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Non ci sono fenomeni morali, ma solo un’interpretazione morale dei fenomeni Friedrich Nietzsche

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MARTEDÌ 10 MAGGIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

A 33 anni dalla morte, un convegno alla Camera ripropone l’attualità del suo pensiero e del suo stile

Ridateci Aldo Moro

L’Italia ha bisogno di leader veri, non di agitatori come Berlusconi Il Cavaliere evoca ancora la guerra ai Pm. Poi si accorge che le Br hanno colpito anche loro e cambia registro. Ma che tristezza un premier privo di senso dello Stato. E Fini: «Non andrà mai al Quirinale» La Giornata della Memoria delle vittime del terrorismo

La lezione dello statista Dc rispetto alla politica fatua e oligarchica di oggi

Napolitano: «Onorare i magistrati. È la condizione di ogni riforma» Il leader Pdl finge di non vedere la polemica contro di lui: «Sono d’accordo». Santanchè meno furba: «Boccassini metastasi» Errico Novi • pagina 3

Il Grande Vuoto di Pier Ferdinando Casini l trascorrere del tempo non ha fatto venire meno il senso di vuoto indotto dalla mancanza di Aldo Moro. Al contrario, la sensazione palpabile che si avverte tra gli italiani quando si ricorda lo statista assassinato dalle Br, è che questo vuoto si sia acuito. Un fenomeno che può essere spiegato anche con lo smarrimento che si avverte di fronte a una politica fatua e distante dal Paese.

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Aldo Moro insieme a Federico Fellini mentre stringe il premio Oscar per il miglior film straniero vinto dal regista nel 1963 con “Otto e mezzo“

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L’analisi. L’ex capo della Banca mondiale loda il presidente per il blitz e consiglia...

La rivoluzione contro bin Laden «La primavera araba smentisce al Qaeda. Bisogna aiutarla di più» di Paul R. Wolfowitz l valore simbolico degli eventi è importante e il simbolismo legato alla morte di Osama bin Laden non è ciò che si aspettavano i suoi seguaci. Non è stata una morte gloriosa. Non è certo stato per mancanza di volontà che bin Laden non è stato ucciso o catturato molto prima. Ma in un certo senso è stato un bene che sia rimasto in vita tanto a lungo: un tempo sufficiente per vedere la sconfitta di molti sogni infernali. C’è un profondo senso di giustizia nel fatto che abbia avuto la possibilità di assistere alla sconfitta di tanti dittatori arabi. Cacciati non dai suoi seguaci, ma da uomini e donne che amavano la libertà (e Facebook).

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Il Pakistan ha paura: «Non siamo complici»

Le reazioni in Medioriente alle rivolte

Obama promette: «Ora il colpo finale»

Attenta Israele, così sei accerchiata

di Antonio Picasso

di John R. Bolton

e conseguenze dell’operazione “Geronimo”, che ha portato all’eliminazione di Osama bin Laden, vedono coinvolti tre attori: gli Stati Uniti, il Pakistan e al Qaeda. Ciascuno è alle prese con i problemi che un avvenimento di questa portata è capace di generare. Partiamo da Islamabad. Ieri, il premier pakistano, Yusuf Raza Gilani, ha tenuto un’audizione straordinaria all’Assemblea nazionale e ha respinto le accuse rivolte al suo esecutivo, di aver nascosto bin Laden nel covo di Abbotabad. a pagina 10

enché la morte meritata di Osama bin Laden abbia dimostrato la determinazione americana a garantire la propria sicurezza, il mondo non è ancora al sicuro. In Medioriente le ottimistiche previsioni sulla caduta dei regimi autoritari che avrebbero dovuto fare spazio alle nuove democrazie e a più grandi prospettive di pace non hanno avuto grandi riscontri. Non sono solo le speranze democratiche a vacillare, ma anche le fondamenta per una stabilità duratura, a discapito nostro e dei nostri amici israeliani. a pagina 14

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


ridateci aldo moro

l’analisi Il disegno (interrotto) dell’alternanza

Lo «scandalo» di un Paese senza progetto di Enzo Carra a fine di un ciclo, comunemente chiamato “prima repubblica”, coincide tragicamente con i giorni del sequestro e della morte di Aldo Moro. «Io sono condannato a morte. Che la condanna sia eseguita dipende da voi. Le inevitabili conseguenze ricadranno sul partito e sulle persone. Poi comincerà un altro ciclo più terribile e parimenti senza sbocco» (Lettera a Benigno Zaccagnini, recapitata il 20 aprile 1978). Allora gli osservatori stranieri si chiedevano: il terrorismo porterà l’Italia a una nuova dittatura o accentuerà quel casino caotico che ha reso l’Italia così attraente per la stampa internazionale? Domande che troveranno puntuali risposte nelle annuali descrizioni del Censis, con le sue definizioni di una società italiana, regno del sommerso,“disgregata”,“disormeggiata”, preda di “un inconscio collettivo senza più legge, né “desiderio”. Insomma,“casino caotico”. Casino totale.

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Da trent’anni, dagli Anni di piombo, ci chiediamo come fare per riprendere quel cammino che dalle macerie del fascismo e della guerra ci aveva spinti in poche stagioni sempre più lontani, verso un progresso che sembrava senza fine. Quel cammino si era via via rallentato, i motivi erano molti, anche e soprattutto politici. Moro aveva chiaro (intervista postuma a Scalfari, pubblicata il 14 ottobre del 1978) che non era «affatto un bene» che la Dc fosse il pilastro «essenziale» della democrazia italiana, che cioè ricadessero sulle sue spalle tutte le responsabilità della guida. Era la democrazia “zoppa”, “bloccata”. La Dc non poteva rimanere «inchiodata al ruolo di unico partito di governo». «Noi non siamo più in grado di tenere da soli un Paese in queste condizioni», concludeva Moro. Verso la fine degli anni Settanta, la Dc e Moro affrontano dunque l’emergenza pensando di associare al governo il Pci. Ma in ogni caso la proposta non sarebbe andata oltre l’emergenza. Uno che lo conosceva bene, Francesco Cossiga, ha ripetuto più volte che l’idea di un Moro“progressista”, cioè irrimediabilmente attratto dal Pci, era del tutto falsa. E però era – è ancora – difficile “tollerare”l’idea di un Moro «moderato che vedeva nel compromesso storico non un’alleanza strategica con il Pci, ma un passaggio, una strada che avrebbe dovuto portare, dopo una fase di governo con i comunisti, verso il bipolarismo, vale a dire verso un sistema politico con i democristiani da una parte e i comunisti dall’altra» (Cossiga, La versione di K). È una fedele interpretazione di quanto dice Moro a Scalfari. «Sono assolutamente contrario al progetto di compromesso storico lanciato dal Pci. La società consociativa non è un modello accettabile per un paese come il nostro, sarebbe un arretramento». «Dopo la fase dell’emergenza si aprirà finalmente quella dell’alternanza». Da allora, oltre l’uccisione di Aldo Moro sono venuti a mancare a questo progetto politico due soggetti dell’importanza della Dc e del Pci. E, fin qui, non se ne vedono i successori. In quei mesi, intanto, alla «stanchezza della democrazia» faceva sempre più da contraltare la vitalità di un paese che non trovava risposta nella politica. Molto prima di allora, nel dicembre 1974, alla replica sul dibattito sul suo quarto governo, Moro aveva intravisto il problema: «Quest’Italia disordinata e disarmonica è infinitamente più ricca e viva dell’Italia più o meno bene assestata del passato. Ma questa è solo una piccola consolazione. Perché anche nel crescere e del crescere si può morire». Figuriamoci: se si può morire crescendo, quant’è sicuro fare questa fine se si continua a declinare. Che è quanto capita a un paese senza progetti.

il fatto A trentatré anni dalla morte, la Camera celebra lo statista democristiano

La terza Repubblica di Aldo Moro Fini: «Ci insegnò il confronto tra chi ha idee diverse». Pisanu: «La sua lezione per scomporre e ricomporre questo bipolarismo». Forlani: «Prossimi all’abisso» di Franco Insardà

ROMA. Beppe Pisanu, uno dei suoi migliori allievi, non fa fatica ad ammettere qual è ancora oggi il suo faro. Perché a trentatrè anni dal suo sacrificio, «Aldo Moro ha tante cose ancora da dire ai cattolici italiani: innanzitutto di guardare al domani e al dopodomani come aveva ci aveva consigliato dal carcere delle Br». Ma è il presente, di fronte alla grandezza dello statista democristiano brutalmente ucciso dalle Brigate rosse, a diventare un paradigma insormontabile per chiunque faccia attività politica. Per chiunque voglia superare le sterili contrapposizioni che accompagnano il dibattito pubblico e non dimentica che convergenza e alternanza sono concetti e momenti fondamentali per una democrazia che si fonda sulle idee e sul dialogo. Secondo Pisanu, nelle parole e negli scritti del leader democristiano, c’è persino la ricetta per superare il bipolarismo di plastica che l’Italia si è dato dopo Tangentopoli. Perché senza ricercare unioni contronatura, «questo bipolarismo lo si può e lo si deve scomporre e poi ricomporlo mettendo insieme forze omogenee per idee e per programmi». Ieri la Camera dei deputati lo ha voluto ricordare con un convegno dal titolo molto significativo: “Moro e la fine della Prima Repubblica”. E tutti gli esponenti politici che l’hanno (il presidente di Montecitorio, Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini, Guido Bodrato, Enzo Carra, Ciriaco De Mita, Arnaldo Forlani, Paolo Franchi, Miguel Gotor, Giuseppe Pisanu e Virginio Rognoni) si sono “vo-

tati” alla sua esperienza per salvare un’Italia che mette in discussione anche la divisione dei poteri, vede crescere lo iato tra politica e società civile, fatica a trovare una collocazione in un mondo senza più equilibri. Miguel Gotor, autore del libro Il memoriale della Repubblica - gli scritti di Aldo Moro dalla prigionia e l’anatomia del potere italiano, ha tracciato il filo che lega la storia italiana, quella della Democrazia cristiana e il memoriale ritrovato nel covo di via Monte Nevoso delle Brigate rosse nell’ottobre del 1990. Un viaggio nel quale protagonista (e non antagonista) è anche il Pci: dalle comuni radici nella Carta costituzionale ai ruoli per ricostruire un Paese uscito distrutto dalla guerra. E proprio ieri il presidente del Tribunale di Roma, Paolo De Fiore, ha consegnato al direttore dell’Archivio di Stato di Roma, Eugenio Lo Sardo, 11 lettere che lo statista scrisse nei giorni del sequestro.

Secondo Gotor, Moro «puntava a creare una fluidità tra società civile e sistema dei partiti», in modo da «garantire il passaggio a una democrazia compiuta, caratterizzata dall’alternanza di governo». Non a caso, «lo statista aveva ricordato ai suoi sequestratori come egli non fosse né il depositario di segreti né il capo incontrastato della Dc. Il suo ruolo era quello di evitare un’involuzione moderata del suo partito e mantenere aperto il rapporto con la base». Miguel Gotor ha concluso che la morte di Aldo Moro ha significato proprio «l’involuzione della Dc prima e del


il caso

Napolitano: «L’Italia onori i giudici» Ma Berlusconi: «Commissione d’inchiesta sui Pm». E Santanchè: «Boccassini metastasi» di Errico Novi

ROMA. Finisce capovolta, questa campagna elettorale. Iniziata con grande slancio sulla polemica anti-pm, la propaganda del Cavaliere si infrange sul rigore istituzionale e sulla sensibilità umana del capo dello Stato. Ricorre la Giornata della memoria per le vittime del terrorismo. E la cerimonia si svolge proprio al Quirinale, dove Giorgio Napolitano tiene un intenso discorso davanti a molte delle massime cariche istituzionali del Paese (non c’è Berlusconi, a Milano per il processo Mills), oltre che ai familiari dei dieci giudici caduti negli anni di piombo. Chiede di parlare «della magistratura e alla magistratura» con «l’onore che ad essa deve essere reso. È la condizione di ogni riforma». E già qui il richiamo alle posizioni del premier è leggibile quanto severo. Quindi il presidente della Repubblica si sofferma sul libro pubblicato per l’occasione dal Csm sui magistrati uccisi dal terrorismo, Nel loro segno. «Si sfoglino quelle pagine: le parole che quest’opera raccoglie sono come pietre, restano più forti di qualsiasi dissennato manifesto affisso sui muri della Milano di Emilio Alessandrini e Guido Galli e di qualsiasi polemica indiscriminata». In tutti e due i passaggi citati, Giorgio Napolitano si commuove. La sua voce è rotta dal pianto. L’immagine è di quelle che resteranno nella storia di questo settennato. Ed è un’immagine di grande forza emotiva.

Soprattutto quell’immagine rischia di mandare in mille pezzi la strategia del conflitto adoperata con la consueta abilità dal presidente del Consiglio. Perché di fronte a un capo dello Stato che sa parlare con tanta partecipata

emozione dei giorni che hanno insanguinato il Paese e lasciato sul campo eroi della giustizia, di fronte a un presidente così, la forza della polemica berlusconiana si dissolve. È chiarissima la direzione in cui finiscono alcune delle parole di Napolitano. Cita i manifesti di Lassini e «qualsiasi polemica indiscriminata». Quest’ultimo aggettivo chiarisce peraltro come il capo dello Stato non entri nella contesa sulla misura più o meno colma delle iniziative rivolte contro il Cavaliere dai pm milanesi. Perché respingere i veleni e le accuse «indiscriminate» serve anche

tore qual è, Berlusconi cerca di guadagnarsi le headelines con una dichiarazione ardita: «Apriremo gli armadi della vergogna, perché nessuna strage rimanga avvolta nel mistero». È questo, dice il capo del governo, «il modo migliore per onorare le oltre 400 vittime della sanguinosa ideologia del terrorismo». Berlusconi se la prende con «i cattivi maestri» che «hanno alimentato quella ideologia criminale». E dice basta anche «alle tribune mediatiche e universitarie concesse ai terroristi». Insomma, il discorso del premier cambia completamente soggetto.

Il premier in aula per il caso Mills ci ripensa: «I magistrati rimasti vittime del terrorismo erano degli eroi»

Parole diverse da quelle che il presidente del Consiglio pronuncia in mattinata, al Tribunale di Milano, dove per la prima volta interviene a un’udienza del processo Mills. A parte l’esibita tranquillità rispetto all’intervento del Colle sui sottosegretari e a quello di Bossi sui giudici («non leggo i giornali, non mi irrito mai») Berlusconi torna sul concetto di «cancro della democrazia» applicato ai pm che indagano su di lui, poco dopo imitato dalla Santanché. «Ci sono tentativi reiterati da parte degli stessi pm di eversione, per 24 volte è stato accertato che le accuse nei miei confronti erano infondate: questa cosa come la chiamate?». A chi gli fa notare che in quell’elenco compare più di una prescrizione, il presidente del Consiglio ribatte che «le prescrizioni dimostrano l’infondatezza delle accuse». E in particolare sul processo Mills dice che «è senza prova né movente». Ribadisce la sua tesi nelle pagine che tratte da un libro di Vespa che distribuisce ai cronisti. Però disconosce le frasi sul «brigatismo giudiziario at-

a rammentare al premier quanto sia insensato scagliarsi contro l’intero ordine giudiziario per rispondere alle accuse di una singola Procura.

Berlusconi capisce che il peso delle sue accuse gli ricade addosso. E così nel tardo pomeriggio diffonde una nota con cui tenta di rettificare la linea. «Insieme al governo e all’Italia intera mi inchino con rispetto e gratitudine per ricordare le vittime del terrorismo, unendomi idealmente alle nobili parole pronunciate questa mattina al Quirinale dal Capo dello Stato». È un riconoscimento doveroso e inevitabile. Ma è anche una dichiarazione di sconfitta di una sconfitta dal punto di vista della propaganda. E da abile comunica-

sistema partitico della prima Repubblica». Concetto espresso nel suo intervento anche da Enzo Carra. «La fine di un ciclo comunemente chiamato prima Repubblica», ha spiegato il parlamentare dell’Udc, «coincide tragicamente con i giorni del sequestro e della morte di Aldo Moro. Allora gli osservatori stranieri si chiedevano: il terrorismo porterà l’Italia a una nuova dittatura o accentuerà quel caos che ha reso l’Italia così attraente per la stampa internazionale?». Buona parte degli interventi è stata dedicata al ruolo svolto da Moro nei rapporto tra Dc e Pci. E tutti ci hanno tenuto a fare chiarezza e spiegare che lo statista guardava alla fase della solidarietà come la migliore soluzione per superare la crisi economica e sociale. Con l’obiettivo di mettere le basi per creare una reale alternanza tra gli schieramenti. Di Moro, Ciriaco De Mita sottolinea la capacità di capire che «la democrazia rappresentativa non si fonda solo sul voto, sulla sua quantità senza opinioni. Perché così, lo ricordava Aristotele, si passa dall’oligarchia e poi alla tirannide».

sa di più di una piattaforma di lavoro: «In una situazione così lacerata e prossima all’abisso, va rivendicata una linea centrale e autonoma. Il che è giusto ma se si recupera un forte contenitore ideale e di programma che la giustifichi». Ma, come ha ricordato Pisanu, a 33 anni dalla sua morte e dopo la scomparsa dei grandi partiti, siamo di fronte a una transizione non conclusa dalla prima alla seconda Repubblica. «Ma perché il bipolarismo funzioni

Ieri il presidente del Tribunale di Roma, Paolo De Fiore, ha consegnato al direttore dell’Archivio di Stato di Roma, Eugenio Lo Sardo, le undici lettere che lo statista scrisse nei giorni del sequestro

Arnaldo Forlani, che quei giorni drammatici li ha vissuti nella segreteria della Dc come «il più moroteo tra i fanfaniani», ne ha approfittato per lanciare una provocazione al suo allievo: «Se ci fosse stato Moro, Casini non avrebbe dato il via alla divisione della Dc». Quindi ha destinato al sistema politico italiano qualco-

bene deve alimentare la dialettica parlamentare, non lo scontro. Deve tendere alla convergenza sulle questioni essenziali, non alla divergenza. Deve unire e non dividere il Paese, affidandosi alla forza unificante della Costituzione dello stato di diritto». Sull’attualità di Moro ha concordato anche il presidente della Camera Gianfranco Fini: «Le sue parole di 37 anni fa si adattano molto bene anche alla vita odierna, seppur in un contesto storico fortunatamente meno tragico anche se altrettanto tumultuoso. I trentatrè anni seguiti alla morte di Moro hanno visto, in vario modo e per motivi diversi, una risposta solo parziale e insuffi-

tribuitemi dai giornali», frasi che hanno probabilmente ispirato i manifesti della discordia. Anche questi ultimi, spiega, sono «indebiti». E a Lassini, aggiunge, «ho telefonato solo per ringraziarlo della rinuncia alla candidatura».

Va detto che già in quel concitato passaggio al termine dell’udienza (aggiornata a lunedì prossimo) Berlusconi si dice grato ai giudici uccisi dai brigatisti: «Noi ci inchiniamo tutti, quei magistrati sono figure eroiche». Però non disdegna di annunciare l’istituzione di una «commissione parlamentare d’inchiesta per evidenziare se all’interno della magistratura c’è un’associazione con fini a delinquere». E questo confligge in modo irrimediabile con quel ricordo fatto negli stessi minuti da Napolitano dei giudici che caddero «con la consapevolezza e la serenità di chi ha di fronte non nemici da sconfiggere, ma cittadini imputati da giudicare». ciente all’ansia di rinnovamento e di riforma che ha percorso, e che continua a percorrere, il Paese. L’Italia ha raggiunto la democrazia dell’alternanza, ma con idealità affievolite, c’è l’impressione che con le ideologie siano finite anche le idealità, e con valori condivisi ancora incerti. La lezione di Moro è preziosa anche per l’Italia di oggi, perché ci ricorda che il confronto tra soggetti politici portatori di istanze e storie diverse, deve sempre avvenire sulla base di valori ben radicati e soprattutto solidamente condivisi. Lo è perché indica nel progresso della democrazia un traguardo comune a cui tutti devono tendere. E si tratta di un insegnamento quanto mai importante per un’Italia, come quella odierna, che ha bisogno di ritrovare una forte coesione nazionale, una rinnovata spinta riformatrice».

Fini ha ricordato come Moro, nel descrivere l’attività politica diceva: «ciascuno deve assolvere la sua missione nel mondo, sentendola grande sempre e creatrice di storia. In conclusione, la democrazia moderna non può vivere solo di pragmatismo e disincanto. Le forze della cultura e della politica devono riconquistare la consapevolezza che il governo dei processi sociali ha bisogno di essere sostenuto dalle passioni e dalle idealità dei cittadini e da una visione di lungo respiro da parte della politica. Era questa la grande preoccupazione di Moro che, a trentatrè anni dalla sua scomparsa, non cessa di essere viva e attuale».


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l trascorrere del tempo non ha fatto venire meno il senso di vuoto indotto dalla mancanza di Aldo Moro. Al contrario, proprio in questi ultimi anni, la sensazione palpabile che si avverte tra gli italiani quando si ricorda lo statista barbaramente assassinato dalle Brigate Rosse, è che questo vuoto si sia acuito. Un fenomeno che, forse, può essere spiegato anche con lo smarrimento profondo e generalizzato che si avverte di fronte ad una politica fatua e distante dal Paese, che ha raggiunto ormai livelli di personalizzazione esasperata e senza precedenti nella storia dell’Italia repubblicana, proprio mentre nessuna delle personalità in campo sembra poter reggere il confronto con uomini della statura politica e morale di Moro. Viviamo giorni, settimane e mesi, d’altro canto, in cui la memoria collettiva pare avere

strati, uccisi dal terrorismo eversivo e dalla criminalità organizzata.

distante dall’affermarsi non solo nell’Europa del blocco comunista, ma pure nei Paesi ai confini meridionali del Vecchio Continente, dal Portogallo, alla Spagna, alla Grecia, che anche per questo suona ancora più carica di significato politico per quel tempo, oltre che di evidente attualità nel mondo contemporaneo. Affermava Moro nel suo discorso: «…se io mi domando come sarà il mondo di domani, credo di poter dire che esso sarà pacifico se sarà democratico…». L’estensione e l’applicazione dei principi democratici in un numero sempre crescente di Paesi nel mondo, unite alla speranza della costruzione di una pace solida e duratura tra i popoli, sia pure tra mille contraddizioni, costituiscono oggi forse l’obiettivo primario dell’umanità e una precondizione essenziale per lo sviluppo economico e sociale di aree sempre più vaste del pianeta. Appare lecito, dunque, affermare, sia pure con la dovuta cautela tenuto conto dei mutamenti occorsi nel mondo negli ultimi quarant’anni, che Moro, tra i primi, aveva compreso la crescente interdipendenza tra le diverse nazioni e i diversi territori, così come dai suoi discorsi e dai suoi scritti traspare a più riprese il presentimento che il blocco comunista avesse ormai per-

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Viviamo giorni in cui le sue intuizioni, ancora così vivide sul piano della politica appaiono illuminanti anche sul piano dell’analisi degli scenari internazionali

finalmente un soprassalto di vitalità e d’orgoglio, in un Paese che troppo a lungo negli ultimi anni è sembrato in un certo senso averla collocata in sonno; mentre oggi, almeno questa è la speranza, forse comincia a comprendere che senza memoria le Nazioni si riducono a veicoli che procedono a fari spenti nella notte. Così si inquadra nella sua corretta dimensione il successo delle celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia. In tal modo si giustifica l’attenzione e la partecipazione riscossa dalla Giornata della memoria dedicata questa mattina dal Presidente della Repubblica ad altri servitori dello Stato che hanno pagato con la vita la loro fedeltà alle istituzioni, i magi-

Viviamo, d’altronde, giorni in cui le intuizioni di Aldo Moro, ancora così vivide sul piano della politica interna da costringere ognuno di noi, ciclicamente, a confrontarsi con il suo pensiero, appaiono illuminanti anche sul piano dell’analisi degli scenari internazionali, cui pure dedicava massima attenzione nell’ambito della sua attività di governo e di partito. C’è una frase pronunciata in un discorso nel 1967, quando ancora la democrazia era assai

Il Grande Vuoto di Pier Ferdinando Casini

Visione della politica estera, senso delle istituzioni, stile morale, lucidità nell’interpretare i fatti della Storia: di fronte alla politica fatua e oligarchica di oggi, si fa sempre più urgente tornare ai suoi insegnamenti


ridateci aldo moro

corso gran parte del proprio orizzonte temporale e che presto o tardi gli Stati avrebbero dovuto cimentarsi nella costruzione di un nuovo ordine mondiale. Ma, se molteplici sono gli spunti di riflessione sulla politica estera che hanno resistito al succedersi delle stagioni per giungere fino ai nostri giorni, indubbiamente ancora più numerosi sono i punti di contatto tra gli scritti e i discorsi di Moro negli ultimi anni della sua attività politica e il nostro tempo sul piano della politica nazionale. Il dibattito di oggi ne offre una rappresentazione plastica.

Il volume di Miguel Gotor che viene presentato qui per la prima volta scava con metodo scientifico sotto ogni riga del memoriale di Moro giungendo a dimostrare che vi sono state almeno due mani censorie che hanno lavorato in tempi differenti sul copioso materiale scritto dallo statista nei 55 giorni di prigionia e giunto a noi in fotocopie ritrovate in tempi, e stagioni politiche, differenti. Si tratta di conclusioni inquietanti che aprono nuovi interrogativi sul memoriale, sulla prigionia di Moro e sugli eventi salienti della storia Repubblicana prima e dopo la sua uccisione. Alcuni passaggi sono stati modificati, altri ci sono stati sottratti e la ricerca, dunque, lungi dall’essere terminata, può semmai aver individuato un solido punto di partenza per merito del certosino e illuminato lavoro di Gotor. Ma che con il pensiero di Moro siamo obbligati a continuare a confrontarci, non solo sul piano storiografico, ma anche sul piano politico, è dimostrato dagli interventi delle persone sedute intorno a questo tavolo. Personalità che hanno conosciuto e frequentato Moro direttamente e che sono testimoni diretti della non scalfita validità di una porzione rilevante delle sue riflessioni politiche. Nonostante la moderazione che lo induceva a non sbilanciarsi mai oltre quanto imposto dalle circostanze e a dosare tempi e modi delle sue prese di posizione, non v’è dubbio che Moro perseguisse un disegno lucido e consapevole. Un progetto che mirava a sviluppare e completare la democrazia nel nostro Paese, ponendola al pas-

so con le trasformazioni, innanzitutto di natura sociale ed economica e, poi, di natura politica, che egli coglieva ormai prossime alla maturazione nelle aree più avanzate, come in quelle più direttamente influenti sull’Italia, del mondo. Fu tra i primi a comprendere che tra politica e società si stava scavando un solco pericoloso e che in assenza di una ritrovata sintonia la politica avrebbe via via smarrito gli strumenti per leggere i mutamenti in atto nella società italiana, e quindi anche la sua capacità di guida, finendo col subire quanto avveniva e, forse, col venirne travolta. Alcune sue parole pronunciate nel 1976 danno conto di questa preoccupazione e a distanza di 35 anni mantengono inalterata la loro potenza espressiva.Affermava Moro: «È diminuito il potere dello Stato. È giusto dunque temere per lo Stato democratico, dubitare che esso non riesca ad essere uno strumento aperto, flessibile, ma istituzionalmente capace di dare alla libertà tutto il suo spazio. L’equilibrio tra le crescenti libertà della società moderna ed il potere necessario all’ordine collettivo è fra i più grandi, se non il più grande problema della nostra epoca». A preoccupare non erano solo i fili del cambiamento che si dipanavano dai movimenti nati spontaneamente nelle società occidentali dopo il 1968, le tensioni internazionali crescenti tra i due blocchi contrapposti, il progressivo esaurimento della spinta propulsiva che aveva caratterizzato l’economia mondiale nella prima fase post bellica e, di conseguenza, anche il boom economico italiano, ma pure l’affastellarsi di gravi episodi di violenza interna di matrice terroristica di destra e di sinistra che cominciavano a prefigurare una certa “strategia della tensione”.

È in tale contesto che Moro inizia a sollecitare un cambiamento nella politica italiana, a cominciare dal suo partito, la Dc, cui non nasconde la necessità di «essere alternativa a se stessa» pena la perdita di contatto e presa sulla società e dunque la sua delegittimazione che, inevitabilmente, avrebbe significato anche delegittimazione del governo del Paese. Concetti che dopo le elezioni del 1975 si fanno ancora più stringenti, quando Moro per la prima volta parla

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apertamente di “terza fase”. Una terza fase che avrebbe dovuto riguardare ancora in primis il suo partito, ma che dopo il risultato elettorale del 1976, che Moro non esitò a giudicare come contrassegnato dalla presenza di due vincitori, si sarebbe dovuta estendere all’intero sistema politico, compreso dunque il Pci, che al pari della Democrazia Cristiana egli vedeva, al di là dei risultati nelle urne, sempre meno protagonista e sempre più distante rispetto ai mutamenti in corso nella società. E’in atto nella vita italiana, diceva «un moto indipendente dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle di sinistra, esso pone dei problemi non facili da risolvere. Questo è un moto che logora e spazza via molte cose e tra esse la “diversità”del partito comunista». La luci-

Mentre nuovi pericoli minacciano l’Italia - populismo, relativismo etico, egoismo localistico - la sua lezione rimane una traccia preziosa per avviare una nuova fase

da lungimiranza di quei concetti, a distanza di 35 anni dalla loro enucleazione, appare ancora stupefacente. Ma ciò che lascia ancor più amareggiati, oltre che stupefatti, è che 35 anni dopo, quei problemi, al di là delle torsioni e dei mutamenti avvenuti nel corso della storia dopo la morte di Moro, rimangono sul tappeto e interpellano con identica forza persuasiva l’intero sistema politico di oggi.

Sappiamo tutti com’è andata. Il quadro politico che Moro tentò invano di modificare e che, forse, se la violenza omicida delle Brigate Rosse non si fosse accanita contro di lui, avrebbe condotto alla transizione, ha iniziato ad infrangersi con la sua morte ed è venuto definitivamente meno quindici anni dopo. Ma dalle ceneri di quel sistema non è nata una terza fase per la nostra Repubblica. E’ nata, semmai, una fase ibrida e informe, di cui chiunque avverte la provvisorietà, nella consapevolezza che qualcosa di diverso In queste pagine, vari momenti della vita politica di Aldo Moro. Dall’alto, in senso orario: con Amintore Fanfani; con Robert Kennedy; con la famiglia; in Parlamento dai banchi del governo; con Padre Pio; prigioniero delle Br; con Enrico Berlinguer; con Henry Kissinger; con Giuseppe Saragat

ci attende dietro l’uscio, anche se a quell’uscio guardiamo ormai da venti anni. Quel che è certo, in ogni caso, è che ciò che ci attende è ben lungi dall’essere definito. Al contrario, dovrà essere costruito. E quindi non possiamo permetterci di attendere pigramente con le mani in mano. La sua uccisione, insomma, ha davvero aperto in tutti noi un vuoto incolmabile. Moro, contrariamente al modo in cui è stato a lungo descritto dai suoi detrattori, era un lucido conservatore. Il “compromesso storico”, il dialogo con il Pci di Berlinguer erano ben altro e assai più che un accordo di potere. Erano semmai il tentativo più avanzato del superamento di una contrapposizione che dopo 30 anni cominciava a logorare entrambi i partiti di massa. Un passaggio fondamentale per giungere ad una compiuta democrazia dell’alternanza nel nostro Paese.

Dietro questa lettura è possibile scorgere con chiarezza anche la ragione per cui le Brigate Rosse lo colpirono. Il vero nemico, agli occhi dei terroristi, ancor prima che la Democrazia Cristiana, era il Partito Comunista Italiano. Il loro richiamo, diretto e senza mediazioni, al marxismo-leninismo conduceva inevitabilmente alla rottura con la sinistra parlamentare, percepita come traditrice e nemica delle masse proletarie. Uccidere Moro, che perseguiva apertamente un progetto di rinnovamento del sistema politico italiano, la fine della “conventio ad excludendum” di forze vive e presenti nel tessuto sociale del Paese, e dunque il rinnovamento anche del Pci che a quelle forze ambiva a dare voce politica, significava colpire al cuore quel disegno. In parte, la loro analisi si rivelò esatta: privato di Moro, il sistema politico si sarebbe avvitato su se stesso fino ad autocondannarsi. Quella stagione si è chiusa definitivamente. Ma mentre nuovi pericoli incalzano e minacciano gli Stati moderni e, in particolare, l’Italia - il populismo, l’individualismo, il relativismo etico, l’egoismo localistico, gli opposti estremismi - la lezione di Moro rimane una traccia preziosa per avviare una nuova fase di sviluppo e di crescita. Anche per onorare al meglio la sua memoria, siamo chiamati a fare ogni sforzo per seguirla.


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ridateci aldo moro Una delle più mistificatorie “interpretazioni” dello statista democristiano: la statua eretta in suo onore nel paese natio di Maglie che lo propone con una copia dell’Unità tra le mani

Oltre la sua morte tragica (e oltre la stagione del «compromesso storico») il senso di un uomo ancora tutto da rileggere

L’incompreso

Aldo Moro non è un santino, non è il liquidatore della Dc, non è il “padre” dell’Ulivo: è un leader che aveva sognato un’Italia dove politica e morale potessero convivere. Il suo progetto è stato spezzato, ma è ancora attuale di Francesco Iacobini iù passa il tempo e più la grandezza della vicenda politica di Aldo Moro si fa conoscere e apprezzare nei suoi risvolti e nelle sue implicazioni non solo dagli addetti ai lavori, ma anche da segmenti di opinione pubblica poco visibili e apparentemente silenti, e però capaci di cogliere l’essenziale, di stabilire opportuni collegamenti e di dare giudizi verosimili sulla nostra storia contemporanea. La biografia dello statista pugliese viene letta quasi sempre alla luce della tragedia finale del rapimento e della morte, che a 33 anni di distanza non cessa di alimentare domande, tentativi di ricostruzione, ricerche e non poche suggestioni dietrologiche. E a ben vedere, il “caso Moro”, oltre a essere un sanguinoso fatto di terrorismo in anni di violenze e disordini eversivi, si lascia percepire come un dramma del potere in un senso quasi shakespeariano, dando corpo agli elementi, alle

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luci e alle ombre di una temperie non casuale, con i suoi diversi protagonisti a rappresentare il travaglio e il limite insuperabile della condizione umana, quando misurata senza appello sull’urgenza di valutazioni e scelte che travalicano ampiamente la sorte dei singoli. D’altra parte, l’assassinio del leader democristiano, il suo significato di “rottura” nella storia politica italiana e i suoi effetti sulle vicende successive, danno il senso dell’importanza e dell’ assoluta decisività della sua vita e della sua testimonianza, che ancora oggi sono lì a rappresentare – quasi come preannunciato nelle lettere dalla prigione brigatista – un punto di provocazione e di irriducibilità.

Sin dagli anni giovanili, Aldo Moro ha incarnato in se stesso un senso alto della politica, del suo statuto e della sua funzione civile e sociale. Giurista di formazione, cresciuto alla

grande scuola dell’associazionismo cattolico che durante il fascismo prepara la classe dirigente del “dopo”, educato proprio dalla Chiesa alla laicità come metodo (e non come merito, secondo le grottesche e paradossali accentuazioni di oggi), egli riflette da subito sulle ragioni di un impegno pubblico cui la sua generazione è naturalmente chiamata. Muovendo dall’antropologia e dal pensiero sociale cristiano, ar-

Una parabola pubblica e privata che ha molto di shakespeariano

ricchiti in quegli anni dai contributi del personalismo e del maritainismo, Moro rivela subito un’attitudine particolarmente accentuata a rintracciare e rendere evidente un nesso permanente tra le motivazioni e l’ispirazione di fondo e la pratica concreta, quotidiana della vita politica, in una dinamica integrata per cui il suo discorso non è mai puramente astratto né mai freddamente pratico, ma sempre appunto

capace di una sintesi coerente, con un afflato cordiale e credibile. C’è in lui, appunto da sempre, un senso davvero alto della funzione politica, ma non nella direzione del moralismo, o della retorica fondamentalista che assolutizza concetti relativi, trasformando in religione pubblica ciò che è in fondo solo modesto civismo. In Moro c’è un senso alto della politica perché essa è un fronte di azione e di lotta in cui il mondo umano della storia realizza possibilità di miglioramento delle condizioni della vita comune, e in cui l’uomo è chiamato a spendere i propri talenti in una forma tanto peculiare. E perché a questo livello essa diviene una grande scuola di realtà, e nell’indicazione di obiettivi, di mete, di speranze e di progetti, nella fedeltà a un’ispirazione esigente, sviluppa il proprio percorso nel fuoco della vita vera, senza possibilità di evasioni. È proprio per questo approccio di fondo che, nel


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Da Aquileia, Benedetto XVI torna su un tema a lui particolarmente caro

Anche il Papa insiste: una nuova classe politica

«Le istituzioni hanno più che mai bisogno di forze fresche del cattolicesimo che tornino a operare al servizio di tutti» di Luigi Accattoli settembre saranno tre anni che il Papa chiede con insistenza alla Chiesa italiana di «suscitare» una nuova generazione che sappia assumersi responsabilità politica: l’ultimo di tali appelli l’ha formulato sabato da Aquileia, parlando ai cattolici del Triveneto ma con argomenti applicabili a tutta l’Italia. Lo specifico di quest’ultimo richiamo è nell’ampio programma di umanesimo cristiano che l’ha preceduto e che Benedetto ha posto a sua premessa, come a dire che un tale umanesimo comporta - come ultimo complemento - la proiezione nel politico. Conviene dare un’occhiata alla formulazione dell’appello e ai suoi precedenti per cogliere appieno la preoccupazione del Papa, che in questi tre anni è stata fatta propria ripetutamente dal nostro episcopato. Essa guarda sia alla società sia alla Chiesa, nella convinzione che un’efficace presenza politica dei cristiani sia destinata a risultare provvidenziale per ambedue. «Continuate a offrire il vostro contributo per umanizzare gli spazi della convivenza civile» ha detto sabato il Papa a conclusione di quella prospettazione di obiettivi culturali e sociali sui quali aveva intrecciato il suo messaggio alle componenti attive delle comunità cattoliche del Nord-Est. «Da ultimo - ha continuato - raccomando anche a voi, come alle altre Chiese che sono in Italia, l’impegno a suscitare una nuova generazione di uomini e donne capaci di assumersi responsabilità dirette nei vari ambiti del sociale, in modo particolare in quello politico».

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Romano - il cardinale Bagnasco ha descritto così la crisi del Paese: «L’affezione per la cosa pubblica sta scemando e sempre più rarefatto è il consenso intorno al bene comune, privilegiando ciascuno beni di piccolo cabotaggio e senza prospettiva alcuna». Ed eccoci a un elemento interpretativo importante per questa insistenza del Papa e della Cei: essa nasce dalla percezione di una progressiva disaffezione nei confronti del «bene comune». Ecco perché Benedetto ad Aquileia ha detto che la nostra politica oggi ha «più che mai» bisogno di giovani: perché quelli motivati a entrare nell’agone politico vanno diminuendo. In un’altra occasione - parlando il 24 maggio 2010 al Consiglio per i laici riunito sul tema “Testimoni di Cristo nella comunità politica” il Papa aveva detto che l’impegno politico è indispensabile contro ogni tentazione di riflusso: «Bisogna recuperare e rinvigorire un’autentica sapienza politica» per fare fronte al «diffondersi» del «relativismo culturale» e dell’individualismo «utilitaristico e edonista». Anche ad Aquileia ha accennato alle «nuove sfide» a cui oggi deve far fronte l’umanesimo cristiano: «La ricerca spesso esasperata del benessere economico, il materialismo pratico, il soggettivismo dominante». Ma dal Papa ci si attende di ascoltare qualche indicazione sui contenuti dell’impegno politico a cui richiama i giovani cristiani e Benedetto quelle indicazioni sabato le ha date, più dettagliate del solito, ma tenendo fede all’impegno - già formulato dal Vaticano II - a evitare la sponsorizzazione di qualsiasi schieramento e insistendo più sui principi a cui ispirare l’azione politica che sui modi per portarla avanti. «Dalla fede vissuta con coraggio ha specificato - scaturisce anche oggi, come in passato, una feconda cultura fatta di amore alla vita, dal concepimento fino al suo termine naturale, di promozione della dignità della persona, di esaltazione dell’importanza della famiglia, fondata sul matrimonio, fedele e aperta alla vita, di impegno per la giustizia e la solidarietà». Ha ricordato inoltre che resta essenziale per i cristiani della nostra epoca la scelta democratica: l’impegno cioè ad «affrontare le nuove sfide culturali in rispettoso confronto costruttivo e consapevole con tutti i soggetti che vivono in questa società». Il Papa dunque non chiede ai cattolici nessun arroccamento e nessuna battaglia di parte. Li sollecita a essere coerentemente attivi in politica, nell’accettazione del libero confronto che caratterizza una società pluralistica. Ma li invita a fare presto in questo recupero di responsabilità politica, perché di essa c’è «più che mai» bisogno. www.luigiaccattoli.it

Occorre una leva di uomini e donne capaci di assumersi responsabilità in diversi ambiti

Ha poi aggiunto che la nostra politica ha bisogno di forze fresche e giovanili: «L’ambito politico ha più che mai bisogno di vedere persone, soprattutto giovani, capaci di edificare una “vita buona” a favore e al servizio di tutti». Il primo appello di questo tipo Benedetto l’aveva formulato nel settembre del 2008 trovandosi in visita a Cagliari, quando aveva auspicato la nascita di una «nuova generazione» di laici cattolici capaci di assumere responsabilità culturali, sociali e politiche. A quell’auspicio si è rifatto nel gennaio dello scorso anno il cardinale Angelo Bagnasco formulando un suo «sogno»: che questa stagione contribuisca «a far sorgere una generazione di italiani e di cattolici che sentano la cosa pubblica come importante e alta, in quanto capace di segnare il destino di tutti». Più recentemente - con un’intervista del 4 luglio scorso all’Osservatore

corso della sua vita, cogliamo Aldo Moro sempre impegnato su crinali difficili, fedele a quel “principio di non appagamento” che negli scritti giovanili aveva indicato come la condizione permanente del cristiano, anche in politica.

Lo troviamo fedele alle ragioni della prima Democrazia Cristiana, quella della lotta anticomunista del 18 aprile 1948, eppure dubbioso sull’adesione dell’Italia al Patto Atlantico (ciò che gli varrà l’esclusione da tutti i governi presieduti da De Gasperi); determinato nella lotta interna al partito per il superamento della leadership fanfaniana, e quindi tra i capi della “congiura” dorotea che nel’59 lo porterà alla guida dello Scudocrociato dopo la sconfitta del professore di Arezzo. Lo vediamo coinvolto in prima linea nel difficilissimo avvio del primo centro-sinistra, al crocevia tra le resistenze di settori decisivi della Dc e dello Stato, gli interdetti della Chiesa (e però anche le sue timide aperture, difficili da decifrare eppure sostanziali, agli inizi della primavera giovannea e della stagione conciliare), le diffidenze degli americani e del blocco occidentale. In seguito, con la crisi del centro-sinistra, lo si scopre impegnato a rivedere la sua collocazione dentro la Dc, staccandosi dal gruppone doroteo e trovando un suo spazio autonomo, numericamente esiguo ma assai qualificato, da cui prosegue e sviluppa più liberamente la sua riflessione e la sua politica di progressivo allargamento delle basi della democrazia, di attenzione e dialogo con le realtà sociali e giovanili emergenti, di colloquio con i comunisti in vista di un’evoluzione del sistema politico italiano, stretto nelle morse paralizzanti della Guerra Fredda. Aldo Moro è un profeta dei tempi nuovi, ma anche uno che rischia in prima persona nei guadi rischiosi tra il prima e il dopo. È tra i pochissimi leader della Prima Repubblica che conosce i veri segreti dello Stato, e i duri vincoli che legano l’Italia ai suoi obblighi internazionali. Sa che la situazione mondiale scarica sul nostro Paese pesi e condizionamenti soffocanti, ma pur impegnandosi come abbiamo visto per il superamento di quella situazione, non rinuncia a gestirla, non si tira indietro, forte delle convinzioni di fondo che gli fanno ritenere l’impegno suo e della sua parte comunque necessario e comunque utile per l’Italia, pur in mezzo a tanti limiti e a tante, dolorose necessità. Così, rivendica con orgoglio i meriti e la posizione della Democrazia Cristiana, già allora segnata

da tanti ritardi, inadeguatezze e infedeltà, e che però resta non solo il perno del sistema politico ma anche la forza che sostiene l’avvio e la crescita della democrazia italiana, lo sviluppo economico, civile e sociale del Paese, la garanzia che la lotta al comunismo è condotta da un grande partito popolare animato da una viva ispirazione sociale e non trova esiti autoritari o liberal-conservatori, da stato borghese. Nell’ordito moroteo la funzione storica del cattolicesimo politico, o meglio della sua espressione principale, quella che proviene dal Partito Popolare e costituisce poi l’essenza e la radice della Democrazia Cristiana, si esprime nel favorire l’effettività della democrazia, il funzionamento delle istituzioni, la capacità della politica di vagliare e rappresentare davvero ciò che si muove nella società, di essere cinghia di trasmissione tra la dimensione della vita reale delle persone e i luoghi della decisione e del potere. E a fianco a questo, Moro assegna ai democratici cristiani il compito di rappresentanza e di animazione politica di quei vasti ceti che oggi vengono un po’ sbrigativamente liquidati come “moderati”, ma che in realtà costituiscono l’articolata e profonda Italia dell’umanesimo popolare, diversa nel tempo ma in fondo sempre esistente e rintracciabile.

Per il leader dc il rinnovamento del sistema politico italiano, la “forzatura” da tentare, il rischio da correre rispetto all’equilibrio marmoreo di Yalta, deve portare a realizzare la possibilità di alternarsi al governo tra le forze maggiori, tra l’evoluzione della Dc sul versante moderato e l’evoluzione del Pci sul versante della sinistra, in una logica che liberi dall’inamovibilità dal potere e dalle sue degenerazioni. Nella fase finale della sua vita egli si impegna esplicitamente per questo, e si vede bene che tutte le successive etichettature di Moro come padre del compromesso storico o addirittura come “anticipatore” dell’Ulivo non sono altro che tristi strumentalizzazioni di un nuovismo smemorato (si fa per dire) e decadente. Il lascito politico di Moro imporrebbe semmai di avere il suo stesso coraggio, di tornare a rischiare sui fronti scomodi di strade non battute, di amare e fare la politica senza complessi, di non usare scorciatoie simboliche e contraffazioni culturali, di non agitare santini a uso e consumo delle convenienze dell’ora. Perché la sua fine ha segnato una cesura storica, ma le questioni che egli additava sono tutte qui, ancora oggi, sul tappeto, con buona pace dei tanti, troppi morotei di complemento.


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estino terribile quello di Caterina de’ Medici. Una fama sinistra ha avvolto per molti anni la sua figura: la regina opportunista, l’assassina della notte di San Bartolomeo. Poi dalle nebbie della storia è emerso che, a ben guardare, non era così cattiva. Anzi, aveva sofferto molto: in fin dei conti era stata una vittima del disperato tentativo di salvare il trono dei Valois, suo marito, la sua famiglia, e persino il suo amante. Un ritratto talora agiografico ha preso il posto della leggenda nera. Ma in fondo, lei non è stata né l’una né l’altra cosa.

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È stata sicuramente una donna ambiziosa e di potere che sapeva bene di «che lacrime grondi e di che sangue». Ha governato, tramato, ucciso ma ha anche disperatamente voluto la pace, cercato di affermare la tolleran-

Ha governato, tramato, ucciso. Ma anche disperatamente voluto la pace, cercato di affermare la tolleranza religiosa, amato e difeso i suoi figli za religiosa, amato e difeso i suoi figli. No, non è stata un’eroina innocente, ma nemmeno una strega cattiva. È stata una veggente, nonché protettrice di Nostradamus. Ma soprattutto è stata una donna terribilmente sola. Intelligente e raffinata, eppure sempre alla ricerca di un po’ di amore, di qualche comprensione, di una compagnia affettuosa. Così almeno la racconta lo storico del Rinascimento C. W. Gortner, uno spagnolo-americano che è rimasto affascinato dall’italienne - così la chiamavano alla corte francese - e l’ha studiata per anni sino a tirarne fuori una monumentale biografia che appare come un’autobiografia: è scritta cioè in prima persona e proprio per questo s’intitola, Le Confessioni di Caterina de’ Medici. Aveva appena 14 anni quando nel 1533 giunse a Marsiglia per sposare Enrico di Valois, figlio del re Francesco primo. Il futuro marito non l’accolse né con amore né con cordialità, preferì non incontrarla, mentre il padre di lui manifestò per la ragazza, una borghese fiorentina imparentata però col papa, una forte simpatia. Lei non bella, intelligentissima sin da adolescente - decise di stringere con il monarca un patto di protezione che diventerà poi molto di più. Dopo alcuni giorni di permanenza a Marsiglia, fu riconvocata per la seconda volta la cerimonia nuziale. Enrico ar-

Dallo splendore dei palazzi sulla Loira ai campi di battaglia insanguinati, fino alla mag rivò in forte ritardo: sporco, sudato e puzzolente. Per fortuna era un bel giovane. Non la degnò di alcuna attenzione: assistette al rito in corrucciato silenzio, poi se ne andò senza salutare. Un vero villano. Qualche tempo dopo Caterina venne a sapere che amava una donna molto più anziana di lui, una signora elegante ed attraente, Diane de Poitiers. Gli era addirittura fedele, tanto da tenersi lontano dal talamo coniugale. La giovane sposa era offesa e in più non poteva procreare: una mancanza che col tempo a corte le avrebbero rinfacciato.Viveva immersa nella solitudine con poche dame fedeli - quando incontrò il duca di Coligny, un uomo che diventerà molto importante nella sua vita futura. Intanto, convocato dal padre, arrivò nel palazzo reale situato alla periferia di Parigi, Enrico. Non poteva più fare a meno di “consumare” il matrimonio. E compì il suo dovere mettendo ben in chiaro che era solo un dovere. Re Francesco amava anche con passione (mai consumata) la giovane nuora e le garantì eterna protezione. Caterina perse il primo figlio, intanto moriva il Delfino Francesco ed Enrico diventava il primo in linea di successione. Ci voleva subito un erede, anzi molti eredi e il più rapidamente possibile. A Fontainbleau così come al Louvre cominciarono a girare pozioni e magie. Con l’aiuto persino di Diane, ci fu una nuova gravidanza e questa volta nacque il primogenito Francesco. Dopo poco più di nove mesi, toccò a Elisabetta che sposerà Filippo II di Spagna. Mentre cominciava a crescere la presenza degli Ugonotti (così venivano chiamati i calvinisti francesi), il re morì e per Caterina fu un lutto immenso. Gortner le fa dire: amato «Avevo Francesco di un amore mai portato per nessun altro uomo. Per i suoi eccessi e le sue manie, per la sua grandeur e per le sue debolezze; ma soprattutto, lo avevo amato perché lui aveva amato me». Il dolore privato era comunque poca cosa rispetto alla tragedia pubblica: si avvicinava l’inizio delle grandi guerre di religione. Enrico salì al trono e l’ancora giovane rampolla de’ Medici diventò regina: era il 1549 e aveva poco più di trentanni quando venne incoronata. Riuscì rapidamente se non a farsi amare, almeno a farsi stimare dal marito, consigliandogli di non seguire il fanatismo anti-ugonotto del Cardinale e dei Guisa, che tentavano di togliere il trono ai Valois. Il suo regno fu lungamente

L’altro volto di Caterina l’«italienne»

Una monumentale biografia ci regala l’insolito ritratto di una delle donne più significative e controverse del XVI secolo: l’ultima discendente dei Medici di Gabriella Mecucci caratterizzato da spirito di tolleranza, mentre sfornava un figlio dietro l’altro: ne nacquero vivi ben sette, fra questi i preferiti furono Enrico e Margot, gli altri morirono durante il parto o immediatamente dopo. La seconda parte della vita di Caterina fu più difficile e dolorosa della prima, ma la lucidità non l’abbandonò mai, mentre insegnava alla Corte di Francia anche le buone maniere: introdusse l’uso della forchetta e anche quello delle mutande. All’età di 36 anni, poi, conobbe Michel de Nostradamus che protesse a lungo e che le predisse dolori e tradimenti. Del resto anche lei era una veggente: per tutta la vita

continuò ad avere visioni che le preannunciavano le catastrofi prossime venture. La sofferenza per Caterina era sempre in agguato. Il marito Enrico morì durante la giostra per il matrimonio (fatto per procura) della figlia Elisabetta con Filippo secondo di Spagna: era il 1559. Il re venne ferito ad un occhio e il terribile incidente era stato annunciato da una lettera di Nostradamus e da un sogno della regina: «Nella gabbia d’oro gli occhi gli caverà». L’anno prima il Delfino aveva sposato Maria Stuarda, futura sovrana di Scozia, imparentata con i Guisa. I due fatti - la dipartita di Enrico e le nozze regali - avevano raffor-

zato la potentissima famiglia cattolica sempre schierata sul fronte dell’ortodossia religiosa e, soprattutto, sulla linea dell’intolleranza antiugonotta. Caterina era reggente ma aveva poco potere. Il re Francesco primo, suo figlio, era infatuato della moglie Maria Stuarda.

Decise dunque di non opporsi per il momento allo strapotere dei Guisa. Intanto iniziava una “guerra” strisciante fra protestanti e cattolici. Balafrè e il Cardinale continuavano la loro persecuzione contro i primi e, ingigantendo oltre misura le proteste “eretiche”, imposero alla famiglia reale di rifugiarsi ad Am-


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gia e ai meandri oscuri del Louvre: le “Confessioni” della regina secondo C.W. Gortner lità fra un figlio non particolarmente sveglio, un ex amante traditore, una politica matrimoniale che gli consenta di non indebolirsi: Margot, la più intelligente fra le sue discendenti, appassionatamente innamorata di un cattolicissimo Guisa, viene destinata al figlio di Giovanna di Navarra, in odore di eresia. Un modo “politico” per tentare di riportare Navarra in campo cattolico. Ma ormai lo scontro con gli Ugonotti è al calor bianco: Coligny confessa a Caterina di essere stato l’assassino di Balafrè. E tocca a lei, a quel punto, autorizzarne l’uccisione. Ma Enrico, il suo figlio maschio più amato, trama, insieme ai Guisa, per tentare un’impresa ben più terribile e ardita: la strage di migliaia di protestanti nella notte di San Bartolomeo, il 24 agosto del 1573. Di quel massacro come già osservato - per molti anni fu accusata Caterina, ma non fu lei a ordinarlo, anche se Enrico praticamente glielo preannunciò: «Dopo stasera - le disse incontrandola poche ore prima dell’eccidio - non dovrai

Il libro si concede qualche licenza storica, ma la figura della regnante francese ne esce comunque disegnata in modo realistico e potente

boise. Lì, strumentalizzando una congiura probabilmente promossa dai Borbone, organizzarono una vera e propria strage di Ugonotti. L’ordine di quella orrenda carneficina portava però la firma di re Francesco. Caterina, addolorata e preoccupata, reincontrò il suo vecchio amore, il duca di Coligny che era diventato il capo indiscusso dei protestanti. La guerra di religione ormai penetrava in ogni dove: metteva aristocratici, contro aristocratici, padri e madri contro i figli, nonché nazioni contro altre nazioni. La regina cercava ancora di tessere, di mediare, di emettere editti, imposti al figlio, che par-

lassero di tolleranza. Ma le cose purtroppo peggioravano. Su Caterina si abbattè il dolore della perdita del diciottenne re Francesco e il terrore di una guerra che non riusciva a bloccare: ormai i Guisa, con in testa il Cardinale e Balafrè, vedevano “eretici”dappertutto. E li uccidevano ogni volta che potevano. In questo clima arroventato diventò re il secondogenito dei Valois, Carlo. Venne eliminato il Balafrè e, dietro quell’assassinio, in molti videro la mano di Coligny. Filippo II di Spagna e la moglie Elisabetta (che era anche sua figlia) ne chiesero la testa. Davanti ai campioni della Controriforma, Caterina, convocata in Ca-

stiglia, disse molti no: soprattutto ad abbandonare la via della tolleranza per imboccare quella della repressione senza quartiere. Nonostante ciò, la regina fu accusata dai protestanti di aver fatto un patto con gli spagnoli per la loro eliminazioni e fu proprio il loro capo, Coligny a decidere di dichiarare guerra alla donna che aveva amato e che tanto lo aveva aiutato.

È l’epoca questa del lungo assedio della Rochelle, della vedovanza di Filippo II e della sua ricerca di una nuova moglie. Il giovane re Carlo di Valois è debole e subisce il fascino di Coligny. Caterina si muove con abi-

più preoccuparti degli Ugonotti». Mentre il sangue “eretico” cominciava a colare fuori e dentro il Louvre, Caterina capì il significato vero della frase pronunciata dal suo terzogenito. Andò per ore in giro per il palazzo, tentando di salvare i suoi figli in pericolo: Carlo, accusato di essere un protettore di Coligny, Margot, fidanzata del principe di Navarra, e il principe stesso che, per non rimetterci la pelle, promise seduta stante di convertirsi. La strage ebbe dimensioni inimmaginabili, anche perché non fu solo un regolamento di conti dei cattolici contro i calvinisti. Diventò qualcosa di peggio: nei vicoli di Parigi - approfittando di quello scoppio di sanguinaria ira religiosa - in tanti consumarono anche le loro piccole vendette personali. A crimine si aggiunse crimine, a intolleranza si aggiunse intolleranza. Su tutto e contro tutti. Una tragedia di cui Margot continuò ad accusare la madre perché tutto era nato dal suo ordine di far fuori Coligny. Ma a Caterina - questa una caratteristica costante della sua vita - non veniva dato nemmeno il tempo di soffrire per una tragedia che, subito dopo, gliene capitava un’altra. Carlo morì due mesi dopo la notte di San Bartolomeo e salì al trono Enri-

Nella pagina a fianco, “La notte di San Bartolomeo”; Caterina de’ Medici e la biografia di Gortner a lei dedicata. Sopra, Nostradamus co, da lei molto amato, che appena però raggiunse la corona, la liquidò così: «Maman, ora sono il re di Francia. Ho bisogno di prendere le mie decisioni da solo». E lei che nel bene e nel male aveva sempre regnato brandendo il suo libro preferito, Il Principe di Machiavelli, fu costretta a mettersi in disparte. Ma per poco. Il figlio aveva bisogno di lei: guerre e insurrezioni erano sempre in agguato. La tragedia toccò il suo vertice con il “conflitto dei tre Enrichi”e con l’assassinio da parte di Enrico di Valois del potente e prepotente, Enrico di Guisa.

In tutta la sua lunga vita - morirà a 69 anni, per l’epoca un bel traguardo - l’italienne non aveva mai smesso di agire e pensare in nome del potere. Ma di un potere che non mostrasse sempre e comunque il volto della repressione. Era cattolica, ma i cattolici pensavano fosse ugonotta, e gli ugonotti la temevano. Aveva sempre difeso la sua causa e quella della sua famiglia. Non si era mai fermata un momento: un attivismo compulsivo, ma rischiarato dalla luce dell’intelligenza. Per riposare non le restava che morire. Ma prima di farlo ebbe l’ultima visione: Enrico di Navarra cavalcava verso la capitale francese. Un paggio lo raggiungeva e lo informava: Parigi non vuol arrendersi. E lui rispondeva: Parigi val bene una messa. Abbandonati i protestanti, s’inginocchierà a Notre Dame e diventerà Enrico IV. Caterina aveva vissuto in sogno la fine dei Valois e l’avvento di una nuova dinastia sul trono di Francia. Il libro di Gortner si concede qualche licenza storica. Qua e là scambia la leggenda per realtà: come il dettagliato racconto della omosessualità di Enrico III. Verità o bugia? Nessuno lo sa. Del resto parallelo a questo pettegolezzo correva anche quello che dipingeva l’ultimo Valois come un autentico tombeur de femme. La figura di Caterina ne esce comunque disegnata in modo realistico e potente: la regina francese, nata fiorentina, fu un gigante che si stagliò nella storia e nel costume d’Oltralpe. A Parigi, tutt’ora, quando si vuol dire di un politico che è intelligente, forte e spregiudicato, si usa l’aggettivo fiorentin.


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grandangolo Il presidente Usa parla alla Cbs e racconta il blitz

Obama rilancia «Daremo il colpo di grazia ad al Qaeda» Barack difende l’operazione Geronimo e rassicura il Paese spaventato dalle possibili reazioni dell’organizzazione terroristica. E nel farlo si assume tutte le responsabilità del raid. Intanto il Pakistan respinge le accuse di aver nascosto bin Laden e conferma il suo impegno contro il terrorismo. Ma il governo è sempre più debole. E Al Zawahiri tace... di Antonio Picasso e conseguenze dell’operazione “Geronimo”, che ha portato all’eliminazione di Osama bin Laden, vedono coinvolti tre attori: gli Stati Uniti, il Pakistan e alQaeda. Ciascuno è alle prese con i problemi che un avvenimento di questa portata è capace di generare. Partiamo da Islamabad. Ieri, il premier pakistano, Yusuf Raza Gilani, ha tenuto un’audizione straordinaria all’Assemblea nazionale. L’esponente del Pakistani People Party ha respinto le accuse rivolte al suo esecutivo, di aver nascosto bin Laden nel covo di Abbotabad. Ha riferito dell’accaduto, sottolineando di essere stato informato solo 15 minuti prima che i Seals intervenissero. Ha anche detto che la lotta al terrorismo rappresenta una priorità sia per gli Usa sia per il Pakistan. «Tuttavia, al-Qaeda non è nata nel nostro Paese», ha aggiunto. Le dichiarazioni di Gilani appaiono insufficienti, oltre che non corrette. Prima di tutto perché al-Qaeda, avendo mosso i primi passi a Peshawar, trova origine proprio nel Paese dei puri. Si potrebbe discutere del fatto che, al tempo, si trattasse di un network terroristico dal-

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l’identità cosmopolita. Tuttavia il dato logistico è incontrovertibile. Critiche ulteriori potrebbero essere mosse in merito alla disponibilità delle Forze di sicurezza pakistane, l’intelligence innanzitutto, nel bloccare le attività terroristiche in loco. Con i miliardi di dollari trasmessi da Washington a Islamabad (7,5 solo nell’ultimo biennio), gli uomini di Gilani avrebbero dovuto non solo intercettare bin Laden, ma annientare tutto il resto della rete.

Se poi è vero, come è vero, che il vertice di al-Qaeda si era stabilito ad Abbottabad ormai da otto anni, le autorità pakistane risultano ancora più inadempienti. Queste ultime rivelazioni, inoltre, chiamano in causa l’ex presidente Perves Musharraf. Deposto nell’estate 2008 e sostituito da un governo pseudo democratico, ma altrettanto inefficiente, fu proprio Musharraf a promettere il massimo impegno nella guerra al terrorismo. L’ex generale non mantenne la promessa. Suona poi come uno scivolone comunicativo di Gilani il suo riconoscimento di aver saputo del blizt appena un quarto d’ora prima che questo fosse messo

in opera. L’opposizione, con il partito religioso della Jamat-eIslami in testa, avrebbe tutte le ragioni nel sostenere che un capo di governo che si rispetti non si fa avvertire in tempi così succinti dell’imminente operazione militare di un Paese straniero, sul proprio territorio. Infine, appare tardiva la promessa di avviare un’inchiesta

niero che ha violato i confini del Paese. Perché allora andare a far luce su cosa fosse Abbottabad prima del blitz? Per arrestare i residenti locali che avrebbero nascosto bin Laden? Sarebbe uno spreco di risorse e passerebbe come un’ulteriore provocazione del governo contro la società civile. Vista così insomma, l’audizione sembra

A Washington monta la polemica sulla necessità o meno di eliminare lo sceicco sull’area intorno al covo dove bin Laden è stato ucciso. L’iniziativa ormai non ha ragion d’essere. Gli Usa sono soddisfatti e certo ad Abbottabad non possono sperare di trovare altri leader di al-Qaeda. L’opposizione a Gilani potrà continuare ad accusare quest’ultimo di collusione con un governo stra-

non aver risolto i problemi del premier. Al contrario, non è escluso che li abbia ingigantiti. Ora il governo di Islamabad dovrà trovare la quadra fra l’opposizione scesa sul sentiero di guerra, i talebani delle aree tribali più agguerriti che mai e gli Usa talmente esasperati per cui non si esclude un’ulteriore

loro intervento nel Paese per colpire altri qaedisti. A Washington nel frattempo, dopo l’euforia collettiva, sta montando la polemica sulla necessità o meno di eliminare il numero 1 del terrorismo jihadista. L’opposizione repubblicana accusa la Casa Bianca di aver agito senza calcolare i colpi di coda che i seguaci di bin Laden adesso potrebbero sferrare.

Si teme una nuova stagione di attentati e una recrudescenza della guerra in Afghanistan. In realtà, la maledizione lanciata per «vendicare il nostro grande leader» era il minimo che gli Usa si sarebbero potuti aspettare da al-Qaeda. La mancanza di una reazione rapida, da parte delle cellule dormienti, è sintomo fortunoso che l’organizzazione debba ancora riassestarsi e che, con questo messaggio, cerchi solo di recuperare tempo. È paradossale, del resto, che il presidente Obama sia costretto a cercare delle giustificazioni per quel che è successo ad Abbottabad. Come se l’operazione fosse fallita. Domenica, intervenendo alla trasmissione della Cbs “60 minutes”, l’inquilino della Casa bianca ha dovuto sottolineare


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L’analisi dell’ex vicesegretario alla Difesa (che pensa anche alla Libia)

Il coraggio musulmano ha sconfitto Osama

«La decisione presa dalla Casa Bianca è stata molto rischiosa ma giusta. In certe cose, la guerra è guerra» di Paul R. Wolfowitz l valore simbolico degli eventi è importante e il simbolismo legato alla morte di Osama bin Laden non è ciò che si aspettavano i suoi seguaci. Non è stata una morte gloriosa. Non è certo stato per mancanza di volontà che bin Laden non è stato ucciso o catturato molto prima. Ma in un certo senso è stato un bene che sia rimasto in vita tanto a lungo: un tempo sufficiente per vedere la sconfitta di molti sogni infernali. C’è un profondo senso di giustizia nel fatto che abbia avuto la possibilità di assistere alla sconfitta di tanti dittatori arabi. Cacciati non dai suoi seguaci, ma da uomini e donne che amavano la libertà (e Facebook). Una delle caratteristiche più straordinarie di queste rivolte che hanno scosso il mondo islamico è stato il coraggio dimostrato da chi protestava. Il grande coraggio dimostrato da tunisini ed egiziani è stato poi superato da quello della popolazione libica e siriana, mentre Muammar Gheddafi e Bashar al Assad, come assassini di gente indifesa, hanno raggiunto i livelli di bin Laden.

I

che «non c’era altra scelta che dare l’ordine». I repubblicani stanno cercando di strumentalizzare la paura di attentati. Tuttavia, né l’opinione pubblica né gli osservatori più sensibili all’accaduto sembrano cadere nell’inganno. È di ieri l’ultimo sondaggio che conferma per Obama una ripresa di consenso. Se le presidenziali fossero oggi, il comandante supremo avrebbe ancora il 53% delle preferenze. Da notare anche la posizione di alcuni protagonisti della passata presidenza Bush. Si vedano gli apprezzamenti che l’ex vice pre-

Islamabad dovrà trovare la quadra fra l’opposizione, i talebani più agguerriti e gli Usa sidente, Dick Cheney, e Donald Rumsfeld, già segretario della Difesa, hanno fatto in merito a “Geronimo”. In questo, i neocons si dimostrano ben più “patriot”di qualsiasi membro repubblicano del Congresso, che cerca di approfittare del clima di tensione per attirare acqua al proprio mulino. Il voto è solo tra un anno e mezzo. Obama ha tutto il tempo di mettere a tacere queste critiche, come pure impantanarvisi. L’eliminazione di bin Laden infatti, pur nell’innegabile successo, non risolve le piaghe che gravano sull’economia nazionale. Non chiude i conti con il terrorismo. E tanto meno fa del presidente il grande pacificatore del mondo islamico, come egli stesso ambisce a essere. I problemi più oggettivi per Obama sono di natura diplomatica. L’alfiere del

multilateralismo ha agito senza interpellare non solo il Pakistan, ma anche gli interlocutori più fidati. Londra e Mosca non sapevano nulla. Almeno stando alle posizioni ufficiali. E nemmeno l’India. In tutti i casi, i singoli governi potrebbero recriminare che, mentre il blitz è stato eseguito unilateralmente, le relative conseguenze andrebbero spartite fra tutti.

Infine c’è al-Qaeda. La corsa alla leadership è iniziata. Si mormora che il destino di Ayman al-Zawahiri sia ormai segnato, in quanto non ci sarebbero altre personalità sufficientemente carismatiche per raccogliere la fiaccola caduta dalle mani di bin Laden. La necessità che per l’organizzazione vi sia solo un uomo al comando non è fonte di discussione. Tuttavia, perché non ipotizzare che la direzione operativa passi sotto la responsabilità di una regia collegiale? Di al-Qaeda si parla spesso come di un franchising. E quando in una corporate scompare il grande vecchio, le redini vengono cedute al consiglio di amministrazione, il quale demanda alle succursali più dinamiche di riaccendere le macchine dell’azienda. In questo caso, potremmo immaginare un al-Zawahiri che fa da uomo-immagine. Nel mentre, alQaeda nel Maghreb islamico, la cellula attiva in Iraq e altre gruppi si occuperebbero della parte operativa. Non è una coincidenza la ripresa degli scontri a Baghdad, oppure l’intercettazione di combattenti del Lashkar-e-Toiba che, stando a New Delhi, avrebbero attraversato la porosa frontiera kashmiri fra Pakistan e India. Da tutto questo, si è voluto lasciar fuori il mullah Omar e i suoi talebani. La loro è una guerra parallela al jihad qaedista. Difficile che ambiscano al controllo dell’organizzazione.

Per il bene del popolo libico e per la reputazione dell’America nel mondo arabo, si deve sperare che il presidente Obama abbia imparato il valore dell’audacia. Uno dei fedeli di bin Laden una volta ha scritto che il guaio della democrazia è che incoraggia le persone ad amare troppo la vita e ad aver paura della morte. In questo modo gli uomini non sarebbero più disposti a compiere il jihad. Ciò che bin Laden e chi ha scritto quelle sciocchezze non riescono a capire è che ci sono persone che veramente amano la vita, ma che amano ancora di più la libertà. E sono disposti a rischiare la vita per essa. È quell’amore per la vita – non la speranza di andare in paradiso – che ha motivato il coraggio di quegli americani che hanno difeso la loro Patria attraverso le generazioni. Ed ora vediamo lo stesso coraggioso amore per la libertà in migliaia di arabi. Quando Madhi Ziu, un semplice impiegato nel settore petrolifero di 48 anni, con due figlie, ha deciso di farsi saltare in aria all’interno di un auto imbottita di bombole di gas propano, non lo ha fatto per uccidere degli innocenti, ma per salvare la vita di tanti. Ha compiuto quel gesto estremo per aprire i can-

celli della caserma di Katiba a Bengasi, aiutando così la rivolta della città. Sua figlia Zuhur ha affermato: «pensava che chiunque dovesse combattere per la rivoluzione». «Non era un estremista e non amava la politica. Ma era pronto per fare qualcosa. Ma non potevamo immaginare che arrivasse a tanto». A differenza di bin Laden, Ziu è morto da eroe, come hanno fatto tanti altri, in molti luoghi come Misurata e Deraa. È troppo presto per poter dire dove si fermerà il cambiamento che sta investendo il mondo musulmano. Ma se si dovesse puntare su di un «cavallo vincente» (per usare la metafora di bin Laden), questo sarebbe rappresentato dai combattenti arabi per la libertà, non certo dagli jihadisti di Osama. Anche la decisione del presidente Obama di ordinare l’attacco al capo di al Qaeda ha richiesto del coraggio, non il coraggio del campo di battaglia, ma il coraggio di sopportare le conseguenze di una decisione rischiosa. Dal momento che la missione è andata a buon fine, è stato giustamente lodato e il suo prestigio politico è aumentato. Ma non vi potrà mai essere la garanzia che un’operazione di questo tipo non possa finire tragicamente. Siamo tutti beneficiari della decisione di Obama, ma alla fine la responsabilità è gravata sulle spalle di un solo uomo. Per qualche ragione, il presidente ha finora evitato di prendere decisioni che comportassero il rischio per la vita di altri americani, ma che potrebbero salvare la vita di quei libici che ci siamo impegnati a proteggere.

Dobbiamo sperare che il presidente Usa abbia imparato il valore dell’audacia

Si tratterebbe di riconoscere il governo provvisorio di Bengasi, fornendo assistenza militare e mettendo fine alla propaganda del regime di Gheddafi. Nessuna di queste azioni garantirebbe una vittoria dell’opposizione. Ridurrebbe i rischi di uno stallo prolungato – che costerebbe la vita di più cittadini libici – ma aumenterebbe quelli per gli Stati Uniti di essere alla fine coinvolti più di quanto non sia necessario. Per il bene del popolo libico e per la reputazione dell’America nel mondo arabo, dobbiamo sperare che il presidente Obama abbia imparato il valore dell’audacia.


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In Siria la protesta continua. E Hassan Nasrallah trema: perché il suo supporto a Damasco rischia ormai di alienargli la piazza

Il bivio di Hezbollah Assad schiera i carri armati a Tafas e Homs. E il partito di dio tentenna di Randa Slim a rivolta popolare in Siria rappresenta la sfida più grave per Hezbollah dopo la guerra del 2006 con Israele. Un cambio di regime in Siria minaccerebbe una fondamentale rotta per rifornire di armi Hezbollah, sottrarrebbe all’asse Iran-Siria-Hez-

L

tanato dal suo incarico ufficiale lo scorso aprile a causa delle sue simpatie per l’opposizione iraniana, Hezbollah è rimasto in silenzio, nonostante un acceso dibattito nei ranghi del partito. La rivolta in Siria rappresenta una sfida simile a quella che il partito libanese ha affrontato

il momento, i funzionari di Hezbollah ritengono che Bashar alAssad sopravviverà. Pensano che, a differenza di Hosni Mubarak e Zine El-Abidine Ben Ali, Assad ancora goda di una larga base di sostegno soprattutto nelle grandi città come Damasco e Aleppo. Come ha

L’eventuale (ma possibile) guerra civile finirà per frantumare il Paese in una serie di mini Stati divisi secondo le tre principali ripartizioni religiose ed etniche: alawiti, sunniti e curdi bollah-Hamas il suo cardine arabo, indebolirebbe la capacità di deterrenza di Hezbollah nei confronti di Israele, e negherebbe ai leader di Hezbollah e alle loro famiglie un rifugio sicuro qualora si sentissero minacciati da Israele, come è avvenuto nel 2006.

Ciò pone una sfida unica a Hezbollah, che si era tranquillamente schierato con le rivolte in Egitto, Tunisia, Libia, Yemen e Bahrain. Quando il mentore iraniano di Hezbollah Ali Akbar Mohtashamipour è stato allon-

sottolineato un alto funzionario di Hezbollah, «alawiti e cristiani non abbandoneranno Bashar». Il regime di Assad e la sua ampia base di appoggio – hanno detto – combatteranno. Ma nel caso in cui Bashar al-Assad non dovesse riuscire a frenare le proteste rapidamente, temono una lunga guerra civile che inghiottirebbe la Siria, sconfinerebbe in Libano,

con la repressione del Movimento Verde in Iran nel 2009.

Ma come vede davvero Hezbollah la prospettiva di un cambio di regime a Damasco? In un recente giro di interviste che ho condotto con i funzionari di Hezbollah a Beirut, tutti quelli con cui ho parlato hanno convenuto che un cambio di regime in Siria non avverrà né facilmente né pacificamente. Per

soprattutto nel nord, e destabilizzerebbe gli altri paesi della regione, compresa la Turchia. Soprattutto, ancor più che la perdita delle linee di rifornimento militari e finanziarie, questi leader di Hezbollah temono un colpo mortale “all’Asse della Resistenza”, che è stato fondamentale per definire il loro ruolo in Medioriente.

Il punto è che adesso Assad ha scelto il pugno di ferro per soffocare la protesta e questo, alla lunga, creerà dei problemi. Anche se dovesse vincere l’op-

Per Wael Farouk, professore all’American University del Cairo, è in atto un tentativo di trasformare il Paese in uno Stato islamico

Egitto, i copti nel mirino di al Qaeda attacco dei salafiti alla Chiesa copta di Imbaba è una rappresaglia nei confronti dello storico accordo raggiunto sabato da tutti i partiti liberali egiziani», in grado di cambiare radicalmente i risultati delle prossime elezioni politiche di settembre. Lo afferma Wael Farouq, professore dell’American University del Cairo e vicepresidente del Meeting Cairo, in seguito alle violenze che hanno portato alla morte di una decina di persone, dopo che si era diffusa la voce che una donna convertitasi all’Islam sarebbe stata segregata in una chiesa. Per Farouq, i responsabili delle violenze sono persone che «condividono l’ideologia di Al Qaeda e hanno l’obiettivo di instaurare uno Stato islamico con la violenza», e chi li manovra sono i servizi segreti legati a Mubarak. Ma per Farouq «dopo le ele-

«L’

di Pietro Vernizzi zioni i partiti liberali modificheranno la Costituzione, in cui si afferma che“la Shari’a è la fonte principale della legislazione”, indicando al suo posto che “i principi della Sharia sono una delle fonti insieme a quelli della dottrina cristiana”».

più grande evento politico dalla rivoluzione a oggi. Cinquemila leader, esponenti della società civile, attivisti dei diritti umani, figure pubbliche, direttori di Ong, si sono riuniti insieme da tutto l’Egitto per combattere l’instaurazione di

Gli attacchi alla chiesa sono stati una reazione all’accordo raggiunto sabato tra le diverse forze liberali. Il più grande evento politico dalla rivoluzione a oggi Professor Farouq, quali sono le cause di quanto è avvenuto sabato a Imbaba? Gli attacchi alla chiesa sono stati una reazione all’accordo raggiunto tra le diverse forze liberali, e che rappresenta il

qualsiasi forma di Stato religioso o militare. Poche ore dopo i salafiti hanno scatenato le violenze. Erano diversi giorni però che covava la tensione contro i cristiani… Non dimentichiamoci che in Egitto la

polizia sta funzionando al 20% delle sue effettive capacità. Dopo la fine del regime di Mubarak, la polizia ha perso infatti tutti i suoi privilegi, oltre alla credibilità nei confronti della gente. La maggior parte degli agenti quindi non vuole più lavorare, e guarda le persone ammazzarsi tra di loro senza muovere un dito. La scorsa settimana due famiglie musulmane si sono prese a fucilate in una via commerciale del centro del Cairo, e sette persone sono rimaste uccise. La polizia era presente alla scena, ma è rimasta a guardare senza intervenire. Il Consiglio militare però ha promesso una punizione esemplare per chi ha attaccato la chiesa… Il Consiglio militare che oggi governa l’Egitto ha un’autorità assoluta e può dunque opporsi ai salafiti in qualsiasi momento. Se non lo farà ora, significa


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ne rimane la sua ragion d’essere e la sua principale fonte di legittimazione per rivendicare la leadership nella regione araba. Essendo un attore indispensabile nel conflitto arabo-israeliano, senza il quale un processo di pace regionale non può tradursi in realtà, la Siria è il leader arabo del fronte della resistenza e il garante del ruolo di primo piano di Hezbollah in questo schieramento.

Malgrado la facciata di un sostegno incondizionato al regime siriano che Hezbollah sta mostrando, sottotraccia circolano dei mal di pancia dentro al partito. Il primo: Hezbollah non dovrebbe mostrare un doppio standard nel suo approccio alle sollevazioni della regione araba. Avendo appoggiato le rivolte in Egitto,Yemen e Tunisia, rischia di compromettere il suo seguito se continua a sostenere il regime siriano mentre quest’ultimo procede a sopprimere con la forza le aspirazioni del

gruppi islamici come la Fratellanza Musulmana devono avere un ruolo nei governi arabi emergenti insieme ad altri partiti laici, compresi quelli della sinistra, i liberali e i nazionalisti. Ma l’ascesa di gruppi islamisti sunniti al potere, se non controllata da gruppi laici e liberali altrettanto importanti, porterebbe questi nuovi regimi a sposare la stessa politica portata avanti dal regime saudita nei confronti di Hezbollah, una politica alimentata dal vecchio conflitto tra sunniti e sciiti all’interno dell’Islam. Il terzo, infine, sostiene che il popolo siriano ha storicamente sostenuto la strategia della resistenza, e che è nell’interesse di Hezbollah – nel caso di un cambio di regime in Siria – iniziare a costruire i suoi rapporti con il popolo siriano piuttosto che alienarsi le sue simpatie.

Per ora, ricalcando la posizione mantenuta durante l’ultima sollevazione iraniana, la

Il partito considera l’opposizione siriana vecchia, disorganizzata e decimata dagli anni trascorsi nelle carceri. Se il regime crollasse i Fratelli Musulmani sarebbero l’unica forza politica organizzata posizione. Il perché è presto detto: Hezbollah considera l’opposizione siriana vecchia, disorganizzata e decimata dagli anni trascorsi nelle carceri siriane. Se il cambio di regime dovesse verificarsi subito, i Fratelli Musulmani sarebbero l’unica forza politica organizzata in Siria, e probabilmente emergerebbero come il principale soggetto politico nel paese. Hezbollah ritiene che non ci saranno negoziati tra il regime e il movimento di protesta e che l’eventuale (ma possibile) guerra civile in Siria finirà per frantumare il paese in

una serie di mini-Stati divisi secondo le tre principali ripartizioni religiose ed etniche del paese: alawiti, sunniti e curdi. Ma perché la sopravvivenza di Bashar al-Assad è così importante per Hezbollah?

A differenza del padre, il defunto Hafez al-Assad, che si è mantenuto a distanza dalla “questione libanese”, e si affidava soprattutto a una consorteria di associati per trattare con gli attori politici libanesi, Bashar al-Assad ha fatto propria la questione libanese e fin

che è a sua volta contro i principi della rivoluzione. Ma di fatto i salafiti rappresentano Al Qaeda e bin Laden? La vera natura di Al Qaeda non consiste in una struttura impegnata sul piano organizzativo, quanto piuttosto in una ideologia che si identifica con bin Laden e che punta a realizzare uno Stato islamico con la violenza. Se la sua domanda è quindi: «In Egitto esistono delle persone che credono nell’ideologia di Al Qaeda?», la mia risposta è «Sì». Ci sono molti gruppi salafiti che sono favorevoli ai principi di bin Laden. Ma la stragrande maggioranza della società egiziana rifiuta queste persone. Chi c’è dietro ai salafiti che hanno attaccato la chiesa? In primo luogo, ci sono grandi flussi di denaro provenienti dall’estero che sostengono questi piccoli gruppi. Inoltre, in Egitto è risaputo che i salafiti sotto il regime di Mubarak collaboravano con la sua polizia segreta. Chiunque sia un minimo informato, sa quanto i salafiti fossero implicati con i servizi segreti che li hanno utilizzati ripetutamente,

dall’inizio del suo governo ha sviluppato un rapporto personale con il segretario generale di Hezbollah, Sayyed Hassan Nasrallah, trasformandolo nel suo più importante alleato. Ma se Assad dovesse cadere nessuno sarebbe in grado di garantirgli lo stesso appoggio, nemmeno se fosse un altro alawita. Perché, come mi ha detto un funzionario di Hezbollah: «La Siria è la porta del fronte della resistenza verso il mondo arabo». Per Hezbollah, la resistenza contro Israele e contro l’egemonia statunitense nella regio-

come in occasione dell’attacco bomba contro la chiesa di Alessandria. Per non parlare delle centinaia di persone presenti nei consigli comunali di tutte le città egiziane e degli ex membri del parlamento di Mubarak, che sono a loro volta coinvolte in questi eventi. È comunque sufficiente che il governo svol-

suo popolo. Sebbene rispettosi dei successi militari di Hezbollah nella lotta contro Israele,i suoi sostenitori non guarderanno con favore al sostegno dato da Hezbollah a un altro regime arabo che si aggrappa al potere uccidendo i suoi cittadini.

Il secondo: anziché accanirsi, potrebbe essere nell’interesse di Hezbollah sostenere la nascita di regimi democratici nella regione, e non necessariamente regimi islamici. Questa voce all’interno di Hezbollah sostiene che, naturalmente, i

ga delle normali indagini, per scoprire chi c’è dietro a questi attacchi. In molti osservano però che dopo la caduta di Mubarak, la situazione per i cristiani non è migliorata… Immaginiamo una persona che è rimasta in coma per 30 anni: se si sveglia adesso, è difficile che possa

leadership di Hezbollah rimane saldamente al fianco del suo alleato, il presidente siriano. È improbabile che nel prossimo futuro vedremo Sayyed Hassan Nasrallah rivolgersi alla folla nella periferia sud di Beirut per manifestare il proprio appoggio alla sollevazione popolare siriana come aveva fatto il 19 marzo, quando dichiarò che le rivoluzioni popolari arabe avrebbero avuto successo. Tuttavia Hezbollah ha forse iniziato a fare piani di emergenza nell’eventualità di un possibile rovesciamento di Assad.

iniziare a correre. Per 30 anni il regime ha alimentato le tensioni religiose come una valvola di sfogo della rabbia politica. Difficile quindi che le cose migliorino da un giorno all’altro. Ma io sono convinto che entro uno o due anni, tutte le tensioni religiose scompariranno dall’Egitto. Perché ne è così sicuro? Perché vivo la realtà dell’Egitto dall’interno e sabato, il giorno stesso degli attacchi, durante l’incontro tra i rappresentanti dei partiti liberali ho constatato che il 90% dei leader della società egiziana sostiene i diritti dei cristiani come cittadini a tutti gli effetti. È questa l’autentica realtà dell’Egitto, e non 500 persone che hanno assalito una chiesa armati di fucili. I partiti liberali che si sono riuniti sabato cancelleranno la Shari’a dalla Costituzione? Non cancelleremo la Shari’a, ma considereremo i suoi principi come «una delle fonti» della legislazione egiziana, e non più come «la fonte principale». © Il sussidiario


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Cinque risposte (e altrettante incognite) sul futuro del Trattato di pace

Dopo le rivolte cosa farà Israele? La resa dei conti è in arrivo

mazione probabilmente raggiungerà nuove vette a settembre con una risoluzione dell’Assemblea generale dell’Onu. Direttore del Middle East Forum e analista di “liberal”

Aaron David Miller a Primavera araba (Egitto eTunisia) e l’inverno arabo (Siria, Libia,Yemen e Bahrain) hanno sfidato e profondamente diviso sia la coalizione di governo che il popolo israeliano. Il primo infatti è stato investito dalla responsabilità di trovare a stretto giro una soluzione al processo di pace, sia in termini politici che di sicurezza. Un compito superiore alle sue effettive possibilità. Gli israeliani non avevano una strategia coerente prima delle rivolte mediorientali e sarebbe assurdo - a fronte dell’incertezza di quanto sta accadendo - aspettarsi che la trovino oggi, nel bel mezzo del tumulto. Di fatto, agiscono di volta in volta, seguendo una logica da Risiko, esattamente come fanno tutti. Basti guardare alla vicenda libica. Israele continuerà a considerare la Primavera araba (così come l’Inverno) alla stregua di un bicchiere mezzo vuoto piuttosto che mezzo pieno. E mentre la consapevolezza araba cresce e assume un ruolo sempre più importante nella definizione dei prossimi assetti futuri, lo spazio disponibile per un’azione israeliana (ma anche americana) si restringe. I giorni dei vecchi faraoni sono finiti o stanno finendo e mentre l’Egitto mette in discussione il Trattato con Israele, aumenta l’ostilità verso gli israeliani. Sempre più preoccupati dalla crisi siriana e dalla forza iraniana. Se il processo di pace potesse riprendere quota, le cose forse andrebbero meglio. Ma al momento è difficile credere che sia possibile. Ci sono troppi leader al comando e nessuno capace di guidare la cordata. E non si può contare poi troppo su un’America impegnata in tre teatri di guerra. Per Israele è una sorta di resa dei conti: gli ebrei potranno vivere nel loro Stato, ma la regione nella quale - geograficamente - si trovano non li lascerà mai liberi di poterselo godere.

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Già negoziatore americano per il Medioriente

È l’Onu la vera spada di Damocle di Daniel Pipes li attuali sconvolgimenti mediorientali fortunatamente non riguardano Israele. L’antisionismo vi gioca una parte minore e perfino trascurabile. Ma trovo rilevante quanto sia piccolo il ruolo che si è ritagliato Israele. Tanto da farmi pensare che forse lo Stato ebraico beneficia del fatto che l’attenzione sia concentrata altrove. Detto questo, il governo israeliano fa bene a restare fuori dalle rivolte. Che potrebbero anche indurre i palestinesi a capire che la violenza non li condurrà dove vogliono andare e che se emulassero i loro fratelli potrebbero prendere le distanze dalla guerra e dal terrorismo a favore di un’azione politica non-violenta. Ironia della sorte, questo cambiamento potrebbe ritorcersi contro Israele. I suoi governi sono da sempre più forti in ambito militare pittosto che politico. E soprattutto non cambierebbe l’obiettivo palestinese: l’eliminazione dello Stato ebraico. Mi auguro dunque che gli israeliani si stiano preparando ad affrontare questa fondamentale novità, raccogliendo informazioni, addestrando le truppe, occupandosi dei dimostranti, fino a replicare con ragionamenti politici intelligenti. Quest’ultimo punto è particolarmente importante. In passato, i leader arabi declamavano e facevano delle discussioni assurde, ma ora sono più convincenti, più razionali, più simpatici. La loro campagna politica di delegitti-

G

Per l’ex diplomatico Usa, il Medioriente ora è più instabile

Non ci sarà pace senza democrazia di Natan Sharansky vunque si sostiene che per Israele è arrivato il momento di fare la pace, ma non c’è alcuna leadership, su fronte palestinese, che lo voglia. E poi: perché dovremmo siglare degli accordi con dei dittatori che hanno i giorni contati? La risposta più semplice - accontentati di fare la pace - non è sufficiente. Per firmare un accordo bisogna poter contare su una controparte che abbia a cuore il benessere del suo popolo, che è il fulcro della democrazia. Se le forze democratiche nel mondo arabo avessero davvero una chance, sarebbe un bene per Israele? Certo che sì! Israele dovrebbe dire con parole chiare che è pronto ad appoggiare un reale processo democratico in Palestina. Perché questo renderebbe tutto più semplice, perché questo ci permetterebbe di aprire a delle concessioni, perché questo ci consentirebbe di sostenere qualsiasi leader che davvero accettasse le riforme, dalla libertà politica all’educazione. Ma solo i palestinesi possono democratizzare sè stessi; il massimo che noi possiamo fare è offrirgli il nostro supporto, esprimergli la nostra simpatia e garantirgli un’assistenza

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Finta Primavera vero pericolo Lo stato ebraico è accerchiato e sempre più indebolito di John R. Bolton enché la morte meritata di Osama bin Laden abbia dimostrato la determinazione americana a garantire (e vendicare) la propria sicurezza, il mondo non è ancora al sicuro. In Medioriente le ottimistiche previsioni sulla caduta dei regimi autoritari che avrebbero dovuto fare spazio alle nuove democrazie e a più grandi prospettive di pace non hanno avuto grandi riscontri. Non sono solo le speranze democratiche a vacillare, ma anche le fondamenta per una stabilità duratura dell’area, a discapito nostro e dei nostri amici. Mentre Israele ha assistito da spettatore alle recenti rivolte nel mondo arabo, gli eventi ora stanno remando contro lo Stato ebraico. Le prime aspettative irrealistiche di «democrazia subito», assomigliano sempre più a esperimenti sulla sicurezza di Israele. Nemici implacabili – come l’Iran – stanno rafforzando la loro posizione gestendo a proprio vantaggio le rivolte. La sicurezza di Israele si va via via indebolendo, mentre i leader palestinesi

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hanno sprecato vent’anni d’opportunità per impegnarsi in trattative dirette e bilaterali. Sfortunatamente, i palestinesi per due anni hanno seguito la traccia segnata dal presidente Obama, che aveva fatto pressioni su Israele affinché accettasse le precondizioni palestinesi: cioé lo stop a nuovi insediamenti nel West Bank. Facendo un ulteriore passo indietro, verso l’epoca dominata dalla politica diYasser Arafat, l’Autorità palestinese ha cercato il modo per reinserire lo strumento di mediazione preferito, una sorta di deus ex machina, le Nazioni Unite, nella disputa tra arabi e israeliani.

Questa volta, l’idea è di convincere l’Assemblea generale a riconoscere lo Stato Palestinese, come successe nel 1988, quando l’Olp dichiarò la propria statualità e cercò di diventare membro effettivo delle tante agenzie Onu. A prova del nuovo status. Questi tentativi di creare «fatti politici sul campo» si sono verificati a spese d’Israele. Le campagne di pro-


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i che d crona

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato Direttore da Washington Michael Novak

economica. I leader israeliani non credono che questa svolta sia possibile, ma qualsiasi cosa loro dicano non avrà un peso se il mondo libero non si schiererà per le riforme. Io credo che il mondo libero - di cui Israele fa parte - debba dare delle indicazioni al mondo arabo. Se questo abbraccerà le riforme, avremo davanti dei grandi partner con cui portare avanti un accordo, e anche in tempi brevi. Viceversa il processo di pace non avrà futuro.

finestra sul fronte palestinese. Il governo della Cisgiordania, su cui Israele esercita il suo controllo, può essere ritenuto affidabile. È quella la chiave di volta. E non bisogna perderla. Già ambasciatore Usa in Israele ed Egitto

È giunta l’ora di negoziare nosciuto il governo dell’ayatollah a Tehran – una cattiva notizia per Israele, ma anche per i governi arabi filo-americani, come il Bahrain e altre monarchie del Golfo Persico minacciate dall’Iran.

Con l’elezioni egiziane del prossimo autunno, si parla sempre più spesso di una revisione degli accordi di Camp David. Nei giorni delle manifestazioni contro Mubarak, l’esercito egiziano ha spostato numerosi reparti nel Sinai, in apparenza per proteggere il canale di Suez e i gasdotti. Nonostante i militari siano ancora in zona, il gasdotto è ancora oggetto di attacchi terroristici. Se le norme del Trattato di Camp David che il nuovo governo “democratico” vorrebbe cambiare fossero quelle che prevedono la demilitarizzazione del Sinai, la sicurezza di Israele sarebbe in pericolo. Quanto succede in Egitto influirà inevitabilmente sulla Giordania, l’altro Stato arabo con un accordo di pace con Israele. Infatti, Gerusalemme si potrebbe ritrovare in una posizione geostrategicamente simile agli anni Cinquanta e Sessanta, sebbene oggi più vulnerabile, visti i progressi dell’Iran in campo nucleare nucleare. La resistenza di Muammar Gheddafi in Libia, inoltre, non può essere un bene per nessuno. La linea politica dell’amministrazione Obama in Medioriente negli ultimi mesi è stata sia incoerente che “invisibile”. Unita al deterioramento della sicurezza regionale, crea un grave rischio per gli interessi di Israele così come quelli degli Usa.

Bisogna dialogare con i dittatori di Daniel C. Kurtzer sraele ha una priorità, da sempre: garantire la sua sicurezza: fisica, materiale e sociale. E in questo momento di destabilizzazione mediorientale, ha bisogno di concentrarsi su tre aspetti. Primo: deve trovare il tono giusto e l’argomento più adatto per mantenere saldi i suoi rapporti con i due principali attori della pace: l’Egitto e la Giordania. Secondo: deve prepararsi a rispondere alla sfida che le stanno ponendo il Libano e la Siria. In particolare il Libano, che è sull’orlo del baratro. Bisogna porre fine al minuetto che Israele ed Hezbollah sono abituati a danzare. Se quest’ultimo collassa, bisogna sapere cosa fare. Non restare a guardare. Con la Siria la questione è più complicata. L’establishment militare preme affinché all’affaire Damasco sia data piena priorità, ma i politici non sono affatto d’accordo. Temono infatti di alzare il tono dello scontro con l’Iran. Natan Sharansky sostiene che non si debbano fare accordi con i dittatori. Ma io non sono d’accordo. Bisogna essere in grado di negoziare anche con i nemici. Nel mondo reale ci sono cose che sfuggono al nostro controllo. Basta guardare all’Egitto e al Trattato di Camp David che rischia di saltare. Fino a pochi mesi fa sarebbe stato impensabile. Perché non si dovrebbe trattare con la Siria? Terzo: si sta aprendo una

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Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni)

Già ministro della Knesset e dissidente sovietico

paganda palestinese hanno conquistato terreno, sia in Europa che negli Stati Uniti. Accusando Israele di razzismo, di aggressione e di crimini di guerra Questa «guerra de iure» contro Gerusalemme ha via via cancellato l’illusoria demarcazione tra anti-sionismo e antisemitismo con tutte le sue terribili implicazioni. Tuttavia è la prospettiva del deterioramento di una rapida democratizzazione del Medioriente che potrebbe porre i rischi più gravi per la sicurezza dello Stato ebraico. L’Iran, nonostante divisioni e conflitti interni, si è mosso per proteggere i propri alleati regionali contro il cambiamento democratico, e per fomentare rivolte in maniera più ampia. In Siria la resistenza sempre più sanguinaria del regime di Assad contro l’opposizione popolare, si fa forte della ferrea determinazione dell’Iran a mantenere al potere la dittatura del partito Ba’ath. La posta in gioco di Teheran in Siria è troppo alta. Allo stesso modo il regime sciita è determinato a sostenere i terroristi di Hezbollah in Libano. E, purtroppo per Washington, il regime irakeno del presidente Nouri al-Maliki sembra sempre più prono alla volontà dell’Iran. Teheran inoltre ha a lungo sostenuto i terroristi di Hamas a Gaza e nel West Bank. Adesso, dopo il rovesciamento di Mubarak, i militari hanno messo fine al blocco di Gaza, permettendo ad Hamas di entrare in contatto con i Fratelli Musulmani in Egitto. Il Cairo ha anche svolto un ruolo centrale nella riconciliazione tra Hamas (il cui leader ha condannato l’America per la morte di bin Laden) e Fatah. E ha rico-

Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

di M. J. Rosenberg on Mubarak fuori scena, la Giordania barcollante, l’amicizia con la Turchia quasi agli sgoccioli, la stabilità del regime siriano in dubbio ed Hezbollah che sta invadendo il Libano, Israele non si è mai trovata in una posizione strategica così difficile. Raggiungere un accordo con i palestinesi – sia Fatah che Hamas – dovrebbe essere la priorità di Israele. Cancellerebbe il conflitto dalla lista di reclami che gli arabi muovono ad Israele ed eliminerebbe il pretesto dell’Iran di nuove minacce. Nonostante Oslo, la stretta di mano tra Rabin e Arafat e i presunti sacrifici compiuti per la pace, Israele detiene ancora il pieno controllo del West Bank e di Gaza. È una situazione insostenibile. Israele dovrebbe dichiarare che intende negoziare sulla base dell’Iniziativa della Lega Araba che è l’unica ad offrire pace e normalizzazione con l’intero mondo arabo, non solo coi palestinesi. Ventidue paesi vorrebbero normalizzare le loro relazioni con Israele in cambio del ritiro dai territori. L’offerta è stata fatta due volte, la Lega Araba l’ha ratificata due volte e Israele l’ha ignorata. Il tempo non è a favore di Israele, che dovrebbe quindi definire un accordo finché può. Fino a poco tempo fa, sembrava che il tempo fosse dalla parte di Israele, che Israele potesse aspettare che i palestinesi sarebbero andati via. Non è più così. Lo status quo sta lavorando a favore dei palestinesi, non di Israele.

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Senior Foreign Policy all’Action network

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Agenzia fotografica

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ULTIMAPAGINA

Più di 250 cattolici arrestati nelle ultime cinque domeniche: la comunità è sprovvista di “timbro governativo”

Reato di fede, a Pechino è vietato di Francesco Lo Dico ietato pregare in tutti i locali chiusi, aperti al pubblico o privati. I trasgressori saranno puniti con il carcere”. Potrebbe essere questo il sintetico cartello da affiggere pressoché in qualunque luogo di Pechino si abbia l’ardire di pregare. L’ultima scena del crimine è la zona di Zhongguancun, dove domenica scorsa sono stati colti in fragrante, pizzicati a farsi il segno della croce, altri quindici cristiani. Ma le operazioni di polizia erano già cominciate in grande stile cinque settimane fa, con una prima tranche di arresti che aveva portato dietro le sbarre 169 fedeli il 10 aprile scorso. Di domenica in domenica, il viavai di cristiani tradotto nelle carceri pechinesi si è notevolmente infoltito. Il 17 del mese scorso sono stati messi in ceppi altri 50 cristiani; tra il 24 aprile e il primo maggio se se sono aggiunti trenta, e nell’ultimo weekend è toccato ad altre quindici persone, per un totale di

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Per la quinta settimana consecutiva prosegue lo scontro tra la chiesa di Shouwang e la polizia: l’ondata di fermi supera quota 260 oltre duecentosessanta fermi. Per la quinta settimana consecutiva prosegue dunque lo scontro tra la comunità cristiana protestante di Shouwang e la polizia di Pechino, che l’altro ieri ha fatto irruzione in un parco pubblico nella zona di Zhongguancun, dove i fedeli stavano assistendo a un servizio liturgico “illegale”.

Il governo cinese considera infatti la comunità di Shouwang, composta da circa 1000 fedeli, alla stregua di un’organizzazione clandestina sprovvista di regolare autorizzazione. Non fosse che da anni la comunità medesima ha fatto istanza di riconoscimento al governo, senza ricevere alcun cenno di risposta. Una dimenticanza che ha permesso al governo di evacuare i cristiani di

Shouwang da numerosi luoghi di ritrovo individuati per la preghiera: un piano intero in un edificio che la comunità aveva affittato, o la sala di un ristorante presa a noleggio, ad esempio. Visto lo scarso feeling di Pechino con i contratti di locazione, la comunità di Shouwang aveva deciso il mese scorso di tenere i suoi servizi liturgici all’aperto, finché il governo non avesse concesso la registrazione o un apposito luogo di culto. Ma lontana dal sortire effetti, la protesta è stata salutata da un’ondata di arresti. E sebbene i trasgressori siano stati trattenuti nelle patrie galere soltanto per qualche giorno, di fatto questi vengono posti agli arresti domiciliari, in un clima montante di minacce e ritorsioni, che non hanno risparmiato i pastori della stessa chiesa. Il tintinnar di manette non ha però scalfito le motivazioni dei fedeli di Shouwang, che in alcuni casi si sono detti “felici” di aver avuto la possibilità di pregare e cantare inni in cella, «annunciando il vangelo alle guardie della prigione». Al fine di mttere sotto tutela governativa gli eversori armati di rosario, Pechino preme da molto tempo affinché tutti i cristiani protestanti abbraccino il Movimento delle tre autonomie, l’organizzazione ufficiale che raduna tutte le chiese protestanti. Ma l’invito è stato gentilmente declinato dai fedeli che reputano tale organizzazione, che conta 23 milioni di membri, «troppo sottomessa al Partito e non a Dio». La maggioranza dei fedeli, che alcuni valutano in circa ottanta milioni di esponenti,

PREGARE resta infatti al di fuori del Movimento, preferendo preservare la propria autonomia attraverso l’attività in chiese domestiche sprovviste del bollino di qualità governativo. Chiese doc, di origine controllata, per dirla con un acronimo, che in molti esponenti dell’intelligentsia cinese, reputano ormai anacronistiche. Pechino concede ai religiosi una sorta di libertà di culto vigilata, da espletarsi però soltanto in comunità ufficialmente registrate, in luoghi autorizzati, con personale gradito, e sotto l’occhiuta attenzione delle associazioni patriottiche, che monitorano i fedeli per conto del governo e ne valutano il grado di ossequio alle autorità ufficiali.

Non a caso, le recenti retate di Zhongguancun, fanno scopa con gli arresti recenti di numerosi attivisti democratici e avvocati per i diritti umani. La linea di Pechino è dunque chiara: contenere ogni spiffero di libertà, prima che possa trasformarsi in un intenso vento carico di spezie nordafricane.


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