ma vi sentire veramente rappresentati da uno o dall’altro dei due schieramenti? La sinistra che si presenta a Milano ha una anima riformista compatibile con quanto il riformismo meneghino laico e socialista ha prodotto nel corso del tempo? La destra berlusconiana con la Moratti, dopo aver stretto un legame così stretto con la Lega, come risponderà ai valori dei moderati, sia cattolici che laici, al di là della propaganda? Il terzo polo può essere una possibilità per aprire una fase nuova, per ridichiarare il senso del dovere e della responsabilità e per alimentare, partendo dalle questioni reali della città più importante e globalizzata d’Italia, i desideri di futuro. Le elezioni milanesi sono l’occasione per proporre all’Italia un idea di cambiamento , un’uscita dalla vecchia politica, per un progetto politico nuovo e giovane. Bisogna agire con forza, responsabilità , autonomia e laicità, perché la domanda del cardinale Dionigi Tettamanzi sul “perché molti agiscono con ingiustizia ma non vogliono che la giustizia giudichi le loro azioni” resti senza risposta.
ha chiarito che un candidato può sempre ritirarsi da un’elezione. Mi chiedo con quale determinazione il Pdl chieda la cancellazione». Affermare che la candidatura non sia revocabile dopo la presentazione delle liste è comunque – secondo Pellegrino – un assurdo giuridico: significherebbe sancire che è impossibile tirarsi indietro da un’elezione, e ciò lederebbe il principio di libertà individuale». Secondo Daniela Santanchè invece la sorte di Lassini dovrebbero decider-
esponente dovesse appoggiare il candidato della sinistra, noi – dice Urso – sosterremo quello del centrodestra.A Milano, per esempio, non ci vedrei nulla di scandaloso a votare per Letizia Moratti. Mai con la sinistra – è la linea dei moderati di Fli – e nemmeno con liste “fasciocomuniste”, come quella di Latina, che sembra più un esperimento letterario che vera politica». La Destra di Francesco Storace si inserisce nelle contraddizioni finiane e cerca di capitalizzarle: «Se alle comunali di Milano una forza politica che si contrappone al centrodestra assieme all’opposizione di sinistra si divide, è buon segno per la Moratti. Ora chi vuol confermarla da Fli avrà possibilità di votarla con la lista de La Destra guidata da Alberto Torregiani».
Anche la Lega attacca Lassini: «Ci piacerebbe sapere cosa ha da dire su Milano e non le sue cialtronate sulle Br in Procura. Rinunci al seggio se verrà eletto in Comune» la gli elettori milanesi, non la Moratti. Il caso Lassini costituisce naturalmente un ghiotto bersaglio polemico per l’opposizione. Per l’Idv «Lassini è il vero candidato in piena sintonia con il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. È lui la fondamentale pedina del premier in questa campagna elettorale, tutta improntata a sangue e fango». Ma anche Futuro e libertà attacca su Lassini: «Il caso è tutt’altro che archiviato, dopo che l’interessato ha rivelato di aver ricevuto una telefonata di solidarietà del premier per i suoi manifesti» Ma Fli a Milano mostra sfumature al suo interno. Adolfo Urso, ala moderata del partito, non solo non interviene sul caso Lassini ma anzi dice che «Se ai ballottaggi delle Amministrative il partito lascerà libertà di voto e qualche suo
Ma non c’è solo il caso Lassini. Ci sono anche i mal di pancia della Lega. «Se Galan stesse zitto sarebbe meglio per tutti – dice il capolista del Carroccio Salvini a proposito delle polemiche contro Tremonti ». Ne ha anche per il Giornale di Berlusconi che ha attaccato la Moratti e difeso Lassini «In ogni caso – dice l’esponente leghista – mette in chiaro che Berlusconi sa benissimo che il governo sta in piedi perché c’è la Lega». Ma la Lega interviene anche su Lassini e lo fa sempre per voce di Salvini che va giù duro e netto: «Rinunci al seggio in Consiglio comunale in caso di elezione. Ci piacerebbe sapere che cosa ha da dire Lassini su Milano e non le sue cialtronate sulle Br in Procura. Lassini non deve entrare in consiglio comunale, perché ha fatto una stupidata e le stupidate in politica si pagano».
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l’approfondimento
Secondo l’economista «si vede dopo tanto tempo l’impegno di persone genuine mosse solo dal desiderio di dare una mano»
Milanesi, ribellatevi!
«Da donna indipendente che era all’inizio, ora Letizia Moratti è diventata l’ultimo dei maggiordomi di Berlusconi. Solo un movimento dal basso può liberare la città, stretta dal dominio delle cordate clientelari»: parla Marco Vitale di Errico Novi
ROMA. Ha trasformato la forza del suo impegno intellettuale, dello studio, di una luminosa docenza negli atenei non solo milanesi, in generosità allo stato puro. Marco Vitale è un esempio di intellettuale assai atipico, e non solo nella cosiddetta capitale morale. Scrive e parla per esortazioni, non solo con la freddezza dell’analisi. Questo economista nato nel ’35 e passato per la Bocconi, per il Centro studi Don Sturzo, fino a occuparsi personalmente delle istituzioni con un’esperienza da assessore al Comune di Milano, oggi si batte per «trasformare l’allarme in speranza». Tiene un sito (www. allarmemilano-speranzamilano.it), promuove “manifesti” per la città e ora si schiera perché «vengano scelti innanzitutto i candidati migliori al Consiglio comunale, quelli capaci di vivere il rapporto con gli elettori con l’ascolto, la gioia e non la fatica e la sofferenza». Secondo «il criterio della competenza e non dell’appartenenza alle cordate
clientelari». Con un“movimento dal basso”, insomma, inteso come risposta della città alla cappa di potere che la sovrasta e la soffoca. «Sceglieteli anche con il voto disgiunto», dice, senza enfatizzare troppo la sua preferenza per la lista civica di Pisapia. Slancio, il suo, che si trasforma in ripulsa «per questa campagna insensata sulla giustizia scatenata da Berlusconi». Il quale «pagherà la scelta con una diffusa astensione nell’elettorato di centrodestra».
Davvero finirà così? «Io vedo gli aspetti deboli della città e cerco di incoraggiare a superarli». Parte delle sue riflessioni recenti è raccolta nello Scritto per il rapporto su Milano 2011 della Fondazione Ambrosianeum. Ne darà ampia diffusione a giugno, per adesso ne dispensa anticipazioni. Vi insiste sui pericoli (la città mafiosa, la città chiusa, la città impaurita) ma chiede anche di «ritrovare sintesi politica e indirizzi strategici». Chiede troppo? Non è una campagna
elettorale, questa, più modestamente polarizzata dal solipsismo anti-giudici del premier e dunque dimentica di Milano? «Comunque vada ci saranno cose buone da accogliere e preservare, io esorto a farne tesoro: mi riferisco a quelle persone che si sono impegnate senza nessun interesse diretto, senza nessuna motivazione se non quella di dare una mano. Onida e Pisapia innanzitutto, ma anche tanti altri. Ho incontrato persone, candidati al Consiglio, giovani, giovani
«Il Cavaliere pagherà questa insensata campagna sulla giustizia»
signore, che si sono buttate con entusiasmo in questa sfida per il futuro. Se ne riuscissimo a mandare un po’a Palazzo Marino faremmo una cosa utile per la città. Ed era tanto tempo che Milano non era percorsa da uno slancio simile».
Bene. Ma perché questa corrente di rinnovato entusiasmo e impegno civico di cui Vitale parla possa incidere, ci vorrebbe un’inversione di tendenza sull’astensionismo. «Vero, questo è il
punto cruciale. L’assenteismo, il disincanto, hanno raggiunto livelli patologici. Milano non si può permettere chiusure». Come ripete più volte nel sopracitato Scritto «negare la sua vocazione di città di rete è il pericolo maggiore, altro che crisi». E i segnali di quest’inversione di tendenza? «Alcuni ipotizzano che Pisapia sia arrivato a vincere le primarie nonostante il parere contrario del maggior partito della sinistra proprio perché è riuscito a smuovere un po’ l’assenteismo. Gente che non aveva votato in passato ha votato per lui. Non credo che sia una quota enorme, ma effettivamente è verosimile che esista». Eppure il mantra, il linguaggio dominante della campagna elettorale sembra piuttosto quello imposto da Berlusconi Magari dai maniìfesti di Lassini, ritiro o non ritiro. «Sara una sconfitta per Berlusconi. Milano non ne può più di questa roba». Qui Vitale è assertivo. «È un errore storico quello che Berlusconi sta commettendo. Per fortuna, dico io. Io sogno un centro-
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Si può intervenire sulla Costituzione, ma senza disconoscere i principi fondanti che l’hanno ispirata
Basta giochi, ci vuole un’Assemblea Costituente
Bisogna lavorare a un nuovo patto sociale per avviare un grande progetto di rilancio dell’intero sistema-paese di Enrico Cisnetto a strampalata proposta di legge di modifica dell’articolo uno della Costituzione presentata dal deputato del Popolo della libertà Remigio Ceroni, e le indiscrezioni circa l’intenzione del centrodestra di modificare la legge elettorale al Senato nel maldestro tentativo di attribuire anche a Palazzo Madama il premio di maggioranza su base nazionale, sono solo gli ultimi di tanti segnali che la “maionese impazzita” della politica italiana possa generare pericolosi cambiamenti delle “regole del gioco”. Mostruosità giuridiche e forzature politiche che vanno evitate non in nome, come certa sinistra ha fin qui fatto, dell’antiberlusconismo e della semplice conservazione della Carta costituzionale, che ha invece più di un motivo per essere cambiata e aggiornata, bensì per salvaguardare il principio che le “regole comuni” devono essere riviste a larga maggioranza e che la loro riscrittura va tenuta protetta dalla lotta politica quotidiana (a maggior ragione se quest’ultima è del livello infimo che abbiamo sotto gli occhi). Ma perché tutto questo non rimanga un auspicio – di cui i nuovi barbari e i vecchi conservatori della politica, non casualmente convergenti, si farebbero un baffo – occorre che chi vuole “cambiare senza forzare” scenda in campo con una proposta forte. Anche perché si tratta delle stesse forze che dovrebbero voler chiudere la fallimentare esperienza della Seconda Repubblica per aprire, su nuovi basi, la Terza, e questo obiettivo non si può ottenere – o almeno, non in modo virtuoso – senza una concorde revisione delle regole del gioco, costituzionali e non. E per fare tutto questo, c’è un solo modo, visti i pluridecennali fallimenti delle varie Commissioni bicamerali ad hoc – dalla Bozzi alla D’Alema – e scartata l’ipotesi di utilizzare le procedure previste dall’articolo 138, che fin qui sono state usate in modo improprio: promuovere la convocazione di un’Assemblea Costituente.
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Sì, lo sappiamo: è cosa complicata. Ma questo non ne rende meno attuale l’esigenza. Il Paese si è spinto troppo in là lungo la deriva di un declino drammatico strutturale – e in tutti i
campi, non solo in quello politico-istituzionale – per non aver bisogno di un passaggio così fortemente evocativo, anche sul piano simbolico, come di
Mostruosità giuridiche e forzature politiche vanno evitate, ma non in chiave antiberlusconiana
eleggere un luogo dove ridefinirsi, capace di ridare ai cittadini la perduta fiducia verso le Istituzioni, alle quali oggi non vengono riconosciute né l’autorevolezza né le capacita nella risoluzione dei problemi. La stessa ricerca di un nuovo patto sociale per avviare un grande progetto di rilancio del sistema-paese, non più rinviabile se vogliamo tornare a crescere e restare nell’euro, non può prescindere dalla modernizzazione delle Istituzioni e dall’adeguamento alle nuove realtà delle regole comuni.
Per questo, un processo (ri)fondativo di così ampia portata deve necessariamente essere sottratto alle contingenze della politica quotidiana e affidato ad una Assemblea che tragga la sua legittimità dal mandato popolare. Certo, è il percorso più complesso e impegnativo fra tutti gli strumenti utilizzabili per procedere alle modifiche costituzionali, ma d’altra parte se l’uscita dalla Seconda repubblica non può che coincidere con un momento di “larghe intese”, cosa c’è di meglio che mettersi d’accordo sulla promozione di un’Assemblea Costituente? Lo spirito deve essere quello di intervenire sulle varie parti della Costituzione senza tabù e pregiudizi – perché non possiamo disconoscere come siano cambiati gli scenari sia interni che internazionali negli oltre 60 anni trascorsi dalla sua entrata in vigore e di come essa appaia inadeguata a regolare realtà economiche e sociali allora assolutamente imprevedibili – ma nello stesso tempo senza disconoscere i principi fondanti della Carta del 1948. Quanto invece allo strumento, l’idea è quella di un’Assemblea Costituente formata da 250 componenti, eletti con metodo proporzionale, con l’espressione del voto di preferenza nell’ambito di liste concorrenti presentate in un’unica circoscrizione nazionale e con un’adeguata rappresentanza di esperti. Si può sperare che il Nuovo Polo assuma questo obiettivo come fondante e caratterizzi la sua politica intorno a questa strategia? Può darsi che la complessità dei passaggi parlamentari che una proposta del genere richiede la renda irrealizzabile, ma sarebbe ugualmente una straordinaria bandiera intorno a cui radunare quella parte del Paese, sempre più vasta, che è stanca e desidera il cambiamento. Ragioniamoci. (www.enricocisnetto.it)
destra moderno e liberato da questa follia».
Se però lui stesso dice di credere sì nel ritorno al voto di qualche astensionista, ma non in un uragano di partecipazione, come si spiega il pronostico sfavorevole al Cavaliere? «Guardi, non c’è contraddizione. Io dico che questa campagna così personalizzata, con questi faccioni enormi persino grotteschi, non avrà l’esito immaginato. Penso che Berlusconi e il Pdl pagheranno in termini elettorali questa campagna insensata sulla giustizia, ne soffrirà il loro elettorato». Dovrebbe esserci insomma una certa quota di «moderati del centrodestra, il mondo delle professioni, del lavoro, che non vuol sentir parlare di socialistume di ritorno, come lo chiamo io (e qui forse la repulsione intravista è più per i“faccioni”, ndr). In tanti immaginano una città governata con spirito liberale ma serio, in modo dignitoso. Molti di questi si rifugeranno nell’assenteismo». Un pericolo per Berlusconi può venire dalla Lega, tutt’altro che entusiasta della piega presa dalla campagna berlusconiana. «La Lega, a Milano come altrove, sta piazzandosi, sta preparandosi per il nuovo ciclo. Il partito di Bossi è convinto che il ciclo è finito, provvede già al dopo, E come sempre è avvenuto, lo fa in chiave di autonomia». E la Moratti? In questa sterzata anti-giudici imposta dal premier lei appare, se non proprio una figurante, come una variabile dipendente. «Questo è uno dei motivi per cui è meglio non votare la Moratti. Quando è stata eletta aveva un’immagine fortemente autonoma, non aveva la tessera berlusconiana ed era considerata piuttosto una persona della città. È diventata uno dei tanti maggiordomi di Berlusconi». Lapidario. Al pari, Marco Vitale ha lo sguardo aperto e positivo quando chiede «una sintesi politica, una capacità di definire gli indirizzi strategici» che dovrebbe essere «condivisa da nuclei importanti» e quanto più numerosi «della classe dirigente». Perché invece l’attuale vuoto di sintesi politica e di strategia «è il punto veramente critico della Milano dei nostri giorni». Ecco, ma c’è già, questa condivisione di obiettivi, in quella parte di città generosamente impegnata e per la quale Vitale fa il tifo? «C’è a livello di singoli gruppi. Bisogna lavorare perché tale visione condivisa si ampli. Può avvenire se ci sarà la possibilità di costruirla sul piano istituzionale. Per questo le elezioni di Milano sono molto, molto significative». Perché Vitale, che in questo scopre il suo lato più generoso, è davvero convinto che si vince se si parte dalla città e non dal conflitto politico sovrastante. Insomma l’opposto di Berlusconi. E la sfida pare proprio tra queste due concezioni. «Dopo tanto tempo vedo l’impegno a occuparsi del futuro, a costruirlo». Il che, perVitale, equivale a dire che vede la ”sua”vittoria.
diario
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I consumi sono fermi: crescono (di poco) solo i discount
De Mauro: chiesto ergastolo per Riina
ROMA. L’economia reale del Paese, quella legata ai consumi, segna una sostanziale immobilità, con le vendite al dettaglio che a febbraio 2011 segnano un lieve aumento (+0,1%) rispetto a gennaio, ma restano invariate rispetto allo scorso anno. Secondo l’Istat, nella media del periodo dicembre 2010febbraio 2011, l’indice è diminuito dello 0,1% rispetto al trimestre precedente. Scendendo nel dettaglio, rispetto a gennaio 2011, le vendite di prodotti alimentari aumentano dello 0,2%, mentre quelle di non alimentari restano invariate. Paragonato a febbraio 2010, l’indice grezzo segna una variazione nulla. Le vendite di prodotti alimentari aumentano, in termini tendenziali, dello 0,3% e quelle di prodotti non alimentari diminuiscono dell’0,1%. Le vendite dei gruppi di prodotti non ali-
PALERMO. L’ergastolo per Totò Riina è stato chiesto dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia al termine della sua requisitoria al processo sull’uccisione del giornalista de L’Ora, Mauro De Mauro, davanti alla Corte d’Assise di Palermo, in cui unico imputato è l’anziano padrino. Riina, per il quale è stato chiesto anche l’isolamento diurno per tre anni, ha assistito in silenzio, collegato in videoconferenza. Secondo Ingroia l’omicidio non è stato compiuto «solo nell’interesse di Cosa nostra e non credo siano una coincidenza i depistaggi e le deviazioni sul caso De Mauro». Nella precedente udienza i pm avevano sottolineato il lavoro del cronista sulla morte del presidente dell’Eni, Enrico Mattei e sul golpe Borghese.
mentari segnano risultati piuttosto eterogenei in termini tendenziali. Vanno male elettrodomestici, radio e tv, bene i prodotti farmaceutici. Nel confronto con febbraio 2010, si registra una diminuzione dello 0,3% per le vendite della grande distribuzione e una crescita dello 0,1% per quelle delle piccole imprese. Tra gli esercizi a prevalenza alimentare il calo tendenziale più marcato (-2,2%) riguarda gli ipermercati, mentre i discount di alimentari segnano un aumento dell’1,5%
Non deve sorprendere la vittoria della destra xenofoba in Finlandia: essa è il frutto dell’annacquamento dei valori cristiani
O il Ppe cambia, o l’Europa crolla L’avanzata delle forze anti-europeiste riflette la mancanza di leadership di Rocco Buttiglione
È da tempo che si sostiene l’esistenza in Europa del pericolo che sorgano forze antieuropeiste a destra del Partito Popolare Europeo. Esse crescono e prosperano se il Partito Popolare Europeo annacqua la propria identità e pensa che in una società secolarizzata un partito chiaramente ispirato ai valori cristiani non abbia futuro
n un editoriale sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia osserva che in Europa si è creato uno iato crescente fra le elite dirigenti ed il popolo. Le élite dirigenti per lo più guardano a sinistra, hanno adottato l’ideologia dell’individualismo radicale, irridono i valori tradizionali, hanno una visione umanitaria che finisce con il separare i diritti dai doveri ed il reddito dal merito. Per loro la famiglia è una prigione, l’aborto un diritto ed il matrimonio degli omosessuali una ovvietà Il popolo invece, guarda con preoccupazione al progressivo disfacimento degli antichi valori: l’unità della famiglia, la responsabilità per le proprie azioni, il dovere di guadagnarsi il pane con il sudore della propria fronte. In realtà quando i poveri si lasciano sedurre ad adottare i valori dei ricchi in genere finiscono male.
I
Lo stile di vita propagandato dalla grande stampa e dallo show business non si adatta a chi non ha redditi milionari. Spaventato da fenomeni crescenti di mancanza di orientamento, di crisi d’identità, di sfida ai valori sui quali si è condensata la sua autocoscienza ed il suo orgoglio di appartenenza, il popolo può diventare rabbioso, guardare con sospetto l’immigrato o lo straniero che arriva, chiudersi nella difesa dei propri piccoli spazi locali segregandosi nel mondo. Al cosmopolitismo astratto delle èlite dirigenti che fanno l’elogio della società liquida e dell’uomo senza qualità risponde la chiusura localistica degli uomini comuni che si fidano solo del proprio vicino e chiudono
l’animo ed il cuore a tutto il resto del mondo. Quando questi fenomeni vengono portati fino in fondo è evidente che le élite non sono più dirigenti perchè non hanno un popolo da dirigere. Ma anche il popolo non è più un popolo, perché la sua identità si irrigidisce in forme caricaturali e non è più capace di adattarsi al fluire della storia. Ha destato sensazione di recente il grande successo in Finlandia di un partito antieuropeista che vuole difendere i caratteri propri della identità nazionale finlandese, un partito pro famiglia e pro vita chiaramente in contrasto con le tesi dogmatiche di chi pensa che
l’aborto sia un diritto naturale e che non esista più una famiglia “naturale” e che ogni forma di convivenza, omo o eterosessuale, vada posta sullo stesso piano. È interessante osservare che questo partito trionfa in un paese non cattolico ma protestante e che è considerato in genere un modello di secolarizzazione riuscita.
È naturalmente un errore essere contro l’Europa ma quanto contribuisce a questo errore l’identificazione della burocrazia europea con i dogmi del progressismo secolarizzato? Una Europa che collude con quei dogmi perde inevitabilmente
l’appoggio sicuro ed il sostegno che le ha dato in tutti i paesi europei il popolo cristiano e finisce con l’essere vittima di quel distacco tra le élite ed il popolo di cui parlavamo prima e che Galli della Loggia meritoriamente denuncia. È da tempo che io vado sostenendo che esiste in Europa il pericolo che sorgano forze antieuropeiste a destra del Partito Popolare Europeo. Esse crescono e prosperano se il Partito Popolare Europeo annacqua la propria identità e pensa che in una società secolarizzata un partito chiaramente ispirato ai valori cristiani non abbia futuro. Un altro esempio interessante
ci viene dalla Ungheria. Oggi l’Ungheria è anch’essa sotto attacco a causa di una nuova Costituzione la quale afferma la difesa del diritto alla vita fin dal concepimento e ripropone con forza l’identità nazionale magiara. Famiglia e nazione sono da sempre i fondamentali ambiti di riferimento della vita del popolo. Sotto attacco in particolare è Victor Orban.
Orban non è antieuropeista, anzi è un fautore dell’Europa. Non è un nemico della modernità, anzi, per certi aspetti la sua costituzione e la sua politica propongono cambiamenti e riforme assolutamente di avan-
diario
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
«Faccetta nera» arriva in classe, è polemica nel vicentino VICENZA. Dopo le polemiche sollevate nei giorni scorsi da alcuni esponenti della maggioranza di governo secondo i quali la scuola indottrina i ragazzi e dà loro un’idea distorta del Pdl, arriva dal Veneto un caso contrario: la popolare canzone fascista Faccetta Nera è stata intonata in classe, in una media del Vicentino, per iniziativa del professore di musica. La canzone simbolo della presenza «civilizzatrice» dell’Italia fascista in Abissinia, è stata proposta agli alunni della media di Pove del Grappa (Vicenza) nel corso di un programma multidisciplinare che prevede lo studio sul fascismo e la musica del Ventennio. Peccato che quando hanno sentito i figli provare a casa sullo spartito «Faccetta Nera», ma anche «Giovinezza» - come riferisce Il Mattino di Padova - alcuni genitori siano ri-
masti di stucco. Ora sono intenzionati a chiedere spiegazioni alla scuola, perché loro - spiegano delle canzoncine del ventennio fascista nel programma non sapevano nulla. Si difende il professore di musica, Nicola Meneghini. Quelle canzoni, come anche Va’ Pensiero e la Leggenda del Piave studiate per il periodo della prima Guerra Mondiale, rientrano «in un ciclo di lezioni che hanno cercato di contestualizzare i periodi storici anche con la musica».
guardia. Orban vuole legare l’Ungheria ad un modello economico-sociale che punta accentuatamente sulla responsabilità individuale e vuole rafforzare le reti di solidarietà e protezione che fanno capo alla famiglia. Afferma e difende i valori cristiani della nazione magiara. Ha ereditato un paese che i socialisti avevano condotto allo sfascio in una condizione di precarietà economica che lo allineava alla Grecia, all’Irlanda e al Portogallo.
Superato un anno intero
Il Belgio senza governo BRUXELLES. Già entrato nel Guinness dei primati come il Paese che in tempo di pace è rimasto per più tempo senza un esecutivo, il Belgio ha “festeggiato” ieri il primo anniversario dell’inizio di una crisi politica che non lascia intravedere ancora una via d’uscita. Era il 22 aprile del 2010 quando, a causa di disaccordi insanabili tra fiamminghi e valloni, il premier belga Yves Leterme è stato costretto alle dimissioni ed a convocare elezioni anticipate, che si sono tenute il 13 giugno. Ma dalle urne non è uscita alcuna maggioranza chiara: nelle Fiandre hanno vinto i separatisti dell’Nva di Bart de Wever, in Vallonia i socialisti di Elio di Rupo. Da allora si sono susseguiti numerosi tentativi di formare un nuovo governo, sono stati nominati mediatori, conciliatori, formatori. Niente. Nelle settimane scorse, più volte, i belgi sono scesi in piazza reclamando un governo, hanno tentato una “rivoluzione delle patate fritte” sulla scia delle rivolte nel mondo arabo, ma non sono riusciti a smuovere i leader politici fiamminghi e valloni, arroccati sulle loro richieste. Il 30 marzo scorso, il Belgio - che, nel frattempo, nonostante la crisi, ha superato a pieni voti la prova della presidenza di turno dell’Unione nel secondo semestre del 2010 - ha superato il record dell’Iraq, che ha impiegato 289 giorni per formare un governo.
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Sembra proprio che ormai si sia a un bivio: o cambiamo le élite dirigenti o cambiamo i popoli
Pagina a fianco, una marcia xenofoba Dall’alto Alejandro Agag; Berlusconi; Wilfried Martens e Josè Maria Aznar
Ha rifiutato gli aiuti del Fondo monetario internazionale e della Unione Europea ed ha risollevato l’economia ungherese con politiche dure, severe, che hanno chiesto uno sforzo straordinario alla Nazione ma che stanno dando risultati stupefacenti sia per quanto riguarda il risanamento del bilancio dello Stato sia per quanto riguarda il rilancio della crescita economica che si prevede possa arrivare al 3.5% l’anno, cosa che costituirebbe un record europeo. Fidesz fa parte del Partito Popolare Europeo, ha ottenuto una straordinaria vittoria elettorale proprio insistendo sul tema dei valori e collegando il tema dei valori tradizionali con quello della libertà economica. In genere quelli che lo attaccano non si preoccupano di capire né la storia ungherese né ciò che questo partito in quella storia significa. Non voglio negare che nell’esperienza ungherese ci siano dei rischi di populismo e di nazionalismo. Voglio solo dire che essa non può essere liquidata troppo facilmente.Attraverso Fidesz il Partito Popolare Europeo in Ungheria ha ottenuto una straordinaria vittoria elettorale ed è stato capace di sviluppare una politica che ha dato grandi risultati positivi. Due esempi che le élite secolarizzate non riescono ad inquadrare nei propri schemi di interpretazione della storia. Se ne potrebbero, naturalmente, fare degli altri. Sembra proprio che ci troviamo davanti ad un bivio; o cambiamo le élite dirigenti o cambiamo i popoli. Tutto sommato forse è meglio cambiare le élite dirigenti.
Cari liberali d’Italia, disunitevi! errebbe da iniziare con una battuta di chiara ispirazione marxista per render conto di questo agile libretto di Corrado Ocone e Dario Antiseri edito da Rubbettino e intitolato Liberali d’Italia. La battuta? Eccola: liberali d’Italia, unitevi. Ma per far cosa? Per cambiare l’articolo 1 della Costituzione e sostituire la parola “lavoro” con “libertà”? Oppure, all’opposto, per criticare la proposta del deputato Remigio Ceroni che con la scusa della difesa della “centralità del Parlamento” proporrebbe la “tirannia della maggioranza”? Sul Corriere della Sera, ad esempio, Michele Ainis ha non solo criticato ma anche satireggiato l’idea del deputato del Pdl di modificare l’articolo 1 della Carta costituzionale. Ma sullo stesso giornale è stato Angelo Panebianco a dissentire da Ainis per dire che l’idea di un articolo 1 che reciti «L’Italia è una repubblica democratica fondata sulla libertà» è una buona cosa perché anche la dimensione simbolica della Costituzione è importante e serve a rafforzare la cultura liberale. Allora, chi ha ragione e chi torto?
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I liberali, che un tempo erano quattro gatti, oggi sembra che siano tanti, ma talmente tanti che tutti si dicono liberali e quindi, come spesso accade, non si sa più bene chi è liberale e chi non lo è (anche se, e lo dico da liberale, l’idea di fare classifiche e dire “questo è liberale” e “questo è illiberale” non mi sembra il massimo del liberalismo oltre che dell’eleganza). Certo è che è la battuta “liberali d’Italia, unitevi”è forse anti-liberale perché lo spirito liberale preferisce la diversità all’unità, la pluralità alla totalità. E anche il libro di Ocone e Antiseri (ai quali si deve aggiungere anche Giulio Giorello che firma una prefazione non esageratamente anticrociana) è un esempio di questa prevalenza del diverso e del plurale. I due autori pur appartenendo alla stessa cultura liberale sono in disaccordo su tutto. A partire dai padri del liberalismo: Benedetto Croce e Luigi Einaudi. Ocone è più dalla parte del filosofo - anche se mostra che i due “padri” non erano così distanti come si tende a credere: e credo abbia ragione) - mentre Antiseri è più dalla parte dell’economista. Allora, chi ha ragione e chi torto? La libertà, diceva Salvemini, è il diritto di dissentire. Fino a quando si potrà dire di non essere d’accordo e si potrà manifestare il dissenso ci sarà pur sempre spazio per l’idea che ogni uomo ha diritto a ricercare la felicità a suo modo (oltre che a suo rischio e pericolo). Tra tutti i monopoli a cui un liberale si oppone, il monopolio della verità è il più pernicioso oltre che il più ridicolo. Sarà per questo che sulla antica questione dell’articolo 1 si può stare sia con Ainis sia con Panebianco, come sulla ancora più antica questione della polemica tra Croce ed Einaudi si può stare con Ocone o con Antiseri. Perché, a conti fatti, ciò che conta non è l’astratta ragione ma l’incarnazione di una cultura della libertà. Perché non c’è liberalismo senza lotta per la libertà.
il caso
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La crisi in Medioriente ormai sembra giunta a un punto di non ritorno e anche la città simbolo del Leoncino vacilla
Assad spara su Damasco Precipita la situazione del regime. Tutto il paese protesta e la polizia fa fuoco: si parla di decine di morti nella capitale. Intanto gli Usa spediscono in Libia i droni e Gheddafi risponde con piccoli «robot». Ma i suoi soldati disertano di Pierre Chiartano a Siria s’infiamma di nuovo, mentre gli Usa rimettono ”piede”in Libia. Violenti scontri e, sembra decine di vittime, hanno funestato le manifestazioni di ieri in Siria. La gente era scesa in piazza per protestare contro il regime, malgrado la revoca dello stato di emergenza, in vigore da 48 anni, e altri provvedimenti annunciati dal presidente Bashar al Assad. L’opposizione ha chiesto a gran voce le dimissioni del presidente, ma le proteste sono state represse nel sangue. La protesta sarebbe avvenuta dopo la preghiera del venerdì.Al Jazeera parla di morti a Baniyas, Azraa (30 chilometri da Daraa) e a Duma (periferia della capitale Damasco). Le forze di sicurezza siriane avrebbero aperto il fuoco per disperdere i manifestanti anche nella città di Homs. Tra le 5mila e le 6mila persone hanno manifestato a Qamishli, nel nordest della Siria, e quasi
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10mila a Daraa nel sud. A Baniyas, circa 10mila manifestanti sono scesi in piazza per la libertà. Ci sarebbero state manifestazioni anche a Damasco. Nella capitale i dimostranti hanno intonato il coro «libertà, libertà», «il popolo siriano è unico», «con il nostro cuore e il nostro sangue ci sacrifichiamo per i martiri», secondo quanto ha indicato Abdel Karim Rihaui, dirigente della Lega siriana di difesa dei diritti umani. «La gente ha sfilato davanti alla Mosschea Al-Hassan, nel quartiere di Midane, e sono stati dispersi dalle forze dell’ordine», ha aggiunto il militante.
Mentre in Nordafrica è la guerra dei droni quella che sarà forse decisiva in Libia. Finalmente i mezzi corazzati del colonnello di Tripoli, rintanati nei centri urbani, come succede nella «città martire» di Misurata, potranno essere colpiti da questi mezzi senza pilota.
Gli Stati Uniti hanno iniziato ad usare Uav (Unmanned aerial vehicle) armati contro i soldati di Muammar Gheddafi, che combatte i ribelli per le vie di Misurata. E che qualcosa stia cambiando lo annuncia anche la fuga in massa di militari del rais, che tentano di passare il confine con la Tunisia. Ieri un centinaio di militari e numerosi ufficiali avrebbero passato il confine nei pressi di
Berlusconi: «Siamo stati molto generosi con i profughi africani»
Dhiba. E che i droni siano ormai un elemento indispensabile per qualsiasi esercito è dimostrato dalla presenza di questi mezzi anche nell’esercito di Tripoli. Si tratterebbe di mezzi di produzione pakistana, di dimensioni molto piccole, solo tre metri d’apertura alare, e con compiti di ricognizione aerea, vista anche la velocità di crociera di 160 chilometri orari. Costruiti dalla Integrated dynamics, alcuni Border eagle Mk II sarebbero stati consegnati alla Libia tra il 2004 e il 2006. I ribelli hanno accolto con favore l’invio degli aerei Usa senza pilota e hanno detto di sperare che proteggano i civili. Speranza che dovrebbe verificarsi in maniera indiretta. La possibilità di questi mezzi di passare a bassa velocità sulla verticale degli obiettivi, permette di lanciare missili agm (air-ground missile) che possono colpire in maniera molto selettiva i bersagli.
Ordigni con cariche belliche relativamente basse che potrebbero ridurre drasticamente il rischio dei cosiddetti danni collaterali, cioè le vittime civili oppure le stesse forze ribelli, che qualche perdita a causa del “fuoco amico” l’hanno già subita. Anche a causa della totale disorganizzazione delle proprie forze. Disorganizzazione cui potranno difficilmente porre rimedio la trentina d’istruttori promessi da Italia, Francia (che da mesi ha sul terreno circa 250 uomini tra truppe speciali e agenti dell’intelligence) e Inghilterra (che ha dato una mano a Parigi). Il segretario alla Difesa Usa Robert Gates ha affermato ieri a Washington che il presidente Barack Obama ha autorizzato il 20 di aprile l’uso di Predator e che sono già operativi. In precedenza l’unico Uav utilizzato nella guerra libica era stato un Northrop Grumman, RQ-4 Global Hawk del-
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L’analisi dell’ex ambasciatore statunitense all’Onu: «Adesso dobbiamo agire con più forza»
Più convinzione, altrimenti sarà un nuovo Vietnam
Mancano la leadership e la volontà politica di Washington nel conflitto con il Colonnello. Così, rischiamo un pantano, peggio che in Indocina di John R. Bolton oloro che si opponevano alla guerra del Vietnam – un conflitto che sembrava infinito, senza conclusione logica, sempre più impopolare, sempre più mortale e sempre più costosa – la chiamavano “il pantano”. Dicevano che era una guerra che non si poteva vincere e che non si sarebbe mai dovuta combattere; e aggiungevano che in futuro gli Stati Uniti avrebbero dovuto evitare simili guerre. Oggi, il nostro reale rischio di “pantano” è la Libia. Il nostro presidente, che ha vinto il Premio Nobel per la pace, ha affrontato le cose molto mare. Chiedendo l’esilio di Muammar Gheddafi e imponendo alle forse militari statunitensi di limitare i propri obiettivi alla protezione dei civili innocenti, il presidente Obama si è preparato per un enorme fallimento strategico. Tuttavia, l’America oggi si è impegnata. A Gheddafi non importa sapere se i bombardamenti siano “umanitari”o tesi a ottenere un cambiamento di regime; è invece assolutamente certo che, appena potrà, si rialzerà armi in pugno contro chi lo ha attaccato.
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Se dovesse mantenere il potere su una parte significativa della Libia, tornerà molto probabilmente al terrorismo internazionale; d’altra parte, lo ha già minacciato. Potrebbe persino riesumare la sua corsa verso l’armamento nucleare, e questa volta non avremo modo di negoziare con lui per evitarlo come facemmo nel 2003/2004. Obama è iper-sensibile all’analogia con il Vietnam; quando ha autorizzato un maggiore stanziamento di truppe in Afghanistan, nel 2009, ha sottolineato che il Paese «non sarebbe stato un altro Vietnam». È chiaro che il Vietnam divenne “un pantano” perché agli Stati Uniti mancò la volontà di continuare a perseverare quelli che erano suoi obiettivi legittimi. Obama ha del tutto ignorato il punto critico che la strategia del generale Creighton Abram pose sulla strada della vittoria statunitense, e che fu un fallimento nel campo della volontà nazionale – non sul campo di battaglia – che umiliò il Paese in quel conflitto. E oggi la Libia è sempre più“un pantano”perché la decisione presidenziale di intervenire è stata presa con un pericoloso ritardo e con limiti pericolosi, e più tardi minacciata da errori enormi: la riduzione della capacità di attacco americana. Ora sono necessari due passi in avanti per evitare che questo stallo nella guerra divenga permanente. Innanzitutto dobbiamo immediatamente cambiare il corso del nostro operato e dichiarare che un cambio di regime è il nostro obiettivo militare; fatto questo, dobbiamo intensificare gli attacchi aerei contro le forze militari di Gheddafi. Che stiano o meno minacciando i civili. Persino ora, la forza aerea americana dovrebbe intimidire abbastanza da
scuotere il regime, e ridurre in maniera incisiva la potenza di fuoco sul campo per permettere la vittoria dell’opposizione. I nostri alleati della Nato daranno il benvenuto al nostro ritorno alle missioni d’attacco attive. E così farà anche la Lega araba, i cui leader temono che Obama e la Nato possano fallire così come che un Gheddafi armato e pericoloso rimanga al potere proprio nel loro cortile di casa. Per chi ha interesse, tra l’altro, la risoluzione 1973 del Consiglio
Obama deve dire chiaramente e il prima possibile che gli Stati Uniti vogliono la caduta di questo regime di Sicurezza dell’Onu autorizza l’uso della forza per proteggere i civili libici: un termine così vago che potrebbe tranquillamente coprire e giustificare il rovesciamento di Gheddafi. Quale miglior modo per proteggere i civili?
In secondo luogo, dato che la leadership dell’opposizione al Colonnello è ancora in alto mare, dobbiamo identificare delle personalità di spicco a lui contrarie, che siano pro-Occidente, e trovare il modo (palese o nascosto) per rafforzarli. Questo potrà aiutare sia l’opposizione odierna a Gheddafi che il prossimo governo anti-Gheddafi. Senza la fiducia di questi (e in questi) leader, non potremo in alcun modo giustificare l’invio di armi leggere all’opposizione da parte della Nato; perché non avremmo alcun modo per capire che uso ne faranno. Se non identifichiamo oggi alcun leader credibile, ogni governo post-regime di domani sarà comunque problematico e persino potenzialmente più pericoloso. Fino a ora, invece, Obama non è riuscito a convincersi all’azione. Invece sostiene che Gheddafi si stia combattendo in altri modo: il più noto è la fuga dei suoi sostenitori, che scappano per denaro. Una preoccupazione ironica per un
presidente come il nostro. Allo stesso modo è pericoloso ciò che Obama potrebbe dire, come ha fatto la scorsa settimana: «Credo che nel lungo periodo il dittatore se ne andrà e noi otterremo il nostro successo». Non c’è strada migliore per “pantanizzare”la Libia che quella di immaginare l’esilio di Gheddafi come un obiettivo eventuale e “a lungo termine”. Questo potrebbe significare danni e distruzioni incalcolabili, sia dentro la Libia che nella comunità internazionale, tramite il ritorno al terrorismo. Il nostro presidente ha preso tuttavia una decisione molto muscolare: ha firmato un articolo con Cameron e Sarkozy. Questo dimostra che, per Obama, i compiti di un presidente non vadano oltre il pronunciare discorsi e scrivere articoli. Tristemente per lui, però, articoli e discorsi sono soltanto l’articolazione della politica, non la politica reale. Nessun editoriale costituisce leadership.
l’Usaf, partito dalla base militare di Sigonella in Sicilia. Ricordiamo che l’amministrazione Usa non ha ancora riconosciuto il Comitato di transizione nazionale di Bengasi. Il generale James Cartwright, vicepresidente del Joint Chiefs of Staff Usa, ha spiegato che i primi due Predator sono stati inviati in Libia giovedì, ma che sono dovuti tornare indietro a causa del maltempo. Gli Usa hanno in programma di mantenere stabilmente in volo due pattuglie di Predator sopra la Libia.
I droni si sono dimostrati un’arma potente in Pakistan e in altre zone. Sia per il lavoro delicato della ricognizione in ausilio delle truppe di terra, sia per l’acquisizione di bersagli e non ultimo per la ricerca e l’eliminazione di obiettivi sensibili, come i pericolosi capi talebani. «Non c’è dubbio che contribuiranno a proteggere i civili e noi diamo il benvenuto a questo passo dell’amministrazione americana», ha affermato il portavoce dei ribelli Abdel Hafiz Ghoga alla tv Al Jazeera. I modelli utilizzati in Libia dovrebbero esser l’Mq-1 Predator (con propulsore a elica Rotax) e una versione avanzata, l’Mq-9 Reaper (o Predator B) con un motore turbofan che porta la quota di tangenza pratica a oltre 9mila metri. Le due versioni possono essere dotate del missile anticarro agm Hellfire, di quelli definiti tecnicamente fire-and-forget(spara e dimentica), che dovrebbero arrivare sul il bersaglio da soli dopo averlo «agganciato». Il Reaper invece può essere armato anche con missili Sidewinder a guida infrarosso e bombe a guida laser tipo Gbu. Entrambe le versioni possono rimanere il volo per 14 ore. E il giorno dopo l’annuncio dell’invio di droni Usa per le operazioni militari in Libia, dagli Stati uniti è arrivato a Bengasi il senatore repubblicano John McCain. Un “drone” del Congresso in carne ed ossa, evidentemente per verificare sul campo lo stato delle cose, da bravo ex militare. McCain è il primo rappresentante di spicco della politica statunitense a recarsi a Bengasi. Il segretario di Stato Hillary Clinton aveva affermato, giovedì, che la campagna Nato in Libia può essere paragonata all’intervento del 1999 in Kosovo, che aveva segnato l’inizio della fine del presidente serbo Slobodan Milosevic. Il rais ha minacciato l’Italia e i suoi alleati per la decisione di inviare istruttori per i ribelli. Mentre il governo italiano, all’emergenza immigrati sta rispondendo «con generosità a tanta sofferenza». È quanto ha scritto il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, in un messaggio di auguri inviato al segretario di Stato, cardinale Tarciso Bertone, in occasione della Pasqua.
media
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Duello a colpi di fioretto costituzionale sul quotidiano milanese ROMA. Prima ci fu la questione del cerino tra Fini e Berlusconi sul fine legislatura, oggi invece – essendosi il dibattito pubblico messo a volare alto – c’è questa querelle del Ceroni sul Corriere della Sera. I contendenti sono illustri, due professori con tanto di cattedre: Angelo Panebianco, storico editorialista del quotidiano, che impreziosisce di liberalismo in purezza - anche se, per così dire, senza il passaggio in barrique di quello di Paolo Ostellino - e Michele Ainis, recentemente tornato a via Solferino dopo oltre un decennio che spiegava il perché e il percome ai lettori de La Stampa. Ceroni? Dirà il lettore: chi era costui? Trattasi di quel peones del Pdl che vuole riformare l’articolo 1 della Costituzione per proclamare che il Parlamento sta sopra a tutto. E qui smettiamo di occuparci di lui, perché ai duellanti del Corsera dell’esistenza in vita di Ceroni non importa praticamente nulla: gli è servito solo per cominciare la disputa. Il fatto è che dentro al giornalone della borghesia meneghina c’è fibrillazione: Geronzi che se ne va, Rotelli che forse pure, Della Valle si rimuove, Luca di Montezemolo è assorto in un silenzio pensoso. È chiaro che poi la gente si agita. Quanto a Panebianco, il problema per lui non è nemmeno lo sbarco in prima pagina - da circa un mese - del parvenu Ainis, costituzionalista di quelli che firmano gli appelli e, diciamocelo, parecchio anti-berlusconiano (il che ripugna a una punta di diamante del terzismo o mielismo o liberalismo all’italiana, che più che un pensiero è un’antropologia): la competizione o l’invidia non trovano
Corriere, la disfida degli editorialisti Panebianco attacca Michele Ainis, neo-collaboratore di Via Solferino di Marco Palombi
Il nocciolo (teorico) della grande contesa è il liberismo, ma in realtà dietro alla lite c’è l’interpretazione del berlusconismo. E anche una vecchia ruggine con Giovanni Bazoli usbergo nel suo animo schietto. Il fatto è che gli è ricapitato tra i piedi Giovanni Bazoli, azionista forte di Rcs, appassionato di Bibbia e di
Costituzione, con cui ebbe uno spiacevole conflitto già nell’autunno 2007.
Accadde allora che prima Ostellino, frizzante, e poi proprio Panebianco, dottamente, scrissero due pezzi irridenti contro una lettera aperta al nascente Pd firmata da alcuni di quei professoroni che firmano questo genere di lettere: mettete in sicurezza la Costituzione, si leggeva nel testo. La Carta del ’48, replicò allora il no-
La sede milanese del «Corriere della Sera» in Via Solferino. Accanto, Ferruccio De Bortoli. Sotto, Angelo Panebianco e, a destra, Michele Ainis stro sul Corsera diretto allora da Paolo Mieli, ci ha garantito solo «che la nostra democrazia fosse una delle più inefficienti» in occidente. Conclusione: «Siamo costretti a tenerci, antipolitica permettendo, la Carta costituzionale che abbiamo e, con essa, la democrazia acefala e assembleare, con la sua paralisi e le sue mille inefficienze. Ci si risparmi almeno la retorica». Come si vede, niente di che: il grido di dolore di un liberale nato in un paese che non ne merita l’alta lezione. Bazoli, però, nipote di un fondatore del Ppi e figlio di un costituente, non la prese niente bene: chiamò il direttore e disse «se questa è la linea del Corriere sulla
Costituzione io non sono affatto d’accordo». Ecchisenefrega, avrebbe pensato chiunque, ma Mieli è intelligente e sa quanto conti l’uomo di Intesa San Paolo dentro Rcs: così fu che si corse ai ripari riequilibrando il dibattito. Ora il tempo è passato, ma nessuno ha cambiato opinio-
ne. Bazoli, una settimana fa, se n’è andato a fare una lezione a Torino proprio sulla Carta del 1948 e ci è andato giù duro: citazioni a sfare addirittura per Togliatti, no ad ogni tentativo di «indebolire gli istituti fondamentali di garanzia democratica» (vedi Ceroni), basta con questa frescaccia delle «scorie marxiste».
Insomma, come l’Italia, anche la querelle del Ceroni è nata a Torino.Visto che l’abbrivio l’aveva dato addirittura Bazoli, quell’antiberlusconiano di Ainis ha pensato bene di prendersela col peone pidiellino alla prima occasione: il suo bersaglio vero, però, altri non era che la minoranza liberale rintanata nella riserva indiana del Corsera. Ci sono quelli, ha scritto con evidente disprezzo giovedì, che vogliono togliere dall’articolo 1 il riferimento al lavoro: «Parola comunista, dicono: meglio la libertà». In realtà sarebbe superfluo, scrive: la libertà sta già nella parola democrazia. Dopodiché parte la stilettata: a meno che non si pensi a una cosa tipo «la Repubblica italiana è una Repubblica democratica fondata sul Popolo della Libertà». Panebianco è saltato sulla sedia a leggere un affronto simile, ma fosse stato solo per quel firmappelli di Ainis non si sarebbe scomodato. C’era il precedente di Bazoli, però, quindi bisognava fare qualcosa, indicare al paese la via del vero liberalismo: sicché ieri sul giornale milanese si poteva leggere un suo fondo, «Omaggio alla libertà». Una parola che servirebbe assai nella Carta, dice il nostro, lo dissero già La Malfa e Martino - entrambi incolpevoli maestri e padri - alla Costituente. Il fatto è che con quest’articolo 1 cattocomunista la minoranza liberale italiana «ha sempre vissuto a disagio» e sarebbe ora di metterci una pezza. Praticamente si parla ad Ainis, perché Bazoli intenda e capisca il disagio dei liberali. E se qualcuno non ha capito di cosa si parli, basta aspettare la prossima rubrica di Ostellino, che per così dire non si farà certo imbottigliare dai reciproci convenevoli.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
SALGARI CENT’ANNI DOPO
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IL CAPITANO ENZA CIMITARRA Parola chiave Attesa di Maurizio Ciampa
Rumer? Piace anche a Burt Bacharach di Stefano Bianchi
di Pier Mario Fasanotti
over’uomo, quanta rabbia e quanta amarezza aveva in corpo. Il suo ultimo messaggio, per contenuto e tono, era all’altezza dello scatto d’ira e di orgoglio di uno dei suoi tanti personaggi, del Borneo o della Malesia o di qualche sperduto anfratto orientale. Scrisse: «A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semi-miseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali.Vi saluto spezzando la penna». Firmato Emilio Salgari. La mattina del 25 aprile del 1911, a trovare il corpo dell’uomo che era nato a Verona nell’agosto del 1862, fu una lavandaia. L’autore di oltre ottanta libri di avventura (calcolo inevitabilmente inesatto visto che usava e adorava gli pseudonimi), quelli che avevano «scaldato» la mente di ragazzi e adulti, aveva il rasoio ancora in mano. S’era martoriato il ventre e il collo. Aveva gli occhi fissi sul sole appena sorto tra le foglie di un boschetto nei pressi della Madonna del Pilone, a Torino. Impossibile non provare compassione: con lui gli editori si comportarono da strozzini. E quando la moglie Ida, spinta da fierezza e indignazione, scrisse a Enrico Bemporad, editore in Firenze, questi rispose con spericolato cinismo. Ida Peruzzi, ex attrice di teatro forse già invasa da smanie psicotiche, preconizzava il crollo emotivo del marito, sfinito da migliaia di pagine e da miserabili riscontri economici, e insinuava con feroce garbo epistolare la responsabilità moPer rale di chi l’aveva trattato come un cavallo uccidersi, da soma. il 25 aprile del 1911,
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usò un rasoio. Il suo ultimo messaggio fu un atto di accusa contro gli editori che si erano arricchiti con le sue opere lasciandolo in miseria. Ernesto Ferrero ce lo racconta in una bellissima biografia romanzata
NELLA PAGINA DI POESIA
Da Pascoli a Montale la Pasqua nel Novecento di Francesco Napoli
Come rileggere il ripudio di Pietro di Sergio Valzania Un algoritmo per non morire di Anselma Dell’Olio
Alla corte del re melanconico di Marco Vallora
il capitano senza
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scimitarra
Quando Emilius recensì Buffalo Bill algari fece il giornalista dal 1883 al 1893, a Verona. Lavorava però su due tavoli. Su quello della cronaca e su quello della sua accesissima fantasia. Pubblicava articoli di politica estera, s’improvvisava critico musicale, in ogni caso era sempre pronto ad andare di qui e di là a incontrare personaggi in vista. Non rinunciò mai, però, a pubblicare a puntate i suoi primi romanzi (dieci sono quelli comparsi anche sulle colonne dei quotidiani, e non solo veneti). Due mestieri che s’intrecciavano e uno faceva da stampella all’altro. Alcuni dei suoi racconti paiono veri e propri instant book, «libri scritti “sul tamburo”, riguardanti cioè avvenimenti recenti e quindi ancora caldi». Questo è il preciso appunto di Silvino Gonzato che ha redatto la prefazione della raccolta degli interventi giornalistici di Salgari (Una tigre in redazione, minimum fax, al costo di 22,00 euro compreso il dvd curato da Daniele di Gennaro, In viaggio con l’immaginazione). Il giovane Salgari viene descritto così dal direttore della Nuova Arena: «…mi pare ancora di vederlo con quest’occhi il ventenne che tornava dal mare, navigato alla ventura; bassotto, tarchiatello e le salde gambe lievemente arcuate… ricordo che era di carattere chiuso, taciturno anche quando partecipava a qualche festicciola…». Si presentò con un romanzo sotto il braccio, ambientato in Cocincina sullo sfondo della guerra che infiammava la regione del delta del Mekong. Raccontava dell’amore tra la giovinetta Tay-See e l’ufficiale spagnolo Josè Blancos. Ne seguirono altri. Come reporter si firmava con vari nome de plume: Ammigliador, Emilius, per esempio. Era anticolonialista a senso unico. Difendeva le popolazioni indigene quando ad attaccarle erano la Francia o l’Inghilterra. Nello stesso tempo rimproverava il governo di Roma di esitazione e codardia per non rendere italico il mar Mediterraneo, che considerava naturalmente nostrum. Così come aveva mentito sui propri galloni di capitano, allo stesso modo s’impancava a stratega militare. A teatro seguiva la lirica e sbeffeggiava spesso alcuni tenori o baritoni. Le cantanti invece, specie se erano belle, le salvava tutte, e ne descriveva minuziosamente
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Dopo sei giorni la risposta: cara signora, noi abbiamo sempre provveduto agli acconti mensili, non legati all’invio di manoscritti; quanto poi alla frase «Emilio chi dovrebbe ringraziare se…?», ecco, il commendatore presenta i suoi ossequi, persino s’inalbera un poco per defilarsi infine da qualsiasi presa di coscienza. Bemporad non è stato il solo editore ad aver approfittato dell’inettitudine di Salgari a curare i propri affari. Lui firmava i contratti senza nemmeno leggerli, dimenticava subito gli sciacalli delle rotative e si buttava nell’ennesima avventura da costruire con l’inchiostro. Amava il suo lavoro «da forzato», non ne poteva fare a meno. Nell’ultimo periodo avvertiva però «l’artrosi delle parole», si lamentava del fatto che dalla penna uscissero «pagine di legno». E quando qualche amico gli diceva «lei, capitano Salgari, cavaliere, con la fama e i soldi che ha potrebbe permettersi anche di…», lui bofonchiava, stritolava in bocca qualche invettiva veneta e riparava l’orgoglio dietro il rifiuto ideologico ed estetico del modernismo del nuovo secolo, della sfilata di oggetti (auto comprese) che gli parevano stamberie, o «balengate», dei vari Marinetti e Boccioni di quel Futurismo che pareva solo chiasso e calo di decoro. Aveva visto giusto, pensava, quello strappalacrime di De Amicis quando si disgustava guardando Torino diventata terreno cialtronesco imbrattato da cartelloni colorati. Era l’anno dell’Esposizione Universale.Tutti a magnificare le automobili, e pure gli aeroplani, così battezzati da D’Annunzio gli sgraziati uccelli di ferro che s’alzano da terra. «No voio pì sentir parlar de ‘sta troiàda de Esposisiòn. Che i se la tegna».
Sei giorni prima di inoltrarsi in quel boschetto torinese, sotto la collina di Superga e poco distante dal Po che corre lungo Corso Casale, la moglie Ida era stata ricoverata in manicomio dopo una crisi che l’aveva mostrata ai figli a cavalcioni su una sedia, con la bava alla bocca, tremante. Aveva urlato e spaccato tutto quel che le era a portata. Diagnosi del dottor Arminio Heer: «Certifico che la signora Salgari Aida è affetta da mania furiosa con tendenza ad atti che la rendono pericolosa a sé e agli altri, e dispongo, per cure urgenti, il suo ricovero in Manicomio». Emilio la va a trovare e si interroga su quale destino possano avere quegli esseri stralunati, anno IV - numero 16 - pagina II
«le toilette». Passò poi a lavorare per L’Arena. Occasione imperdibile fu quella di assistere all’esibizione, nell’anfiteatro romano di Verona, di Buffalo Bill e del suo circo. Lo chiamò in modo buffo: Guglielmo il Bufalo. Comunque il Wild West Show lo deluse e lo spinse a ironizzare: «Nulla di feroce troviamo nei volti di quelle pelli rosse che pur si resero così celebri, in tutte le epoche, per la loro efferatezza e nulla troviamo di spaventevole nelle loro grida di guerra…». In effetti indossavano sottanine verdi come i birrai di piazza Bra, avevano lo sguardo opaco, e gli stessi bufali erano più fiacchi dei buoi delVeneto. La cronaca però gli tornò utile: pubblicherà poi cinque romanzi di genere western. Nella Sovrana del campo d’oro farà posto anche a Buffalo Bill. Nessuno potrà dire che Salgari aveva mentito: quel malinconico cow-boy l’aveva conosciuto davvero. Salgari si vantò d’essere cronista con Ida Peruzzi, poi sua moglie nel 1892: «Tutte le follie di cui un uomo è capace io le ho provate: nato in una notte di tempesta, vissuto tra le tempeste degli oceani ove l’anima diventa selvaggia, e le tempeste del giornalismo ove ogni pazzia diventa dovere, la mia vita doveva essere tempestosa per necessità…». Imbonitore e bugiardo. Però Ida l’amava davvero. (p.m.f.)
rosi da ossessioni e da «psicosi periodiche». Sa bene che da lì nessuno potrà mai uscire. Salgari non ha la scimitarra o il pugnale malese del Corsaro Nero o di Sandokan. Nessuna arma vera contro le ingiustizie. Ma pure aveva scritto che Sandokan s’era tolto la vita assieme alla sua innamorata. Evita il Po: doveva parergli una pozza d’acqua, uno stagno grigio a confronto dei scintillanti Mari del Sud in cui lui e le sue creature di carta nuotavano o duellavano. Stranamente, finzione e realtà familiare s’intrecciano. Anche il padre di Emilio s’era suicidato. Ma il destino s’accanisce sui quattro figli dello scrittore. Fathima morirà di tisi nel ’31, Romero la fa finita nello stesso anno, Nadir muore per un incidente di moto, Omar si butterà dal balcone di casa nel ’63. A cento anni dalla morte del Jules Verne italiano, Ernesto Ferrero, narratore e saggista, gli dedica una bellissima biografia romanzata (Disegnare il vento, Einaudi, 183 pagine, 19,50 euro). Il titolo richiama la passione di Salgari per il disegno. La sua matita, fin da quando era giovanissimo, creava navi con vele gonfie di vento. Con passione e senza enfasi, Ferrero rende pulsanti le vene dello scrittore, che chiama «operaio della penna» e «padre dello stupore», e di tutti coloro che gli furono attorno. Ne esce un ritratto di eroica malinconia. Un fatto curioso da annotare certamente: Ferrero abita nello stesso caseggiato che fu ultimo domicilio del capitano che non fu realmente capitano, ma cavaliere sì perché ebbe davvero l’onorificenza dalla Regima Margherita alla quale lui dedicava tutte le sue opere, devoto com’era alla monarchia magari immaginando imprese e fasti che nella realtà non c’erano oppure erano solo ombre sbiadite rispetto ai colori accesissimi dei marajà delle Indie. Nel periodo in cui Salgari abitò a Genova, afferrò i remi della barchetta d’un suo amico e vide la città dal largo. Spaccone non lo fu mai, istrionico sì, e dovette quindi immaginare la vastità di quegli oceani che mai vide, anche se su questo aveva mentito sempre. Quando la barca va a sfiorare le fiancate possenti delle navi in porto, si accorge della fila degli emigranti italiani che vi salgono. Lui che associava la grandezza di un Paese al numero degli scafi, prova un’immensa tristezza e decide di tornare indietro, imbronciato. L’Italia era ancora povera ed esportava braccia e progetti. Me-
glio tornare al suo tavolinetto «mobile» e compulsare enciclopedie, carte nautiche, guide, per salpare quindi con i remi e i mezzi alati di quel meccanismo mentale che raramente lo tradiva: la fantasia. Dalla terraferma «rubava» profili e caratteri, poi li sbatteva lontano, lontanissimo. E tutti, a guardare bene come ci suggerisce Ferrero, erano senza passato, armati solo di un presente accanito e agitato. Pare che Salgari abbia trovato ispirazione nella malfamata via Prè di Genova, angusto teatro di prostitute, balordi, marinai e borseggiatori, per delineare e muovere le marionette tutte muscoli e ardori del Corsaro nero.
Il capitano. Lo chiamavano così e a lui piaceva, mischiando ambizioni rimaste sulla sabbia con il mondo dell’immaginazione che poteva consentire tutto, anche bugie. Quando lavorava come cronista a Verona, un suo collega ironizzò pesantemente su quel titolo abusivo, e sprezzante, gli rinfacciò che era stato solo un mozzo a bordo di Italia Una sulle ondicelle dell’Adriatico. Era vero, ma Salgari lo sfidò a duello, riuscendo ad avere la meglio, trattenuto poi dagli amici sul limitare della vendetta ultima. Salgari non era mai stato un eccellente studente, anzi. A Venezia frequentò l’Istituto Nautico, ma il titolo di capitano se lo diede da solo mentre osservava i marinai e imparava il gergo complicato delle navigazioni. Dopo alcune esperienze giornalistiche a Verona, aveva scelto anima e corpo la letteratura. Quanti personaggi ha creato? Mille, duemila, tremila? Il padrone dei gesti e delle imprese era lui, solo lui. Annota Ferrero che «s’era lasciato crescere addosso tutto lo scrivere» come se fosse «una vegetazione tropicale». Pareva sempre dire agli altri: vi racconto io di quei luoghi lontani, io che li ho visti da vicino, io che mi sono inzuppato nel caldo tropicale e nel groviglio di storie incredibili. Incredibili ma vere. Prima della resa esistenziale, Salgari teme la cecità. E vede se stesso nel personaggio del quale descrive i tormenti di prigioniero: sbattuto su un materasso, è circondato «da topi affamati da chissà quali lunghi digiuni… cento, duecento, forse trecento mascelle armate di piccoli denti acuti…». «Hai veduto, sahib?». «Non sono ancora diventato cieco e spero di non diventarlo nemmeno più tardi - rispose Kammamuri». Eppure la mente di Emilio Salgari sta per essere spolpata da decine e decine di topi. I topi del risentimento, della pazzia della moglie, della povertà che tanto stridore faceva a confronto della ricchezza contenuta nelle pagine che accumulava ogni giorno, sempre sullo stesso tavolinetto.
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ATTESA ell’itinerario della Passione di Gesù il Sabato è di silenziosa attesa. Spenta la lacerante sonorità del grido sul Golgota («Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?»), la vita si nasconde lungo la linea di frontiera che divide labilmente la disperazione dalla speranza. Resta la memoria dei gesti e della parole. Xavier Tilliette, un filosofo che ha indagato sulle risonanze della Passione nel pensiero d’Occidente (La Settimana Santa dei filosofi, è il titolo del suo libro - ormai quasi un classico pubblicato dalla Morcelliana) scrive: «Ora è necessario patire questa morte e attendere nella notte che la sofferenza si converta in gioia. Un tempo d’arresto, di latenza imprescrittibile. La vita del sentimento esige l’intervallo di un silenzio, di una solitudine, e come di un’assenza di sentimento, per passare dal parossismo della sofferenza ai trionfi della gioia».
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Che cosa occupa questo «tempo d’arresto», questa solitaria, silenziosa attesa? L’ansia, l’angoscia, forse anche la disperazione, o forse la preghiera fiduciosa. Il racconto evangelico comunque non offre molti elementi: il Sabato è semplicemente il passaggio verso la Resurrezione, una specie di lacuna, tempo vuoto fra il Venerdì di Passione e la gloria pasquale. Nella Prima Lettera di Pietro (composta sul finire del Primo Secolo dall’apostolo Pietro secondo la tradizione, più probabilmente da un discepolo di San Paolo) un accenno, poche righe: «In Spirito andò ad annunciare la Salvezza anche agli spiriti che attendevano in prigione». Dilatando il disegno della Salvezza, Cristo si cala nel buio della Creazione e discende agli Inferi per liberare le anime prigioniere. Voglio ricordare un’altra immagine, certamente poco canonica, ma forse più vicina al cuore contrastato della Modernità. È il Cristo dei dolori di Albrecht Dürer (nella foto, ndr). 1493 la data di composizione, quasi vent’anni prima della più celebre Melancholia I che è del 1514. Distanti nel tempo e tematicamente, le due opere del pittore tedesco hanno un tratto in comune. Il Cristo dei dolori è velato di malinconia. È in attesa nel sepolcro, porta addosso tutti i segni della Passione. Non è dunque un corpo glorioso, ma neppure il «cadavere» sprofondato nella morte rappresentato da Hans Holbein («Quel quadro - diceva Dostoevskij potrebbe anche far perdere la fede»). In Dürer l’attesa è dubbio e perplessità. Li si vede inconfondibilmente impressi nel volto di Cristo, come se egli non sapesse bene che cosa lo attende, come se fosse pericolosamente in bilico fra la Passione del Venerdì Santo che gli sta alle spalle e il giorno della Resurrezione verso il quale dovrebbe tendere. Ma appare incerto, bloccato, contratto, quasi impacciato. Sarebbe troppo dire che è divorato dal dubbio, ma certamente ne ha varcato la soglia. Come d’altra parte accadrà in Melancholia che lascia cadere a terra gli strumenti
È l’intervallo che separa il grido del Golgota dalla gloria pasquale. Uno spazio silenzioso in cui l’uomo resta in bilico tra disperazione e salvezza. Del resto sperare e attendere sono segni della nostra umanità
Nella Terra di Mezzo di Maurizio Ciampa
Il Novecento ha raccontato le cronache di un vuoto abitato dal dubbio e dall’immobilità. La sua coscienza è stata scossa da terribili risvegli: la guerra, i totalitarismi, i genocidi, l’annientamento di senso tardo-moderno. “Aspettando Godot” di Beckett è collocato in questo paesaggio di rovine, dove anche l’attesa è accidentata del fare votandosi all’inazione. Così il Cristo dei dolori, immobile in un tempo destinato a dilatarsi. Troverà la forza per scoperchiare la pietra del sepolcro? O la sua Resurrezione sarà «triste» come «l’opera di un dio sconsolato”»? Così la immaginava Endre Ady, poeta ungherese, una delle grandi figure della letteratura del Novecento. Spesso il Novecento ha raccontato le miserevoli
cronache di un tempo vuoto, di un’attesa punteggiata dal dubbio, erosa dall’immobilità. La sua coscienza stordita ha conosciuto il più terribile dei risvegli. All’attesa ha fatto seguito prima la catastrofe storica della guerra, dei totalitarismi, dei genocidi, poi l’annientamento del senso delle società tardomoderne. Aspettando Godot di Samuel Beckett, scritto sul finire degli an-
ni Quaranta e pubblicato a metà dei Cinquanta, è collocato in questo paesaggio di rovine, dove anche l’attesa è accidentata: Estragone e Vladimiro, i due protagonisti, aspettano, ma non sanno chi o che cosa. Ai limiti del nulla e dell’insensato, la loro attesa è tutto quello che hanno, quello che resta, quello che li lega alla vita. È per loro l’ultimo fragile filo di vita. Aspettano per non morire. O la loro attesa è già una forma di spegnimento? Non possiamo dimenticare, non dobbiamo, che c’è un’attesa che alimenta il fuoco della speranza e attraversa per intero la storia degli uomini.Viene dall’escatologia ebraica e si sviluppa nel messianismo cristiano: l’attesa del Regno, l’attesa di un mondo di Giustizia che dal discorso religioso si riversa nella proiezione utopica, e si fa, fra Ottocento e Novecento, storia viva, mette in movimento grandi masse, prima d’imprigionarle nei terribili, massacranti ingranaggi dei totalitarismi. La storia dell’Occidente ne resterà imbrigliata, e forse anche per questo si è cominciato a pensare di non aspettare più nulla, di liberarsi di quell’attesa che ha distorto la linea dello sviluppo storico promettendo futuro e offrendone poi una versione deformata.
Ma è possibile liberarsi dell’attesa? O liberarsi dell’attesa vuol dire liberarsi del tempo? «Non possiamo non sperare», diceva Giacomo Leopardi. E sperare vuol dire attendere, affidarsi al tempo, aprire una breccia nel presente, rompendone il soverchiante dominio, e guardare fuori, oltre. Sperare, attendere, vuol dire immaginare, materia che si pensa sia esclusivo appannaggio dell’arte. Non è così: immaginare, sperare, attendere, sono elementari segni dell’umanità dell’uomo. «Le nostre abitudini ad attendere e ad aspettare - ha scritto lo psichiatra Eugenio Borgna in un libro dedicato a L’attesa e la speranza - , a sperare contro ogni speranza, sono forse decisive a salvare l’umano destino alla deriva». Salvare l’umano o oppure perderlo: questo è in gioco nell’attesa. L’internata Masa, protagonista di alcune grandiose pagine di Tutto scorre di Vasilij Grossman (l’autore di Vita e destino) muore quando capisce la vanità della sua attesa: non riabbraccerà la figlia, non rivedrà il marito. «La speranza, che sempre le era gravata sul cuore con il suo vivo peso, era scomparsa, morta». Con l’attesa e con la speranza si misurano non solo il destino degli uomini, ma il tempo vissuto, i flussi delle nostre emozioni e del nostro sentire. Questo il corpo e la carne del nostro attendere, che può prendere anche un profilo diverso da quello che abbiamo delineato finora. «Sono innamorato? Sì, poiché sto aspettando», dice Roland Barthes nei Frammenti di un discorso amoroso. «La fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta». Ma potremmo allargare l’affermazione di Barthes: l’uomo è quello che aspetta.
Pop
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musica
Rumer
di Stefano Bianchi iuro che non l’ho fatto apposta. Non potevo certo immaginare che dopo avervi raccontato (sabato scorso) The Deep Field di Joan As Police Woman e pronosticato che sarebbe stata dura per chiunque batterla, avrei acceso la radio e incontrato Slow, melodia scandita da un elegantissimo refrain. Ero indeciso se a cantarla fosse Dusty Springfield o K.D. Lang. Né l’una né l’altra, ma Rumer. Mai sentita prima. E allora mi sono informato, ho scoperto che la canzone malandrina fa parte di Seasons Of My Soul, inutile perder tempo, l’ho acquistato e ho deciso che Rumer non batte Joan As Police Woman ma fa pari e patta. Per la semplice ragione che Seasons Of My Soul non è più bello di The Deep Field, ma sono entrambi capolavori. Sarah Joyce in arte Rumer (come Rumer Godden, l’autrice del romanzo Black Narcissus), trentadue anni, nata nel Pakistan (a Islamabad) da genitori inglesi, gavetta a Londra fra mille lavori precari (barista, cameriera, insegnante, parrucchiera, commessa in un Apple Store…), una serie di concerti con la folk band La Honda e solitarie esibizioni nei pub, propone anzitutto quel genere di easy listening che quando l’ascolti pensi subito a Dusty Springfield e a Dionne Warwick, le grandi favorite di Burt Bacharach. Ma lo fa immalinconendosi un po’. Immedesimandosi nel canto crepuscolare di Joni Mitchell e Laura Nyro. Oppure, quand’è in vena di leggerezze più «pop», sintonizzandosi su Carole King e Karen Carpenter. A proposito di Burt Bacharach: il guru dell’orecchiabilità l’ha invitata in
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Jazz
Conversione di un rocker DURO E IMPURO di Bruno Giurato
l’easy listening che piace a Bacharach California, le ha fatto intonare Some Lovers dalla sua commedia musicale The Gift Of The Magic e lei ha pensato bene d’inserirla nel singolo Rumer Sings Bacharach At Christmas. Ma se la ragazza ha venduto in Inghilterra più di mezzo milione di copie di Seasons Of My Soul, il merito va al compositore Steve Brown che dopo averla apprezzata in una di quelle serate a microfono aperto, ha firmato insieme a lei tre brani (Am I Forgiven, Aretha, Thankful) e poi le ha prodotto il disco. «Amo le canzoni “cinematografiche”», spiega Rumer. «Ossia quei pezzi che riescono a evocare in chi li ascolta storie e immagini. Cerco sempre di trovare melodie cadenzate e romantiche. Essenzialmente, avrei voluto comporre la musica che accompagna Hedy Lamarr, l’indimenticabile diva hollywoodiana, giù per quella scala a chiocciola. Ma prima o poi ci riuscirò». Nel frattempo, basta e avanza la beltà del suo
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canzoniere che inanella un nobile pop speziato di rhythm & blues (Am I Forgiven), due avvolgenti e jazzati «guancia a guancia» (Come To Me High e Blackbird), una vivace Saving Grace pizzicata dall’armonica a bocca e la nostalgica On My Way arricchita dagli archi e dall’inconfondibile suono della chitarra Dobro. Con quella voce così piena, rotonda e sensuale, Rumer passa con scioltezza da Take Me As I Am (pietruzze folk, un pizzico di soul music, la magia dell’orchestra), alle introspezioni per pianoforte e violino di Healer; dalle ombreggiature soul e blues di Aretha, all’intima complicità di una ballata come Thankful; dal melodico giro lounge di Slow, alle sfaccettature country di Goodbye Girl (anno di grazia ’78) pescata dal repertorio del cantautore americano David Gates. E in questa che è la international edition del disco, non potevano mancare due splendide bonus tracks: le rivisitazioni della classica Alfie di Bacharach & David e di It Might Be You, tema conduttore del film Tootsie. Più di così… Rumer. Rumer, Seasons Of My Soul, Atlantic, 14,90 euro
no dei più grandi disgraziati della storia del rock (che già di per sé è un covo di disadattati niente male) Dave Mustaine, fondatore ed ex chitarrista dei Metallica, fondatore e deus ex machina dei Megadeath ne ha passate di ogni, ed è simpatico anche per questo. Abusato dal padre alcolista con instabilità mentali, ubriacone incallito e a sua volta non troppo a posto di cervello. Ha litigato praticamente con tutti i musicisti del suo giro. Con i Metallica (la sua band lo cacciò per ubriachezza molesta dopo che aveva preso a calci il cane di James Hetelfield), con i componenti degli Slayer (un memorabile diverbio imperniato sul termine tecnico che non tradurremo: cocksucker), con i suoi musicisti: da Marty Friedman a Dave Ellefson, e l’elenco non finisce qui. Ma anche un talento del rock duro. Un chitarrista raro e un autore straordinario. I Megadeath sono l’unico gruppo metal a non dare ai propri dischi titoli ignobili tipo Kill o Smash o Destroy, ma a inventare concetti come «Vendesi pace, ma dove sono gli acquirenti?», e hanno venduto più di 25 milioni di dischi in tutto il mondo. Bene di Mustaine è appena uscita l’autobiografia per Arcana. Ci sono tutti i tormenti interiori e il piglio autoritario di questo rocker duro e impuro. Perfino la sua conversione al cristianesimo avvenuta nel 2002 e il suo rifiuto di condividere il palco con band di metallo pesante che si professano sataniste. Non vuole più seni e glutei sulle magliette del suo gruppo. Ma a leggere ci si accorge che la pazzia e la creatività ci sono ancora tutte. Capita anche ai convertiti. Solo ai duri e impuri però.
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L’Ecm e i suoni più belli dopo il silenzio
tanno per essere pubblicati, dalla Ecm, i nuovi cd di due giovani pianiste. Il primo della tedesca Julia Hulsmann alla testa di un suo Trio (Imprint), il secondo del Quintetto della finlandese Iro Haarla (Vesper), che vanno ad aggiungersi all’imponente numero di altri musicisti, nella quasi totalità europei, con la sola straordinaria eccezione di grandi pianisti quali Keith Jarrett, Chick Corea e Paul Bley, che arricchiscono un catalogo che ha superato da tempo le duemila unità. Le tre lettere di questa etichetta tedesca, acronimo di Edition of Contemporary Music, hanno attirato e continuano ad attirare l’interesse, non solo di un pubblico sempre più vasto, ma soprattutto dei musicisti il cui sogno è quello di essere ascoltati e chiamati, per far parte di questa prestigiosa casa discografica, fondata quarantadue anni fa, da Manfred Eicher. Quando Eicher decise di iniziare questa avventura discografica il jazz stava attraversando un periodo confuso. Era il 1969,
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di Adriano Mazzoletti il rock bussava alle porte, la cosiddetta new thing newyorkese sembrava aver concluso la sua parabola e anche il free jazz sopravviveva solo per quanto stava verificandosi a Chicago e in Europa. Erano il ricordo incancellabile della musica che Miles Davis aveva dieci Il Trio Jarrett, Peacock, De Johnette registrato, anni prima, nel disco Kind of Blue e possibilità di ottenere un consenso inquella del trio di Bill Evans con Scott ternazionale. La Faro, che spinsero Eicher a dare Quando due anni prima aveva ascoltaspazio a quella musica che tanto teme- to un giovane pianista che suonava va potesse essere travolta da quanto con il Quartetto del sassofonista Charstava accadendo in quel periodo, dare les Lloyd, capì immediatamente che nuovo impulso al free jazz e soprattut- quel musicista, dall’impressionante to fornire a molti musicisti europei la tecnica strumentale, ma dalle idee non
ancora perfettamente chiare - si esibiva in lunghi duetti al sassofono contralto ed esperimenti a volte di dubbio gusto - poteva essere la punta di diamante della sua casa discografica. Convinzione che maturò in modo definitivo dopo un lungo colloquio, che ebbe nel 1970 a Monaco di Baviera, con questo pianista che era Keith Jarrett. Il Trio Jarrett, Peacock, De Johnette iniziò a incidere per Ecm a Oslo il 10 novembre 1971. Sono trascorsi quarant’anni ed è l’unico caso nella storia del jazz di un così intenso e duraturo rapporto fra un musicista e una casa discografica. Il famoso slogan di Manfred Eicher: «Il suono più bello dopo il silenzio» è sicuramente riferito alla musica di quel Trio, ma anche a tutta la sua produzione che si arricchisce dei cd delle due giovani eccellenti pianiste la cui musica è perfettamente in linea con le sue idee: «Ho sempre cercato una musica chiara. L’ho sempre preferita a quella oscura e opaca».
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arti Saggi
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di Marco Vallora
ms», si chiamano quest’eleganti librini, con un ticchettio di civetteria non-moderna. Perché non c’è nulla di più lontano dell’analfabetica prassi giovanilista del «messaggino» (con annesse faccine ammiccanti) di queste raffinate ed elitarie proposte Skira. Che degli sms forse han la brevità icastica, ma certo non la vacua sintassi senza costrutto. Curata da Eileen Romano, questa collanina di neo-Silerchie, dal prezzo più che abbordabile (intorno ai 9,00 euro) e realmente tascabili, va dalla Breve storia dell’arte di Jean Clair, al sensibilissimo ritratto di Lotto, imbandito dalla signora Longhi, Anna Banti, impedita di continuare a essere storica dell’arte e convertita in penetrantissima scrittice. Sino a questo delizioso cammeo-doppio di Arcimboldo e il re melanconico, del letteratissimo Angelo Maria Ripellino. Una perla rara, estirpata a quel libro magnifico che è Praga Magica, e che l’Einaudi, colpevolmente, si dimentica da troppi anni di ripubblicare, con altri capolavori saggistici dello stesso. Palermitano, stropicciato di salute, stralunato come un clown gentile e metafisico, poeta, traduttore (che ha fatto conoscere all’Italia Blok, Belyj, il poeta Pasternak, Chlebnikov, l’Achmatova, Hasek, Holan e Seifert), slavista vicino alle esperienze del Gruppo ‘63, senza parteciparvi davvero, votato soprattutto al mondo cèco: del Golem, di Kafka, del Buon Soldato Svejk e, appunto, di Rodolfo II (protettore di Arcimboldi). Folgorante fantasma atrabiliare di questo magnifico ritratto in nero. «Ma chi era Rodolfo II, questo mecenate di luminari e di ciurmatori, alla cui corte mi sembra di esser vissuto?». Ecco come con (finta) semplicità di cantastorie insulare, AMR ingrana la marcia di questo romanzo gotico, che via via si fa più rapinoso: marcia trionfale e anche in parte
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Architettura
Alla corte del re
melanconico
nuziale, perché è evidente che egli si ricalca in modo morboso su questo re, che odia gli affari di Stato, che si rovina per acquistare compulsivamente «minuzie» rarissime, quisquilie dorate, «scontraffature» fantasiosissime e «artefatti sonori», cioè automi e marchingegni, che ci trapiantano subito du côté de chez Golem e di altri sinistri mostri semoventi. Riflessi quasi simbioticamente nelle «traslazioni metaforiche» e anatomiche
delle teste abitate e formicolanti del leonardeggiante milanese Arcimboldo. Che Rodolfo non solo accetta come ritrattista di corte (anche se lo rappresenta tranquillamente quale Vertumno, dio della mutazione vegetale, e dunque gonfio di rape, cipolle, poponi) dal momento che ritrattista ufficiale e con gli stessi artifici già lo fu del padre Massimiliano e del nonno Ferdinando I (per parte di madre, la doppia cugina Maria d’Ungheria, so-
rella di Carlo V, con alle spalle la follia melanconica di Giovanna la Pazza) ma che via via incatena, in quel suo regno di rapacità collezionistica e di ossessione alchemica. Pare che dorma con una fiaschetta al collo, zeppa d’elisir di vita, che dovrebbe renderlo immortale, ma resta comunque il terrore della morte, dal momento che le sue fattucchiere e i suoi «pronosticanti», come li chiama poeticamente il nostro marionettista, gli hanno predetto che verrà ucciso da un figlio legittimo (e allora via con i bastardi, a legioni. Perché le «schiattone» gli piacciono, eccome. Meglio se così oche e figlie di cerusici o d’antiquari di casa, vedi il leggendario Jacopo Strada, da farle fuori a pugnalate, senza alcun problema). Strisca nei suoi regii corridoi, come un lombrico, guai a chi lo guarda negli occhi, che tema lo sguardo altrui sulla sua sibilante misantropia. Non scende nemmeno più ad ammirare nel suo parco di grottesche le amate, un tempo, siepi di tulipani, e nemmeno il torpido leone, che lui stesso ha domato. Solo e sempre accanto ai suoi ammennicoli da Wunderkammer, che nessuno può frequentare, tranne qualche re di passaggio e d’altissimo lignaggio. E tutt’intorno un grande lezzo di mortifera alchimia, tra «vasi lutati, matracci, andrògini, le copule degli elementi, il coito del re solforoso e dalla regina mercuriale, l’identità tra la tortura dei metalli e la passione di Nostro Signore». Ma lui, che è stato allevato e ha pregato maniacalmente, alla corte «spigolistra» di Spagna, quand’era un infante, ora vaga in odore d’eresia, colloquiando con i demoni. Bisognerebbe avere a disposizione pagine e pagine, per riportare i lunghi elenchi sonanti che Ripellino immagina, altro che Arbasino!, visitando gli armadi misteriosi e le mensole gonfie di ricercatezze, seminate ovunque, dal tetro Re «saggio pagliaccio e folle poeta», come gli suggerisce una fonte cèca (tra gli «informatori» c’è anche Max Brod che fa incontrare immaginosamente Rodolfo con l’astronomo Tycho Brahe, dal naso d’oro, proprio come una maschera di Arcimboldo).
Dall’antro al patio: edificare il vuoto affina la mente uando si parla di progetto architettonico si pensa sempre al progetto degli edifici, ossia dei volumi costruiti, degli spazi edificati, ma grande importanza hanno nei sistemi abitativi e urbani anche gli spazi aperti, i vuoti intesi come luoghi verdi, cavità, cortili e logge. A questo aspetto dell’architettura è interamente dedicato il volume dell’architetto Gianpaola Spirito, appena edito da Gangemi, intitolato Forme del vuoto, rivolto alla definizione spaziale ed espressiva delle cavità dell’architettura. Innanzitutto va riconosciuto a questo libro, il raro pregio della chiarezza e del rigore logico nel condurre il lettore attraverso un terreno complesso e immateriale, quale è il progetto dello spazio vuoto nell’architettura. È infatti sempre con timore e circospezione che ci si avvicina alla lettura di libri dedicati al progetto ideativo, poiché è invalsa la consuetudine secondo la quale un progettista deve esprimere idee, pensieri, immaginazioni formali stravaganti e astruse, senza farsi ingabbiare dalle banali e noiose imposizioni della sintassi, della grammatica, della pertinenza
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di Marzia Marandola lessicale e della logica, ma srotolando citazioni, asserzioni oracolari, ermetiche riflessioni, che possono scoraggiare anche il lettore più appassionato. Al contrario l’architetto Spirito assume la stesura del libro come fosse un progetto di architettura: logico, coerente e razionale. Infatti illustra limpidamente le potenzialità e le molteplici connotazioni espressive dello spazio vuoto, delle sottrazioni di volume, dei luoghi aperti che interrompono la compattezza dell’edificato nel progetto contemporaneo. A partire dalla definizione di vuoto, che in fisica è l’assenza di materia in un volume spaziale, la definizione del vuoto è solitamente in negativo, come assenza di materia, come spazio sottratto, in opposizione a qualcosa che invece occupa positivamente e riempie uno spazio. Al saggio introduttivo che correda i più significativi scritti e pensieri sul tema dei Maestri, seguono cinque sezioni di approfondimento, ognuna della quali individua una tipo formale di vuoto. Un primo esempio di
vuoto è l’antro-cavità, che può essere compreso analizzando le definizioni di antro, ossia cavità profonda e oscura in un monte o in una roccia: questo è un vuoto che si attesta all’interno di una massa, è uno spazio prodotto in un pieno da una sottrazione e che rimanda a un abitare primitivo, quello delle caverne, alle architetture rupestri e alle grotte. Ma anche nell’architettura contemporanea questo genere di spazio è ricreato, si veda ad esempio nell’opera raffinata dell’architetto giapponese Kengo Kuma (1954) l’osservatorio sul Monte Kiro, un progetto del 1994, che inserisce lo spazio architettonico interamente all’interno del monte, provocando una spaccatura che fende la roccia e ne occulta il volume all’interno. Un’altra forma del vuoto è rappresentata dalla concavità, che può essere di diverso tipo, ma che determina una rientranza più o meno accentuata di una superficie. Si tratta in questo caso di stanze ipetre, di patii, ma anche di vuoti distribuiti lungo i prospetti, come verande e portici. Un caso esemplare sono le residenze studentesche Simmon Hall (1998-2002) del Mit di Cambridge, di Steven Holl: un volume parallelepipedo regolare, scandito da una griglia quadrangolare, scavato, intagliato e spezzato da percorsi interni, che ricreano nell’edificio una sorta di spazio urbano coperto. Il libro, squisitamente didattico, sprona e guida a indagare l’architettura con occhio attento, affinando lo sguardo e la mente.
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il paginone
Il ripudio di Pietro, che per tre volte rinnega Gesù, rappresenta la condizione umana, la nostra inadeguatezza: la buona fede e la purezza delle intenzioni non bastano a raggiungere la salvezza. Un monito puntuale per il nostro pretendere di operare grandi scelte, di proporci obiettivi altissimi senza preoccuparci di commisurarli alle nostre forze e soprattutto senza cercare la consonanza col progetto divino… di Sergio Valzania l Vangelo racconta di Dio che si incarna, accettando di incontrare l’uomo con tutte le sue debolezze. La grandezza del progetto evangelico sta proprio nel fatto che Dio ama l’uomo com’è, con i suoi limiti e le sue miserie, si china su di lui e lo accoglie nella sua pienezza, nella quale si nasconde l’identità di ciascuno. In questo modo Dio continua a fare memoria della considerazione espressa all’inizio dei tempi, al momento della creazione, quando, dopo aver constatato per cinque volte che il risultato della sua opera «era cosa buona», dopo aver fatto l’uomo e la donna il sesto giorno giunse a dire che «era cosa molto buona» (Ge 1,6-31).
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Il limite dell’uomo è insito nella sua natura, ne segna il carattere, e noi rappresentiamo questa condizione nella contemplazione del mistero del peccato originale, evento posto sul crinale della storia, che segna il distacco dell’uomo e della donna dalla condizione naturale, dell’irresponsabilità animalesca, e nello stesso tempo da una frequentazione amicale con Dio, la cui mancanza è alla base di ogni nostra angoscia. L’essere umano sceglie di abitare il mondo e Dio lo segue in questo percorso di fatica, accettando di condividere tutto quello che si trova lungo il percorso, compresi il male, il dolore e perfino la morte, unica modalità esistente per mantenere il patto di ospitalità istituito all’inizio dei tempi con la sua creatura privilegiata. Anche nei suoi momenti meglio riusciti di incontro con Dio l’uomo conferma la sua debolezza di peccatore, che forse significa solo il suo non essere anno IV - numero 16 - pagina VIII
Dio come suggerisce Kierkegaard, ma creatura limitata, che ha bisogno di mangiare il frutto del bene e del male per intraprendere il lungo viaggio che lo riconduce all’incontro con il suo Creatore dopo aver maturato consapevolezza del rapporto da instaurare di necessità con Lui. La certezza della meta non dà la forza per agire nel modo che si ritiene migliore. San Paolo ricorda che «non quello che io voglio faccio, ma quello che detesto» (Rm 7,15), anche dopo che Gesù lo ha convocato con straordinaria decisione alla sua missione apostolica. La lotta spirituale rappresenta la condizione umana e la salvezza deriva solo dall’abbandono di sé a Dio, unico in grado di accompagnarci verso di essa. Se fosse stato un obbiettivo alla portata delle nostre forze non ci sarebbe stato bisogno del sacrificio di Cristo per raggiungerlo. Fra i testimoni più umili della propria condizione di uomo si trova San Pietro, il capo degli apostoli, quello dei dodici più vicino a Gesù, che lo ama di un amore tanto determinato ma inconsapevole da arrivare quasi a irritarlo con i suoi eccessi di zelo. Così accade subito dopo il primo annuncio della Passione. Allora, secondo Matteo e Marco, Pietro prende da parte il Cristo e lo rimprovera per aver dichiarato di andare incontro a un futuro dalle apparenze tanto cupe, fino a ricevere il secco rimprovero: «Lungi da me Satana! Tu mi sei di scandalo, perché non parli secondo Dio, ma secondo gli uomini» (Mt 16,23 e Mc 8,33). L’inadeguatezza di Pietro, la sua incapacità di pensare «secondo Dio» diviene paradigma dell’esperienza di ogni uomo e ogni
Prima che il g donna, la cui natura non comprende la possibilità di conseguire la salvezza in autonomia. Al contrario per il suo compimento ci sono necessari tanto Dio quanto gli altri, il prossimo. Non ci si salva in solitudine. L’insuccesso umano di Pietro non è un fatto nascosto, ma va di pari passo con la promessa fondante del «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16,18), parole pronunciate poche righe prima del duro rimprovero seguente all’annuncio della Passione. Pro-
prio in quell’appartarsi con il Cristo, Pietro conferma il proprio primato insieme alla scarsa comprensione per quello che sta accadendo.
La vera crisi tra Gesù e il capo degli apostoli avviene però in seguito, nelle ore decisive della Passione del Cristo, ed è testimoniata da tutti e quattro i Vangeli. Si tratta di un caso piuttosto raro. Neppure l’istituzione dell’Eucarestia si trova narrata per quattro volte, in Giovanni infatti l’Ultima cena è contrad-
distinta dalla lavanda dei piedi, altra occasione nella quale Pietro si distingue per un rifiuto iniziale di affidarsi all’azione del Cristo, e non dall’offerta agli apostoli del pane e del vino. La pubblicità data alla mancanza di Pietro, del capo della comunità, nei confronti di Gesù non può essere casuale, se il protagonista dell’episodio avesse voluto mantenere il riserbo su di esso ci sarebbe riuscito almeno per una parte, invece esso viene tramandato nella sua interezza e nella duplice sofferenza che esso produce nel Cristo e in Pietro. I tradimenti d’amore spesso provocano un doppio dolore. Anche il preannuncio dato da Gesù di ciò che sarebbe accaduto è presente con formule molto simili in tutti e quattro i Vangeli. In Matteo e Marco l’Ultima cena si conclude subito dopo l’istituzione dell’Eucarestia con il canto dell’inno rituale. Poi il Cristo avverte gli apostoli che tutti si sarebbero scandalizzati di lui, come annunciato dalla profezia di Zaccaria: «Colpirò il pastore e saranno disperse le pecore del gregge» (Zc 13,7). Un gesto di tenerezza, che discolpa gli apostoli del loro comportamento futuro, dovuto alla pressione di eventi ai quali Gesù sa già che non avranno la forza di resistere. Ma Pietro non capisce, si ribella e subito replica: «Se tutti si scandalizzeranno di te, io non mi scandalizzerò mai» (Mt 26,33). In risposta Gesù dichiara: «In verità ti dico che in questa notte, prima che il gallo can-
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porci obbiettivi altissimi senza preoccuparci di commisurarli alle nostre forze e soprattutto senza cercare la consonanza con il progetto divino.
gallo canti ti, mi rinnegherai tre volte» (Mt 26,34). Allora Pietro dà un’assicurazione che non gli è stata richiesta, offre al Cristo un eroismo che supera le sue forze «Anche se dovessi morire con te non ti rinnegherò» (Mt 26,35) - e gli altri discepoli pronunciano parole simili alle sue. Luca riferisce la frase «Signore, con te sono pronto ad andare anche in prigione e alla morte» (Lc 22,33) e Giovanni riporta un dialogo fra Gesù e Pietro che si svolge poco dopo che il Cristo ha svelato il tradimento di Giuda e lo ha invitato a completarlo con la frase: «Quello che devi fare fallo al più presto» (Gv 13,27).
Quello che si dicono il Cristo e il capo degli apostoli certifica la solitudine del primo alle soglie della Passione insieme alla dimensione cosmica del tradimento, che non appartiene a un solo uomo, ma li coinvolge tutti come prodotto della loro inadeguatezza. Giuda e Pietro sono affiancati in modo tragico, entrambi distanti dal Cristo, anche se con diversi gradi di consapevolezza. Il dramma di chi vorrebbe rimanere fedele presenta tinte più struggenti di quello di chi è deciso nel tradire. Il primo non riesce a portare a compimento il proprio progetto il secondo ne sarà travolto. La tenerezza delle frasi scambiate fra Gesù e Pietro non cancella l’abbandono che si sta compiendo, nella consapevolezza che neppure la buona fede e la purezza delle inten-
Può capitare infatti che l’errore dipenda anche dallo zelo, come nel caso di Pietro. È l’affetto che prova per il Cristo a spingerlo a seguirlo dopo che è stato arrestato insieme a un altro discepolo, con molte probabilità Giovanni, data anche l’accuratezza del suo racconto relativo all’avverarsi della predizione di Gesù. Proprio questo discepolo, conosciuto nella casa del sacerdote Anna e quindi ammesso al suo interno, parla con la portinaia perché anche Pietro sia lasciato entrare. L’apostolo ripudia Gesù una prima volta di fronte a lei che domanda «Forse anche tu sei dei discepoli di quest’uomo?». Risponde Pietro: «Non lo sono» (Gv 18,17). Così facendo l’apostolo precipita nella contraddizione. Nega la sua amicizia con il Cristo proprio nel momento nel quale lo sta seguendo, è in cerca di sue notizie, si interessa angosciato di quanto possa accadergli. In questo modo Pietro rinnega Gesù ed esplicita la condizione umana, la lacerazione che sta al fondo della nostra natura, l’imperfezione radicale la cui consapevolezza dovrebbe spingere alla ricerca di Dio. Pietro non lo sa ma il Cristo, anche durante la sua Passione continua a essergli maestro, a formarlo in vista della sua missione facendogli visitare le profondità dell’animo umano, facendogli incontrare l’urgenza dell’incontro con Dio. La scena raccontata da Giovanni prosegue con il dialogo fra Gesù e
da Marco e Luca, anche nel loro racconto una fiamma brilla nel buio e rischiara il volto di Pietro, così da rendere possibile il suo riconoscimento da parte dei presenti. Sono in molti, nelle varie versioni della vicenda, a ricordare la fisionomia dell’apostolo in prossimità del Cristo durante la sua predicazione nei giorni precedenti e qualche ora prima, al momento della sua cattura.Tutte le versioni concordano nell’indicare una donna della servitù di Anna come la prima a identificarlo. In Luca la scena ha tratti da delazione poliziesca, lei, «guardatolo fisso, disse “Anche questo era con lui”. Ma egli negò dicendo “Donna, non lo conosco!”» (Lc 22,58). Altri incalzano dopo di lei: «Poco dopo un altro lo vide e disse “Anche tu sei uno di loro!”. Ma Pietro rispose “No, non lo sono!”. Passata un’ora un altro insisteva “In verità, anche questo era con lui; è anche lui un Galileo”» (Lc 22,59). In questa ulteriore chiamata a confessarsi seguace di Gesù viene utilizzata la formula cara al Maestro «in verità», ma Pietro resiste all’insistenza e nega di nuovo: «O uomo, non so quello che dici» (Lc 22,60). I quattro Vangeli ci avvertono tutti che il canto del gallo segue immediatamente la terza negazione, solo Marco inserisce l’ammonimento anche dopo la seconda, come un anticipo del ricordo dell’avvertimento. Secondo Luca la voce di Pietro che nega si mescola con il verso dell’animale, dato che il canto arriva «mentre egli ancora parlava» (Lc 22,60). È adesso che solo questo evangelista inserisce un dettaglio che manca nelle altre redazioni. Per alcuni aspetti le contraddice, dato che esse sembrano escludere la presenza del Cristo nel luogo dove Pietro si scalda al fuoco, invece Luca riferisce di una continuità di partecipazione dell’apostolo agli spostamenti di Gesù iniziata al momento della cattura quando «Dopo averlo preso, lo condussero via
L’episodio è testimoniato da tutti i Vangeli: un caso piuttosto raro, e non certo casuale, se si pensa che neppure l’istituzione dell’Eucarestia si trova narrata per quattro volte zioni sono sufficienti all’agire umano perché esso sia risolutivo per la salvezza. «Signore dove vai?» dice Pietro. «Dove vado per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi» risponde Gesù. Pietro insiste: «Signore perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te». La replica è affidata a una domanda: «Darai la tua vita per me? In verità ti dico: non canterà il gallo, prima che tu mi abbia rinnegato tre volte». Un monito puntuale per il nostro pretendere di operare grandi scelte, di pro-
Anna, al termine del quale il Cristo viene portato da Caifa. Tutti e quattro i Vangeli sono attenti al successivo svolgimento dei fatti, che narrano con differenze piccolissime. Secondo Giovanni, Pietro rimane nella casa di Anna anche dopo l’allontanamento di Gesù, forse neppure consapevole del fatto che il Cristo è stato portato via. L’apostolo rimane nel cortile, vicino a un falò acceso dai soldati, al quale «si scaldava». La presenza di questo fuoco acceso nella notte fredda è confermata
e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano» (Lc 22,54). Se i fatti si svolgono in questo modo l’apostolo assiste alle percosse e agli scherni con i quali i soldati feriscono e insultano Gesù. Possiamo immaginare il suo dolore e la sua confusione. Non ci è difficile capire e condividere la sua incapacità a testimoniare il proprio rapporto con il Cristo, a rischio di un sacrificio che potrebbe comprendere la vita. Allo stesso modo condividiamo il suo
dramma nel momento successivo al cantare del gallo, quando «il Signore, voltatosi, guardò Pietro e Pietro si ricordò delle parole che gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”» (Lc 22,61). Solo in Luca è necessario questo sguardo di Gesù per stimolare la memoria di Pietro fino a farci dubitare che l’evangelista si riferisca a un evento realmente accaduto oppure se descriva la sensazione provata dall’apostolo, che sentendo cantare il gallo rivede la scena accaduta poche ore prima, nella quale il Cristo gli aveva anticipato i tempi e le modalità del suo rinnegamento.
Piccola cosa il cantare di un gallo, enorme mancanza l’aver negato la propria familiarità con Gesù, dopo le profferte di fedeltà fino alla morte che gli sono state fatte senza essere richieste. Pietro capisce, si allontana e piange in solitudine. Il pianto, che Matteo e Luca definiscono amaro, è presente anche in Marco, ma non in Giovanni. Quest’ultimo lascia la scena sospesa, interrotta subito dopo il canto del gallo, lasciando Pietro sgomento e senza parole. Potrebbe riscattarsi, autodenunciarsi, ammettere infine di essere un discepolo del maestro che i capi della comunità ebraica di Gerusalemme intendono mettere a morte? Non ne ha la forza e non è questo che gli viene chiesto. Perché inizi la predicazione degli apostoli è necessario che Gesù risorto si presenti a loro e che invii lo Spirito Santo a sostenerli e a proteggere la Chiesa nascente. Mentre piange, Pietro medita sui propri limiti, sulle proprie debolezze e incapacità e così facendo prega e si affida a Dio. La rimarginazione definitiva della ferita aperta nell’animo dell’apostolo nel corso della notte del venerdì della Passione di Cristo avviene qualche giorno dopo, sulle rive del lago di Tiberiade. Secondo Giovanni, Gesù risorto compare lì per la terza volta davanti ai discepoli e mangia con loro. Al termine del pasto si svolge uno strano dialogo fra Gesù e Pietro, forse l’ultimo, basato sulla ripetizione della stessa domanda. Per tre volte il Risorto chiede «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?» (Gv 21,17) e per tre volte l’apostolo risponde, riscattandosi dalle tre volte nelle quali la paura lo ha attanagliato nella notte trascorsa vicino al fuoco nel cortile della casa di Anna e cancellando così la propria angoscia. Il Cristo non lo ha abbandonato da solo con il suo tradimento, è tornato indietro da lui, è risorto anche perché Pietro, in nome di noi tutti, potesse ripetergli per tre volte «tu sai che ti voglio bene» e per tre volte si sentisse affidare con fiducia l’incarico di maggiore importanza: «Pasci le mie pecorelle».
Narrativa
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libri
Irène Némirovsky IL VINO DELLA SOLITUDINE Adelphi, 245 pagine, 18,00 euro
di Pier Mario Fasanotti
questo il miglior romanzo di Irène Némirovsky? Qualche critico ha detto di sì. Altri preferiscono La suite francese. Ben vengano questi dissensi, così ad alto livello. Sta di fatto che c’è unanimità nell’affermare che sono le pagine più autobiografiche della scrittrice di Kiev che fu arrestata dai nazisti a Parigi e uccisa ad Auschwitz nel 1942. È la storia della piccola Hélène Karlov, che vive in una piccola cittadina sul fiume Dnepr, immersa in una Russia (la regione è quella ucraina) grigia, noiosa, popolata di contadini e di piccolo borghesi con ambizioni sociali il più delle volte frustrate. La bambina è praticamente allevata dalla tata francese, Madame Rose. La madre Bella pensa solo a sé, ai suoi amanti, è incapace di affetto genitoriale, considera la figlia un impiccio, la rimprovera con tono acido e crudele. Hélène si sente vicina al padre Boris, al quale chiede, anche in modo muto, attenzione e carezze. La bimba, sugli otto-dieci anni, comincia a odiare la madre e a detestare tutto ciò che ha a che vedere con i sentimenti amorosi. Ha le sue «oasi di luce», contenute nella sua cameretta, nel sogno di vivere a Parigi (la Francia è per tutti il faro che illumina il mondo), nel gusto che trova nei libri e nelle sue elucubrazioni mentali. Hélène - e l’autrice insiste con tono dolorosamente profetico, in riferimento a sé - vive molto sola, trova risorse interiori, ma «nel suo petto il cuore era pesante e colmo di un dolore complicato, strano e indecifrabile». Al tempo stesso la sua nevrotica sensibilità ruota attorno a «un pudore selvaggio»: è una fase evolutiva, ma attraversata senza la serenità di figlia. Il padre perde il lavoro e si trasferisce in Siberia, per ricominciare. Gli affari gli vanno bene, anzi diventa molto ricco. Ed è sempre sordo e cieco verso una moglie che ama, una donna che si lega scandalosamente a un giovane di 25 anni. La famiglia si trasferisce a Pietroburgo. Anni di guerra: 1914, 1915, 1916 e la rivoluzione russa comincia a far baccano nelle strade. Ma Bella, Boris e gli amici affaristi addirittura non leggono i giornali, non s’accorgono del colpo di coda della storia, immersi come sono, e così meschinamente, nel contare
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«Tutto in questa casa è di seconda mano». E Bella? Si aggrappa all’amante, segretamente gioisce se qualche ospite sbircia la sua scollatura, sempre orgogliosa del suo «bel seno», del corpo che sarà destinato a diventare logoro terreno di creme rassodanti, erbe, massaggi e altri finti diversivi. La combriccola affaristica s’interessa di tutto ciò che si può rivendere, dalle derrate alimentari ai vecchi cannoni austriaci. Uno degli avidi commensali osserva: «Perché quando si avvia un affare, non si può mai sapere se sarà pulito o no». Società comprate e rivendute, speculazioni borsistiche, accumulo forsennato di gioielli, lingotti d’oro, pellicce, fino ad arrivare al punto di imbottire poltrone e divani di azioni e banconote. Pochi ricchi, anzi ricchissimi, mentre i soldati straccioni muoiono al fronte e i rivoluzionari stanno per ferire mortalmente una medio-alta società corrotta e miope. Hélène intanto continua la sua guerra contro la madre e il suo amante che «si strusciano» sui divani. Max, il cicisbeo di Bella, manifesta fastidio e odio verso la ragazzina. Ma a poco a poco, anche per il pericoloso e vendicativo gioco di seduzione di Hélène, finirà per corteggiarla. E a proporsi come marito. Hélène rifiuta, ma assapora l’inevitabile sconfitta della madre. I bolscevichi s’impongono: gli affaristi fuggono, arraffando il più possibile. La squilibrata famiglia Karlov arriva a Parigi, assieme a tanti esuli russi che intingono nello champagne l’intuito di un destino di rovina. Bella continua nell’amoroso bamboleggiare. Balli e chiacchiere fino all’alba, visi sfatti che dondolano verso le camere degli alberghi, maschere che si muovono più con comicità che tragedia, nobili che vivono di espedienti, fantasmi su fondali di ipocrita cartapesta. Che cosa trattiene ancora in casa la ventenne Hélène? Il padre, sfinito fisicamente e ormai impoverito. Ma alla sua morte ha il coraggio di uscire, di sedersi su una panchina del Bois de Boulogne e lì pensare a un futuro che sia, questa volta, tutto suo: «Sono sola, ma la mia solitudine è aspra e inebriante». Riflette sui dolorosi «anni di apprendistato», sull’infanzia rovinata dalla madre, ma dice a se stessa di non aver più «paura della vita».
L’apprendistato di Hélène, alias Irène
Personaggi
“Il vino della solitudine” è, a detta di molti, il romanzo più autobiografico della Némirovsky azioni, cedole, banconote. La stessa casa è piena di oggetti con stemmi nobiliari appartenuti a una classe in estinzione. La Némirovsky descrive splendidamente lo squallore di questi uomini d’affari che considerano la guerra solo un’occasione commerciale: «…febbrili, inquieti, dallo sguardo impaziente, le mani tese e avide come artigli». Hélène osserva, si disgusta e annota:
Onia e Carlo: una vita tra arte, sogno e letteratura ochi tratti decisi, a china, restituiscono il volto di Pepe, il piccolo capraio. Un bimbetto irrequieto, che di certo non sarà stato a lungo in posa per quel ritratto. Ma la mano di Anne Donnelly, e soprattutto il suo sguardo, non ha bisogno di tempi lunghi, di indugi, perché viaggia sui registri dell’anima. È datato 1957, come anche La zingara e Il villaggio dell’Andalucia: piccole grandi opere, uscite da vecchie, preziose cartelline («i suoi disegni più preziosi... un album intimo... istantanee segrete» come ha scritto sua figlia Margaret Mazzantini), in mostra fino al 27 aprile a Roma, alla Galleria Dafne Arte, in via delle Colonnette 20. Il carro invece è datato 1964, un lavoro «dal tratto giapponese», come ha scritto uno dei suoi tanti estimatori, il compatriota poeta irlandese Seamus Heaney (premio Nobel per la letteratura nel 1995), riferendosi a un’opera di Anne custodita su una sua parete. «Un ideogramma... combinazione di tocco squisito e di fermezza essenziale, “una disciplina - come dice Yeats - in cui il cuore che contempla raddoppia la sua forza”». Ed è così che dall’ideogramma emerge la forma, il mezzo di trasporto che riporta, come quelle donne chinate al raccolto, a quella Toscana rurale abitata un periodo, dopo l’Andalucia, dall’artista nomade (e Anima nomade è il titolo della mostra romana) nei suoi spostamenti con l’amore della sua vita,
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Carlo Mazzantini, scomparso nel 2006, uno dei ragazzi di Salò, avventura rievocata in modo esemplare nel Carlo Mazzantini, a cui la mostra è dedicata. Anne suo ormai celebre A cercar la bella morte. Si legge nelOnia Donnelly è nata a Belfast, ha studiato Belle Arti a le pagine di L’italiano di Tangeri (Marsilio, 249 pagine, Dublino, Madrid e Parigi, e insieme al marito e alle 18,00 euro): «Quella era vita!...Vi garantisco...Vita vera, quattro figlie si è spostata per il mondo, per stabilirsi vissuta con gli occhi, la pelle, respirata, assorbita da definitivamente in Italia nel 1963. Le sue opere appaio- tutti i sensi... Nessun impegno, pena, preoccupazione, no in prestigiose collezioni pubbliche e private. «Carlo avevamo dimenticato tutto, chi eravamo, perché eravae Onia ragazzi - racconta ancora Margaret - raggiun- mo lì, cosa sarebbe stato domani... Oona preparava il sero questo lembo di mondo intatto tra mare, Sierra e suo cavalletto, la scatola dei colori, metteva un cappelfiume, in groppa a un mulo. Non c’era acqua corrente, lo di paglia sul capo, si avviava giù per la china verso non c’era elettricità. Solo catapecchie color sabbia e la riva sabbiosa. E a me, vedendola scendere con quel volti scuri di caprari, di pescatori maldestri, impauriti suo passo gentile, sembrava che tutta la grazia del mondo le facesse corona... La sera, dall’Atlantico. Vissero lì il tempo più puquando il sole stava per immergersi ro, dell’incertezza, dell’amore appena risulla linea dell’orizzonte, Pepe, il piccovelato. Cercavano un luogo lontano, staclo capraio, chiudeva il suo gregge di cacato dal resto, un anello smarrito. Che li pre spelate nello stazzo di vecchi rami riportasse indietro all’essenza di se stese scendeva sulla spiaggia. Lo seguivasi, un battesimo. Nei disegni no i suoi fratelli più piccoli, Dieguito e di Onia palpita questa preMarequita, una bimbetta dal volto arcarietà, questo desiderio guto, la vestarella sfilacciata svolazviolento di purezza. Che rezante sulle gambe magre... Accompasterà la vera intenzione di gnata da quella brigata di piccoli saltutta la sua opera pittorica». timbanchi Oona tornava su per prepaQuella stessa Andalucia rirare con me un po’ di cena». torna nell’ultimo, incompiuOnia e Carlo... Quella era vita! Una vito romanzo - in bilico tra ta insieme. autobiografia e rêverie - di Pepe il piccolo capraio (1957)
I disegni di Anne Donnelly e il romanzo postumo di Mazzantini, “L’italiano di Tangeri”
di Gloria Piccioni
MobyDICK
poesia
23 aprile 2011 • pagina 19
La Pasqua e il Novecento di Francesco Napoli on è certo uno dei testi capitali del grande poeta romagnolo, ma volendo affrontare questa volta un tema e non una singola figura poetica, e volendosi attenere alla festività di questi giorni e, ultimo paletto, al nostro Novecento, aprire l’intervento con Giovanni Pascoli mi pare la partenza più idonea. Che sia lui l’iniziatore del XX secolo poetico italiano ci sono pochi dubbi critici, e poi che il tema di Gesù connesso a quello della fanciullezza possa essere denso di suggestioni, incroci e legami con l’intera sua opera, è altrettanto evidente. Nei versi pascoliani riportati si legge dell’amorevole accoglienza che Gesù ebbe per i fanciulli, tutti, nessuno escluso, perfino per il figlio dell’assassino che venne liberato al suo posto, lo stesso trattamento («e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi») che il poeta sentì venir meno a cominciare dalla notte nella quale la famosa cavallina storna non fece ritorno a casa. Un Gesù molto distante da quello effigiato dai pur «pascoliani» crepuscolari che trasfigurarono con continuità la figura evangelica (10 occorrenze della parola «Gesù» nella poesia di Moretti, 9 in quella di Corazzini e Palazzeschi, 7 in quella di Gozzano). Ma non c’è da meravigliarsi più di tanto: nell’ambito di quella poetica molti temi e parole giungono consacrate dalla tradizione decadente ma scemano nella valenza originaria e il ricordo della loro genesi poetica è più un velato codice orientato su affinità elettive che altro.
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Ma oggi, Sabato santo, si vuole rammentare, seppur in breve, come è stata cantata la Pasqua nel XX secolo italiano. E non nel modo di Corrado Govoni, altro crepuscolare detto per inciso, come lo si legge in Pasqua, componimento raccolto in Fiale (1903), che «non è Pasqua di resurrezione» in un azzardato parallelo con se stesso ma una «Pasqua sconsolata pel mio cuore!»; e non nell’appena accennato ricordo di Campana in un frammento fiorentino alquanto incompiuto dove tra piedini che «andavano armoniosi» e «cappelloni battaglieri» di lungi, per le strade del capoluogo toscano, «scampanava la Pasqua per la via». Meglio, pur restando in ambito crepuscolare, leggere alcuni versi gozzaniani, ancora una volta Pasqua il titolo. La poesia non fu mai accolta in volume dal poeta piemontese, probabilmente perché le tre terzine di cui si compone non vanno oltre la misura dell’esercizio. Certo metricamente ben disposto, dove il consueto e sapiente contrasto tra pedale ironico e gusto per la tradizione ancora una volta sono ben dosate da Gozzano, come si vede bene nella terzina conclusiva dove si legge il richiamo a una remota quanto oggi solida tradizione, fin troppo consumistica ahimè: «Quand’ecco dai pollai sereno e nuovo/ il richiamo di Pasqua empie la terra/ con l’antica pia favola dell’ovo». L’usanza dello scambio di uova decorate si sviluppò nel Medioevo, come regalo alla servitù. Nel medesimo periodo l’uovo, da pre-
il club di calliope
GESÙ E Gesù rivedeva, oltre il Giordano, campagne sotto il mietitor rimorte, il suo giorno non molto era lontano. E stettero le donne in sulle porte delle case, dicendo: «Ave, Profeta!» Egli pensava al giorno di sua morte. Egli si assise, all’ombra d’una meta di grano, e disse: «Se non è chi celi sotterra il seme, non sarà chi mieta». Egli parlava di granai ne’ Cieli: e voi, fanciulli, intorno lui correste con nelle teste brune aridi steli. Egli stringeva al seno quelle teste brune; e Cefa parlò: «Se costì siedi, temo per l’inconsutile tua veste». Egli abbracciava i suoi piccoli eredi: «Il figlio» Giuda bisbigliò veloce «d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi: Barabba ha nome il padre suo, che in croce morirà». Ma il Profeta, alzando gli occhi, «No», mormorò con l’ombra nella voce, e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi. Giovanni Pascoli in Poesie varie
Eravamo tutti perdonati. Perché l’aria ci assorbiva nella sua temperatura. La testa piegata di lato, la guancia che tocca la spalla e quasi l’accarezza. Liscio il respiro, sollevato volante. Il cuore pattinava controvento. Oh varietà! Oh insieme! Ogni strada è felice se una pioggetta tiepida intimidisce la luce e la costringe a spargersi senza predilezioni. Più che perdono. Eravamo accolti. Patrizia Cavalli
sentarsi essenzialmente come un simbolo vitale nelle religioni orfiche e pitagoriche dell’antichità o della rinascita primaverile della natura in epoca medioevale, andò a intrecciarsi con il Cristianesimo, divenendo il simbolo della rinascita dell’Uomo, di Cristo: la diffusione del regalo di un uovo, decorato o meno che fosse, di cioccolato o d’altra natura, divenne sempre più insistita, com’è risaputo. Ora, se un ampio e ricco florilegio sul tema è possibile leggerlo nella Pasqua dei poeti (Ancora edizioni) - selezione di oltre cento tra le più belle poesie del Novecento italiano sul tema con pagine dei poeti italiani più rappresentativi quali Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Mario Luzi, Ada Negri, Giovanni Testori, scovate dai curatori Giovan Battista Gandolfo e Luisa Vassallo - mi soffermo ancora su due dei tre grandi corni della poesia italiana del XX secolo, Umberto Saba ed Eugenio Montale. Il terzo è Ungaretti.
Nel poeta triestino occorre 4 volte la parola «Pasqua» e la prima in un titolo, Nella sera della domenica di Pasqua, sonetto della sezione «Poesie dell’adolescenza e giovanili» del martoriato Canzoniere. L’attacco, tutto petrarchesco con quel «Solo e pensoso dalla spiaggia i lenti/ passi», defluisce con gran naturalezza verso un richiamo memoriale già nella prima quartina quando, nella sera di Pasqua, «una campana/ piange dal borgo sui passati eventi». Richiamo memoriale dunque, quel rintoccar da lungi del bronzeo strumento di chiesa, quasi pari a quello che ancora una volta la festività evoca in Saba, ed è la Pasqua dei «riti lunghi e strani/ dei vecchi» a dar vita a Un ricordo, componimento pressoché coevo al precedente, dapprima titolato Il primo amore. Il poeta non riesce a prender sonno ripensando a un primo, lontano amore e si chiede in conclusione «perché non dormire, oggi con queste/ storie di, credo, quindici anni fa?». Ma è un bel dittico montaliano la più degna conclusione di questo mini percorso a tema. Se è in parte indecifrabile a chi il poeta allude quando in Pasqua senza week-end (in Satura) si chiede «dove potrò trovarti/ nel vuoto universale?», più limpida appare la situazione in Sera di Pasqua (in Quaderno di quattro anni). Si lamenta Montale di come «alla televisione/ Cristo in croce cantava come un tenore/ colto da un’improvvisa/ colica pop», alludendo al Jesus Christ Superstar. Ironico e sarcastico risolve l’imbarazzo per quello che gli appare «la religione del ventesimo secolo» con semplicità: «intanto/ chiudiamo il video», dichiara, «Al resto/ provvederà chi può (se questo chi/ ha qualche senso). Noi non lo sapremo». Ma purtroppo il video da allora nessuno l’ha più spento all’apparire dell’inesprimibile nulla.
CARIFI ALLA FRONTIERA DI UN NUOVO DIRE in libreria
di Loretto Rafanelli
iù volte abbiamo parlato di Roberto Carifi, dicendo del suo assoluto valore; oggi siamo di fronte al suo nuovo libro di poesia (Tibet, Le Lettere, 88 pagine, 12,00 euro), un evento che aspettavamo da tempo. Carifi in questa raccolta spiazza il suo fedele lettore, presentandosi non più come il poeta che consegna il suo cuore lacerato da una ferita perenne, bensì come colui che «benedice la morte, la malattia, il pericolo, la paura», come osserva con intelligenza Massimo Baldi nella nota di presentazione. Carifi, come un vecchio saggio, contempla le tragedie umane e suggerisce, senza farsi maestro, alcuni percorsi. C’entrerà in questo la vocazione religiosa buddista, unita però alla croce, «la pianta che non dà frutti ma che è la no-
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stra sola speranza» come diceva la Weil; ma certo si tratta di un passaggio verso un’altra terra, verso un’altra verità. Ma Carifi, poeta dal grande pensiero, non appesantisce mai il verso e la sua poesia - attraversata dalle più stupefacenti metafore (Ortega y Gasset, troverebbe qui la conferma che esse sono uno strumento della creazione divina) - ci appare un evento disposto verso l’aurora, nella perfezione di una parola alta che nella grazia e nell’umiltà del suo farsi si fa preghiera. Ciò gli permette di riconsegnare la poesia a quel ruolo di «luce contemplativa» che porta in sé i tratti di una grande rivelazione e di un epocale tempo e segna il passaggio («salutavo il mio corpo,/ prendeva l’anima il suo posto») verso un nuovo dire.
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di Marco Vallora he emozione, davvero, che sia il suono a fare memoria, che sia la musica, a ricordare un indimenticabile amico della musica e dell’intelligenza, quale Giuseppe Sinopoli. Che è difficile cancellare dal proprio ricordo d’amicizia, perché era un vero e raro fedele della sensibilità degli altri, quali ne esistono pochi, anche nel mondo inquinato ormai dell’arte. E disponibile sempre e generoso, nel condividere i propri percorsi di scoperta e d’approfondimento, nel coronare, con una brillante parola, luminosa, quello che straordinariamente ti sapeva già comunicare con la musica. Ma è difficile anche dimenticare la tellurica impronta emotiva di sue storiche interpretazioni, che lampeggiano ancora, in filigrana, inesorabili, alle spalle di scialbe e inespressive esecuzioni-brodino, di mitizzati ragazzini discografici e primini decorativi, lanciati dello star system e che solo gl’imberbi dell’ascolto posson applaudire, stregati e frenetici. Ma veniamo alla recente occasione d’omaggio a Sinopoli, riservatagli dall’Orchestra di Santa Cecilia, sottolineando persin troppo, in un nobile programma di sala, ove brillano il saggio di Oreste Bossini e una folgorante sintesi di Lenny Bernstein, il rapporto affettuoso ma contrastato del Maestro, con la «sua» conflittuale orchestra romana che pure tanto gli deve. La «terminale» Nona di Mahler, scritta a Dobbiaco, a caval di secolo, nella piccola casetta di composizione: sinfonia morente e stoica, che vive appunto di morte e di meditazione estrema e di strappi fatidici. Ci sono esecuzioni della Nona che letteralmente mettono i brividi, come quella indimenticabile di Abbado, al Lingotto di Torino, poco dopo la malattia. Un gorgo spaventoso d’abisso ove il suono, martellato, smaterializzato via via sempre più, finiva per scomparire, per sempre, terribilmente, in una botola cosmica. E anche la Nona di Sinopoli, dell’86, grandiosa, non mancava certo di questo volto estremo: di cataclisma delle forme. Pappano è diverso, per natura, vitalistica. Ba-
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Televisione
Classica SABATO SANTO A MOTTOLA Ogni Mahler L è un altro Mahler MobyDICK
spettacoli
FOLKLORE
Giuseppe Sinopoli sta vedere come afferra, corposamente, il bandolo dell’inaugurale «Andante comodo». All’inizio è palpabile, questa volontà commossa di pensare a e «alla» Sinopoli, oltre che a Mahler. O meglio, d’evocare soprattutto un Mahler ferito, irrisolto, irrequieto, «visto» attraverso gl’occhi colti e il cuore del direttore-compositore venetosiciliano, scomparso drammaticamente, folgorato sul podio. Recitati colori acidi, spettrali, talvolta quasi grottesci, nell’arroventarsi successivo del Rondò-Burleske e nel volutamente volgare Laendler simmetrico, quasi ironico-parodico - in senso post-romantico. Denudando il suono d’ogni belletto spurio. La banda d’ottoni, in esterno, dietro le quinte, che pare risuonare come sfasata, slogata da ogni contesto (memoria della
sua vita infantile, nei pressi della caserma di Jihlava. In quest’indissolubile contrasto tra dolore e deformazione della bellezza, causticità e volgarità del mondo, di cui converserà persino, consapevole, con Freud). Presentissima, questa consapevolezza, all’aprirsi calcolato d’una sinfonia, ancora una volta profondamente nicciana, speculativa. Ove la morte stessa esplode «con forza inaudita», nella più dolorosa gioia di vivere. Da questo momento, il vitalismo istintivo, quasi corposo, variopinto di Pappano, riprende il sopravvento e addio Sinopoli, addio Abbado con quell’ineguagliabile morte del suono, dentro il suono. Eppure, che bello avere ancora una volta la certezza che ogni interpretazione ha la sua legittimità, che ogni Mahler è un altro Mahler!
e arti dello spettacolo dal vivo nel sacro. Proprio questa relazione è al centro del libro La Settimana Santa di Mottola, edito dalla Clueb. Basato su una ricerca di campo svolta nel paese pugliese da un giovane gruppo di ricercatori proveniente dal Dipartimanto di Musica e Spettacolo dell’Università di Bologna, il libro parla delle metamorfosi e dei mutamenti delle tradizioni che accompagnano la celebrazione della Pasqua nel paese in provincia di Taranto. Tra queste, una particolare attenzione è stata posta all’Eucologia del Salterio e al Musical sulla vita di Gesù che, di anno in anno, pongono in essere un interessante sposalizio tra contemporaneità e tradizione. Oltre a essere un’interessante e raro esperimento di carattere accademico nell’ambito dell’antropologia dello spettacolo, il volume analizza con solide basi scientifiche ogni aspetto dell’evento e del contesto. In tal modo, La settimana santa di Mottola si propone come un’utile strumento di consultazione per eventuali ricerche future nel campo delle manifestazioni sacre e come un’immancabile elemento di memoria storica per la cultura locale. «Un testo atipico» ha spiegato Giovanni Azzaroni, promotore dell’iniziativa e curatore del volume, durante la presentazione, in cui appare chiaro come e quanto ogni membro del gruppo abbia realmente contribuito alla costruzione di una relazione tra «l’osservato» e «l’osservatore». Dopo i volumi dedicati alle Settimane Sante della valle d’Agrò, in provincia di Messina, e di Castelsardo (SS), questo di Mottola è il terzo della collana «Storia del folklore e delle tradizioni popolari» inaugurata nel 2009.
Studiare l’impero romano su History Channel uale genitore non ha mai notato che i libri di testo di storia (medie e liceo) sono un po’ noiosi? La stessa cosa vale per il poco appeal con il quale molti docenti - salvo eccezioni - narrano vicende lontane a una platea di ragazzi che oggi tende a considerare il passato come inutile e lezioso fardello mnemonico. Accanto ai libri l’editoria ormai offre video. I professori sono diffidenti. Ma siamo sicuri che questo atteggiamento sia fondato su una diretta conoscenza dei nuovi, possibili, strumenti didattici? Per niente. Occorre che anche chi insegna presti attenzione all’affascinante serie che History Channel (Roma: il trionfo e la caduta) ha cominciato a dedicare alla civiltà che ci è stata madre. Filmati, narrazioni molto chiare, giudizi e opinioni di esperti anglosassoni tradizionalmente molto abili a divulgare senza dimenticare l’esattezza storiografica. Inglesi e americani,
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ma non solo. Basta sfogliare il libro del francese Paul Veyne (L’impero greco romano, Rizzoli) e la storia antica diventa una miniera di sollecitazioni e di riflessioni. Noi italiani, gli «eredi», siamo francamente meno abili. Tornando alla serie televisiva, prendiamo la puntata che narra di Domiziano e di Traiano. Il primo, un inetto alla ricerca di gloria personale (non coincidente con gli interessi statali), come prima cosa si guadagna una facile vittoria «dimostrativa» contro i Germani. Ha la
diffidenza del Senato, ma l’appoggio dei militari cui concede un aumento (ben 25%) di paga. Saputo che Decebalo, capo dei Daci (abitanti la regione che oggi si chiama Romania), coagula alleanze contro Roma (che ha sempre messo in pratica il motto divide et impera), muove all’attacco dopo l’invasione dacica della Mesia (con carneficina spaventosa). I barbari che si muovono sotto il Danubio sono minaccia grave. Prima e umiliante sconfitta delle aquile romane, con l’oltraggiosa uccisione del governatore. Seconda battaglia: Domiziano ha la meglio, i Daci si ritirano e accettano un trattato di pace. Osservazione di uno storico: Domiziano non approfitta della vittoria, proprio come George Bush senior dopo la guerra del Golfo. Intanto a Roma i soggetti politici non sono più tre ma quattro: c’è anche il «palazzo». Ed è qui che si ordisce la congiura contro l’uomo che si è autoproclamato Dominus et deus, impo-
verendo la popolazione per favorire le legioni e per bislacche campagne militari. Un servo, armato dai congiurati di palazzo, accoltella Domiziano. Il Senato designa un uomo «di passaggio», Nerva, anziano e senza figli. Questi saggiamente affianca a sé Traiano, bravo come generale e come diplomatico. Poco dopo la Dacia, che si è arricchita con i soldi e la tecnologia di Roma, s’inginocchia davanti alle legioni. Si trova il tesoro di Decebalo (decapitato) e con questo (225 tonnellate di oro, 100 di argento) Traiano finanzia un grandioso piano edilizio di Roma (rimane oggi la splendida colonna traianea). L’imperator, dieci anni dopo, decide di espandere il dominio nell’attuale Iraq, regno dei Parti. Ormai anziano, sottovaluta i nemici e alla fine si ritira da una zona desolata e ostile, dopo aver accarezzato l’illusione di diventare un novello Alessandro. La situazione dei Parti ricorda ancora l’attuale dramma iracheno. Sarà Adriano, e poi Marco Aurelio, a disegnare la storia romana (p.m.f.) con maggior realismo.
Cinema
MobyDICK
23 aprile 2011 • pagina 21
di Anselma Dell’Olio
ource Code, un thriller fantascientifico, adopera lo stratagemma narrativo di Ricomincio da capo, la stupenda favola filosofica diventata di culto, con Bill Murray nei panni di un egocentrico, vanitoso metereologo tv. Phil Connor, obbligato a fare un servizio detestato in un paesino sperduto, si sveglia giorno dopo giorno con la condanna di ripetere la stessa giornata, finché non si ravvede. Groundhog Day (titolo originale) era un film profondo, travestito da commedia esilarante. Source Code è un coinvolgente thriller fantascientifico in cui il capitano dell’aeronautica Colter Stevens (Jake Gyllenhaal) si sveglia su un treno, in compagnia di Christina Warren, una donna sconosciuta (Michelle Monaghan) che lo chiama «Sean», e gli parla con familiarità come si farebbe con un conoscente e compagno di pendolarismo quotidiano dalla provincia verso Chicago. Stevens, annebbiato e confuso, si scusa e va al bagno per lavarsi la faccia ma nello specchio si riflette l’immagine di un altro, a lui estraneo. In tasca trova la carta d’identità di un insegnante di scuola di nome di Sean. Mentre torna al suo posto il treno esplode, e il soldato si ritrova in una capsula, davanti a un monitor dove un militare di nome Goodwin, un ufficiale in divisa (Vera Farmiga) lo interroga su quello che ha visto sul treno. Dopo aver appurato che il capitano era troppo disorientato perché dia risposte soddisfacenti alle sue domande, sui compagni di viaggio e su persone possibilmente sospette, viene catapultato ancora sullo stesso treno, dove si risveglia nella stessa poltrona, con Christina che gli dice esattamente le parole della volta precedente, su un suo consiglio che lei ha deciso di seguire. Stevens rivive ancora gli stessi otto minuti, esplosione compresa.
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Un poco alla volta i pezzi del puzzle si ricompongono; insieme con lui, cominciamo a capire che è coinvolto nella simulazione di un attentato terroristico realmente avvenuto poco tempo prima, in cui sono stati uccisi tutti i passeggeri del treno, poco prima delle otto di mattina. Sotto certe condizioni, che riguardano i tempi di cessione delle funzioni cerebrali dopo la morte, la tecnoscienza è in grado di far rivivere a un essere umano vivo, determinati episodi non troppo lunghi di un evento del recente passato, nel corpo di un’altra persona deceduta. La missione di Stevens è di tornare sul treno nelle sembianze dell’insegnante morto nell’attentato, e rivivere i suoi ultimi otto minuti di vita, fino a quando non riesce a individuare l’attentatore e il luogo dove ha collocato la bomba. Solo così si può sperare di arrestare il terrorista, prima che colpisca ancora. I servizi segreti hanno informazioni su un secondo complotto per compiere un nuovo eccidio, questa volta al centro di Chicago nell’ora di punta, con un numero di vittime ben più alto dell’attentato ferroviario. Goodwin è agli ordini di un sovrintendente, il dottor Walter Rutledge (Jeffrey Wright). «Ci sono solo sei ore di tempo: non possiamo fallire». Il ritmo è serrato; la tensione resta alta. Il capitano comincia a chiedere se non è possibile prevenire un disastro ex post facto, con l’aiuto dell’algoritmo di base (source code) e incalza con domande scomode sul perché è stato scelto proprio lui per l’operazione; non stava su un aereo di combattimento in Afghanistan? La domanda filosofica che il racconto pone, però, è un’altra: «Che cosa faresti se sapessi di avere solo otto minuti da vivere?». Da vedere.
Un algoritmo per non morire Usa lo stratagemma di “Ricomincio da capo” il thriller fantascientifico “Source Code”: ritmo serrato e alta tensione, da vedere. Garbato e ben girato l’italiano “Faccio un salto all’Avana” mentre delude “L’altra verità” di Ken Loach. Poi, per i più piccoli, c’è Winnie the Pooh
Faccio un salto all’Avana cerca la quadratura del cerchio degli intrattenimenti italiani da botteghino: fare una commedia popolare, colorata, allegra e divertente, senza scivolare sui comprovati tropi e stilemi triviali ma efficaci dei cinepanettoni. Il risultato è un non cinecocomero garbato su due fratelli molto diversi. Fedele (Enrico Brignano), come annuncia il nome, è buono, mite, accomodante.Vittorio (Francesco Panoffino) è il maggiore, è furbo, scansafatiche, mascalzone, un piccolo delinquente fatto e finito. Sposano le figlie di un ricco imprenditore, e quando il più grande sembra morto in un incidente, tocca al fratellino assumersi le sue responsabilità in azienda e verso la vedova e le figlie piccole. La moglie di Fedele è un’arpia continuamente sotto cura per l’infertilità. La satira della donna determinata a diventare mamma a ogni costo è slapstick pungente: dispiacerà ai sostenitori dei bimbi-a-ognicosto e alle femministe accecate da una parità-trappola (malinformate sui pericoli dei bombardamenti ormonali da cliniche rapaci e senza scrupoli). Si scopre per caso che il mariuolo è vivo e vegeto a Cuba, e Fedele parte per riportarlo a casa. In realtà è un film impegnato sotto traccia, senza lagne e predica. Vittorio ha una complice cubana, la simpatica e calzante Aurora Cossio, che non è la solita «gnocca» ma ha carattere e un ruolo vero. Alma fa da esca ai turisti del sesso facile, e Vittorio li fotografa in posizioni compromettenti, per poi ricattarli. Più che un magliaro, è un benefattore dell’umanità. Il film è garbato, ben girato, con molta musica; meritevole l’ambizione di ispirarsi a Basilicata coast to coast, il piccolo e riuscito film comico-musicale di Rocco Papaleo. L’altra verità è l’ultimo film di Ken Loach, in concorso al festival di Cannes l’anno scorso quando è mancata The Tree of Life, l’assai rimandata opera di Terrence Malick, presente sulla Croisette il mese prossimo, nella speranza che sia la volta buona. Il paladino della classe operaia, invece, con Route Irish (il titolo originale preso dalla strada più pericolosa del mondo, quella tra l’aeroporto di Baghdad e la Zona Verde dove alloggiano gli stranieri) prende di mira i contractors, per la sinistra volgari mercenari, esecutori materiali del lavoro sporco in Medio Oriente. Frankie e Fergus sono amici inseparabili, anche nel servizio militare. Dopo il congedo, i due amici vanno a fare i militari privati in Iraq, 10 mila dollari al mese esentasse. Frankie, uno fortunato e specialista della sopravvivenza, muore sulla Route Irish ma Fergus non crede alla banalità che stava «nel posto sbagliato al momento sbagliato». Inizia a indagare con l’aiuto della vedova e un cellulare con video che documenta la strage involontaria e insabbiata di una famiglia di iracheni. Anche chi è ideologicamente d’accordo che la privatizzazione del conflitto nella guerra al terrore sia il male assoluto, ha trovato questo nuovo film del bravo e schieratissimo regista di Riff Raff - meglio perderli che trovarli, Piovono pietre e Il vento che accarezza l’erba, sterile, piatto e con poche zampate. Meglio cercarsi Il mio amico Eric (2009), una simpaticissima commedia che ruota intorno all’amore per una donna, per il campione Eric Cantona e per il Manchester United. Winnie the Pooh è un regalo di Pasqua per famiglie. Ritornano i libri classici di A.A. Milne per un film d’animazione semplice e godibile. Ci sono tutti gli amici dell’orsetto mielomane amato da generazioni di bimbi: Tigro, Tappo, Pimpi, Uffa, Ro e l’adorato ciuccio Ih Oh. La storia, seguibile dai più piccoli, scatta da un messaggio di Christopher Robin, equivocato per l’avviso di un rapimento. Dietro c’è John Lasseter, il capo creativo di Disney e Pixar, una garanzia.
ai confini della realtà I misteri dell’universo
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MobyDICK
di Emilio Spedicato
o strumento più preciso per il calcolo del clima nel passato è la dendrocronologia. Questa tecnica, sviluppata da qualche decina di anni, si basa sulla misurazione della dimensione e della tipologia degli anelli di accrescimento annuali delle piante. Quando il clima è piovoso e caldo gli anelli sono più larghi; quando è freddo e meno piovoso sono più stretti, con particolari modifiche anche al tessuto legnoso. I dendrocronologi affermano che le loro datazioni siano precise nell’arco dell’anno, ma su questo è lecito dubitare. Infatti, l’accrescimento potrebbe essere interrotto da movimenti del terreno, conseguenti ad esempio a esondazioni o a terremoti: in alcuni casi potrebbero aversi due anelli nello stesso anno, o fenomeni particolari nel caso - tre volte avvenuto secondo Erodoto, Pomponio Mela e il Corano - di un’inversione dell’asse di rotazione terrestre, che cambi la primavera con l’autunno o l’estate con l’ inverno.
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Tuttavia, a parte le precedenti osservazioni, è indubbio che la dendrocronologia sia uno degli strumenti più potenti per la datazione di reperti e per l’analisi del clima antico. La datazione dei reperti segue dal fatto che se si può datare un legno rinvenuto con altri oggetti archeologici, allora questi non possono essere antecedenti all’epoca in cui il legno si è formato. Per questo fatto il ritrovamento pochi anni fa di un ramo di ulivo nelle ceneri dell’isola di Santorini ha fatto cambiare di circa 200 anni la data dell’evento, l’eruzione
del vulcano dell’isola seguita dal collasso della sua caldera, che prima si poneva verso il 1450 a.C. La nuova data fra l’altro si accorda con una delle crisi climatiche accertate dalla dendrocronologia, e potrebbe associarsi al cosiddetto diluvio di Inaco (un re dell’Argolide, Inaco è anche un fiume di quella zona), mentre l’evento successivo è associabile al diluvio di Deucalione, contemporaneo, secondo Orosio, a Esodo, invasione dell’India da parte di Dioniso, variazioni climatiche, migrazioni ed esplosione di Fetonte. Uno scenario databile su base biblica al 1447 a.C. E che chi scrive ha sviluppato nel libro Atlantide e l’Esodo - Platone e Mosè avevano ragione. Si ritiene che la dendrocronologia possa datare eventi sino a circa 10 mila anni fa, anche se per quelli più antichi manca la precisione. Tecnicamente si deve usare una sequenza di alberi che possano essere correlati in modo da estendere la sequenza databile. Esistono piante che vivono anche seimila anni, una, a crescita lentissima, nella
Kronos svelato dagli alberi Death Valley fra California e Nevada. Qui utilizzando anche piante morte e secche si arriva appunto a tali datazioni. In Europa si usano prevalentemente querce, che possono vivere anche un millennio, e delle quali si recuperano tronchi o parti di tronchi antichi sia in edifici medioevali che nelle paludi e
corrisponde all’evento più forte. Ricordiamo che fonti extrabibliche suggeriscono un’inversione di 180 gradi circa dell’asse di rotazione terrestre, con passaggio nell’emisfero settentrionale dalla primavera all’inverno... e con Noè che lamenta il grande freddo seguito al diluvio. Recentemente studiosi tede-
Si chiama dendrocronologia ed è lo strumento più preciso per calcolare il clima nel passato. Misura la tipologia e la dimensione degli anelli di accrescimento annuali delle piante. Così applicata può datare eventi sino a circa 10 mila anni fa. Come quello dell’eruzione a Santorini... nelle torbiere del nord Europa. Primo specialista a occuparsi della dendrocronologia europea è stato Mike Baillie dell’Università di Belfast, che ha scritto due fascinose monografie. È stato Baillie ad accertare in particolare le date intorno al 1640 e al 3190 a.C. come relative a eventi di particolare importanza. La prima è correlabile, come sopra detto, al diluvio di Inaco e all’esplosione di Santorini. La seconda secondo chi scrive è associabile al diluvio biblico, anche se varie considerazioni ne darebbero una data precisa: il 3161 a.C., ovvero a 600 anni dopo l’inizio dei calendari tardo ebraici e babilonesi, inizio che chi scrive associa alla data di nascita di Noè. Questa seconda data
schi hanno raffinato la datazione climatica europea a partire dal 500 a.C. circa. Quindi per un periodo dove non esistono catastrofi simili a quelle dei millenni precedenti, ma comunque si sono avuti episodi di clima assai crudo con conseguenti carestie e pestilenze.
Si vedano i lavori pubblicati su Science da Ulf Büntgen e Jan Esper, basati su 9000 tronchi. Fra i risultati: - quando Annibale passò le Alpi con molti elefanti, fatto ritenuto da molti non vero, era un periodo di grande caldo senza neve anche a grandi altezze; - le invasioni barbariche si associano a un peggioramento climatico, con siccità e carestia;
- dal 536 c’è per una decina di anni una grave crisi climatica, con raffreddamento, abbandono di campi e d’insediamenti, perdita di popolazione (stimata fino al 90% in certe zone, già da Gibbon nel suo Declino e caduta dell’impero romano). Causa possibile un impatto sulla costa au-
straliana, le cui tracce sono state scoperte recentemente, o l’esplosione di un grande vulcano che ha separato Giava da Sumatra, lasciando come resto il Krakatoa; - verso l’800 altro periodo freddo, con invasioni di lupi dalla Russia in Europa occidentale; - fra il 1000 e il 1200 clima caldo, i ghiacciai alpini ebbero il massimo ritiro, in Germania molti morirono per le temperature elevate; - la peste del Trecento decimò una popolazione già provata da un peggioramento climatico; - l’ultimo periodo di clima freddo fu da fine Seicento sino al primo Settecento, quando ghiacciarono quasi tutti i fiumi europei, brevemente anche il Nilo, e morirono quasi tutte le palme del sud Europa. Le cause di molti di questi eventi sono incerte, anche se si associano con impatti e con probabili eventi del vento solare, che influisce fortemente sulla copertura nuvolosa stratosferica e quindi sull’albedo terrestre.
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Insegnamo ai giovani a rispettare e a celebrare la festa del 25 aprile IL MEDITERRANEO IN FIAMME: CHE FARE? La storia si ripete. L’Europa è in panne. Quando il gioco si fa duro gli Stati Europei si sfilano e cominciano a giocare da soli. L’Egitto è salvato, coma le Tunisia. La Libia fa registrare migliaia di morti mentre l’Europa attende. Non si sa nemmeno cosa potrebbe accadere nel Medio Oriente, intanto la situazione già complicata è resa ancor più difficile dalla mancanza di una voce univoca che sia in grado in Europa di alzarsi e garantire gli interessi comunitari come di condurre grandi battaglie ideali, etiche e morali. Siamo abituati da tempo al basso profilo, alla voce dei mediocri, come ha scritto Sergio Romano in un suo articolo di fondo «le colpe nostre (e degli altri) circoscrivono una materia così delicata dai contorni mondiali, trattata con salsa nostrana». Diciamolo: Berlusconi non ha la credibilità di andare a Downing Street o all’Eliseo o a Berlino per imporre una linea comune, ha trattato le questioni diplomatiche sempre imbevendole di un eccessivo grado di intimità che ha snaturato la qualità degli stessi rapporti rendendoli individuali. La Politica deve alzare il livello di qualità della questione Mediterraneo. E la sede naturale non è solo Bruxelles bensì il Consiglio per i Diritti Umani dell’Onu. Perché possa verificarsi occorre che la proposta venga appoggiata da almeno 16 dei 47 Stati membri che compongono il Consiglio. In questa drammatica vicenda la Gran Bretagna e gli Stati Uniti non possono traccheggiare perché sul Mare Nostrum si stanno addensando nubi i cui risvolti per i prossimi decenni potrebbero ribaltare i già deboli assetti di potere nel mondo. Il Fondamentalismo islamico è giunto alle porte di Roma e questo sembra che non appassioni più di tanto nessuno. Riteniamo che sia giusto, come è accaduto in seno al Congresso Americano, per voce del deputato Ros Lehtinen, codificare sanzioni restrittive economiche nei confronti dei Paesi Mediterranei, ma valutiamo positivamente la posizione di chi pensa di adottare con gli Stati Africani Mediterranei un nuovo Piano Marshall, vale a dire un piano ventennale che abbia la forza di trasferire in loco capitale umano, risorse economiche, innovazioni e nuove tecnologie che siano in grado di avviare i giovani africani verso uno sviluppo autoctono delle loro realtà. Gaetano Fierro P R E S I D E N T E CI R C O L I LI B E R A L BA S I L I C A T A REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Nei giorni scorsi, alcune classi dell’Istituto tecnico “G. Marconi”di Verona hanno assistito a una conferenza organizzata da alcuni professori in cui è stata distribuita una dispensa dal titolo Ora e sempre Resistenza. L’assessore all’Istruzione della regione Veneto ha commentato la vicenda invitando «i professori a fare i comizi nelle sedi di partito» e ha poi sottolineato il suo «totale appoggio alla Commissione parlamentare d’inchiesta sull’imparzialità dei libri di testo». Personalmente ho molto apprezzato l’intervento del deputato e segretario regionale dell’Udc Antonio De Poli, e con lui sostengo che nelle scuole deve esserci libertà d’insegnamento, e che differenti punti di vista possono coesistere in modo armonico fra di loro. È vero che i docenti non sono pagati per fare comizi, ma non si può certo intervenire con slogan censori, che non fanno altro che gettare benzina sul fuoco, non aiutano a creare un clima di serenità, né a dare un buon esempio ai nostri giovani. Appoggiare poi la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’imparzialità dei libri di testo equivale a imitare Berlusconi quando sostiene che ci sono libri che contengono una storia a senso unico, egemonia della sinistra. Insegniamo invece agli studenti a rispettare e celebrare la festa del 25 Aprile.
Lettera firmata
VIAGGI LAST MINUTE Si risparmia anche il 40%. Sono i viaggi offerti all’ultimo minuto, ovvero i “last minute”, adatti a chi vuol prendere l’occasione al volo o chi decide scientificamente, a ridosso delle partenze, di usufruire di sconti piuttosto consistenti. Questi viaggi si possono prenotare in agenzia e su Internet, con lo stesso sconto. Il contratto che si sottoscrive (in particolare per i viaggi tutto compreso) è del tutto analogo a quello tradizionale con obblighi per il turista e il tour operator. Occorre fare attenzione ad eventuali spese non messe in evidenza, come le commissioni, i costi per i trasferimenti, le iscrizioni, le tasse aeroportuali, i supplementi e quelle per i luoghi di partenza. Una considerazione a parte merita la prenotazione tramite Internet. Per evitare le solite bufale è necessario che il sito sia riconoscibile, cioè che sia indicata la denominazione sociale, l’indirizzo, il telefono e il fax. Per sicurezza, è meglio stampare il contratto, la prenotazione e la risposta del venditore. Se viene effettuato un pagamento con carta di credito occorre verificare che il sito sia dotato di un sistema di sicurezza. Ultimo consiglio per evitare che la propria e-mail sia sommersa di pubblicità nei prossimi mesi: controllare che sia ga-
rantita la riservatezza dei dati che si trasmettono. È un diritto riconosciuto dalla legge sulla privacy.
Primo Mastrantoni
SVILUPPO, AZIENDE IN FUGA E LE CRITICHE DI MONTEZEMOLO Il ministro Tremonti è stato bacchettato da Montezemolo poiché i risultati sono drastici, poco sviluppo e aziende lasciate sole. Montezemolo deve però spiegare come è possibile fare sviluppo nel nostro Paese se le grandi aziende o delocalizzano o aprono stabilimenti all’estero. La Marcegaglia apre uno stabilimento in Cina con un investimento di oltre 150 milioni di euro. Vi lavoreranno cinesi e non italiani. La Fiat, oltre a quanto già produce all’estero mettendo in cassa integrazione i nostri operai, a giugno trasferisce l’Alfa Romeo in Messico. Cosa ci vuole insegnare Montezemolo, che è bello trasferire all’estero aziende e capitali?
Peppe Boris
OMICIDIO DI YARA È una vergogna che dopo mesi di cosiddette indagini sul corpo di Yara, abbiano impedito di celebrare i funerali, rendendo devastante il dolore e il lutto dei familiari. È sconcertante l’impotenza (o l’incompe-
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
I neonati piangono “in lingua” AMBURGO. Secondo una ricerca tedesca, i bambini prenderebbero l’accento dei genitori ancora quando sono nell’utero materno. I ricercatori hanno esaminato diverse decine di bambini sani, di famiglie di lingua francese e di lingua tedesca. Il risultato che è emerso è che il pianto dei bambini era in linea con le cadenze tipiche delle due ligue: il pianto “tedesco” ha l’accento spostato sulla parte iniziale del vocalizzo, nonché l’intonazione che tende ad abbassarsi di tonalità, mentre al contrario il pianto francese ha l’accento spostato sulla parte finale, con un’intonazione che tende a divenire più acuta. Esattamente il tratto tipico dei due idiomi. Era già noto che i bambini già prima di nascere sono sensibili ai rumori e alle melodie, ma non era riconosciuto che questo avesse un’influenza sul comportamento del neonato. Secondo i ricercatori, la spiegazione è data dall’istinto primordiale del bambino di cercare di “imitare” la madre per farsi più facilmente riconoscere da lei. Inoltre i ricercatori ipotizzano che sia possibile che il pianto potrebbe essere legato al tentativo di riprodurre i suoni sentiti nel ventre materno, e non solo ad un riflesso innato.
tenza) degli inquirenti e delle autorità preposte. Se è stato uno scandalo ritrovare il corpo dopo tanto tempo e le molte lacune emerse nello svolgimento delle indagini, oggi occorre la pietà di una dovuta e cristiana sepoltura di quel giovane corpo martoriato dall’assassino, ma anche dal cosiddetto supporto scientifico e da apparati inquirenti e giudiziari, evidentemente mal organizzati o comunque incapaci di dare una risposta. Rendetegli almeno un devoto funerale a questa ragazza che ci guarda dall’alto.
G. Sironi
IN RICORDO DI ALESSANDRO SCANSANI
Mosaico di uova Niente meglio di una manciata di uova per festeggiare la Pasqua. Quelle che vedete, però, non sono di cioccolato ma di legno. Per realizzare questo gigantesco mosaico (7 metri per lato) l’artista ucraina Oksana Mas ha usato 15mila uova dipinte a mano. L’opera ritrae la Madonna e nella foto vediamo un particolare dell’occhio
Il professor Alessandro Scansani, uomo di grande cultura e di grande onestà intellettuale, editore della meritoria Diabasis, che tanto ha dato al mondo contemporaneo in opere di fama immortale, nel campo umanistico, storico, filosofico e sociologico, se n’è andato in punta di piedi e ci ha lasciato in eredità tutto questo gran ben di Dio. E noi dobbiamo restargli fedeli. Bisogna che gli intellettuali e gli uomini di cultura, ma anche i politici gli restino fedeli: ci ha lasciato un’eredità troppo grande, della quale dobbiamo essergli eternamente riconoscenti e grati. E se restar fedeli a Sandro vuol dire sequestrarsi dalla realtà circostante, da questa realtà bisogna che ci sequestriamo. E se restargli fedeli vuol dire rinunziare ad onori e benefici rinunzieremo. Se restar fedeli a Sandro vuol dire restar soli con la memoria di lui, con la sua memoria, soli, resteremo. Soltanto a questo patto di estremo disinteresse e donazione di se stesso alla cultura potremo ancora pensare a lui con serenità, obiettività ed imparzialità, senza alcun rimorso. Sia pace all’anima sua di pioniere coraggioso e savio di nuove mete e di nuovi orizzonti laici di cultura.
Angelo Simonazzi
pagina 24 • 23 aprile 2011
grandangolo Il pericolo di una collusione fra Giunta, Fratellanza musulmana e salafiti
Egitto, Pasqua copta blindata per il rischio attentati
Dopo il massacro di capodanno scorso, che costò la vita a 24 cristiani, cresce la preoccupazione ad Alessandria, al Cairo e in diverse altre città per le festività di questi giorni. E mentre la Polizia schiera i propri mezzi a guardia dei luoghi santi, c’è chi pensa che sottotraccia si stia consumando un conflitto confessionale di Antonio Picasso n Egitto, con l’approssimarsi della Pasqua - quest’anno quella copta ortodossa coincide con le celebrazioni cattoliche - le autorità hanno deciso di rafforzare i controlli intorno alle chiese. Si teme un ripetersi delle stragi perpetrate in passato, in occasione delle festività cristiane, da parte di gruppi di fondamentalisti musulmani. Soprattutto in questa fase di transizione che il Paese sta attraversando. Al Cairo, Alessandria e in molte altre città, dove il cristianesimo resta radicato nella popolazione, la Polizia ha schierato i propri mezzi a guardia dei luoghi santi. L’assembramento dei fedeli resta un elemento poco controllabile e quindi fonte di apprensione. La folla, lo stanno insegnando gli eventi di questi mesi, costituisce un facile bersaglio per qualsiasi tipo di attentato, ma anche la sorgente di potenziali dimostrazioni. La Giunta militare non vuole né l’uno né le altre.
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Nel caso copto, sono in molti a temere che in Egitto si stia consumando sottocenere un conflitto confessionale. Il massacro di Capodanno ad Alessandria, con i suoi 24 morti, avrebbe dovuto fare da avvisaglia per la rivolta generale che, appena un mese dopo, si è abbattuta sul regime di Mubarak. Forse già a fine 2010, l’ex presidente sarebbe potuto correre ai ripari. La mossa non gli è riuscita in seguito all’inaspettata unità nazionale espressa dalla folla. Tuttavia, caduto il faraone, la compat-
tezza di piazza Tahrir è venuta a mancare. Quella fratellanza che si era riscontrata tra giovani musulmani e cristiani, tutti intenzionati a far crollare il regime, si è dimostrata meramente strumentale. In questi ultimi tre mesi, non si contano i casi di scontri diretti, persecuzioni e singole aggressioni di cui donne e uomini cristiani sono caduti vittime. I copti lamentano che, al Cairo, non sia cambiato nulla. Hosni Mubarak, un tempo alleato della loro influente e ricca lobby, ne aveva già preso le distanze. Motivo: l’impennata demografica della comunità musulma-
Dopo la caduta di Mubarak, l’alleanza tra giovani islamici e cristiani, tesa a far crollare il regime, si è dimostrata strumentale na. Di fronte a una popolazione di 85 milioni di unità, di cui il 90% è fedele all’Islam, il regime sarebbe stato costretto - volente o nolente - ad assumere una posizione nettamente sbilanciata. Caduto il rais, tra i copti pochi speravano che
potesse cambiare qualcosa. La presa di potere da parte della Giunta militare, i cui uomini sono ex fedelissimi del regime, ha annientato sul nascere le speranze dei cristiani che per l’Egitto fosse giunta davvero l’ora della rivoluzione.
Oggi la Chiesa copta denuncia una nuova collusione, anch’essa sotterranea, fra la Giunta, la Fratellanza musulmana e i gruppi salafiti, impegnati nell’indottrinare la popolazione e nel convincerla che la strada della Shari’a, la legge islamica, sia la più conveniente per il futuro del Paese. La teoria del complotto appare esagerata, forse. Tuttavia, non ci può fare a meno di sottolineare le piccole astuzie adottate proprio dalla Polizia per mettere i bastoni fra le ruote alla minoranza religiosa. I fedeli copti contattati sui social network accusano le forze dell’ordine di non lasciar passare alcun veicolo nei proprio quartieri e vicino le loro chiese. Il governo replica che si tratta di una misura di sicurezza. I primi, tuttavia, insistono nel dire che giusto i carrarmati e le camionette della polizia hanno intralciato il passaggio delle ambulanze giunte nelle zone cristiane di Alessandria per il recupero di feriti durante i numerosi scontri. La Giunta, quindi, sarebbe un soggetto inerte. E, proprio per questo motivo, contribuirebbe alle operazioni di persecuzione da parte delle fronde più facinorose della maggioranza musulmana.
Il governo, a sua volta, replica che le attività dei salafiti sono diventate ormai incontrollabili. Nel backstage di questo scontro confessionale, per quanto possa dirsi allo stato embrionale, proseguirebbero le azioni di conversione forzata oppure le aggressioni contro le donne cristiane. Fenomeni ben radicati nel tessuto sociale dell’Egitto più contemporaneo. Testimoni oculari raccontano che, in mancanza di un sistema di sicurezza efficiente, gruppi salafiti sarebbero ormai in grado di penetrare nelle abitazioni private dei copti e accusare mogli e figlie dei fedeli di prostituzione. In casi più estremi, si parla di stupri che compromettono l’immagine delle famiglie vittime. Le ragazze violentate, infatti, non sono più accettate come spose. In tutte le situazioni, sembra che le autorità non siano sufficientemente interessate a intervenire. Anzi, spesso la posizione ufficiale parla di episodi legati a regolamenti di conti fra bande e tribù rivali. Questo non solleva il governo da una qualsiasi azione, bensì lo giustifica (apparentemente) sulla base dello scenario estremamente delicato di tutto il Paese.
In effetti, alla fine di gennaio - nei giorni più caldi della rivolta - gli istituti carcerari nazionali erano stati coinvolti nei disordini. Le rivolte avevano portato all’apertura delle prigioni e quindi alla dispersione, in tutto il territorio egiziano, di migliaia
23 aprile 2011 • pagina 25
Secondo “Time”, l’uomo più influente del 2010 è stato Wael Ghonim
Intanto il mondo incorona il blogger che ha deposto il vecchio Faraone di Martha Nunziata utte le grandi rivoluzioni, oltre che sul sangue degli eroi,nascono dai valori e dagli ideali. Ma anche da gesti apparentemente insensati come quello del venticinquenne tunisino venditore ambulante abusivo, Tariq al- Tayyib Muhammad Bu-azizi, che si dà fuoco a Bin Arus, perché la polizia gli ha sequestrato la merce. Dal suo gesto comincia la rivoluzione dei gelsomini, che darà poi inizio alla primavera araba. Ma oggi le parole e le idee corrono più veloci con i social network: in Egitto è stato il blogger Wael Ghonim a dare inizio alla rivoluzione in piazza Tahrir, al Cairo, attraverso il blog “Revolution 2.0”. E per questo motivo il Time, nella classifica annuale delle 100 personalità più importanti e influenti del globo, lo ha messo al primo posto. A trasformare quella sua abilità con la tastiera del computer in onda rivoluzionaria, poi, ci hanno pensato migliaia di giovani egiziani che, come lui, avevano a cuore la propria patria. E con i quali, come egli stesso ha sottolineato, andrebbe condivisa la nomination di Time. “Grazie, Wael, e grazie a tutta la gioventù egiziana. Grazie per il miracolo che avete compiuto” ha scritto Mohamed El Baradei, uno dei candidati alla presidenza del paese, nella presentazione che accompagna la foto di Ghonim pubblicata dal settimanale statunitense. Da ieri, è praticamente impossibile inviargli un tweet: la notizia, oltre a fare il giro del mondo in pochi minuti (come si conviene, del resto, ad ogni notizia che abbia una qualche relazione con il mondo dei blogger), ha centuplicato il numero di coloro che sono in contatto con lui, attraverso l’istant social media, come viene definito Twitter, protagonista assoluto, assieme al più noto Facebook, della rivolta nordafricana, e del conseguente riconoscimento per Ghonim. La rete, infatti, ha ricoperto il ruolo di cassa di risonanza delle richieste, prima, e delle rivolte, poi, che hanno infiammato le piazze di Tunisia, Algeria, Egitto, Libia, e, adesso, Siria e Yemen. Wael adesso vive negli Emirati Arabi, a Dubai, con la moglie e i due figli: il suo ruolo di marketing manager di Google per il Medio Oriente e per il Nord Africa, del resto, gli consente ampia libertà di movimento. Quella che, al contrario, in patria gli era preclusa, soprattutto dopo che il suo no-
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di delinquenti comuni. Fatto, questo, che ridimensiona parzialmente l’allarme sul conflitto religioso.Tuttavia, non lo elide.
Il generale Tantawi, al vertice della Giunta militare, è conosciuto per le sue posizioni di estrema durezza già adottate in passato nei confronti della dissidenza anti-Mubrak. Stando ai fatti più recenti, sembra che la prospettiva non sia cambiata. Al contrario, il governo provvisorio è pressato dall’urgenza di riportare l’ordi-
Secondo alcuni testimoni, senza un sistema di sicurezza efficiente, i salafiti sarebbero in grado di penetrare nelle abitazioni dei copti ne nel Paese.Vuole evitare che le tensioni sfocino in guerre aperte. Detto ciò, non sembra intuire che, per raggiungere questo obiettivo, è necessaria un’azione binaria. Da una parte, cominciare a stabilire una linea di crescita economica capace di infondere fiducia presso tutta la popolazione, dall’altra assumere un atteggiamento super partes in relazione agli attriti confessionali. Mubarak è crollato perché il suo regime non era riuscito a offrire un livello di benessere diffuso, oltre che aggravato da una corruzione inarrestabile. La popolazione egiziana oggi, musulmana o cristiana che sia, chiede al nuovo governo di essere sfamata. L’indolenza della Giunta in quest’ambito facilita il propagarsi di idee estremistiche. Il caso di Qena, città dell’Alto Egitto e roccaforte del cristianesimo copto, ne è un esempio. La nomina di questo nuovo
governatore copto, Emad Mikhail, come lo era il suo predecessore, Magdy Ayoub , ha fatto scoppiare l’ira di un buon numero di cittadini che una settimana fa ha preso d’assalto i punti nevralgici della città. Con questa iniziativa, il governo del Cairo non ha fatto altro che complicare gli scenari. I copti si visti considerare come una minoranza da ghettizzare. Mentre invece il loro amor proprio tende ad autoproclamarsi quali protagonisti della storia del Paese. La maggioranza musulmana, che abita nelle zone extraurbane, pretende maggiore potere politico e soprattutto la possibilità di non sottostare alle decisioni di un esponente dell’avversa chiesa copta.
Nel frattempo, l’intero Paese sta vivendo la sua fase di redde rationem. L’arresto di Mubarak e figli dovrebbe essere solo l’inizio di un processo di pulizia della classe dirigente. È quello che spera l’opinione pubblica. Restano i dubbi sull’efficacia di questa iniziativa, tenuto conto che Tantawi e soci fanno essi stessi parte della vecchia guardia. Del resto, al governo – nell’ottica della “sicurezza prima di tutto” – interessa liberarsi in tempi brevi di tutti coloro che potrebbero nuocere alla sua politica. Ecco perché il rastrellamento degli ex fedelissimi e soprattutto dei più corrotti, che appaiono non più riciclabili in futuro. Ma anche l’idiosincrasia nel difendere i cristiani e, contemporaneamente, il tentativo di far ricadere tutte le colpe delle violenze sulle spalle di Fratelli musulmani e salafiti insieme.Viene da pensare che tutto sia collegato. Al fine di conservare la leadership, in vista delle elezioni parlamentari di settembre, non è escluso che la Giunta sia stata in grado di architettare questo quadro di precarietà diffusa. Lo scontro salafiti-copti torna comodo al governo. Una volta che i due avranno esaurito le proprie risorse, esso potrà intervenire e domare quel che rimane di entrambe le fazioni.
me, e il suo volto, erano diventati noti agli uomini del regime di Mubarak, che lo catturarono, il 25 gennaio, ad un parcheggio di taxi, appena fuori da Piazza Tahrir, dove aveva appena partecipato ad una delle prime manifestazioni di protesta. Dodici giorni di carcere (“senza subire violenze”, come precisò egli stesso una volta scarcerato), con l’accusa di essere uno dei mandanti della rivoluzione egiziana.
«Non sono un eroe: ero soltanto abile con la tastiera del computer, gli eroi reali sono quelli in strada», disse subito dopo la scarcerazione. L’Egitto, intanto, sta completando l’abbandono del sistema-Mubarak: il 7 marzo si è insediato il nuovo governo, dopo il giuramento di Piazza Tahrir, alla presenza di Muhammad Tantawi, Capo del consiglio supremo dell’esercito e presidente provvisorio della Repubblica. Costituito in seguito alle dimissioni che il precedente premier Shafiq aveva rassegnato dopo le proteste per l’eccessiva presenza all’interno dell’esecutivo di uomini compromessi con il regime, il nuovo governo ha il compito principale di traghettare il Paese verso le elezioni parlamentari e presidenziali di giugno, attraverso le riforme democratiche proposte dal referendum del 19 marzo scorso. Il nuovo governo, presieduto da Essam Sharaf, è stato salutato con grande calore dalla folla presente a Piazza Tahrir, proprio perché comprende volti nuovi in ministeri chiave per il processo di cambiamento, ossia Interni, Esteri e Giustizia. E quattordici milioni di egiziani sono andati alle urne. Il 77,2 per cento ha scelto il “sì”. Anche se dal referendum che ha sancito la vittoria del “partito del sì”, sancendo la limitazione del numero dei mandati presidenziali, il controllo della magistratura sulle elezioni e l’abolizione del potere presidenziale di ordinare processi nei confronti dei civili dissidenti, i partiti laici sono usciti indeboliti rispetto a quelli di matrice religiosa, in particolare quelli nell’orbita dei “Fratelli Mussulmani”. L’elezione di un governo di “uomini nuovi”e il successo del referendum sono stati un passo importante verso la normalizzazione democratica del Cairo, dopo quarant’anni di leggi emergenziali.
mondo
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Ai Weiwei è soltanto il nome più noto: il Partito ha riesumato la repressione come strumento politico contro i non allineati. L’analisi del grande dissidente
Rivoluzione culturale 2.0 L’arresto di intellettuali e scrittori riporta alla mente i tempi delle Guardie Rosse. È la fine dell’impero cinese? di Wei Jingsheng l 3 aprile scorso, le autorità comuniste cinesi hanno arrestato di nascosto il noto artista Ai Weiwei. La sua famiglia e i suoi amici non sanno cosa gli è successo, perché nessuno ha detto loro nulla: non sanno se sia stato rapito e dove sia oggi. Come tutti gli altri, hanno saputo soltanto dall’agenzia di stampa ufficiale Xinhua che è sotto processo per “crimini economici”. Questo modo di fare contro una delle più note
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cia verso lo stato di diritto che la Cina ha intrapreso a tentativi sin dalla fine dell’era maoista, questo ritorno alla piena illegalità è sconvolgente persino per un dissidente di lungo corso.
Se le autorità possono arrestare una figura di quella statura in maniera arbitraria, senza comunicarne il destino (dato che non vogliono che la famiglia o il suo legale possano aiutarlo), allora in Cina
Il Pcc chiede al popolo amore e lealtà, ma non si preoccupa di vessarlo in ogni modo possibile. Vorrebbero una cieca obbedienza, come se il Paese fosse ancora inchiodato al sistema feudale figure culturali del Paese richiama alla mente i primi passi della Rivoluzione culturale, quando il regime maoista iniziò a rimuovere dalla scena gli artisti, gli scrittori e gli intellettuali ideologicamente sconvenienti per un puro desiderio, senza alcuna pretesa di copertura legale e senza rispetto per le procedure. Nel corso della lunga mar-
non esiste nessuno che sia salvo dalle ansie e dalle paturnie di chi governa. Questo episodio rivela non soltanto l’essenza di un sistema dove l’individuo non ha diritti, ma anche l’evoluzione di un nuovo tipo di repressione: il perverso “diritto attraverso la legge” invece dello “stato di diritto”. In altre parole, l’applicazione di buchi legali per
violare i diritti umani, e non proteggerli. La “residenza sotto sorveglianza” – uno strumento in cui una persona viene arrestata senza alcuna copertura di diritto – è uno di questi buchi nel sistema legale. Facciamo un piccolo passo indietro per spiegare l’evoluzione di questo strumento del “diritto attraverso la legge”. Nella primavera del 1994, il Partito comunista cinese stava affrontando alcune sanzioni imposte dagli Usa.
A quel tempo, l’amministrazione Clinton si stava preparando ad alleggerire queste sanzioni scollegando il commercio ai diritti umani, una decisione che incontrava la forte opposizione del Congresso. L’opinione dei dissidenti cinesi era la chiave di volta per quella situazione. Il presidente Jiang Zemin mandò la sua polizia ad arrestarmi per aprire un negoziato. Avevano preparato persino alcune piccole migliorie per i diritti umani e lo stato di diritto in Cina, un premio da scambiare con il mio silenzio sulla questione di scollegare
diritti umani e commercio. All’inizio non cedetti. Ma, dopo, raggiungemmo un compromesso: io sarei rimasto in silenzio in cambio della scarcerazione di alcuni dissidenti e la possibilità di esercitare il diritto di espressione in ambito sindacale.
Questo accordo si scontrò con una fortissima resistenza
A Chongqing, dove vivono 45 milioni di persone, la popolazione è costretta a cantare inni a Mao ogni mattina all’alba
E la propaganda rispolvera le bandiere n Cina i tempi non sono ottimi, per il Partito comunista. Già da un lustro lo smalto rivoluzionario dell’apparato ha perso molto della sua lucidità, e cresce in maniera esponenziale un movimento interno al Paese che inizia a chiederne una riforma radicale. Se non addirittura l’eliminazione. La media della popolazione tuttavia non contesta il sistema: abituati da cinque millenni a un dominio di tipo imperiale, centrale e assolutistico, i cinesi non portano avanti una battaglia ideologica. Sono semplicemente stufi della corruzione endemica al Partito, della violenza con cui questo si scaglia contro le classi minori e dalle restrizioni sempre più imponenti alle proprie libertà personali.
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Un esempio perfetto viene dai festeggiamenti previsti per il novantesimo anniversario della fondazione del Parti-
di Vincenzo Faccioli Pintozzi to comunista cinese. Le feste si svolgeranno in tutto il Paese il primo luglio, ma come sempre sarà Pechino l’epicentro di tutto. Per mostrare la sua potenza, il Pcc elimina sempre la popolazione, timoroso che qualcosa danneggi l’imma-
ni. Gli abitanti di Pechino hanno ricevuto il divieto di far volare nel cielo piccioni addomesticati, aquiloni, palloni. Un esercito di oltre 800mila persone è stato reclutato per spiare il vicinato e lavorare in stretto contatto con la polizia per
A Shanghai, Pechino, Guangzhou è facile incontrare giovani rampanti che ti confessano con candore il loro disprezzo per la leadership e per il Partito, ma che sono iscritti “per soldi” gine tersa e perfetta che si vuol dare al mondo. Già nelle settimane prima dell’evento, la sicurezza è stata aumentata ovunque nel Paese. Per la capitale, si è stabilito che sette province e regioni attorno a Pechino costruiscano un filtro per controllare l’entrata e l’uscita dalla città, prevenendo possibili dimostrazio-
denunciare ogni irregolarità o crimine. Per evitare possibili rischi di incendi – e bombe molotov – le stazioni di servizio non devono servire benzina in recipienti di plastica o bottiglie. Fino a dopo il primo luglio è proibito perfino vendere coltelli, anche quelli da cucina, dopo che 2 uomini - in due diversi episodi - hanno
accoltellato alcuni passanti. La paranoia della sicurezza – accresciuta dalle minacce di scontri interetnici dopo le rivolte nel Xinjiang - domina ogni aspetto. Per questo il Pcc ha decretato che nel resto della Cina non vi siano altre parate, concentrando le forze dell’ordine nella capitale. La paranoia della sicurezza è il sintomo di una malattia più profonda: il Partito non è amato dalla sua popolazione e se vi sono ancora 76 milioni di cinesi iscritti (cooptati) questo è solo per un motivo: trarre dall’appartenenza a questa oligarchia politica ed economica il massimo dei vantaggi.
A Shanghai, Pechino, Guangzhou è facile incontrare giovani rampanti che ti confessano con candore il loro disprezzo per la leadership e per il Partito, ma che sono iscritti “per soldi”. Il motivo per cui si entra nel Partito sta proprio nel
mondo
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«Sì li abbiamo: eccoli qui. Non te ne puoi andare». Dopo aver visto, mi misi a ridere. Era un certificato di “residenza sotto sorveglianza”.
Dissi al poliziotto: «Senza prove, non potete ottenere neanche un avviso di garanzia dal Procuratore». Lui rispose che quel documento – che permette la detenzione continua senza accuse formali – era stato scritto dall’Ufficio di pubblica sicurezza e che questo bastava. Ma io risposi: «Questa è una detenzione illegale. Cercherò un avvocato e vi denuncerò». Avemmo uno scontro, e poi le autorità che avevano negoziato con me chiesero di parlarmi in privato.Mi dissero che la situazione all’interno della leadership comunista era molto complicata. La fazione contraria a Jiang cercava problemi e, se il presidente non avesse portato a casa
il bene della patria un poco di “faccia” a Jiang Zemin. Valutai i pro e i contro, e decisi di accettare il loro documento di “residenza sotto sorveglianza”, anche se mi riservai il diritto di denunciarli in un secondo momento. Dopo questa decisione, Bill Clinton riuscì a scollegare il commercio dai diritti umani.
Una volta condotto davanti a una corte di giustizia, venne fuori che neanche loro riconoscevano la legalità della mia detenzione, un atto illegale secondo la legge di procedura penale: questa infatti richiedeva l’approvazione della corte e del Procuratore, per limitare la libertà di un individuo. Ma subito dopo decisero che arrestare una persona senza accuse, in base a un documento di “residenza sotto sorveglianza”, era un atto le-
Oggi le detenzioni arbitrarie sono divenute una sorta di routine, uno strumento illegale con cui la pubblica sicurezza decide in maniera arbitraria di limitare la libertà personale l’accordo (o se ci fossero state proteste inaspettate da parte mia) si sarebbero rotti i rapporti con il presidente Clinton.
da parte di alcune fazioni del Partito comunista che si opponevano all’iniziativa di Jiang. Quindi venni arrestato di nuovo, con l’ordine di essere interrogato. Tenuto per due giorni in isolamento completo, protestai senza successo. Dissi ai miei carcerieri: «Innanzi tutto, secondo il diritto di procedura penale cinese, l’ordine di essere interrogato
significa semplicemente che potete parlare con me; e voi avete violato la legge, interrogandomi per più di 24 ore. In secondo luogo gli interrogatori non possono essere più di tre di seguito, e questo è l’ultimo. Se non potete produrre un documento che vi dia il diritto di arrestarmi o di fermarmi secondo la legge, allora mi dispiace ma dovete libe-
rarmi». Preoccupati dall’impatto che un arresto illegale avrebbe avuto sull’accordo, venni rassicurato: «Non ti preoccupare, andiamo a prendere i documenti dal Procuratore e te li portiamo entro domani». Il giorno dopo chiesi: «Avete i documenti? Altrimenti, sono pronto a tornare a casa». Senza esitare, un vecchio poliziotto mi disse:
Mi dissero che , fuori dalla mia prigione, l’accordo era già in vigore e che erano stati rilasciati coloro di cui avevo chiesto la scarcerazione. Persone come Wang Dan erano ancora attive, e le autorità non li arrestavano nonostante le pressioni ricevute. Detto questo, speravano che non avrei opposto resistenza alla mia detenzione, sarei stato paziente e avrei concesso per
fatto che ai membri viene dato un pacchetto di benefits da cui è escluso il resto della popolazione: un lavoro stabile, pensione, facili possibilità di viaggiare, un appartamento moderno e soprattutto una protezione legale e sociale se per caso hai dei guai con la giustizia.
Ormai il Pcc, da avanguardia sociale, è divenuto oppressore; i suoi membri sono un’oligarchia che usa l’economia per mantenere il dominio politico e usa quest’ultimo per accrescere i suoi benefici economici. Come tutto ciò sia avvenuto, fa parte di una lettura storica che in Cina nessuno osa fare con onestà almeno scientifica. Coloro che hanno osato si trovano agli arresti domiciliari o vengono estromessi dalle istituzioni. Ma la leadership è andata oltre, e ha deciso di contrattaccare con la potente arma della propaganda. In corso, in questi giorni, la campagna “Cultura Rossa”che mira a rimettere fiato alla pesantissima situazione interna. Si tratta di un vero e proprio martellamento ideologico: a Chongqing, che ospita 45 milioni di persone, il Partito obbliga i residenti a cantare 36 nuove canzoni che esaltano la
gale. Da quel momento quella procedura divenne “legale”. Oggi è divenuta una sorta di routine, uno strumento con cui la pubblica sicurezza decide in maniera arbitraria di limitare la libertà personale. Ed ecco che la legge è divenuta uno strumento per servire lo Stato autoritario e non l’individuo. Il caso di Ai Weiwei rivela una volta di più al mondo quale sia l’essenza dello Stato cinese. Questo è il sistema legale del Paese, oggi: il “diritto attraverso la legge” per le autorità invece dello “stato di diritto”per il popolo ideato da Mao.
lioni di persone. Le storie della gente parlano di contadini disperati nella ricerca di cibo; di gente che muore ai lati delle strade; di affamati che si cibano delle carni dei cadaveri. Per frenare le critiche del partito contro di lui (che gli vogliono togliere il potere), Mao lancia nel ’66 la Rivoluzione culturale, che dura fino alla sua morte, nel 1976. La Rivoluzione culturale, che viene ancora oggi ricordata come il periodo del “grande caos”, divide la società, distrugge famiglie, uccide milioni di persone, divise fra “giovani” e “vecchi” del Partito; Guardie rosse e esercito; genitori e figli.
Lunga Marcia, Mao e il dominio comunista. E una circolare interna impone ai media, stampati ed elettronici, di esaltarne la qualità. Considerando soltanto gli aspetti economici e politici, si può dire che nei primi anni il Partito si guadagna la stima della popolazione: niente corruzione o
divisioni come ai tempi di Chiang Kaishek; inflazione bassissima; industria pesante ricostruita (su modello sovietico); agricoltura in abbondante produzione. Ma la caparbietà di Mao e la sua incompetenza economica portano al Grande Balzo in avanti (1958-1961) che causa la morte per fame di circa 50 mi-
Il tentativo in corso oggi ricalca quello stesso schema e rischia di produrre gli stessi identici risultati. Soltanto che, questa volta, non c’è un governo in grado di garantire la continuità del potere. Rischiano di crollare una volta per sempre. Ecco perché a un aumento drastico della repressione sociale è stato affiancato un moto di rinnovamento patriottico: ma il tentativo è destinato a fallire, dato che il tessuto sociale non ama più la Rivoluzione. Pensa soltanto ai soldi e al modo migliore di guadagnarne.
quadrante
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Kaspersky è libero: pagato il riscatto
Riprende la guerra in Thailandia
MOSCA. Il milionario russo Evgeny Kaspersky, cofondatore e ad della Kaspersky Labs che che studia programmi antivirus per software, ha pagato ieri un riscatto da 4,4 milioni di dollari per la liberazione del figlio rapito. Lo riferisce il sito web Lifenews, citando fonti dei servizi. Non c’è alcuna conferma ufficiale dell’avvenuto rilascio di Ivan Kaspersky, 20 anni, studente della facoltà di matematica e cibernetica, che sarebbe stato sequestrato martedì mattina a Mosca mentre si recava al lavoro. Secondo il portale, il giovane ha già fatto ritorno a casa. Suo padre, Kaspersky senior, compare al 125mo posto nell’elenco dei paperoni stilato da “Forbes” Russia con un patrimonio stimato a 800 milioni di dollari.
BANGKOK. È di cinque morti il bilancio aggiornato degli scontri al confine fra Thailandia e Cambogia, lungo l’area che ospita le rovine del centenario tempio indù di Preah Vihear. Fonti ufficiali dei due Paesi riferiscono che le vittime sono tre soldati cambogiani e due militari thai; diversi i feriti su entrambi i fronti. Gli scontri sono ripresi con violenza questa mattina, dopo settimane di relativa calma, e sono durati diverse ore. Intanto Bangkok e Phnom Penh si rimbalzano le responsabilità sulle cause che hanno originato il conflitto. Nelle prime ore del mattino le truppe di Thailandia e Cambogia si sono scambiate colpi di artiglieria, bombe, proiettili, causando cinque morti e interrompendo una tregua che durava da due mesi.
Tokyo sgombera altre cinque città TOKYO. Il governo giapponese ha deciso l’evacuazione di altre cinque città all’esterno dell’area compresa in un raggio di 20 chilometri dalla centrale di Fukushima, l’unica che finora era stata sgombrata per motivi di sicurezza, a causa dell’alto livello di radiazioni provenienti dai sei reattori nucleari, quasi distrutti dal maremoto che seguì il devastante terremoto dell’11 marzo. Si tratta delle città di Katsurao, Namie, Iitate e di alcune zone di Kawamata e Minamisoma. Gli abitanti avranno tempo fino alla fine di maggio per lasciare le proprie abitazioni. Intanto, il governo di Tokyo ha approvato uno stanziamento straordinario per far fronte ai danni provocati dal terremoto e dal maremoto di due mesi fa.
La figura del predicatore è molto controversa. I suoi presunti poteri taumaturgici sono sotto accusa da parte delle autorità
L’India si stringe intorno a Sai Baba Il santone è in condizioni estremamente critiche: fedeli in lutto di Maurizio Stefanini icoverato per problemi polmonari e renali il 28 marzo, Sai Baba è improvvisamente peggiorato. E milioni di fedeli si sono allora messi a pregare per il guru con i capelli cespugliosi tinti di nero alla Gheddafi e l’ampio camicione color zafferano, la cui immagine è divenuta un’icona pop tra televisioni, poster dei centri yoga e copertine dei manuali di spiritualità fai da te.
R
Iniziò a predicare da giovane, dopo una trance dovuta alla puntura di uno scorpione. E in Occidente, dove è diventato uno dei punti di riferimento di quel tipo di spiritualità appunto fai da te in epoche diverse identificata con il movimento hippy o con la New Age, lo hanno chiamato «il santo dei miracoli». Un uomo, l’85enne Sathya Sai Baba, capace di prevedere il futuro; di apparire a migliaia di chilometri di distanza; di far produrre dalle sue mani ogni giorno una cenere sacra, la vibhuti, dai poteri taumaturgici; di materializzare statuette devozionali, anelli d’oro, il fallico linga simbolo di Shiva, perfino monete d’oro in cui come data del conio è indicato quell’anno 1926 in cui Sathya Narayana Raju Ratnakaram, questo il suo vero nome, nacque nel villaggio di Puttapharti. Stato dell’Andhra Pradesh, India del Sud: oggi una cittadina di 25.000 abitanti a 150 chilometri dal famoso polo tecnologico di Bangalore, che l’Organizzazione Sathya Sai da lui fondata, oltre 2000 centri in 140 nazioni per un totale di 37 milioni di seguaci, ha trasformato in un affollatissimo centro di pellegrinaggio con oltre 6 milioni di visitatori ogni anno, e dove ha fatto costruire l’ospedale in cui si sta da varie settimane dibattendo tra la vita e la morte. Ma c’è chi lo ha visto addirittura trasformare della sabbia in un volume della Bhagavad Gita, il libro sacro dell’induismo. E sassi in caramelle. E fiori in diamanti. Tra i circa 4000 seguaci italiani, il più noto è stato Antonio Craxi, il fratello di
Ricoverato per problemi polmonari e renali il 28 marzo scorso, Sai Baba è peggiorato all’improvviso. E milioni di fedeli ieri si sono allora messi a pregare per il loro guru, che iniziò a predicare da giovane, dopo una “trance” dovuta alla puntura di uno scorpione
Bettino. Ma tra loro non sono mancati vari noti professionisti. Mario Bianco, fondatore nel 1977 a Torino del primo centro nel nostro Paese, era ad esempio un ingegnere. Pietro Marena, ora presidente europeo dell’Organizzazione, è un avvocato. Il parmigiano Giancarlo Rosati, primo presidente nazionale dell’Organizzazione, era un medico. Alberto Caratti e Ugo Sandri sono due cardiologi di Asti che hanno prestato a lungo servizio presso l’ospedale di Puttaparthi.
Per i suoi seguaci indiani, che stanno facendo ressa a migliaia attorno all’ospedale in ci è ricoverato fino al punto da costringere infine la polizia a sten-
dervi attorno un cordone di sicurezza con 2000 agenti, si tratta invece di un purnavatar. Un avatar integrale del dio conservatore Visnu, come già furono Krishna, Rama e Buddha; e dunque di livello superiore agli amshavatara: gli avatar parziali tipo Ramakrishna, Aurobindo o Gesù Cristo. Il bello è che da una parte proprio il fatto di fare questi miracoli lo espone invece al disprezzo di altri guru, secondo i quali un simile tipo di manifestazioni appartiene a una sfera inferiore rispetto a quelle di cui un vero maestro spirituale dovrebbe occuparsi. Dall’altra, lui stesso li ha sempre definiti semplici lila, “giochi”. Un modo per attirare l’attenzione, una volta arrivata la quale però l’adepto dovrebbe oc-
cuparsi di altre cose. In particolare, il suo messaggio spirituale. Che un po’ evoca il messaggio degli antichi gnostici: «Dio è dentro di te. Scoprilo!».
Un po’ propone un approccio pluralista secondo cui ogni religione può essere considerata come una via egualmente valida a Dio. «C’è una sola razza: la razza dell’umanità. C’è una sola religione: la religione dell’Amore. C’è un solo linguaggio: il linguaggio del cuore. C’è un solo Dio: Egli è onnipresente». Infatti Sathya Sai Baba ha sempre ripetuto di non voler fondare una nuova religione, né una setta o un nuovo credo, o di volere raccogliere proseliti; anche se poi questi ci sono, e seguono in particolare
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Dopo le riforme, prove di dialogo tra Cuba e l’Unione europea
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio
ROMA. Le riforme economiche varate pochi giorni fa da Cuba potrebbero aprire a un cambio di rotta nelle relazioni con l’Unione europea. Lo scrive il quotidiano brasiliano “Estado de S. Paulo” citando fonti del gabinetto di Catherine Ashton. Secondo la testata, Bruxelles potrebbe, entro la metà dell’anno in corso, proporre una alternativa alla “posizione comune”, la strategia varata dall’Unione europea nel 1996 che lega i rapporti di cooperazione con l’Avana ai progressi fatti da Castro in tema di diritti umani. «Non a caso», si legge nell’articolo del giornale brasiliano, l’alto rappresentante per la politica estera dei Ventisette ha salutato le decisioni del Congresso del Partito comunista con cui oltre al pacchetto di riforme economiche, si mette un limite di mandato di dieci anni alle principali cariche istituzionali cubane. Decisioni definite «importanti» che spingerebbero la Ashton, se-
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
condo il portavoce Michael Mann, a offrire aiuto per un cambio della posizione comune. Alla politica britannica, l’Unione europea ha affidato a fine 2010 il compito di coordinare una nuova strategia nei confronti dell’Avana. Un secondo tentativo, dopo quello fallito dalla Spagna che, presidente di turno nel primo semestre dell’anno scorso, aveva fissato nella modifica della “posizione comune” uno degli obiettivi prioritari del mandato.
Nella pagina a fianco, fedeli di Sai Baba. In basso da sinistra: Manmohan Singh; Sonia Gandhi e un fedele indù
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
le forme di religiosità del contesto indù in cui il guru è nato. Dal bhajan, “canto devozionale”; al mantra, ripetizione della preghiera; allo studio dei testi sacri. Ma c’è anche il seva, servizio altruistico disinteressato. «Il servizio reso all’uomo è servizio reso a Dio». «Comincia il giorno con Amore, riempi il giorno con Amore, trascorri il giorno con Amore, termina il giorno con Amore: questa è la strada che conduce a Dio». E in effetti la sua Organizzazione ha promosso tutta una serie di attività sociali da molti giudicate meritorie.
In Occidente, dove è diventato uno dei punti di riferimento della spiritualità New Age, lo hanno chiamato «il santo dei miracoli»
Ad esempio, la costruzione di campi medici e ospedali in cui gli interventi vengono eseguiti gratuitamente. Il “progetto acqua potabile” in favore di oltre 1000 villaggi rurali, con circa due milioni di persone. Il progetto Sathya Sai Gange: un grande canale artificiale per portare acqua nella regione tradizionalente siccitosa di Madras. L’apertura di numerosi istituti scolastici gratuiti. Ma non ci sono solo gli estimatori. Proprio per i miracoli, esperti in prestigidazione ed ex-seguaci delusi lo hanno denunciato come truffatore. Spiegando ad esempio che per produrre la vibhuti con le mani Sai Baba utilizzerebbe piccole capsule contenenti polvere o sterco di vacca essiccato o terriccio, che egli stesso disintegrerebbe nascondendole tra le dita. Mentre i lingam sarebbero conservati all’interno di grossi fazzoletti, inse-
riti in bocca con abili e veloci movimenti, e rigurgitati subito dopo. Ma altri exdevoti hanno detto addirittura che dopo essersi allontanati da lui si sarebbero sentiti come “disturbati” da una forza maligna, e da ciò alcuni sacerdoti e esorcisti cattolici hanno ricavato addirittura il dubbio che i miracoli non sarebbero giochi di prestigio, ma addirittura manifestazioni demoniache.
D’altra parte, nell’Apocalisse la facoltà di illudere gli uomini con prodigi e senz’altro associata all’Anticristo. A riprova della visione non positiva della Chiesa su Sai Baba: Mario Mazzoleni, un saceirdote lombardo che si era impegnato nell’Organizzazione proprio sostenendo la sua impostazione interconfessionale, finì scomunicato. Né so-
no mancate più prosaiche accuse di molestie sessuali, o addirittuira di un omicidio avvenuto presso il suo ashram dopo un fallito attentato ai suoi danni. Ma va detto che nulla è mai stato provato in tribunale.
Più grave di queste accuse, in realtà, potrebbe essere per Sai Baba proprio il fatto di non sopravvivere al 2011, dopo che aveva profetizzato la propria morte per dopo il 2020. Anzi: per la precisione aveva detto che nel 2030 si sarebbe reincarnato in un nuovo guru di nome Prema Sai Baba, che dovrà nascere nella regione indiana del Karnataka. E c’è addirittuira chi sospetta che il guru sia in realtà già morto, e che la notizia sia tenuta nascosta. Non solo per non smentire la profezia: il futuro della sua Organizzazione dopo la sua eventuale scomparsa non costituisce un problema solo spirituale, visti i 4 miliardi di euro che la stessa Organizzazione possiederebbe solo in liquidi, senza contare le oltre 13.000 proprietà. Vari osservatori danno già in corso una complessa partita per l’eredità, in cui il suo braccio destro Satyajit dovrebbe vedersela con una folla di sedicenti eredi, faccendieri, parenti e amministratori che nelle ultime settimane si sono messi a fare la spola tra Puttaparthi e i centri di potere indiani di Mumbai e Delhi. Obiettivo: ottenere una decisiva firma in extremis dal guru morente.
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il personaggio della settimana Mondana e raffinata, ha riunito le signore a Villa Caracciolo con l’occasione degli auguri di Pasqua
Donna Jacqueline scende in campo
Dopo un’intera vita lontana dai riflettori, la moglie svizzero-partenopea di Aurelio de Laurentiis esce allo scoperto e regala alle compagne dei giocatori del Napoli un “decalogo per far felice il proprio uomo” di Roselina Salemi ady Jacqueline Baudit sposata de Laurentiis è una bella e alta signora svizzero-partenopea dai capelli biondi che ha molto a cuore calcio, patria e famiglia. Se non fosse così chic e sincera il suo decaloghetto alle compagne-mogli-fidanzate dei calciatori del Napoli (lei è vicepresidente della società, il marito Aurelio, produttore cinematografico pluripremiato, inventore dei cinepanettoni, è il presidente dal 2004) avrebbe scatenato ire iperboliche, uscito come sembra dal Saper Vivere di Donna Letizia, che tutti rimpiangiamo, ma insomma è già passato più di mezzo secolo.
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Ed è quasi buffo che in questi tempi di amori mercenari e scaltre ragazze in cerca di sistemazione, essendo il calciatore una delle prede più ambite, si torni al vecchio buonsenso, che tenerezza. Che cosa ha fatto lady Jacqueline, mondana elegante appassionata (poco svizzera in questo)?
danzate di Maiello e Vitale a Soledad, moglie di Edinson Cavani, dalla signora Aronica, alla signora Lucarelli e Barbara Petrillo, compagna di Santacroce, alla napoletana Cristina Cannavaro) con-
I suoi consigli su alcune pergamene intitolate: “Avete sposato un calciatore: le regole d’oro per farne un campione!”
Ha invitato tutte le mogli-compagne-fidanzate dei calciatori del Napoli a Villa Caracciolo per un cocktail e pranzo, saluti, auguri di Pasqua, chiacchierata motivazionale e alla fine ha consegnato una pergamena stampata in bianco e azzurro.Titolo del documento: «Avete sposato un calciatore: le regole d’oro per farne un campione!». Un vademecum in otto punti con alcuni affettuosi consigli scritti nella lingua di provenienza delle signore (c’erano tutte, dalle fi-
Sopra, Lavezzi con la compagna. Ai lati, Cavani e Iezzo con le rispettive mogli. Nell’altra pagina, Hamsik con la compagna e la sorella Martina sposata con il “collega” Gargano
sigli deliziosamente anacronistici ma carichi di significato. Non è che siamo di fronte a un’inversione di tendenza e ritorna il modello moglie-mamma-sorella-amante, mai tramontato in fondo?
Certo è che questo manifesto è meno innocente e casuale di quello che sembra, e non privo di implicazioni perché lady Jacqueline (tre figli, Luigi, Valentina ed Edoardo, avviati a sicure carriere in parte intrecciate con il mondo del calcio) lo applica per prima. A parte la quinta, strettamente legata al campionato, le regole sono valide per qualsiasi marito, manager o produttore. Che cosa dicono? 1. Il vostro uomo è un uomo in casa ma un campione nella testa. 2. Stategli vicino in modo che non senta mai cadere la sua stella. 3. Fatelo pensare sempre in grande. 4. Ditegli che quando la loro stella cadrà resterà sempre un grande. 5. Sostenetelo moralmente perché in queste ultime gare dovrà sottoporsi a uno sforzo immane. 6. Trasmettete le vostre risorse positive. 7. Ricordatevi che dietro un campione c’è sempre una grande donna. 8. Non è in ballo solo il Napoli, ma il riscatto dell’intero Sud. Ora, parte il fatto che le grandi donne si sono stufate di stare dietro ai grandi uomini e anche nel calcio, le abbiamo viste protagoniste e scalpitanti. David Beckham, una star, deve dividere le copertine con l’onnipre-
1. Il vostro uomo è un uomo in casa ma un campione nella testa
2. Stategli vicino in modo che non senta mai cadere la sua stella 3. Fatelo pensare sempre in grande
4. Ditegli che quando la loro stella cadrà resterà sempre un grande
5. Sostenetelo moralmente perché in queste ultime gare dovrà sottoporsi a uno sforzo immane 6. Trasmettete le vostre risorse positive
7. Ricordatevi che dietro un campione c'è sempre una grande donna
8. Non è in ballo solo il Napoli, ma il riscatto dell’intero Sud
sente moglie Victoria, incinta del quarto figlio e invitata alle nozze del secolo in casa Windsor. Marta Cecchetto, modella sanremese, meglio nota come la rossa esplosiva che ballava scatenata sul bancone del bar nello spot Aperol non si mette da parte per Luca Toni. Alessandro Del Piero ha fatto fifty-fifty anche nella campagna pubblicitaria per i gioielli Bliss: coppia preziosa, lui e Sonia Amoroso che lo ha reso tre volte papà. Mentre Alena Seredova, al seguito di Gigi Buffon, gli ha rubato più di un’inquadratura, e adesso lui la sposa. Le first lady stanno davanti. Alla telecamera, possibilmente. Chiacchierano nei talk show, presentano spettacoli, condividono spot tormentone (Ilary Blasi e Francesco Totti), si cambiano d’abito cinque volte al giorno e fanno i capricci (Victoria Beckham), esibiscono anelli da 75mila euro romanticamente consegnati durante una passeggiata in cammello nel Dubai (è successo a Cheryl Tweedy, cantante, fidanzata di Ashley Cole, terzino dell’Arsenal). Influenzano i mariti: Kristen Pazik, indimenticabile modella per GQ, nonché moglie di Shevchenko gli ha fatto lasciare il Milan perché preferiva Londra.
E, nel fidanzamento Barbara BerlusconiPato difficile dire chi sta dietro chi. Però di sicuro le signore del calcio fanno squadra oltre che famiglia, e allora ecco la ragion d’essere dei punti 2) 5) 6). Però proprio quando la famiglia si disfa, diventa liquida, allargata e complicata, si scopre (punto 3) il potere silenzioso che le donne hanno sempre esercitato, il potere di motivare e rincuorare, incorag-
Il vademecum in otto punti è stato tradotto e consegnato nella lingua di provenienza delle signore giare e sostenere (in mancanza di compagne davvero pazienti tocca delegare l’indispensabile funzione a costosi coach, potendoselo permettere).
Però, proprio quando le valutazioni diventano arbitrarie, le mode fragili, i successi effimeri, il punto 1 e il punto 4 rivelano la loro sostanziale utilità per puntellare l’Io e restare campioni. Certo, si potrebbe ridurre la cosa a un discorso a metà fra lo spogliatoio e la complicità femminile, consigli comportamentali, per “caricare”i calciatori in questo finale di campionato, trainer motivazionale e astuzie psicologiche (nessun traguardo è precluso, tutto è ancora in gioco, scudetto compreso) ma non è così. C’è una visione del mondo, vedi al punto 8. Il concetto è: «Non è in ballo soltanto il
riscatto del Napoli. Quella degli azzurri è un’impresa di tutto il meridione contro lo strapotere del Nord». E così anche le mogli-compagne-fidanzate partecipano alla riscossa collettiva, con una punta di politica antileghista. Qui possiamo tirare in ballo tutto: scandali, rifiuti, rivolte, camorra, Roberto Saviano. Riaffiorano, nel nome dello sport le divisioni mai ricomposte, l’infinita resa dei conti che neanche il calcio può sublimare. E la foto di gruppo, allegra, scattata alla fine dell’incontro propone un’Italia ideale dove si parlano lingue diverse e si fa squadra, dove la famiglia è importante e il legame di coppia fondamentale.
si, solitamente divisi tra molte fidanzate, molte auto e molti passatempi e a quelli che sono per definizione mercenari (oggi al Napoli, domani al Milan, dopodomani al Real) ricrea il mito dell’appartenenza alla famiglia, alla squadra, e al popolo dei tifosi che la sostiene, al territorio che rappresenta. Parte dalla grande donna che c’è dietro un grande uomo e arriva alla missione. Non è male come inizio, alle ragazze azzurre è piaciuto, la giornata era bella, i gamberetti erano buoni. La pergamena poi è replicabile. E lady Jacqueline, che è molto parsimoniosa nelle interviste e nelle opinioni, e lascia parlare Luigi che lavora nel cinema o Valentina che si occupa di moda, ha le idee così chiare che potrebbe scendere in campo. Non quello di calcio, ovviamente. Di sicuro avrebbe una lista di comportamenti utili anche per noi. Di sicuro ha capito che nell’Italia di oggi, l’ultima carta da giocare è quella delle donne. E sarebbe bello però, che qualcuno scrivesse un vademecum anche per gli uomini, come sarebbe berlo vederli entusiasti di consigli
E per fare tutto questo ci voleva una signora non politica e coraggiosamente innocente che glissa sulla vita frenetica, discotecara e un po’ sregolata dei calciatori famo-
sull’arricchimento della loro vita di coppia. Al momento sembrano interessati ad arricchirsi e basta.