10430
he di cronac
La libertà è la misura
della maturità di un uomo e di una nazione Karol Wojtyla
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 30 APRILE 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
1 maggio 2011 • Karol Wojtyla beato Un inserto speciale di sedici pagine
Una sorta di promemoria amoroso. Perché quello di domani non sia solo un rito, ma il rilancio di un pensiero ancora attualissimo per vivere in un mondo migliore
Non mettiamolo in un museo Libertà, Verità, Speranza: restare sulle sue orme di Ferdinando Adornato Diario inedito di un’amicizia tra Varsavia, Topolino e la Centesimus Annus di Michael Novak L’inutile, disperata ricerca dell’Europa di un sostituto di Dio di André Glucksmann La Terza Via di Ernst Nolte • Operazione Ottantanove di Lorenzo Ornaghi Il capitalismo morale di Marco Tronchetti Provera seg1,00 ue a p(10,00 agina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
83 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
pagina 2 • 30 aprile 2011
prima pagina
la polemica Anche se la maggioranza terrà sulla Libia, la rottura del collante che ha tenuto insieme Pdl e Lega sembra sancita
Il gioco dei due furbi
Sia Berlusconi sia Bossi si muovono tatticamente senza principi né strategie. Contano solo sopravvivenza e voti, ma la crisi è vicina il fatto di Enrico Cisnetto
nche questa volta, la crisi di governo non ci sarà. Ma le tensioni di queste ultime ore – quelle che hanno visto fronteggiarsi Pdl e Lega, come pure Berlusconi e Tremonti – sono destinate a lasciare il segno. Per poi magari diventare decisive prossimamente. Da un lato, Bossi cercava da tempo, per ragioni puramente elettorali, l’occasione giusta per marcare le differenze che lo separano dal premier, e ha pensato – anche grazie ad un errore marchiano del Pd – che la questione della Libia potesse fare il caso suo. Dall’altro, Berlusconi riapplica il solito schema con cui gioca le partite difficili quando volgono al peggio: cerca un capro espiatorio. Che nella fattispecie, dopo Follini, Casini e Fini, si chiama Tremonti. Le due cose in sé non sono tali da destabilizzare il governo fino al punto di farlo cadere, ma il loro combinato disposto prima o poi sì. A meno che non ci sia qualcuno che, con più sale in zucca di altri, riesca a disinnescare le due micce. Vediamo in dettaglio entrambi gli scenari.
A
Come ha giustamente notato Stefano Folli, i rapporti tra il leader della Lega e il Cavaliere sono «ai minimi termini», ed era dai tempi dello “strappo” del 1994-95 che il Carroccio non usava toni così sprezzanti nei confronti del Berlusca. Non siamo di fronte, però, ad una crisi dei rapporti personali – nonostante che la mancata comunicazione sul cambiamento di linea nella vicenda libica abbia lasciato un segno profondo – bensì alla presa d’atto da parte di Bossi che l’alleanza di governo ha dato tutto quello che poteva dare e che, viceversa, da un po’ di tempo a questa parte procura alla base della Lega, ma quel che più conta al suo elettorato diffuso, crescente malessere. I primi ad essere più sensibili a questa percezione sono stati i governatori e i sindaci leghisti – da Zaia a Tosi – ma poi anche i ministri hanno cominciato a dire a Bossi che prima o poi bisognerà tagliare la corda. L’evolversi della vicenda libica – che nel linguaggio leghista è riassumibile in «spender soldi per andar dietro agli interessi di
«Cambi idea o può succedere di tutto», dice il Senatùr. Calderoli: «Non c’è via d’uscita»
Umberto minaccia ancora Silvio ma prepara la tregua armata di Errico Novi
ROMA. È fondato eccome il timore del Cavaliere: nulla sarà più come prima, con la Lega e con Bossi. Cambia l’ordine delle relazioni dentro al governo, per sempre. E con esso anche la natura dei rapporti tra il Cavaliere e il Senatùr. Sarà così a prescindere dall’esito del voto sui bombardamenti in Libia, fossato per martedì prossimo. Nel senso che nella conta sulle mozioni il Carroccio finirà per allinearsi al Pdl. Ma a precise condizioni. Che riguardano sia il contenuto del documento di maggioranza sia la ridefinizione degli equilibri nel governo. Peraltro non è ancora all’orizzonte un testo comune, in grado di catturare il sospirato consenso dei lumbàrd. E sia Bossi sia alcuni dei suoi, in primis Calderoli, si esercitano nel tenere alta la suspence: «A oggi non vedo vie d’uscita, e si rischia di chiudere la stalla quando i buoi sono già scappati», è la preoccupante chiosa proposta nel pomeriggio dal ministro alla Semplificazione. Già in nottata, dopo il comizio a Domodossola di giovedì sera, proprio Bossi aveva già fatto riaddensare le nubi sul futuro dell’esecutivo: «Se Silvio non cambia posizione sulla Libia allora può capitare di tutto. Noi non facciamo passi indietro». Ha molte ragioni dunque il premier per mordersi la lingua, per tormentarsi con il suo «ho sbagliato, avrei dovuto avvertire Bossi prima». Sembra comunque improbabile una spaccatura fatale che apra una crisi di governo. Anche perché tra Palazzo Grazioli e via Bellerio intercorrono due efficaci linee di mediazione: una probabilmente decisiva riconducibile al capo dello Stato, impegnato a evitare un’indecente spaccatura sulla politica estera; l’altro, tutto interno alla maggioranza, affidato a Tremonti. Cioè proprio al ministro sempre più nel mirino del Giornale di Sallusti, e capace di incarnare i peggiori incubi del Cavaliere. Se però la moral suasion del Quirinale punta a evitare incidenti parlamentari (ed è comunque rivolta anche all’opposizione) quella affidata dallo stesso premier al superministro rischia di trasformarsi in una resa politica. O comunque nella premessa di un avvicendamento proprio con il responsabile dell’Economia. Con il tipico cinismo del partito che punta al potere senza troppe concessioni al princi-
pio, il Carroccio resta fedele alla definizione di Lorenzo Cesa: «Abbaia, si agita, ma poi torna sempre a cuccia». Lo farà anche stavolta, ma a condizioni pesanti per il premier. Peraltro è assolutamente improbabile che il teso faccia a faccia tra Bossi e Berlusconi possa avvenire prima di lunedì sera. Il capo della Lega esporrà le sue richieste al presidente del Consiglio a poche ore dal voto in aula. A parte i paletti che andranno fissati nella mozione di maggioranza (nessun intervento via terra, uso dei missili aria-terra limitato il più possibile) la Lega imporrà un’ulteriore garanzia sul ruolo di Tremonti: nessuno dovrà permettersi di insidiare la linea del rigore, nemmeno quegli esponenti meridionali della maggioranza ansiosi di qualche “alleggerimento elettorale”; le stesse politiche per il Sud dovranno rispondere alla regìa esclusiva del superministro; al Nord, blindatura per Salvini vicesindaco di Milano, e almeno un impegno a creare una Saxa Rubra settentrionale. Tutti aspetti importanti, che concorrono in realtà a definirne un altro, più complessivo: l’equilibrio della maggioranza dovrà definitivamente cambiare. Con un Tremonti sempre più forte e un Bossi sollevato dal patto di amicizia con Berlusconi, il partito del Senatùr si prepara ad assumere un’iniziativa autonoma rispetto al futuro del governo. Non esisterà più quel sottile equilibrio che sanciva già la sostanziale egemonia leghista senza però mettere in discussione il ruolo del Cavaliere. Le garanzie non ci saranno più. E Bossi, rispetto a questo scenario, già sevizia il premier: meno male che c’è Tremonti, ha detto tra l’altro venerdì notte, perché altrimenti «Silvio spende tutto». Ancora più impietoso quando ricorda che a Milano «se si perde, perde Silvio». Solo anteprime dei tempi che verranno.
Sarkozy prima e di Obama ora» – rappresentava l’occasione perfetta per prendere le distanze. Anche perché Bersani ha aperto un varco enorme quando ha chiesto il voto parlamentare su una mozione “anti-guerra”, senza accorgersi che quella era prima di tutto la posizione del Quirinale, che nella circostanza ha tenuto i contatti con gli americani (non a caso Obama alla Casa Bianca ha ricevuto Napolitano ma non Berlusconi). Per questo Bossi ha preso tre piccioni con una fava: ha mandato un messaggio di autonomia alla vigilia delle amministrative, che dovrebbe aiutarlo a fare il pieno di voti; ha messo il premier nelle condizioni di mettere sul piatto merce di scambio (le nomine ci sono già state, ma c’è sempre potere da negoziare) se vuole recuperare; ha spiazzato Bersani, costringendolo o a inseguirlo e rompere così con Napolitano, o a lasciare alla Lega i galloni Berlusconi ha cercato di ricucire con Bossi dopo giorni di “gelo”. Sembra aver fatto effetto, dunque, la mediazione di Giorgio Napolitano
l’analisi Il ruolo (e il peso) di Napolitano a difesa delle alleanze storiche
In Parlamento nasce il “partito” del Colle
I raid Nato e l’interesse nazionale si compattano nel Quirinale, ma non sono maggioranza di governo di Francesco D’Onofrio ll’inizio della prossima settimana, si cercherà di sciogliere un insieme di nodi procedurali e politici che concernono l’attuale intervento italiano in Libia: si deciderà se votare o meno una delle mozioni presentate dalle tre opposizioni; si deciderà se votarle di seguito o l’una dopo le altre secondo i tempi dei rispettivi depositi; sapremo se vi sarà o meno una mozione del governo in carica, o se si prenderà atto che non vi è nessuna mozione del governo, sostenendo che si tratta di questione già decisa. L’insieme di queste decisioni dimostra che siamo in presenza di più questioni politiche e non solo procedurali, perché risulta di tutta evidenza che non vi è convergenza strategica di fondo sulla politica italiana in Libia né all’interno delle tre opposizioni al governo in carica, né all’interno della maggioranza politica che sostiene il governo medesimo. Occorre pertanto cercare di capire su quale punto politico e non solo procedurale vi sarà comunque una maggioranza parlamentare a sostegno della decisione già manifestata dal Presidente del Consiglio e posta in atto dalle forze armate italiane nel contesto delle decisioni militari della Nato, a loro volta attuative della risoluzione 1973 delle Nazioni Unite. Risulterà con ogni probabilità che vi è una maggioranza parlamentare favorevole all’intervento armato dell’Italia in Libia, ma che a questa maggioranza parlamentare non corrisponde né il governo in carica, né un eventuale governo alternativo ad esso che abbia a fondamento proprio una comune valutazione dell’intervento armato medesimo.
A
del “no war” per evitare di rompere con il Quirinale, ma a quel punto salvando il governo (in questo caso doppio guadagno per Bossi, fa il pieno di consenso sulla Libia e non fa cadere il governo). Questo per Bossi significa cuocere a fuoco lento il Cavaliere, esattamente come a Milano, dove non a caso ha fatto intuire di non affaticarsi più di tanto a portar voti alla mai amata Moratti quando ieri ha dichiarato che «a Milano corre Berlusconi, se si perde, perde Berlusconi».
Insomma, sul caso libico, e in particolare sulla vicenda della “mozione parlamentare”, probabilmente ci si metterà una pezza – specie se il premier lascerà il pallino in mano al Capo dello Stato – ma sulla questione di fondo, cioè il progressivo venir meno del collante che ha tenuto insieme Pdl e Lega come maggioranza di governo, la rottura sembra sancita. E attiene alla perdita di leadership da parte di Berlusconi, che Bossi considera irreversibile. Per questo il presidente del Consiglio ha deciso di giocare per l’ennesima volta la carta del “traditore”. Individua-
re, cioè, qualcuno su cui far ricadere la colpa, in modo da provare a rinegoziare il patto con la Lega o contenere il danno sul piano del consenso elettorale. E questo qualcuno si chiama Tremonti. Con lui aveva già fatto questo gioco nell’estate del 2004, quando approfittando della malattia di Bossi lo rimosse da ministro. Poi aveva cominciato a riprovarci a Natale, quando dalle colonne del Giornale partì un primo attacco al ministro dell’Economia. Ora ha ricominciato con più veemenza, e a ben poco valgono le due smentite, con relativi atti di solidarietà, che ha dovuto fare per evitare che la situazione precipitasse. Ma così facendo Berlusconi rischia solo di complicarsi la vita, oltre che di esporre il Paese a gravi pericoli proprio mentre ci aspetta il negoziato con l’Europa sulle manovre correttive dei conti pubblici. Perché finché regge l’asse, fin qui di ferro, tra Bossi e Tremonti, avere contemporaneamente fronti aperti con entrambi appare una mission davvero impossible. Anche per l’inossidabile “Cavalier pompetta”. (www.enricocisnetto.it)
raggiunto un punto di emersione largamente condiviso sul passaggio della lunga stagione della Guerra Fredda alla stagione nuova della globalizzazione. Per quel che concerne il processo di integrazione europea, dobbiamo infatti rilevare che altro esso è stato nel contesto della Guerra Fredda, altro è il processo medesimo dalla fine dell’Unione Sovietica ad oggi. Ed è di tutta evidenza che è proprio sul rapporto tra Europa e Mediterraneo che si gioca oggi in modo decisivo il significato stesso del processo di integrazione europea e, quindi, del significato stesso di Europa nel mondo attuale della globalizzazione. Sol che si consideri il diverso ruolo che Francia e Gran Bretagna hanno oggi nel contesto mediterraneo rispetto al ruolo che gli Stati Uniti si sono venuti via via costruendo e conquistando in questo Mare nel corso degli ultimi sessant’anni, si può infatti valutare il significato che oggi ha la convergenza parlamentare sull’intervento militare italiano in Libia: vi è infatti una sorta di comune convergenza sul ruolo degli Stati Uniti nel Mediterraneo e nella Nato, mentre è proprio su questo ruolo che si sono svolte nel passato recente le vicende più significative di una sorta di differenza della Francia di De Gaulle rispetto alla Nato, e degli Stati Uniti di Eisenhower rispetto a Francia ed Inghilterra proprio per quel che concerne Nord Africa e Medio Oriente.
Lo stesso «filo-americanismo» di oggi ha radici differenti nell’esecutivo e nelle due opposizioni: un’altra ragione di nuova “disunità”
Ci troviamo infatti di fronte ad una situazione che non è riuscita a porre insieme in termini di coerenza sostanziale una scelta di fondo di politica estera – come è quella del se e del quanto dell’intervento italiano in Libia – con scelte di politica interna che attengono contemporaneamente a questioni istituzionali e sociali quali sono quelle concernenti il rapporto tra federalismo e unità nazionale da un lato, e il rapporto tra cultura dell’accoglienza e politiche del respingimento degli immigrati cosiddetti clandestini dall’altro lato. La coerenza tra politica estera e politica interna costituisce pur tuttavia un punto essenziale della identità stessa di un sistema di governo tipico di uno Stato nazionale. Ma – come tutti sappiamo – molte sono state le vicende territoriali, istituzionali, culturali e sociali, sia interne sia internazionali, che hanno segnato il cammino dell’unità nazionale dal 1861 ad oggi. Qualora si intenda soffermarsi soltanto sulla storia degli ultimi sessant’anni, è di tutta evidenza che non abbiamo ancora
La convergenza parlamentare che sarà molto probabilmente raggiunta nella prossima settimana a Montecitorio finirà pertanto con il vedere convergenti posizioni filo statunitensi e filoeuropee non del tutto coincidenti tra di loro nel corso dell’ultimo sessantennio. Non sorprende pertanto che sia stata proprio la telefonata di Barack Obama al Presidente Berlusconi a far precipitare una decisione italiana che la Lega Nord ha ritenuto non accettabile. Il punto di equilibrio – mancato, a giudizio della Lega - è stato proprio quello concernente il rapporto tra la valutazione dell’interesse nazionale (per come essa lo ritiene) e la responsabilità internazionale dell’Italia. È in questo contesto che andrà pertanto valutata la singolare divaricazione tra una molto probabile maggioranza parlamentare concernente lo stadio attuale dell’intervento militare italiano, e la sopravvivenza molto probabilmente assicurata al governo in carica anche nel momento in cui la Lega prende le distanze dalla decisione militare medesima. Questa divaricazione può salvare la posizione internazionale dell’Italia ma non può certamente assicurare una dignitosa continuità di governo nazionale.
siria in fiamme
pagina 4 • 30 aprile 2011
È sempre Dara’a il cuore della protesta contro Assad: tra le vittime anche dei soldati che difendevano la folla
Disobbedienza siriana Il regime non può fermare l’ennesimo venerdì della collera: decine di morti di Antonio Picasso uesto ennesimo venerdì della collera, in Siria, verrà ricordato come la giornata di solidarietà per Dara’a. La città, testimone del massacro di oltre duecento dimostranti appena sette giorni fa, chiude la giornata con almeno altri sedici corpi lasciati sul terreno (le Ong fanno salire il numero quasi a cento). Altri dodici se ne contano a Homs. «Per i nostri fratelli di Dara’a», recitava lo striscione di un corteo. La rivoluzione siriana prosegue, con le sue tappe cadenzate settimanalmente. Amuda, Dara’a e Qamishli questi i centri della protesta. Episodi simili sono stati registrati anche nella capitale. È Dara’a però che resta al centro della rivoluzione. La città di fatto è sotto assedio. Il gruppo di Facebook, Syrian Network News, descrive una situazione allo stremo delle forze per la popolazione civile. Il regime ha tagliato acqua e luce alla cittadinanza, isolandola dal resto del Paese. La Fratellanza Musulmana ha dichiarato che il governo sta commettendo un ge-
Q
remmo di fronte a numerosi casi di plotoni di esecuzione installati per sfrondare le Forze armate dai potenziali dissidenti. Questo sarebbe ricollegabile ai duecento membri del partito Baath che si sono dimessi giovedì. I gangli del regime si stanno sfaldando. Tuttavia, resta senza spiegazione il sequestro dei due poliziotti a Dara’a. Chi potrebbe esserne il responsabile? Difficile che l’opposizione sia dietro un’iniziativa che potrebbe ritorcersi contro. Andando a esclusione, quindi, l’ipotesi di una qualche milizia, o cellula terroristica un po’ troppo autonoma – di cui la Siria ne ospita a iosa! – è ben plausibile.
Altrettanto avvolta da un’aura di incertezze è il caso di un fallito attentato, che sarebbe avvenuto giovedì, contro il generale Asef al-Sawkat, cognato del presidente Bashar el-Assad e soprattutto numero uno della Mukhabarat, l’intelligence militare. È una notizia che manca delle dovute conferme. Al momento è possibile sottolineare che il tentativo di far saltare il
Damasco ha tagliato acqua e luce alla cittadinanza, isolandola dal resto del Paese. La Fratellanza Musulmana ha dichiarato che il governo sta commettendo un genocidio nocidio. L’attacco fa seguito alla posizione assunta dallo Human Rights Council dell’Onu, riunito a Ginevra in sessione straordinaria per emanare una risoluzione di accusa contro Damasco. Nel frattempo, sono stati uccisi sette poliziotti e altri due sono stati sequestrati. Le autorità locali parlano di un gruppo terroristico a monte della vicenda. Una giustificazione che permetterebbe di intensificare ulteriormente la tensione. In realtà, non è il primo caso di uomini al servizio del regime caduti durante gli scontri. Sempre ieri, per l’appunto, sono stati celebrati i funerali comuni di ben 50 militari e dozzine di poliziotti comuni. Il governo parla di omicidi. Le opposizioni non escludono che si tratti di disertori uccisi dai loro stessi colleghi in armi. Se così fosse, sa-
vertice delle attività spionistiche di Damasco significa voler colpire al cuore l’intero regime, oltre che spezzare la filiera di alleanze esterne che la Mukhabarat vanta con Hezbollah, Hamas e i pasdaran iraniani. Fin dai tempi di Assad padre, il ruolo della Mukhabarat è stato precipuo per la sopravvivenza della dittatura. Omicidi mirati, torture e processi sommari hanno reso grottescamente celebre l’apparato di sicurezza di Damasco. Se l’opposizione ha cercato davvero di eliminare alShawkat, si può pensare che disponga di una rete di contatti interni all’establishment, talmente ben infiltrati da poter giungere al vertice della piramide gerarchica. La notizia è stata diffusa dalla Radio militare israeliana. È una fonte che, solitamente, non sbaglia. Tant’è
Qui accanto, un’immagine delle proteste dei giorni scorsi a Dara’a: anche ieri, sono state represse nel sangue dalla polizia di Assad. Sotto, Lady Catherine Ashton: ancora una volta, l’Unione Europea non è riuscita a trovare un accordo per imporre delle sanzioni al regime siriano
Gli sherpa dei Ventisette riuniti per stilare una prima bozza di sanzioni
L’Europa cerca l’accordo (ma per ora non lo trova) L’Unione pensa al congelamento dei beni, all’embargo delle armi e dei fondi Ue di Enrico Singer er ora la sola mossa concreta l’ha fatta la Gran Bretagna. Anzi, per essere precisi, la Corte di sua Maestà britannica che ha ritirato all’ambasciatore siriano a Londra, Sami Khiyami, l’invito per assistere alle nozze di William e Kate seduto tra gli ospiti d’onore nell’abbazia di Westminster. Per il resto, siamo ai segnali, agli avvertimenti diplomatici. I rappresentanti permanenti dei Ventisette si sono riuniti a Bruxelles per stilare la lista delle sanzioni che i capi di Stato e di governo della Ue adotteranno – se prima non sarà convocato un vertice straordinario – nel prossimo Consiglio europeo che è in programma alla fine di giu-
P
gno. Di fronte alle stragi di civili in Siria – la macabra contabilità dei morti ha già superato quota 500 e ieri c’è stato un altro “venerdì della rabbia” con nuove vittime a Damasco e nella città-martire di Daraa – la macchina della politica estera dell’Europa si è appena messa in moto. Lentamente e con qualche resistenza. Sembra di ripercorrere il copione di un film già visto. Eppure tutto quello che è successo dall’inizio dell’anno prima in Tunisia, poi in Egitto e in Libia, come nello Yemen, in Bahrein o in Marocco – dove giovedì c’è stata la bomba nel bar dei turisti nella più bella piazza di Marrakesh – avrebbe dovuto insegnare anche ai più distratti che l’unico modo per
fronteggiare crisi tanto complesse e pericolose è l’unità d’intenti e la rapidità della risposta da parte dei Paesi dell’Occidente che, per chi reclama democrazia in Maghreb come in Medioriente, rappresentano la speranza di uscire dal tunnel dell’oppressione e, per i regimi dittatoriali o i movimenti islamisti, sono il nemico da colpire.
Si può obiettare che, nel caso della Siria, anche Barack Obama si è mosso finora con cautela. Certo, ha condannato con parole molto dure e chiare la repressione a colpi di cannone attuata da Bashar al Assad contro la sua gente e lo ha invitato a smettere, ma non ha ancora forzato i tempi di una con-
siria in fiamme che, in un secondo comunicato, l’emittente ha reso noto il nome dell’attentatore, tale Faisal Aza. Ha aggiunto che, durante l’attacco, sarebbero feriti lo stesso Aza e alcune guardie del corpo del generale. La particolarità delle informazioni fa pensare che la notizia sia vera.
Tornando alla cronaca, se è possibile prevedere quando vengono organizzati i cortei, non è così facile anticipare il dove. Se non altro per quanto riguarda le città. Ogni venerdì, gli spazi prospicienti le moschee, al termine dalla preghiera collettiva, offrono per l’opposizione l’opportunità di riunire un vasto numero di persone. Il proselitismo, in questi casi, è facile da ottenere. Al di là di questo, non si può anticipare quale città sarà testimone delle prossime rivolte. In questi due mesi di scontri, Dara’a e Latakia si sono dimostrate i due epicentri della rivolta. Lo stesso non si può dire di Aleppo o Damasco, né tantomeno di Amuda e Qamishli, che solo ieri sono entrate nella lista dei luoghi off limits. Quella siriana
30 aprile 2011 • pagina 5
sul flusso di profughi, attraverso il valico di Tell Kalakh, rischia di generare una crisi umanitaria che il governo di Beirut è ben lungi da poter gestire. È vero che Damasco ha aumentato gli uomini lungo tutto il confine, anche verso la Giordania e la Turchia, verso cui è cominciato l’esodo. Tuttavia, il Libano è il primo a pagare economicamente e socialmente il prezzo di questa crisi. La rivoluzione in Siria vuol dire mettere in discussione i già scricchiolanti equilibri etnicoreligiosi oltre confine. Finora le autorità frontaliere libanesi hanno monitorato due migliaia di scampati. Quanti saranno in futuro? E soprattutto, di quale o quali confessioni religiose saranno? Sunniti, alawiti, oppure cristiani? In termini commerciali, i movimenti di capitali nel circuito Cipro-Libano-TurchiaSiria sono attualmente bloccati appunto per il collasso di quest’ultima. Da questo, l’interesse, anch’esso manifestamente preoccupato, del governo di Ankara. «Stiamo fornendo ogni tipo di appoggio a Damasco, per aiutare il Paese ad an-
Assistiamo a una rivoluzione itinerante. Si tratta di una scelta tattica, adottata dall’opposizione per evitare che le autorità sappiano con anticipo (e si preparino) ad attaccare i cortei rati con la protesta rendendo ancora più complesso il quadro delle forze in campo. Ma riconoscere che ogni crisi ha una sua specificità non può diventare l’alibi per una specie di fatalismo che, nella pratica, si traduce nell’immobilismo in attesa di potersi accodare – o di essere costretti ad accodarsi – a decisioni prese da altri.
Riconoscere che ogni crisi ha una sua specificità non può diventare l’alibi per una sorta di fatalismo (leggi anche immobilismo) in attesa di potersi accodare alle decisioni altrui danna nel Consiglio di sicurezza dell’Onu – tappa obbligata per mettere in atto valide sanzioni anche a livello europeo – scoraggiato, forse, dalla posizione più dichiaratamente filosiriana di Russia e Cina che sembrano, almeno per il momento, ben determinate a porre il loro veto per fermare eventuali risoluzioni contro il regime di Assad a differenza di quanto hanno fatto, astenendosi, quando si è trattato di votare per impedire che Gheddafi bombardasse i civili che erano assediati a Bengasi e a Misura-
ta e nelle altre città in mano agli insorti. La rivolta siriana è forse la più sanguinosa e, probabilmente, la più coraggiosa della cosiddetta “primavera araba” perché sfida un regime forte e brutale, costruito sull’ideologia baathista, la stessa che sosteneva Saddam Hussein al potere in Iraq e che la dinastia siriana degli Assad ha via via spostato verso l’alleanza con Teheran, con Hezbollah in Libano e con Hamas a Gaza. Ma è anche vero che i Fratelli musulmani, in Siria, sono usciti allo scoperto e si sono schie-
Il limite maggiore della politica estera europea, della tanto auspicata e mai realizzata “voce unica” della Ue, è proprio questo. E rivela tutta la debolezza delle nuove istituzioni che l’Europa si è data appena pochi anni fa e che gli altisonanti titoli assegnati – il presidente stabile del Consiglio europeo e l’Alto rappresentante per la politica estera e la sicurezza – non riescono a nascondere. Fino a che la rivoluzione che sta scuotendo la costa Sud del Mediterraneo c’interesserà soltanto quando si trasforma in un problema di immigrazione clandestina, non sarà facile affrontarla proponendo soluzioni che possono incidere sulla realtà prima che diventi incontrollabile. Per fermare la sanguinosa repressione di Bashar al Assad forse non basteranno le sanzioni della Ue esaminate ieri a Bruxelles. Ma, intanto, sarebbe opportuno non perdere altro tempo.
è una rivoluzione itinerante. Si tratta di una scelta tattica, adottata dall’opposizione che, in questo modo cerca di improvvisare cortei onde evitare che le autorità lo sappiano con anticipo e quindi si preparino ad attaccarli. Il modus operandi è ormai noto. La chiamata in raccolta si effettua quasi esclusivamente via sms, per celerità di trasmissione dell’appello, oppure nelle chat su Facebook, difficili da intercettare. Per i giovani di ogni città, quindi, la discesa in piazza dalle proprie case è breve. La polizia, al contrario, venendo a sapere solo all’ultimo minuto dove si sta concentrando il corteo, può intervenire non nella adeguata tempistica. Questo non evita lo spargimento di sangue, ma in parte lo contiene. La censura del regime, da parte sua, ha dato un ulteriore gito di vita ai sistemi di comunicazione. Nelle città è sempre più difficile navigare sul web. Inoltre, la versione araba di al-Jazeera è stata oscurata. In questo modo, chi non parla inglese non potrà seguire le notizie di questo influente organo mediatico, che sta facendo della rivolta araba una sua battaglia. Ancora ieri, il quotidiano libanese L’Orient le Jour ha parlato del crescente numero di siriani che stanno riparando proprio oltreconfine, in Libano, appunto. Si tratta soprattutto di donne e bambini. A questo proposito, è stato lanciato un appello
dare incontro alle richieste della sua popolazione», ha detto il ministro degli Esteri turco, Ahmet Davutoglu. Per poi chiosare: «Ankara si aspettava che Assad mettesse in atto le riforme richieste dal Paese».
Difficile non cogliere la buona volontà della Turchia di mediare tra il regime e l’opposizione. A patto, però, che il primo reagisca positivamente alle richieste della controparte. Ankara, ispirata dalle sue ambizioni di potenza a cavallo tra Europa e Medioriente, può anche accollarsi il peso di risolvere la crisi siriana. Tuttavia, proprio perché è guardata dall’Europa, oltre che essere in clima elettorale, non può compromettersi proteggendo un dittatore sanguinario. A questo punto, il governo Erdogan rappresenta per Assad un’ultima spiaggia, raggiungibile ponendo uno stop alle violenze. In questo senso, è insufficiente la presa di posizione del capo della diplomazia siriana, Walid Moallem: «Il governo ha provveduto a dare risposta alle legittime richieste popolari con numerosi provvedimenti, come l’abolizione dello stato di emergenza e del Tribunale per la sicurezza dello stato, la legittimazione delle manifestazioni pacifiche, il varo di misure che combattano la corruzione e l’aumento degli stipendi». Insufficiente e irricevibile dall’opposizione.Vista la realtà di Dara’a.
pagina 6 • 30 aprile 2011
siria in fiamme
Si presenta l’occasione di infliggere un colpo decisivo ai principali nemici della democrazia, ma nessuno ha il coraggio di farlo
Svegliati, Occidente!
Un doppio filo lega i regimi di Ahmadinejad e Assad: proprio le guardie di Teheran che aiutano a soffocare la rivolta a Dara’a. Ma perché Obama non dice le parole che ha usato con Gheddafi e Mubarak per scuotere il mondo? eggendo la stampa popolare si evince a malapena, ma l’insurrezione mondiale sta andando alla grande, nonostante l’inettitudine del cosiddetto mondo occidentale. E sta andando alla grande nei paesi dei nostri nemici, non solo in quelli dei nostri (almeno fino ad ora) amici. In Siria, ad esempio, le proteste contro Assad stanno aumentando a dismisura nonostante il pugno di ferro e stanno invocando esplicitamente un cambio di regime. In Iran, si susseguono scioperi, violente manifestazioni contro il regime nelle aree petrolifere ad occidente, confinanti con l’Iraq (pensate a Basra), e continui sabotaggi degli oleodotti del paese. I destini delle tirannie di Damasco e Tehran sono strettamente connessi, il che spiega anche il motivo per cui gli iraniani hanno mandato alcuni dei loro massimi esperti in Siria per aiutare i Baathisti a fermare l’insurrezione. I mullah hanno attivato tra le 350 e 400 videocamere nascoste nei segnali stradali, per identificare gli attivisti, e
L
di Michael Ledeen più di 42 censori per chiudere programmi radiofonici e televisivi. A Damasco ci sono molti seguaci di Hezbollah e Guardie Rivoluzionarie, oltre ad arabi di addestramento iraniano, circa duemila, per insegnare alle forze di sicurezza della Siria“come funziona”. In altre parole, si sta tentando di ripetere la repressione iraniana sul suolo siriano.
Il progetto non sta funzionando molto bene, come si può vedere leggendo le ultime notizie dal Partito Riformista della Siria, tra cui quell’incredibile video di disertori dell’Esercito che guidano la folla a Dara’a e sparano colpi in aria. E la rivolta si sta diffondendo alle nuove città ogni giorno di più. Al momento, Assad sta combinando la mano dura ad atti di pacificazione (sporadici rilasci di prigionieri, tra cui gli odiati curdi, promesse di cancellare la “Legge di Emergenza” che ha permesso qualsiasi tipo di violenza da parte del regime dal 1963), il che è la peggiore delle
strategie possibili (le misure restrittive hanno infuriato ulteriormente la popolazione, mentre la pacificazione viene considerata come segno di debolezza). Gli iraniani gli stanno suggerendo di prendere tempo, di organizzare una repressione realmente efficace e di agire con determinazione. Il modello iraniano tuttavia non è proprio la carta vincente, a giudicare dai seguenti eventi recenti: 1) gli arabi iraniani nella regione petrolifera di Ahwaz sono
Due aerei iraniani fermati in Turchia, portavano armi a Damasco
insorti, prima il 13 aprile durante il “Giorno della Rabbia” quando almeno nove manifestati sono stati uccisi dalle forze di sicurezza del regime, poi di nuovo il 14, su cui ci sono ancora pochissime notizie visto che il regime non vuole che il mondo venga a conoscenza di queste proteste, sia perché suggerirebbero la vulnerabilità della principale fonte di reddito del paese, sia perché dimostrerebbero ancora una volta che Khamenei e Ahmadinejad hanno
sbagliato ad imporre la loro volontà su una popolazione che invece vuole che il regime finisca. Quindi agli “osservatori” esteri è stato proibito l’accesso ad Ahwas, e gli esperti di disinformazione a Teheran hanno messo in scena le loro “manifestazioni”, rivendicando che la popolazione stava protestando per il trattamento degli sciiti in Bahrain. Nessuno ci ha creduto, almeno nessuno degli arabi di Ahwaz (per lo più di sunniti).
2) Il sabotaggio sistematico dell’industria petrolchimica e dei vitali oleodotti del paese – cui ho spesso fatto riferimento – continua senza sosta. Il 15 marzo, il Movimento di Azerbaijan per la Democrazia e l’Integrità in Iran ha rivendicato l’esplosione della grande raffineria di Tabriz. L’impianto è rimasto chiuso completamente per tre giorni e più di cento vetture dei vigili del fuoco hanno impiegato 11 ore per tenere sotto controllo le fiamme. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza e le forze di sicurezza hanno sigillato l’area con una massic-
30 aprile 2011 • pagina 7
Un sondaggio rivela che i cittadini accettano l’indipendenza della Palestina
E gli israeliani scoprono che convivere è possibile
Hamas ormai si dice pronto all’accordo con l’Anp di Abu Mazen, mentre il Cairo riapre il “valico della discordia” verso la Striscia di Gaza di Pierre Chiartano
ROMA. Forse è la primavera araba che ha influenzato l’opinione pubblica israeliana, oppure è la stanchezza di un popolo di essere perennemente in guerra in casa propria. Quasi il 50 per cento degli israeliani ritiene che Israele debba «riconoscere uno Stato palestinese a condizione di mantenere in Cisgiordania blocchi di colonie». Se la piazza araba finalmente esiste, qualche speranza per la democrazia dovrebbe pur esserci. E con essa la possibilità di una pacifica convivenza. È questa forse la domanda che si pongono oggi molti cittadini dello Stato ebraico, stanchi di vivere nell’unico sistema democratico moderno della regione: dunque senza interlocutori affidabili. La risposta invece potrebbe giustificare i risultati del sondaggio pubblicato ieri dal più diffuso quotidiano israeliano Yediot Aharonot. Il 48 per cento delle persone interpellate è favorevole a riconoscere lo Stato palestinese, mentre il 41 per cento ritiene che Israele «debba opporsi con forza a qualsiasi proclamazione di uno Stato palestinese, anche a costo di uno scontro con le Nazioni Unite». Inoltre, il 53 per cento degli israeliani pensa che il premier Benjamin Netanyahu dovrebbe presentare un «piano per risolvere il conflitto con i palestinesi a costo di importanti concessioni». Concessioni che il governo di Gerusalemme è abituato a fare fin dalla fondazione della nazione ebraica. Mentre il 42 per cento degli intervistati è contrario e probabilmente costituisce lo zoccolo duro che sostiene la politica del governo di centrodestra. Il sondaggio è stato realizzato prima dell’annuncio dell’accordo di riconciliazione tra Hamas e l’Autorità palestinese del presidente Abu Mazen. Che ovviamente avrebbe variato di qualche punto percentuale il blocco degli sfavorevoli allo Stato
palestinese.Vista anche la «costernazione» con cui il governo ha accolto la notizia. La spaccatura tra Hamas, legata ai Fratelli musulmani e la laica Autorità palestinese erede della politica di Fatah, aveva reso illusorio il quadro di un possibile accordo. Gaza e la Cisgiordania si presentavano così come un aquila bicefala. Entità palestinesi, ma governate dal radicalismo islamico una e da una corrotta amministrazione “laica” l’altra. Era la fine di ogni illusione. La ricerca è stata effettuata da un istituto indipen-
Il 53 per cento degli intervistati è pronto a fare anche «importanti concessioni» per avere la pace dente su un campione di 500 persone, e ha un margine di errore del 4,5 per cento. Di fronte allo stallo dei negoziati, uno degli obiettivi dei palestinesi è ottenere il riconoscimento internazionale del loro Stato lungo i confini del 1967 all’Assemblea generale dell’Onu di settembre. A fine maggio, Netanyahu interverrà davanti al Congresso americano e, secondo i media israeliadovrebbe ni, presentare un’iniziativa di pace. E dalla Striscia di Gaza arrivano altre preoccupazioni per il governo israeliano. Gerusalemme si è detta «allarmata» per la decisione dell’Egitto di riaprire in modo permanente il valico di Rafah, il posto di frontiera tra la Striscia di Gaza e l’Egitto, l’unico non controllato dalle forze di
sicurezza israeliane. Una decisione che potrebbe avere conseguenze strategiche importanti per la sicurezza dello Stato ebraico. In linea più generale, Israele è preoccupato per gli ultimi sviluppi in Egitto, che hanno potenzialmente implicazioni strategiche per la sicurezza nazionale. L’Egitto «adotterà nei prossimi giorni tutte le misure più importanti per aiutare ad alleggerire il blocco», ha affermato il ministro degli Esteri Nabil alArabi, intervistato da Al Jazeera, precisando che il suo Paese non accetterà più che il passaggio di frontiera situato a Rafah resti bloccato. Arabi ha definito «vergognosa» la decisione di chiudere Rafah. Imposto nel giugno 2006, dopo il sequestro del soldato israeliano Gilad Shalit, il blocco della Striscia di Gaza è stato ulteriormente rinforzato dopo l’avvento di Hamas alla guida del territorio, con un blocco marittimo, il divieto d’esportazioni e restrizioni severissime alla circolazione delle persone in entrata e in uscita da Gaza. L’altra notizia d’interesse è il riavvicinamento tra Hamas e l’Autorità palestinese. Il presidente dell’Anp, Abu Mazen e il massimo dirigente di Hamas in esilio, Khaled Meshaal, firmeranno mercoledì prossimo al Cairo, nella sede della Lega Araba, l’accordo di riconciliazione tra le fazioni palestinesi: lo hanno reso noto ieri fonti del partito moderato Al Fatah. Secondo quanto pubblica il quotidiano britannico The Guardian, citando il contenuto degli accordi, Hamas esige l’allontanamento dell’attuale premier palestinese Salam Fayyad e vuole mantenere il controllo della Striscia di Gaza.
Il governo transitorio che dovrebbe nascere dopo la firma degli accordi – in attesa delle nuove elezioni presidenziali e legislative, entro i sei mesi successivi – non sarà però coinvolto nei negoziati di pace israelo-palestinesi, che verranno condotti dall’Olp, organizzazione di cui Hamas non fa parte. Il presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha dichiarato che l’esecutivo sarà composto da tecnici e non includerà alcun esponente di Hamas; nella Striscia di Gaza varrà inoltre inviata una missione egiziana per organizzare i servizi di sicurezza interni; per quel che riguarda la successione a Fayyad (considerato avverso ad Hamas, che per questo ne chiede le dimissioni) il favorito è Munib al Masri, imprenditore di origine statunitense rispettato da entrambe le fazioni. Israele ha accolto con costernazione l’accordo, chiedendo alla comunità internazionale di non trattare con alcun esecutivo che rappresenti anche Hamas; sull’effettivo contenuto dell’intesa non mancano peraltro i dubbi: come notano gli analisti, se questa permetterà ai palestinesi di parlare con una voce sola confermerà anche l’esistenza de facto di due territori separati.
cia caccia all’uomo. Nessun arresto è stato eseguito. 3) Scioperi, di durata variabile, nel settore petrolifero, che vanno dal grande impianto petrolchimico di Bandar Imam alla raffineria e ai giacimenti petroliferi di Abadan. 4) L’incessante distruzione dei vitali oleodotti del paese, che vanno dalle raffinerie meridionali al confine turco. Solo a sud di Tehran, appena fuori dalla città sacra di Qom, ci sono tre dei maggiori oleodotti, tutti fatti esplodere l’11 febbraio. Dopo un rattoppo superficiale, si è verificata un’altra esplosione l’8 aprile, che è stata etichettata come “attacco terroristico”(nessuno era pronto a credere alla favola sull’ennesima esplosione accidentale...).
In breve, i nostri due principali nemici in Medioriente, i due regimi che più di ogni altro sono impegnati ad assassinare gli americani e gli amici dell’America, sono nei guai. Il che non li ha costretti a moderare il loro comportamento né verso di noi né verso i nostri amici ed alleati. Al contrario piuttosto. Il segretario di Stato Hillary Clinton si è concessa un mite reclamo sul fatto che l’Iran si stia “intromettendo” nelle insurrezioni arabe, e non di rado uno dei nostri leader militari sul campo disturba i politici ricordando al mondo che l’Iran è ancora impegnato nell’operazione “Morte all’America”. Il dipartimento di Stato ha segnalato il sostegno iraniano ad Assad. Ultimamente abbiamo assistito all’atterraggio obbligato in Turchia di un paio di aerei iraniani nel giro di una settimana. Come ci si aspettava, stavano trasportando armi, bombe e munizioni verso la Siria. Allora, cosa fa il nostro governo di fronte alla splendida opportunità di portare avanti la causa di libertà, di dare un colpo al maggiore sostenitore mondiale del terrorismo, e forse anche di convincere gli adepti dell’Onda di tutto il mondo che il sostegno americano serve a qualcosa dopo tutto? Di fatto, dice all’opposizione siriana di andarsi a fare una passeggiata, visto che ha respinto la richiesta di una pressione diplomatica su Assad. Qualcuno riesce a individuare uno schema in tutto questo? Mubarak doveva andarsene. Gheddafi deve andarsene. Ma non ci sono pressioni diplomatiche su Assad, né parole dure per gli iraniani. In breve, non parla dei propri nemici e sparla dei propri amici (c’è un modo migliore per definire Gheddafi?), dei futuri amici o degli amici saltuari. È una politica estera estremamente masochista. Figlia di un presidente che vede l’America come la causa principale dei guai del mondo, ed è più preoccupato a punire la sua gente che a combattere i suoi nemici.
economia
pagina 8 • 30 aprile 2011
Subito smentite le “rivelazioni” di Bild sul sostegno della Merkel ROMA. Soltanto mercoledì scorso Steffan Seibert aveva usato toni meno diplomatici. E spiegato che «senza il supporto del governo tedesco nessuno diventerà il prossimo presidente della Bce». Ieri, dopo che la Bild ha annunciato l’endersoment di Angela Merkel su Mario Draghi, il suo portavoce ha ribadito che «non ci sono nuovi sviluppi rispetto a quanto detto due giorni fa».
Seppur flebile, un altro passo avanti nella conquista dell’italiano dell’Eurotower. Il governatore di Bankitalia si avvicina alla presidenza della Banca centrale europea, mentre la Merkel vede prossimo un baratro nel quale è già caduta troppe volte. Come accaduto sulla riforma della governance europea, dove si è trovata isolata nei suoi picchi di intransigenza, priva un candidato alternativo la cancellieria rischia di dover ingoiare il successore di Trichet, senza poter ottenere garanzie sull’unico organismo comunitario che è riuscito a fare da baluardo contro la crisi. La cancelleria di Berlino impone un riserbo che neppure il suo ministro delle Finanze rispetta. Ma gli altri Paesi europei si affrettano ad appoggiare Draghi. E mettono il cappello sulla nomina. Provano – per quanto lo statuto della Bce sia un muro insormontabile – persino a dettarne l’agenda: Sarkozy punta su un’italiano per avere più polso sul club Med dell’Europa, la Spagna auspica più comprensione; il Financial Times e la piazza anglossassone pretende più rigidità. Ma tutti questi Stati non hanno quel rapporto a doppio filo che lega la Locomotiva d’Europa e Bce. Steffan Seibert ieri ha ripetuto e scandito alla stampa che «la Germania ha un grande interesse ad avere
Tutti per Draghi. Ma Berlino frena La Germania chiede garanzie agli alleati e prende tempo sul successore di Trichet di Francesco Pacifico
una Germania, che ha come imperativi la bassa inflazione, il rigore dei conti pubblici inserito anche nella Costituzione e la spinta alle imprese esportatrici. E che nove volte su dieci nel Reno avviene attraverso incentivi alla ricerca, quindi alla com-
Il banchiere tedesco piace a Berlino per preparazione e rigore. Ma la cancelliera darà il suo via libera soltanto quando chiuderà i conti con la Francia sulla riforma della governance Ue una Bce ben gestita e una stabilità nella zona euro. Questi criteri saranno alla base di ogni decisione». L’ultimo anno ha dimostrato quanto le visioni di Angela e Merkel e Jean-Claude Trichet per uscire dalla crisi fossero distanti tra loro. Ma in tutti gli anni del suo mandato le scelte del francese hanno finito – come non poteva essere in un’Europa disegnata sulle fattezza tedesche – per venire incontro a
petitività dei prodotto, impossibili senza che la finanza pubblica in pareggio. Indipendentemente dai contrasti e dalle esigenze contingenti, la politica monetaria di Trichet non è mai andata contro questa direzione. Ma si sa, già da quest’anno la nuova governance comunitaria impone non pochi stravolgimenti nella definizione della politica economica dell’area. Un tempo il rigore era preservato da una diarchia
Un trentacinquenne alla testa dei giovani industriali
Morelli al posto della Guidi ROMA Jacopo Morelli è il nuovo presidente dei Giovani Imprenditori di Confindustria. Succede a Federica Guidi ed è stato eletto con 122 voti di preferenza, contro i 102 ottenuti dallo sfidante Davide Canavesio, confermando le indiscrezioni della vigilia.
Nel suo discorso d’insedimento ha detto di voler puntare soprattutto su «scuola, lavoro ed energia nucleare». Quindi ha spiegato che dobbiamo «metterci a lavorare e ne hanno un gran bisogno il Paese e i giovani. Ma se non si punta sui giovani si condanna automaticamente tutto il Paese alla morte». Da notare anche l’accenno alle polemiche con Cgil. «C’è da lavorare più che da litigare; noi siamo disponibili al dialogo se c’è un linguaggio civile, corretto e costruttivo».
Trentacinque anni, laureato in economia all’università di Firenze, Morelli è presidente di EmmeEmme Spa, azienda specializzata nella produzione e distribuzione di arredamento attraverso il marchio Mobilmarket. Durante il triennio della presidenza Guidi è stato uno dei vicepresidenti dell’imprenditrice.
Nei prossimi tre anni del suo mandato, sarà affiancato da quattro vicepresidenti: Giorgia Bucchioni (di La Spezia, con delega su education e lavoro), Marco Oriolo (di Milano, con delega su economia, finanza e internazionalizzazione d’impresa), Leonardo Licitra (di Ragusa, con delega su energia e ambiente), Simone Mariani (Ascoli Piceno, con delega su organizzazione, sviluppo del movimento e relazioni interne).
non ufficiale tra la Comissione che vigilava sul rispetto dei parametri di Maastricht e una Bce che frenava aspirazioni di spesa con la leva dei tassi. Oggi il pallino è nella mani dell’Ecofin. Che ha la possibilità di armonizzare le strategie dei dei diversi Paese, ponderare il rispetto dei vincoli di bilancio e graduare le politiche di rientro. E in questo consesso la Germania è in minoranza. Esponenti minoritari del sistema tedesco hanno ricordato che Mario Draghi ha fatto poco contro la crescita dell’inflazione in Italia. Le banche renane ne temono le riforme, soprattutto quelle per la patrimonializzazione, fatte in seno al Financial stability board. Ma non queste le considerazioni fatte dalla Merkel. La quale, dicono i beni informati, stima la serietà e la preparazione del banchiere italiano. Forse la pensa come deve la Bild , che ieri l’ha ritratto con l’elmo prussiano. Sicuramente sottoscriverebbe il giudizio di Handelsblatt, che ne ha plaudito la frequentazione a una scuola di gesuiti, l’amore per la montagna e la ritrosia alla mondanità. Da vero tedesco.
Il problema non sta nel curriculum del nostro più famoso civil servant. Angelo De Mattia, che in Bankitalia ha passato oltre vent’anni fino a diventarne vicedirettore, spiega che «la Germania da un lato è rimasta delusa perché le persone sulle quali aveva contato, in particolare Weber, non si sono rilevate affatto spendibili; dall’altro si sono mescolate a questa vicenda partite politiche come le elezioni regionali e i contrasti nella compagine governativa. Non dico che debba presentare candidati per ogni poltrona, ma le è funzionale quanto meno la posizione di king maker». Di conseguenza, e prima di aderire alla candidatura di Draghi, la Germania deve ritrovare la sua moral suasion sull’area. I tempi sono stretti, ma il vulnus potrebbe essere sanato da Berlino imponendo ai partner regole più ferree sul default pilotato della Grecia o sull’introduzione di politiche di maggiore rigore in Spagna. Nulla che dovrebbe ostacolare lo sbarco di Draghi. Chiamato, ricorda De Mattia, in una fase che segnerà «l’uscita dalla crisi, la fine delle operazioni non convenzionali. Draghi si muoverà nelle diverse situazioni rispettando appieno quell’autonomia tecnica garantita dallo Statuto della Bce».
30 aprile 2011 • pagina 9
1 maggio 2011 Karol Wojtyla beato
Ma ora non mettiamolo in un museo Sette testi d’autore: una sorta di promemoria amoroso. PerchÊ quello di domani non sia solo un rito, ma il rilancio di un pensiero ancora attualissimo per vivere in un mondo migliore
pagina 10 • 30 aprile 2011
Il suo pensiero è riuscito a dare al mondo una scossa sollecitandolo a risvegliarsi dal torpore etico. Il nostro compito, credenti e non, è di proseguire verso i traguardi da lui indicati
Libertà, Verità, Speranza Restare sulle sue orme di Ferdinando Adornato ra l’estate del 2001. liberal decise di dedicare il consueto numero monografico di fine luglio alla figura, al pensiero, al magistero di Giovanni Paolo II. Il fascicolo era aperto da una mia breve introduzione che definiva Karol Wojtyla: «L’unico (l’ultimo?) filosofo morale». Quel titolo e quella tesi, così come molti contributi proposti dal fascicolo, piacquero molto al Santo Padre. Me lo spiegò con la sua impareggiabile raffinatezza intellettuale Joacquim Navarro Valls, raccontandomi come il Papa avesse infine scherzosamente commentato: «Bravi, mi hanno capito almeno al 60 per cento!». Si può immaginare con quale felice soddisfazione io e tutti gli amici di liberal accogliemmo così importanti e appassionati attestati di stima. Anche perché la cosa non finì lì. Qualche mese dopo, assieme a mia moglie Maresa, venni ricevuto in udienza da Giovanni Paolo II, sostenuto dalla discreta quanto affettuosa presenza di Monsignor Stanislao Dziwisz. E, dopo aver partecipato alla Santa Messa celebrata dal papa nella sua cappella privata, ottenni quello che resta sicuramente l’omaggio più grande di tutta la mia attività intellettuale: la firma di Gio-
E
vanni Paolo II sulla copertina del numero di liberal a lui dedicato assieme ai rosari che volle regalare a me e a mia moglie. Ricordo oggi, con indicibile emozione quel momento che ho avuto il privilegio di vivere e le foto che lo testimoniano, pubblicate solo adesso in queste pagine, intendono estendere tale privilegio a tutti i lettori di liberal trasmettendo a tutti loro, nell’unico modo in cui ci è possibile, la benedizione che Giovanni Paolo II ha voluto riservare alla nostra rivista e al nostro lavoro. *****
Legata a quel momento ci fu un’altra circostanza, che rese più ricca la mia vita personale e quella di liberal. Navarro Valls volle che entrassi in contatto con Tadeusz Styczen, amico d’infanzia e di studi di Wojtyla e da sempre suo consigliere personale. Styczen, direttore della rivista polacca Ethos, decise di pubblicare alcuni dei saggi del fascicolo di liberal sulla sua rivista e mi invitò a tenere nell’Università di Lublino, una conferenza sul pensiero di Wojtyla. E così il 9 giugno del 2002, dopo aver visitato la magnifica Cracovia, la cui piazza del Mercato è il vero cuore dell’Europa, centro
geografico e insieme spirituale tra l’Est e l’Ovest, entrai nell’Università che era stata del Papa, per essere ascoltato da coloro che erano ancora i suoi più cari amici e seguaci. Fu per me davvero un grande onore. Se infatti poteva essere solo una speranza il fatto che il mio passaggio in quell’Università potesse meritare, un giorno, un piccolo posto nella memoria dei miei ospiti era in-
Ha rivolto la sua sfida non solo ai totalitarismi, ma anche alle democrazie
“
”
vece già una certezza il fatto che quell’incontro sarebbe rimasto per me un ricordo indelebile. Del resto non poteva esserci modo migliore per rendere indimenticabile il primo viaggio in Polonia della mia
vita che parlare a Lublino, centro vitale della storia d’Europa, simbolo eterno, come ha detto proprio Wojtyla, del rapporto tra Oriente e Occidente. ***** Il passato, che in quella città e in quella nazione ha impresso il suo segno sull’incedere di formidabili avvenimenti umani, sembra continuamente sorvegliare il presente. Incerto, come noi stessi siamo, se saremo capaci di imprimere sul futuro i segni della grandezza dell’uomo o se, invece, resteremo ancora prigionieri della mortale influenza di quel Disumano che ha trasformato il Novecento in uno dei secoli più bui della storia. È proprio questa la scommessa che sta davanti alla nuova Europa unita che, in così tanti, vogliamo oggi costruire e che si presenta all’orizzonte come l’unica chance di una definitiva uscita dal Ventesimo secolo. Ed è proprio intorno a questa scommessa che il pensiero di quel filosofo che si chiama Karol Wojtyla si è stagliato come un albero nel deserto. *****
Appunto: l’unico grande filosofo morale dei nostri tempi.
Wojtyla ha dato al mondo una vera e propria «scossa filosofica», sollecitandolo a svegliarsi dal torpore morale nel quale era caduto e del quale, in gran parte, è ancora prigioniero. La sua «eterodossa ortodossia», quella sua singolare capacità di sposare la tradizione (anche nelle sue più rigide disposizioni) e la modernità (anche nelle sue più inedite suggestioni) ha avuto il merito di reinserire prepotentemente nell’agenda dell’umanità le questioni prime e ultime dell’esistenza, cos’è la vita, cos’è l’uomo, da dove veniamo, perché esistiamo, cos’è il bene, cos’è il male. Sono questioni che il Ventesimo secolo aveva annichilito con la sua politica criminale e che le società del benessere stordiscono nella loro rutilante superficialità. Sono questioni, bisogna saperlo, che non abbandoneranno mai l’animo umano per il semplice motivo che esse appartengono al permanente mistero del nostro passaggio terreno. Non a caso esse sono da sempre oggetto d’attenzione delle più grandi menti dell’umanità, da Aristotele a Kant. Fino, appunto, all’avvento del Ventesimo secolo: quando dopo la lunga incubazione del positivismo razionalista e del pensiero negativo, la filosofia morale è stata
giovanni paolo II
30 aprile 2011 • pagina 11
In queste pagine, alcune immagini di Karol Wojtyla, dall’elezione a papa Giovanni Paolo II ai momenti più recenti della sua vita; il pontefice alla Camera dei deputati con Pier Ferdinando Casini; un’illustrazione di Immanuel Kant
di fatto bandita dal novero delle filosofie maggiori, considerata una sorta di scienza inutile, quasi essa avesse ormai a che fare esclusivamente con la vita teologica e mai più con la vita quotidiana. Il terreno era così pronto perché i totalitarismi annichilissero l’umanesimo cristiano e il pensiero liberale che erano il vero cemento dell’idea di Europa, colpendo dunque al cuore i valori fondativi dell’Occidente. Valori che si erano formati intorno a un concetto assai semplice e preciso: la centralità della persona nella storia. *****
Il Ventesimo secolo ha tradito questa identità europea. Il nazismo si presentava come il compimento della metafisica occidentale. Il comunismo sosteneva di essere l’erede della filosofia classica tedesca. Niente di più falso: entrambe le ideologie totalitarie hanno in realtà dilaniato le carni di quella centralità della persona che era l’autentico fondamento dell’idea di Occidente. Non le classi, non le razze, non lo Stato né la Scienza sono il motore e lo scopo delle Storia: ma l’uomo, l’individuo, la persona. Ebbene, non ci sarà alcuna nuova Europa, di più: non ci sarà alcuna Europa se sulle nostre terre, dall’Atlantico agli Urali, non tornerà a sventolare la bandiera della centralità della persona. Tutto il mondo domani sarà a Roma a celebrare la beatificazione di Wojtyla: ma chi si batte davvero per i traguardi da lui indicati? Quale fermento esiste nella politica, nelle Università, nei media intorno al grande orizzonte di ricostruzione della nostra più profonda identità? Spiace dirlo: ma nelle classi dirigenti prevalgono, per ora, pigrizia mentale, indifferenza, sottovalutazione, forse inconsapevole, della portata del problema. Qualcuno si è arreso allo strisciante dominio del nichilismo etico, vero figlio della maledizione lanciata dai totalitarismi sull’Occidente: se non avete creduto in noi, non crederete più in niente, perché in niente vale più la pena di credere. Quanti sono gli europei che ragionano così? Come se la morte delle ideologie dovesse automaticamente significare la morte delle idee, come se il fallimento delle verità totalitarie dovesse,
nello stesso tempo certificare, la morte della verità dell’uomo. ***** Il pensiero di Wojtyla si è inserito come un cuneo dentro questo sistema mentale, rovesciandolo. Come un raggio di luce o una goccia fresca in un mondo spesso opaco e spiritualmente arido ha testimoniato il bisogno insopprimibile, per l’uomo, di un orientamento morale. Ha fatto capire sia all’esoterismo teologico che al pragmatismo laico l’insopprimibile priorità di una riflessione sulle modalità e sulle finalità dell’agire umano, la drammatica attualità della «domanda di senso» che torna a elevarsi sia all’Est che all’Ovest, sia al Sud che al Nord del pianeta. Perciò l’abbiamo definito l’unico filosofo morale del nostro tempo. Il nostro compito dovrebbe ora essere, credenti e non credenti insieme, di fare in modo che egli non sia l’ultimo.
ma, idea del lavoro come la più alta forma di creatività umana da valorizzare in quanto tale, secondo quello che dovrebbe essere il modello delle economie libere, contro il cieco produttivismo e contro la diffusa mentalità consumista. In alternativa all’individualismo egoista ha rilanciato il valore delle comunità e innanzitutto, naturalmente, della comunità primaria: quella costituita dalla famiglia. Se l’Europa ha bisogno di due polmoni per respirare - Occidente e Oriente - anche la persona singola ha bisogno di due polmoni, di due icone, quella paterna e quella materna per poter crescere. Infine di fronte ai dilemmi posti dallo sviluppo scientifico, di fronte alle terribili scelte poste dalle biotecnologie, non si è stancato di richiamare noi tutti alla massima di Immanuel Kant: considerate l’uomo sempre come fine e mai come mezzo! *****
***** L’universalità del suo messaggio è resa ancora più evidente dalla circostanza che egli, pur avendo contribuito in prima persona al definitivo collasso
Ha rimesso al centro la dignità umana e valori come famiglia e lavoro
“
”
dell’ultimo mostro del Ventesimo secolo, il comunismo sovietico, non ha circoscritto il suo messaggio all’antagonismo contro le ideologie totalitarie. No, sin dall’inizio del suo Pontificato, Giovanni Paolo II ha rivolto la sua sfida anche nei confronti delle libere società occidentali. Ha invocato giustizia sociale e rispetto della dignità umana di fronte alle ancora troppo accentuate disuguaglianze economiche. Ha riproposto l’antichissima, ma nello stesso tempo modernissi-
Con questo umanesimo che è alla base delle nostre società libere e liberali e con le cause del nostro progressivo allontanamento da essa, noi tutti dobbiamo fare i conti, non certo solo i cristiani. Perché la cosa riguarda la sostanza e il senso, il presente e il futuro della nostra civiltà. Quanto questi argomenti siano cruciali, e purtroppo controversi, lo dimostra il tenace rifiuto opposto da molti leader europei all’idea di richiamare le comuni radici cristiane nella nuova Costituzione europea. Non si trattava e non si tratta di una disputa astratta: era ed è in gioco il giudizio di fondo sull’intera nostra civiltà europea. È stato del tutto insensato opporsi a far vivere nella Carta il riferimento alle tradizioni di quel cristianesimo e di quell’umanesimo laico che, insieme, hanno fondato la centralità della persona come «l’idea d’Europa». Nessuna Costituzione potrà mai essere sentita come propria dai popoli (e proprio questa sta accadendo!) se essa si limita a essere una pura operazione di ingegneria costituzionale, se non si fonda su una comune identità culturale e spirituale delle genti che la sottoscrivono. In altri termini: rifiutando quel richiamo in nome di un astratto laicismo non si è preso le distanze solo da una religione ma dal nucleo essenziale di valori che hanno generato le terre nelle
quali viviamo. Non ci sarà per l’Europa alcun futuro se essa non sarà in grado di ristabilire un circuito virtuoso con il suo passato, con la sua nascita spirituale. E ha fatto qualche impressione vedere alcuni dei leader europei, protagonisti di quel «gran rifiuto» partecipare ai funerali del Papa, senza il benché minimo soprassalto etico. ***** Un comportamento morale non può prescindere dal riferimento a ciò che l’uomo ha sempre chiamato «verità», non può stabilmente fondarsi sull’utilità o sulla necessità pratica. «Non abbiate paura» ci ha detto Papa Wojtyla. Abbiate, quindi, speranza. Ma è possibile sperare, si creda o non si creda, è possibile non aver paura se non si confida in qualcosa di senz’altro comune, se non si ha fiducia in una filosofia morale comune che ci dica cos’è il Bene e cos’è il Male? È questa la grande questione che il capo della Chiesa cattolica ha rivolto a tutti noi, al pensiero laico, all’intera umanità. Se, invece, a tutto ciò si rinuncia, se si fonda l’azione dell’uomo sull’utilità, sulla necessità, su meri dati di convenzione o di convenienza non si spalancano, di nuovo, le porte alla paura? La paura, infatti, non è alimentata dall’idea che non siano verità e giustizia ma utilità e forza i criteri ultimi dell’agire umano? Ma, infine, non è la paura la via che mina ogni disegno di civiltà e conduce alla discordia, all’odio, alla guerra, alla barbarie? ***** Ecco: accettare davvero la sfida lanciata al mondo da Wojtyla, accettare davvero di considerarlo “beato” significa per tutti, credenti e non credenti, porsi anche questa domanda: se pos-
sa esistere una vera libertà dell’uomo senza che essa riposi su un’altrettanto solida verità. Cosa sarebbe in effetti la libertà, se essa smarrisse la sua più intima facoltà che è quella di scegliere tra il Bene e il Male? *****
Scriveva il Cardinale JeanMarie Lustiger: «La nostra epoca è tentata di sostituire la forza delle leggi civili alla coscienza personale e alla responsabilità delle sue scelte. La coscienza e la libertà vengono allora ridotte alla legalità e alla politica. Era l’opinione dei Sofisti. Socrate è morto per averla respinta. Alcune epoche sono state ingenue nel voler misurare talvolta la legalità e la politica sulla sola regola della coscienza morale. La nostra epoca, operando una riduzione opposta, diventa cinica. È il trionfo di Machiavelli su scala planetaria». Io credo che in definitiva il compito dell’umanità, dei credenti e dei non credenti, sia quello di tornare a Socrate. E credo che Papa Wojtyla, oggi che il mondo lo consegna per sempre alla storia, chieda a tutti noi di saperlo fare. Un pensiero laico che tornasse agli interrogativi di Socrate sarebbe più fresco, non più ingenuo. Proprio come fu il messaggio di Giovanni Paolo II. Wojtyla ha posto a tutti noi gli interrogativi giusti. È stato ed è per tutti pungolo, sentinella, guida. Le risposte ora toccano a noi.
pagina 12 • 30 aprile 2011
giovanni paolo II
Diario inedito di un’amicizia passando tra Varsavia, Topolino e la Centesimus Annus di Michael Novak ell’autunno del 1991 mi trovavo in Italia per una conferenza su Economia e religione. L’incontro era fissato a Foligno, una bellissima cittadina umbra. La mattina dopo mi misi in macchina per Roma dove, come spesso facevo, avevo intenzione di passare la serata con l’ambasciatore americano presso la Santa Sede. A cena venni chiamato al telefono: lasciai il tavolo per scoprire che la chiamata veniva dal Vaticano. Ero stato invitato a cena dal Santo Padre per il giorno successivo. Sarei dovuto entrare dal Portone di bronzo al lato della basilica, dove una guardia svizzera mi avrebbe prelevato. Tornato a tavola scoprii che tutti erano eccitati per la chiamata; ma nessuno come me, anche se feci del mio meglio per sembrare comunque tranquillo.
N
Nel corso della salita di tre lunghe rampe di scale, accompagnato da una serissima guardia svizzera, sentivo le mie gambe affaticate: il mio alto e giovane accompagnatore non era neanche rosso in faccia. Venni introdotto in una sala d’attesa, dove incontrai l’allora monsignor Dziwicz. «Benvenuto, benvenuto - mi disse - conosciamo bene chi sono i nostri amici». Mi disse subito dopo che anche Rocco Buttiglione sarebbe stato fra gli ospiti, e che sarebbe arrivato entro poco. Più o meno nel 1985, Rocco mi aveva posto delle domande molto impegnative - in special modo riguardo il “bene comune” - nel corso della mia prima esperienza come professore associato su Capitalismo e Democrazia all’Università cattolica di Milano; nel corso degli anni, però, aveva letto qualcosa di più del mio lavoro arrivando ad estrapolarne alcune parti meglio di quanto avessi fatto io, per poi incardinarle nella sua propria visione. Più tardi divenimmo buoni amici, arrivando a progettare un programma estivo comune per far incontrare studenti americani e dell’Europa dell’Est e studiare insieme economia e capitalismo, preferibilmente in un Paese occidentale. Quindi mi fe-
Il primo emozionante incontro a cena. Poi le preghiere nella cappella privata, i cori di Natale, ma anche scherzi, sorrisi e battute ce molto piacere sapere che anche Rocco sarebbe stato tra gli ospiti. Alla fine arrivò, e poco dopo entrò silenziosamente anche il Papa: aveva il sorriso che era divenuto il suo marchio, leggermente ironico, e indossava una veste papale bianca. Si unì a noi anche un vescovo polacco che lavorava in Vaticano, con un inglese fluente: eravamo in cinque. Ero così emozionato che in un primo momento non riuscii quasi a dire una parola. Notai comunque che monsignor Dziwicz cercava di mantenere la conversazione leggera, istigando qualche scherzo fra Rocco e il Papa. All’epoca Rocco era professore presso due università romane, così come presso la Scuola internazionale di filosofia del Liechtenstein: ma il Papa lo aveva conosciuto bene a Cracovia, dove Rocco era andato per studiare i famosi studiosi polacchi di fenomenologia. In quell’occasione Rocco imparò il polacco e divenne un buon amico di Wojtyla, filosofo come lui. Quando il cardinal Wojtyla venne eletto Papa e prese il nome di Giovanni Paolo
II, invitò Rocco a tornare con lui in Italia per essere suo amico e intellettuale. Nell’autunno del 1978 l’elezione al soglio pontificio di un uomo che veniva dall’altro lato della Cortina di Ferro rappresentò una scelta sorprendente. I comunisti iniziarono subito a preparare dei piani per cercare di limitare l’influenza di papa Wojtyla, screditarlo e - se necessario- strapparlo dalla scacchiera della leadership politica europea. Avevano paura di lui, ma non abbastanza. Wojtyla era infatti molto più intelligente di quanto non lo fossero loro e non si muoveva quasi mai in ritardo: era sempre un passo avanti rispetto ai comunisti. Aveva per natura un cuore generoso, era un comunicatore eloquente e un attore che amava stare in mezzo alle folle, piccole o grandi che fossero. Sciatore, poeta e uomo molto coraggioso, eccitò l’immaginazione del mondo quasi subito. Era giovane, vitale, vigoroso e affascinante, oltre a possedere un grande talento per l’azione drammatica e una veloce ripresa.
Quando lo vidi per la prima volta a Washington D.C. - in occasione della sua prima visita papale alla Casa Bianca - ero in piedi accanto all’allora presidente Jimmy Carter: rimasi affascinato dalla sua naturalezza e tranquillità. Per dirla tutta, era un impacciato Carter che sembrava un pochino fuori posto. Poco dopo il Papa si affacciò dal balcone della casa sacerdotale della cattedrale di S. Matteo su Rhode Island Avenue. Mia moglie Karen aveva portato con noi mia madre (molto felice) e insieme ci ritrovammo proprio sotto di lui, sulla strada. Una folla felice ci avvolgeva riempiendo le strade, per poi iniziare a cantare: «John Paul II, we love You. John Paul II, we love You». Dopo un poco, il Papa alzò le braccia per chiedere una pausa. Ottenuta, sorrise e urlò al microfono: «John Paul II, I love You». Ridendo, applaudendo e anche un poco piangendo, la folla riprese a gridare. Ero felice di avere con me mia moglie e mia madre, che
giovanni paolo II
30 aprile 2011 • pagina 13
Da sinistra: Karol Wojtyla; il papa insieme con l’ex presidente della Polonia, Lech Walesa; Giovanni Paolo II mentre depone un mazzo di fiori in un ex campo di concentramento tedesco; il papa insieme con il cardinal Stefan Wyszinski
si godevano ogni momento di tutto questo. Qualche mese dopo il Papa tornò nel Nuovo Mondo, questa volta in Canada, per consacrare una basilica cattolica orientale nei pressi di Toronto. William Baroody, all’epoca presidente dell’American Enterprise Institute, era di rito maronita (una delle Chiese cattoliche orientali) e mi chiese di andare con lui per l’occasione. Il nostro ospite era Stephen Roman, l’immigrato slovacco che veniva chiamato «l’uomo più ricco del Canada». Steve aveva comprato a poco prezzo moltissima terra coltivabile a Ovest, per poi scoprire poco tempo dopo che proprio là sotto c’era il più grande deposito di uranio al mondo. Da quella scoperta, dicono i pettegolezzi, Steve iniziò a trattare soltanto con i capi di Stato. Steve Roman era di rito cattolico bizantino. Era tipico delle ambizioni di più larghe vedute di Giovanni Paolo II, sin dall’inizio, intraprendere un lungo viaggio sopra l’Oceano Atlantico per consacrare una piccola basilica cattolica orientale. Attraverso la storia - e a differenza di altre chiese di rito orientale, come gli ortodossi greci di Costantinopoli e quelli russi di Mosca - i bizantini, i maroniti e qualche altro rito hanno sempre mantenuto una lunga e profonda comunione con il vescovo di Roma. Per il Papa, un migliaio di anni di separazione fra Roma e Mosca-Costantinopoli era abbastanza. Voleva porre un termine a questa separazione prima che fosse troppo tardi. In questo, va detto, non riuscì del tutto: ma intraprese molte strade, fece molti tentativi e moltissime visite ai patriarchi orientali. Ho sempre immaginato un Wojtyla profondamente seccato che, dopo la morte, protesta con San Pietro per non aver ottenuto qualche altro anno per raggiungere la desiderata unità della Chiesa di Cristo. In occasione della visita canadese, con un fiero e freddo vento di Toronto che colpiva le nostre facce, questo vigoroso e giovane Papa raggiunse alla fine anche il nostro piccolo gruppo. Passò qualche minuto con Roman e Baroody e, poco dopo, mi guardò da vicino: sembrava cercare di ricordare qualcosa, mentre mi stringeva la mano. Leggermente più giovane di lui, avevo partecipato a due sessioni del Consiglio Vaticano II, nel corso del quale Wojtyla di Cracovia era emerso come una giovane stella per la sua leadership nella stesura del documento
(apparso nel 1965) sulla libertà religiosa. A dire il vero, il mio rapporto alla II Sessione sulla “Chiesa Aperta”divenne noto fra i vescovi di tutto il mondo. Un mio amico polacco mi assicurò che il Papa mi conosceva sin da allora. Inoltre, gli era arrivata una copia illegale della traduzione polacca del mio Lo spirito del capitalismo democratico in forma di samizdat, che all’epoca circolava nel Paese. Eppure avevo sempre la sensazione che fosse leggermente a disagio per il mio passato di sinistra: chiese ad alcuni suoi amici, che mi conoscevano bene, delle cose su di me. Uno di loro, di Philadelphia, mi raccomandò in maniera chiara e pulita.
Ed ecco che ero seduto a cena con l’uomo che aveva rapito la mia immaginazione sin dal giorno della sua elezione, e di cui avevo preso nota durante la sua ascesa nelle fasi finali del Concilio, quando agiva come portavoce privilegiato dei vescovi dell’Europa centrale. Mi entusiasmava il suo essere slavo, proprio come slava era stata la mia famiglia (di cui si possono ripercorrere le tracce sin dal 1200, in alcuni villaggi della parte orientale dei monti Tatra, che poi sono le Alpi slovacche). E, come si dice, la madre del Papa era slovacca. Una cosa è certa: sia la sua Polonia meridionale che la nostra Slovacchia settentrionale
vacco. Ma in realtà è polacco». Venendo da lui, lo presi come un grande complimento. Ma qualche tempo dopo gli scrissi una lettera: «Per il Magistero potrei essere polacco ma per famiglia, genetica e geografia io sono slovacco». Qualche settimana dopo misi le mani su una mappa, conservata nel castello dove i miei antenati avevano lavorato per secoli, che mostrava chiaramente come le undici contee settentrionali da cui proveniamo erano appartenute per tre secoli alla Polonia. E così fui costretto a scrivere di nuovo: «Ah, l’infallibilità! Voi avevate ragione ancora una volta, e io torto». Ma questo avvenne molti anni dopo. Ricordo dunque di aver parlato molto poco, a quella prima cena del 1991. Rocco e monsignor Dziwicz tenevano alta la conversazione. Molto dopo, a un’altra cena, il Papa mi chiese cosa raccomandassi per aiutare i milioni di poveri che aveva appena visto in America Latina. Non ricordo se fosse stato convinto dai miei tre punti, che erano: alzare il livello di educazione universale dal terzo (di media) al dodicesimo e concentrare l’insegnamento su iniziativa e impresa; cambiare la legge in modo da permettere la creazione di microimprese in maniera veloce, conveniente e facile; introdurre una nuova forma di piccole banche locali (come gli uffici di credito agricolo statunitense) specializ-
Tra i ricordi più vividi, la collaborazione alla “Centesimus Annus”, che in America ebbe un effetto enorme
“
erano abitate per diversi secoli da un popolo unico e montano, che per circa 300 anni fu il cuore di un’unica nazione polacca.
Su questo punto, alcuni anni dopo la cena di cui stiamo parlando, il Papa disse al suo grande biografo Gorge Weigel: «Michael Novak dice di essere slo-
”
zate in prestiti ai poveri contadini e in nuove forme di impresa. Ricordo che la cena mi piacque molto, proprio come quelle in casa di mia nonna. Un brodo di pollo caldo e, omaggio alla cucina italiana, un piccolo piatto di spaghetti al burro seguiti da maiale arrosto con patatine e cavoli. Per dessert c’era la frutta e il
Liberarsi di quel sistema degno di Topolino - disse riferendosi al comunismo non è stato un miracolo: era costruito per crollare
“
vino era un bianco locale, probabilmente Frascati, proveniente da Castel Gandolfo, il ritiro estivo del pontefice. Ricordo anche che dissi a me stesso che, se fossi mai stato invitato di nuovo, mi sarei presentato armato di scherzi e storie divertenti come quelle recitate da Rocco e da Dziwicz, che al Papa sembravano piacere molto. Per la maggior parte del tempo i suoi occhi blu sembravano come quelli di San Nicola. Ma quando mi congratulai con lui per la sua parte nell’inaspettato “miracolo”del crollo del Muro di Berlino e del collasso del comunismo, mi guardò con un certo fastidio. Mosse la mano come se la mia ignoranza fosse troppa per lui: «Liberarsi di quel sistema degno di Topolino non è stato un miracolo: era una questione di tempo. Era costruito per crollare». (Non ricordo veramente bene se il Papa usò proprio il termine “Topolino” - credo che a quel punto stessimo parlando in italiano - ma disse comunque una cosa molto simile). Dopo cena, subito prima di abbandonare la sala, il Papa prese per un momento la mia mano e mi fissò direttamente negli occhi: «Monsignor Dziwicz mi ha mostrato il suo articolo di questa settimana sul Tygodnik Powszechny [il settimanale cattolico di Cracovia]». L’argomento che avevo trattato in quel testo riguardava il significativo cambiamento nel pensiero del Papa dall’enciclica Laborem Exercens, in cui aveva scritto che il lavoro è superiore al capitale perché è sempre composto da persone, mentre il capitale è inferiore poiché sempre composto da cose. Nella sua enciclica del ’91, la Centesimus Annus, aveva scritto invece che le cause che creano il benessere di una nazione erano conoscenza, scienza e capacità pratica, che aveva unito e definito “capitale umano”. In ogni caso, dopo aver citato il mio articolo sul Tygodnik Powszechny, con un poco di accento nella voce mi dis-
”
se: «Avete capito il mio pensiero molto bene».
Risposi che mi ero attrezzato per fare uscire quell’articolo proprio in previsione del nostro incontro e lui, capito lo scherzo, sorrise. Sapeva bene che quando avevo scritto quell’articolo non avevo alcuna idea che sarei mai andato a cena dal Papa. Wow! Che serata entusiasmante. Potevo a malapena respirare, e mi sentivo come se potessi camminare sull’aria. Ringraziai molto Rocco (che mi stava accompagnando all’ambasciata in macchina prima di tornare a casa dall’altra parte di Roma) casomai avesse avuto qualcosa a che fare con quell’invito. Rocco mi mantenne nel dubbio. Non ha mai negato, ma non si è neanche mai assunto la paternità di quell’invito. A lui piace il pensiero di Machiavelli e il gioco delle tre sponde, come nel biliardo: soltanto dopo il terzo rimbalzo si può capire quale fosse lo scopo iniziale. In ogni caso devo aggiungere che, prima della cena con il Papa, un grande pensatore laico polacco si presentò nel mio ufficio di Washington. Mi disse che era sulla strada per un Centro di New York di cura contro il cancro, ma aggiunse che sentiva di volermi incontrare. Il suo nome era Miroslaw Dzielski, scrittore di Cracovia noto a molti come “l’Hayek polacco”. Mi disse di essere uno dei responsabili della traduzione de Lo spirito del capitalismo democratico, tradotto fra l’84 e l’85. Mi raccontò inoltre della lunga lotta nata sulla pubblicazione fra le quattro grandi“regioni”di Soldarnosc, il sindacato socialista del lavoro fondato da Lech Walesa. Alcuni dei membri non volevano pubblicare un testo che unisse alla parola democrazia il termine proibito: capitalismo. Altri pensavano che fosse troppo rischioso per il destino di Solidarnosc pubblicare un testo in un samizdat illegale ma con l’imprimatur del sindacato. segue a pagina14
pagina 14 • 30 aprile 2011
giovanni paolo II
da pagina13
I“sì”, mi disse, vinsero per un solo voto. Alcuni anni dopo, un più giovane Alexander Hale mi confermò la storia nel suo ufficio di ministro del governo Walesa: e ammise con orgoglio che aveva espresso lui quel voto che portò la delegazione “costiera” verso il sì. Non molte settimane dopo quel voto, un giovane polacco si materializzò all’improvviso alla mia porta presso l’American Enterprise Institute. Si guardava alle spalle, mentre parlava, ed esitava persino nell’entrare completamente dentro la stanza: tanto che lasciò la porta aperta. Chinò la testa con umiltà e mi disse che veniva da Solidarnosc per chiedermi il permesso di pubblicare la traduzione polacca de Lo Spirito. Sorrisi, ma gli dissi che avrei dovuto chiedere i diritti d’autore. Sbiancò in faccia e iniziò a dire che non era possibile, fino a che lo fermai per dirgli quali erano i diritti cui mi riferivo: «Una copia per il Papa e una copia per me». Iniziò a ridere e mi diede la mano: «La prima sarà facile; per la seconda ci vorrà un poco di più». Tempo dopo ho saputo da Vaclav Havel che lui e quattro o cinque amici si riunivano in una casa sulle montagne, lasciando Praga, per discutere all’incirca ogni mese del libro, letto capitolo per capitolo. Alcuni usavano la traduzione polacca, altri quella inglese. Ma non ho mai saputo se il Papa ottenne la sua copia.
L’uomo di preghiera. Quattro o cinque volte, ogni tanto con mia moglie a fianco, sono stato invitato a partecipare alla messa celebrata dal Papa nella sua piccolissima cappella privata. Riempita al massimo poteva contenere forse sedici persone. Entrando nella cappella qualche minuto prima della funzione si poteva trovare il Papa già in preghiera da molto tempo. Inginocchiato nel suo scranno, ispirava dentro di noi un senso di timore. Il Papa sembrava rapito in un mondo molto più profondo e molto più santo del nostro. Non voglio dire che sembrava devoto: sembrava invece trasportato fuori dalla sua stessa persona. Si poteva sentire nell’aria. Non ho mai più sentito una presenza del genere. Nel corso degli anni ho sentito parecchi cardinali diversi fra loro, e alcuni non della schiera dei suoi ammiratori, ammettere quanto fossero commossi dalla sua postura in preghiera. Il Papa non sembrava proprio far parte di questo mondo. Alcuni lo defini-
vano «il nostro mistico». Non lo dicevano con particolare rispetto, ma neanche con mancanza di rispetto: descrivevano ciò che vedevano. Quasi sempre, partecipando a quelle messe, monsignor (poi arcivescovo e poi cardinale) Dziwicz mi chiedeva di leggere le Scritture. Ricordo che cercavo di leggere in maniera lineare e quieta, mentre pregavo lo Spirito Santo affinché profondesse tutto il possibile nella potenza delle parole, non del lettore. Probabilmente mi auto-ingannavo, ma questo è quello per cui pregavo. Una persona normale si sentiva obbligata a diminuirsi in presenza di un Papa così profondamente immerso in Dio, come se soltanto lui e Dio fossero presenti. Una persona normale non voleva interrompere quel silenzio. In una di queste occasioni, la mia gentile e bellissima moglie Karen portava in braccio un bronzo rappresentante Cristo morente in croce. Lo aveva fatto lei, e voleva presentarlo a Giovanni Paolo II che aveva sempre amato a distanza. Vedendo questo pesante bronzo mentre uscivamo dalla messa, monsignor Dziwcz ci condusse dietro la linea che andava formandosi attorno al tavolo che si trova al centro dell’ampia stanza fuori dalla cappella.Tutti gli altri partecipanti vennero da lui incoraggiati ad andare prima di noi. «Così potrà avere più tempo con il Papa», sussurrò a Karen. Quando il Santo Padre arrivò a noi notò la bellezza e la gentilezza di Karen, e si mise a studiare il pesante bronzo che portava. Indicò immediatamente un punto, e lentamente disse: «Esattamente il momento della morte». Karen venne colpita dal fatto che il Papa avesse centrato il punto che lei cercava. Subito dopo lei rispose: Varcare la soglia della speranza, il titolo del suo libro più recente che lei aveva amato molto. Il Papa esplose in un sorriso di apprezzamento, e fu chiaro che lei aveva raggiunto il suo cuore. Molte occasioni dopo quella, ogni volta che il Papa individuava Karen in un gruppo - anche in quegli ultimi giorni quando la sua faccia era
divenuta una maschera, che la sua malattia rendeva incapace di controllare - la vista di Karen gli faceva spuntare un sorriso. L’ho visto accadere più di una occasione. Un’altra volta, ad esempio, il Papa concesse un’udienza privata a tutti i nostri alunni di Cracovia e del Liechtenstein che frequentavano l’Istituto estivo Tertio Millennio. Era il primo giorno del nuovo millennio, il primo gennaio del 2000. Eravamo circa un centinaio di noi, riuniti all’interno della meravigliosa Sala Clementina: affrescata in maniera meravigliosa, c’era un piccolo palco e la sedia papale una di fronte all’altro. Noi eravamo sistemati in semicerchio, felici e un po’in soggezione per gli affreschi
Quando pregava era come rapito. Non faceva parte di questo mondo
“
”
e gli ornamenti. Eravamo eccitati per l’attesa dell’ingresso del Papa, che aspettavamo a minuti sperando che si sarebbe fermato qualche momento. Avevamo preparato una sorpresa: dei canti di Natale in polacco per lui. Nel frattempo c’era molto di cui parlare, mentre aspettavamo. Karen e io ci spostammo alle spalle del gruppo, in modo da far stare davanti i giovani. Non lo sapevamo, ma la porta accanto a noi era una di quelle usate solitamente dal Papa al posto dell’ingresso principale. Karen lo vide per prima all’apertura della porta, a qualche passo di distanza da noi. Quando raggiunse l’apertura, la
prima faccia che il Papa riconobbe fu quella di Karen e, una volta ancora, la sua maschera di dolore si aprì in un caldo sorriso. Quindi arrivò davanti al gruppo, disse qualche parola gentile e il nostro capogruppo polacco, padre Mattias Zieba O.P. (che il Papa trattava quasi come un figlio) gli disse che avevamo una sorpresa per lui. Il nostro leader del coro si mise avanti al gruppo e tutti iniziammo a cantare i canti di Natale in polacco. Circa la metà dei presenti era polacca, e riuscì a condurre in porto la nostra carente conoscenza della lingua. Il Papa si unì ai canti, e sorrise con piacere. Disse parole di benvenuto e di gratitudine per tutto il tempo che spendavamo, ogni estate, sul suo pensiero sociale. «Vorrei che qualche vescovo impegnasse allo stesso modo il proprio tempo», scrisse una volta in una lettera a noi indirizzata. Quindi invitò tutti i presenti a presentarsi da solo per la benedizione. Scott e Erica Walter, che si erano sposati da poco, avanzarono nelle loro vesti matrimoniali tradizionali. Quindi Catherine e Michael Pakaluk, con il loro figlio piccolo in braccio e quello ancora più piccolo - di otto mesi che si nascondeva sotto il vestito pre-maman blu marine. Il Papa benedisse la coppia e il bambino in braccio; subito dopo, con un gran sorriso, benedisse anche il bimbo nel grembo della madre. Alcuni di noi sorridevano, altri piangevano. Il Papa rise con padre Mattias, e parlò prima con padre Richard John Neuhaus e poi con Gorge Weigel per qualche minuto; erano i nostri più importanti sostenitori, già molto ben conosciuti dal Papa. Che ci benedisse tutti. Fu un modo incredibile per iniziare il millennio! Inoltre, per caso, la prima pagina de L’Osservatore Romano di quel giorno aveva in copertina la fotografia della prima persona che aveva oltrepassato la porta giubilare di S. Pietro, dopo 25 anni di chiusura. E quel giovane uomo era un seminarista del Collegio nord-americano di Roma, e uno dei nostri studenti. La notte precedente, il Papa ci aveva in-
viato alcuni biglietti speciali per essere in piazza S. Pietro durante il concerto e la veglia in attesa del nuovo anno e del nuovo millennio. L’area notturna era frizzante: avevamo guidato per circa un’ora in allegria, dalla campagna vicino a Castel Gandolfo dove si trovava il campus dell’Università di Dallas di Roma in cui alloggiavamo. Ma grazie all’incredibile traffico di Roma, dove nessuno lascia l’altro passare e tutti siedono immobili a suonare il clacson, il nostro viaggio di ritorno a casa durò circa quattro ore. I nostri cuori esultavano.
Verso la Centesimus Annus. Tutto il mondo sapeva che nel 1991 ci sarebbe stata un’enciclica papale per commemorare il centesimo anniversario della famosa Rerum Novarum di Leone XIII. Ce n’era stata una per il quarantesimo anniversario (Pio XI) e una per l’ottantesimo (Paolo VI). All’American Enterprise Institute, sin dal 1981, avevo lanciato dei seminari mensili sulla questione per analizzarla, e non soltanto dal punto di vista religioso. Il tema prevedeva la risposta alla domanda: «Se vi venisse chiesto un consiglio, cosa vorreste che ci fosse nella prossima enciclica?». Fu una benedizione iniziare a parlarne così presto. Fra la fine del ’90 e l’inizio del ’91, lessi diversi articoli di prima pagina europei, basati su presunte interviste con chi era impegnato a scrivere le bozze del testo: questi articoli sostenevano come certezza che, con questa nuova Lettera, il Papa avrebbe preso il proprio posto come il vero leader della sinistra social-democratica, a fianco di persone come Willy Brandt, Francois Mitterand e Neil Kinnock. Questo testo avrebbe sepolto per sempre termini come “capitalismo” e “liberi mercati”. Nell’Europa social-democratica, questi due termini erano poco meno di un obbrobrio. Alcuni giornali sostenevano che ci fossero almeno due, se non tre gruppi al lavoro: tutti nella stessa direzione. Un monsignore americano, che sosteneva di aver visitato Roma e di aver letto le bozze, disse a una conferenza alla Notre Dame (con me presente) che «le persone come Novak» sarebbero state messe in ginocchio. Ma c’era un altro dramma in corso, di cui i giornalisti impegnati nello svelare le bozze non erano consapevoli. Nel 1987 il Papa aveva pubblicato la sua seconda enciclica su questioni sociali, la Sollicitudo Rei Socialis.
30 aprile 2011 • pagina 15
In queste pagine, altre significative immagini di Karol Wojtyla, da prima che fosse eletto papa Giovanni Paolo II, quand’era ancora cardinale, a dopo l’elezione a pontefice, che avvenne il 22 ottobre del 1978
L’Associated Press aveva annunciato questo nuovo testo, e nell’articolo si sosteneva che il tema principale di questa nuova enciclica sarebbe stato l’equivalenza morale dei due nuovi sistemi che minacciavano l’Europa, il blocco comunista orientale e il capitalismo occidentale. Questo articolo mi fece male al cuore, tanto che riuscii a stento ad aspettare il testo originale. In effetti, c’era un passaggio nell’enciclica che avrebbe potuto giustificare quell’articolo: «Ognuno dei due blocchi nasconde dentro di sé, a suo modo, la tendenza all’imperialismo, come si dice comunemente, o a forme di neo-colonialismo: tentazione facile, nella quale non di rado si cade, come insegna la storia anche recente». E ancora: «La dottrina sociale della Chiesa non è una “terza via”tra capitalismo liberista e collettivismo marxista, e neppure una possibile alternativa per altre soluzioni meno radicalmente contrapposte: essa costituisce una categoria a sé». Eppure era impossibile credere che questo Papa proveniente da Cracovia, che aveva sofferto duramente sotto l’oppressione comunista, non vedesse alcuna differenza fra Cracovia e, diciamo, Columbus (Ohio). E infatti, il complesso e ben costruito testo minava le interpretazioni prevalenti durante il primo momento.Tuttavia, ahimè, il brillante e generalmente corretto editorialista del New York Times William Safire si era attaccato alla prima interpretazione per accusare il Papa di una dottrina morale deprecabile, che di fatto equiparava la morale di Oriente ed Occidente. Lentamente mi misi a lavorare su un esame attento del testo, che dimostrò quanto questo Papa fosse andato avanti rispetto ai precedenti, lodando l’impresa e l’iniziativa economica come diritti fondamentali della persona. La lettera, inoltre, andava decisamente nella direzione di quel capitalismo che gli americani avevano sperimentato, dalle piccole cittadine sul mare alle grandi metropoli in espansione. L’enciclica sviluppava anche argomenti contro sofisticati molte delle argomentazioni comuniste (ben conosciute a questo Papa) contrarie alla democrazie e quelle società civili non controllate
dallo Stato che sono il suo sangue vitale. Il Papa affrontava il caso pezzo per pezzo, scrivendo nei fatti un manifesto a favore della società liberale articolata contro l’alternativa totalitarista. Lo stile, purtroppo, era italianizzato: mancava la chiarezza brutale dell’inglese. Ma anche così, il significato non era travisabile. Più o meno in quel periodo, il primo presidente Bush aveva messo in programma un viaggio a Roma, una visita al Vaticano e un’udienza con il Papa. All’epoca non lo sapevo, ma il Segretario di Stato James Baker aveva chiesto all’ambasciatore americano presso la Santa Sede un’interpretazione credibile dell’enciclica, con cui il presidente si sarebbe informato con accuratezza. L’ambasciatore passò la questione al cardinale Ratzinger, all’epoca prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (il “Sant’Uffizio”) e, dopo qualche riflessione, il cardinale raccomandò il mio articolo al presidente. In ogni caso era ovvio che, nel ’91, il Papa fosse scontento da questa scorretta interpretazione (specialmente in America) di un testo che a ragione considerava dovesse invece essere apprezzato. Coloro che conoscevano il Papa di persona,
come Edward Piszek di Valley Forge e il suo vicino e amico James Michener (autore di molti racconti di successo fra cui Polonia, sulla storia di quella nazione da cui questo Papa veniva), conoscevano bene l’amore profondo del Papa per l’America e tutto quello che questo significava per la Polonia. Il Papa era anche dispiaciuto del facile anti-americanismo espresso così comunemente in alcuni organismi delVaticano, che spesso si presentava sotto la pressione della “correttezza politica” europea. Quindi, nel ’91 il Papa decise di prendere sotto la propria cura personale una revisione finale delle bozze che gli erano state mandate, di cui era chiaramente non contento. Mandò inoltre un emissario in America per approfondire i punti principali della bozza finale con un numero di pensatori cattolici che avessero un legame con l’opinione intellettuale degli Stati Uniti. Per questo compito c’era un gran numero di sacerdoti e laici di Roma, che conoscevano bene il lavoro delle Commissioni e capivano dove e perché il Papa non fosse contento. L’emissario venne istruito: la bozza finale (segreta) non doveva essere mostrata; i punti controversi dovevano essere discussi a voce. Non so quanta altra gente sia stata consultata, ma io ebbi due lunghe conversazioni con questa persona. Dopo averlo ascoltato con molta attenzione, senza mai interromperlo, dissi a quell’uomo che essenzialmente il testo mi piaceva molto - era un gran passo avanti rispetto a qualun-
que altra cosa mai fatta in passato - ma aggiunsi che ritenevo almeno tre punti problematici, in grado di creare un grosso problema in America. Li menzionai brevemente, e sempre brevemente li esposi. Erano quelli che, secondo me, il Papa voleva chiarire qualche tempo prima
Alcuni cardinali lo definivano «il nostro mistico». E lo era davvero
“
”
ma che, usciti in maniera ambivalente, avevano ottenuto un altro risultato. La persona che chiedeva la mia opinione era eccezionale; non ci fu bisogno di carta o penna.
Mi limitai a tre punti che ritenevo cruciali. Nel 1991, il Papa sovrintese inoltre a che la prima distribuzione della bozza finale fosse gestita con molta più attenzione. Qualcuno vicino a lui ordinò che il documento mi venisse inviato da tre fonti differenti due giorni prima della pubblicazione. Il mio compito era quello di copiarlo e inviarlo immediatamente ad altri due autori laici e di fiducia, vicini al Papa quanto lo ero io. Pianificammo insieme la stesura di tre articoli da far pubblicare sui media americani non appena fosse caduto l’embargo sul testo. Il solo problema fu che due delle tre fonti non obbedirono agli ordini ricevuti. L’emissario mi chiamò al telefono per sapere se fossi contento, come lui sperava, dato che i tre punti erano stati tutti accolti nel testo finale. Gli dissi che il testo non era ancora arrivato; arrabbiato, ma calmo, mi disse di telefonare alla terza fonte. Chiesi a questa persona di leggermi i tre punti. Erano lì. Perfetto! Entro una o due
ore, avevo il testo in mano e lo avevo già inoltrato agli altri due. La mattina dopo avevamo sconfitto il mondo al gioco della stampa. Anni dopo, il vaticanista britannico di sinistra Peter Hebblethwaite (un tempo un gesuita) mi chiese durante una festa a Londra in che modo “quello”fosse avvenuto. Mi disse che era sicuro che la bozza finale fosse come lui la voleva: aveva visto due stesure che lo avevano emozionato, e non capiva come non fossero state prese in considerazione dal Papa. Sembrava avesse bevuto un po’ troppo, quindi fui più cauto di quanto di solito non ero: «Sono solo un americano. Non so molto di come queste cose funzionino in Vaticano». Fra me e me pensavo: «Credo di essermi divertito più io di te, nello scrivere la bozza finale». Ma mantenni la mia maschera di innocenza. La Centesimus Annus ebbe un effetto enorme in America e nel Terzo mondo, ma non fra i teologi della teoria marxista della liberazione. Un documento papale sulle questioni sociali contemporanee merita molte critiche ed esami. Ci sono diversi giudizi contingenti da dare, molti passi presi da testi biblici. Ma questi servono per aiutare la testimonianza del Vangelo, e per cercare in modo serio di interpretare il tempo presente in una luce evangelica. Persino i devoti cattolici di buona volontà potrebbero non essere d’accordo con il significato di parole chiave e l’interpretazione di eventi particolari. Eppure, la dozzina circa di importanti encicliche sociali che si sono succedute nell’ultimo secolo hanno provocato un’impressione sobria nella maggior parte di coloro che le hanno lette. Ad esempio, alcuni passaggi della lunga lista di ragioni sul perché il socialismo fallirà (contenuti nella Rerum Novarum) si leggono meglio oggi di quelle rosee speranze riposte nello stesso socialismo da alcune eminenze intellettuali dell’Occidente. Si leggono meglio, in retrospettiva, di quei peana vergati da persone come John Stuart Mill, Jean-Paul Sartre o Antonio Gramsci. Inoltre, tutti i Papi di molte decadi si sono erti a difesa del lavoro e della proprietà privata. E questo ha creato un grande accordo nelle sollevazioni politiche europee del secondo dopoguerra.
pagina 16 • 30 aprile 2011
ì, uno spettro si aggira per l’Europa: «Grande è il rischio di una progressiva e radicale paganizzazione del Continente». Questa «profonda crisi dell’identità culturale europea» consente di formulare l’ipotesi di una specie di «apostasia». Constatazione di tale portata non è stata fatta da qualche intellettuale di destra o di sinistra, sospetto di volersi fare un nome a spese delle più incontrovertibili credenze e insultando le più salde autorità: niente affatto, è la stessa Chiesa cattolica che sconsiglia di chiudere gli occhi e rifiuta l’ottimismo benpensante, è papa Giovanni Paolo II che medita sull’abbandono. Le certezze religiose di un tempo «sono state sostituite, in un alto numero di persone, da un sentimento religioso vago e poco impegnativo della vita, o ancora da diverse forme di agnosticismo e di ateismo pratico che sfociano tutte in una vita personale e sociale etsi deus non daretur, come se Dio non esistesse» (1).
S
Tutti i professori specializzati nella morte di Dio si ostinano a ricercare «colui che ha preso il posto» del Signore. Come se il posto fosse immutabile. Come se il Sostituito non potesse essere deposto che da un Sostituto. Fosse pure un nulla, subito divinizzato come il Nulla del nichilismo. La fama di Nietzsche non è forse un po’ dovuta all’estrema agilità dei suoi lavori di sostituzione? Non ha forse sperimentato successivamente qualsiasi supplente (ersatz) a portata di mano? Il Libero Spirito. Dioniso, Cesare, Napoleone, il Grande Stile. L’eterno ritorno. La volontà di potenza. Il superuomo. La bestia bionda. E per finire «io o il crocifisso». Tenendo conto delle trovate dei suoi epigoni, la serie può essere considerata infinita. Tanto da arrivare a credere che Dio non possa essere deposto che da uno Pseudo, ipotesi arbitraria sulla quale tuttavia si accordano atei militanti e credenti convinti. Dio o Satana. La Fede o la Ragione. La Scienza o la Superstizione. L’Estetica o l’Etica. L’Umano o il Superumano. La Terra o il Cielo. Simile scontro manicheo fece la gioia dei predicatori e dei pensatori del Diciannovesimo secolo. Niente in queste battaglie di giganti condotte da potenze apocalittiche, reciprocamente esclusive, corrisponde al quasi impalpabile smottamento dei costumi europei dell’inizio del Terzo millennio. Davanti ai nostri occhi non si svolge nessuna guerra tra credere e sapere. Il dispendio di energia è lo stesso da entambe le parti. Il disimpegno è generale: paralizza qualsiasi campo e riguarda la stessa posta in gioco. Non è Dio che si tratta qui di sostituire, è il suo stesso posto che non si trova più. Il Diciannovesimo secolo dibatteva sul punto di riferimento che avrebbe dovuto strutturare la civiltà; la società avrebbe gravitato attorno al sole della Ragione o avrebbe conservato quello della Fede? Ormai, lo stes-
L’inutile, disperata ricerca dell’Europa di un sostituto di Dio
Il XX secolo ha consegnato ai demoni il Vecchio continente. Così le certezze religiose sono state rimpiazzate da forme di ateismo di André Glucksmann so principio di un punto di riferimento centrale è rimesso in causa. Ragione e fede sembrano simultaneamente deposte. Prima a misurare la novità della sfida, la fede scopre che la ragione, che a lungo considerò sua più intima nemica, subisce una sorte altrettanto poco invidiabile della sua: «La ragione e la fede si sono entrambe impoverite». Questa comunanza di destino diviene l’indice di una solidarietà intrinseca. «È illusorio pensare che la fede, di fronte a una ragione debole, possa avere una forza più grande, al contrario...». Pochissimi sono stati quelli che misurarono l’estrema originalità dell’enciclica Fides et Ratio (settembre 1998). Mai la Santa Sede aveva, con tanta chiarezza, dichiarato che non esiste una filosofia ufficiale della Chiesa cattolica (prendendo le distanze dall’enciclica Aeterni Patris di Leone XIII che lanciò il neotomismo). E mai era stato precisato che il dialogo diretto fra le religioni presuppone la mediazione della ragione, eletta intermediaria obbligata tra le confessioni (il Vaticano II propendeva
piuttosto per il contrario). Mai infine il lavoro della ragione e l’impresa filosofica furono tanto vigorosamente emancipate. Non si parla più ormai di attribuire un posto di serva (ancilla theologiae) alla filosofia. I lumi della filosofia precedono quelli della rivelazione, dice l’enciclica. Storicamente, né Socrate, né Platone, né Aristotele furono «precristiani». Pedagogicamente, è raccomandato ai seminari di affrontare le questioni teologiche soltanto dopo seri studi di filosofia. Proponendo una tale «pace dei bravi» tra i due partiti che per secoli cercarono di distruggersi, papa Giovanni Paolo II ha raccolto una scarsa eco. Il suo aggiustamento concettuale contraddice troppo i pregiudizi dei suoi partigiani e quelli dei suoi avversari. Testimonia comunque l’impossibilità di riflettere sul destino religioso del Vecchio Continente nel quadro delle tradizionali rivalità, così comode, in fin dei conti. Che importa che ci si accanisca a divinizzare la ragione o il sentimento, visto che si tratta della capacità stessa di confrontarsi al divino? Che importa
chi si eleva in luogo e al posto del Dio tradizionale quando svaniscono tanto il luogo quanto il posto? Le diverse teorie che attribuiscono la nostra decristianizzazione a una improvvisa lucidità o a un aumento di razionalità mi sembrano anacronistiche e inadeguate. La vanitosa presunzione di un europeo diventato adulto, emancipato dalla magia grazie alla sua scienza, liberato dalle ideologie grazie alla sua prudenza, mi fa sinceramente ridere. Il Ventesimo secolo ha visto l’Europa consegnata ai demoni. Se tali cocenti esperienze hanno spezzato la nostra furia devastatrice, le credenze più barocche e le immaginazioni più fantasiose continuano a trovare adepti. Smettiamo di desiderare il professorucolo in disincantamento che nel cervello di ognuno di noi regolerebbere il traffico delle emozioni, pesando con cura il pro e il contro. Dio diserta l’Europa.Tutti lo sanno, tutti lo testimoniano. L’avvenimento lascia di stucco. Come? Perché? Fino a dove? Fino a quando? Una volta eliminate le risposte preconfezionate, vi pro-
pongo un indovinello. Qual è la differenza tra un barmaid di Berlino che crede di non credere più a un Dio cristiano e un Papa che vi si si richiama, con un fervore che un miscredente francese avrebbe un tempo definito tipicamente spagnolo o italiano? Entrambi si interrogano. Entrambi ammettono che sta avvenendo uno scollamento, che lascia poche possibilità al ritorno delle credulità o incredulità. Entrambi escono da una querelle (Kulturkampf) i cui furori affondano nella nostra società in ebollizione. Entrambi decretano che la grande guerra tra Dio e i suoi sostituti si conclude in parità e che non avrebbe dovuto esplodere. Rispetto alle forti convinzioni di cui l’Europa si è a lungo fatta forte, bisognerebbe concludere che ilVecchio Continente si deprime e cessa il combattimento per mancanza di combattenti. A una ragione debole, una fede parimenti debole non serve nemmeno da sponda, e viceversa.
La constatazione di momentanea depressione o di definitiva
30 aprile 2011 • pagina 17
astenia della cultura europea è tanto spesso declinata in altre sedi, e ancora più di frequente dagli stessi europei, che vorrete scusare l’autore di respingere un facile pessimismo. Esaminiamo piuttosto l’ipotesi contraria: qualcosa sta davvero accadendo in Europa. E non un nulla, fosse pure un nulla definitivo. L’estrema banalità delle esperienze che svelano il rapporto dell’europeo con i suoi dei merita una riflessione. Ciò che sembra scontato è proprio la cosa più difficile da pensare. Un nuovo consenso, ancora enigmatico, costringe i cuori più diversi e rinvigorisce atteggiamenti che si credevano fossilizzati.Tra le passioni di ieri, che non le convengono più, e le promesse delle aurore future, che le appaiono sempre più incerte, l’Europa ondeggia. Ma questo stesso ondeggiamento, generale da Oriente a Occidente, condiviso da Nord a Sud, costituisce un avvenimento di prima importanza. Né il Rinascimento né l’Illuminismo erano stati in grado di aprire un mercato comune tanto grande e transcontinentale dei pensieri e delle delusioni, dei sentimenti e dei costumi. Dall’Atlantico agli Urali, i modi di vita divergono, le economie si contraddicono, ma per la prima volta le questioni fondamentali che l’uomo comune si pone sulla vita, la morte, il cielo e la terra si rivelano le stesse. Saltano le antiche barriere. Le frontiere di sempre si trovano annientate. Anche se le ultime risposte rimangono oscure, come in attesa, l’evidenza di questa sospensione, la sua quasi unanime percezione, indiscutibile e silenziosa, costituisce l’eccezione culturale e religiosa europea. E meraviglia, giustamente, l’osservatore, e lascia a bocca aperta il resto dell’universo. Inutile moltiplicare i riferimenti e le citazioni per ricordare quanto, fin dall’antichità, il leitmotiv della morte di Dio rivesta molteplici aspetti.
Quando nel 1925 Miguel de Unanumo consacra un libro all’Agonia del cristianesimo, si ri-
Un ricordo personale del 1999 del grande poeta scomparso
La “nostra”Via Crucis di Mario Luzi Di seguito, un ricordo personale di Mario Luzi su Giovanni Paolo II pubblicato da liberal nel 2001. u Giovanni Paolo II avevo già un’idea preliminare, un vago preconcetto quando, da poco eletto, emanò la sua prima enciclica. Aveva come tema il lavoro e rivelava una tale attenzione alla realtà fisica e psichica della fatica dell’uomo al presente e una tale conoscenza delle frustrazioni del lavoro moderno, da indurre a pensare che quelle riflessioni non nascessero tanto ex-cathedra, quanto fossero maturate dall’esperienza. C’era in esse una precisione e una concretezza sorprendenti insieme all’intuizione poi, si sentiva, a lungo meditata sulle trasformazioni e i mutamenti in corso nel sistema. Mi toccò in particolare ciò che in quelle pagine era detto del rapporto tra il lavoratore e le cose che produce, non richieste per lo più da bisogno primario e autentico ma dall’astratta necessità della produzione stessa: cose dunque estranee, spesso inutili. Una reificazione minacciosa. Quando qualche anno più tardi venne a Firenze, in una breve allocuzione di saluto che la città mi aveva benevolmente affidato, glielo ricordai e mi parve ne fosse contento. Ma nel frattempo si era, con una forte chiarezza, manifestato l’altro aspetto della sua missione pontificale: quello apostolico, che poi ha finito per prevalere. È infatti a tal punto visibile e glorioso, che nessuno, neppure di altra famiglia o opinione, lo discute. Suscita ammirazione e commozione vedere con quale ostinata volontà, quasi rispondesse a una sovrumana imposizione, egli adempie il compito, contro ogni avversità e impedimento del corpo e delle circostanze. Tuttavia questo impegno sacrificale e profetico non oscura nel mio giudizio la facies dell’intelligenza concreta delle cose, dell’esperienza. Quel suo scendere nel vivo del fenomeno e del problema mi pare ammirevole. Ne ebbi un’altra prova evidente nel suo messaggio agli artisti, nel quale la riflessione sulla teologia e la teleologia dell’arte partiva, era chiaro, da una cognizione effettiva di causa. Lo scrittore, l’artigiano e l’artista potevano ascoltare un discorso che non passava sopra la loro testa. Se quello poteva apparire il beneficio di una comprensione privilegiata, sono innumerevoli i casi di
S
incontro vero e proprio, di consonanza con gli uomini del lavoro, dello studio, della ricerca - voglio dire con le loro angustie e pene, con la loro fatica e le loro difficoltà non meno che con le loro soddisfazioni. Questa umana inerenza nel mondo degli uomini, e finanche nello specifico della loro situazione particolare, persuade, rende attendibile la sua parola anche a coloro che si professano estranei al suo Magistero.Alcuni che invece lo accettano come principio e come dogma, serbano qualche dubbio sull’ardimento della sua speculazione. Preferisco non entrare in questo argomento per il quale non mi ritengo preparato; se mai mi permetto di avanzare il sospetto che anche quella critica non sia adeguata e cioè giudichi con strumenti e criteri impropri la teologia missionaria e profetica di questo pontificato, l’antico, il perenne, l’attuale che è in questa interpretazione del cristianesimo apostolico. Ho avuto l’opportunità di presentargli in omaggio una edizione di Giobbe che avevo commentato.
Sebbene fosse vistosamente sofferente, il colloquio su Giobbe lo rianimò e mi stupii della puntualità delle sue osservazioni che sembravano nascere da una lettura appena fatta o da una frequentazione assidua di quel libro biblico. Quanto alla Via Crucis che venni prescelto a comporre per il suo pellegrinaggio al Colosseo nel Venerdì santo dell’anno pregiubilare, i motivi di meraviglia furono più di uno: intanto il primo, che proprio a me fosse proposto un tema così alto, tragico e sublime. Il secondo che, una volta eseguita, l’opera, pur insolita rispetto alla liturgia tradizionale, fosse accolta con tanta liberalità e non mi venisse mossa alcuna obiezione. Il terzo motivo di meraviglia fu la tenacia con la quale Giovanni Paolo II volle seguire il percorso portando per lunghi tratti la croce, sostando alle stazioni e ascoltando la lettura con enorme, visibile sofferenza. Incarnava allora, al più alto grado, la testimonianza cristiana. Ma l’uomo rimaneva affabile; così lo vidi quando alcune settimane dopo volle ricevermi. Si toccarono in quella mezz’ora o poco più numerosi spunti e motivi del nostro presente. Mi venne da pensare che l’unica coscienza all’altezza dei mutamenti e delle nuove situazioni planetarie era al momento la sua. Non ce n’erano altre nel mondo contemporaneo. Non aveva un carisma appariscente ma aveva una motivazione dall’alto, precisa, quella modesta persona di lavoratore polacco.
chiama a Pascal: «Gesù sarà in agonia fino alla fine del mondo: non si deve dormire per tutto questo tempo». A prima vista, invece di proclamare l’estinzione celeste, un titolo come questo ne proclama l’assunzione. Le armoniche ambigue e contradditorie del termine «agonia» diventano subito le più importanti: si indovinano in Pascal, esplodono in Unanumo. Il quale rimpiange di non poter seguire Chateaubriand, che redime il suo ateo e devastatore Genio del cristianesimo (1802). Cento anni dopo, le carte sono state ridistribuite, si combatte sugli opposti fronti. Napoleone prevedeva che un secolo dopo di lui l’Europa sarebbe stata cosacca o repubblicana. Unanumo gli rimprovera di non aver previsto che «i cosacchi sarebbero diventati repubblicani e i repubblicani cosacchi, l’ultramontanismo rivoluzionario e la rivoluzione ultramontana». E mentre la ragione andava manifestandosi sempre più fideista e superstiziosa della fede - Oh la locomotiva marxista della storia! - la fede, qui e là, si andava instaurando come la ragione suprema che divora i suoi stessi figli. I buoni pensieri del Diciannovesimo secolo non avevano immaginato «né il bolscevismo, né il fascismo», sottolinea, molto precocemente, Unamuno, che, soffocato dall’angoscia, identifica caduta (o declino) dell’Occidente e agonia del cristianesimo. Nell’orizzonte complesso, ma sempre più presente e impegnativo, di una enigmatica «morte di Dio», l’europeo cerca da lungo tempo di decifrare un destino. Il suo.Tenta di aggiornarsi teologicamente, e dunque culturalmente, politicamente, intimamente, confrontandosi al doppio infinito di un passato mai totalmente passato e un futuro incerto, rischioso, tutto da scommettere. Paradossalmente, la cronaca dei giornalisti americani (2) non racconta la fine di un’esperienza religiosa, catalogata, classificata. Descrive piuttosto l’esperienza di una fine, un modo di imparare a morire e di organizzare un’agonia che sia allo stesso tempo lotta e giudizio finale. Gli antichi, primo fra tutti Cicerone, giustificavano l’esistenza di un Dio ex consensus gentium. Tutti i popoli adorano un qualche Essere supremo, prova che Egli esiste. Il nuovo consenso insinua al contrario che si potrebbe vivere come se, o persino se, Dio non esistesse. Questa convinzione storicamente singolare, ma tanto condivisa, è forse meno straordinaria della precedente? L’esperienza della morte di Dio non si rivela a sua volta religiosa, visto che crea allo stesso tempo legame e distanza, unendo gli europei in un’avventura a lungo corso a nessun’altra simile? (Tratto da: André Glucksmann, La troisième mort de Dieu, NiL editions, Paris, 2000). Note 1) Giovanni Paolo II, discorso al Simposio presinodale del 14 gennaio 1999; 2) Newsweek, 12 luglio 1999,“Is God dead? I western Europe it sure can look that way”.
La Terza Via Né «modernità borghese», né solo «giudeo-cristianesimo»: oggi la Chiesa può ancora proporre qualcosa di nuovo. Nel segno di Giovanni Paolo II di Ernst Nolte on può sussistere alcun dubbio circa il fatto che Karol Wojtyla, il primo non italiano sul soglio pontificio da più di 400 anni, abbia portato nella massima carica della Chiesa cattolica, e lì mantenuto, non poco della sua coscienza nazionale polacca. Ecco che cosa disse, giovane vescovo di Cracovia, in una predica: «La storia e la cultura della Polonia sono il risultato del cristianesimo. A esso dobbiamo il fatto di possedere il nostro carattere nazionale, la nostra letteratura e la nostra tradizione. Conservando tutto questo, custodiamo la nostra identità nazionale». Come Papa, egli non esitò nel 1985, nella Lettera Slavorum Apostoli, in occasione della ricorrenza dei 1100 anni dell’operato degli «apostoli degli slavi» Cirillo e Metodio, a fare una considerazione personale, scrivendo che tutti potevano comprendere con quale gioia il primo figlio di origine slava - chiamato a occupare dopo quasi 2000 anni la sede vescovile di San Pietro - celebrava questo giubileo. In tal modo, egli in fondo si inserì nella tradizione di quella istituzione che è la sola in Europa a conservare una vivente coscienza storica, che risale a molte centinaia d’anni, per cui ad esempio essa può celebrare l’anniversario dei 1600 anni del primo Concilio di Costantinopoli. Fu dunque naturale per il papa Giovanni Paolo II parlare dell’imminente «Terzo millennio dell’era cristiana» e in un’epoca di autocritica dell’Europa, e, apertamente e con accento positivo, ricordare la «comune cultura e storia millenaria delle nazioni europee strettamente legate l’una all’altra». Anche quando egli rinfacciò ai regimi comunisti di aver tentato, dopo il 1945, di «cancellare la memoria storica e la radice secolare delle culture dei Paesi dell’Est euro-
N
peo», nondimeno la sua visione fu così poco eurocentrica allo stesso modo in cui il suo patriottismo polacco non fu nazionalistico. In uno dei suoi viaggi in Africa egli poté di fronte a un grande pubblico, in Gabon, fare questa straordinaria affermazione: «Siate fieri di essere gabonesi». Si potrebbe dunque affermare che l’«Europa di Karol Wojtyla» era l’«Europa cristiana», anzi addirittura l’Europa latino-cattolica, che si attribuisce una missione universale, e da qui facilmente spiegare l’incisiva critica a certi fenomeni europei come aborto, assolutizzazione dell’economia ed eccessivo razionalismo, che hanno fatto sorgere per questo Papa, in ambienti progressisti, la fama di «conservatore».
Per quanto paradossale essa sembri, è nondimeno giustificata la domanda se, anziché dell’«Europa di Wojtyla», si debba parlare più esattamente del «Wojtyla dell’Europa», e cioè del Papa, che nella successione del Concilio Vaticano, si dedicò al riequilibrio fra la Chiesa e l’Europa moderna ovvero il mondo moderno, e dunque alla eliminazione di aspre divisioni. Questa domanda rende necessaria un’analisi storica retrospettiva. L’Europa fu cattolica fino alla Riforma, e fino ad allora vi fu addirittura la Chiesa latina d’Occidente e la Chiesa orientale greco-bizantina-ortodossa. «Cristiana» si poteva definire l’Europa quando le potenze vincitrici con lo zar di Russia, nel vertice dopo la sconfitta di Napoleone, nel loro accordo invocarono la «Santa Trinità». Se alla fine del Diciannovesimo secolo, termini come «Stati culturali» o anche «potenze imperialistiche» erano divenuti correnti, certamente un concetto come «concerto europeo» non era ancora scom-
parso dall’uso. Un più adeguato concetto è quello di «sistema liberale», e se non si assume in modo troppo ristretto il concetto di «borghese», cioè nel senso che esso si adatta solamente alla società «borghese» della monarchia francese di luglio, si può allora parlare di una «Europa borghese». Questa Europa sempre più «pluralistica», che si richiamava soprattutto all’«illuminismo», nel frattempo non si contrapponeva soltanto all’Europa cattolica del Medioevo, come spesso si pensava, ma si richiamava a quella separazione fra un potere «spirituale» e un potere «temporale» - fra papato e impero -, che implicava una frattura nella società, che le società unitariamente costituite, come quella islamica, nonostante tutti i loro conflitti interni, non conoscevano. La riforma approfondì questa frattura, tuttavia dall’Olanda e dall’Inghilterra prese le mosse quella tendenza al riequilibrio, che poi si chiamò illuminismo. La dura ostilità alla Chiesa di Voltaire e d’Holbach non ebbe l’ultima parola, e l’illuminismo favorì contro le sue stesse intenzioni il nazionalismo, mentre la Chiesa cattolica si trasformò da Chiesa di prelati a Chiesa di popolo. Questa «Europa borghese» può essere definita, in termini grossolanamente concisi, come la società sottoposta ai processi apparentemente opposti della pluralizzazione differenziante e di un riequilibrio livellante, cosicchè i nemici di ieri potevano divenire semplici avversari, mentre nascevano di continuo nuove opposizioni, anzi antagonismi. L’ultima grande spiegazione antagonista fu quella del marxismo ovvero del bolscevismo, e l’ultima grande tendenza al riequilibrio fu la collaborazione delle confessioni cristiane in passato mortalmente ostili l’una all’altra nei partiti cristiano-democratici del tempo
di guerra e del dopoguerra. Basta richiamare solo per un momento le dure dichiarazioni ostili dell’Enciclica di Pio IX Quanta cura e del relativo Syllabus errorum, per comprendere quanto Giovanni Paolo II potesse essere considerato, pur nella piena e chiara condanna del comunismo, come un protagonista delle tendenze verso un riequilibrio. Già del giovane Wojtyla venne raccontato come egli sottolineasse la fratellanza fra tutti gli uomini e in particolare la comune filiazione divina. Papa Pio IX avrebbe giudicato le grandi prediche del suo successore, che chiedevano in tutto il mondo, davanti a milioni di ascoltatori, il rispetto dei «diritti umani», non per ultimo il diritto alla libertà religiosa, manifestazioni di una deistica «religione naturale» secondo il modello di John Toland o di Immanuel Kant. I «fondamentalisti» cattolici intorno all’arcivescovo Lefebvre, già da subito mossero al Papa violenti rimproveri, giudicandolo addirittura un eretico, in quanto egli faceva almeno credere di attribuire alla dottrina del supplizio eterno solamente un significato simbolico quella dottrina cioè così provocatoria per la coscienza moderna, e che è il complemento della dottrina quasi altrettanto inconcepibile della libertà ed eternità dell’esistenza individuale.
Per quanto la dichiarazione di un non cristiano riportata in un libro su Wojtyla non sia probabilmente vera, tuttavia essa se non altro è stata ben trovata: ciò che l’arcivescovo di Cracovia disse al Concilio, si presenta bene, perché riecheggia «Socrate e Spinoza». Una delle possibilità di sviluppo per la Chiesa di Giovanni Paolo II dovrebbe dunque essere quella di corrispondere ampiamente alla linea di sviluppo dell’«Eu-
giovanni paolo II ropa borghese»: la Chiesa cattolica a distanza di quasi 500 anni recupera la nascita delle Chiese evangelicheprotestanti, le Chiese protestanti fanno incondizionatamente proprio il liberalismo, ma non il liberismo radicale, tutte le religioni del mondo si riuniscono, senza rinunciare alle loro individualità, in una religione dell’umanità, che certamente da parte sua affronta in modo ostile il più recente stadio di sviluppo del mondo tecnicoscientifico, e cioè quell’antiteismo che come suo fine superiore, spesso ancora inconfessato, progetta la totale trasformazione dell’uomo stesso. Tuttavia il passo più concreto verso il livellamento delle differenze finora presenti è difficile e più gravido di conseguenze e lascia intravedere un’altra tendenza di sviluppo. Si tratta del riequilibrio con l’ebraismo, che non è più o meno un’«altra religione» ma, in quanto deposito del giudaismo nell’Antico Testamento, l’origine stessa del cristianesimo. Dopo il 1945, come nessun altro fenomeno, l’ebraismo, nonostante la sua storia di quasi tre millenni, si è delineato come qualcosa di assolutamente nuovo, sconosciuto fino ad allora, e cioè come oggetto della distruzione di massa nazionalsocialista, dell’«olocausto» e dei suoi milioni di vittime.
In queste pagine, uno scatto del Concilio Vaticano II (in alto a sinistra); Giovanni Paolo II durante la visita al muro del pianto in Israele e durante alcuni significativi incontri con rappresentanti di altre confessioni
Già Pio XII aveva perseguito non certo un riequilibrio, ma comunque una riconciliazione con l’ebraismo, e dopo la sua morte, anche da parte di molti ebrei gli fu espressa una sconfinata gratitudine, perché attraverso le sue disposizioni molte potenziali vittime avevano trovato rifugio in conventi e altre istituzioni ecclesiastiche. Ciononostante, cinque anni più tardi, l’opera drammatica di un tedesco, Der Stellvertreter di Rolf Hochhuth, fece del «silenzio del Papa» il tema di una rappresentazione piena di indignazione, dura e che sfiorava il caricaturale. Essa rimproverava a Pio XII il fatto che egli non avesse pronunciato una «dichiarazione di guerra» contro il regime nazionalsocialista - così come aveva fatto Chaim Weizmann di fatto di fronte all’attacco di Hitler contro la Polonia nel nome dell’ebraismo -. La critica non fu accolta in questi duri termini dal Concilio, tuttavia nella dichiarazione Nostra aetate non fu negata una relazione con l’ostilità cristiana nei confronti degli ebrei, definita «antisemitismo», e la tendenza di fatto bimillenaria dei cristiani ad addossare la condanna a morte di Gesù di Nazareth «agli ebrei», a parlare addirittura di un «popolo deicida», venne condannata con parole inequivocabili. Cristiani ed ebrei venivano ora indicati come «figli di Abramo secondo la fede» e, in latino solenne, il Concilio condannava «le dichiarazioni di odio, le persecuzioni, le manifestazioni di antisemitismo, mostrate da alcuni uomini e in alcune epoche». Se indubbiamente non poco esso articolò nella resistenza contro questa dichia-
30 aprile 2011 • pagina 19
razione, che formalmente si occupava del rapporto fra la Chiesa e le altre religioni del mondo, pure né i moniti dei vescovi arabi né la dichiarazione del cardinal Ruffini di Palermo, per cui anche gli ebrei dovessero essere esortati ad amare i cristiani, incontrarono così tanta approvazione da mettere in pericolo l’uscita stessa della dichiarazione. Giovanni Paolo II proseguì la via intrapresa da Giovanni XXIII e da Paolo VI con maggiore coerenza e a tale riguardo non furono chiaramente senza importanza la vicinanza del suo luogo di nascita, Wadowice, con Auschwitz e le sue amicizie giovanili con compagni di scuola ebrei. Nella prima visita di un Papa in una sinagoga, il 13 aprile 1986 a Roma, Giovanni Paolo II chiamò gli ebrei «i nostri fratelli prediletti, anzi i nostri fratelli maggiori», e formulò, con un forte applauso della comunità, un inequivocabile rifiuto «dell’antisemitismo». Non molto tempo dopo egli rimarcò in modo esplicito la pesante colpa della Chiesa nei confronti degli ebrei. Nell’anno 1994 seguì il riconoscimento diplomatico dello Stato di Israele, richiesto da parte dell’«ebraismo mondiale» (come diceva l’autodesignazione) lungo differenti vie e insistentemente dal Papa. «Sembra proprio», disse Wojtyla all’amico ebreo di gioventù Jerzy Kluger, il quale aveva giocato un ruolo rilevante per il riconoscimento di Israele soprattutto dietro le quinte, «che la Chiesa sia corresponsabile del clima che alla fine ha portato al bagno di sangue dell’olocausto». Conseguentemente egli trasformò, nelle linee guida ufficiali del settembre 1997, la lotta all’antisemitismo e la comprensione del giudaismo in un elemento centrale dell’educazione cattolica. I problemi, che questa tendenza alla rigiudaizzazione del cristianesimo sollevava erano ancora più gravosi di quelli che erano stati provocati dalla tendenza verso la religione deistica dell’umanità. Chi, senza chiare differenziazioni, riunisce nel concetto «dell’antisemitismo» tutti i fenomeni di ostilità e di critica nei confronti degli ebrei, fa in linea di principio la stessa cosa che in sé racchiudeva il precedente rifiuto «degli ebrei»; disconoscendo il carattere «dialettico» nel rapporto fra la religione più giovane e quella più antica, egli è costretto a intendere come anticristiani tutti quei «passi ostili agli ebrei», che anche la filologia più critica non può far sparire dai Vangeli; egli deve avviare una «ripulitura» in grande stile degli scritti dei padri della Chiesa, dello stesso Paolo, e alla fine deve sottrarre l’«olocausto» da ogni riferimento storico. In tal modo egli, inevitabilmente, viene sospinto verso quella «religione dell’olocausto», che non a Dio crede, ma al manifestarsi del «male assoluto» sulla Terra, per cui conseguentemente rimane soltanto un’unica «colpa mortale», e cioè «l’antisemitismo». Il nuovo giudeo-cristianesimo, che potrebbe sorgere in conseguenza del Concilio Vaticano II e dell’attività di Giovanni Paolo II, sarebbe una genuina religione certamente simile a quella «kantiana» religione dell’umanità e per giunta ampia-
mente «europea» - vale a dire legata alla terra del tramonto e dell’inizio, come si potrebbe dire - anche se non è affatto certo che essa possa affermarsi contro i molti ostacoli che si oppongono al suo dominio, e cioè tanto il moderno scetticismo quanto il relativismo (o meglio: relazionismo) della interpretazione storiografica della storia.
Esiste una terza via, che la Chiesa cattolica può intraprendere, e proprio sotto il segno di Giovanni Paolo II - una via che non porta né a un incondizionato livellamento con la «modernità borghese» né al manifestarsi di un nuovo giudeo-cristianesimo, ma a una controposizione, che probabilmente significherebbe la perdita di tutto quello che Giovanni Paolo II mantenne o nuovamente consolidò: e cioè le possibilità mondiali di una influenza e di una stima estesa quasi ovunque. Individuare nelle encicliche e negli interventi di Giovanni Paolo II solo le tendenze verso la religione dell’umanità e verso il giudeo-cristianesimo, significa farne una lettura molto unilaterale. Il cristianesimo, fin dal suo inizio - diversamente dall’ebraismo e dall’Islam - è una religione dei misteri, la religione del mistero della Trinità divina e dell’incarnazione, dell’uomo-Dio, ma anche del peccato originale, che rende impossibile un regno terreno di Dio, e appunto per questo essa deve rappresentare tanto per gli ebrei come per i mussulmani, un «culto idolatrico». Le dottrine fondamentali e i dogmi di questa religione dei misteri o di questo «culto idolatrico», inclusa la convinzione del pieno possesso della verità da parte della Chiesa, nelle comunicazioni di Wojtyla divennero talvolta piuttosto marginali, ma comunque formulate con tale energia e intensità, che poteva apparire impossibile, a Giovanni Paolo II o a qualche altro Papa volersi o potersi mai sciogliere da quei vincoli, che a seconda del punto di vista si possono definire come «prigione» o come «illuminante verità». Nel frattempo dovrebbe essere del tutto sicuro che una Chiesa che non indietreggi di fronte a questa particolare via, non possa più essere una Chiesa di massa, quando essa non faccia fare un passo indietro al simbolico rispetto al reale (ad esempio la pena fisica eterna dei peccatori in un fuoco reale) e che il suo capo supremo non possa più essere nello stesso senso un «Papa dei viaggi e televisivo», come era Wojtyla, con un ammirevole senso di sacrificio di ogni personale comodità. Proprio la piccola Chiesa di questa «terza via» non rinnegherebbe o condannerebbe certo l’Europa moderna e «borghese», in quanto essa semplicemente vuole essere «qualcosa d’altro», ma dovrebbe formarsi un nuovo concetto di «modernità», anche se dovesse contare soltanto una quantità maggiore di uomini moderni fra i suoi fedeli. L’unico tentativo, che nel suo sguardo sul futuro può essere concesso allo storico, è quello di rendere verosimili le possibilità future a partire da uno sguardo sul passato. Egli non deve assumere decisioni, quest’ultime infatti riguardano ciascun uomo.
Il percorso iniziato con il Concilio Vaticano II continua a dare frutti
“
”
pagina 20 • 30 aprile 2011
Le vie d’uscita indicate dal Pontefice all’umanità dopo la caduta delle ideologie: solo il cuore dell’uomo può trasformare le strutture di potere
Operazione Ottantanove di Lorenzo Ornaghi
a cura per la posizione della Chiesa è il filo robusto che legarono tra loro i moltissimi interventi e documenti, le encicliche e le diverse allocuzioni di Giovanni Paolo II. Se anche si osserva con occhio laico la sua superficie più convenzionalmente politica, l’attenzione vigile per il ruolo della Chiesa nel mondo e per il mondo fu certamente una tra le cifre più in rilievo e maggiormente significative dell’unitarietà del lungo pontificato. Si potrebbe aggiungere subito che proprio le concrete espressioni di una simile attenzione bloccarono e forse invertirono quella diffusa e crescente tendenza che, all’avvio degli anni Venti del secolo scorso, già attirava l’interesse di Carl Schmitt. Nell’argomentare il perché l’essenza della Chiesa cattolica come complexio oppositorum vada ricercata nella sua «specifica superiorità formale nei confronti della materia della vita umana» e nella «rigorosa attuazione del principio di rappresentazione», il giurista tedesco metteva infatti in guardia dalle tentazioni di «promiscuità spirituale», ricorrenti non solo fuori della Chiesa, ma anche al suo stesso interno. E soprattutto sottolineava l’inevitabile carattere di «elogio equivoco», in cui cade ogni affermazione di chi intenda la Chiesa quasi soltanto come il polo opposto dell’«epoca meccanicistica», o della modernità, o banalmente e in tutte le circostanze - di un mondo che finisce col diventare tanto più generico e astratto, quanto più viene privato di ogni sua feconda potenzialità. Com’è ovvio, l’unitarietà storicopolitica del pontificato di Giovanni Paolo II non può certamente definirsi e apprezzarsi solo con la misura delle osservazioni che
L
un pur disincantato studioso si trovò a formulare, in termini suggestivi e ancora un po’inquietanti, quasi ottant’anni fa. Né, perché una simile lettura laica non scivoli nei tanti rischi di semplificazione o eccessive forzature, basterebbe richiamare senza sosta la rete di nessi dottrinali ed ecclesiologici, da cui la cura per la posizione della Chiesa - come ha ulteriormente dimostrato la Novo Millennio Ineunte - è legata alla sua missione specifica e alla necessità di comunicare il Vangelo al mondo d’oggi. Nondimeno, passando per questa via stretta e rischiosa ci si rende conto con immediatezza, mi sembra, di quanto sia esteso e avanzato il confine lungo il quale Giovanni Paolo II ha situato il tema del rapporto tra Chiesa e mondo. E ci si può anche approssimare, pur con qualche obbligata cautela, alla questione se la «discontinuità» prodotta dal suo pontificato sia tutta o in gran parte da ricondurre alla figura straordinaria di Giovanni Paolo II, o già non sia il presupposto di un processo destinato a risultare reversibile con sempre maggiore difficoltà. Alla fine degli anni Settanta la Chiesa sente risuonare un tema cui sembrava essersi disaffezionata o disabituata con rapidità. Il giovane Papa, riproponendo il «particolarismo» delle comunità politiche, colloca al suo centro la questione ancor più antica del «senso» della convivenza politica per il cristiano. E comincia a formularla con un’articolazione diversa da quelle immediatamente precedenti. A molti, in quegli anni, sembrano assai poco attuali e persuasivi i contenuti di parole quali nazione e patria. Così come risultano ormai desueti o comprensibilmente formali, talvolta, i richiami alla missiona-
rietà (e, più laicamente, a una ripresa di iniziativa politica) di un’Europa che - lo ricorda Giovanni Paolo II nel discorso, tenuto il 19 dicembre 1978, al Consiglio delle conferenze episcopali europee - «non è la prima culla del cristianesimo. La stessa Roma ha ricevuto il Vangelo grazie al ministero degli apostoli Pietro e Paolo, che sono venuti qui dalla terra di Gesù Cristo.
A ogni modo è vero che l’Europa, nel corso di due millenni, è divenuta come il letto di un grande fiume dove il cristianesimo si è riversato, rendendo fertile la terra e la vita spirituale dei popoli e delle nazioni di questo continente. E su questo slancio, l’Europa è diventata un centro di missione
La Cultura è l’architrave su cui costruire gli spazi e le possibilità di azione dell’uomo
“
”
che ha irradiato gli altri continenti». Che l’essenziale ruolo riconosciuto alle comunità politiche particolari non sia solamente o soprattutto l’eredità di una specifica storia collettiva e personale, segnata inevitabilmente dalle sue radici nell’Est dell’Europa, Giovanni Paolo II provvederà a chiarirlo quasi subito. E anzi,
quasi a impedire sul nascere ogni tentativo di deformare l’importanza di un tale ruolo attraverso una riduzione pseudo-storicistica, ancor più ne evidenzia e stringe - attraverso la realtà della «cultura» e la concretezza della «libertà» - il nesso antropologico con quel senso della politica che sempre deve sottendere sia le mutevoli forme storiche di comunità, sia il sistema (altrettanto mutevole nella storia) dei contrasti o delle corrispondenze tra le tendenze all’universalismo e quelle al particolarismo. Nell’allocuzione del 2 giugno 1980 all’Unesco, Giovanni Paolo II rende del tutto esplicita e così rafforza questa connessione: «La nazione è in effetti la grande comunità degli uomini che sono uniti per diversi legami, ma soprattutto dalla cultura. La nazione esiste “mediante” la cultura e “per” la cultura, ed essa è dunque la grande educatrice degli uomini perché essi possano “essere di più” nella comunità. Essa è quella comunità che possiede una storia che sorpassa la storia dell’individuo e della famiglia». «Cultura» è certamente una di quelle idee-cardine di più difficile traslitterazione dal campo ecclesiale a quello laico. Vengono da qui (non è superfluo notarlo, seppure di sfuggita) talune ritrosie di parte laica nei confronti del neologismo «inculturazione». Da qui traggono forse origine fraintendimenti, aspettative parziali, o erronee interpretazioni anche rispetto al progetto culturale orientato in senso cristiano, di cui - nella realistica prospettiva di un nuovo e specifico contributo dei cattolici alla vita e al futuro del Paese - si è fatta carico in questi ultimi anni la Chiesa italiana. «Cultura», comunque, resta l’architrave su cui Gio-
vanni Paolo II è andato costruendo la sua indicazione di quali siano gli spazi e le possibilità di azione dell’uomo e delle nazioni nel presente e per il futuro del mondo. È infatti l’uomo nella sua interezza il primo soggetto della cultura. Ne è anche il suo unico oggetto e il fine. Con e mediante la cultura, l’uomo vive il suo tempo e continuamente cerca di cambiare in meglio le cose del mondo, trasformando in una possibilità o in una nuova realtà anche tutto ciò che, in un passato più o meno lontano, sembrava o davvero risultava impossibile. Comunicata attraverso la tradizione, la cultura definisce un’«appartenenza». E perché l’«essere parte» di una comunità - di un popolo e di un luogo - diventi sempre più equivalente al «prendere parte» attivamente e creativamente a questa stessa comunità (cioè a «essere di più»), è indispensabile la pienezza della libertà. Se la fondazione ultima della libertà dell’uomo non può che essere cercata e trovata in Cristo (quel «segno di contraddizione» - contraddetto dal mondo, e dove però il mondo continuamente ritorna - attorno a cui l’arcivescovo di Cracovia aveva predicato, sul finire del 1975, gli esercizi spirituali a Paolo VI e alla Curia romana), l’immediato riverbero di questa fondazione teologica è che l’uomo, da sempre e ogni giorno, «è chiamato alla libertà». E la libertà, allora, è il punto insostituibile da cui determinare sia i fini dell’attività dei cristiani all’interno della comunità particolare cui appartengono, sia, e al tempo stesso, il ruolo della Chiesa dentro il campo di tensione tra l’universalismo e il particolarismo di questa nostra età. Il capitolo V della Centesimus
giovanni paolo II
30 aprile 2011 • pagina 21
A sinistra, Giovanni Paolo II in Polonia, a colloquio con Jaruzelski e Monsignor Glemp. Due immagini del Muro di Berlino al cui abbattimento il Pontefice ha contribuito in modo determinante. A destra, l’immagine di un sereno Wojtyla
Annus - «Stato e cultura» - ancora rappresenta una delle tappe più emblematiche del percorso lungo il quale, via via che si stringe il nodo tra politica e «libertà umana integrale», di pari passo vanno precisandosi il senso dell’agire politico del cristiano e il ruolo delle comunità politiche particolari. Quel che davvero rileva è che ogni sistema politico riconosca e si ponga al «servizio» (o, almeno, come strumento) della libertà dell’uomo. Proprio perché questa è la condizione necessaria per un’appartenenza creativa alla propria comunità, la libertà dell’uomo non è, di per sé, il traguardo finale di processi storico-politici, tutti da progettare e costruire in funzione di un tale obiettivo. Ne costituisce, al contrario, la linea di partenza. Anziché come suggello della «migliore» politica (temporalmente mai determinabile con precisione, se non attraverso le perentorie pseudo-verità proposte a credere da gran parte delle ideologie moderne), la libertà prende corpo nell’agire concreto con cui, operando nel presente, si rende possibile una politica «buona». È proprio la Centesimus Annus a ricordare che «non essendo ideologica, la fede cristiana non presuppone di imprigionare in un rigido schema la cangiante realtà socio-politica e riconosce che la vita dell’uomo si realizza nella storia in condizioni diverse e non perfette» (n. 46). L’antropologia diventa in tal modo il criterio con cui determinare quale possa essere, realisticamente, la posizione della Chiesa nel mondo e per il mondo. Ben più del fatto che un ordinamento politico sappia profilare in tempi più o meno dilatabili - il miglior «bene comune» come suo prodotto originale e specifico, ciò che conta è l’«uomo concreto», con il suo desiderio di compimento nell’esperienza della libertà: «Il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell’uomo e il modo in cui questi si impegna a costruire il proprio futuro dipende dalla concezione che ha di se stesso e del suo destino» (n. 51). Ne consegue che, allo stesso modo in cui le nazioni sono il luogo e il tempo storico dell’appartenenza creativa, così la concreta persona «libera» - e non una generica umanità costituisce la misura essenziale degli spazi effettivi, degli orizzonti temporali, delle stesse potenzialità della libertà. Non è infatti la struttura politica a poter
cambiare, addolcire o rendere più socievoli gli individui, bensì sono i desideri e il cuore dell’uomo a saper trasformare ogni struttura di potere. Per questo (soprattutto per questo), la Chiesa - è ancora la Centesimus Annus a sottolinearlo, richiamandosi sia alla Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II, sia all’Octogesima Adveniens di Paolo VI - «non ha modelli da proporre. I modelli reali e veramente efficaci possono solo nascere nel quadro delle diverse situazioni storiche, grazie allo sforzo di tutti i responsabili che affrontino i problemi concreti in tutti i loro aspetti sociali, economici, politici e culturali che si intrecciano tra loro» (n. 43).
Eppure, anche in relazione 3al più recente passato, risulta subito evidente una qualche, significativa discontinuità. La si avverte nei confronti sia dell’ideale di socializzazione-partecipazione, in cui Giovanni XXIIII legava la propria dimensione pastorale con quella diplomatica, sia del disegno di democrazia, formulato da Paolo VI seguendo soprattutto lo schema maritainiano. La si avverte anche, bisognerebbe aggiungere, a motivo di talune declinazioni o applicazioni che paiono differenti dalle stesse interpretazioni e applicazioni più diffuse nella stagione immediatamente post-conciliare. Infatti, nella prospettiva che Giovanni Paolo II va costruendo, la politica è sempre meno un sistema di freni o di garanzie rispetto agli attacchi e alle invadenze, o alle indifferenze, del mondo contemporaneo. Sempre meno essa delimita il terreno su cui la Chiesa, quasi fosse costretta a svincolarsi da condizionamenti o a reagire a imposizioni paralizzanti, deve «confrontarsi» con la gamma pressoché inesauribile di aspettative e pretese politiche, economiche, sociali, che - dall’esterno, e dall’interno - assolutizzano il suo rapporto con il mondo nel momento stesso in cui, storicizzandolo sino all’estremo, neppure troppo paradossalmente lo deformano. La cura per la posizione della Chiesa deve allora prendere avvio dalla «comprensione» più realistica possibile del mondo. Ed è indispensabile che sia così, anche perché nessuna politica e nessun sistema politico sono buoni in sé, indipendentemente dai loro concreti risultati. Comprendere il mondo contemporaneo significa capirne le realtà più profonde, per poter
orientare le sue trasformazioni (per dir così) strutturali. La fondazione antropologica del senso della politica, anziché relegare ai margini le dimensioni più propriamente istituzionali e organizzative delle convivenze politiche particolari e di quella universale, ne rivaluta tutta la plasmabilità da parte dell’uomo e delle comunità cui gli uomini appartengono. Sta anzi qui, a ben guardare, una delle principali ragioni per cui l’unitarietà del pontificato, pur quando la si legga nel suo strato più superficialmente o convenzionalmente politico, presenta sempre e comunque un’«eccedenza», ovvero un valore che non è riducibile senza residui al ruolo ricoperto da Giovanni Paolo II come protagonista dei grandi cambiamenti, da cui è scandito il passaggio dall’altro al nuovo millennio. Il «momento favorevole» del
L’enciclica “Centesimus Annus” è la più efficace chiave di lettura del mutamento
“
”
1989 - vero e proprio «kairòs provvidenziale» - apre a migliori speranze e a ulteriori cambiamenti. Ma le grandi trasformazioni, che nel 1989 hanno contemporaneamente il loro punto di conclusione e quello di avvio, non rappresentano la rigida cornice entro cui collocare o adattare una rafforzata posizione della Chiesa. Semmai costituiscono, nella loro fluidità, l’impulso alla ricerca di una più feconda e originale posizione della Chiesa nel mondo e per il mondo. Nei suoi discorsi e interventi, Giovanni Paolo II segue passo dopo passo ciò che sta avvenendo. Ne coglie le grandi opportunità e i possibili rischi. Osserva come alle precedenti minacce e incertezze si stiano sostituendo ulteriori inquietudini e nuove tendenze destabilizzanti. Ancora una volta è la Centesimus Annus a offrire, sinteticamente ed efficacemente, la principale chiave di lettura con
cui leggere l’atteggiamento di Giovanni Paolo II rispetto alle impetuose trasformazioni in atto. Due passaggi, in particolare, sono rilevanti; ed è opportuno, benché non siano brevi, ricordarli entrambi. Il primo, nel sottolineare il rilievo e gli effetti «universali» degli eventi europei, riporta l’attenzione sul ruolo creativo della libertà: «Gli avvenimenti dell’89 si sono svolti prevalentemente nei Paesi dell’Europa orientale e centrale; tuttavia, hanno un’importanza universale, poiché ne discendono conseguenze positive e negative che interessano tutta la famiglia umana. Tali conseguenze non hanno un carattere meccanico o fatalistico, ma sono piuttosto occasioni offerte alla libertà umana per collaborare col disegno misericordioso di Dio che agisce nella storia» (n. 26).
Nel secondo passaggio, quel che viene soprattutto richiamata è l’universalità di alcuni beni, come base di un nuovo, non precario o retorico universalismo della politica: «La caduta del marxismo naturalmente ha avuto effetti di grande portata in ordine alla divisione della terra in mondi chiusi l’uno all’altro e in gelosa concorrenza tra loro. Essa mette in luce più chiaramente la realtà dell’interdipendenza dei popoli, nonché il fatto che il lavoro umano per sua natura è destinato a unire i popoli, non già a dividerli. La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se vengono ottenuti e conservati a danno di altri popoli e nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere» (n. 27). L’interdipendenza dei popoli e delle nazioni verrà sempre più ad assumere, dagli anni Novanta in poi, il volto ancipite della globalizzazione. E rispetto a quest’ultima si riapriranno non solo le antiche questioni delle corrispondenze, o invece delle antinomie, tra economia e politica, tra l’ordine delle comunità politiche particolari e un ordine internazionale costruito (il meglio possibile) su fiducia e solidarietà, ma anche le nuove e non meno assillanti questioni dei rapporti tra il capitalismo più avanzato e l’ancora incerta fisionomia di una società internazionale, o delle capacità dei regimi democratici nel governare la crescente dimensione internazionale di pressoché tutti i processi politici, economici, tec-
nologici e sociali. Per molti aspetti, anzi, la crescente attenzione alle tendenze verso l’universalismo, coi loro rischi e le loro potenzialità, sembra talvolta sovrastare il richiamo alle tendenze verso il particolarismo delle comunità politiche, coi loro vantaggi ma anche col loro pericolo di provocare e moltiplicare un’eccessiva frammentazione. Poiché quest’ultima è vicenda degli anni a noi più vicini, forse vale soltanto la pena di sottolineare quel sorprendente ma non inspiegabile fenomeno per cui, quanto più si celebrano quasi universalmente il dono carismatico e le qualità mediatiche di Giovanni Paolo II, tanto più si rischia che i concreti contenuti delle sue riflessioni e indicazioni vengano avvolti (com’è il caso, per esempio, di quelle sulla globalizzazione) in un silenzio tanto più preoccupante, quanto imbarazzato e circospetto. Anche di fronte alla globalizzazione e alle sue conseguenze più manifeste o prevedibili, Giovanni Paolo II ha tenuto fissi quei due obiettivi a cui si è orientata, lungo oltre un ventennio, la cura per la posizione della Chiesa nel mondo e per il mondo. La Chiesa, in primo luogo, deve evitare di assumere dentro di sé, così credendo di facilitare la sua convivenza e il suo confronto con il mondo, quei «valori» che ogni sistema politico inevitabilmente assolutizza, e che, affermati più o meno perentoriamente oppure pragmaticamente, non infrequentemente si trasformano - dentro una società secolarizzata - nel sintetico sostituto della religione. La Chiesa, poi e soprattutto, non deve ripiegare sotto la spinta di un sincretismo di dottrine e di prassi, dominato da un astratto universalismo in cui finirebbero con lo sbiadirsi o smarrirsi non solo l’originalità e l’unicità della posizione della Chiesa nella sua specifica missione, ma anche quella «superiorità formale nei confronti della materia della vita umana», che aveva già richiamato l’attenzione di Carl Schmitt. Se questa linea disegnata da Giovanni Paolo II sia anche l’effetto congiunto, o almeno il comune denominatore, di cambiamenti ormai irreversibilmente avvenuti all’interno della Chiesa, è problema rilevantissimo. Così come ovviamente lo è - in misura non minore - il quesito se ciò ormai costituisca il presupposto della posizione della Chiesa nel futuro prossimo. © liberal, agosto-settembre 2001
pagina 22 • 30 aprile 2011
n occasione della beatificazione di Giovanni Paolo II ho il piacere di tornare ad un commento che scrissi ormai dieci anni fa ad uno dei suoi testi, a mio giudizio, più interessanti: la Sollicitudo Rei Socialis. Pur essendo un’enciclica scritta alla fine degli anni Ottanta, in una condizione geopolitica assolutamente distante dal mondo in cui viviamo oggi, la Sollicitudo Rei Socialis conserva alcuni passaggi di straordinaria modernità, segno di quella lungimiranza e acuta capacità di analisi che hanno caratterizzato per intero il pontificato di Giovanni Paolo II.
I
Nel frattempo la dottrina sociale della Chiesa ha percorso tappe fondamentali, penso alla Centesimus Annus o alla recente Caritas in Veritate di Benedetto XVI, ma è interessante notare come in quell’enciclica fossero già enunciati i temi che ancora oggi danno forma alla riflessione della Chiesa sul ruolo dell’economia. Riflessione proficua anche per quanti si riconoscono nella cultura liberale. Seguendo la linea già tracciata da Paolo VI e successivamente sviluppata nei diversi documenti della dottrina sociale della Chiesa, l’enciclica pone lo «sviluppo umano integrale» come presupposto attraverso cui la Chiesa affronta la questione sociale ed economica. La riflessione viene seguita lungo due direttrici: «Da una parte, la situazione drammatica del mondo contemporaneo, sotto il profilo dello sviluppo mancato del Terzo Mondo, e dall’altra, il senso, le condizioni e le esigenze di uno sviluppo degno dell’uomo». Il dibattito non è più ridotto alla schematica relazione fra ricchezza e povertà, ma si sofferma sulle condizioni su cui questa può stabilirsi, attraverso un’attenta riflessione sugli squilibri e le disuguaglianze e delle relative implicazioni morali che le sono insite. Questo passaggio è molto significativo perché, per lungo tempo, e questo a prescindere dalle convinzioni religiose di ciascuno, il rapporto fra la dottrina e la coscienza di coloro che dedicano la propria vita alla produzione o all’accumulazione di ricchezza è stato difficile. È vero che la parabola dei talenti potrebbe ancora oggi essere considerata un manuale del moderno banchiere, ma è altrettanto evidente che si è voluto insistere, sin dall’educazione dei giovani, sulla scarsa possibilità che ha il ricco, oggi si direbbe più facilmente il capitalista, di “guadagnare”il Regno dei Cieli. A questa visione si è voluto contrapporre un pensiero, di origine calvinista, secondo cui la ricchezza può essere considerata un segno della grazia. Il dibattito moderno si sta fortunatamente liberando da questi schematismi e semplificazioni, an-
Il capitalismo morale La dottrina della Chiesa e il pensiero liberale dopo la svolta (ancora oggi attualissima) dell’enciclica di Wojtyla «Sollicitudo Rei Socialis» di Marco Tronchetti Provera che se dobbiamo essere consapevoli di quali scorie rimangono ancora nella nostra memoria individuale e collettiva. Scorie che rispecchiano la problematica sociale di un mondo in cui, con l’eccezione dei mercanti, la ricchezza era un concetto statico; il suo problema sociale non riguardava tanto i modi dell’accumulazione quanto l’uso che se ne faceva.
Nella Sollicitudo Rei Socialis, Giovanni Paolo II svolge la sua analisi contrapponendosi idealmente sia al «capitalismo liberista» che al «collettivismo marxista». Il testo è del 1987, di lì a poco il comunismo crollerà sotto le rovine del muro di Berlino. Motivo che spingerà Karol Wojtyla a completare il suo pensiero con la Centesimus Annus. In entrambe le encicliche c’è una prospettiva molto critica nei confronti di certi esiti del
sistema economico e sociale in cui viviamo. Quella dell’87 sembra concentrarsi sui danni provocati da «la logica del profitto» quando essa prevale su qualsiasi altra esigenza di dignità e di libertà della persona umana. Nella successiva il discorso viene ripreso denunciando l’emergere «di una pericolosa ideologia radicale di tipo capitalistico». La cosa deve fare riflettere. Il moderno pensiero economico su cui si fonda l’economia di mercato quale la conosciamo, è, all’origine, il prodotto di pensatori illuministi, soprattutto in Gran Bretagna e in Francia, che erano per formazione e per vocazione innanzitutto dei filosofi morali. La seconda grande opera di Adamo Smith si intitola La teoria dei sentimenti morali; la sua opera principale invece tratta della ricchezza delle «nazioni» e non certo solo di quella degli individui. In nessun passo
della sua opera «la mano invisibile» è cosa diversa da un mero strumento per massimizzare il benessere. Il suo pensiero economico sarebbe incomprensibile se si facesse astrazione dalla nozione di «contratto sociale» che è il principale prodotto politico di quell’illuminismo a cui lo stesso Smith appartiene. Gli stessi testi dei padri fondatori degli Stati Uniti, che rappresentando la forma più compiuta del pensiero politico dell’epoca, non considerano la «libertà» uno strumento per il perseguimento del solo benessere, ma addirittura della «felicità», che è un concetto molto più pervasivo e denso di implicazioni morali, non solo individuali, ma collettive. Del resto questa analisi del funzionamento del mercato come meccanismo destinato a un benessere collettivo e non solo individuale, è stata un elemento trainante della scien-
za economica lungo tutto il Diciannovesimo e il Ventesimo secolo da Smith a Keynes. È interessante, proprio a questo proposito, la lettura di un libro di Giorgio Ruffolo dedicato alle biografie di dodici grandi economisti. Del resto, basterebbe domandarsi se le uguaglianze e le sofferenze create dallo sviluppo siano maggiori oggi o all’epoca in cui scriveva Adamo Smith. La risposta mi sembra evidente. Bisogna ammettere che nei diversi testi della dottrina sociale della Chiesa di fatto il libero mercato, come ben sintetizzato nella Centesimus Annus, è visto alla fine come «lo strumento più efficace per collocare le risorse e rispondere efficacemente ai bisogni»” (pur con certi limiti e precauzioni), tuttavia è da registrare che in buona parte del pensiero comune persiste una certa percezione riduttiva del liberalismo eco-
30 aprile 2011 • pagina 23
nomico. È doveroso chiedersi allora se una responsabilità non ricada anche sui più recenti pensatori liberali. È evidente che per buona parte del XX secolo il liberalismo economico in Europa è stato sulla difensiva di fronte all’aggressiva vitalità del pensiero marxista, nelle sue versioni comunista e socialdemocratica. L’appannarsi del pensiero liberale può essere spiegato in parte con questa situazione, in parte con una dichiarata volontà di molti economisti di sradicare dalla scienza economica «gli elementi morali», nel proposito, a mio avviso vano, di dare ad essa i fondamenti di una scienza esatta. Il risultato è un panorama del pensiero liberista non proprio esaltante. Nel tentativo, in sé giustificato, di demolire molte delle eccessive rigidità introdotte nel funzionamento dell’economia occidentale nella seconda metà del secolo scorso, si è spesso sviluppata una visione del mondo eccessivamente semplicistica e riduttiva che fa dell’homo economicus una caricatura anche rispetto a ciò che potevano pensare i più cinici individualisti del pensiero positivista. Per tutti valga la celebre affermazione, attribuita dalla signora Thatcher, secondo cui «non esiste la società, ma solo una somma di individui». Molte di queste idee, che sono diventate dominanti a partire dagli anni Ottanta, si sono rivelate estremamente utili, per esempio nella gestione della politica monetaria. Tuttavia non hanno la capacità di mobilitare e indirizzare le coscienze. Impresa peraltro ardua in contesti sociali quali quelli che hanno caratterizzato il mondo occidentale negli ultimi decenni dove la caduta delle ideologie è stata seguita dall’ulteriore trauma della
crisi economica che ha creato non pochi sospetti verso una visione dell’economia come semplice composizione equilibrata degli egoismi particolari. Allo stesso tempo il capitalismo moderno, come si è sviluppato in Occidente nel corso del secolo scorso e in particolare nell’ultimo dopoguerra, si è notevolmente arricchito di correttivi e di contrappesi, in parte determinati dal pensiero cattolico, tutti destinati a evitare gli eccessi dell’accumulazione e a proteggere i più deboli. Di fronte alla tumultuosa accelerazione dell’evoluzione tecnologica e dell’internazionalizzazione dell’economia, alcuni di questi correttivi si sono rivelati fonte di inutili rigidità. Allo stesso tempo i recenti eventi del dissesto internazionale, e con essi gli effetti che hanno provocato nel sistema economico e sociale globale, impongono la necessità di ripensare nuovi modelli di crescita. Insomma, finora il tentativo di sviluppare un sistema concettuale capace di conciliare la rapidità del cambiamento con la massimizzazione dei benefici collettivi dello sviluppo non è riuscito pienamente. A fronte di questo obiettivo impoverimento della dimensione etica del pensiero liberale, si nota invece, nella lettura delle encicliche, la quasi totale assenza di specifiche argomentazioni economiche, nonché di indicazioni quanto agli strumenti istituzionali e politici che dovrebbero essere posti in essere. È da notare come la Sollicitudo Rei Socialis in particolare, pur procedendo a un’analisi critica del capitalismo e censurandone molti effetti, non si addentri mai nella discussione dei presupposti concettuali. Ancora più, e in maniera molto esplicita, rifiuta categoricamente la definizione della dottrina della Chiesa come «terza via» fra ca-
Dopo più di 20 anni, si rivela moderna. Ponendo in primo piano il tema dello sviluppo
“
”
pitalismo e comunismo. In questo senso riafferma, e con grande forza, la propria funzione esclusivamente morale e non tecnica. Prospettiva ripresa nelle successive encicliche (nella Centesimus Annus, ad esempio, la dottrina sociale della Chiesa viene definita «uno strumento di evangelizzazione»). In testi
così rigorosi e argomentati, questa contraddizione fra la densità dell’analisi sociale e morale e la carenza dell’analisi economica, non può essere casuale ed è certamente voluta.
Sarebbe sbagliato chiedere alla Chiesa di abbandonare il terreno puramente morale. Bisogna però evitare che la sua posizione si presti a pericolose strumentalizzazioni. Il dibattito potrebbe infatti svilupparsi fra due piani per definizione incomunicabili. Quello di una moralità dedotta dalla fede, il cui compito essenziale è quello di denunciare con drammatica forza le ingiustizie e le miserie del mondo, e quello dell’economia concreta, per cui l’equa distribuzione dei frutti dello sviluppo può essere solo un processo graduale, che presuppone comunque l’esistenza dell’economia di mercato, condizione perché lo sviluppo possa avere luogo. Per la morale è evidente che la sofferenza di un solo uomo vale la sofferenza dell’umanità intera. Da questo punto di vista, è difficile negare l’esattezza della dura analisi dell’enciclica di Giovanni Paolo II, per esempio per quanto riguarda i rapporti tra i “Nord e i Sud” del mondo. A essa però si risponderà che il drammatico impoverimento riguarda non tanto i Paesi che hanno agganciato il treno della globalizzazione, ma piuttosto quelli che ne sono stati esclusi. Di fatto un tema presente nella Centesimus Annus quando si parla di “interdipendenza dei popoli” e poi ulteriormente sviluppato nella Caritas in Veritate di Benedetto XVI in cui il processo di globalizzazione viene indicato come «il principale motore per l’uscita dal sottosviluppo di intere regioni che rappresenta di per sé una grande opportunità». Si risponderà anche che l’economia di mercato non è altro che un sistema di regole in continuo arricchimento e sperimentazione. Del resto, nel momento stesso in cui mette lo sviluppo al centro della sua dottrina sociale, la Chiesa è necessariamente cosciente di avere aperto una finestra su un processo per sua natura dinamico, impossibile da cristallizzare in una formula e in cui l’equilibrio fra le esigenze dell’accumulazione e quelle della redistribuzione o dell’uguaglianza può solo essere trovato per approssimazioni successive. Per progredire, è essenziale evitare le caricature e le semplificazioni. È bene a questo proposito ricordare che anche il pensiero cattolico ha fatto molta strada dai tempi della demonizzazione medievale dell’attività finanziaria, con contributi alla moderna scienza economica che sono stati spesso significativi. Vorrei ricordare, per concludere, altri tre spunti della Sollicitudo Rei Socialis che ancora colpiscono per la straordinaria
attualità e che rappresentano oggi capisaldi del pensiero cattolico. Il primo riguarda la vigorosa difesa della democrazia e della libertà come precondizione dello sviluppo. Questa vibrante apologia non era solo rivolta contri i regimi totalitari comunisti ma ugualmente riferita allo stato dei Paesi emergenti. Lo sviluppo delle popolazioni più disagiate infatti non soggiace soltanto all’impatto delle politiche dei Paesi più sviluppati, ma dipende da fattori endogeni di natura politica, culturale e sociale:«Lo sviluppo richiede soprattutto spirito d’iniziativa da parte degli stessi Paesi che ne hanno bisogno. Ciascuno di essi deve agire secondo le proprie responsabilità, senza sperare tutto dai Paesi più favoriti ed operando in collaborazione con gli altri che sono nella stessa situazione. Ciascu-
no deve scoprire e utilizzare il più possibile lo spazio della propria libertà. Ciascuno dovrà rendersi capace di iniziative rispondenti alle proprie esigenze di società. Ciascuno dovrà pure rendersi conto delle reali necessità, nonché dei diritti e dei doveri che gli impongono di risolverle. Lo sviluppo dei popoli inizia e trova l’attuazione più adeguata nell’impegno di ciascun popolo per il proprio sviluppo, in collaborazione con gli altri». Il secondo elemento fortemente legato al tema della libertà riguarda l’affermazione, che la mancanza di giustizia conduce facilmente alla violenza:«Disattendere tale esigenza potrebbe favorire l’insorgere di una tentazione di risposta violenta da parte delle vittime dell’ingiustizia, come avviene all’origine di molte guerre. Le popolazioni escluse dalla equa distribuzione dei beni destinati originariamente a tutti, potrebbero domandarsi: perché non rispondere con la violenza a quanti ci trattano per primi con la violenza?». Drammaticamente attuale se si pensa all’avanzata delle varie forma di fondamentalismo o alle recenti situazioni di disperazione e conflitto di alcuni paesi, ma anche riferibile alle forme di disagio sociale che si sperimentano nelle società più avanzate. Chi è nutrito di razionalismo cede troppo spesso alla tentazione di dimenticarlo. Il terzo elemento potrebbe essere
la sintesi dei primi due e riguarda la definizione dello sviluppo come condizione per la pace: «La solidarietà da noi proposta è via alla pace e insieme allo sviluppo. Infatti, la pace del mondo è inconcepibile se non si giunge, da parte dei responsabili, a riconoscere che l’interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione». Da un lato ciò ricorda una delle grandi massime del pensiero liberale: «Dove passano le merci non passano gli eserciti». Soprattutto richiama tutte le nazioni non solo a un’esigenza di solidarietà, ma anche a un’esigenza di collaborazione. In particolare, si sottolinea la necessità di una solidarietà e di una maggiore cooperazione fra i Paesi emergenti. Più in generale si tratta di un messaggio importante in un momento in cui pare venga posta minore attenzione alle istituzioni internazionali da parte dei Paesi più avanzati. La Sollicitudo Rei Socialis di Giovanni Paolo II, dopo più di 20 anni, si rivela quanto mai attuale. Essa, ponendo in primo piano il tema dello sviluppo, ha arricchito la riflessione all’interno della Chiesa e, allo stesso tempo, ha dato nuovo impulso al dibattito con la società civile. Un cammino ormai intrapreso con decisione: ne vediamo oggi più che mai gli effetti nel ricco e interessante dibattito scaturito a seguito della pubblicazione della Caritas in Veritate di Benedetto XVI che ha rappresentato per tutti - al di là delle differenze di vedute - un richiamo universale ad un’economia capace di evolvere «verso esiti pienamente umani». Sarebbe drammaticamente sbagliato lasciare che dell’economia di mercato ci si limitasse a contestare l’immoralità, lasciandole attaccata addosso l’accusa, altrettanto grave, di amoralità. Soprattutto in questi tempi di squilibri economici e di timori nei confronti del futuro ritengo sia necessario un ulteriore sforzo di riflessione da parte dei pensatori liberali.
Il pensiero liberale dovrebbe, con coraggio e con orgoglio, rivendicare le proprie origini etiche e soprattutto la capacità che ha concretamente dimostrato nei secoli di applicare in primo luogo a se stesso il metodo del razionalismo critico. È infatti questo metodo, e non la riduzione del liberismo a ideologia, che ha finora garantito la straordinaria vitalità del sistema economico in cui viviamo e la sua capacità di correggersi dall’interno. Riconsiderare in occasione della beatificazione di Giovanni Paolo II alcune delle sue più interessanti suggestioni a tal proposito è un invito a non lasciare che la crisi si imponga sul nostro futuro.
I Papa-points della Capitale Tutto pronto a Roma per accogliere i pellegrini attesi domani: ecco il programma delle iniziative tra convegni, mostre, concerti (e l’inaugurazione di una statua di Wojtyla) di Gaia Miani na «grande festa di incontro tra cultura e spiritualità cittadina»: così il Campidoglio, durante la conferenza stampa di alcuni giorni fa, ha definito la giornata di domani, quando Giovanni Paolo II verrà proclamato beato in piazza San Pietro. I preparativi per l’accoglienza dei pellegrini, hanno fatto sapere gli organizzatori di Roma Capitale, sono quasi del tutto ultimati. Il programma capitolino per i “giorni di Giovanni Paolo”, e il sito internet dedicato (messo a punto da Roma Capitale), sono stati presentati nei giorni scorsi dal sindaco di Roma, Gianni Alemanno, e da un ampio parterre di autorità e personalità legate all’evento, tra cui il cardinale Agostino Vallini, vicario generale per la Diocesi di Roma; il vicesindaco Mauro Cutrufo; gli assessori Dino Gasperini (Cultura e Centro Storico), Antonello Aurigemma (Mobilità) e Marco Visconti (Ambiente); il direttore della Protezione Civile di Roma Capitale,Tommaso Profeta; il presidente di Federalberghi Roma, Giuseppe Roscioli. Presenti anche la conduttrice Elisa Isoardi e il cantautore Amedeo Minghi.
U
A disposizione degli utenti, per avere in anticipo le informazioni che contano a chi raggiungerà Roma, il sito Internet beatusjp2.comune.roma.it, “ramo” del portale Grandi Eventi di Roma Capitale, di cui utilizza la piattaforma. Il sito è realizzato in collaborazione con Matrix Telecom Italia. Al suo interno, sezioni tematiche in italiano, in inglese, in spagnolo e in polacco, che orientano il pellegrino e il visitatore tra servizi, opportunità, recapiti cui rivolgersi in caso di necessità, programmi, itinerari delle celebrazioni e relative mappe. Grande spazio, nel sito, all’accoglienza e ai servizi speciali per disabili e anziani. Giunto a Roma, il visitatore avrà a disposizione 35 punti di accoglienza e assistenza a fedeli e turisti: ai 10 Punti Informativi Turistici (i Pit) normalmente attivi si aggiungeranno altri 25 punti temporanei, distribuiti in tutta la città e oltre, dal Circo Massimo alle stazioni metro e fuori dal perimetro urbano fino al porto di Civitavecchia. Ai punti di accoglienza si potranno avere tutte le informazioni su programmi e iniziative, la mappa “Charta Roma” e le guide “Roma archeologica” e “Le piazze di Roma”. Assistenza e accoglienza saranno poi garantite da volontari, da operatori multilingue, dal personale del Campidoglio e dai giovani del servizio civile al lavoro con Roma Capitale. Grazie al supporto di Seicos (del gruppo Finmeccanica), sui luoghi di maggior affluenza saranno installati “totem” touch screen con guide per i pellegrini e informazioni pratiche (ricevibili anche su smartphone e simili). Potenziati per l’occasione i call center capitolini: 06.06.06 per l’informazione a tutto campo ventiquattr’ore ore su ventiquattro, 06.06.08 per avere
approfondimenti sul versante turismo e cultura. Per quanto riguarda nel dettaglio le manifestazioni culturali, da segnalare in primis le due mostre su Giovanni Paolo II. Dal 29 aprile al 13 maggio 2011 “Karol il papa dei popoli”, allestita in piazza della Repubblica (in contemporanea con Cracovia): una scelta di foto dedicate al rapporto tra Giovanni Paolo II e Roma, disposte su quattro parallelepipedi e un cubo, quest’ultimo con quattro gigantografie, il tutto retro-illuminato durante la notte. Dal 28 aprile al 25 settembre 2011 “All’Altare di Dio” a Palazzo Caffarelli nei Musei Capitolini (in contemporanea con Varsavia): immagini, oggetti e video di una vita straordinaria; 150 foto (quasi tutte di Vittoriano Rastelli), i filmati, le suppellettili personali del papa, la sua voce che accompagna l’intero percorso, «la storia quotidiana di un uomo che ha segnato un’epoca». Il 2 maggio, sulla piazza del Campidoglio, alle 19 si terrà “Giovanni Paolo II e Roma: Memoria e Gratitudine”. Un grande memorial con momenti diversi, cominciando dalla musica: in apertura un inedito Magnificat a due voci, quindi un’Ave Maria sull’intermezzo della Cavalleria Rusticana e ancora i veterani del pop italiano (Amedeo Minghi,Tosca, Matia Bazar, Premiata Forneria Marconi, Roby Facchinetti e molti altri grandi artisti). Alternate ai brani eseguiti dall’Orchestra Stabile di Sanremo, le testimonianze di chi ha avuto un personale rapporto con papa Wojtyla: don Massimo Camisasca, il cardinal Stanislaw Dziwisz, Andrea Riccardi, padre Lucio Maria Zappatore, monsignor Domenico Sigalini, Elio Toaff, Joaquìn Navarro Valls.
E ancora: sempre domani, 1 maggio (tradizionale giorno di chiusura) e lunedì 2 (normale chiusura settimanale) musei civici aperti grazie all’impegno di Zètema, con biglietto d’ingresso ridotto a 1 euro per iniziativa nazionale del ministero dei Beni e Attività Culturali. E a metà maggio l’inaugurazione di una statua in bronzo di Giovanni Paolo II, alta circa quattro metri, opera di Oliviero Rinaldi. La statua, donata alla città di Roma dalla fondazione Silvana Paolini Angelucci, sarà collocata davanti alla Stazione Termini. «Un appuntamento importante per Roma Capitale», ha sottolineato il sindaco Alemanno, «per il forte legame che univa papa Wojtyla alla città: non c’era giorno in cui Giovanni Paolo non benedicesse Roma». Nella data in cui «il pontefice venuto dall’Est sale agli onori degli altari», ha aggiunto Alemanno, «Roma tenta di porsi nella scia del suo fervore di opere e del suo ampio umanesimo: dandosi da fare e garantendo l’accoglienza per tutti».
In questa pagina, alcune di immagini di papa Giovanni Paolo II e alcuni scatti dei suoi giovani sostenitori: i cosiddetti “Papa-boys”
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g L’APPROFONDIMENTO SUI DIRITTI DEL FANCIULLO A CURA DI
MIMMO SIENI
CIVILTÀ EVOLUTA? Da dopo la seconda guerra mondiale, le generazioni che si sono succedute hanno tramandato ai propri discendenti la consapevolezza che l’umanità era arrivata ad un alto grado di evoluzione. Il tessuto sociale, in special modo occidentale, si dava da conoscere come la massima espressione della civiltà che l’umanità avesse raggiunto: con questa consapevolezza si sono, via via, succedute le crescite dei nostri figli che l’hanno considerata come una “certezza”. Probabilmente c’è stata molta confusione circa l’evoluzione tecnologica, e con essa le nuove conoscenze scientifiche, e l’evoluzione interiore della civiltà sociale. Molto spesso ci apprestiamo ad affrontare aspetti della vita senza una profonda conoscenza: come quando ci accingiamo ad aprire una porta con la chiave che è già predisposta così, alla stessa stregua, abitualmente, viviamo parte del nostro cammino terreno dando per acquisite alcune realtà e/o certezze che, forse, non lo sono. Quando ancora, nel nostro tempo, ci sono uomini che per mantenere il predominio del proprio tessuto sociale a cui erano stati chiamati (acclamati e/o scelti) a presiedere, - qualora venga messo in discussione l’operato dal suo stesso popolo-, difendono il proprio potere acquisito con lo sterminio delle proprie genti; e laddove con la scusa di dichiarare di voler portare democrazia si invadono i territori altrui, e le coscienze di chi osserva tutto questo rimangono supine ed inermi: vuol dire che la civiltà abbisogna di tanto cammino, ancora, per considerarsi evoluta. Il coraggio della verità dovrà essere pari alla consapevolezza della sofferenza e del dolore che può segnarci se contrastiamo tutto questo, ma l’amore per i nostri figli - perché abbiano dove coltivare un domani il proprio futuro su un terreno fertile e sviluppare “Amore” per i propri fratelli e sorelle prendendosi, all’occorrenza, per mano per affrontare, insieme, i problemi - ci “deve” far avere oggi - la forza per non sentire il dolore delle frecce di chi ci trafigge con le proprie lance per non far sentire la nostra voce alle anime sopite che aspettano chi le incita al “Risveglio”.
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Modificare la Costituzione si può, ma rispettandone i principi fondanti A mio avviso esiste un errato e comune approccio alla riforma eventuale della Costituzione, che sembra interessare non la logica generale che caratterizza la sua valenza, ma alcune sue componenti destando il sospetto che le cose si fanno sempre“ad personam”. In realtà la Costituzione è stata scritta in un momento particolare e rovente, che riguardava il clima post bellico e le sensazioni che esso destava: il principio primo era quindi assicurare che la gestione di un esecutivo e delle leggi ad esso riferite, non creassero le condizioni per l’avvento di un sistema dittatoriale, che allora era condizione necessaria e sufficiente per l’innesto di una guerra. Da allora, credo che le cose siano cambiate parecchio, e tale comun denominatore della Costituzione ha creato anche dei paletti per la dinamica necessaria alle riforme che il nostro Paese richiede. Occorrerebbe quindi una collegiale collaborazione, per far si di rendere una Costituzione di per sé valida ma obsoleta, conforme alle generali necessità del futuro. Non credo che ciò avvenga, a causa delle prevenzioni, delle paure e delBr le lentezze che la dialettica politica oggi presenta.
NUCLEARE: MENO MALE CHE NON ABBIAMO SOTTOSCRITTO CONTRATTI Che dire della scelta del governo Berlusconi di rinviare le scelta nucleare? Le considerazioni sono ormai di dominio pubblico: scelta dei tempi di indizione dei referendum separata da quella delle amministrative e in pieno giugno, il che significa 350 milioni di spesa per la tornata referendaria a carico del cittadino contribuente che, speriamo di no, sarà inutile per mancato quorum. Scelta “politica” a carico dei cittadini e di interessi di parte. Insomma, il presidente Berlusconi mette, ancora una volta, le mani in tasca agli italiani. Soldi buttati al vento. Meno male che non sono stati firmati i contratti con le imprese incaricate di costruite le centrali nucleari: avremmo pagato per costruire gli impianti senza averli, la quadratura del cerchio per le aziende che avrebbero incassato (penali) per un lavoro non fatto e l’ennesima emorragia per le tasche del contribuente.
Primo Mastrantoni
LAVORARE DURO PER UN MONDO MIGLIORE In Italia ci sono fenomeni molto diffusi: la mafia, l’evasione fiscale, la corruzione, le falsità, le volgarità, le violenze di tutti i gene-
ri, il razzismo, le litigiosità in pubblico e non, ricchezze spropositate, festini e festoni. È uno scandalo vero e proprio. Non si difendono i più deboli, il bene comune, la vita e non si favorisce la costruzione di una società migliore e più giusta. L’Italia si professa uno dei Paesi al mondo più cattolici. Non è possibile che sia anche uno dei Paesi più corrotti. Io sono un cittadino comune, un infermiere in pensione, faccio volontariato, ho scelto di stare dalla parte degli ultimi, dei più bisognosi e dalla parte degli onesti. Vorrei che tutti noi facessimo di più e meglio per i più deboli, per i bambini, per i disoccupati, per i diversamente abili, per gli anziani non autosufficienti, per gli immigrati, per gli ammalati, per tutte quelle persone che soffrono. Lavorare sodo tutti per costruire e raggiungere l’obiettivo di una società piena di diritti/doveri e di valori veri, di giustizia sociale, di uguaglianza e di pace.
LE VERITÀ NASCOSTE
Non sa nuotare, ladro chiama la polizia PALM HARBOR. Christopher Schaumburger stava tendando un furto in un’abitazione di Palm Harbor, Florida, quando è stato scoperto dal proprietario. Schaumburger si è dato alla fuga, inseguito dal proprietario, e dopo qualche minuto, anche da agenti intervenuti dalla vicina stazione di polizia. Per prima cosa Schaumburger ha rubato una bicicletta, ma non è riuscito a seminare gli inseguitori. È stato perciò costretto a proseguire la fuga a piedi, fino a giungere nei pressi del lago Tarpon. A questo punto, l’idea geniale: cosa c’è di meglio per fuggire e seminare la polizia, che un veloce pedalò? Ma prima che la polizia arrivasse sul posto, la cosa è diventata ancora più strana: Schaumburger infatti si è strappato i vestiti di dosso, e dopo poco tempo ha chiamato in preda al panico i poliziotti, supplicandoli che lo venissero subito a prendere al grido: «Il pedalò sta affondando!». Probabilmente Schaumburger si era spogliato per tuffarsi in acqua, ma resosi conto di non saper nuotare, ha preferito chiamare la polizia. Il pedalò in realtà non stava affondando. Schaumburger, che non sapeva fosse un fatto normale, vedendo l’acqua, era solo stato preso dal panico.
Francesco Lena
AVREMO MAI IN ITALIA DELLE REALI E CONCRETE POLITICHE DI SVILUPPO? I dati, come al solito, sono quelli che sono: nuovo balzo in avanti per l’inflazione nei Paesi della zona dell’euro. Secondo la stima flash di Eurostat, nel mese di aprile è salita al 2,8% contro il 2,7% di marzo. E in Italia?
L’IMMAGINE
Da noi il tasso d’inflazione ad aprile è salito al 2,6%, dal 2,5% di marzo. Appena meglio va sul fronte dell’occupazione: a marzo gli occupati sono 22.977 milioni, +111mila, ovvero lo 0,5 per cento in più, rispetto al mese precedente. Il dato è in crescita anche su base annua, +141 mila, +0,6 per cento, e riguarda sia gli uomini e sia, soprattutto, le donne. Sale dunque il tasso di occupazione, pari al 57,1 per cento, +0,3 punti percentuali sia livello congiunturale sia a livello tendenziale. Nota stonata è però anche l’aumento del numero dei disoccupati (pari a 2.071 mila), +2 per cento, ma solo rispetto a febbraio: a fronte di marzo 2010 infatti calano del 2,5 per cento (-53 mila unità). Dopo la lieve flessione di febbraio il tasso di disoccupazione risale di un decimo di punto e si attesta all’8,3 per cento. Su base annua si registra invece una diminuzione di 0,2 punti percentuali. In salita il tasso di disoccupazione giovanile, +0,3 punti percentuali, al 28,6 per cento. Sul fronte degli inattivi, a marzo diminuiscono dello 0,8 per cento (-114 mila unità) rispetto al mese precedente, portando il tasso di inattività al 37,7 per cento. Come al solito, in modo particolare da noi, sono i giovani a vedersela peggio: nel mese scorso il tasso di disoccupazione tra i 15 e i 24 anni si è attestato al 28,6%, in aumento dello 0,3% rispetto a febbraio e dell’1,3% rispetto al marzo del 2010. Quando, se è lecito chiederlo, potremo aspettarci qualcosa di davvero innovativo per i nostri ragazzi? Quando potremo finalmente avere delle reali e concrete politiche di sviluppo?
Lettera firmata
1 metro e 80 (voglia di smettere!) La thailandese Malee Duangdee, 1,85 metri, è considerata ufficialmente la teenager più alta del mondo. Durante l’infanzia, i medici scoprirono che la sua crescita anomala era dovuta a un tumore al cervello che, premendo su un nervo, le causa uno sbalzo ormonale. Per tenere sotto controllo lo sviluppo, si sottopone a iniezioni da 2.000 $
BERLUSCONI AFFOSSA IL PAESE, DOBBIAMO SUBITO ANDARE ALLE URNE La questione libica è solo l’ultimo dei problemi di questo governo. È ormai sotto gli occhi di tutti che l’Italia sta continuando ad andare a rotoli per colpa di Berlusconi. Il voto è fondamentale.
Paola Mainetti
pagina 26 • 30 aprile 2011
grandangolo Tutti i nomi dell’anti-presidente per le prossime elezioni
A.A.A. candidato repubblicano cercasi per Usa 2012 L’ultimo a presentarsi è stato Donald Trump, ma raccoglie meno del 10% dei consensi. Mentre Sarah Palin ancora non scioglie le sue riserve. La verità è che il Grand Old Party è in seria difficoltà a trovare il nome giusto da opporre ad Obama e per ora tutti si lanciano nella mischia. E intanto l’outsider Paul Ryan continua (nell’ombra) la sua scalata... di Anna Camaiti Hostert davvero un gran brutto affare per i Repubblicani non avere candidati forti da opporre ad Obama nelle prossime elezioni presidenziali del 2012. Sebbene il sostegno popolare al presidente sia sceso del 7% da gennaio, Obama non sembra, almeno per il momento, avere nulla da temere. E non aiuta i repubblicani la discesa in lizza del magnate un po’ sbruffone Donald Trump, il quale ha fatto della dimostrazione che Obama non era americano il cavallo di battaglia della sua prossima campagna elettorale. Una bolla che si è sgonfiata prestissimo, non appena Obama ha esposto in pubblico il certificato di nascita dimostrando la sua cosiddetta americanità; adesso è proprio ufficiale: il presidente è nato alle Hawaii da madre single. Trump ha tuttavia dichiarato che ha vinto perché ha costretto il presidente a scendere sul suo terreno e finalmente a fare chiarezza su una cosa che nessuno era mai riuscito a provare con certezza. Big deal! (Alla faccia del grande risultato!) qualcuno ha commentato a proposito di tale iniziativa, ironizzando sul fatto che il paese ha ben altri problemi da risolvere. Tuttavia adesso è il magnate americano, più noto al grande pubblico per essere il conduttore di alcuni reality show di successo in televisione, a trovarsi nei guai. Infatti non sembra rispondere alla sfida che alcuni giorni fa in un’ intervista a George Stafanopulos, noto opinionista liberal, egli stesso ha
È
lanciato: cioè quella che alla presentazione del certificato di nascita di Obama avrebbe reso nota la sua dichiarazione dei redditi. Adesso invece sembra temporeggiare, malgrado il giornalista lo incalzi quasi quotidianamente. E non sembra andare meglio con gli altri candidati. Non si avverte affatto nell’arena politica la presenza repubblicana in vista delle prossime presidenziali. Anche la stampa dà interpretazioni
I nomi certo non mancano. Alcuni sono sconosciuti ma pronti a scendere in campo, come Gary Johnson o Fred Karger piuttosto controverse, ma tutte concordi nel registrare un vuoto. Così a fronte di un Los Angeles Times ottimista, ma che lamenta già essere troppo tardi: Gop Presidential Contest Begins to Warm Up (La sfida del partito repubblicano - il cui soprannome è Gop: Grand Old Party) per le elezioni presidenziali comincia a scaldarsi” il New York Times titola: Lots of Talk but Still No 2012 Re-
publican Candidates (Si fa un gran parlare, ma ancora non ci sono candidati repubblicani per il 2012). Non sono certo i nomi che mancano. Alcuni sono sconosciuti e hanno già reso nota la loro volontà di presentarsi come Gary Johnson ex governatore del New Messico o Fred Karger o Jimmy Mc Millan, altri invece più noti stanno ancora meditando se candidarsi come Newt Gingrich, ex controverso presidente della Camera, o il miliardario Ron Paul deputato del Texas.
O i giovani Tim Pawlenty ex governatore del Minnesota, Rick Santorum senatore della Pennsylvania e Paul Ryan, il deputato repubblicano quarantenne del Wisconsin. Altri ancora hanno dichiarato che si presenteranno ma non hanno ancora dato l’annuncio ufficiale come Rudy Giuliani il famoso ex sindaco di New York, Mitt Romney ex governatore del Massachussets, Mike Huckabee ex governatore dell’Arkansas, Mitch Daniels popolare governatore dell’Indiana, Sarah Palin ex governatrice dell’Alaska e Jon Huntsmann attuale ambasciatore in Cina. Oltre a Trump alcuni altri candidati sono arcinoti sia all’elettorato che alla stampa come Mitt Romney, Mike Huckabee o Sarah Palin e potrebbero rappresentare per Obama l’unico pericolo pur non potendo certo competere con il carisma, per quanto appannato, del presidente. Nonostante serpeggi nel
paese un pessimismo rafforzato soprattutto dalla crisi economica e dalla crescita dei prezzi del petrolio, Obama rimane ancora in netto vantaggio rispetto ai rappresentanti del Gop. Dentro il partito repubblicano è diffuso lo scontento con solo un 43% dei suoi iscritti che approva la nomina dei candidati presidenziali contro un 65% di quattro anni fa. I candidati più famosi non superano singolarmente il 10%: così Trump ha solo l’8%, Huckabee il 6%, l’ex governatrice dell’Alaska e candidata alla vicepresidenza nelle scorse elezioni Sarah Palin il 5% mentre gli altri sono sotto il 2% o anche meno. E vale la pena di ricordare che nel 2007 di questi tempi tutti i candidati erano già in lizza escluso John Mc Cain che si candidò solo una settimana più tardi. Se Trump raccoglie consensi nei confronti dei repubblicani più benestanti e disposti ad appoggiare anche certi obiettivi più controversi e stravaganti del magnate come la sfida sul certificato di nascita di Obama, questo non è sufficiente a scalfire il consenso degli elettori nei confronti del presidente. Trump oltre alla sua notorietà televisiva che fa appello ai ricchi e potenti, ma anche ai ceti più poveri che sperano di salire nella scala sociale, si serve dell’aiuto dei Tea party che sono particolarmente prevenuti contro Obama. L’avere una loro candidata, la deputata Michelle Bachmann che sembra guadagnare terreno e popolarità specie in
30 aprile 2011 • pagina 27
Un sondaggio in Pennsylvania dice che il presidente potrebbe perdere lo Stato chiave
E intanto Barack scalda i motori, punta sulla sicurezza e si affida a Facebook di Martha Nunziata un Barack Obama che gioca la sua campagna elettorale in difesa e qualche volta si accontenta anche della panchina: «Sono americano. Sono nato alle Hawaii, il 4 agosto 1961, all’Ospedale Kapiolani di Honolulu. Ora però basta con queste fesserie, ho cose più importanti da fare». Queste le parole di un Obama costretto, in qualche modo, due giorni fa, a giustificarsi per le voci ormai insistenti che circolavano su Internet, nelle televisioni filo-repubblicane e riprese anche dal New York Times sulle sue origini non americane. La Casa Bianca ha dovuto diffondere, online, la copia del suo certificato di nascita long form, per zittire i cosiddetti ”birthers”, quelli ancora convinti che Obama fosse nato in Kenya e per questo non sarebbe stato idoneo a esercitare la funzione di presidente degli Stati Uniti. Il primo nella lista della teoria del complotto è Donald Trump, il miliardario, un po’ estremista e futuro avversario per la corsa alla Casa Bianca. Fioccano intanto i sondaggi, pro e contro Obama: il 53 per cento degli elettori della Pennsylvania ne disapprova l’operato, secondo quanto pubblicato dalla Quinnipiac University, i cui risultati sono stati diffusi ieri dalla Cnn. Solo il 42 per cento approva il modo in cui sta lavorando. E il parere degli indipendenti risulterà decisivo nel momento delle elezioni.
È
Iowa, da dove proviene, e dove i conservatori sociali e religiosi la fanno da padroni, non impedisce loro di appoggiare anche lo stravagante miliardario. Romney invece sembra essere più popolare tra i ceti conservatori più colti e moderati (29% tra coloro che hanno frequentato il college rispetto all’11% di quelli senza diploma), un handicap nel primo turno delle primarie dove invece sembrano avere successo i conservatori più estremi. Il suo asso nella manica rimane tuttavia, come nelle precedenti elezioni, il fatto che essendo un mormone si accaparrerà il consenso
Della vecchia guardia in pole position ci sono: Mitt Romney, Mike Huckabee e l’ex sindaco Rudy Giuliani dei gruppi religiosi protestanti, evangelici e non. Huckabee, il candidato repubblicano che ebbe più successo nelle primarie del 2008 sembra adesso essere in testa anche se ci sono perplessità su una sua vittoria. Ma nessuno sembra essere il grande favorito e soprattutto nessuno sembra davvero poter competere con Obama. Le difficoltà di una campagna presidenziale e i gli alti costi personali sono spesso tra le ragioni più citate da molti che hanno declinato l’invito a presentarsi. L’altro motivo è proprio quello che si cominciano a vedere timidi segni di una ripresa economica soprattutto nei sondaggi degli exit poll, anche se non sono percepiti ancora dalla maggioranza della popolazione. Questo assieme al fatto che molti elettori repubblicani sono insoddisfatti dei candidati presentati, rende le nomination per il 2012 meno allettanti rispetto
al passato. Così divengono molto popolari personaggi come Chris Christie, governatore del New Jersey e Rick Perry del Texas, i quali hanno però affermato assieme al neo senatore della Florida Marco Rubio e all’ex governatore della Florida e fratello di George Bush, Jeb, che non si presenteranno. Palin, che assieme a Mike Huckabee e Mitch Daniels sembra avere le più alta percentuale di gradimento dentro il partito, ha affermato che i candidati dovranno cominciare la loro campagna elettorale al più presto, anche se per quanto la riguarda le sue scelte non sono stare ancora rese ufficiali.
La voce più autorevole all’interno del partito, specialmente in tema di politica estera dove nessuno sembra avere le credenziali, seppure questo sia tradizionalmente un cavallo di battaglia dei repubblicani, rimane ancora quella di John Mc Cain, il candidato presidenziale del 2008 che sfidò e perse contro Obama. Il senatore ha già annunciato che non si presenterà, mentre l’unico che potrebbe avere qualcosa da dire in materia e che potrebbe avere qualche chance di successo è Jon Huntsman, attuale ambasciatore a Pechino. Anche a detta di alcuni repubblicani, Obama non sembra avere concorrenti almeno per il momento e se per lui il campo è sgombro da rivali di spessore, dentro il partito repubblicano mancano candidati forti attorno a cui la maggioranza del partito possa coalizzarsi. «Obama sarà un candidato formidabile e la gente sta cominciando a chiedersi quanto davvero vulnerabile possa essere» ha affermato Bob Bestani, un veterano dell’attivismo repubblicano e consigliere di Mitt Romney in New Hampshire, lasciando così trapelare le elevate possibilità di successo del presidente. Obama quindi per il momento trovando il campo sgombro potrà concentrarsi sia sulla nomina di una commissione per la rielezione che sul fund raising per la sua campagna elettorale. E come ormai è noto su quest’ultimo obiettivo il presidente americano è davvero imbattibile.
Obama, nel dare il via alla campagna per il secondo mandato, ha iniziato con un inedito colloquio con il fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, nella sede dell’azienda di Palo Alto, in California. Ed è stato trasmesso in diretta proprio sul social network che conta oltre mezzo miliardo di utenti nel mondo. Il Presidente ha risposto alle domande di Zuckerberg, per l’occasione in cravatta, ma senza rinunciare a jeans e sneakers d’ordinanza, e tra gli argomenti toccati a sostegno della campagna sono stati: la riduzione del deficit pubblico, la riforma della sanità e i suoi costi, la necessità di produrre energia rinnovabile e il consumo del greggio in modo intelligente, e soprattutto l’istruzione, necessaria per dare un futuro migliore ai figli. Obama, infatti, ha scritto un secondo libro di favole dedicato alle figlie Of thee I sing: a letter to my
daughters, scritto con la moglie Michelle. «Barack Obama vincerà facilmente nel 2012». Questa, invece, è l’opinione di molti analisti e opinionisti americani, tra cui Ralph Nader, voce dell’America di sinistra. Una previsione resa più semplice dal fatto che tra i candidati repubblicani non è ancora emerso un profilo forte, capace di competere alla pari con Obama. È il caso Paul Ryan, uno dei repubblicani più favoriti, considerato un Robin Hood «al contrario» secondo Nader, e che farà «infuriare» gli americani per il piano della commissione Bilancio della Camera che prevede tagli di 6.000 miliardi di dollari di spese in dieci anni. E poi c’è da considerare anche che Obama non avrà probabilmente rivali interni alle primarie del suo partito.
Tutto sembra giocare a suo favore, anche se è vero che, sondaggi a parte, gli americani, dopo l’iniziale momento di grande euforia, sono molto scontenti del suo operato e delle tante promesse mancate. Prima tra tutte, in questo momento, è quella del graduale ritiro dell’esercito dall’Afghanistan, previsto a luglio del 2011, una scelta che comporterebbe il mancato rispetto dell’impegno del Presidente di sconfiggere definitivamente i talebani e soprattutto al Qaeda. Barack Obama, perciò, ha assoluto bisogno di essere circondato da collaboratori fidatissimi. Ecco perché, dopo la conferma in blocco dello staff elettorale che lo aveva condotto alla vittoria tre anni fa, ha nominato il direttore della Cia, Leon Panetta, segretario della Difesa, affidando, contemporaneamente, al generale David Petraeus, comandante della guerra in Afghanistan, l’agenzia d’intelligence. Il cambiamento conferma l’esistenza di «un forte team integrato» fra militari e intelligence, per intensificare le attività di sicurezza nazionale e il rafforzamento delle guerre segrete, che comporterà tagli più decisivi alla spesa del Pentagono. Affidare al generale più popolare d’America, quale è Petraeus, le redini della Cia significa potenziare proprio la capacità di usare satelliti, droni e 007 per braccare ovunque i nemici dell’America.
quadrante
pagina 28 • 30 aprile 2011
Strage Marrakech «è stata al Qaeda» MARRAKECH. Il Marocco è sotto shock per l’attentato compiuto ieri a Marrakech, nella centrale piazza Jemaa el-Fna, che ha causato la morte di 16 persone. Le indagini per accertare i responsabili dell’azione terroristica non escludono nessuna pista, compresa quella di al Qaeda, ha spiegato il ministro della comunicazione e portavoce del governo Khalid Naciri. In una conferenza stampa rilanciata dai media locali, lo stesso ministro ha sottolineato che il gesto «non mette in discussione» il processo di riforme avviato a marzo, quando il re Mohammed VI, sollecitato da movimenti di piazza analoghi a quelli registrati in Egitto e Tunisia, prometteva interventi sulla costituzione, dando più poteri al primo ministro.
Perù: la rimonta di Keiko Fujimori
L’Empire State Building fa 80 anni
LIMA. Si assottiglia il divario tra
NEW YORK. A 80 anni suonati è
i due candidati alla presidenza del Perù. Nel giro di una settimana il vantaggio che il leader della sinistra, Ollanta Humala, esibiva sulla conservatrice Keiko Fujimori è passato dal 6% assegnato dalla Ipsos, al 3,8% della Cpi, al punto e mezzo registrato dalla Datum. Il sondaggio certifica il definitivo riequilibrio delle forze in campo e assegna una volta di più agli indecisi (attorno al 10%) la responsabilità di sbloccare la gara per la successione ad Alan Garcia, che si terrà il prossimo 5 giugno. Al primo turno Humala, da tempo considerato affine alla sinistra bolivariana, aveva ottenuto il 31,69% dei voti. Keiko, figlia dell’ex presidente pluricondannato Alberto, si era fermata al 23,55%
ancora il grattacielo più alto di New York, l’immagine inalienabile della Grande Mela, l’icona della architettura Decò del Ventunesimo secolo preferita dai registi di Hollywood come dai turisti di tutto il mondo: simbolo dell’ingenuità e dell’innovazione americane degli anni Trenta, l’Empire State Building oggi, giorno del suo compleanno, è anche un palazzo tutto verde, fruitore al 100% di energia rinnovabile. Ottuagenario quasi per caso, l’ Empire - come lo chiamavano le migliaia di operai emigranti soprattutto dall’Europa che lo costruirono mattone su mattone nel 1930 - ha subito negli ultimi due anni un ammodernamento quasi completo: con un budget di 550 milioni di dollari!
La questione armena vista dal politologo Ahmet Insel, professore all’Università di Galatasaray e celebre editore di Pamuk
Ankara e il genocidio che non c’è Nonostante le promesse aperture, il giorno della pace è lontano di Nicola Accardo enocidio per alcuni, catastrofe umanitaria per altri, i crimini subiti dalla popolazione cristiana armena in Turchia nel 1915 sono stati commemorati solennemente a Istanbul e per la prima volta ad Ankara e in diverse città turche, in una domenica di Pasqua molto speciale. Il tabù è stato infranto per il secondo anno consecutivo, con una nuova risposta collettiva all’appello al perdono lanciato da diversi intellettuali turchi, tra cui il politologo Ahmet Insel, professore all’Università di Galatasaray e celebre editore di Orhan Pamuk: «Un modo di chiedere scusa per il presente, non per il passato di cui non siamo responsabili», spiega a Liberal Insel, «una tappa fondamentale nel processo di avvicinamento tra due popoli», ancora troppo lontani non a causa del negazionismo, che è «minoritario», ma a causa di una «sostanziale ignoranza della storia da parte dei cittadini turchi». Intanto la Turchia ha cominciato a smantellare il monumento dell’amicizia al confine tra i due paesi, e il noto pittore e difensore della laicità Bedri Baykam è stato accoltellato lunedì (senza conseguenze gravi), per aver criticato apertamente la decisione, accostandola alla rimozione dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan, da parte dei talebani. Professor Insel, a che punto sono i negoziati tra i due paesi? Sono a un punto morto. Dopo la firma dell’accordo del 2009 i contatti sono congelati a causa della reazione violenta degli azeri, che la Turchia probabilmente non si aspettava. Il governo di Ankara pensava che, come previsto dal processo di Minsk sul NagornoKarabakh (lo stato autoproclamatosi indipendente nel 1991 in Azerbaigian e occupato militarmente dagli armeni, ndr), ci sarebbero state maggiori apertura da parte armena, con il ritiro delle truppe occupanti da almeno due provincie su sette. Siccome non è successo niente le relazioni turco-armene sono bloccate.
G
Dopo la firma dell’accordo del 2009 i negozoati fra Istanbul e Erevan sono congelati. Genocidio per alcuni, catastrofe umanitaria per altri, i crimini subiti dalla popolazione cristiana armena in Turchia nel 1915 sono appena stati ricordati
Quanto sono indispensabili per favorire una riconciliazione tra turchi e armeni di Turchia? Lo sono certamente perché se si ristabiliscono le relazioni diplomatiche i cittadini dei due paesi potranno circolare più liberamente: oggi ci sono voli diretti tra Istanbul ed Erevan, ma la frontiera terrestre è chiusa. In Turchia lavorano clandestinamente 15-20.000 armeni (secondo il governo turco 40.000), ma in caso di apertura delle frontiere ce ne saranno molti di più, con un conseguente avvicinamento tra le due popolazioni. Bisogna inoltre autorizzare l’iscrizione dei cittadini armeni alle scuole armene in Turchia (presenti ormai solamente a Istanbul, ndr.), ora non possibile in quanto privi del permesso di soggiorno. Infine la presenza di nuovi
armeni farebbe rivivere le istituzioni armene in Turchia, che sono in declino per mancanza di popolazione. Sono troppo pochi i viaggi di andata e ritorno tra le due società civili, bisogna aumentare gli scambi. Poi c’è la questione interna: l’appello al perdono degli intellettuali turchi parla di genocidio, catastrofe o crimini? Noi parliamo di crimini umanitari, perché è questo il capo di accusa che pendeva contro i tre sotto-prefetti ottomani che sono stati giustiziati dai tribunali nel 1915. Quei processi si fermarono durante l’occupazione di Istanbul da parte degli Alleati, perciò la storia deve ricominciare dal punto in cui è stata fermata e la Turchia ha il dovere di riconoscere quei crimini. L’anno scor-
so per le commemorazioni utilizzammo il termine di “grande catastrofe” (traducendo la parola armena che indica i fatti del 1915, quando tra sterminio, deportazioni, emigrazione forzata, conversioni, adozioni e matrimoni coatti la popolazione armena cominciò a sparire dalla penisola anatolica, ndr.). Oggi invece pensiamo che non sia necessario lanciare un dibattito sulla denominazione: per chiedere alla gente di riconoscere un fatto storico è dapprima necessario spiegare e far conoscere quel che è successo. Anche quest’anno la commemorazione Piazza Taksim è stata disturbata dai contestatori che urlavano durante i trenta minuti di raccoglimento. Come si situano politicamente?
30 aprile 2011 • pagina 29
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Tornado italiani in azione e Gheddafi bombarda Misurata
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio
MISURATA. Due Tornado italiani armati di bombe hanno compiuto ieri una nuova missione sulla Libia. I due aerei, come quelli entrati in azione giovedì, sono decollati dall’aeroporto di Trapani Birgi e sono stati scortati da due caccia F-16. Nel frattempo è proseguita l’offensiva di Tripoli su Misurata ed è partita la missione umanitaria della Farnesina. In una conferenza stampa da Napoli Rob Weighill, sottocapo di Stato Maggiore dell’operazione “Unified Protector” condotta in Libia, riferendosi agli ultimi giorni, ha spiegato che gli attacchi della Nato sulla Libia a cui ha partecipato anche l’Italia «sono andati a buon fine» e che la Nato sta «disarticolando le forze lealiste». Ma sul terreno gli uomini del regime di Gheddafi stanno proseguendo i bombardamenti sulla città di Misurata che è allo stremo perché senz’acqua e con la rete fognaria danneggiata. Nuovi combattimenti sono scoppiati ieri anche
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
nella città di Dehiba, alla frontiera tra Tunisia e Libia. Stando a quanto riferito ad al Jazeera da diversi testimoni, intensi scontri a fuoco sono in corso nel centro della città, che hanno causato la morte di una donna e il ferimento di un ragazzo. Infine, sempre ieri ha preso il via una nuova operazione umanitaria a favore della popolazione libica, promossa dalla Cooperazione allo sviluppo italiana del ministero degli Esteri.
Da sinistra, Ahmet Insel; Kars, la statua dell’amicizia turco-armena invisa a Tayyp Erdogan (ultima foto a destra)
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
Sono semplicemente nazionalisti, e sono molto pochi. Per noi turchi, per la nostra esperienza, che 50 persone gridino “Abbasso i traditori”non rappresenta davvero nulla, visto che nel 2005, quando organizzammo la prima conferenza sugli armeni ottomani, lo Stato stesso cercò di impedirne lo svolgimento. È importante per noi che per due anni di seguito le manifestazioni si siano svolte senza scontri coi nazionalisti (centinaia di poliziotti formavano un cordone umano per separare le due zone della piazza, ndr.), però non possiamo negare agli altri il diritto di organizzare una contromanifestazione. È normale che in Turchia la maggioranza dei cittadini si oppongano alla nostra iniziativa: ignorano completamente quel che è successo nel 1915, non c’è sui libri di scuola. Poi c’è una minoranza che conosce, è quindi va qualificata come negazionista. Gli 80.000 armeni di Istanbul sono timidi nei confronti della piazza. La società civile turca finisce per compensare la loro mancanza d’iniziativa? Non vogliamo assolutamente sostituirci agli armeni e se si è squarciato il velo sul 1915 è grazie al nostro amico Hrant Dink (il direttore del quotidiano armeno Agos, assassinato nel 2007 da giovani estremisti, con la presunta partecipazione di militari golpisti ora sotto processo, ndr.). È normale che gli armeni abbiano paura, la presenza massiccia di polizia
«I cittadini ignorano completamente quel che è successo nel 1915, perché nessun libro di scuola ne parla» prova che si tratta di un evento straordinario. Ma sappiamo tutti che ogni armeno si raccoglie nel dolore privato il 24 aprile di ogni anno. E poi non manifestiamo solo per gli armeni, ma anche per noi stessi: il nostro obiettivo è quello di liberarci di un peso della storia. Quanto incide la questione armena nel processo di adesione, ormai impantanato, della Turchia all’Unione Europea? Non è certamente l’ostacolo fondamentale, è questo certamente non piace ai nostri amici armeni che cercano di portare acqua al loro mulino. Oggi l’Europa non esige, da parte della Turchia, il riconoscimento del genocidio. La Spagna non lo ha riconosciuto, ma per questo non è fuori dall’Ue. Il problema chiave è il conflitto cipriota, oltre alla mancanza
di volontà di alcuni leader nazionali come Nicolas Sarkozy. Quanto è migliorato in questi anni l’atteggiamento dello Stato nei confronti delle minoranze? Ai grandi progressi nei confronti degli armeni non ne corrispondono altrettanti nella questione curda. Ogni mese muoiono una decina di persone, per mano della guerriglia o dell’esercito turco, senza che i media internazionali rivolgano la dovuta attenzione. È questa la nostra vera priorità, più importante della questione armena. Si parla della democrazia turca come modello per i paesi arabi che si risvegliano dopo la rivoluzione. È d’accordo? La Turchia può essere un’ispirazione, non un modello, per come un partito di origine islamica può applicare la democrazia senza che l’islam sia associato solamente alla sharia. Io sono all’opposizione ma non provo odio nei confronti dell’Akp (il partito di Erdogan al potere, ndr.), penso che abbia fatto cose positive nel processo di democratizzazione in Turchia. Il loro esempio è questo: alla stregua della democrazia cristiana può esistere anche la democrazia musulmana. Nel bilanciamento dei poteri il peso dei militari deve essere limitato, e nel caso turco i militari perdono sempre di più potere. È questo l’esempio da seguire in Siria, Egitto, Tunisia e Algeria.
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
società
pagina 30 • 30 aprile 2011
Il Royal Wedding è l’evento mediatico record con un’audience di due miliardi di spettatori, mentre più di un milione di persone ha invaso le strade di Londra per seguirlo dal vivo
L’ultima favola reale Per due ore il mondo si ferma ad ammirare il fasto e l’antica ritualità del matrimonio tra William e Kate di Franco Insardà
ROMA. Il prezzo (pagato dai sudditi) è salato. Trenta milioni di sterline, quelli che perde un made in Britain sempre più caracollante dopo essersi visto imporre il ponte di una settimana. Ma vuoi mettere mezza America, la colonia ribelle, che si sveglia all’alba per omaggiare la famiglia reale; le ragazzine che tornano a sognare il principe azzurro; Londra che per una giornata torna a essere la Swingin London, la capitale più cool del Paese, dando un calcio alla crisi, alla fine dell’economia leggera e della finanza facile, al buco delle banche da 1.600 miliardi di euro che nemmeno l’ultimo conflitto mondiale aveva lasciato. Nolente o volente, alle 11 ora di Greenwich, la popolazione della Terra ha dovuto fare i conti con il matrimonio tra William e Kate Middleton, da ieri duca e duchessa di Cambridge. Una cerimonia con
1900 invitati, tra famiglie reali e star di ogni tipo, che ha tenuto bloccati davanti al video oltre due miliardi di persone, mandando in tilt molti siti internet. Ha fatto arrivare a Londra 600mila turisti, molti accampati da mercoledì fuori dall’abbazia di Westminster, per non perdersi il matrimonio. Più di un milione di persone, ha invaso le strade di Londra per seguire l’evento dal vivo e circa mezzo milione si è riversata lungo il Mall, il viale alberato che porta a Buckingham Palace, per catturare un istante del bacio dal balcone degli sposi. Secondo le prime stime, il “royal wedding” potrebbe diventare l’evento mediatico più seguito nella storia.
Una cerimonia che, come aveva preannunciato nella prima intervista dopo il fidanzamento, il principe William ha fatto in modo che sua madre Diana fosse in qualche modo presente. Sono stati, infatti, due gli omaggi resi dal figlio alla principessa del popolo morta quando lui aveva 15 anni. L’inno che aveva chiuso il funerale della madre ha aperto il rito nuziale. E tra gli ospiti al matrimonio c’era Elton John, il cantante amico di Lady Di e alleato nelle sue campagne contro l’Aids che aveva cantato “Candle in the Wind”alle esequie proprio a Westminster Abbey. Tra gli invitati di William e Kate
L’evento è stato seguito con dirette televisive, twitter, facebook e un canale ufficiale di You Tube sono mancati all’appello numerosi protagonisti politici della scena internazionale, tra cui Nicolas Sarkozy e consorte, i coniugi Obama, gli ex primi ministri laburisti Tony Blair e Gordon Brown. Un matrimonio preparato nei minimi particolari che si è svolto nel pieno rispetto del cerimoniale tra colori pastello, cappelli di varie foggie, tra i quali si è distinto quello della signora Beckam. I bookmakers inglesi non hanno sba-
Istantanee da quello che è stato definito il matrimonio del Secolo. In senso orario, da qui sopra, gli sposi, William e Kate all’altare, una veduta d’insieme della Cattedrale di Westminster, Carlo e Camilla e il principe Henry (testimone dello sposo), Elthon John e la regina Elisabetta II, i coniugi Beckam e i coniugi Cameron, Alberto di Monaco e gli sposi in carrozza gliato neanche sul colore dell’abito della regina Elisabetta: il giallo, dato per favorito anche se per gli altri matrimoni aveva sempre preferito l’azzurro. L’unione tra i due giovani rampolli è stato preceduto da film due film, un fumetto, una carissima bambola (come già aveva fatto con Lady D) che imita le fattezze e l’abbigliamento di Kate. C’è poi tutta la serie di gadget nuziali: strofinacci da cucina, piatti, tazze e porcellane varie che recano l’immagine della coppia, la birra ”Kiss me Kate”, l’imitazione dell’abito di fidanzamento di lei (esaurito in un’ora), la nail-art e i lussuosi profilattici ”Gioielli della Corona” (Crown Jewels Condoms). E dall’Italia non sono mancati gli omaggi agli sposi reali. La città di Sulmona ha deciso di regalare dei confetti personalizzati, realizzati grazie alla collaborazione dell’Associazione di Ricerca e sviluppo - Ars di Sulmona e l’Ambasciata d’Italia a Londra. Mentre due musicisti calabresi, i fratelli Maurizio e Piero Scicchitano, hanno composto un brano per il matrimonio che si chiama “Loving”.
E così a distanza di 30 anni dal matrimonio tra Carlo e Diana, visto da 750 milioni di persone distribuite in 74 nazioni diverse, la cerimonia di ieri grazie a internet ha collezionato cifre da Gui-
società
30 aprile 2011 • pagina 31
il governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, ha inviato agli sposi tramite Twitter. Mentre sono state seguite in diretta tv le nozze del principe William e Catherine Middletoni nella biblioteca del British Institute di Firenze, dove la principessa ha studiato nel 2000. Riuniti nella “Sala Ferragamo” di Palazzo Lanfredini, oltre 100 invitati (membri della comunità inglese residente a Firenze e personalità cittadine) hanno assistito alla diretta televisiva mondiale del matrimonio del secolo mandata in onda dalla Bbc. Kate Middleton nel 2000 trascorse tre mesi a Firenze seguendo i corsi di lingua italiana e storia dell’arte dell’istituto britannico fondato a Firenze nel 1917. In quel periodo volle approfondire i suoi studi nella città durante il suo “Gap Year”, l’anno sabbatico che molti studenti inglesi decidono di dedicare ai viaggi studio. Dopo i primi contatti con l’istituto avvenuti telefonicamente, la neo principessa si iscrisse ad un corso di italiano avanzato, seguendo inoltre lezioni di storia dell’arte rinascimentale.
ness. Ma per Ugo Volli, professore di Semiotica e Filosofia della comunicazione all’università di Torino, i tempi sono cambiati e «rispetto a trent’anni fa ritengo che questo matrimonio sia stato vissuto diversamente, con meno trasporto, ovviamente bisogna vedere i dati di ascolto. Ho la sensazione che i mezzi di comunicazione ci abbiano un po’ marciato a renderlo a tutti i costi un evento. Naturalmente è sempre piacevole avere questo tipo di notizie, essendo facile l’identificazione con i protagonisti». Soprattutto con Kate Middleton, ammirata e invidiata da tante coetanee, un fenomeno, secondo Volli «normale e perché antichissima, non a caso da sempre si parla di principe azzurro ed è il sogno di moltissime ragazze. Il problema è che nel mondo contemporaneo in qualche modo si sono imposti altri modelli, rendendo in qualche modo antica questa favola inglese».
Eppure quello di ieri è stato battezzato come il primo matrimonio digitale, con l’intera cerimonia trasmessa in live streaming su un canale apposito di YouTube, come ha comunicato la Casa reale, con tanto di possibilità di commentare l’evento, firmare un ”Libro degli ospiti” virtuale e caricare un videomessaggio di auguri.YouTube e altre piattaforme digitali hanno offerto la possibilità di far partecipare tutti alle nozze reali dell’anno direttamente dallo schermo di casa propria. E proprio grazie alla tecnologia digitale
Ma il professor Ugo Volli insiste sulle differenze rispetto al secolo scorso: «Le prime nozze che ebbero una grande eco furono quelle di Elisabetta II, alle quali seguirono quelle di Ranieri di Monaco e Grace Kelly, fino al matrimonio di Carlo e Diana. Progressivamente però l’interesse è mutato perché ci sono più occasioni e concorrenti rispetto a un evento come quello delle nozze reali: Uno dei motivi è anche legato al minore prestigio delle case reali, spesso intaccato dai vari scandali». «L’idea, cioè, che le fanciulle si realizzino attraverso il matrimonio è sempre meno nello spirito dei tempi. Oggi i modelli che si impongono possono essere sia quello delle veline, sia quello della donna in carriera, volendo fare due esempi opposti. Tutto questo suppone una condizione femminile meno passiva, più emancipata, dovuta a una maggiore pluralità di formazione e a una maggiore determinazione da parte delle
Ugo Volli: «L’idea che le ragazze si realizzino attraverso il matrimonio è sempre meno nello spirito dei tempi» donne, nel bene e nel male, rispetto alla loro affermazione nella società. In gioco c’è il cambiamento in questi anni della condizione femminile. L’idea che lo scopo della vita sia quello di fare delle nozze reali, almeno per quanto riguarda la mia esperienza quotidiana con i ragazzi, non è così diffusa. Durante le nozze tra William e Kate, facendo lezione a duecento studenti, non ho avuto la sensazione che la loro attenzione fosse focalizzata su quell’evento». Di parere diametralmente opposto il principe Amedeo d’Aosta, cugino di secondo grado del principe Carlo d’Inghilterra, che commentando all’Adnkronos il matrimonio ha detto: «Mi sembra che tutti si siano precipitati a seguire il matrimonio di William e Kate: questo dimostra che c’è un vuoto di ideali e una carenza di valori di riferimento che la gente invece cerca. Non è una questione di monarchia o di repubblica è quanto dell’importanza della forma, che non è così lontana dalla sostanza. Da noi questa sacralità si è persa molto, anche per le più alte cariche dello Stato».