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he di cronac

Ci sono persone considerate coraggiose perché hanno troppa paura per scappare

Thomas Fuller

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 6 MAGGIO 2011

LUCA BELLOTTI

GIAMPIERO CATONE

BRUNO CESARIO

ANTONIO GENTILE

DANIELA MELCHIORRE

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

AURELIO MISITI

CATIA POLIDORI

ROBERTO ROSSO

RICCARDO VILLARI

Il governo si allarga a dismisura: «Una decisione logica», spiega Berlusconi. «Merita solo compassione», commenta Fini

Le Poltrone Della Libertà In omaggio al libero mercato (e pensiero) il premier paga il debito con la ”banda degli onesti” transfughi che gli ha salvato la maggioranza. Nove sottosegretari: ma già ne vogliono altri dieci Le ultime parole famose

«Abbiamo portato in politica una moralità nuova» Silvio Berlusconi

Il Cavaliere fa un mezzo passo indietro

L’ipotesi-Tremonti apre la (vera) partita per la successione Per la prima volta, il premier ha parlato in modo verosimile della sua uscita di scena. Ma la timida promozione del superministro appare più che altro come il barcamenarsi di un uomo sotto ricatto di tutti Errico Novi • pagina 4

di Franco Insardà

ROMA. Appena dopo aver placato i “pacifisti”padani, dopo aver dato pubblica investitura alla successione al sempre più potente ministro dell’Economia, il Cavaliere ha dovuto accontentare la scalciante terza gamba della sua maggioranza che da tempo attendeva il suo turno per passare all’incasso. Sono nove, per il momento, i nuovi sottosegretari nominati nel corso del Consiglio dei ministri di ieri: Roberto Rosso all’Agricoltura, Luca Bellotti al Welfare, Daniela Melchiorre e Catia Polidori allo Sviluppo Economico, Bruno Cesario e Antonio Gentile all’Economia, Aurelio Misiti alle Infrastrutture, Riccardo Villari ai Beni Culturali e Giampiero Catone all’Ambiente. a pagina 2

Al gruppo di contatto il ministro Frattini non chiede nulla sui tempi della missione

Il mondo apre la banca di Bengasi Dal vertice di Roma arriva via libera al finanziamento dei ribelli Una voce rimbalza sulla stampa saudita

L’analisi del reponsabile dell’Icg

E se al Zawahiri avesse tradito Osama?

A Damasco è iniziata la resa dei conti

di Luisa Arezzo

di Peter Harling

arebbero stati gli egiziani di al Qaeda, guidati dal numero due dell’organizzazione, Ayman al Zawahiri, a tradire Osama bin Laden, rivelando agli americani dove si nascondeva. Un tradimento giustificato dalle divergenze tra Bin Laden e al Zawahiri. È la tesi avanzata dal quotidiano saudita Al Watan. a pagina 10

ista da Damasco, la crisi che attanaglia la Siria si sta avvicinando alla resa dei conti. Il regime sembra aver smesso di far finta di poter offrire una via d’uscita. Più che mai, esso dipinge il confronto come una guerra combattuta contro un nemico straniero a cui attribuisce la colpa di tutte le vittime. a pagina 12

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Pierre Chiartano • pagina 6 I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

87 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Risposta sul biotestamento

Caro Veronesi, ecco qual è la scelta più umana di Paola Binetti l 28 aprile Veronesi, insieme al collega Ignazio Marino, ha consegnato al Presidente Fini una preoccupante nota di allarme, sottoscritta da 10.000 persone, le cui firme sono state raccolte pressoché esclusivamente con la collaborazione della CGL e della FP CGL. In questa nota medici, personale sanitario e privati cittadini sostengono che il ddl sulle Dichiarazioni anticipate di trattamento presenta chiari segni di incostituzionalità. Il disegno di legge dovrebbe approdare nell’aula parlamentare della Camera il prossimo 18 maggio. I due senatori, memori della pesante sconfitta che la loro posizione ha subito due anni fa al Senato, cercano ora in tutti i modi di riproporne la bocciatura alla Camera utilizzando le stesse argomentazioni.Va in questa linea la lettera di Veronesi, pubblicata domenica sul Corriere.

I

segue in ultima pagina

19.30


prima pagina

pagina 2 • 6 maggio 2011

il fatto Via libera al decreto che aumenta le poltrone dell’esecutivo. E Fini commenta: «Il premier merita solo compassione»

La banda degli onesti

La truppa dei «responsabili» e degli ex Fli ottiene il primo rimborso. Berlusconi spiega: «Decisione logica. Presto altri dieci sottosegretari» di Franco Insardà

ROMA. Appena placati i “pacifisti” padani e aver dato pubblica investitura al sempre più potente ministro dell’Economia, il Cavaliere ha dovuto accontentare la scalciante terza gamba della sua maggioranza che da tempo attendeva il suo turno per passare all’incasso. Sono nove, per il momento, i nuovi sottosegretari nominati nel corso del Consiglio dei ministri di ieri: RoberLUCA BELLOTTI Ex-finiano doc, politico di lungo corso negli enti locali veneti, ha fatto il doppo salto: Pdl-Fli-Pdl.

to Rosso all’Agricoltura, Luca Bellotti al Welfare, Daniela Melchiorre e Catia Polidori allo Sviluppo economico, Bruno Cesario e Antonio Gentile all’Economia, Aurelio Misiti alle Infrastrutture, Riccardo Villari ai Beni culturali e Giampiero Catone all’Ambiente. A questi si aggiunge la nomina di Massimo Calearo, l’industriale vicentino eletto nel Pd con la benedizione di Walter Veltroni e poi passato alla maggioranza dopo una fu-

gace apparizione nell’Api di Rutelli, a consigliere personale del presidente del Consiglio per il Commercio estero.

identico tratto caratteristico: sono degli specialisti nel cambio di casacca. E il presidente Berlusconi, da esperto uomo di calcio, conosce bene le regole del calciomercato e le ha applicate anche al Parlamento.

cutivo a dicembre, ma a Politico febbraio ci ha inquieto, ripensato e è passato da ieri è sotdalla Dc tosegretario (area al Welfare. De Mita) Percorso siall’Ulivo, al mile anche Pd, all’Api, per Roberto infine ai Rosso che a responsabili novembre del 2010 era entrato in Fli e ha votato la sfiducia del 14 dicembre, ma a febbraio è di nuovo alla corte del Cavaliere per diventare, da ieri, sottosegretario all’Agricoltura.

BRUNO CESARIO

Il premier, com’è nel suo stile, ha tentato di presentare le nomine come una scelta di alto profilo, ma la dichiarazione ha assunto più il significato di una excusatio: «Ci saranno tante ironie, ma non mi sembrano fondate perché i sottosegretari fanno parte della terza gamba, del gruppo formato alla Camera in sostituzione del Fli, che ha liberato posti nel governo: era logi- Della pattuglia fanno parte co assegnarli al gruppo che ha infatti parlamentari provenienti sostituito Fli e che consente al dai Responsabili, anche se a fagoverno di operare in Parlamen- re la parte del leone sono gli ex to con una maggioranza coesa e Pdl rientrati dopo la parentesi in sicura». Mentre Giulio Tremonti, Futuro e libertà. Per questi ultialla conferenza stampa per il dl mi si è mutuata la parabola del sviluppo, se ne è uscito con una figliol prodigo e il vitello grasso delle sue battute: «All’elenco dei sacrificato è stata la poltrona di sottosegretari bisogna aggiun- sottosegretario. Luca Bellotti gerne un altro: io. Sono infatti il era un finiano di ferro, al punto da organizzasottosegretaGIAMPIERO CATONE re la Festa tririo part-time colore di Midei ministri Napoletano, rabello del setBrunetta e «voce dei tembre scorso Calderoli». cattolici», la durante Dei nuovi uopassò a Fli quale il presimini di govercon tutti dente della no, con l’eccegli onori. Camera prese zione di AntoDopo molti le distanze da nio Gentile, setormenti Berlusconi. natore del Pdl è tornato Quindi aveva e prima di Forindietro votato la sfiza Italia, gli alducia all’esetri hanno un

Il neosottosegretario allo Sviluppo economico Catia Polidori ha il merito di aver abbandonato la pattuglia finiana in Parlamento, insieme con Silvano Moffa e Maria Grazia Siliquini, poche ore prima del voto di sfiducia e di avere, in pratica, salvato il governo Berlusconi. Più complicato il cammino di Giampiero Catone, direttore politico della Discussione fondata da Alcide De Gasperi, che è entrato in Parlamento come cofondatore del Pdl con la DcA del ministro Gianfranco Rotondi, poi aderisce con entusiasmo a Fli, ma nella ormai famosa mattinata del 14 dicembre ci ripensa e vota la fiducia. Entra a far parte del gruppo dei Re-

sponsabili e diventa, così, sottosegretario all’Ambiente.

A formare la nuova pattuglia di sottosegretari ci sono i due campani di provenienza Pd Bruno Cesario e Riccardo Villari. Il primo, sottosegretario all’Economia, a Montecitorio è stato davvero un irrequieto : eletto nel Pd, è passato al gruppo Misto, poi all’Api di Rutelli, poi ancora nel Misto e infine, dopo il voto di fiducia del 14 dicembre, è approdato ai Responsabili. Il senatore Villari, invece, all’inizio di questa legislatura ha avuto un momento di gloria quando, provocatoriamente eletto dal centrodestra alla presidenza della commissione di Vigilanza, non volle seguire le direttive del suo partito di allora, il Pd, e rifiutò di dimettersi. Dopo un lungo braccio di ferro fu “dimissionato”, ma lasciò il partito, passando nel Misto e oggi è un ANTONIO GENTILE Forzista storico, calabrese, aveva meritato i galloni governativi senza passare per Fli


il retroscena

Povero Pionati, vittima dell’ingratitudine La grande spartizione ha lasciato fuori molti pretendenti: sarà per la prossima volta? di Francesco De Felice

ROMA. Non ha mai nascosto le sue simpatie per Berlusconi e per il centrodestra sia quando confenzionava l’ormai famoso “panino” parlamentare per l’edizione del Tg1, sia quando era portavoce dell’Udc. È stato tra i primi a fare il salto della staccionata e correre a Palazzo Grazioli per abbracciare la causa berlusconiana. Lui, da novello Artù, avrebbe voluto avere un posto di riguardo alla tavola del Cavaliere, così come è stato per Massimo Calearo, investito della nomina di consigliere personale del premier per il Commercio estero. Pionati, forse, avrebbe voluto magari diventare consigliere per l’informazione, visti i suoi trascorsi professionali.

Ma non è andata così e Francesco Pionati, fondatore dell’Alleanza di Centro, che per mesi ha lavorato pazientemente a costruire pezzo dopo pezzo, Razzi dopo Razzi, Scilipoti dopo Scilipoti, la terza gamba della maggioranza, è rimasto appiedato. Nonostante la dichiarazione dei Responsabili di qualche giorno fa di voler soprassedere ai loro incarichi in nome delle urgenze del Paese. Eppure Pionati era accreditato non come semplice sottosegretario, ma come viceministro alle Comunicazioni. Poi nella strategia di via dell’Umiltà qual-

DANIELA MELCHIORRE Liberaldemocratica, sul suo sito un tempo si annunciava come la «deputata preferita dai camionisti». Altri tempi!

esponente del gruppo di Coesione nazionale e sottosegretario ai Beni culturali. Un’altro funambolo è certamente il sottosegretario alle Infrastrutture Aurelio Misiti, collega nell’Italia dei valori del famoso Domenico Scilipoti, è transitato prima nel gruppo Misto, poi nella componente Movimento per le autonomie Alleati per il Sud, per schierarsi con il governo Berlusconi a febbraio, quando si è votato in Parlamento sul caso Ruby.

L’ultima arrivata, poche settimane fa, e subito premiata, è Daniela Melchiorre, già sottosegretario alla Giustizia nel 2006 con il governo Prodi. Eletta nel Pdl, passata nel Misto dove ha formato i “LiberaldemocraticiRepubblicani”, la Melchiorre si è segnalata per essere riuscita a cambiare schieramento periodicamente, passando dall’opposizione al voto di fiducia il 14 di-

cosa è cambiato e il giornalista è rimasto al palo. Al suo comprensibile malumore ha cercato di mettere una pezza il suo principale interlocutore del Pdl in questi mesi di trattative, il coordinatore Denis Verdini: «A Francesco Pionati è stato chiesto di fare un momentaneo passo indietro, ma il suo comportamento sarà premiato il prima possibile».

Cerca di buttare acqua sul fuoco anche Luciano Sardelli, capogruppo di Iniziativa responsabile alla Camera, che, forse in-

Verdini: «Gli è stato chiesto un momentaneo passo indietro, ma il suo comportamento sarà premiato il prima possibile» cosciamente, usa un termine calcistico a riprova del clima da calciomercato nel quale si vive a Montecitorio: «C’è spazio per un recupero nei tempi supplementari, basta avere forza e calma». Mentre si dichiara soddisfatto Silvano Moffa, esponente di Iniziativa responsabile: «Ci sono spazi che vanno ancora occupati, ma non credo che tra noi ci siano delusi». Anche

cembre, aderendo al Terzo Polo a dicembre, fino a essere nominata sottosegretario allo Sviluppo economico. Ieri il Consiglio dei ministri ha deciso anche che Sonia Viale, già sottosegretario all’Economia, è stata spostata con lo stesso incarico all’Interno.

Ovviamente le opposizioni non hanno mancato di criticare queste nuove nomine e anche l’ironia non è stata lesinata. Antonio De Poli, portavoce dell’Udc ritiene che «visto quel che gli sta costando tenere in piedi la sua rabberciata maggioranza, comprendiamo il perché Berlusconi, proprio oggi, rilanci l’idea di ridurre i parlamentari. Da qui in avanti, chiunque avrà altri tre parlamentari suoi amici, potrà rivendicare con forza un incarico nel suo governo. Questo non è più il terreno della politica, ma un vero e proprio

AURELIO MISITI Sudista storico, ha un passato nel Pci, nell’Idv e nell’Mpa. Insomma, un vero politico di professione

se un altro coordinatore del Pdl Ignazio La Russa ha riconosciuto: «C’è anche qualche legittima aspirazione di chi è rimasto sempre al fianco del presidente che viene rinviata». Concetto ribadito ai microfoni di Radio Radicale dal deputato dei Responsabili Mario Pepe: «Iniziativa responsabile è costituita da tanti piccoli movimenti, si pensi solo che ci sono cinque segretari nazionali di cinque partitini: si capisce quindi come è stato difficile fare una sintesi e indicare dei nomi per la carica di sottosegretario. Ma se si vuole fare funzionare il governo nei rimanenti due anni servono altri sottosegretari».

E così non appena la prima pattuglia di transfughi è stata accontentata, subito Berlusconi ha dovuto placare gli“scontenti”che avrebbero voluto un posto al sole nel suo esecutivo. «No, non è finito: intendiamo aumentare il numero dei componenti della squadra di governo. Faremo un apposito disegno di legge. Ci sarà la possibilità per tanti parlamentari, che giustamente ritengono di essere utili nel governo, di trovare soddisfazione a queste loro aspirazioni», si è affrettato a dichiarare il premier. Che tradotto significa un messaggio chiaro per chi ha ancora delle velleità e vuole avere una poltrona, come Giuseppe Galati e Mario Baccini che hanno polemicamente detto:

mercato. E quando si scende su questo piano ognuno fa solo i suoi interessi. Il governo dimo-

CATIA POLIDORI Umbra, con Moffa salvò il governo nelle votazioni del 14 dicembre. Meritava un premio

stra ancora una volta di aver dimenticato da tempo quelli del Paese».

Caustico come sempre Massimo D’Alema secondo il quale queste sono «le prime misure concrete del governo Berlusconi contro il dramma della disoccupazione. Saranno contenti quei 19». Riferendosi oltre che ai nove anche altri altri dieci che saranno nominati sottosegretari prossimamente. Il presidente dei senatori del Pd Anna Finocchiaro si augura che «si limitino a incassare le prebende e limitino i danni solo all’erario e alla credibilità del Paese. Il pirotecnico presidente del Consiglio, giustamente preoccupato dell’eccessivo numero dei parlamentari, non trova di meglio

«Prendiamo atto che gli impegni assunti da Berlusconi, non sono stati mantenuti».

La strategia adottata da Berlusconi per questa prima tornata è stata, però, quella di privilegiare gli ex di Futuro e libertà per lanciare un messaggio chiaro agli altri che sono con Fini: tornate nel Pdl e sarete premiati. In ballo oltre ai posti di sottosegretario c’è anche la poltrona di ministro per le Politiche comunitarie lasciata vuota da Andrea Ronchi e che, secondo qualcuno, il Cavaliere vorrebbe riassegnargli. Non ha voluto fare commenti, invece, sulla nomine il leader della Lega Umberto Bossi che alla domanda: pace fatta con Berlusconi? ha risposto: «Vediamo». Anche perché la Lega ha in pista Sebastiano Fogliato, che fu in predicato di sostituire Luca Zaia all’Agricoltura, e l’ex membro del Csm Matteo Brigandì che secondo ben informati «ha bisogno di essere sistemato subito...».

che proporre un disegno di legge per aumentare il numero dei componenti del governo. Fantastico. Un suggerimento: perché non riduce a 50 il numero dei parlamentari e porta a mille il numero dei rappresentanti del governo? Todos caballeros. Avrebbe precedenti illustri».

Molto critici gli esponenti di Futuro e libertà che vedono in queste nomine il tentativo di far capitolare altri aderenti al gruppo finiano. Intanto Gianfranco Fini ha risposto alle ultime battutine riservategli dal premier notando che «Berlusconi è ossessionato e merita solo compassione». Bocchino ha commentato in modo impietoso l’ultima girandola di investiture: «È ROBERTO ROSSO Altro transfuga da Fli, esordì con la Dc ma aderì subito a Forza Italia. Piemontese, professione politico

uno degli aspetti squallidi della politica che si registra ciclicamente ed è accaduto anche ora. Hanno pagato il prezzo previsto

RICCARDO VILLARI Decano dei saltatori della quaglia, ex Pd, occupò per mesi la Vigilanza Rai, benché eletto dal centrodestra

per il passaggio mercenario in maggioranza di alcuni parlamentari. Un passaggio che, a suo avviso, è a sostegno di un governo in cui non credono in cambio dello stipendio, dell’auto blu o di assunzioni come sottosegretari a spese dei contribuenti».

Il suo collega di partito Fabio Granata ha rincarato: «I “disponibili”sono accontentati, il prezzo è stato pagato, la Patria è salva!». E il senatore Giuseppe Valditara aggiunge: «Così finalmente è stato pagato un prezzo a coloro che hanno abbandonato Futuro e libertà per ripassare con Silvio Berlusconi. Nell’Italia berlusconiana tutto si compra e tutto si vende: dal bunga bunga ai consiglieri regionali, ai sottosegretari. Solo chi ha resistito a questa vergognosa trattativa può continuare le sue battaglie a testa alta».


l’approfondimento

pagina 4 • 6 maggio 2011

Dietro l’investitura, ribadita ieri, c’è il tentativo di negoziare una resa onorevole con la Lega. Mentre il Pdl è sempre più inerte

Ipotesi su Giulio

Controvoglia, Berlusconi ha fatto il suo nome. Ma se la Moratti dovesse perdere, i tempi potrebbero accorciarsi. Gli scenari della disfida tra il superministro e un premier che appare sempre di più un uomo sotto ricatto di tutti di Errico Novi

ROMA. Insomma: una boutade? Una roba da niente? «Solo una manovra per sovraesporlo», come dicono dietro l’anonimato molti berlusconiani? O l’investitura a Tremonti ha una consistenza politica? Dopo l’iniziale disincanto in cui s’è rifugiato il Pdl nelle prime ore, cominciano a diffondersi preoccupate riflessioni. Intanto il presidente del Consiglio concede un vero e proprio show all’appena “designato” superministro: subito dopo il Consiglio che sancisce le nomine dei sottosegretari e il via libera di massima al decreto sviluppo, è infatti il responsabile dell’Economia a prendersi la scena. Il premier introduce la conferenza stampa, riconosce a Tremonti di aver realizzato la «mission impossible» cioè «l’uscita dalla crisi con i conti in ordine». E soprattutto conferma l’investitura, spiega di aver letto «cose al di là di quanto avevo detto» sulla designazione di Alfano e quindi di aver voluto chiarire che «in primis c’è Tremonti, perché è la persona che conoscete tutti, è stimata all’e-

stero come in Italia e ha conseguito uno straordinario risultato». A quel punto gli lascia il microfono, lascia pure la sala, e lui, Giulio, illustra uno per uno gli articoli del decreto. Gongola al passaggio su «quelli secondo i quali non facciamo nulla per l’economia, e invece ecco provvedimenti in cui, credetemi, c’è davvero tanto per lo sviluppo». A fine conferenza, quando il notista econominco della Stampa gli chiede, con garbo, del “delfinato” attribuitogli la sera prima a Porta a Porta, il ministro fa un dribbling alla Messi: «Perché deve essere cosi polemico? Non può fare domande normali?».

Non c’è imbarazzo dunque, né nel monarca né nel successore. Tutto naturale. Possibile allora che quel nome offerto mercoledì sera e rilanciato il giorno dopo sia solo un nome a caso? O peggio una polpetta avvelenata? Un fedelissimo del premier, uno che ha avuto qualche merito nella caccia ai deputati di questi mesi, osserva: «Tremonti è un leader che non ha consenso po-

polare ma ne ha tanto a livello internazionale. È l’unico in grado di subentrare dopo Berlusconi». Un dopo che «non è detto arrivi nel 2013 perché il presidente deve ancora fare tanto per l’Italia». Ma una cosa è certa, prosegue l’interlocutore: «Tremonti è l’unico in grado di unire. Su Alfano la Lega ha sùbito storto il naso, ha iniziato con battute tipo “è un terrone” e così via. Il ministro dell’Economia invece andrebbe bene anche al Nord». Stavolta insomma «è una cosa seria». Non un siluro.

Come si spiega la svolta? Impossibile separarla da quanto avvenuto nei giorni scorsi sulla politica estera. Gli ultimatum della Lega sono stati estenuanti. Berlusconi ha temuto davvero per la tenuta dell’esecutivo. Giulio Tremonti si è ritagliato l’imprevedibile ruolo di negoziatore. E ora incassa un dividendo persino inatteso. Alla Lega, come fanno notare ancora dal Pdl, «interessano partite a breve termine, nomine anche extragovernative». Ma interessa sicuramente anche un’intesa di massi-

«Stavolta la cosa è seria, Alfano era una boutade», ammette qualche fedelissimo

ma per il dopo. Ancora da definire, se è vero che Bossi, interpellato sulla fine delle ostilità, ancora risponde «vediamo». Berlusconi d’altronde concede l’apertura su Tremonti proprio perché lo deve a Bossi, e allo stesso Tremonti che ha scongiurato la rottura tra lui e il Senatùr. È il conto da pagare. Non subito. E non necessariamente nel 2013. Ma certo, ora che l’investitura si è dirottata dal Guardasigilli al Professore di Sondrio, il Carroccio è più tranquillo. Maroni a parte.

Poi nel Pdl possono scatenarsi tutte le fibrillazioni possibili. Ma una cosa è certa. La crisi dell’esecutivo sulla Libia ha mostrato ancora una volta che la Lega è un partito solido, determinato, dalle idee chiare. E che invece il Pdl non lo è, perché manca proprio della necessaria determinazione, della capacità di fare squadra e bilanciare le spinte dell’alleato. A Berlusconi la cosa non sfugge. Non gli è mai sfuggita. Quindi non può che addivenire a un inizio di resa nei con-


maggio 2011 • pagina 5

Dopo il rigore, previste uscite per l’edilizia e per i precari della scuola: un po’ poco, forse...

Anche la ripresa economica passa per le urne di Milano

Il decreto sullo sviluppo approvato ieri dal governo è «minimalista»: non vuole impegnare troppo il superministro prima delle elezioni di Gianfranco Polillo pparentemente una posizione minimanista, per altro non scevra da rischi politici, vista l’imminenza della tornata elettorale. Nessuna manovra correttiva – come si è affrettato a precisare il sottosegretario all’economia Luigi Casero – ma semplice manutenzione. Quei 7 miliardi in più, che peseranno sul bilancio dello Stato nei prossimi due anni, andranno a copertura di nuove spese: prima fra tutte gli impegni di carattere internazionale. Ma se Giulio Tremonti non osa, che dire dell’opposizione? Il giovane Letta, a nome del Pd, propone un intervento che lui stesso valuta in “mezzo miliardo” di euro. Una goccia nel mare stagnate dell’economia italiana. Un coraggio che non si vede né a destra e tanto meno a sinistra. Rimane solo Giuliano Ferrara, a invocare sulle onde di Radio Londra, una scossa salutare nel sogno della rivoluzione liberale. Eppure nei giorni passati il clima era diverso. Le insoddisfazioni per lo stato dell’economia italiana erano palpabili, soprattutto all’interno della maggioranza. Poi l’intervista di Giancarlo Galan, al Giornale, ha rimesso indietro le lancette dell’orologio. E a nulla è valso – anzi l’effetto è stato ancor più controproducente – l’articolo de Il Giornale: «Tremonti aizza la Lega». Elementi questi che, insieme alle complesse vicende della Libia, hanno rafforzato la posizione del ministro dell’Economia, e spinto Silvio Berlusconi a indicarlo come uno dei possibili – “in primis”ha detto testualmente – “delfini”. Delfini che, come ha ricordato Calderoli, spesso finiscono nelle reti o sono mangiati dagli squali. Ma in genere questi pericolosi cetacei attaccano i pesci più piccoli. La statura del Ministro dell’economia, se non altro per il riconoscimento internazionale di cui gode, è tale da poter sventare eventuali tentativi. Il problema italiano, in definitiva, resta sempre lo stesso: cosa ha in testa veramente Silvio Berlusconi. Finchè resta della partita, difficilmente si potranno fare i conti senza l’oste.

A

Giulio Tremonti, comunque, un successo l’ha ottenuto. Ha conquistato il centro del “quadrato”. Una posizione di vantaggio secondo le regole della boxe. Lo stesso Berlusconi, seppure a denti stretti, ha dovuto riconoscere che al rigore non sussistono alternative. Gli ha fatto eco Enrico Letta, nell’intervista di cui abbiamo già parlato: «Il centro-sinistra resta sulla linea del rigore e di questo diamo atto al lavoro – necessario – di Tremonti». Insomma non ci sono margini per delineare alternative fantasiose, se non inquadrando il problema di una ripresa dell’economia italiana in un orizzonte

temporale più vasto: i quattro anni della nuova governance europea. Ma il decreto sullo sviluppo non sembra precludere questa prospettiva. Molto dipenderà, infatti, dai risultati delle prossime elezioni. Se Milano resterà nelle mani del centro – destra si potrà osare di più, altrimenti lo smottamento politico renderà marginale qualsiasi ulteriore discorso. L’architettura del decreto – a quanto è dato sapere – consentirà i ne-

Con le misure varate, l’esecutivo spera di invertire una tendenza divenuta ormai quasi “storica”

cessari giochi di prestigio. Dall’economia è stata già fatta trapelare l’ipotesi che alcune norme saranno presentate sotto forma di emendamenti in Parlamento. Norme già pronte, ma, evidentemente, ancora “coperte”. La sua latitudine è talmente vasta da rendere possibile qualsiasi ulteriore inserimento. Sarà quindi difficile per i giuristi del Colle eccepire, come nel caso del “mille proroghe”. Si va dalle imprese, all’edilizia, alle famiglie, alle libere professioni, alla casa, alla scuola, alle banche e al Mezzogiorno. Tutto incluso, compreso il fisco, attraverso il gate della “contabilità semplificata”.

Un giudizio complessivo potrà essere dato solo all’indomani della pubblicazione del decreto sulla Gazzetta ufficiale. Alcune delle norme, tuttavia, lasceranno il segno. Come quelle dell’assunzione al Sud, degli incentivi alla ricerca (molto consistenti), della riduzione dell’accanimento fiscale o della rinegoziazione dei mutui. Per non parlare, infine, della stabilizzazione dei precari della scuola. Tema che era stato cavallo di battaglia delle opposizioni. Quello che ci ha più colpito è tuttavia il complesso di norme a favore dell’edilizia e sulle costruzioni: rivisitazione delle regole sugli appalti, riduzione dei termini del silenzio-assenso per la concessione dei permessi di costruzione, premio di volumetria, ripartenza del “piano casa” per il quale il Cipe ha stanziato le somme necessarie per attivare gli investimenti (2,7 miliardi per il social housing e quasi 2 per i privati). Il settore delle costruzioni, in Italia, rappresenta il grande “buco nero” della crisi economica, quando negli anni precedenti era uno dei motori dello sviluppo. Con le misure varate si spera di invertire una tendenza divenuta quasi “storica”. Convinto il giudizio positivo degli imprenditori del settore. Vedremo, invece, quale sarà la reazione di Confindustria che, per sabato prossimo, ha convocato la grande assise dei suoi Stati generali. Su due punti almeno – riforma fiscale e riduzione dei costi della politica – non sembra esservi coincidenza. Ma si sa, a volte, il meglio è nemico del bene. Giulio Tremonti mostra, comunque, sicurezza. Ritiene di aver fatto il massimo che si poteva fare. Ha, inoltre, in serbo le riserve di cui si diceva in precedenza. La partita è quindi aperta. E molto dipenderà dal responso del corpo elettorale. A Napoli e a Milano la posta in gioco non è solo l’elezione del sindaco, ma il resto della legislatura.

fronti del Carroccio. E dunque di Tremonti. Al suo partito restano le briciole. La nomina persino inattesa di qualche sottosegretario. Il senatore calabrese dell’Antimafia Antonio Gentile, per esempio. Ma ai suoi parlamentari il Cavaliere è costretto anche a dare la versione più “rassicurante” sull’investitura a Tremonti. Quella secondo cui si tratta appunto di una perfida imboscata. Ma è un modo per tenere sotto controllo gli umori interni. Una parte della verità, certo. Ma non la parte decisiva. E poi sono gli atteggiamenti degli stessi berlusconiani a confermare la debolezza politica del premier rispetto all’asse del Nord. Confidano per esempio nel successo alle Amministrative come occasione per chiarire «chi comanda davvero». Ammettono così che la leadership berlusconiana non è più riconosciuta. E che di fatto l’inner circle del Cavaliere si è ormai ridotto, nei fatti se non nei numeri, a corrente minoritaria della coalizione.

Berlusconi fa i conti con il potere oggettivo, inattaccabile di Tremonti. Dice che sul decreto sviluppo via XX Settembre ha avuto solo «la regia». Che l’iniziativa è frutto del corale contributo di tutti i ministri. Favole. Poche ore della conferenza stampa, il Cavaliere non aveva ancora nemmeno visto la bozza del decreto. E aveva definito intollerabile l’affronto. Poi però deve rassegnarsi all’idea che ogni tentativo di destabilizzarne il ruolo è finito miseramente nel vuoto: vedi l’operazione “cabina di regia” affidata a Scajola nel 2009. Ora l’uomo di via XX Settembre minaccia di andarsene se continua l’assedio del Giornale. Ottenuta la riabilitazione pubblica dal premier, gli concede uno zuccherino fiscale, ossia «le sanzioni ai funzionari che eccederanno nei controlli». Un misero surrogato della riforma di sistema che Silvio reclama da tempo. C’è il diritto di superficie esteso a 90 anni per i gestori degli stabilimenti balneari. Aspetto del dl sviluppo che già scatena la furia di Legambiente e Verdi ma che il ministro dell’Economia difende: «Le spiagge restano pubbliche». Soprattutto, Tremonti non smentisce con decisione l’ipotesi di una manovrina di aggiustamento da 7-8 miliardi a giugno: «Ci sono provvedimenti economici e provvedimenti finanziari. Questo è uno di quelli economici», si limita a dire a proposito del decreto appena varato. Non è escluso dunque che arrivi una stangatina, altro che riforma del fisco. In simili condizioni, e considerata la copertura della Lega, Berlusconi può solo trattare una seppur lentissima exit strategy da Palazzo Chigi. Nella speranza che a Milano la Moratti vinca. Altrimenti Giulio potrebbe mettersi alla guida di un governo istituzionale già tra qualche settimana.


A destra il dittatore libico, Muammar Gheddafi. Nella pagina a fianco: in alto il ministro Frattini con il Segretario di Stato americano, Hillary Clinton; in basso Umberto Bossi, che continua a porre paletti all’intervento italiano in Libia

A Roma, Hillary Clinton sottolinea «l’urgenza di mettere all’angolo il raìs». E sull’Italia: «È amica e alleata di cui siamo fieri»

Una “banca” per Bengasi

Nuovi finanziamenti «trasparenti» ma anche armi per i ribelli libici. Il gruppo di contatto vuole accerchiare economicamente Gheddafi di Pierre Chiartano

ROMA. Soldi e armi per ridisegnare la Libia del futuro. Potrebbe essere questo il titolo sintetico della seconda riunione del Gruppo di contatto per la Libia, iniziata e chiusa ieri alla Farnesina. A Parigi avranno festeggiato. Per il coté italiano, nessun segno sul calendario per il termine della missione. «Gli equipaggiamenti e tutto quello che occorre per l’autodifesa» degli insorti libici possono «entrare in un quadro di legittimità internazionale». Lo ha riferito nella conferenza stampa finale dal ministro degli Esteri Franco Frattini. «Alcuni Paesi hanno annunciato la loro determinazione positiva» a fornire armi ai ribelli, ha osservato Frattini. C’è da scommettere che tra questi figura sicuramente la Francia che ha già ampiamente provveduto a fornire uomini e mezzi ai ribelli di Bengasi. Poi si entra nella più tecnica, ma utile disquisizione sull’interpretazione delle direttive Onu. Tutti ricordiamo le immagini del rimorchiatore ribelle carico di aiuti umanitari, ma anche di armi, per Misurata, bloccato e

Solo ventiquattr’ore dopo, la mozione «padana» è stata disattesa

Signor ministro, perché non ha chiesto la data di scadenza della missione? di Giancristiano Desiderio i possono usare le stesse parole che Hillary Clinton ha usato sull’azione antiterrorismo degli Stati Uniti: «La battaglia continua». Così è anche per la partecipazione dell’esercito italiano nelle battaglie aeree in Libia: «La battaglia continua». Così, dopo aver ricevuto dal Parlamento l’incarico di chiedere alla Nato e al “gruppo di contatto” la data della fine della guerra libica del XXI secolo, il ministro degli Esteri Frattini ha praticamente tradito il mandato. Non solo. Lo ha anche potuto sottolineare con le sue stesse parole: «Confermiamo l’impegno italiano su tutte le missioni internazionali e certamente anche su quella in Libia». Anzi, l’uso dell’avverbio - certamente - sta a indicare l’intenzione del ministro degli Esteri di rassicurare gli alleati dopo il voto tragicomico dell’altro ieri in Parlamento. Il tentativo, insomma, di dire senza dire che una cosa sono le cose che accadono a Roma e nella maggioranza di governo e altra cosa sono gli impegni internazionali. La politica di Arlecchino. Rimane il piccolissimo particolare della mozione voluta da Bossi e dalla Lega e accettata

S

dal presidente del Consiglio e dal Pdl (Frattini compreso) che richiede esplicitamente una data di fine o scadenza della guerra (un po’ come accade con gli yogurt). È lecito chiedere al ministro e al governo: dov’è la data? In una delle non poche conferenze stampa che fa, il presidente del Consiglio potrebbe anche sentirsi rivolgere questa semplice domanda: «Scusi, presidente, ci dice la data della fine della guerra libica o è top-secret?». Forse, la domanda potrebbe essere non irriverente (la mozione impegna il governo a riferire quella data al Parlamento), ma senz’altro ridicola. Eppure, dopo che la maggioranza in Parlamento ha già detto di credere che Ruby è effettivamente la nipote di Mubarak, ora sempre in Parlamento e dopo attenta discussione la maggioranza ha detto di volere dalla Nato la data in cui in Libia cesseranno le ostilità. Il Parlamento, di cui giustamente un deputato del Pdl ha rivendicato la centralità fino a chiedere di modificare l’articolo 1 della Costituzione, autorizza a porre al presidente del Consiglio domande imbarazzanti e ridicole. Per legge.

rimandato indietro dalle unità navali della Nato. «C’è una questione importante di interpretazione delle due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La 1970 che pone un embargo e la 1973 che nella lettura di alcuni, e anche mia personale, può contenere una deroga per gli strumenti di autoprotezione per quanto riguarda le armi», ha proseguito il capo della diplomazia italiana. Insomma, sembrerebbe una luce verde, con tanti distinguo, per le armi. Ma poi si ricade nel vago. «Questo è il motivo che ha portato alcuni Paesi a portare assistenza militare non letale» al Cnt, ha spiegato Frattini. Leggi: fornitura di consiglieri sul campo. Ma la questione, per il momento, è affidata alle singole «determinazioni nazionali», ai «singoli stati che hanno ritenuto di sostenere l’azione di quella che è diventata la legittima resistenza al regime anche con strumenti militari» ha aggiunto il ministro.

All’Eliseo avranno stappato più di una bottiglia di champagne. Frattini ha poi confermato che l’Italia ha inviato per ora solo «equipaggiamento di tipo tecnico». Una prudenza che


la crisi libica avrà sicuramente un ritorno politico importante. Per Roma la Libia ha ormai due fronti: uno in Nordafrica e l’altro in casa negli equilibri della maggioranza, anche se pare una faccenda risolta. La mappa dell’incontro vede inglesi, francesi e qatarini da un lato, l’Italia dall’altro e gli Usa come arbitro. Guardalinee Lega araba e Unione africana. Quarto uomo l’Onu di Ban kii-Moon. Mahmoud Shaman portavoce del Comitato di transizione nazionale di Bengasi ha già presentato il conto - per i prossimi mesi - circa un miliardo e mezzo di dollari che diventeranno due o tre nei mesi successivi. Per l’Italia sarebbe il colmo se oltre a dover passare dalla prima fila a loggione della messa in scena libica, dovesse anche metterci tanti soldi.

Comunque si dovrebbe costituire un «fondo speciale» da riempire anche con i beni del governo di Tripoli e di Gheddafi bloccati all’estero. Il Segretario di Stato Usa, Hillary Clinton, sa che ora le parole del governo di Washington, dopo l’eliminazione di bin Laden, hanno un peso diverso. Per la Clinton serve «isolare» sempre di più il raìs. Per cui alza la voce per porre fine alla strage di civili. A presiedere l’evento il ministro degli Esteri, Franco Frattini e il collega del Qatar, Sheik Hamad alThani, personaggio che assieme alla sua emittente al Jazeera ha svolto un ruolo non indifferente nel tirare la volata agli interessi di Parigi. Il Segretario di Stato Usa poco prima dell’inizio dei lavori aveva avuto un colloquio bilaterale con il capo della diplomazia italiana. Gli Usa intanto hanno intimato a Gheddafi di interrompere i bombardamenti a Misurata. Si preparerà una road map politica per uscire dalla guerra e un meccanismo di finanziamento economico che faccia tirare il fiato al Consiglio nazionale transitorio (Cnt) di Bengasi. Sono gli obiettivi della seconda riunione del Gruppo di Contatto. Per l’Italia, è prioritario che «Gheddafi lasci il potere» aveva spiegato Frattini durante il dibattito alla Camera prima del voto sull’impegno militare italiano. Un impegno che difficilmente potrà avere un termine preciso sul calendario. In questo Frattini è stato sostenuto dal segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, che ripeteva da Bruxelles che non è possibile al momento indicare un termine per la fine dell’intervento: «La missione finirà quando saranno raggiunti tre obiettivi: quando Gheddafi smetterà di attaccare i civili, richiamerà le sue truppe e consentirà il passaggio in sicurezza degli aiuti umanitari». Di fondo c’è che l’Italia, formalmente coinvolta sui tavoli del-

la diplomazia, è sempre più isolata nella sostanza. Washington, da sempre ben disposta ad appoggiare la terza via italiana ai rapporti economici col Nordafrica, non vede più un interlocutore statuale da appoggiare, ma degli interessi sempre più personali. Una condizione che crea imbarazzo – ben celato dalla convinzione che l’Italia stia perdendo molto velocemente influenza – e stupore per le evidenti ricadute negative sull’intero Paese. Chi invece ha interesse a sostituire l’Italia nel ruolo di partner privilegiato della Libia avrà buon gioco nel blandire Roma con le formalità, mentre nella sostanza prepara un vero e proprio “scippo”. Ammesso che alla fine non arrivi un terzo incomodo. Per il ministro degli Esteri italiano naturalmente gli obiettivi sono da formulario ufficiale: favorire «il coordinamento sull’iniziativa politica», esprimere

Da Bruxelles, Rasmussen ricorda che non è possibile al momento indicare un termine per la fine dell’intervento «sostegno economico, in particolare al Consiglio nazionale transitorio di Bengasi» e tracciare «una road map per il cessate il fuoco e per un’assemblea costituzionale volta alla riconciliazione libica».

Al tavolo del Gruppo di contatto siedevano le delegazioni di 22 paesi, di 6 organizzazioni internazionali (tra cui la Lega Araba, la Nato, l’Onu e l’Ue), e otto tra nazioni e istituti nel ruolo di osservatori, tra cui la Banca Mondiale. Scopo della riunione era quello di sviluppare ulteriormente i risultati raggiunti a Doha al fine di favorire l’avvio di un processo politico inclusivo che permetta al popolo libico di costruire liberamente il proprio futuro. E affrontare con un approccio coerente l’assistenza umanitaria ed il sostegno a lungo termine per il popolo della Libia. Formule vuote quanto vaghe, se non si risolve il problema principe: sloggiare il colonnello da Tripoli. Rimesso in campo dalla Clinton anche l’inviato speciale dell’Onu per la Libia, il giordano Abdel Ilah Khatib, per «sostenere la transizione democratica in Libia attraverso un processo politico», ha spiegato il segretario di Stato Usa. Parlando a margine della conferenza, il Cnt ha anche annunciato il riconoscimento ufficiale dei ribelli da parte dei governi di Spagna, Olanda, Danimarca, anche se la circostanza è stata poi smentita dai governi di Olanda e Danimarca.

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Il Paese è a macchia di leopardo e il Leone del deserto sposta le truppe

La tattica del Colonnello è ancora vincente Distrutto il 40 per cento delle forze lealiste Ma in che proporzioni è da distribuire il risultato? di Antonio Picasso n estrema sintesi, si può dire che il comitato di Bengasi detiene il controllo della parte est della Libia. Gheddafi, a sua volta, è arroccato nelle regioni occidentali. Lo scenario operativo, nello specifico, si presenta molto più a macchia di leopardo. Agebadia, Brega e Misurata continuano a essere i tre key point dei combattimenti. Le prime due sono città della costa e per giunta verso l’Egitto. Questo significa che da Bengasi l’ordine è stato imposto solo nelle aree interne. Misurata, poi, con il suo porto e in qualità di secondo centro urbano del Paese, resta sotto assedio. I ribelli cercano di mostrarsi ottimisti sull’andamento del conflitto. Non hanno altra scelta. Se vogliono davvero strappare un accordo dal Gruppo di controllo per lo stanziamento dei fondi, devono dichiararsi forti sul territorio. Dicono la verità? Osservando le evoluzione degli scontri di ieri, appare evidente come il carico di impegno gravi più sulle forze occidentali che sugli uomini di Bengasi. I raid recenti sembra che abbiano colpito due elicotteri solitamente atti al trasporto di camion e carrarmati. È un segno che Gheddafi sta spostando grosse porzioni delle sue truppe e artiglierie? C’è da domandarsi come i ribelli, da terra, possano fare qualcosa di fronte ai piani di un colonnello le cui doti tattiche non sono fonte di discussione. A tre mesi dall’inizio della crisi – Sarkozy si aspettava tempi così lunghi? – la stima è che le truppe gheddafine siano state distrutte al 40%. Cifra confermata dal ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini. Non è tantissimo. Resta da capire in che proporzioni sia da distribuire questo risultato.

I

l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, non si è esposto in «esercizi di previsione», come sono stati da lui definiti.Tuttavia, «stanno si facendo progressi costanti». A suo giudizio, la crisi presenta ancora molti ostacoli da superare, che possono essere abbattuti dalla missione Unified Protector grazie a i mezzi e alle forze messi a disposizione dai Paesi membri.

L’apprezzamento di Di Paola è rivolto direttamente al governo italiano. «La Nato è grata a Roma per la decisione di partecipare ai bombardamenti aerei». L’ammiraglio ha ribadito in modo cristallino gli ordini ricevuti. Stop delle violenze contro i civili, ritiro di tutte le forze militari e paramilitari di Gheddafi e arrivo degli aiuti umanitari al popolo libico. È su questi punti che si stanno muovendo i 28 Paesi impegnati nella missione. «La Nato continuerà a esercitare la sua pressione militare su Gheddafi finché non saranno raggiunte queste tre condizioni», ha chiosato il nostro ex Capo di stato maggiore della difesa. Ben più urgente è la preoccupazione per la sorte dei civili. Specie a Misurata. La popolazione ha cercato in tutti i modi di fuggire. Ma con scarso successo. Gheddafi controlla le strade e adesso anche il porto. Si è conclusa dopo quattro giorni l’odissea della Red Sta, la nave dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), giunta a Misurata sabato scorso, con 180 tonnellate di aiuti umanitari, tra cui cibo e presidi medici. Il tentativo di evacuare circa 1.300 civili, fra cui una cinquantina di feriti, era stato inizialmente arrestato da Gheddafi. Poi le trattative si sono concluse positivamente e il naviglio ha attraccato ieri mattina a Bengasi. L’episodio ha suscitato nuove polemiche presso i governi occidentali. Gli Usa, per voce del loro segretario di Stato Hillary Clinton, hanno chiesto a Gheddafi di porre fine a ogni ostilità contro Misurata. Ma l’obiettivo del Colonnello è proprio colpire i più deboli. Così si spiegano il caso della Red star e le sue manovre per controllare la frontiera con la Tunisia. Lo stesso ammiraglio Di Paola ha indicato nelle condizioni della città libica un segno «di vergogna per il regime». «L’azione dell’Alleanza ha protetto il popolo di Misurata e ha fatto sì che la città non cadesse.Tuttavia, rappresenta il problema più impellente». Proprio con finalità umanitarie, gli Stati Uniti hanno sbloccato altri 6,5 milioni di dollari per le operazioni dell’Oim in Libia, portando così a 53,5 milioni di dollari il totale degli aiuti di emergenza per la Libia.

La popolazione di Misurata sta cercando in tutti i modi di fuggire, ma con scarso successo. Perché Tripoli controlla le strade e adesso anche il porto della città. La gente è allo stremo

Nel frattempo, le brigate del Colonnello hanno bombardato la città di Nalut, a pochi chilometri dal confine con la Tunisia, in mano ai ribelli. L’operazione ha visti coinvolti i razzi Grad, gli stessi usati negli attacchi a Misurata. Peraltro in dotazione a molte milizie mediorientali: da Hamas a Hezbollah. Insomma, qual è l’effettivo contributo dei ribelli di Bengasi? Possibile che, almeno sul piano operativo, abbiano fatto il passo più lungo della gamba e si siano creduti capaci di sbaragliare il loro ex Raìs? L’attivismo di Gheddafi in così tanti punti del Paese non smentisce queste supposizioni.Dal canto loro, Nato e Paesi arabi hanno cercato di celare il più possibile i dubbi. Sia da parte politica sia in ambiente militare, è stato espresso un cauto ottimismo. Il presidente del comitato militare dell’Alleanza atlantica,


la crisi libica

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Il sogno di Parigi è quello di vedere il proprio tricolore sventolare a Tripoli

Sarkò l’Africano, incubo italiano L’iper-attivismo dell’Eliseo in Libia asseconda la “grandeur” francese e mette in crisi gli Stati mediterranei di Giancarlo Galli

PARIGI. Che i “cugini” francesi,

Il presidente francese Nicolas Sarkozy è considerato il vero, principale ispiratore dell’attacco della coalizione internazionale alla Libia di Gheddafi. In apertura caschi blu delle Nazioni Unite: spesso, nelle loro fila, ci sono membri della Legione straniera

senza troppa distinzione fra “droite”e “gauche”, tenessero in latente stato d’incubazione l’atavico vizietto dello sciovinismo nazionalistico, l’avevo sempre pensato. Sin da quella lontana stagione in cui (a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta) il leggendario generale dei parà Jacques Massu provò a stroncare la rivolta d’Algeri. Con un bagno di sangue. Massu, piccolo di statura ma robusto come una quercia, non disdegnava, anzi, incontrare i giornalisti per riaffermare la sua strategia. Persa malamente la guerra d’Indocina, umiliata a Suez, la Francia mai e poi mai avrebbe rinunciato all’Algeria, considerata da quasi un secolo inalienabile “territorio metropolitano”. Già era stata costretta a concedere l’indipendenza a Marocco e Tunisia, pur garantendosi una “sfera d’influenza”, ripiegare dal Centrafrica. Spiegava Massu di avere il pieno sostegno del governo in cu stava anche, in panni socialdemocratici, il ministro François Mitterand. Arrivò nel ’58 all’Eliseo, con un mezzo colpo di Stato militar-istituzionale, il generalissimo Charles De Gaulle che concesse al proconsole pieni poteri. Invano. La rivolta (nonostante un milione di morti su una popolazione di poco più di 10 milioni) ebbe la meglio. Nel 1962 De Gaulle, obtorto collo, ma facendo prova di realismo politico, concesse l’indipendenza. Centinaia di migliaia di francesi, ribattezzati pied-noirs dovettero rimpatriare. Massu, relegato in una guarnigione sul Reno, comunque rimasto fedele a De Gaulle che si rifugiò nel suo Quartier Generale nel maggio del ’68, all’apice della contestazione popolar-studentesca, ebbe a confessar-

mi, a labbra strette: «Nel Nord Africa, nel Mediterraneo, noi ritorneremo…». Nutrendo una notevole, ancorché personale, simpatia per la Francia, alimentata da frequentazioni ed amicizie, mai ho dubitato della profezia di Massu. De Gaulle, visto come il fumo negli occhi dagli Usa, s’era tenuto ai margini della Nato dotandosi di una propria forza nucleare. Nel prosieguo, presidenti quali Giscard d’Estaing, Mitterand, Jacques Chirac, a prescindere dal colore delle casacche politiche, in silenzio remarono sotto traccia per riannodare, e non solo sotto il profilo economico, i legami con le ex colonie africane. In maniera molto soft con Marocco e Tunisia, con una ragnatela di relazioni in Libano.

Con l’invio di truppe (spesso caschi blu celano reparti della Legione Straniera, addestrati e comandati da ufficiali usciti da Saint-Cyr), in Ciad, Mauritania, Costa d’Avorio. A Nicolas Sarkozy può essere stato dunque affidato il compito di realizzare la “Riconquista” del Mediterraneo, di una fetta dell’Africa Occidentale e sub-sahariana. In nome e per conto di quella “Grandeur” cui la Francia mai ha abdicato. Sarko, nato nel ’56, carrierona politica da enfant prodige, pubblicamente si vanta, appunto, di voler rinobilitare la perduta “Grandeur”. Il che non toglie una virgola ai suoi particolarissimi interessi. E allora vale la pena di riferire quel che si sente dire senza état d’âme (cioè con mente fredda), nei salotti, nei circoli politici della borghesia parigina. Sarko, nel maggio 2007, aveva stravinto le elezioni presidenziali (56 per cento dei consensi) contro l’ambiziosa socialista Sègolene Royal , puntano su un rilancio in grande stile dell’economia e del ruolo della Francia nel mon-

do. Crisi e recessione hanno impiombato le sue ali, non certo aiutate dal matrimonio (il terzo) con Carla Bruni. Chi conosce Nicolas non ha però mai dubitato delle sue doti di formidabile incassatore. Nonché di cinico, quindi autentico, uomo di potere. Litigò a più riprese sol suo sponsor Chirac, proclamandosi quale unico ed autentico interprete del pensiero gaullista. Scalato l’Eliseo, gli entusiasmi hanno presto ceduto il passo alla disillusione. Per le elezioni della primavera 2012 tutti i sondaggi lo danno (al momento) perdente. Forse eliminato al primo turno, da un socialista o dalla Giovanna d’Arco dell’Estrema Destra, Marine Le Pen figlia dell’ultranazionalista Jean-Marie che, ricordato per inciso, combatté la battaglia d’Algeri a fianco di Massu.

Ecco allora Sarko, un mai domo, cavare dalla manica il jolly african-mediterraneo. In termini chiari: rilanciarsi con una politica estera che sollecitasse il ventre all’inguarito, probabilmente inguaribile, spirito nazionalistico dei suoi concittadini. Dapprima con mosse felpate, diplomaticamente irreprensibili: una sorta di Lega mediterranea, pilotata da Parigi col Quartier Generale fra Barcellona (Spagna) e il Cairo (Egitto), pilotata dalla fidatissima Michèle Alliot-Marie (da poco defenestrata). Madame sembrava intendersi alla perfezione sia


la crisi libica

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pagnie petrolifere francesi che potrebbero togliere la sabbia sotto i piedi all’Italia, in una Libia dove i geologi fantasticano sui giacimenti inesplorati.

La Commissaria Malmstrom “apre”, ma solo a modifiche unanimi

«Schengen? Può cambiare» ROMA. Rilanciare la politica europea sull’immigrazione, ammettendo che il trattato di Schengen può avere dei punti deboli che possono essere migliorati per non lasciare da soli gli Stati membri a gestire l’emergenza. È questo il senso del documento elaborato dall’esecutivo di Bruxelles, e illustrato ieri dalla Commissaria per gli Affari interni Cecilia Malmstrom, che servirà come base per il dibattito al Consiglio straordinario Giustizia e Affari interni del 12 maggio e poi al Consiglio europeo del 24 giugno. Bruxelles ha deciso di puntare su tre filoni: controllare meglio le frontiere attraverso Frontex, fornire aiuti economici per la gestione delle emergenze umanitarie e rafforzare il trattato di Schengen. A questo proposito, la Malmstrom ha sottolineato come Schengen sia «un successo meraviglioso da difendere con le unghie e con i denti», ma migliorabile con «l’introduzione di una sospensione nel caso di situazioni molto specifiche». L’Ue, inoltre, «non deve lasciare che gli Stati maggiormente esposti ai flussi migratori dal Nordafrica gestiscano da soli l’emergenza». E se la Commissione «non può imporre la solidarietà», tuttavia «è necessario una migliore ripartizione delle responsabilità». Tutta la discussione ruota intorno all’arrivo di circa 25mila migranti sulle coste europee (praticamente a Lampedusa e Malta) dopo le rivoluzioni nel Nord Africa, che ha portato attriti tra

Italia e Francia e la successiva richiesta di Berlusconi e Sarkozy di riformare il trattato. La commissaria ha precisato che «nella storia ci sono stati arrivi ben più importanti».

Quanto ai profughi che hanno diritto alla protezione internazionale sono circa 3mila, «quindi non un flusso straordinario». Lo stesso Berlusconi, in un’intervista a «Porta a Porta», ha riconosciuto: «Siamo un Paese di 60 milioni di abitanti e non dobbiamo aver paura dell’arrivo di qualche migliaio di persone». La Francia ha espresso soddisfazione per la proposta Ue di controlli limitati nell’area Schengen. Anche la Germania ha dichiarato di sostenere «a prima vista» le proposte della Commissione, ricordando però che «per la ripartizione dei profughi, il principio della libera volontà è irrinunciabile». Tant’è che nelle ultime settimane ha respinto una ventina di profughi tunisini provenienti dall’Italia. Sul fronte italiano, il ministro dell’Interno Maroni ha ribadito l’intenzione di varare un decreto legge d’urgenza «che sottoporremo al Cdm della prossima settimana, sul reato di immigrazione clandestina». Il provvedimento servirà ad evitare che il «riaccompagno forzato» sia reso impossibile dalla decisione della Corte europea e «consentirà di definire i confini entro cui si può attuare un’espulsione diretta e quelli dove procedere con foglio di via».

I 27 decideranno insieme se e come migliorare alcuni punti del Trattato per aiutare gli Stati in difficoltà

con Mubarak che con il presidente tunisino Ben Alì. Finché l’altra sponda del Mediterraneo è esplosa, senza che il clan Sarko avesse minimamente percepito quel che bolliva nella pentola araba. A quel punto, sia pure con un certo ritardo sugli eventi, mutamento radicale di strategia. Dal soft all’hard! Dai tavoli diplomatici alla guerra. Precisazione: Parigi ha sempre riservato accoglienza ai dissidenti dei vari regimi. Perché l’attacco alla Libia di Gheddafi, peraltro ricevuto a suo tempo in pompa magna all’Eliseo? Gli strateghi avevano giudicato il raìs tripolino alla stregua di un fantoccio. Al pari dei pupazzi del Luna Park, sarebbe caduto al primo missile.

Gli scenari della geopolitica sono sempre di una complessità estrema. Un elemento-cardine pare comunque acclarato: la Francia targata Sarkozy sarebbe, in una serie di consessi gelosamente secretati, riuscita ad ottenere una nuova codificazione delle “sfere d’influenza”. Ottenendo per Parigi il ruolo di potenza dominante nel Mediterraneo, lasciando alla Germania il Nord-Est continentale. Obama nei guai in Iraq-Afghanistan avrebbe consentito. Russia e Cina prudenti ma non ostili, magari in attesa di “contropartite” nel Sud-Est asiatico e nel Corno d’Africa. Nel retrobottega della Politica con la maiuscola, il business: le com-

Non era la Libia, per consolidata tradizione, arena “assegnata”all’Italia? Berlusconi non era fraterno amico di Sarkozy oltre che di Gheddafi? Verità è che sullo scacchiere della politica internazionale, nessun “impegno” resiste alla pressione degli interessi, specie se la controparte si lascia cogliere impreparata. S’abbia dunque il coraggio di dirlo: l’Italia berlusconiana (e pure le sue componenti politico-istituzionali) hanno percepito con estremo e deplorevole ritardo sia i progetti egemonici della Francia nel Mediterraneo sia l’ebollizione della galassia araba. Sarebbe interessante, al riguardo, sapere se l’Intelligence dell’Eni, celeberrima ai tempi di Enrico Mattei, abbia avuto sentore degli appetiti della francese Total in Libia. In caso affermativo, quali reazioni del Governo alle “segnalazioni”? Resta il fatto che, in un Mediterraneo in fiamme, l’Italia appare incerta ed oscillante. Vaso di coccio fra vasi di ferro. Mentre gli esiti della Campagna di Libia di Sarkozy paiono più che mai appesi ad un filo. Scoperchiato il vaso di Pandora del nazionalismo arabo, del quale poco o nulla conosciamo, la preconizzata “guerra lampo” si sta trasformando in un conflitto dai contorni confusi, a macchia d’olio. E si scopre (con le bombe a piazza Djamaa el Fna di Marrakech) che “dietro”si sta muovendo l’islamismo integralista di al Qaeda. Dicono a Parigi: «Un brutto pasticcio ha combinato Sarko!». Pensava di far sventolare il tricolore di Francia da Gibilterra a Damasco, e ora? D’altronde, la Storia insegna che le guerre si sa come cominciano, mai come proseguono e finiscono… Nella fattispecie, ci si chiede se davvero la Russia di Putin e la Cina siano disponibili ad “appaltare” il Mediterraneo ai francesi. Per ora si limitano a dissentire, ma domani? Dicono a Parigi, dove lo sciovinismo è tornato alla moda, riferendosi all’Italia: «Ci prenderemo il petrolio libico, se non tutto in buona parte… Con Lactalis il latte di Parmalat… L’elettricità di Edison…». E la strombazzata anticipazione di una Francia disponibile a lasciare a Mario Draghi la poltrona di presidente della Banca centrale europea? «Si vedrà… Una promessa matrimoniale non sempre porta all’altare!». Vista dall’ombra della Torre Eiffel, la Penisola non fa una gran figura. Gli amici cercano di consolarmi: «Ci avete superato nella produzione e nell’esportazione di vino». Prosit!


mondo

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Le Nazioni Unite chiedono chiarimenti sul blitz in Pakistan Navy Pillay: «Occorre una completa diffusione dei fatti precisi»

Hanno tradito Osama?

Una pista saudita rivela: «È stato al Zawahiri». Per spostare il controllo della rete in Nordafrica di Luisa Arezzo arebbero stati gli egiziani di al Qaeda, guidati dal numero due dell’organizzazione, Ayman al Zawahiri, a tradire Osama bin Laden, rivelando agli americani dove si nascondeva. Un tradimento giustificato dalle divergenze tra il leader e il suo vice. È questa la tesi avanzata dal quotidiano saudita Al Watan che aggiunge, al già fitto mistero sul come si è arrivati allo

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Laden nel 2004 di prendere il controllo di al Qaeda», e sarebbero stati loro a convincere Bin Laden a lasciare le zone tribali pachistane del nord-ovest, roccaforte dei suoi alleati talebani, e a rifugiarsi a Abottabad, dove è stato ucciso domenica scorsa. Il piano sarebbe stato organizzato lo scorso autunno, dopo il ritorno dall’Iran del leader egiziano Saif al-Adl. Finito agli arresti domiciliari a Teheran dopo

Sarebbero stati gli egiziani di al Qaeda a convincere il leader fondamentalista a lasciare le zone tribali pachistane del nord-ovest, roccaforte dei suoi alleati talebani e a rifugiarsi ad Abottabad sciecco di al Qaeda, nuove prospettive. Secondo fonti regionali molto vicine al dossier sul terrorismo, infatti, gli egiziani di al Qaeda, «che dirigono di fatto l’organizzazione, hanno cercato dopo la malattia di Bin

l’11 settembre (di fatto mai scontati), avrebbe adesso ripreso il controllo su attività eversive da condurre in Occidente. Al Adl è esperto come pochi ed è un militante della prima ora. Ha sulla testa una

taglia di svariati milioni di dollari, è accusato di aver partecipato alle stragi in Africa nell’estate del 1998.

E per gli 007 americani è l’astro nascente del terrorismo: il suo nome è Ilyas Kashmiri, capo della Brigata 313, detta anche l’«Armata fantasma» . Di casa in Pakistan, con un passato nelle forze speciali, si è trasformato nel collettore di militanti provenienti dal teatro locale e dall’Europa. Rispetto ad altri terroristi tende ad usare i suoi uomini come «agenti in sonno». Li infiltra in un paese, ha dei referenti che possono finanziarlo, garantisce i documenti, mantiene i rapporti con sistemi sofisticati. È stato associato alla strage negli hotel di Mumbai, gode di complicità nei servizi pachistani e ha la sua forza d’urto in jihadisti provenienti dal Kashmir.

Sopra, la copertina di “Pakistan today”, settimanale pubblicato negli Usa e attento alla politica interna del Pakistan. In apertura, Al Zawahiri e Osama bin Laden in Afghanistan

Il Dalai Lama in California spiega: «La compassione e il perdono sono valori universali, ma non fanno dimenticare il male»

«Uccidere lo sceicco? Scelta comprensibile» a compassione e il perdono per ogni vita «sono valori universali, ma non fanno dimenticare il male. Se c’è qualcosa di serio ed è necessario prendere contromisure, bisogna prendere contromisure». E questo include anche il raid che ha portato alla morte di Osama bin Laden.

L

A parlare della morte dello sceicco del terrore è stato il XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso, nel corso di una conferenza su tematiche spirituali che si è tenuta alla University of California di Los Angeles. Una posizione che ha stupito molti, non soltanto fra i partecipanti, considerando che viene da un’autorità spirituale che combatte da sempre - in nome della tradizione e della sua fede contro ogni tipo di morte. Il Dalai Lama ha suggerito, pur senza dirlo apertamente, che l’uccisione di Osama bin Laden da parte degli Stati Uniti è stata un

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

L’insegnamento buddista si incardina sulla sacralità della vita, ma il ciclo delle rinascite punisce coloro che agiscono in maniera malvagia nel tempo che hanno a disposizione

pietà o la commiserazione. La compassione buddista invece ha un significato più ampio. Il carattere “ji” indica la vera amicizia, il puro amore dei genitori e la simpatia mentre “hi”contiene in sé l’idea di pietà e preoccupazione per le sofferenze altrui. Nel buddismo “jihi” può essere dunque tradotto più fedelmente come «togliere sofferenza e dare felicità». Il concetto di “ji” - dare pace e sicurezza a tutti gli esseri viventi al mondo - assume il significato di “dare felicità”; mentre “hi” quello di “togliere sofferenza a tutti gli esseri viventi”.

dere contromisure». E queste contromisure comprenderebbero, appunto, anche l’omicidio. Il leader religioso - premio Nobel per la pace nel 1989 - è stato estremamente diplomatico: da una parte non ha voluto scontentare la platea americana che aveva davanti, e dall’altra non ha voluto (né potuto, d’altra parte) avallare l’operazione Geronimo.

Ne “La vita, mistero prezioso” il lama Daisaku Ikeda spiega che «la saggezza del Buddha comprende tutte le cose dell’universo imparzialmente e le considera con uguale compassione». La compassione, l’atteggiamento buddista fondamentale nei confronti del mondo, si manifesta nella condizione vitale del

atto giustificato: «In quanto essere umano, bin Laden meritava compassione e anche perdono. Ma perdono non significa dimenticare quello che è successo. Se c’è qualcosa di serio ed è necessario prendere contromisure, bisogna pren-

Il problema è più complesso di quanto sembri. Il Dalai Lama è infatti il primo maestro e l’ultimo discepolo del “jihi”, termine il cui significato è “togliere sofferenza, dare felicità”. Nella compassione buddista - e Dalai Lama significa

“Oceano della compassione” - non c’è spazio per l’egoismo: quando essa è autentica e profonda, si sviluppa fino ad abbracciare la vita nella sua totalità. “Jihi” viene tradotto genericamente con “compassione”. Ma questa parola, nelle lingue occidentali, viene di solito usata per indicare sentimenti come la compartecipazione alle sofferenze altrui, la


mondo

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a caso, Al-Qaeda aveva lanciato un segnale appena tre settimane prima che scoppiasse la rivoluzione in piazza Tahrir, con la bomba del primo gennaio in una chiesa coopta di Alessandria, che ha ucciso 21 fedeli. Allora si trattò del tentativo di creare tensioni tra musulmani e cristiani. Ma non bisogna dimenticare che durante la rivolta i siti web di al-Qaeda hanno esortato i seguaci a praticare la jihad contro il regime e a non a unirsi alle dimostrazioni pacifiche. Saggiamente, la maggioranza dei musulmani li ha ignorati, protestando ostentatamente fianco a fianco con i cristiani d’Egitto fino alla caduta di Mubarak. Tuttavia la strategia qaedista in Egitto è abbastanza evidente. L’estremismo ha radici profonde in Egitto. Il numero due di al-Qaeda, il fervente ideologo Ayman al Zawahiri, da ieri forse un traditore, un tempo guidava la jihad islamica egiziana e, nonostante gli anni in esilio, ha cercato di ridare slancio al movimento islamico nel suo paese. Nel corso degli

dita ha tratto grandi benefici dalla morte del suo non illustre cittadino...) o veritiera. Quello che invece si dovrebbe capire prima è come è andato per davvero il blitz che ha portato alla morte di bin Laden.

L’Alto Commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillay, ha sollecitato infatti la «completa diffusione dei fatti precisi» dell’operazione in cui è stato ucciso il leader di al Qaeda, e lo ha detto rispondendo alla domanda se fosse rimasta soddisfatta dalle spiegazioni fornite dagli Usa sulla legittimità del raid di domenica scorsa ad Abbottabad. L’esercito pakistano, dal canto suo, ha diffuso un comunicato nel quale minaccia di ripensare la cooperazione con Washington, tanto militare che dei servizi segreti, nel caso di un nuovo raid americano come quello condotto contro Osama bin Laden. Chiedendo inoltre di voler ridurre la presenza dei militari americani in Pakistan. La tensione fra i due paesi è a un livello altissimo, perché è ormai quasi una certezza

Il soldato che ha ucciso bin Laden sarà decorato in segreto. “L’eroe” è destinato a restare sconosciuto, a non avere un nome o un volto. Prova di quanto sia anomala la guerra al terrore E secondo i servizi intelligence Usa ha rapporti strettissimi con l’ex medico di bin Laden, al Zawahiri. Il numero 2 di al Qaeda (o dovremmo dire numero uno?) per il quale - secondo i sauditi - lavorava il corriere di bin Laden che avrebbe portato gli americani al suo rifugio pakistano. Facendo finta di non sapere di essere seguito. Incosapevolmente, dunque, gli Usa avrebbero seguito un disegno della “nuova” testa di al Qaeda,

che così non si sarebbe macchiata della morte del padre dell’organizzazione. Certo, la spy story potrebbe anche reggere, ma è veramente difficile immaginare che l’intelligence americana sia stata l’esecutrice di un disegno altrui. In un momento poi in cui la capacità operativa e logistica di al Qaeda è indiscutibilmente indebolita. Un tassello, però, potrebbe essere stato messo al posto giusto dai sauditi: in Egitto al Qaeda

sta mettendo delle basi. Lo si era visto già durante le prime giornate delle proteste che avrebbero poi portato alla caduta di Mubarak.

Al-Qaeda infatti, così come altri gruppi egiziani estremisti, è fortemente contraria all’insediamento della democrazia, perché il suo “contagio” potrebbe estendersi a tutto il mondo islamico, minando le basi del suo messaggio estremista. Non

anni, ha attaccato chiunque abbia cercato di prendere il timone dell’Islam in Egitto, compresi i Fratelli musulmani. E non dimentichiamo che all’indomani del blitz di Abbottabad, due soli paesi arabi non si sono aggiunti - in via più o meno ufficiale - al coro di soddisfazione per la morte del terrorista: l’Iran e, per l’appunto, l’Egitto. Si capirà comunque nei prossimi mesi se la pista saudita è utile solo a depistare (l’Arabia Sau-

buddismo. La compassione di un Buddha può essere paragonata a quella dei genitori per un figlio ma, allo stesso tempo, abbraccia la vita intera a un livello più profondo.

Nel Gosho - testo fondamentale del buddismo nipponico - si legge anche: «Le diverse sofferenze di tutta l’umanità sono le sofferenze di una persona, Nichiren». Nichiren si è fatto carico delle sofferenze di tutta l’umanità e ha lottato tutta la vita per togliere la sofferenza alle persone e donare loro gioia. Da un punto di vista superficiale si potrebbe pensare che la compassione assomigli all’amore, ma in realtà si tratta soltanto di una corrispondenza molto approssimativa. Se si viene traditi l’amore può volgere in odio, mentre una persona piena di compassione cerca sempre e in ogni caso di salvare il prossimo. L’amore è fortemente caratterizzato dall’egoismo, mentre la compassione si sviluppa fino a raggiungere un livello talmente ampio da abbracciare la vita nella sua globalità. E per vita si intende il tutto: la vita umana, la vita che respira il pianeta, la sopravvivenza dell’anima al ciclo delle rinascite. Quindi uccidere è sbagliato, perché interviene in un dise-

che abbia protetto per 5 anni il leader di al Qaeda. Il cui destino finale, secondo alcuni amanti dell’anagramma, era scritto nel nome: la trasposizione delle lettere di Osama bin Laden, secondo un ordine diverso, dà infatti vita a: Lob the man in sea, che in inglese significa “lancia l’uomo in mare”. Unica sbavatura nell’anagramma che sta circolando sul web è la mancanza della lettera H nell’articolo the, che peraltro è muta.

dannare l’operazione e quindi creare nuovo dolore. Dall’altra, è un uomo anche lui». Questo secondo punto viene meglio approfondito dal lama: «Voglio dire che in ogni testo sacro, in ogni religione viene insegnato l’amore per il prossimo e il rispetto per la vita umana. Ma ogni religioso, anche il più sincero e quello più impegnato nella propagazione degli insegnamenti della fede, ha sempre una componente umana: e questa natura insita in tutti noi a volte parla prima degli insegnamenti».

gno misterico cui non bisogna accostarsi fino a che si è prigionieri della forma umana e delle sue limitazioni. Questo è il punto cardine su cui si poggia e ruota l’intero buddismo. E in questo contesto è molto complicato giustificare un’operazione come quella in cui il leader di al Qaeda è stato eliminato. Al contrario del Vaticano - che per bocca di padre Lombardi ha ribadito che «un cri-

stiano non esulta mai per una morte» il capo della setta della sciarpa gialla ha lasciato spazio alle interpretazioni. Per capire meglio, liberal ha parlato a un lama buddista tibetano che vive in Europa: «La compassione è un bene assoluto, e questa include senza alcun dubbio la condanna degli omicidi. La posizione del Dalai Lama è comunque comprensibile: da una parte non ha voluto con-

Certo, a livello dottrinale «non si può in alcun modo sostenere che il buddismo conceda a una vita un valore maggiore rispetto a un’altra vita. Ma il Samsara, il ciclo delle rinascite che regola la vita dopo la morte terrena per i buddisti, è un elemento potente e imprescindibile: Osama ha fatto molto male, nella sua vita, e la sua punizione lo sta colpendo a un livello che noi non possiamo comprendere». Per concludere, infine, il lama sottolinea: «Il XIV Dalai Lama ha una capacità superiore di assimilazione del volere del Samsara e del Buddha. Lui incarna in vita la compassione e non sbaglia: ma se anche lo fa, è sempre per un volere più giusto del nostro».


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grandangolo L’analisi del direttore del progetto Siria all’International Crisis Group

Resa dei conti a Damasco. Si avvicina un bagno di sangue?

In Siria i manifestanti si stanno confrontando con il lato più brutale e repressivo del regime. Per coloro che piangono morti e scomparsi, e che non li conoscono come sabotatori e traditori, ma come parenti, vicini e amici, ormai il dado è tratto. Bisogna rovesciare il dittatore. Anche a costo della disgregazione dello Stato e l’arrivo degli Ayatollah... di Peter Harling ista da Damasco, la crisi che attanaglia la Siria si sta avvicinando velocemente al momento della resa dei conti. Il regime sembra aver smesso di far finta di poter offrire una via d’uscita. Più che mai, esso dipinge il confronto come una guerra combattuta contro un multiforme nemico straniero a cui attribuisce la colpa di tutte le vittime. Questa narrazione, che permea la brutale risposta alle proteste da parte dei servizi di sicurezza, è costata alle autorità siriane la sconfitta in una decisiva battaglia d’immagine all’estero, in patria, e persino nel centro di Damasco – una rara bolla di calma relativa, che è ora entrata in uno stato di totale confusione. Il vantaggio principale nell’osservare gli eventi dalla capitale siriana è quello di poter misurare quanto siano ormai inaffidabili tutte le fonti di informazione. I media locali raccontano una storia di accuse e smentite, in cui, incredibilmente, i servizi di sicurezza sono le uniche vittime, perseguitati da bande armate.

V

Laddove il regime aveva inizialmente riconosciuto l’esistenza di vittime civili e aveva cercato di distinguere tra legittime rivendicazioni e ciò che esso aveva definito come “sedizione”, tali sforzi governativi sono ormai giunti al termine. Da parte loro, i media stranieri, vedendosi negato l’accesso da parte del regime, si basano quasi esclusivamente su materiale prodotto dai manifestanti, la

Il Paese sempre di più nel caos

Rastrellamenti e ritiro dei tank. Che strategia è? Il presidente siriano Bashar Assad finora non ha mantenuto gli impegni presi sul dialogo e le riforme, per questo «l’Unione Europea si prepara ad adottare» sanzioni contro Damasco, sulla scia degli Stati Uniti. Lo ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri Franco Frattini, al termine del colloquio alla Farnesina con il segretario di Stato Usa Hillary Clinton. In Siria, intanto, l’esercito ha iniziato a lasciare Dara’a, ma in tutto il paese è in atto una vera e propria ondata di arresti. Sicuramente almeno 300 persone sono state portate via dalle forze di sicurezza siriane a Saqba, alla periferia della capitale. E notizie analoghe arrivano da Dara’a, dove fra gli altri è stato arrestato l’imam della moschea di al-Omri e da dove sembra si stia ritirando l’esercito dopo 25 giorni di sanguinoso assedio. Sembra, perché gli scontri proseguono. Eccome.

cui affidabilità ha dimostrato di essere incostante. Il recente fenomeno dei “testimoni oculari” sfoca ulteriormente il quadro. Gli osservatori esterni hanno cercato di contrastare il blackout imposto dallo Stato reclutando corrispondenti, spesso a casaccio, e inondando il paese con telefoni satellitari e modem. Diversi casi di false testimonianze hanno suscitato dubbi su tali procedure,

Assad ha abrogato la legge di emergenza, ma chiede alla polizia di agire come se nulla fosse cambiato ma, in assenza di un’alternativa, esse in gran parte continuano a caratterizzare la copertura di eventi. In tali circostanze, i damasceni hanno una sola opzione: metter mano ai telefoni, chiamando parenti, amici e colleghi in tutto il paese in un disperato tentativo di formarsi una propria opinione. Ascoltano e raccontano storie che si contraddicono a vicenda. Alcuni tendono a confermare l’esistenza di agenti

provocatori armati, molti altri in maniera attendibile attribuiscono al regime la colpa della maggior parte della violenza. Istanze di contrapposizione settaria emergono in alcune zone, mentre in altre fioriscono esempi di solidarietà intercomunitaria. Vicini di casa spesso forniscono racconti contrastanti, mentre persone che condividono analoghi contesti socio-economici reagiscono a eventi simili in modi contrastanti.

Un caos di questo genere è tipico di tempi di crisi, ma è anche un riflesso della profonda sfiducia tra i cittadini e il loro Stato, che non ha offerto alcun punto di riferimento attorno al quale i siriani indecisi possano raccogliersi. Al contrario: il regime ha sistematicamente favorito un senso di smarrimento e di ansia. Più dannosa di tutte è stata la sua costante contraddizione tra le parole e i fatti. Malgrado le affermazioni del regime, le prove riguardanti l’uso eccessivo della forza da parte dei servizi di sicurezza, in circostanze che non possono plausibilmente essere definite come situazioni di minaccia immediata, si stanno accumulando. Dato lo straordinario dispiegamento di forze e l’isolamento di sicurezza dentro e intorno alla capitale, è semplicemente impossibile immaginare che cosiddetti agitatori possano essere dietro gli spargimenti di sangue. Anche laddove la responsabilità del regime sia nell’innescare che nell’intensificare il confronto è


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È finita la guerra fredda fra l’Iran e l’Egitto. Durava dal 1979

Il Cairo chiama Teheran risponde. E la nuova intesa allarma Usa e Israele di Robert Tait circa 2.400 chilometri che separano il Cairo da Teheran sarebbero stati sufficienti a mantenere i due paesi ad una certa distanza politica. Ma negli ultimi tre decenni, la distanza geografica tra l’Egitto e l’Iran è aumentata fino a diventare un enorme abisso a causa dell’ombra di Khalid Islambouli. L’islamista ufficiale dell’esercito che assassinò il presidente egiziano Anwar Sadat nel 1981 per vendicarsi del fatto che l’Egitto aveva firmato gli accordi di Camp David con Israele è stato per molto tempo un simbolo della divisione politica e ideologica tra i due paesi. Giustiziato l’anno successivo per il reato, assieme a tre altri cospiratori, Islambouli ha acquisito lo status di paria in Egitto – l’incarnazione dei pericoli che si celano dietro il radicalismo islamico. In Iran, al contrario, egli è visto come un eroe e un martire, un privilegio che si è tradotto in un enorme dipinto murale nel centro di Teheran. Anche una delle vie più prestigiose della capitale porta il suo nome, cosa che i funzionari egiziani hanno considerato come una provocazione e un ostacolo al ripristino dei rapporti diplomatici, da molto tempo congelati. Ora, però, il fantasma di Islambouli sta per essere messo a tacere. In quello che potrebbe essere un duro colpo per gli interessi di Israele e degli Stati Uniti, l’Egitto si è dichiarato pronto a ristabilire i legami con Teheran sulla scia del crollo del regime dell’ex presidente Hosni Mubarak, che vedeva il regime islamico iraniano come un acerrimo nemico. Il nuovo ministro degli esteri egiziano Nabil al-Arabi ha mostrato un primo segnale di apertura il 30 marzo quando ha detto di sperare in un’ «espansione dei rapporti» con l’Iran. I suoi commenti risalgono a un mese dopo che l’Egitto – a seguito della destituzione di Mubarak – fece suonare il campanello d’allarme occidentale consentendo a navi militari iraniane di passare per il canale di Suez per la prima volta in 30 anni. Mentre pochi giorni fa il portavoce del ministero degli Esteri egiziano, Mehna Bakhoum, ha dichiarato: «Siamo pronti a vedere l’Iran diversamente e certamente non come un nemico». Teheran ha ricambiato le calorose parole, confermando di apprestarsi a nominare il suo primo ambasciatore al Cairo dalla rottura dei rapporti nel 1979. Per gli Usa ed Israele la prospettiva che le relazioni glaciali tra l’Iran e l’Egitto possano essere sostituite da una stretta alleanza è un vero incubo. Anche la prospettiva di un’ambasciata iraniana al Cairo è sufficiente a imma-

I

fuor di dubbio, come nella città meridionale di Daraa, il regime sente la necessità di avviare un’infinita sequela di “indagini” prima di chiamare i responsabili a render conto delle loro azioni, anche se nel frattempo le detenzioni arbitrarie rimangono la norma per quanto riguarda i manifestanti. Sul fronte politico, il regime ha abrogato la legge di emergenza, ma consente ai servizi di sicurezza di comportarsi come se nulla fosse cambiato, illustrando quanto sia irrilevante in primo luogo il concetto di legalità. Il regime inoltre autorizza le manifestazioni pur affermando che non sono più necessarie e etichettandole come sediziose. Parla di riformare i media e, nello stesso istante, licenzia un direttore fino a quel momento fedelissimo per aver deviato dalla linea ufficiale. Insiste ad ignorare i simboli più scandalosi della corruzione. E promette una legge sul multipartitismo pur dimostrando quanto poco potere venga conferito alle istituzioni civili. Infine, sebbene si sia impegnato in numerosi colloqui bilaterali con i rappresentanti locali, si oppone all’idea di convocare un dialogo nazionale, che potrebbe offrire una minima chance di trovare un modo inclusivo e credibile per compiere qualche passo avanti.

In più parti del paese di quanto si possa immaginare, i manifestanti si stanno ora confrontando solo con il lato più brutale e repressivo del regime. Per coloro che piangono i morti, e che non li conoscono come sabotatori e traditori, ma come parenti, vicini e amici, ormai non è rimasto più nulla su cui si possa ancora discutere. Lentamente ma inesorabilmente, queste sacche di opposizione radicale si stanno espandendo a macchia d’olio e unendo in un movimento sempre più determinato e coordinato allo scopo di rovesciare il regime. Tuttavia, molti siriani – anche tra coloro che non nutrono simpatie per il regime

– ancora si oppongono a questa conclusione. I loro argomenti non devono essere ignorati. Essi temono la disgregazione di uno Stato le cui istituzioni, comprese quelle militari, sono deboli anche per gli standard regionali.

Temono che le dinamiche settarie, o un’agenda religiosa dominante, possano prendere piede. Paventano la possibilità che la Siria si sottometta alle interferen-

Avviare un dialogo nazionale. Subito. Ecco cosa dovrebbe fare il regime invece di uccidere il suo popolo ze straniere. E diffidano di un’opposizione in esilio che ricorda fin troppo da vicino quella dell’Iraq. Sembra che il regime stia pensando che la prospettiva di un bagno di sangue si rivelerà l’argomento decisivo. Un simile scenario è sia rischioso che controproducente, perché se sarà una tragedia per il popolo siriano, sarà anche un disastro per il regime stesso. Invece, esso dovrebbe subito mettere un freno ai servizi di sicurezza, intraprendere un’azione decisa contro i responsabili della violenza di Stato, e avviare un vero e proprio dialogo nazionale che includa tutti. Ciò potrebbe fornire ai rappresentanti del movimento popolare l’occasione per emergere, fare in modo che le loro richieste siano approfondite, e permettere alle autorità di dimostrare che hanno da offrire qualcosa di più delle vuote parole e di una morte certa.

ginare gli scenari più neri. Il timore è chiaro: Teheran potrebbe usare la sua influenza per incoraggiare l’opinione pubblica ad opporsi ancor di più contro Israele, o magari utilizzare il territorio di quel paese per fare opera di spionaggio nei confronti di Israele, o addirittura, nel caso di un attacco contro le installazioni nucleari dell’Iran, utilizzare l’Egitto come base per attaccare obiettivi israeliani. Una lamentela israeliana più specifica è l’intenzione dichiarata di al-Arabi di riparare alle relazioni ostili di Mubarak con Hamas, l’organizzazione islamista che governa Gaza e che gode di un forte sostegno da parte dell’Iran. Eppure, sempre secondo Javedanfar, una simile mossa potrebbe trasformarsi in una nuova fonte di concorrenza tra l’Iran e l’Egitto, mentre la leadership egiziana cerca di indebolire la dipendenza di Hamas da Teheran.

Eppure, se si guarda a cosa i due paesi avrebbero da perdere e da guadagnare – cioè quali sarebbero i vantaggi e gli svantaggi dell’Iran nello stringere relazioni con l’Egitto, e quali sarebbero i vantaggi e gli svantaggi dell’Egitto nello stringere relazioni con l’Iran – il paese che ne esce vincente è l’Iran, soprattutto perché ora l’Iran è più isolato nella regione, e il miglioramento delle relazioni con l’Egitto giungerebbe in un momento per esso cruciale. «Per quanto riguarda gli sforzi dell’Iran nel mostrare i muscoli nella regione, avere un’ambasciata al Cairo, oltre che inviare navi da guerra attraverso il canale di Suez, favorirà il suo desiderio di proiettare il suo potere nella regione» sostiene Javedanfar. Il punto è: la nuova amicizia fra i due potrebbe trasformarsi in un’alleanza strategica? Per alcuni analisti no. «I sistemi politici dei due paesi sono molto diversi - dice Mustafa al-Labbad, direttore del Center for Regional and Strategic Studies del Cairo - . L’Egitto è sotto l’influenza occidentale, l’Iran no. Inoltre hanno interessi nazionali punto diversi, dall’Iraq al Golfo Persico». Secondo al-Labbad è anche improbabile che la fedeltà dell’Egitto agli accordi di Camp David, il perno dei suoi legami con l’Occidente, venga messa in discussione, nonostante l’ostilità irremovibile dell’Iran nei confronti dello Stato ebraico. Ma le cose non stanno esattamente così e se i Fratelli musulmani continueranno ad affermarsi nel paese hanno già detto di voler rimettere mani al trattato. L’Iran lo sa. E infatti sarà lui il vero vincitore della partita.


diario

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Trichet: «È ancora allarme inflazione»

Londra modifica la legge elettorale?

Nigeria, sepolti vivi 250 bambini

FRANCOFORTE. Nell’Eurozona, «le pressioni inflazionistiche restano al rialzo», ha detto ieri Jean-Claude Trichet, presidente della Bce. Ma il numero uno dell’Eurotower è apparso meno preoccupato che in passato anche se «le aspettative inflazionistiche restano ben ancorate» e, soprattutto, non ha usato il binomio «forte vigilanza», che in genere anticipa le strette monetarie della Bce, confermando invece l’impostazione «accomodante della politica monetaria». Tanto più che la Bce ha lasciato invariato il tasso dell’euro a 1,25.Trichet ha spiegato che le pressioni inflazionistiche vengono principalmente «prezzi dell’energia» a cui si aggiungono «l’aumento delle imposte indirette» in alcuni paesi dell’Eurozona.

LONDRA. Gran Bretagna al vo-

LAGOS. Centinaia di bambini ni-

to, ieri, per il referendum sulla modifica del sistema elettorale del Regno Unito. Gli elettori sono stati chiamati a scegliere tra il mantenimento dell’attuale sistema uninominale maggioritario a turno unico e il sistema del voto alternativo sul modello di quello utilizzato in Australia (anch’esso fondato su collegi uninominali: l’elettore può esprimere un ordine di preferenza tra i diversi candidati; per essere eletti è necessaria la maggioranza dei voti validi del collegio; se nessun candidato la ottiene con le prime preferenze vengono utilizzate le seconde e così via). Affinché la modifica sia approvata si dovrà ottenere la maggioranza assoluta dei voti validi.

geriani sono stati picchiati, bruciati e sepolti vivi perchè accusati di stregoneria. Stando al rapporto redatto dall’organizzazione britannica Stepping Stones Nigeria sono circa 250 i bambini rimasti vittime di queste violenze nello Stato Akwa Ibomdallo scorso settembre. Anche bambini di soli due anni, scrive l’ong, sono stati bruciati, avvelenati, sepolti vivi o incatenati per settimane solo perchè le loro famiglie credevano fossero delle streghe. Le morti sono atroci: uccisi con l’acido, crocifissi, sepolti vivi. La colpa: basta un lutto in famiglia, un raccolto andato male, una malattia (ad esempio l’epilessia), un handicap fisico. Ma anche la troppa intelligenza.

Il protagonista della bancarotta dovrebbe rimanere in carcere per otto anni e un mese: respinta la richiesta dei domiciliari

E alla fine Tanzi andò in galera Eseguita subito la sentenza: arrestato l’ex patron della Parmalat di Alessandro D’Amato

L’ex re del latte passerà dietro le sbarre qualche giorno, in attesa che il magistrato di sorveglianza si pronunci sui domiciliari, che poi sono i più probabili, considerati l’età e i problemi di salute. Su di lui pesa anche la sentenza dei giudici parmigiani che lo scorso dicembre lo avevano condannato a 18 anni di reclusione per bancarotta fraudolenta. Ora si attendono i verdetti anche per questo filone

ROMA. Il sostituto procuratore generale di Milano, Carmen Manfredda, ha dato esecuzione alla condanna inflitta dalla Corte di Cassazione a Calisto Tanzi, ex patron della Parmalat. L’altroieri, i giudici di piazza Cavour avevano condannato Tanzi in via definitiva a otto anni e un mese per aggiotaggio e ostacolo all’autorità di vigilanza. L’esecuzione della sentenza è stata effettuata dalla Guardia di Finanza di Milano che hanno accompagnato Tanzi nel carcere di Parma. I due anni di sconto rispetto sono arrivati grazie a una delle tante leggine che in questi anni, per risolvere i problemi personali del premier, hanno aiutato tanti altri. Tra cui anche l’ex Cavaliere del Lavoro di Collecchio. Tanzi era stato condannato a dieci anni di reclusione dal tribunale di Milano il 18 dicembre 2008 e il 26 maggio dello scorso anno la Corte di Appello aveva confermato la pena. Ieri la quinta sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Renato Luigi Calabrese, con dispositivo di sentenza ha annullato senza rinvio la condanna relativa alle false comunicazioni al mercato fino al 18 giugno del 2003 perché i reati sono prescritti, e ha confermato invece la condanna per gli episodi successivi, fino al crac di Parmalat, avvenuto nello stesso anno. La difesa di Tanzi ieri aveva dichiarato di aver presentato istanza al giudice di sorveglianza per chiedere che disponga per Tanzi l’applicazione della legge che prevede per gli ultrasettantenni la possibilità di scontare la pena ai domiciliari e una istanza alla procura di Milano di aspettare nell’eseguire la sentenza in attesa della pronuncia del tribunale di sorveglianza. Quest’oggi, la procura generale di Milano ha deciso di far portare Calisto Tanzi in carcere a Parma, dando esecuzione alla sentenza della Cassazione, accompagnato dalla Guardia di Finanza.

L’esecuzione della condanna, per il 73enne ex patron della Parmalat, non era scontata a causa dell’età e dei probi-

lemi di salute. Nella tarda serata dell’altroieri l’avvocato Giampiero Biancolella era uscito dalla villa di Calisto Tanzi. «Si consegnerà?», gli aveva chiesto un cronista. «Non è questione né problema di consegnarsi - ha risposto il legale -. Abbiamo cercato di arginare alcune problematiche d natura sanitaria. E per quanto riguarda il consegnarsi, la questione è relativa alla domanda di sospensiva della pena che abbiamo presentato. Riguarda se questa verrà o non verrà accolta. In quest’ultimo caso presenteremo istanza al giudice competente di applicazione per un ultrasettantenne della detenzione ai domiciliari». Ma come sta Tanzi? «Andiamo, su... Se è stato chiamato un medico d’urgenza,

come vuole che stia?». Venti minuti più tardi anche il medico (che alcuni cronisti hanno riconosciuto come un cardiologo che visitò Tanzi in carcere nei giorni della detenzione subito dopo il crac) aveva lasciato la casa dell’ex proprietario del colosso alimentare. Oggi la decisione del Pg, che suona come una doccia fredda per le speranze dei legali.

La crescita spropositata dell’azienda di Collecchio comincia il 17 agosto del 1990, quando il gruppo Parmalat è all’apice della sua ascesa e dinamicità economica, e decide per una quotazione in Borsa accolta entusiasticamente dal mercato, visto che supera il 45 % del suo stesso capitale. Entro il 2000 poi, arriva

la vera e propria internazionalizzazione. Il marchio, in questi anni e dopo, fattura circa 7 miliardi e mezzo di euro con quasi il 70 % fuori dall’Europa. Quando nessuno sospetta del crac finanziario che di lì a poco investe le aziende che fanno capo a Calisto Tanzi, il gruppo vanta circa 148 stabilimenti in 31 paesi e il suo fatturato è realizzato per un terzo in Europa, per un terzo nel Nord e Centro America e per il restante terzo in Sud America e nel resto del mondo. Nel frattempo, su proposta del Presidente del Consiglio, il 27 dicembre del 1999 riceve l’onorificenza di Cavaliere di Gran Croce con Ordine al Merito della Repubblica Italiana, mentre nel 1984 era diventato anche Cavaliere del Lavoro


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Fuga radioattiva su rompighiaccio nell’Artico, a largo della Siberia

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

MOSCA. Una perdita di materiale nucleare si è verificata ieri a bordo di una nave rompighiaccio russa a propulsione nucleare nell’Artico, al largo della Siberia occidentale. La nave della flotta nucleare russa Rosatomflot, è stata costretta a tornare al porto di partenza nel mare di Barents, nel nord-ovest. Secondo l’agenzia Federale per la flotta nucleare (Rosatomflot) la fuga di materiale radioattivo sarebbe comunque «irrilevante» e l’incidente a livello «zero» della scala internazionale degli eventi nucleari e radiologici (Ines). «Un lieve aumento della radioattività nell’aria è stato rilevato nel sistema di ventilazione della stanza del reattore», fa sapere l’Agenzia. Ma secondo Pavel Felgenhauer, esperto militare indipendente si tratta di un «incidente serio». «Simili reattori non costituiscono una vera e propria minaccia per l’ambiente, ma una fuga radioattiva, anche se

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

debole, è un incidente serio», ha precisato Felgenhauer. La rompighiaccio Taimyr aveva lasciato il golfo di Enisej, nel mare di Kara, quando si è verificata la perdita che l’ha costretta a fare rientro nel porto di Murmansk, città sul mare di Barents e sede della più grande flotta al mondo di rompighiaccio a propulsione nucleare. La causa della fuoruscita, ipotizza l’agenzia federale, potrebbe essere nel sistema sigillante del primo involucro del reattore.

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”

(entrambe le cariche sono state revocate per indegnità). All’alba degli anni 2000 la Parmalat era una multinazionale del latte, che lavora mediamente 20.000 quintali di prodotto al giorno distribuiti in 140mila punti di vendita.

Tanzi venne arrestato una prima volta nel 2003, quando la bolla Parmalat scoppiò in tutto il suo fragore, con l’emersione di «un sistema perverso dal quale per anni tutti hanno tratto la propria convenienza (politici, banche, giornali) eccetto i piccoli investitori, sui quali si sono riversati gli enormi costi di un’esposizione debitoria accumulatasi negli anni senza essere frenata da nessuno dei soggetti istituzionalmente deputati a vigilare sulla solidità patrimo-

La condanna rappresenta quasi un record per l’Italia, dove alle tante truffe finanziarie di questi anni, di rado la giustizia ha risposto con pene adeguate Sopra, l’ex presidente della Parmalat Calisto Tanzi, l’ex amministratore Fausto Tonna e il “risanatore” Enrico Bondi. Nell’altra pagina, i documenti del processo

niale della Parmalat (Consob, Banca d’Italia, società di rating, società di revisione)». Ciò nonostante, la sua condanna rappresenta comunque un record per l’Italia, dove alle tante truffe finanziarie che si sono susseguite in questi anni quasi mai la giustizia ha risposto con pene adeguate: anche per Parmalat, dove grazie a documenti falsificati con gli scanner degli uffici di Collecchio il gruppo è riuscito a tenere nascosta una situazione debitoria catastrofica, è rimasta fondamentalmente intonsa la questione della responsabilità delle banche, considerate ad oggi vittime del genio della truffa di Collecchio, invece che complici. Negli Usa, scriveva ieri Il Sole 24ore, Bernard Madoff sta già scontando 150 anni di carcere. «Tanzi invece probabilmente il carcere non lo vedrà, perché la legge permette agli ultrasettantenni di scontare la pena ai domiciliari. Resta il dubbio su come Tanzi, chiuso tra le mura di Collecchio, abbia potuto orchestrare il tutto in combutta solo con alcuni manager, tra cui Fausto Tonna. La finanza creativa, le banche sono state assolte dal reato di aggiotaggio, ma a Parma dovranno dimostrare che con i finanziamenti concessi per anni alla Parmalat non hanno concorso alla bancarotta da 4 miliardi di euro». Ci riusciranno?

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ULTIMAPAGINA Una risposta alla “Lettera aperta su di una legge sbagliata” inviata dal professor Veronesi al Corriere della Sera

Caro Umberto, la vera libertà è di Paola Binetti segue dalla prima La “Lettera aperta su di una legge sbagliata” è rivolta al Presidente Berlusconi, che qualche giorno fa si era rivolto ai colleghi del Pdl per incoraggiarli a sostenere la legge, nonostante diceva - lui stesso in altri tempi avrebbe preferito una linea diversa: per esempio quella della non-legge. Veronesi afferma che la maggioranza dei cittadini, accanto alla paura di morire, in questi ultimi tempi avrebbe sviluppato una nuova paura, ancor più drammatica: quella di vivere indefinitamente una vita artificiale, come vegetali, senza pensiero, senza coscienza, senza vista, senza udito, senza alcuna sensibilità al dolore. Veronesi compie con queste affermazioni una operazione di vera e propria manipolazione sull’opinione pubblica. Prima di tutto perché non dice che lui stesso è stato uno dei grandi registi di questa paura, che da diversi anni si sta cercando di istillare nella gente e poi omette di dire che i dati scientifici vanno in tutt’altra direzione. Quei pazienti sentono dolore, registrano sensazioni piacevoli e spiacevoli, in qualche modo mantengono un dialogo con chi li assiste, perché non sono affatto dei vegetali, ma delle persone disabili e a volte gravemente disabili, con uno stato di minima coscienza. Ce lo dicono tutti, ma proprio tutti, quelli che riscono ad uscire da questo stato: forse non sono molti quelli che ce la fanno, almeno per ora, ma tutti riferiscono di aver percepito assai di più di quanto non si rendessero conto coloro che li assistevano.

La seconda affermazione su cui Veronesi basa da tempo la sua posizione meriterebbe un approfondimento meno ideologico e più realistico, semplicemente più pragmatico. Si tratta del principio di autodeterminazione, che da un lato sollecita la più umana delle nostre passioni - quella per la libertà - ma dall’altro la enfatizza al punto da non far rilevare mai co-

Nel ddl proposto alla Camera dall’Udc non c’è nulla di clericale: si tratta anzi di un inno alla vita e alla possibilità di viverla come ognuno meglio desidera me la nostra libertà abbia dei confini e non può essere considerata come un assoluto. Ogni legge, in un modo o nell’altro, punta a mettere dei paletti alla nostra libertà per le ragioni più varie, spesso proprio per tutelare la nostra vita. Basta pensare ai limiti posti al fumo, all’uso di alcol e di droghe; i limiti di velocità e gli obblighi relativi all’uso del casco e delle cinture; tutto il complesso sistema delle regole per garantire sicurezza sui posti di lavoro; all’obbligo per le vaccinazioni… Tutti limiti che, in realtà, hanno come orizzonte di riferimento la tutela del diritto alla vita e alla salute. Né la nostra libertà può spingersi fino al suicidio, non perché

SCEGLIERE la legge punisca il suicida, anche se davanti ad un suo auspicabile “insuccesso” cercherà sempre, nonostante l’esplicita volontà del soggetto, di “curarlo” nel migliore dei modi, ma perché la legge punisce l’istigazione al suicidio e l’omicidio del consenziente. Ossia l’aiuto prestato al suicida. Mentre da secoli siamo alla ricerca di modelli sociali impostati sulla solidarietà e sulla collaborazione, sull’aiuto alle persone più fragili e più sole, con un deciso superamento di una logica meramente individualistica. Veronesi dice che l’attuale ddl ci ricaccia indietro nel progresso della civilizzazione, lui dal canto suo lo avrebbe voluto diverso, ha cercato di migliorarlo senza riuscirci. Sembra che su questa falsariga ci stiano riprovando in quest’ultimo passaggio alla Camera gli oltre 1000 emendamenti tutti a firma radicale: in gran parte orientati a chiedere esplicitamente il riconoscimento dell’eutanasia, in tutti i modi possibili. Dal sospendere nutrizione e idratazione già dopo un anno di stato cosiddetto vegetativo, alla sospensione degli articoli del codice che per l’appunto proibiscono l’istigazione al suicidio e l’aiuto concreto al suicida.

L’inno alla libertà che Veronesi propone come ideale di vita, sostenendo il suo modello di testamento biologico, ha un solo snodo cruciale: quello di autorizzare una persona a consumare tutta la sua libertà in un unico gesto liberatorio: darsi la morte, o per lo meno chiedere ad altri che gli diano la morte. Questa legge invece, mentre non obbliga a vivere oltre i con-

fini naturali della nostra esistenza: la sua critica all’accanimento terapeutico è chiara e determinata, ribadisce, come fanno già la nostra Costituzione e il nostro Codice, che non si può accorciare la vita di una persona.

Non a caso questa legge, che speriamo venga presto approvata dalla Camera, offre al paziente il più semplice dei livelli essenziali di cura e di assistenza: nutrizione e idratazione. Quanto basta per non far morire una persona di fame e di sete. Per il resto il soggetto, proprio alla luce di questa legge, avrà spazio e tempo per poter esprimere molti altri desideri, proprio come ricorda il nostro Codice deontologico e la stessa Convenzione di Oviedo. È la prima volta infatti che una legge mette in evidenza la necessità del consenso informato, come prerequisito essenziale per ogni atto medico, garantendo al paziente piena osservanza della sua volontà. Dispiace che si continui in una dialettica di disinformazione che presenta questa legge come una sorta di imposizione dei cattolici ai non credenti o ai diversamente credenti. Garantire il valore della vita a tutti, in qualsiasi condizione e circostanza si trovi, non ha nulla di clericale, ma significa ribadire il più laico di tutti i valori, quello su cui si innestano tutti gli altri valori, compresa la libertà. Posso esercitare la mia libertà perché sono vivo e la società ha il dovere, a norma di Costituzione, di migliorare il più possibile le condizioni di vita di un soggetto, non di aiutarlo a mettere fine alla sua vita perché le circostanze in cui vive non rispondono ai suoi desideri.Veronesi enfatizza una libertà sconfinata, ma priva di limiti e di contenuti, mentre l’esperienza ci mostra ogni giorno come la nostra libertà abbia sempre e in ogni circostanza i suoi limiti, a noi tocca riempirla di contenuto e di speranza.


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