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Ei fu. Siccome immobile, dato il mortal sospiro, stette la spoglia immemore orba di tanto spiro Alessandro Manzoni

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 5 MAGGIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Dopo il voto in Aula, Berlusconi a sorpresa: «Se non me lo chiedono, non mi ricandido. Il successore possibile è Tremonti»

È nato il pacibombismo

La Lega vince con una mozione-nonsense che chiede la data finale della missione militare Casini: «Con la destra tirano le bombe, con la sinistra agitano l’ulivo». E il Paese perde la faccia

Non ci teniamo a vedere quelle foto Come al solito, pur di screditare gli Usa, è nato il “partito del dubbio” che obietta sui particolari del blitz: dalle immagini alle armi agli elicotteri. E i talebani dicono: «Nessuna prova che sia morto»

CREDIBILITÀ AL MINIMO

di Errico Novi

Cominciano le (inutili) polemiche sulla fine di bin Laden

La vera scelta è tra Italia o non Italia

ROMA. C’è un doppio livello. Uno è visibile a tutti e definisce l’insostenibilità della politica italiana sulla scena internazionale: pochi minuti dopo il via libera della Camera (per soli 7 voti, 309 rispetto ai 302 richiesti) alla mozione imposta da Bossi a Berlusconi, già la Nato ci ricorda che «non è possibile fissare un termine» alle operazioni in Libia. L’altro livello pure è visibile, ma in controluce: riguarda le tensioni tutt’altro che svanite tra Lega e Pdl, con Bossi che esulta: «La Lega ha vinto, ce l’ha sempre duro». a pagina 2

di Achille Serra

È

L’imbarazzo della diplomazia dopo il voto

E oggi Frattini che cosa dirà a Hillary Clinton? Oggi a Roma il “gruppo di contatto”: il ministro costretto a nascondere le decisioni dell’Aula per evitare ulteriori problemi con Washington Enrico Singer • pagina 4

Pierre Chiartano • pagina 10

LA QUESTIONE PAKISTAN 1. L’analista americano

2. L’analista pakistano

Per chi fa il tifo Islamabad

Zardari dica la verità sul suo ruolo

di Shuja Nawaz

di Ghani Jafar

a morte di Osama ha riacceso i riflettori su una questione chiave: Islamabad è un alleato o quanto meno un partner affidabile degli Stati Uniti? La domanda è lecita, visto che da una parte sembra aver aiutato Obama a scovare il nascondiglio del capo di al Qaeda e dall’altra sembra essere stato tenuto all’oscuro del blitz . a pagina 12

uomo che per più di un decennio è stato il più ricercato del mondo, Osama bin Laden, ha costretto gli americani a compiere una folle corsa nel tempo e nello spazio soltanto per localizzarlo. E questo è avvenuto non in un posto qualunque ma in Pakistan. Non in una cittadina qualunque ma ad Abbottabad, città militare. a pagina 12

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Ex Bertone: il sindacato si spacca tra base e vertice

L’ammutinamento della Fiom di Gianfranco Polillo a vicenda della ex Bertone, con un voto quasi bulgaro (l’87,6 per cento) a favore della proposta di Marchionne, dimostra la grande responsabilità della classe operaia torinese. La cosa è ancor più rilevante se si considera che, almeno sulla carta, la Fiom poteva vantare l’assoluta maggioranza degli iscritti (65 per cento delle tessere) nelle proprie fila. Il voto, pertanto, non era scontato. Anzi la paura della vigilia era esattamente l’opposto: ripetere quanto già era avvenuto a Mirafiori e Pomigliano d’Arco, dove le forze più responsabili del movimento sindacale avevano vinto; ma solo di stretta misura. Il coup de théâtre si è verificato proprio in seno al sindacato di Landini. «I caporali hanno sconfitto i generali».

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

la volta della Libia. Il gioco delle parti messo in scena al solo scopo di farsi beffe degli elettori e guadagnare consenso è concentrato stavolta sulla crisi libica e sul nostro delicato intervento militare nel Paese del Colonnello, ma anche questa volta, si tratta soltanto di un pretesto. Ecco allora che si fa largo il balletto delle mozioni: minacce velate, poi aperture e nuovi ricatti, che poco hanno a che fare con la politica estera e soprattutto con la volontà di fortificare l’immagine internazionale del nostro Paese, così come ancor meno hanno a che fare con quella difficile guerra che sta coinvolgendo, al di là del Mediterraneo, migliaia di civili inermi. La questione centrale, infatti, non è la scelta tra guerra e pace, tra intervenire o meno in questo conflitto. segue a pagina 2

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WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il fatto I soliti 309 voti a sostegno della mozione della maggioranza. E il leader del Carroccio: «Abbiamo vinto, ce l’abbiamo duro»

Bossi comandante Nato

L’Alleanza smentisce il Senatùr. E intanto Berlusconi, a sorpresa: «Se non me lo chiedono, non mi ricandido». E poi lancia Tremonti la polemica di Errico Novi

ROMA. C’è un doppio livello. Uno è visibile a tutti e definisce l’insostenibilità della politica italiana sulla scena internazionale: pochi minuti dopo il via libera della Camera (per soli 7 voti, 309 rispetto ai 302 richiesti) alla mozione imposta da Bossi a Berlusconi, già la Nato ci ricorda che «non è possibile fissare un termine» alle operazioni in Libia. L’altro livello pure è visibile, ma in controluce: riguarda le tensioni tutt’altro che svanite tra Lega e Pdl. Tensioni attestate dalla chiosa pornografica del ministro (!) Umberto Bossi: interpellato in Transatlantico sulla diatriba tra lui e il Cavaliere, risponde che «la Lega ha vinto, ce l’ha sempre duro» («flettente», invece, per Bersani). Oxford o non Oxford, il Senatùr rivendica di aver messo in riga l’alleato. Ci sono altre evidenze. Dopo l’accordo siglato martedì a Palazzo Chigi, con l’adozione del documento leghista da parte di tutta la maggioranza, tra le fila berlusconiane si diffonde un forte malessere. «Siamo commissariati» è l’espressione più gettonata. Segno di sfiducia nella tenuta politica del premier. Il quale nel pomeriggio si abbandona anche a un cenno di resa: «Se non mi ripresento, Tremonti sarà il candidato».

Ancora una volta il governo confonde la politica con il consenso

La scelta è tra Italia e non Italia di Achille Serra segue dalla prima No, il problema è capire che questo balletto è l’ennesima farsa politica di cui siamo protagonisti agli occhi del mondo e chiedersi a questo punto che tipo di Paese vogliamo essere. Chiedersi se davvero vogliamo assumere una posizione credibile a livello internazionale o vogliamo arrenderci di fronte a una politica che fa dell’arte della messinscena il suo vessillo in cambio di consenso.

La mozione libica è stata soltanto l’ennesima recita della Lega per mostrare i muscoli di fronte al proprio elettorato e a un governo ricattato e ricattabile. Poco importa, allora, se il suo contenuto è irrealizzabile: la mozione, infatti, prevede che si fissi un ”termine temporale certo” per concludere le operazioni militari, «in accordo con le organizzazioni internazionali e i paesi alleati», quando la Nato ha già chiarito di non potere fissare termini temporali per la missione, come del resto appare ovvio a chiunque. È l’ennesimo compromesso privo di fondamento, l’ennesima finzione politica; e a farne le spese è una volta in più il nostro Paese, che perde ulteriormente credibilità internazionale di fronte alla Nato e all’Onu. Eppure il balletto continua, così come prosegue la richiesta di reintrodurre il reato di clandestinità, tornato in auge ma connesso solo marginalmente alla crisi libica e soprattutto già più volte bocciato

dall’Unione Europea di cui facciamo - o dovremmo - far parte. A partire dall’esplosione dell’emergenza Lampedusa si è insistito nel voler convincere gli italiani che senza tale reato non siano possibili le espulsioni, mentre è vero proprio il contrario, dal momento che non si può espellere senza identificazione. Un reato peraltro non eseguibile: penso alla multa di 9 mila euro prevista a carico di persone spesso in una condizione di totale miseria, ma anche all’arresto, misura impraticabile per un Paese nel quale la magistratura andrebbe alleggerita e non certo congestionata e in cui le carceri ospitano già quasi 68 mila persone, a fronte di una capienza che sfiora le 45 mila.

Tutto questo non conta se si sceglie ancora una volta di essere l’Italia delle farse e del consenso e non l’Italia che si occupa dei problemi reali, come una disoccupazione e un precariato dilaganti, una scuola allo sbando, un comparto sicurezza privo di fondi per compiere il proprio dovere, una giustizia a dir poco inadeguata. Anche su questo fronte, infatti, si è scelta la via dell’”illusione”, trasformando la tanto annunciata riforma ”epocale” in una serie di piccole norme a salvaguardia di ”uno” solo. Dalla Libia alla giustizia, passando per l’immigrazione, la ricerca del consenso non si arresta e lo spettacolo di questo modo di fare politica non cambia. Resta solo da chiedersi se è l’Italia che vogliamo.

C’è anche una prova certificata, parlamentare, del sussistente dissidio Pdl-Lega: un attimo prima che si passi a votare le quattro mozioni, Fabrizio Cicchitto annuncia che il suo gruppo non solo dirà sì a quella di maggioranza, ma si asterrà sul testo del Pd e su quello del Terzo polo. Tanto che anche questi altri due documenti vengono approvati dall’aula, con 260 favorevoli il primo e 265 il secondo. Nelle due mozioni d’opposizione (una terza, dei dipietristi, è invece bocciata) non c’è traccia ovviamente del «termine alle operazioni da stabilire con i Paesi alleati». Manca cioè l’assurda pretesa dei leghisti di ottenere dalla coalizione una data certa sulla fine dei bombardamenti. Eppure il Pdl ritiene di potersi astenere. C’è dunque un Parlamento che approva due diversi indirizzi. Sia quello che vincola le operazioni a una scadenza, sia l’altro di Pd e moderati che non mette in discussione la responsabilità internazionale dell’Italia. Situazione dunque caotica, paradossale e senz’altro umiliante. Passano comunque tutte le clausole imposte dal Carroccio: quella sui tempi; il caveat incondizionato per gli interventi via terra: un vincolo che di fatto taglia fuori Roma dalla missione Eufor sugli aiuti alla Libia, nonostante il comando di tale piano umanitario sia affidato a un italiano, il vice ammiraglio Ri-


prima pagina

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l’opposizione

«Quei pacifisti che tirano le bombe» Casini al governo: «Chiedete voti con la mano sinistra e poi bombardate con la destra» di Franco Insardà

ROMA. Non è bastato lo sbandierato pacifismo leghista a fare da scudo al governo che ieri in Aula ha dovuto subire un bombardamento molto intenso da parte delle opposizioni. Pier Ferdinando Casini ha definito “ridicola” la mozione presentata da Pdl, Lega Nord e Responsabili dal momento che fissa un termine, pur se da definire con gli alleati, impossibile nei fatti da ottenere al quale, ha ricordato «la Nato ha già risposto chiaramente. Finché Gheddafi non se ne va non si può far nulla. Sarebbe troppo bello che si iniziasse un’azione militare fissando il termine. Vorrebbe dire che abbiamo la bacchetta magica e, invece, non ce l’ha nessuno la bacchetta magica». Non meno duro il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, che ha parlato di «vergognosa sceneggiata che compromette ulteriormente la credibilità dell’Italia all’estero».

Sulla credibilità ha insistito Casini: «Siamo l’unico Paese che in quattro mesi è passato dai baciamano a Gheddafi alle bombe. Siamo l’unico Paese che ha detto che il rais libico è un leader amato dal suo popolo e dunque che non si poteva fare nulla. Salvo poi, in qualche settimana, inviare le stesse frecce tricolore che erano andate a fare esibizioni a casa di Gheddafi a fare un altro tipo di lavoro». Il leader dell’Udc si è detto solidale con il ministro degli Esteri, Franco Frattini, «persona seria che non invidio, visto che c’è naldo Veri; la «razionalizzazione» degli altri fronti d’intervento, dal Libano all’Afghanistan, utile a evitare «nuove tasse» per finanziare quello in Nordafrica. C’è tutto. Berlusconi manda giù. E deve deglutire anche lo scherno del capo lumbàrd. «Siamo sempre amici», dice Bossi. Che poi però, interpellato su un eventuale incontro con il Cavaliere, fa capire di non averne proprio voglia: «Tanto eravamo già seduti vicini a Montecitorio».Vero è che quando entra in aula Silvio si produce in gesti affettuosi verso l’alleato, abbracci e buffetti. E che si attiva nel frattempo la sua diplomazia, fino a fissare un appuntamento serale tra i due leader. Ma resta la netta sensazione di uno smacco mal digerito da ministri e parlamentari del Pdl.

Non a caso Reguzzoni riceve applausi solo dal gruppo padano, alla fine del suo intervento. «Sappiamo quando tutto questo è iniziato, abbiamo il diritto di

da perdere la testa, da uscire pazzo, con una maggioranza che un giorno dice una cosa, un giorno dice altro, ha la campagna elettorale e ha paura di perdere voti, abbiamo i militari esposti al fronte e nessuno si occupa di loro, che cadono per la patria e per la nostra libertà nella lotta al terrorismo. Penso che neanche un Churchill della politica potrebbe riuscire a tenere insieme e a dare dignità a una politica che non ha dignità».

Casini ha concentrato molte delle sue critiche sulla Lega «preoccupata della campagna elettorale e, vedendo i sondaggi, preoccupata di cavalcare un pacifismo di maniera. Non c’era bisogno di questo dibattito, la missione ha

Pier Luigi Bersani: «È una vergognosa sceneggiata per risolvere il conflitto internazionale tra Arcore e via Bellerio» già una copertura piena. La maggioranza avrebbe dovuto tentare di redigere una mozione unitaria con l’opposizione. Invece questa è una pagina nera nella vita del Parlamento e nella storia delle relazioni internazionali dell’Italia e siamo dinanzi a un supplemento di campagna elettorale sulle spalle del Paese e dei nostri militari. Su questo un Paese se-

sapere quando tutto questo finirà». Dalla Camera non si levano neanche più brusii, c’è desolata rassegnazione al non-sense della maggioranza. Certo fa impressione assistere alla difesa rabbiosa, da parte del capogruppo leghista, di tale non-sense. Lo stesso Cicchitto non può fare a meno di citare la pretesa sul timing inserita nella mozione («lo concorderemo»). Poi interpreta un’irreale attitudine pacifista e deplora «la mitizzazione salvifica dei bombardamenti» a suo giudizio coltivata dall’opposizione. Ma colpisce più di tutte la rimozione sul pressing leghista che di fatto ha imposto il dibattito: «Sono d’accordo su una cosa con Casini», dice il capogruppo pdl, «anche per noi bastava il deliberato del 24 marzo in questo Parlamento, ma è stato il Partito democratico che ha depositato per primo una mozione». Come se questo non fosse

rio non scherza». A questo proposito Casini ha ricordato di «aver sostenuto il governo Prodi sull’Afghanistan anche quando c’era qualcuno che pur di far cadere quel governo non sosteneva i militari, che poi in altre circostanze ha voluto apparentemente, a parole, difendere. Anche in quella circostanza il nostro partito fece prevalere la difesa dell’Italia, con la I maiuscola, dei nostri militari, delle ragioni vere per cui siamo nelle missioni militari di pace».

Anche Bersani ha puntato sul Carroccio: «È una cosa indecente che serve solo ad aggiustare le relazioni internazionali tra Arcore e via Bellerio e lo vedrà tutto il mondo, domani non cambierà nulla della nostra presenza in Libia, visto che alla questione della data certa di fine dell’intervento ha già risposto la Nato chiarendo che non è possibile farlo. Con i cerotti e le aspirine la crisi politica del governo non si risolverà». Rivolto alla maggioranza il segretario del Pd ha provocatoriamente detto: «Perchè nella vostra risoluzione non ci mettete anche le quote latte, i giudici comunisti le elezioni di Milano e vediamo cosa dice l’Onu?». Bersani ha parlato di «catastofe diplomatica. Fino a qualche anno fa l’Italia era un paese serio, dall’Iraq se ne andò perchè quell’operazione non aveva copertura internazionale, in Kosovo e in Libano andò e portò la pace. Oggi siamo quelli che hanno baciato la mano a Gheddafi, che non lo disturbavano per telefono, che si specializzavano su nipoti dei rais per salvarli dalle questure, zitti al vertice di Parigi do-

avvenuto dopo che Bossi aveva scolpito il suo «no alle bombe».

Grande fatica a reggere il peso della contorsione politica. E disperato tentativo di offrire una lettura positiva della giornata. Ecco cosa produce la maggioranza. In particolare il presidente del Consiglio quando vanta «la solidità del governo di fronte

ve si doveva dire ci stiamo con queste condizioni e con queste idee, perchè stare in un’alleanza non vuol dire essere subalterni».

Di immoralità ha parlato Casini, secondo il quale non si può «con la destra lanciare le bombe e con la sinistra porgere i ramoscelli d’ulivo. In politica bisogna assumersi responsabilità e, nel caso di una missione militare, si tratta di responsabilità dolorose. Dolorose, perché tutti noi vorremmo accogliere il monito di monsignor Martinelli, vescovo di Tunisi, ma se non lo si può fare è perché qualcuno si dovrebbe ricordare in questa Aula che esiste una cosa che si chiama Onu, ed esiste un’altra cosa che si chiama Nato, ed esistono altre cose che sono gli impegni internazionali di un Paese che non può essere veramente mortificato nelle burlette di una politica estera che diventa subalterna ai giochi politici italiani». Di fronte all’intervento militare in Libia, secondo Casini, avevamo «avevamo due scelte: fare come la Germania, cioè dire “non partecipiamo” oppure fare come abbiamo fatto, cioè partecipare. Tutto il resto non conta nulla, è la mortificazione dell’Italia».

la Padania nei giorni scorsi». Comunque è una risoluzione incomprensibile per gli alleati. Lo s’intende dalle parole del segretario generale della Nato Rasmussen: «Non sono in grado di fissare una data in cui la missione potrà considerarsi compiuta». Casomai ci sono delle condizioni: «La fine di tutti gli attacchi alla popolazione civile, il riti-

Resta alta la tensione nella maggioranza: al discorso di Reguzzoni il Pdl non applaude, poi si astiene sui testi di Pd e Terzo polo. Silvio tenta di ricucire incontrando il capo leghista a un’opposizione divisa». A che prezzo, ci sarebbe da chiedersi. Il malanimo di La Russa per esempio è così palese che quando apprende della battuta di Bossi sulla Nato («deve prendere atto della mozione») replica stizzito che «tutti devono prenderne atto, anche in Italia». Poi si consola ricordando che il documento della maggioranza «non è certo quello apparso sul-

ro delle forze di Gheddafi, il libero accesso agli aiuti umanitari».

E a ulteriore prova della perplessità che circonda l’Italia, Rasmussen aggiunge di augurarsi che tutti gli Stati impegnati in Libia «adempiano al mandato Onu». Richiamo così imbarazzante che nel giro di pochi minuti il portavoce della Farnesina Maurizio Massari deve as-

sicurare come «nessuna decisione unilaterale» sarà assunta dall’Italia. Ricordando a sua volta le “tre condizioni” già citate dal segretario Nato. Oggi peraltro il gruppo di contatto dell’alleanza si riunirà proprio a Roma. E il rischio che venga chiesto conto all’Italia del voto parlamentare è altissimo.Vero è che il ministro Frattini conserva una tono prudente, nel discorso che apre il dibattito a Montecitorio: «Non posso dire in quest’aula quale sarà la data della fine della missione». Però anche lui s’imbarca nell’irragionevole promessa che la scadenza «sarà il risultato di un confronto con gli alleati». Non può aspettarsi sponde alle proprie bizzarrie, il governo, dai partner. Anzi l’Ue, con il commissario Malmstroem, ricorda che «25mila tunisini sono sì una sfida ma non un’emergenza». Berlusconi deve ammetterlo: «Sono pochi, non ci allarmano». Ma sa che il vero allarme, per lui, risuona da via Bellerio.


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l’approfondimento

Per la terza volta, dopo Londra e Doha, i Paesi impegnati in Libia si incontrano. E Frattini dovrà spiegare la mozione “padana”

Che diranno a Hillary?

L’amministrazione Usa aveva pensato di spostare il comando delle operazioni da Napoli a Marsiglia per convincerci ad armare i Tornado. Oggi, alla riunione del “gruppo di contatto” a Roma, l’imbarazzo del mondo sarà alle stelle di Enrico Singer ra stato preparato come la grande occasione per rientrare a pieno titolo tra i protagonisti del dopo-Gheddafi. Sta per diventare l’ennesima brutta figura coperta a malapena dalle imbarazzate precisazioni del nostro ministero degli Esteri e dalla pelosa comprensione di chi, in fondo, è ben contento che l’Italia conti sempre meno nello scacchiere mondiale. Nell’ultima riunione del “gruppo di contatto” per la Libia che si era tenuta a Doha il 13 aprile scorso, Franco Frattini aveva fatto di tutto perché l’incontro successivo – il terzo da quando questo gruppo fu tenuto a battesimo a Londra – fosse organizzato proprio a Roma. Un consesso di 22 Paesi, sette organizzazioni internazionali e quattro osservatori da celebrare in pompa magna alla Farnesina per cancellare i tentennamenti delle prime settimane e dimostrare che l’Italia ha recuperato un ruolo attivo nella crisi che ha per teatro la sua ex colonia diventata strategica per

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la politica energetica e per il controllo dell’immigrazione clandestina. All’indomani della mozione votata alla Camera che impegna il governo a sollecitare dagli alleati un “termine temporale” alla missione – che la Nato ha già definito improponibile perché «le operazioni devono durare fino a obiettivi raggiunti» – tutte le buone intenzioni sono finite in soffitta. E agli occhi dei ministri arrivati dai quattro angoli del globo si sono ripresentate le contraddizioni di un esecutivo che è costretto a piegare la sua strategia internazionale ai tatticismi degli equilibri interni.

La più delusa è Hillary Clinton, che è sbarcata a Roma accompagnata dallo straordinario successo del colpo inferto al terrorismo con l’uccisione di Osama bin Laden. Appena una settimana fa, era stata la telefonata di Barack Obama a convincere Silvio Berlusconi che l’Italia doveva finirla con la pantomima dei suoi aerei che

sorvolavano la Libia ma che non partecipavano alle azioni evitando di sparare contro le truppe e l’arsenale bellico del colonnello di Tripoli. Di quella telefonata cominciano a emergere particolari che rivelano quanto profonda fosse l’irritazione americana per l’atteggiamento italiano: secondo alcune fonti diplomatiche, il presidente Obama avrebbe anche ipotizzato il possibile spostamento da Napoli a Marsiglia del comando della Sesta Flotta Usa

Sul tavolo delle trattative c’è il nodo dei fondi per Bengasi

nel Mediterraneo se non ci fosse stata una chiara scelta di campo. Adesso i tanti distinguo contenuti nella mozione voluta dalla Lega hanno riaperto il delicato capitolo dell’affidabilità del nostro Paese che Frattini e lo stesso Berlusconi cercheranno di chiarire negli incontri diretti che hanno in programma oggi con Hillary Clinton. Il Segretario di Stato americano, come gli altri ministri del “gruppo di contatto”, naturalmente, hanno già capito che la storia

dell’impegno a tempo è una concessione fatta a Bossi e che quello che conta è che i Tornado e gli Eurofighter hanno cominciato a prendere parte attiva alle operazioni della Nato. Ma gli sherpa dell’incontro parlano senza troppi riguardi di una «nuova sceneggiata all’italiana». E i francesi e i britannici lo fanno anche con una certa soddisfazione.

Per Parigi e Londra le difficoltà dell’Italia sono un punto a favore nella partita politica che stanno giocando assieme a quella militare e che guarda al futuro dei rapporti con la Libia. Al di là di tutta l’enfasi che nella riunione del “gruppo di contatto”sarà posta – in particolare da Frattini – sulla necessità di preparare un «piano di riconciliazione» coordinato dall’Onu che preveda il cessate il fuoco e l’apertura di un corridoio umanitario, il vero punto-chiave in discussione è quello finanziario. Il Consiglio transitorio nazionale libico ha una richiesta


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«Abbiamo prove di arresti massicci e numerosi casi di tortura»

La corte dell’Aja contro i crimini di Gheddafi

Il giudice Luis Moreno-Ocampo all’Onu porta le accuse per condannare il Colonnello e il figlio Said al Islam di Luisa Arezzo incriminazione di Muammar Gheddafi e degli esponenti del suo regime per crimini contro l’umanità è sicura al cento per cento aveva detto il 24 marzo Luis Moreno Ocampo, il procuratore capo della Corte Penale internazionale dell’Aja. E ieri il “mastino” argentino dalle parole è passato ai fatti, comunicando al Consiglio di sicurezza dell’Onu che chiederà tre mandati di cattura per crimini contro l’umanità in Libia. Non ha fatto i nomi, Ocampo, ma tutto lascia pensare che i tre mandati riguarderanno almeno il leader libico Gheddafi e suo figlio Saif al islam. Anche perché i crimini «stanno continuando». Che l’indagine sarebbe stata breve lo aveva annunciato in apertura dell’inchiesta, l’8 marzo scorso. E ha mantenuto la promessa, soprattutto alla luce del conflitto poi deflagrato, perché quando c’è una guerra «le cose cambiano» aveva detto da L’Aja. «Ci sono motivi ragionevoli su cui fondare un’accusa per crimini di guerra e contro l’umanità a carico delle forze di sicurezza fedeli a Muhammar Gheddafi per l’azione di repressione contro i partecipanti alle manifestazioni antiregime» ha continuato il Procuratore capo presentando il suo rapporto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.

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li in Niger e Mali, dal Ciad, dalla Repubblica democratica del Congo, dal Fronte polisario nel Sahara Occidentale e forse anche dall’Asia e dall’Europa dell’est. La risposta di Tripoli alle anticipazioni sul contenuto del rapporto non si è fatta attendere: il viceministro degli Esteri libico, Khaled Kaim ha detto che il caso aperto da MorenoOcampo si basa su «informazioni non verificate o riprese video riprodotte da fotografi dilettanti» ed ha ricordato che il suo governo ha accolto una missione di indagine del Consiglio per i diritti umani dell’Onu ed è disposto ad accoglierne un’altra. Forse dimenticando che la visita guidata a marzo a Zawiya, la cittadina libica a poche decine di chilometri da Tripoli, con il quale il regime voleva celebrare il ritorno alla normalità, si era trasformata in un clamoroso autogol. Con i rappresentanti di Amnesty International e dei giornalisti stranieri che avevano scoperto in un cassetto di una stazione di polizia foto che mostravano torture e vessazioni ai danni dei prigionieri.

Nel mirino anche quei ribelli che avrebbero colpito presunti mercenari africani pagati da Tripoli

Un documento che, secondo alcune indiscrezioni, afferma che gli inquirenti hanno formulato stime preliminari ma “credibili”secondo cui tra i 500 ed i 700 civili sarebbero stati uccisi dalle forze del governo. Vittime che giustificano la volontà di Moreno-Ocampo di presentare nelle prossime settimane la sua prima richiesta per mandati di arresto contro i funzionari «maggiormente responsabili di crimini contro l’umanita» in Libia dal 15 febbraio. Il rapporto della Corte solleva anche timori circa la possibilità che manifestanti anti-governativi o forze di opposizione armate abbiano proceduto «ad arresti illegali» e si siano resi responsabili di «maltrattamenti o uccisioni» di africani sub-sahariani «considerati mercenari». Notizie di esecuzioni sommarie da parte dei rivoltosi erano circolate sulla stampa prima che Francia, America e Gran Bretagna spingessero per l’intervento contro il raìs libico. Al momento, Alla Nato risulta che Gheddafi abbia arruolato mercenari – accusati di crimini feroci – dai movimenti ribel-

Fotografie sparse che raccontavano più di qualsiasi denuncia le storie degli sfortunati prigionieri. Decine di cadaveri che portavano i segni delle torture: una mostrava cicatrici sulla schiena di un uomo con indosso solo le mutande, un’altra un uomo nudo a faccia in giú sotto un lenzuolo con le mani legate. E su tutti i volti, il terrore. Altre foto mostravano pozze di sangue, un tavolo pieno di vasi, bottiglie, polveri e una lunga sega. Fatto sta che il rapporto Ocampo apre alla possibilità di un’accusa per crimini di guerra a carico di Gheddafi e della sua famiglia o della cerchia più ristretta di persone che lo circonda. «Gli spari contro dimostranti pacifici sono stati sistematici, secondo un modus operandi seguito in diverse località e messo in atto dalle forze di sicurezza», si legge nel rapporto. «Anche le persecuzioni sembrano essere state sistematiche. I crimini di guerra sembrano far parte della politica». Anche se forse il numero delle vittime esatto non si conoscerà mai: il rapporto afferma infatti che è stato difficile determinare il numero preciso, perché i corpi sono stati rimossi dalle strade ed ai medici è stato vietato di documentare «il numero di morti e feriti negli ospedali dopo l’inizio dei violenti scontri».

urgente e precisa: vuole l’apertura di una linea di credito di tre miliardi di dollari garantita dai beni congelati al regime di Muammar Gheddafi. «La liquidità di cui disponiamo basterà appena per tre mesi, quattro al massimo», ha dichiarato Ali Tarhoni, responsabile in seno al Cnt delle finanze e del petrolio. I leader della rivolta hanno rinunciato alla loro prima richiesta, che era stata quella di ottenere lo sblocco dei fondi di Gheddafi direttamente a favore del Consiglio transitorio, e adesso sperano nella concessione di crediti da parte dei Paesi che “ospitano” questi fondi, Italia compresa. Secondo la stima del Cnt, si tratta in totale di 165 miliardi di dollari. Dal vertice di Roma dovrà uscire la soluzione per dirottare verso le neocostituite, Central Bank of Bengasi e Lybian oil company, che finora sono soltanto scatole vuote, almeno una parte dei beni della Libyan investment authority (Lia) e della Central Bank of Libya (Cbl), le due casseforti del regime di Gheddafi assieme con la società petrolifera Noc (National oil company).

Quella economica è una partita senza esclusione di colpi. In Gran Bretagna la Lia era riuscita a veicolare circa 70 miliardi di dollari di fondi sovrani libici in investimenti internazionali che sono ora in gran parte sotto sequestro e custoditi nei forzieri della Hsbc, maggiore istituto di credito inglese e sesto gruppo bancario al mondo. E non è un caso se, alla fine di

aprile, un team di alti funzionari del colosso finanziario è sceso in Cirenaica per prendere contatti con la nuova Central Bank dei ribelli. Un paio di settimane prima, il 13 aprile, un Airbus militare francese era arrivato a Bengasi dopo un volo classificato ufficialmente come «umanitario», con a bordo una ventina di manager di società petrolifere e industriali in missione segreta per stringere contatti e primi contratti con i rappresentanti del Cnt e con i dirigenti nominati ai vertici delle nuove istituzioni. È chiaro che gli scambi-ponte per sostenere i ribelli nella guerra contro il regime del colonnello sono soltanto l’antipasto dei rapporti commerciali e degli investimenti che potranno decollare dopo la fine del conflitto e con l’avvio della ricostruzione. L’interesse di Parigi e di Londra è di lasciare indietro l’Italia e tutti i passi falsi del governo Berlusconi, come il pasticcio della mozione, aiutano questo disegno. Oltre a deludere il governo provvisorio libico.

Non solo. È in agguato un altro possibile inciampo: mentre a Roma si riunisce il “gruppo di contatto”, a Bruxelles prende le mosse la missione umanitaria Eufor Libya di cui è comandante un ammiraglio italiano, Claudio Gaudiosi. Si tratta di un’operazione decisa un mese fa dall’Unione europea per mettere in salvo – in caso di necessità – la popolazione civile attraverso un ponte aereo o navale che comporterebbe inevitabilmente l’impiego di militari sul territorio libico, eventualità questa che la mozione approvata ieri vieta espressamente. Così, se già è al limite l’intervento dei dieci addestratori italiani promessi agli insorti, il rischio è che il nostro Paese – pur avendone il comando – potrebbe non fornire uomini alla missione Eufor Libya. L’ammiraglio Gaudiosi, da buon militare, non vuole entrare nelle dispute politiche. «Il mandato che mi ha affidato la Ue ha lo scopo di sostenere l’azione delle organizzazioni umanitarie che non dispongono di mezzi adeguati. Se l’Italia preferisce stare fuori dall’operazione, non è un problema. I soldati arriveranno dagli altri Paesi». Nei prossimi giorni una Force generation conference approverà i piani e definirà il numero degli uomini e dei mezzi necessari. Poi si vedrà. Con il rischio di varare una missione a guida italiana che potrebbe essere condotta senza soldati italiani per il no imposto dalla Lega all’impiego di truppe in «azioni di terra» in Libia senza specificare se si tratti di azioni di guerra, oppure di pace.


diario

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Firenze, anarchici in manette

Una class action contro Alemanno

FIRENZE. Vasta operazione della polizia contro appartenenti all’area anarchica che fa riferimento agli ambienti studenteschi e della compagine locale denominata «Spazio liberato 400 colpi». Sono 22 le misure cautelari eseguite dalla Digos fiorentina coordinata dalla Direzione Centrale della Polizia di PrevenzioneUcigos. L’indagine vede indagate 78 persone, 19 toscani, un napoletano, un nuorese e un anconetano, la cui età oscilla tra i venti e trenta anni. Tutti sono ritenuti responsabili di associazione a delinquere finalizzata alla occupazione abusiva di edifici pubblici, danneggiamento, deturpamento e imbrattamento di beni immobili, resistenza, violenza e oltraggio a pubblico ufficiale.

ROMA. Il Codacons intraprenderà una class action contro il Comune di Roma al quale chiederà 1 miliardo e mezzo di euro a titolo di risarcimento per il degrado di alcune zone della città. L’iniziativa è stata illustrata dal presidente Carlo Rienzi. Il presupposto dell’azione collettiva sono due delibere dell’ex amministrazione comunale, una del 2005 e l’altra del 2008, che definivano secondo alcuni indicatori sociali le zone degradate della capitale, per le quali il Campidoglio avrebbe ricevuto 50 milioni di euro dall’Europa. Il Codacons sostiene che intere aree di quei quartieri continuano «a fare schifo» a causa di buche stradali, strisce pedonali invisibili, bus affollati e in ritardo, spazzatura per strada.

Ennesimo record della benzina ROMA. Nuovo record storico per il prezzo della benzina che ieri ha sfiorato la soglia di 1,6 euro al litro nella media nazionale. Nei distributori Tamoil (l’azienza di stato libica), infatti, il prezzo alla pompa è salito a 1,599 euro al litro. I prezzi medi regionali restano sostanzialmente invariati con Piemonte e Veneto sempre a guidare la classifica con una media di 1,595 euro al litro sulla benzina e 1,496 euro al litro sul diesel. Tutto ciò benché ieri sul mercato del Mediterraneo, nella prima sessione dopo due giorni di chiusura delle contrattazioni, si sia registrato un tonfo dei prezzi. La benzina ha perso 17 dollari la tonnellata a quota 1.145, il gasolio 15 a 1.054. L’euro infine, ha perso terreno rispetto al dollaro.

Il sì all’accordo per lo stabilimento ha anche un forte valore simbolico: è un atto di fiducia nella ripresa da parte degli operai

L’ammutinamento della Fiom

Il voto alla ex Bertone spacca il sindacato: la base vuole la rinascita di Gianfranco Polillo a vicenda della ex Bertone, con un voto quasi bulgaro (l’87,6 per cento) a favore della proposta di Marchionne, dimostra la grande responsabilità della classe operaia torinese. La cosa è ancor più rilevante se si considera che, almeno sulla carta, la Fiom poteva vantare l’assoluta maggioranza degli iscritti (65 per cento delle tessere) nelle proprie fila. Il voto, pertanto, non era scontato. Anzi la paura della vigilia era esattamente l’opposto: ripetere quanto già era avvenuto a Mirafiori e Pomigliano d’Arco, dove le forze più responsabili del movimento sindacale avevano vinto; ma solo di stretta misura. Il coup de théâtre si è verificato proprio in seno al sindacato di Landini. I “caporali”– come ha scritto La Stampa – hanno sconfitto i “generali”. Contro le indicazioni della centrale nazionale, i delegati della Rsu hanno invitato i propri iscritti a votare “si”. Ed è stato una sorta di plebiscito, se si considera che alle urne si è recata la quasi totalità dei lavoratori (1011 su 1087), riportando la maggioranza che abbiamo indicato. Sorprendenti, infine, erano state le dichiarazioni dei leader nazionali. Mentre Cremaschi – il leader della minoranza “dura e pura”– minacciava di sconfessare i delegati; l’attuale segretario faceva buon viso a cattivo gioco. Giusta la posizione dei delegati, che difendono una prospettiva di vita; la Fiom, però, è un’altra cosa. «Ha le spalle più larghe» per sostenere una lotta di più ampia portata. Dichiarazione sorprendente che la dice lunga sullo stato confusionale di quell’organizzazione. Chi decide in Fiom? I lavoratori organizzati o i vertici dell’organizzazione? E dov’è finita la democrazia sindacale?

Contro le indicazioni della Fiom nazionale, i delegati della Rsu hanno invitato i propri iscritti a votare “si” all’accordo proposto da Marchionne per ”salvare” gli stabilimenti ex Bertone. Ed è stato quasi un plebiscito, se si considera che alle urne si è recata la quasi totalità dei lavoratori (1011 su 1087), riportando la maggioranza dell’87,6%

L

Una contraddizione vistosa di cui a rendersi conto è stato solo Fausto Durante, il leader della componente riformista, che, non a caso, ha fatto proprie le posizioni dei delegati della Rsu. Il che solleva un altro problema: la Fiom è ancora un sindacato, rispettoso di una più

antica tradizione, o una sorta di cellula politica, che si muove con logiche che prescindono dagli interessi reali e immediati dei lavoratori? Naturalmente nella confusa situazione politica italiana c’è posto anche per questo tipo di sperimentazione. L’importante è che le decisioni siano trasparenti. Se la Fiom vuole scendere nell’agone politico non deve far altro che presentare proprie liste elettorali e misurarsi con i temi più generali del Paese. Quello che, invece, non è tollerabile è il trincerarsi in un limbo dove non si è né carne né pesce. O meglio si vogliono recitare troppe parti in commedia.

I lavoratori dell’ex Bertone, tra i tanti meriti, hanno avuto anche quello di rompere questo incantesimo. L’hanno

fatto – sono i risultati a confermarlo – mostrando un coraggio straordinario, che dovrebbe essere d’esempio. Ma è qui che sorgono le prime perplessità. Ci saremmo aspettati che quotidiani come il Corriere della sera o Il Sole 24ore avessero dato all’avvenimento il risalto che merita. Certo, i temi di politica estera erano pressanti. Ma era veramente più importante parlare, in prima pagina, di Formula 1 o della condanna di Olindo e Rosa, piuttosto che dare rilievo – come hanno fatto tutti gli altri giornali – al voto di Torino? Ancora più sorprendente l’approccio del giornale di Confindustria: un semplice commento nelle pagine interne, che trasuda imbarazzo e l’invito a ricostruire rapporti unitari. Esigenza improcrastinabile. Ma l’unità non può na-

scere sull’equivoco. Qui non si tratta di far propria l’alternativa posta da Massimo Mucchetti – ritirarsi o accettare la deriva americana dei bassi salari – perché non è esatto l’assunto che sorregge il suo ragionamento. Vale a dire: la stagnazione dei salari rispetto all’aumento di produttività. Tutti i dati – Banca d’Italia, Istat, Organismi internazionali – dimostrano il contrario. Negli altri Paesi i salari sono più alti, perché la produttività è di gran lunga superiore. Tant’è che il Clup, in Italia, costo del lavoro per unità prodotta – è più alto che altrove.

Perché insistere su questi argomenti? Dimostrano quanto Sergio Marchionne stia turbando equilibri consolidati: quel misto di consociativismo e


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Accordo tra Ue e Fondo Monetario per «salvare» il Portogallo BRUXELLES. Accordo raggiunto per salvare il Portogallo: Lisbona si è accordata con l’Unione Europea, la Banca Centrale Europea e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) su un piano di salvataggio di 3 anni da 78 miliardi di euro. «È un buon accordo. Naturalmente non esistono programmi di assistenza finanziaria che non implichino molto lavoro» ha detto il primo ministro dimissionario José Socrates, sottolineando che il piano non prevede ulteriori tagli ai salari del settore pubblico e a quelli minimi. Il programma non prevede neanche la vendita da parte del governo di quote nella Caixa Geral de Depositos. Tuttavia, il piano prevede un calo del deficit al 5,9% del pil nel 2011, per poi calare ancora al 4,2% nel 2012 e sotto il 3% nel 2013. L’approvazione del piano da parte dell’Ecofin è attesa il 17 maggio. In tempo perché il Portogallo possa affrontare le scadenze di giugno sul fronte dei titoli pubblici. Ma

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

a complicare le cose c’è l’incognita finlandese. Il partito nazionalista “Veri Finlandesi”, uscito vittorioso dalle ultime elezioni politiche, minaccia di non votare in Parlamento il salvataggio di Lisbona. Salvataggio che, secondo le regole, i ministri finanziari europei dovranno approvare all’unanimità. Bruxelles, comunque, ostenta ottimismo: «Siamo fiduciosi che la Finlandia parteciperà al salvataggio» ha affermato un portavoce dell’esecutivo europeo.

Da sinistra: Cremaschi, Camusso e Landini. Nella pagina a fronte, Sergio Marchionne con Piero Fassini

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“tirare a campare” che caratterizza il tran tran della vita, non solo politica, italiana. Voglia di quiete, di difesa del proprio orticello. Finchè dura c’è verdura: come si diceva una volta. E per il resto Dio provveda. Ma è questa la situazione italiana? Per la prima volta, le nuove regole della governance europea pongono tutti i Paesi di fronte alle proprie responsabilità. Nei programmi approntati è stato individuato un orizzonte di medio periodo: il quadriennio 2011-2014. Si esce, pertanto, dal tunnel della previsione a dodici mesi, com’è stato finora. Orizzonte in cui si ragionava alla giornata, rimandando a un tempo indefinito le necessarie riforme. Oggi si può ragionare in termini di strategie sulla base di valutazioni realistiche degli andamenti reali. A loro volta vagliati da Organismi internazioni che non hanno esitato – come nel caso della Francia o dell’Inghilterra – a stigmatizzare ipotesi troppo ottimistiche, che sono l’anticamera del rinvio dello sforzo necessario per rimettere l’intera Europa in una carreggiata di crescita e di sostenibilità finanziaria, dopo il diluvio della crisi internazionale. Le proiezioni italiane – in termini di crescita economica e di riequilibrio dei conti pubblici – sono state giudicate realistiche. È un buon inizio. Ma quattro anni a un tasso di sviluppo medio

Il problema adesso è capire che cosa vuol fare il governo, se farà dei passi concreti per sostenere l’economia o no dell’1,4 per cento, in termini reali, non sono un buon viatico. Rendono problematico il riequilibrio finanziario, ma soprattutto non consentono di riassorbire un tasso di disoccupazione qual è quello attuale. Ecco allora la necessità di puntare – grazie ad una politica economica coerente – ad un tasso di crescita maggiore, da conseguire, con gradualità, nell’intervallo considerato. Possiamo impegnarci, puntando a quel 2 per cento che, secondo la maggior parte degli analisti, ci metterebbe al riparo? La risposta dei lavoratori della ex Bertone è stato un “si” convinto, ponendo fine alle schermaglie ideologiche della Fiom nazionale. Una lezione che dovrebbe valere per tutti. Che ri-

lancia la palla nel campo di Agramante: a partire dalla Cgil – finora assente e distratta nel suo complesso dibattito interno – ma che coinvolge responsabilità ben più vaste: quelle degli imprenditori, delle banche, dei pubblici dipendenti e dello stesso governo.

Non è la prima volta che questo accade. In altri momenti – si pensi alla marcia dei “quarantamila” negli anni ’80 – è stato il movimento dei lavoratori a gettare un sasso nelle acque stagnati della politica. La diversità sta nel fatto che, allora, quel segnale fu recepito. Poi i risultati furono quelli che furono. Ma almeno si tentò di imprimere una svolta. Il pericolo di oggi è, invece, l’indifferenza. Un pugno di uomini che ha il coraggio di rompere vecchie incrostazioni ideologiche, di andare contro il proprio vissuto, di conquistare, su questa frontiera, quasi l’unanimità dei consensi e poi trovarsi di nuovo soli. Forse, alla fine, costruiranno le nuove Maserati, sempre che la Fiom nazionale non continui a mettere il bastone tra le ruote. Fatto comunque importate per la loro vita. Ma è evidente che questo non basta per rimettere in moto il motore dell’economia italiana, se a quello sforzo non seguirà qualcosa di più generale e consistente.

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ironia e lo snobismo contro il dolore. La letteratura contro la banalità. L’amore e la trasgressione contro la malattia. Una lotta condotta per tutta la vita, conclusasi col suicidio. La morte: «L’unica esperienza che non descriverò mai». A settanta anni da quella mattina del 28 marzo 1941, quando scivolò fuori di casa, raggiunse il fiume, mise un grande sasso nella tasca della giacca, si buttò nell’acqua e si lasciò annegare, vengono pubblicati e ripubblicati molti libri su Virginia Woolf, la scrittrice che forse più di ogni altra ha rivoluzionato la narrazione, il costume, l’immaginario femminile. Un anniversario per ricordarla nella sua interezza: per la sua grandezza di leader del Bloomsbury group, quel circolo di intellettuali “tragressivi” in tutti i sensi, che associava il fior fiore dell’intellighentia inglese, dall’eclettico e per sempre amico Lytton Strachey, a Violet Dickinson, da Morgan Forster a Roger Fry, sino al grande economista Maynard Keynes e a sua moglie. Per la sua fatica di vivere, quella sofferenza causata dalla malattia mentale che la perseguitò sin dall’adolescenza. Per la creatività che nasce dal dolore. Tutte le sfaccettature di una vita difficile e di successo, dove fra gli amici e la letted’avanratura guardia, hanno un posto importante anche la politica e soprattutto il femminismo. Il racconto di tutto questo lo ritroviamo in due volumi recentemente usciti: “Virginia Woolf, mia zia” di Quentin Bell, e “Ingannata con dolcezza. Un’infanzia a Bloomsbury” dell’altra nipote Angelica Garnett, en-

L’

Frequenta il vecchio Henry James, già carico di gloria letteraria, ma non gli è simpatico: lo definisce “troppo monumentale” trambi Tartuga edizioni. Virginia nacque nel 1882 da Julia e Leslie Stephen: il padre era un intellettuale raffinato e conosciuto, la madre morì che lei aveva solo 13 anni: «Fu la più grande disgrazia che potesse capitare», osservò.

In famiglia c’erano due fratelli, Thoby e Adrian, e una sorella, Vanessa - il rapporto con lei intensissimo ma anche molto difficile - e i fratellastri, figli di primo letto di papà Leslie, George e Gerald. Virginia era

“Virginia Woolf, mia zia” di Quentin Bell e “Ingannata con dolcezza. Un’infanzia a B una bambina difficile: imparò a parlare solo a tre anni e aveva degli scoppi di collera incontrollabili. L’infanzia e l’adolescenza furono popolate da dolori e morbosità: la morte della madre, il conflitto con Vanessa, le attenzioni sessuali proibite che alle due ragazze riservarono i fratellastri. Una vita, insomma, partita male.

E sin dalla giovanissima età aggravata dalla malattia mentale. La prima crisi si manifestò con grande virulenza nel 1895, a scatenarla fu probabilmente la morte del padre. Udiva voci racconta Quentin Bell - che la spingevano a commettere atti di follia e, convinta che fossero causate dall’alimentazione eccessiva, decise di mettersi a digiuno. Fu in quel periodo che Virginia tentò per la prima volta di suicidarsi, senza conseguenze irreparabili perché la finestra dalla quale si gettò «non era molto alta». C’era in tutta questa dolorosa inquietudine, una pausa di serenità che aveva attraversato l’infanzia: le famose vacanze in Cornovaglia da lei più volte evocate. Il tempo passa e gli Stephen si trasferiscono nel quartiere londinese di Bloomsbury nel 1904. Vanessa è appassionata di cavallo, Virginia di lunghe passeggiate. Tutti i fratelli amano i viaggi verso il Sud dell’Europa. Nel 1906 vanno, insieme ad altri amici, in Grecia. Di ritorno Thoby, l’adorato Thoby che rappresentava la “verginità e i giochi irresponsabili dell’adolescenza”, si ammala e in pochi giorni muore. Un nuovo terribile lutto al quale Vanessa reagisce innamorandosi di Clive Bell, l’amico del fratello, mentre Virginia comincia a nutrire un forte senso di gelosia e di esclusione dalla vita dell’adorata sorella, l’unico grande affetto rimastole.Vanessa si sposa e dà alla luce un figlio che adora. Virginia sta sempre peggio. Con la nascita di Julian anche Clive si sente abbandonato. In questo contesto nasce - come racconta nel suo libro Angelica Garnett un flirt fra lui e la cognata che non si trasformerà mai in una vera e propria relazione amorosa, ma che minerà il rapporto con la moglie. Più avanti Vanessa, pur continuando ad essere sposata con Clive, si innamorerà di Duncan Garnett da cui avrà una figlia. E con il quale poi conviverà. Dopo tante tragedie e dopo questo intrigata vicenda sentimentale, le due sorelle continuarono a mante-

Virginia, l’orgoglio di una vita “en rose”

L’amore per la stravaganza e per il marito, la passione per altre donne, la rivoluzione dello stile di scrittura: 75 anni dopo il suicidio, la grande scrittrice inglese viene ricordata in due libri-testimonianze scritti in famiglia di Gabriella Mecucci


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Bloomsbury” di Angelica Garnett ripercorrono la vita di un gigante della letteratura editoriale che l’aiuterà a sopravvivere ai suoi dolori, alla sua malattia. E a produrre i suoi capolavori.

nere un rapporto affettuoso e ironico - l’ironia a Bloomsbery era di casa e funzionava come antidoto al dolore - ma qualcosa però si era rotto. Virginia, che amava non senza qualche morbosità Vanessa, ne rimase profondamente ferita.

Una veduta del canale di Chichester dipinta da William Turner. In alto Virginia Woolf, scrittrice e poetessa e, in basso, Henry James: considerato un autore “polveroso”. A destra e nella pagina a fianco le copertine dei due libri

Dopo il 1906, il cerchio dei soliti amici si allarga e Virginia comincia a frequentare “il vecchio Henry James”, già carico di gloria letteraria, ma non gli è simpatico: lo definisce “troppo monumentale e difficile”. È terrorizzata, che quando diventerà “una scrittrice vera”, possa assumere quel linguaggio impostato e un po’ polveroso. Si domanda in una lettera a Violet Dickinson : «Quando sarò vecchia e famosa anche io parlerò come Henry James?». Del resto in quel periodo - fra il 1907 e il 1908 - il linguaggio usato a Bloomsbery stava diventando sempre più licenzioso: un vero e proprio turpiloquio sciorinato con la voglia di stupire. Parlavano tutto il tempo di sesso e l’epiteto più usato era pederasta. A questo libertinaggio della parola si accompagnava anche quello del comportamento. Ma Virginia - osserva nel suo libro Quentin Bell - restò «a suo modo vergine». Era e sarà per sempre inguaribilmente snob. Fra il flirt non agito sessualmente con Clive e le richieste di matrimonio piuttosto improbabili di Lytton, le cui preferenze omosessuali erano conclamate, fa irruzione nella sua vita, attraverso i vecchi amici di Cambridge, Leonard Wolf, roman-

ziere e saggista, di ritorno da Ceylon. Nel 1911 i due si videro costantemente e lui scoprì di essere innamoratissimo. Lei però precipitò di nuovo nel gorgo della sua malattia: la affliggevano terribili emicranie, non mangiava, sentiva le voci. Finì di nuovo in una casa di cura e solo quando ne fu dimessa scrisse una lettera divertente ma poco rassicurante a Leonard: «Ti racconterò storie meravigliose di matti. Tra parentesi mi hanno eletta re. Su questo non possono esserci dubbi. Ho convocato un conclave e ho fatto un proclama alla cristianità. Ho evitato sia l’amore che l’odio. Ora mi sento molto lucida e calma». Vanessa voleva che fra i due nascesse una vera storia d’amore e faceva un gran tifo per Leonard. Si preoccupava di proteggerlo dalle stravaganze di Virginia, ma anche di risparmiare alla sorella ogni stress, compresi quelli amorosi. I due si frequentarono intensamente e alla fine lei annunciò trionfante a Violet Dickins, l’amatissima amica: «Ho una confessione da farti. Sposerò Leonard Wolf. È un ebreo squattrinato. Sono felice più di quanto chiunque abbia mai ritenuto possibile.Voglio che piaccia anche a te». È il giugno del 1912: inizia così una straordinaria storia di amore che la porta rapidamente al matrimonio, ma anche a un grande sodalizio

La sua vita segnata da terribili sofferenze l’ha costretta a guardare dentro se stessa, la sua narrazione ne sarà profondamente influenzata: verrà rivolta a cogliere l’interiorità, l’emotività dei personaggi. Una “rivoluzione” del raccontare e del linguaggio che segnerà profondamente la letteratura inglese. Fra lo studio, il continuo esercizio della scrittura e la tenera vicinanza di Leonard, il primo libro venne alla luce. The Voyage Out (La Crociera) fu ben giudicato dall’editore. Eppure Virginia, dopo averlo licenziato, fu investita da una delle sue crisi nervose più terribili: come una madre afflitta dalla crisi depressiva post partum. Tentò ancora una volta il suicidio, fu vicinissima a morire. Quando era ancora in convalescenza, scoppiò la grande tragedia della prima guerra mondiale. Sotto le bombe però scrisse Night and Day, che ebbe un notevole successo di pubblico, ma la critica fu tiepida. Non vedeva in questa seconda opera l’audacia innovativa di The Voyage Out. Era una prova più ortodossa, più legata al passato. Uscì alla fine del conflitto mondiale, quando Virginia incontrò un nuovo amico: il grande poeta T. S. Eliott. Con lui fiorirono grande discussioni. I due non andavano d’accordo sul giudizio da dare di Ezra Pound e di James Joyce: Eliott li amava mentre a lei nopn piacevano proprio. Frattanto insieme a Leonard aveva dato vita ad una nuova impresa: la casa editrice Hogarth Press che pubblicherà, oltre ai suoi libri, alcuni fra i più brillanti e innovativi scrittori inglesi a lei coevi. I dolori - come la morte di Lytton procedono di pari passo con i successi letterari - come la signora Delawey - mentre Leonard diventa sempre più un compagno protettivo, attento, capace di salvarla da se stessa. Spesso aiutato nella difficile impresa da Vanessa. Ma non possono fare nulla contro le reiterate crisi che la costringono per mesi e mesi all’isolamento, che la portano ancora a tentare di togliersi la vita. Virginia conosce Vita Seckville-West, sposata col diplomatico Nicolson, e di lei s’innamora profondamente: un sentimento che aveva provato anche per altre donne - Violet Dickinson, Katherine Mansfield - ma questa volta ne par-

la, ne scrive. Nasce una delle sue opere più importanti: Orlando, il romanzo in cui entra più che in ogni altro l’elemento sessuale, anzi omosessuale. Secondo Quentin Bell però, la zia - anche nel rapporto con Vita non riuscì mai a vivere un’intensa passione fisica: e per questo veniva accusata da Vita di amare con la mente ma non con il cuore. Nonostante la nuova relazione, non cessò mai il rapporto con Leonard che dal canto suo guardò al legame fra le due con tollerante flemma.

Sapeva che la moglie non era molto incline a mettere in gioco il proprio corpo, a lasciarsi andare. Eppure Vita, molto più passionale, riuscì almeno in alcuni momenti a trascinarla nell’avventura fisica. Fra loro ci fu, almeno per qualche tempo, anche una passione. Come in tutte le relazioni che Virginia investiva, l’altro/a diventava materno/a e protettivo/a. Come se questa donna con una stupenda mente e una raffinata e drammatica sensibilità non fosse riuscita mai a superare il dolore lancinante della perdita della madre avvenuta quando aveva solo 13 anni. E la ricercasse ovunque. Nel periodo fra le due guerre, la grande scrittrice dà impulso al suo impegno politico e viene criticata dagli amici perché il suo antifascismo la spinge in alcuni momenti ad aiutare i comunisti. Il conflitto è ancora in corso

Scrive dalla casa di cura all’amato: «Ti racconterò storie meravigliose di matti. Tra parentesi, mi hanno eletta re in conclave» quando viene scossa da un nuovo attacco del suo male. Quella mattina del marzo 1941, prima di uscire ed andare al fiume per l’ultima volta, lasciò due biglietti alle persone che più aveva amato e più l’avevano aiutata: Leonard e Vanessa. Al marito scrisse: «Sento che sto per impazzire di nuovo. So che non possiamo attraversare un altro di questi terribili periodi… Mi hai dato la più grande felicità possibile.. Non riesco più a combattere. Lo so che ti sto rovinando la tua vita, che senza di me tu potresti lavorare. Hai avuto con me una infinita pazienza, sei stato incredibilmente buono. Se qualcuno avesse potuto salvarmi questo qualcuno eri tu. Tutto se ne è andato via da me, tranne la certezza della tua bontà. Non posso più rovinarti la vita. Non credo che due persone avrebbero potuto essere più felici di quanto lo siamo stati noi». Il fiume la inghiottì e restituì il suo corpo elegante ormai senza vita.


la morte di osama obama

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La figlia dello sceicco afferma: «Era vivo quando l’hanno preso». Ma i conti, tra ricostruzioni parziali e accuse velate, non tornano

Osama e il giallo mancato Le immagini, le armi, l’elicottero: è (inutile) polemica sulle false interpretazioni del blitz di Pierre Chiartano operazione Geronimo è già archiviata, con la morte di Osama bin Laden, ma si continuano a leggere “inesattezze” sui media, condite da qualche “mistero” vero e alcune ricostruzioni “false”. Materia che in futuro andrà ad alimentare teorie complottiste e analisi dietrologiche. Per non parlare della polemiche che montano. Obiettivo: screditare tutta l’operazione, che è stata invece un vero successo per l’intelligence e la politica Usa. Ma cominciamo dalle polemiche. La prima è che Osama bin Laden sarebbe stato preso vivo dalle forze speciali americane, e ucciso solo in un secondo momento, sempre nei primi minuti del raid. A sostenerlo, secondo quanto scrive sul suo sito online l’emittente satellitare Al Arabiya, sarebbe la figlia dello sceicco del terrore, catturata assieme ad altri familiari di bin Laden durante il raid alla villa fortificata vicino Islamabad. Al Arabiya cita «alte fonti della sicurezza pachistana» che hanno preso in custodia i familiari arrestati, ora ospitati nell’ospedale militare di Rawalpindi.

L’

L’affidabilità e la credibilità dei pakistani è ormai molto bassa, sono visti più come gli amici di al Qaeda che come alleati di Washington e pilastro della sicurezza interna americana. Edward Luttwak, intervistato da liberal, infatti aveva affermato: «La missione è riuscita perché non sono state coinvolte le autorità di Islamabad». E che un fatto così eclatante come l’eliminazione di Osama non possa non avere un cotè importante nella gestione della battaglia mediatica è provato dalle ultime dichiarazioni del direttore uscente della Cia, Leon Panetta. Forse preoccupato dalla circolazione di molte foto taroccate di bin Laden morto. In un’intervista, all’emittente Nbc, martedì sera Panetta è tornato sulla questione della diffusione delle fotografie di Osama dopo l’uccisione: «Non credo vi sia mai stato dubbio sul fatto che alla fine una foto sarà mostrata», ha af-

Il solito vizio di speculare sui “dubbi” per screditare gli Usa

No, non ci teniamo a vedere le foto di Luisa Arezzo l mondo intero aspetta gli scatti del corpo esanime di Osama Bin Laden. Qualcuno li attende come prova reale della sua morte, qualcun altro solo per soddisfare una voglia per certi versi macabra - di vedere il corpo dell’ormai ex leader di Al Qaeda. Gli scatti «raccapriccianti» - come li ha definiti il portavoce della Casa Bianca, Jay Carney sono attesi nelle prossime ore. Obama e i suoi collaboratori stanno decidendo in che modo renderli pubblici e soprattutto quali mostrare, per evitare l’indignazione del popolo musulmano di fronte a un corpo con «la testa distrutta» e «un enorme squarcio in mezzo agli occhi». Per questo sembra sempre più plausibile che, insieme alle foto del cadavere di Bin Laden, gli Stati Uniti decidano di diffondere quelle scattate nel corso della sepoltura in mare.

I

Per certi versi anche un escamotage utile a evitare il ripetersi di pesanti accuse come quelle lanciate ieri da una delle figlie di Osama. Secondo quanto riferito alla tv satellitare Al Arabiya da fonti di sicurezza pakistane, infatti, la figlia di “Geronimo” avrebbe protestato per l’uccisione del padre avvenuta soltanto dopo la sua cattura e non durante l’operazione. Una versione che non coincide con quella dal capo della Cia, Leon Panetta, che ha più volte ribadito come i Navy Seals avrebbero rinunciato a uccidere Bin Laden se «si fosse arreso». Evidentemente, nessuno ancora sa con certezza come sia andato, nel

dettaglio, il blitz. Quello che è certo è che in tanti - che potremmo definire certamente “di parte”, come l’Iran, lo Yemen e svariati leader o presunti tali di al Qaeda (nonché alcuni giornali italiani), sostengono che ci sono troppe ombre sulla fine di Osama. Troppi punti da chiarire. Un diapason continuo che trova la sua nota più alta nella dichiarazione di Mohammed Nias, dirimpettaio della villabunker di Abbottabad dove è stato ucciso il leader di Al Qaeda, che si dice certo che in quel compaund bin Laden non ci fosse e che dunque «il suo eroe» - è così che lo definisce - «è certamente ancora vivo».

Una granitica certezza sfatabile solo in un modo: con la foto del morto. La piazza lo chiede, vedremo se l’America deciderà di “sfamarla”. Per quanto ci riguarda, più che essere interessati alla foto, noi siamo interessati al fatto che sia stato assestato un colpo fondamentale al terrorismo internazionale. Vedere un corpo irriconoscibile non fugherebbe i nostri dubbi, qualora li avessimo. L’onere della prova, però, non è a senso unico. Se qualcuno è convinto che sia tutta una montatura e che bin Laden sia vivo e vegeto e lotti per la causa, può sempre provarlo. E far riecheggiare i suoi anatemi in mondovisione. Però ci deve anche spiegare perché, da ieri, il procedimento penale del governo Usa contro Osama bin Laden sia stato archiviato, formalmente, per morte dell’imputato.

fermato il numero uno di Langley, pur riconoscendo che è in corso una discussione su come e quando diffondere le immagini, particolarmente crude e sanguinose. Mentre il segretario di Stato, Hillary Clinton e quello alla Difesa, Robert Ga-

più o meno affidabili, i numeri di telefono della propria preziosissima rubrica, la personale capacità di discernimento e sintesi dei fatti. Solo ieri sulla stampa nazionale si sono lette delle minuziose ricostruzioni dell’operazione che ha portato

Molti errori, commessi dai media per la fretta di ”cucinare” la notizia, possono alimentare le teorie del complotto, in un cortocircuito mediatico dove le speculazioni possono aver buon gioco tes sarebbero contrari. Meno male che c’è stata la diretta su Twitter da Abbottabad, altrimenti si sarebbe messo in dubbio anche l’esistenza di un’operazione Geronimo. In guerra la prima vittima è la verità. Ma questa volta più che a una diretta volontà dei protagonisti americani di mischiare le carte per ovvie ragioni di riservatezza – anche se nelle cultura Usa il concetto di verità è preso più seriamente che in Europa – di opportunità politica e di convenienza mediatica, la medaglia andrebbe data alla fretta con cui, oggi, molti operatori dei media sono costretti a “cucinare” le notizie.

Per non parlare dei professionisti del complotto. In un cortocircuito, in cui i primi alimentano gli altri. Anche chi scrive non è stato esente da errori. Un tempo, dovendo confezionare articoli su episodi così eclatanti, le fonti cui abbeverarsi erano le agenzie internazionali, i siti

all’uccisione dell’uomo nero di al Qaeda. I Navy Seals a bordo di quattro elicotteri Black Hawk – molto grandi e che possono trasportare un’intera squadra di commando – secondo la ricostruzione della maggior parte dei quotidiani avrebbero fatto parte della missione.

Uno di questi avrebbe «stallato» – termine tecnico usato in maniera impropria – e dopo un atterraggio di emergenza nel cortile della casa-bunker di Abbottabad, sarebbe stato fatto esplodere dagli stessi americani. Secondo una procedura standard per non abbandonare apparecchiature e sistemi che devono rimanere «segreti». Peccato che il video di un ignaro vicino di casa del principe dello jihadismo, armato di un telefonino, abbia ripreso la carcassa di quello che probabilmente è un elicottero d’attacco abbastanza simile all’Apache, ma con un rotore pluripala – un nuovo modello segreto come


la morte di osama obama

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Parla il politologo libanese Saad Kiwan

«Gli arabi? Esultano» di Martha Nunziata oddisfazione, sollievo, senso di liberazione, gratitudine per gli Stati Uniti, ma anche rabbia. Sono diversi i sentimenti che l’uccisione di Osama bin Laden ha provocato nel mondo arabo. La conferma la fornisce a liberal il politologo libanese Saad Kiwan, esperto di politica internazionale e fondatore del “Center for Media and Cultural Freedom” di Beirut. «Le reazioni del mondo arabo - dice - sono state tutto sommato positive, sia in Libano sia negli altri Paesi del Medioriente. Tutto il mondo arabo in questi mesi è molto cambiato, e con la primavera araba è sempre meno propenso ad ascoltare i predicatori di odio. In molti Paesi, poi, la notizia ha lasciato la gente addirittura indifferente perché bin Laden non rappresenta il mondo islamico. È vero che c’è una parte di quel mondo che lo piange come un martire, ma è solo una minoranza». Del resto al Qaeda è stato un nemico non solo del mondo occidentale, ma anche del mondo arabo, di quei Paesi ai quali Osama aveva dichiarato guerra.

S

affermava ieri altra stampa – che porta due soli membri d’equipaggio. Un mezzo utilizzato per la scorta armata dei Black Hawk. Nel video, pur di pessima qualità, è evidente il muso verso terra e la coda dell’elica anticoppia spezzata e appoggiata sul muro di cinta. Con la fusoliera caratterizzata da linee ad angoli vivi come quelle radar-assorbenti e il doppio tettuccio del mezzo biposto. Nessun segno visibile d’esplosione o incendio sulla struttura. Le foto mostrate ieri sul sito online di un noto quotidiano erano quelle di un elicottero sezionato, fatto a pezzi meccanicamente, piuttosto che esploso. L’immagine che mostra la zona interna al cortile, con alcuni resti

squadre di «Geronimo», cioè degli incursori della Us Navy del Team Six di base in Virginia. A seconda del vento passavano da nove a quattordici, poi a trenta per arrivare, tanto per essere sicuri, a una settantina. Probabilmente, di volta in volta, si confondevano gli operativi in azione con quelli di scorta e con il team al completo. Questioni di lana caprina si dirà. Probabile. Ma qualcuno elaborerà complesse teorie su queste inesattezze che potrebbero essere chiarite facilmente.

L’ultima chicca, tanto per non sconfinare nella pedanteria, è la versione ufficiale data dalla Cia. Occorre fare una doverosa premessa: Langley fa il proprio

Una ripresa col celllulare, fatta con la luce solare, svela che l’elicottero caduto era un nuovo mezzo di scorta, non un Black Hawk. L’elicottero sarebbe stato ”smontato” successivamente bruciacchiati, non è coerente con le riprese del videofonino che mostravano un elicottero biposto appoggiato a un muro esterno alla luce del giorno. Quindi girate già qualche ora dopo il termine della missione.

La pattuglia aerea non era dunque composta dai mezzi descritti sulla maggior parte dei giornali italiani e anche stranieri, a onor del vero. Poco importa si dirà. Forse. Ma qualcuno ci ricamerà sopra. Altro punto è la composizione delle

mestiere dando versioni ”ridotte” del prologo dell’operazione, dello svolgimento delle varie fasi e della sua conclusione. E anche i giornalisti dovrebbero fare il loro lavoro, stando attenti quantomeno a non enfatizzare notizie “improbabili”. Specialmente certa stampa nazionale, sempre pronta a teorie degne di un romanzo di Dan Brown, accetta per buone versioni discutibili, dimostrando una scarsissima competenza, sia quando grida al complotto sia quando digerisce certe noti-

zie, facendo anche il “ruttino”. Ma veniamo al punto. Leon Panetta vero protagonista della vicenda, giustamente fa una ricostruzione dei fatti compatibile con la strategia politica della Casa Bianca e parla di prove «circostanziali» sulla presenza di bin Laden in quel compound. Deve dar conto al suo presidente ma anche a un Congresso agguerrito e soprattutto ad un Paese che ha sete di verità. Il clima, descritto da Panetta e riportato dai media esattamente con la stessa atmosfera, è quello del rischio, dell’azzardo più o meno calcolato per raggiungere un obiettivo cercato per un decennio. È difficile credere che non ci fosse la certezza della presenza di Osama in quella palazzina fortificata, anche se esistono precedenti di azioni non andate a buon fine proprio per la frammentarietà delle informazioni.

Ma il capo dell’intelligence Usa, d’origine calabrese, voleva cambiare la Cia e c’è riuscito. Ed è probabile che già dal 2009, quando Obama mise tra gli obiettivi “strategici” della guerra afghana il principe nero del terrorismo, questo fosse stato localizzato con una certa sicurezza. Certezza che potrebbe essere stata fornita da un “traditore” vicino a bin Laden, che si vorrebbe naturalmente proteggere. E cosa cambia? Nulla: la missione è compiuta. Ma in futuro ci sarà qualcuno che speculerà anche su queste incongruenze.

ascoltano i soliti slogan, ma non è una novità». Uno degli interrogativi, ora, è su chi sarà il suo successore: «In prima fila c’è ovviamente al Zawahiri, il vero cervello di al Qaeda, ma c’è anche un altro medico egiziano, Saif al Adel, anch’egli egiziano e già scelto da Osama come capo delle operazioni terroristiche in Europa che potrebbe diventare il nuovo leader».

Soprattutto nel mondo arabo, però, c’è chi non è convinto che la pubblicazione delle foto del cadavere avrebbe causato un onda emotiva troppo forte: «Questo è un interrogativo che rimarrà aperto, come quello

« B i n L a de n - c on t i n u a Kiwan - si è macchiato anche del sangue arabo, ordinando stragi in Sudan, in Arabia Saudita, attentati in Iraq dove l’ultimo è stato particolarmente devastante. In Iraq, infatti, l’eco della sua uccisione ha avuto reazioni quasi euforiche, da tutte le parti politiche». Spicca, invece, la posizione di Hamas, che ha condannato l’uccisione di bin Laden, definendolo un “grande combattente della guerra santa musulmana”. Il capo del movimento che controlla la Striscia di Gaza, Ismail Haniyeh, ha condannato l’operazione Geronimo: «È vero - conferma Kiwan - ma quella di Hamas era una reazione prevedibile. Per loro Osama è sempre stato un musulmano contro l’imperialismo, e la sua eliminazione viene vista come la continuazione della politica di distruzione americana: per strada, quindi, si

Gli islamici «sanno che lo sceicco ha versato molto sangue musulmano. Le reazioni alla sua morte fanno pensare a un cambiamento» della scelta di gettare il cadavere in mare, un tradizione dei marines ma che va contro il diritto della shari’a. Ma la sepoltura in mare si usa solo se non è possibile arrivare alla terra ferma. Ecco perché i musulmani sono scettici sulla veridicità della preghiera durante la sepoltura del corpo in mare».


la morte di osama obama

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Obama vuole un’indagine sulle connivenze fra governo pakistano e Bin Laden. L’opinione del responsabile “Asia” dell’Atlantic Council

Per chi tifa il Pakistan? Tutte le incognite di una protezione (presunta) durata più di cinque anni di Shuja Nawaz a morte di Osama bin Laden ad Abbotabad, in Pakistan, ha riacceso i riflettori su una questione chiave: Islamabad può essere ritenuto un alleato o quanto meno un partner affidabile degli Stati Uniti? La domanda è lecita, visto che da una parte sembra aver aiutato Obama a scovare il nascondiglio della mente di al Qaeda e dall’altra sembra essere stato tenuto all’oscuro del blitz delle forze speciali americane per paura che bruciasse l’operazione. Un doppio binario che brucia sottotraccia le relazioni fra i due paesi e che ha gettato grande scompiglio nell’opinione pubblica pakistana: se è vero che Zardari non era stato informato dell’operazione, come è possibile che degli elicotteri siano entrati nel paese senza che nessuno se ne accorgesse? È così labile la sicurezza nazionale? Non sono domande da poco. Come non lo sono quelle che si pongono gli americani e che ri-

L

guardano il quartier generale di Bin Laden, a pochi passi dalla West Point pakistana, in un territorio militare. Osama era «ospite d’onore» dei servizi segreti di Islamabad? è l’interrogativo che circola a 360 gradi sia negli Usa che nell’intero Occidente. La vicinanza, in effetti, (parliamo di poche centinaia di metri, una quisquilia) è sospetta. Ma da sola non basta a stabilire un’associazione di-

stato maggiore Ashfaq Parvez Kayani aveva condannato duramente i continui attacchi portati nel Nord del Waziristan grazie ai droni, gli aerei senza pilota, che avevano causato la morte di 41 civili. In quell’occasione, il generale aveva parlato di «un’aggressione intollerabile nei confronti del popolo pakistano» e per via diplomatica aveva avvisato gli Usa di non farlo più trovare in una si-

Il governo ha negato ogni coinvolgimento nella copertura e nel blitz contro il leader di al Qaeda. Le loro parole non sembrano però aver convinto analisti, commentatori e politici retta. Certo, se venisse comprovata, ogni scommessa sulla credibilità pakistana sarebbe compromessa. E questo è un enorme problema.

Le relazioni Usa-pakistane hanno vissuto altri momenti di difficoltà. Il 17 marzo il capo di

mile circostanza, perché i droni li avrebbe tirati giù. E lo scorso aprile il capo dell’Isi, l’equivalente della Cia pakistana, era andato a trovare Leon Panetta per chiedergli di poter avere un maggior controllo sulle spie Usa attive in Pakistan. Dopo il blitz del primo maggio

la situazione è precipitata. Ma gli Usa hanno bisogno del Pakistan per stabilizzare l’Afghanistan prima del ritiro dei loro contingenti che dovrebbe cominciare a luglio.

Senza il supporto di Islamabad, infatti, sarebbe impossibile smantellare tutte le basi di al Qaeda nel nord ovest del paese. Senza contare quanto gli serva poter spostare le truppe in continuazione fra i due confini. Il Pakistan, d’altro canto, ha bisogno degli Stati Uniti. O meglio:

del loro supporto finanziario. Dal 2002 ad oggi si calcola che abbia ricevuto qualcosa come 9 miliardi di dollari per la lotta all’anti-terrorismo e quasi 20 miliardi di dollari per aiuti militari e finanziari. Epperò fra i generali circola grande scontento: perché non si sentono degli effettivi alleati americani, ma piuttosto dei servi a contratto. Pagati per i loro uffici e non trattati come pari. Sono anni che il governo pakistano, guidato da Asif Ali Zardari e dal primo ministro You-

Un editoriale del pakistano Daily Times punta il dito contro il governo: «Comunque sia andata, dovete dirlo. Almeno a noi»

Zardari decida se siamo buoni o cattivi uomo che per più di un decennio è stato il più ricercato del mondo, Osama bin Laden, ha costretto gli americani a compiere una folle corsa nel tempo e nello spazio soltanto per localizzarlo e ucciderlo. E questo è avvenuto non in un posto qualunque ma in Pakistan. E non in una cittadina qualunque ma ad Abbottabad, una città militare: in effetti, il nascondiglio del terrorista era a più o meno un miglio di distanza dall’Accademia militare di Kakul. Queste sono circostanze molto sospette e profondamente imbarazzanti, dato che il Pakistan è stato un alleato degli americani nella guerra al terrore sin dal primo minuto dopo l’undici settembre. Aver ritro-

L’

di Ghani Jafar vato il leader di al Qaeda sul nostro suolo, che viveva in un rifugio relativamente confortevole, è abbastanza per far sì che Washington ci ponga delle domante molto pressanti e difficili. Mentre aspet-

sibile che nessuno di loro sia stato coinvolto in questa operazione. Appena dopo aver saputo che delle truppe americane erano entrate con la forza in un palazzo di Abbottabad e

Abbiamo fornito le informazioni per catturarlo e poi ce ne siamo lavati le mani? Oppure non ne sapevamo davvero nulla? In ogni caso, così come stanno le cose il Pakistan ne esce male tiamo per i prossimi giorni l’ira statunitense, uno si chiede come potranno rispondere i militari anche ad alcune domande che vengono dall’interno: soprattutto vogliamo sapere come sia pos-

avevano ucciso bin Laden, tutti i pakistani hanno attesto una parola ufficiale da parte delle Forze armate e del governo. Hanno aspettato molto tempo. Sia il presidente Zardari che il ministero degli

Esteri hanno dichiarato in forma ufficiale che «non avevano idea» del fatto che bin Laden si nascondesse sul nostro suolo. Hanno anche aggiunto che, nella guerra al terrorismo, il Pakistan ha sempre sostenuto l’America. Nel discorso pronunciato per annunciare il successo dell’operazione, il presidente Obama ha riconosciuto che il luogo del nascondiglio di bin Laden è stato identificato grazie a un’operazione congiunta di intelligence e alla cooperazione del Pakistan. I nostri ufficiali hanno detto che l’operazione sul campo per uccidere il terrorista è stata una sorpresa, compiuta soltanto da soldati americani senza che noi ne sapessimo nulla in anticipo. Ma una persona normale trova questa


la morte di osama obama

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(e i conseguenti aiuti della coalizione internazionale) l’economia del paese collasserebbe all’istante e gli stessi militari cadrebbero in disgrazia. La verità è che i generali fanno la voce grossa pensando che l’America non taglierà mai gli aiuti accordati, qualsiasi cosa accada. Ma le cose non stanno così. Ed è prevedibile che alla fine dell’anno, quando il Congresso discuterà il piano di spesa per il 2012, i tagli si faranno sentire. Eccome se si faranno sentire dopo la morte di Osama Bin Laden e il dubbio che questi sia stato protetto per anni da chi si presentava come un alleato di ferro. Last but not least, gli Usa sono convinti che tenere sotto pressione il governo (con droni e altro) costringa quest’ultimo ad agire, ad esempio contro i santuari talebani presenti sul loro territorio. Un grave errore. Perché il governo non ha la forza politica di guidare alcunché. Al contempo, Washington crede che tenere in scacco i militari sia utile, ma anche qui sbaglia. Perché non considera che l’esercito si muove localmente e

borativi. La Cia, non nascondiamoci dietro a un dito, è più che operativa sul territorio pakistano ma non condivide praticamente nulla con il padrone di casa. Né politicamente né militarmente. La crisi diplomatica scaturita dopo l’affaire Raymon Davis, il contractor della Cia che per le strade di Latore ha ucciso due pakistani, ha messo in luce una crepa nel sistema intelligence Usa. Ovvero che non sempre è capace di controllare e sapere come agiscono sul campo i suoi agenti.

In questa atmosfera di sospetti e incomprensioni reciproche cresce lo scontento. Ci si allontana. E benché la collaborazione fra le due Forze armate vada alla grande in termini di training ed esercitazioni congiunte, è arrivata l’ora che gli Stati Uniti coinvolgano i soldati anche in operazioni strategiche. Almeno a livello decisionale sull’operato dei droni. È molto rischioso, non c’è dubbio. Ma è un rischio che bisogna correre per poter chiarire il quadro e capire chi si ha davanti. L’alternativa è la costru-

Al Congresso democratici e repubblicani chiedono di bloccare gli aiuti economici, sia civili che militari, che l’America fornisce per combattere il terrorismo (dal 2002 quasi 20 miliardi di dollari) saf Raza Gilani, alimenta la rabbia popolare per le incursioni dei droni statunitensi (esattamente come faceva l’ex presidente Pervez Musharraf). Lo scorso novembre, tuttavia, i cable di WikiLeaks hanno chiarito che Zardari da una parte attacca e dall’altra chiede agli Usa di intervenire. Il motivo è presto detto: il presidente ha tutto l’interesse a vedere distrutte le roccaforti terroristiche capaci di minare anche il suo potere. Ma dopo il raid del primo maggio, non potrà più

tollerare – per problemi di tenuta politica interna – nuove incursioni. Questo lo mette (anzi li mette, c’è anche Gilani) in una posizione delicatissima. Perché è evidente che per restare a galla entrambi hanno bisogno degli Stati Uniti. E non a caso alla fine di questa primavera Zardari è atteso alla Casa Bianca per una visita di Stato. Il punto è che sia i militari che l’intelligence pakistana sono alleati di ferro nel percorso di emancipazione dagli Usa. Sostenendo l’idea di un Pakistan

strategico a livello internazionale e capace di prendere le redini del proprio futuro e attivare un’autonoma guerra al terrore dentro casa.

Un paese, oltretutto, che annualmente gode di almeno 10 miliardi di dollari di rimesse dai concittadini all’estero e che dunque potrebbe farcela da solo. Una dichiarazione figlia esclusivamente del crescente sentimento di autonomia e che non corrisponde a verità. Perché senza i denari statunitensi

ha maggior interesse a garantirsi la sua sopravvivenza regionale che a guardare ai progetti americani. Oltretutto, gli insurgents (come li chiamano gli statunitensi) sono visti come una roccaforte utile a contrastare il peso dell’India - sempre più crescente - in Afghanistan. Ecco perché, più che porre domande insistenti al Pakistan, Washington dovrebbe lavorare con Islamabad e le forze armate per rendere gli sforzi tesi a distruggere le roccaforti talebane e di al qaeda davvero colla-

dichiarazione particolarmente difficile da credere. Una volta che si condividono le informazioni di intelligence, entrambe le parti coinvolte sanno che di queste informazioni qualcosa verrà fatta. Se poi si identifica in un condominio pakistano un obiettivo di altissimo valore, come è possibile che i membri della nostra intelligence dichiarino di non saperne nulla o si aspettino che siano gli americani a dirlo?

D’altra parte i talebani pakistani e altri gruppi qaedisti della zona hanno già detto che si vendicheranno del Pakistan. Il Paese ha fatto il doppio gioco per troppo tempo, e le circostanze dell’operazione che ha condotto alla morte di Osama bin Laden sono tutte molto pericolose. Se abbiamo aiutato gli Stati Uniti a rintracciare e uccidere il nemico pubblico numero uno, dobbiamo dirlo.

Alcuni residenti della zona in cui è avvenuto l’attacco hanno dichiarato che membri dell’esercito pakistano hanno chiesto loro, domenica notte, di spegnere le luci e rimanere in casa. Appena finito il raid, subito dopo che gli americani hanno lasciato il posto, sono arrivate polizia, vigili del fuoco e ambulanze. Un simile dispiegamento di forze, con tanta rapidità, è praticamente impossibile nel nostro Paese. È ovvio che qualcuno ha detto loro di tenersi pronti. Chiaramente conviene moltissimo per il Pakistan

zione di un’insormontabile barriera fra i due Paesi. L’economia e la politica pakistana sono deboli. I settarismi e le violenze etniche in costante aumento. L’inflazione è altissima, così come la carenza di cibo. La disoccupazione cresce e lascia senza prospettive la nuova generazione. E se non si farà qualche progresso sul fronte afghano la situazione è condannata ad esacerbarsi. È arrivato il momento di un confronto serio e serrato utile a smussare le divergenze.

dire che non c’entra nulla, in modo da evitare ritorsioni: ma questo tentativo sembra molto debole e, soprattutto, apre la porta a questioni molto più preoccupanti. La posizione dei militari, in effetti, grida ai quattro venti che gli america-

ni possono compiere incursioni di questo livello, in un’area molto sensibile, senza che nessun pakistano ne abbia la minima contezza. Si tratta di una posizione che di fatto ti auto-squalifica, e non viene presa seriamente da nessuno.

Se abbiamo fornito le informazioni ma poi ce ne siamo lavati le mani, il pubblico lo deve sapere: il nostro budget militare, ogni anno, tocca nuove vette e distrugge il campo dello sviluppo industriale e sociale. Quindi, se l’esercito e il governo “non sapevano nulla”dell’intera questione, è ovvio che dobbiamo rivedere le nostre priorità. Se invece le nostre forze sono state coinvolte in questo raid, allora dobbiamo dichiararlo con forza e orgoglio. Per dimostrare a tutti che il Pakistan combatte davvero contro il terrorismo internazionale.


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grandangolo L’accordo Fatah-Hamas è una sfida anche per Israele Il commento dell’ex consigliere di Ehud Barak

«La riconciliazione palestinese non deve per forza spaventare. È rischiosa, ma può far ripartire il processo di pace. A condizione che non si torni alla violenza degli anni passati». A dirlo è David Levy, senior fellow alla New America Foundation e alla Century Foundation. E soprattutto già braccio destro dell’ex primo ministro israeliano. «Non è un caso che la pace sia stata fatta adesso, sull’onda della primavera araba». Il vero pericolo? «Che Hamas non stia ai patti». di David Levy

er quasi 20 anni, le politiche di Fatah (la fazione dominante all’interno dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina) sono risultate scontate fino alla noia. Questa settimana al Cairo, accettando un accordo che prevede l’unità e la condivisione del potere con Hamas, Fatah ha stupito tutti. È vero che la riconciliazione nazionale palestinese è già stata tentata, fugacemente e senza entusiasmo, a seguito di un’intesa mediata dai sauditi nella primavera del 2007, e che potrebbe di nuovo fallire. Ma questa volta la mossa di Fatah sembra essere una rottura più calcolata e profonda con la prassi del passato, e la prevedibile condanna degli Usa sembra pesare meno.

P

Dalla decisione presa ad Algeri nel 1998 che vide il Consiglio Nazionale Palestinese adottare la soluzione dei due Stati sulla base dei confini del 1967, passando per la Dichiarazione dei principi di Oslo del 1993 che riconosceva il diritto all’esistenza di Israele, fino alla ripresa dei negoziati israelo-palestinesi del settembre scorso a Washington Dc, l’approccio dell’Olp si può ridurre a una semplice equazione: che una combinazione di atteggiamento conciliante palestinese, ragionato interesse personale da parte israeliana, e

influenza americana, avrebbe prevalso sugli squilibri di forza fra Israele e Palestina e portato all’indipendenza palestinese e alla fine dell’occupazione. Promuovere questa formula era una sfida sul piano dell’immagine per un Yasser Arafat segnato dalle campagne

La divisione palestinese fra moderati ed estremisti è stato il pilastro della politica americana Se l’accordo tiene, non lo sarà più militari, ma questi fu sostituito, oltre sei anni fa, da quel Mahmoud Abbas indiscutibilmente considerato favorevole alla pace. E ancora i palestinesi hanno continuato a ripiegare su questa

formula, nonostante il fallimento. Fatah ha portato avanti negoziati senza condizioni, un coordinamento di sicurezza con le forze di difesa israeliane, un processo di sviluppo delle istituzioni statali sotto l’occupazione, con un’inspiegabile fiducia nell’azione di mediazione americana, anche se gli insediamenti si diffondevano nei territori occupati, le elezioni erano state perse a favore di Hamas, e le accuse di collaborazionismo si inasprivano.

L’ultimo risultato della partita che si gioca in Palestina, il fayyadismo (che prende il nome dal primo ministro Salam Fayyad e si basa sull’idea che una buona capacità di governo palestinese indurrebbe Israele al ritiro, o almeno le pressioni della comunità internazionale la costringerebbero a farlo), è destinato a una fine ignominiosa entro questo settembre. Il programma di due anni finalizzato alla costituzione di uno stato avrà avuto successo, ma comunque non potrà far nulla contro l’inamovibile occupazione israeliana. Gli esiti sono sotto gli occhi di tutti. L’equazione di un’Olp conciliante non funziona. L’elemento principale di questa strategia era il dominio esclusivo della mediazione statunitense sul processo di pace. Nei mesi scorsi, i palestinesi si so-

no lentamente tirati fuori dalle strettoie americane. Abbas si è rifiutato di continuare i negoziati di settembre con Israele quando gli Stati Uniti non sono riusciti ad ottenere un’estensione della seppur parziale e limitata moratoria sugli insediamenti implementata da Netanyahu. L’Olp ha costretto il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ad un voto sugli insediamenti, nonostante le pressioni americane, lasciando gli Usa da soli con il loro veto e un voto finale di 14 a 1. Le preparazioni per un riconoscimento da parte delle Nazioni Unite dello Stato palestinese procedono rapidamente (ancora, in contrapposizione alla politica americana). In ultimo, e cosa più significativa, Fatah ha raggiunto questo accordo con Hamas. La divisione dei palestinesi, nei ruoli dei cosiddetti “moderati” contrapposti agli “estremisti”, è stata un fondamento della politica Usa (e di Israele). Se l’accordo di unità palestinese tiene, non lo sarà più. Non sarebbe accurato attribuire questo sviluppo ad un cambiamento radicale nella politica dell’amministrazione Obama. Piuttosto, questo passaggio si comprende meglio rispetto ad una situazione di attrito, congiuntamente alle nuove realtà regionali nascenti dalla Primavera Araba. L’attrito ha un contesto ovvio: nel corso de-


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Il leader di Fatah e presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Abbas, nome di battaglia Abu Mazen. Dopo aver “ereditato” il gruppo da Arafat, l’ha condotto su una linea più moderata che ha creato una scissione politica e dei gruppi militari. Nella pagina a fianco il leader di Hamas Meshaal, considerato da molte nazioni occidentali un terrorista per l’uso sconsiderato che fa delle brigate sotto il suo comando

gli anni, c’è stata un’inarrestabile crescita degli insediamenti israeliani e un persistente controllo sui territori. Quando gli accordi di Oslo furono firmati nel 1993, c’erano 111mila coloni solo nella Cisgiordania; oggi quel numero supera i 300mila, e il 60% della Cisgiordania e tutta Gerusalemme Est rimangono sotto l’esclusivo controllo israeliano. E c’è stata l’impunità puntualmente garantita ad Israele dagli Usa. Ciò che è cambiato è che, in una regione che sta attraversando un processo di democratizzazione, l’Egitto non riveste più il ruolo di garante dello status quo e sta riscoprendo la capacità di assumere una politica regionale che sia indipendente, costruttiva e recettiva nei confronti della propria opinione pubblica. La svolta nella posizione dell’Egitto era fondamentale per arrivare ad un progresso nella riconciliazione palestinese. L’accordo Fatah-Hamas incontrerà inevitabilmente una rocciosa opposizione da parte degli Usa. Il Congresso potrebbe decidere di interrompere il finanziamento all’Autorità Palestinese, potrebbe essere ritirata l’assistenza sulla sicurezza, e gli slogan politici di Israele («hanno scelto la pace con i terroristi invece della pace con Israele») saranno ben recepiti negli ambienti del Campidoglio. Ma, se dovesse tenere, questo accordo di riconciliazione sarà davvero uno sviluppo negativo per i palestinesi, gli Usa o anche per Israele?

Per i palestinesi stessi, l’unità interna sembra un prerequisito per la nascita di una nuova struttura e strategia nazionale, nonché per far rivivere un’Olp dotata di legittimazione, potere e rappresentatività. L’unità crea un’interlocuzione palestinese, la possibilità di una posizione più forte nei negoziati, e dà un accesso diretto ad Hamas per impegnarsi nel processo politico, qualora dovesse scegliere di farlo. Sarà de-

cisiva per qualsiasi strategia l’osservanza da parte palestinese del diritto internazionale e, in tale contesto, della non-violenza. I palestinesi farebbero bene ad evitare una rottura preventiva con gli Usa, ma una riduzione della dipendenza dagli Stati Uniti, inclusa la possibile interruzione degli aiuti americani, sarebbe assai lontana dall’essere un disastro e potrebbe agevolare un approccio più produttivo e intraprendente da parte palestinese per ottenere la propria libertà. L’unità, o addirittura

Questa firma può avere dei vantaggi per gli Usa: minori responsabilità da un lato e un utile rafforzamento della diplomazia egiziana dall’altro un voto dell’Onu per il riconoscimento, non costituiranno di per sé una strategia pienamente efficace o la fine dell’occupazione. Rimangono sfide enormi: amministrare il coordinamento sulla sicurezza (interna ed esterna), governare un’autorità autonoma limitata che, per poter funzionare, dipende dalla buona volontà di Israele e, non ultimo, alleviare la miseria conseguente all’isolamento di Gaza. L’unità, tuttavia, può essere un primo passo verso lo sviluppo di una strategia palestinese convincente sul piano locale e globale, soprattutto data la nuova prospettiva di un significativo appoggio egiziano. Per gli Usa, la questione israelo-pale-

stinese è un interesse cruciale per la sicurezza nazionale in una regione critica del mondo. Insieme a questo, le peculiarità della politica interna americana in merito a qualunque cosa sia legata ad Israele portano gli Usa ad ingabbiarsi e limitare la propria capacità di manovra in questo campo. Troppo spesso il risultato è l’impotenza diplomatica degli americani.

Potrebbero esserci dei vantaggi per gli Usa nel vedersi togliere in qualche modo il carico di questo problema, sia che ciò avvenga attraverso un aumento dell’indipendenza palestinese sul piano strategico, attraverso il rafforzamento della diplomazia egiziana, o un maggiore coinvolgimento dell’Europa o delle Nazioni Unite.Tali sviluppi potrebbero migliorare le prospettive di una soluzione, creare aperture per un impegno statunitense più efficace verso Israele, o almeno mitigare il crescente impatto debilitante che questa questione ha sulle posizioni Usa in Medioriente. Infine, Israele. È improbabile che Israele dia il benvenuto ad una controparte palestinese più indipendente, dotata di capacità strategiche o di maggior potere. Finora, Israele è non meno, ma più insicura ed incerta sul suo futuro. Sotto molti aspetti, l’aggravamento dello squilibrio nell’attuale processo di pace e l’esitazione palestinese sotto il profilo delle strategie dà ad Israele la falsa sensazione di un’impunità permanente e ne ha incoraggiato le tendenze più autodistruttive (non ultime, quelle verso la costruzione di insediamenti e il nazionalismo intollerante). C’è ragione di pensare che una correzione nell’atteggiamento da parte dei leader israeliani verso un maggiore realismo, pragmatismo e capacità di compromesso possa emergere in risposta ad un avversario palestinese più difficile, tattico e - si spera - nonviolento.

Netanyahu: «Una grande vittoria del terrorismo»

Tutti i punti (e le molte incognite) della pace di Laura Giannone accordo fra Fatah e Hamas firmato ieri al Cairo da Abu Mazen e Khaled Meshal grazie al contributo determinante della mediazione egiziana, e definito dal premier israeliano Netanyhau un «duro colpo per la pace e una grande vittoria per il terrorismo» prevede la costituzione di un governo ad interim di unità nazionale composto “da figure di alto profilo”non affiliate a nessuna delle due fazioni, la ripresa delle attività del Consiglio legislativo (il parlamento palestinese rimasto paralizzato a causa del dissidio tra i due movimenti), l’unificazione dei servizi di sicurezza, la liberazione dei prigionieri politici delle due fazioni detenuti nelle carceri di Gaza e della Cisgiordania, la ristrutturazione dell’Olp in modo da permettere l’ingresso di Hamas nell’organizzazione, l’avvio della ricostruzione di Gaza, e la convocazione di elezioni parlamentari e presidenziali entro un anno. Il presidente palestinese Mahmoud Abbas ha tenuto a precisare che il nuovo governo non sarà incaricato dei negoziati con Israele, i quali rimarranno prerogativa esclusiva dell’Olp e sua personale. Questa precisazione, e l’accortezza di voler costituire un esecutivo composto da “figure indipendenti”, hanno l’obiettivo di evitare che Israele e la comunità internazionale mettano subito in scacco il nuovo governo di unità nazionale riesumando la sequela di richieste che il Quartetto (Usa, Onu, Ue e Russia) aveva imposto al governo Hamas nel 2006 all’indomani della vittoria elettorale del movimento islamico palestinese: riconoscimento di Israele, rinuncia alla violenza (cioè alla resistenza armata), e accettazione degli accordi precedentemente firmati dall’Anp con Israele. Certo è che le dichiarazioni di ieri del leader di Hamas, Khaled Meshal: «La nostra unica lotta è quella contro Israele», non vanno nella giusta direzione. Ci sono poi delle sfide oggettive che peseranno come macigni sull’effettiva implementazione dell’accordo, tenuto conto che: 1) questo ha una forma molto vaga e comporta il rischio che la Palestina rimanga di fatto divisa in due entità separate: Gaza e la Cisgiordania; 2) sarà estremamente difficile armonizzare i servizi di sicurezza affiliati a Hamas con quelli dell’Anp addestrati e finanziati dagli Usa; 3) Fatah e Hamas dovranno accordarsi su un programma politico nazionale comune, che al momento non esiste. Non c’è comunque dubbio sul fatto che l’accordo sia anche il frutto dello stallo del processo di pace, del fallimento della mediazione Usa e della primavera araba, che da un lato ha sancito l’emergere di un nuovo governo al Cairo e dall’altro ha visto vacillare il regime di Damasco (“casa”di Hamas).

L’


ULTIMAPAGINA La stella dei Chicago Bulls è atleta dell’anno in Nba

È ufficiale, ora il nuovo Jordan è di Marco Scotti n nuovo gigante calca i parquet di Chicago: sulle orme del più grande di tutti i tempi, Michael Jordan, il giovane Derrick Rose è stato nominato “most valuable player” della stagione 2010-2011. Rose è il playmaker dei Chicago Bulls, squadra che deve gran parte della sua fama al mito del miglior giocare di sempre, His Airness (“Sua Altezza Reale”). Ma c’è anche un’intera città, Chicago appunto, che sgomita per spezzare il duopolio New York-Los Angeles e spera di riuscire a farlo anche grazie al talento purissimo di Rose. L’Mvp è il riconoscimento assegnato al miglior giocatore della lega cestistica americana. Rose è il più giovane atleta (22 anni e 212 giorni) nella storia dell’NBA a ricevere questo premio. E, insieme al riconoscimento personale, Rose è riuscito a riportare i Chicago Bulls, dopo tredici anni, al primo posto della classifica NBA. A Chicago c’è un fermento artistico senza pari nel resto degli USA, è all’avanguardia per quanto riguarda l’architettura e sarà quest’estate teatro del festival “Lollapalooza”, uno dei raduni di musica rock più importanti del mondo. Senza contare, ovviamente, che il presidente degli Stati Uniti proviene proprio dalla Windy CIty. D’altronde, Chicago è una città di cui, dopo Al Capone, ci si è dimenticati troppo in fretta. Oggi Chicago vuole riassaporare il gusto del primato, sportivo e non. E la storia di Rose è quella di un uomo atipico come lo è la città da cui proviene e che rappre-

U

È il più giovane atleta (22 anni e 212 giorni) nella storia a ricevere questo premio. Ed è riuscito a riportare la sua squadra, dopo 13 anni, al primo posto della classifica senta. Nato in un sobborgo di Chicago nel 1988, fa il suo ingresso nell’NBA nel 2008, chiamato proprio dai Bulls come prima scelta assoluta (onore che non era toccato nemmeno a Jordan). Il primo anno è notevole, tanto da fargli guadagnare il titolo di miglior rookie (matricola) dell’anno. Il secondo anno è quello della consacrazione, ma è in questa stagione che Rose diviene una superstar. Con il nuovo allenatore (Tom Thibodeau, che ha appena conquistato il premio di miglior allenatore dell’anno) Rose è il leader di una compagine giovane e ambiziosa, che dopo un inizio un po’

DERRICK ROSE stentato spicca il volo verso il miglior record NBA (61 vittorie a fronte di 20 sconfitte). Era dal 1998, ultimo anno dell’era Jordan-Bulls, che Chicago non raggiungeva il primato.

Ma che cosa rende Derrick Rose il migliore tra i migliori? Non ha fisico da super-uomo o medie realizzative da capogiro. In realtà, è proprio tutto questo a rendere Rose una superstar. È alto “solo” 191 centimetri per 88 kg, numeri che lo rendono un (quasi) normotipo. Già questa è una rarità per l’NBA perché, dati alla mano, solo altri tre giocatori alti meno di 195 cm (Bob Cousy, Allen Iverson e Steve Nash per due volte) hanno ottenuto l’MVP Award dalla sua creazione nella stagione 1955-56. Le medie realizzative non stellari – 25 punti a partita, lontanissime dagli oltre 50 di Wilt Chamberlain negli anni ’60, ma anche, in tempi più recenti, dai 37 di Jordan verso la fine degli anni 80 o dai 35 di Kobe Bryant nel 2005-2006 – sono però indicative di un Rose vero uomo squadra, in grado di distribuire quasi 8 assist a partita. Il fatto poi di non essere un personaggio fuori dal campo, di non nascondere il soprannome “Pooh” datogli dalla nonna, di non fare mistero della sua passione per gli orsetti gommosi e per il ping pong, fanno di Rose un anti personaggio per antonomasia che è una rarità in un NBA che ha dovuto fare i conti l’anno scorso con una lite negli spogliatoi tra compagni di squadra in cui sono state tirate fuori ar-

mi per fortuna scariche. Insomma, anche da questo punto di vista rappresenta la discontinuità. Rose è il nuovo appiglio cui tutti i tifosi dei Bulls si stanno reggendo a oltre 10 anni dal ritiro di Michael Jordan, il Maradona del basket, cui tutti i talenti più puri vengono prima o poi accostati. Rose non è ancora ai suoi livelli, anche se ha ottenuto risultati di squadra più importanti di quelli del suo predecessore. Ma la differenza con Jordan sta anche nei guadagni: His Airness è stato il primo a fare del proprio nome un business planetario, legando il proprio nome in modo indissolubile a un’azienda come la Nike – che al momento dell’accordo con Jordan all’inizio degli anni 80 era una realtà relativamente piccola – e arrivando a guadagnare con i contratti pubblicitari cifre vicine ai 100 milioni di dollari all’anno.

Rose invece percepisce 5 volte meno della star più pagata, Kobe Bryant (25 milioni di dollari a stagione) ma anche meno della metà di alcuni suoi compagni nei Bulls, non avendo contratti di sponsorizzazione, eccezion fatta per Adidas, analoghi a quelli di Jordan. Vero è anche che il contratto di Rose scadrà tra non molto, e rinegoziarlo a quel punto diventerà molto più oneroso per i Bulls o per chiunque vorrà regalarsi la sua classe cristallina. E se sarà anche grazie a Rose che Chicago avrà definitivamente riconquistato il ruolo di protagonista, lo scopriremo solo tra qualche anno.


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