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he di cronac

La forma d’una città cambia, ahimè, più in fretta del cuore di un mortale

Charles Baudelaire

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 11 MAGGIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Sorpresa: il capo del governo se la prende con Casini e Fini. Ma è un autogol: «Se non ho fatto nulla, la colpa è loro»

Milano può cambiare l’Italia Berlusconi contro Napolitano: «Il Quirinale ha troppi poteri» Il premier ormai punta tutto sulla capitale lombarda. Sa che è una match decisivo per il suo futuro. Spesso i milanesi hanno anticipato le svolte storiche del Paese: anche questa volta? LA VERA SFIDA

INCOGNITA ASTENSIONE

Una città Al ballottaggio più avanti la Lega di chi la guida forse si sfila Casini e Fini con il candidato centrista a Milano, Palmeri

Parla Sergio Romano

«Una metropoli diversa, per questo adesso fa paura al Cavaliere» «È stato il premier a trasformare il voto in un referendum: era l’unico modo per riconquistare una borghesia passata dall’impresa ai servizi» Franco Insardà • pagina 5

di Savino Pezzotta

di Giancarlo Galli

d ogni ora che passa è sempre più evidente che le elezioni amministrative di domenica e lunedì hanno il loro epicentro a Milano. In questa città si gioca la vera partita politica per il futuro della legislatura e per le dinamiche politiche dell’intero Paese. La scelta di Berlusconi di guidare la lista del Pdl ha cambiato i connotati di una prova elettorale che poteva essere l’occasione di discutere dei problemi, dei cambiamenti e delle potenzialità che Milano poteva mettere in campo per sé, per la Lombardia, per L’Italia, in un nuovo rapporto con il mondo e i processi economici e culturali. a pagina 3

osteneva Gaetano Salvemini, grande storico e politico del secolo passato: «Le lotte amministrative milanesi non sono che i prodromi delle lotte politiche italiane. Quel che pensa Milano, domani lo penserà l’Italia». Ritrovo lo spirito di quella lontana profezia (peraltro più volte concretizzatasi nella storia recente del nostro Paese), nelle parole di Bruno Tabacci, parlamentare lombardo di lungo corso ed ora fra gli artefici del listone “centrista”che col giovane Manfredi Palmeri candidato-sindaco vuole inserirsi a cuneo nel duello all’ultimo voto fra Letizia Moratti e Giuliano Pisapia. a pagina 4

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Proseguono gli attacchi sulla capitale: colpite la tv di Stato e l’agenzia Jana

Giallo a Tripoli: Gheddafi è morto? Bombardato il bunker del raìs. La Nato: «Di lui non abbiamo notizie» di Antonio Picasso

Rastrellamenti di massa anche a Damasco

Siria, la repressione arriva casa per casa

ivo o morto che sia Gheddafi, gli obiettivi della Nato sono «solo militari». Non è chiara la posizione dell’Alleanza atlantica di fronte all’incalzare degli eventi in Libia. Per gli osservatori è difficile fornire un’analisi esaustiva del conflitto. Le forze in campo, al contrario, dovrebbero essere in grado di tracciare con maggiore certezza lo scenario. Se non altro sulle sorti del Colonnello. I ribelli lo danno per spacciato. I suoi fedelissimi smentiscono. a pagina 10

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seg1,00 ue a (10,00 pagina 9CON EURO

di Luisa Arezzo a pressione internazionale sul regime di Bashar al Assad in Siria è aumentata nelle ultime ore: ieri sono entrate in vigore le sanzioni approvate dall’Unione europea contro 13 alti esponenti del regime, tra cui il fratello minore del presidente siriano, Maher, capo della Guardia Repubblicana, ma non è escluso un inasprimento delle restrizioni. a pagina 11

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

90 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

Rivoluzioni tecnologiche

Microsoft compra Skype. È la fine del telefono di Maurizio Stefanini kype: un’azienda con un giro d’affari da 860 milioni di dollari, ma che perde 7 milioni all’anno. Cui a giugno si sono connessi 124 milioni di utenti, ma di cui solo 8,1 paganti. Con un know how che nessuno possiede nel Voip, con relazioni di primo piano con i carrier e le telecom attraverso accordi per la transizione alle reti Lte ad alta velocità, ma che non è mai riuscita a convincere investitori e pubblicitari a sostenere il proprio business. Nel 2005 eBay l’aveva rilevata per 3,1 miliardi di dollari, ma già nel 2009 aveva deciso di dar via i due terzi del pacchetto azionario al prezzo di realizzo di appena 2 miliardi di dollari. Come si dice a Roma, «jel’hanno tirata dietro». Come mai adesso una vecchia volpe come Bill Gates ha deciso di spendere 8,5 miliardi per portare nell’orbita Microsoft un carrozzone del genere? Lo ha fatto perché da oggi cambierà tutto. a pagina 8

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19.30


l’inchiesta Pagnoncelli, Scaparro e Vitale: intellettuali e sondaggisti parlano della sfida che la metropoli lancia ai propri amministratori

Ricominciare da Milano

Si lascerà schiacciare dalla crociata anti-pm del premier? Questa volta no. La capitale morale vuole imporre la propria agenda il fatto di Errico Novi

ROMA. Su cosa si vota a Milano? Sulla battaglia finale tra Berlusconi e la Boccassini? O non è piuttosto in gioco la possibilità che Milano resti capitale morale del Paese? Sul tema ci sono diversi punti di vista. E in ogni caso per sciogliere il quesito bisognerebbe capire se davvero ci sono nuove forze della città che si sono mobilitate. Se cioè è scongiurato il rischio di una metropoli declinante nel suo profilo più cinico, disincantato. E quindi capire anche se e come peserà l’astensionismo. Perché è chiaro ormai che Berlusconi scommette tutto sulla vittoria di Letizia Moratti al primo turno. E che si affida molto a una arruolamento dell’ultim’ora da parte dei suoi elettori delusi. Il punto è: il risveglio di Milano gioca o no a favore del Cavaliere? Quanto dipendono, le possibilità di Giuliano Pisapia e di Manfredi Palmeri, dalla partecipazione dei milanesi al voto di domenica?

Perché se è vero appunto che il premier punta molto sulla conversione in extremis degli astenuti, è vero anche che l’area moderata non schierata con la Moratti è altrettanto impegnata a reclutare i milanesi impigriti.Venti giorni fa questo giornale ha ascoltato la versione di Marco Vitale, economista che è tra le figure di maggior rilievo della scena milanese non solo in ambito accademico. Sul suo sito www.allarmemilano-speranzamilano.it il professore continua a scrivere

Nuovo attacco ai giudici: «Sono una malattia. E i leader della sinistra si lavano poco»

«Toglieremo poteri al Quirinale» Ormai Berlusconi è senza freni: «Darne di più al premier» di Marco Palombi

ROMA. L’unica cosa che si può dire con certezza, a quattro giorni dal voto, è che ormai nessuno stranamente pare pensare che questa tornata amministrativa abbia a che fare con l’elezione di sindaci e presidenti di provincia: saranno un plebiscito attorno al governo. Se vanno bene per il centrodestra, il Cavaliere va avanti sereno e fa dieci nuovi sottosegretari, senno tra il nervosismo leghista e le paure dei peones dio solo sa che succede. Stante questo stato di fatto ieri il premier - uno e trino, ovvero in video, per iscritto ed esibendosi live - ha continuato a pestare la solita acqua nel solito mortaio («Dobbiamo vincere le elezioni per confermare e rafforzare il governo»; se vince la sinistra «torna l’Ici, raddoppia l’imposta sul reddito di Bot e Cct e delle azioni, istituiscono la patrimoniale, faranno intercettazioni a tappeto e farebbero arrivare i clandestini per poi concedergli il voto e spostare la bilancia elettorale»), salvo poi aggiungere: «Dobbiamo cambiare la composizione della Corte Costituzionale, dobbiamo cambiare i poteri del Presidente della Repubblica e, come avviene in tutti i governi occidentali, attribuire più poteri al governo del presidente del Consiglio». Quanto a Scajola, dice il premier, «uscito totalmente estraneo» dal processo sulla cricca, «la sua vicenda è una clamorosa dimostrazione della necessità di una riforma della giustizia». Sembrerebbe il contrario visto che è stato assolto ed è pure tornato a vivere nella casa che il costruttore Anemone - dato non conte-

stato - gli ha pagato per metà a sua insaputa. Senza Fini e Casini, ha scandito poi nel pomeriggio riprendendo uno dei suoi evergreen, «faremo le riforme in due anni: giustizia, istituzioni e fisco». Curioso, però, che lo dicesse parlando da un palco su cui era salito per promuovere una candidata sindaco dell’Udc: la senatrice Dorina Bianchi, in quel di Crotone. Anche l’opposizione ha ovviamente fatto la sua campagna elettorale. Come ai bei tempi, si fa per dire, sulla giustizia a Berlusconi ha indirettamente risposto Fini: «Nessuna carica politica può pensare di non essere sottoposta ai limiti e ai controlli previsti dalla legge. È il risultato dei“pesi e contrappesi” previsti dalla Costituzione». Spiegato l’ovvio, ma ormai anche quello va spiegato, il presidente della Camera ha bollato come «una cosa mai vista» l’ennesima proposta di una commissione d’inchiesta sulle toghe (Granata l’ha sobriamente definita «eversiva»). Venendo al sodo, invece, vanno registrate alcune sbandate, probabilmente dovute ai primi caldi: l’ex Mpa messinese Carmelo Lo Monte - ieri a Roma per incontrare Calderoli - ha annunciato di voler creare «la Lega Nord del Sud», mentre il responsabile Bruno Cesario - asceso alla poltrona di sottosegretario, all’Economia nientemeno - ha sostenuto in radio che è stato sì eletto nelle liste del Pd, ma contro il parere dello stesso Pd. In Parlamento c’è arrivato per «un miracolo di Padre Pio».Va almeno ricordato che in questi periodi bisogna bere molta acqua.

quanto detto a liberal: che «questo è il momento di ribellarsi» e che stavolta tra i candidati al Consiglio comunale ci sono molte personalità, molte donne, molti giovani, per i quali vale la pena votare. Ne fa un elenco, e li sceglie tra le liste che sostengono Pisapia e Palmeri. Immagina, Vitale, un sostegno del Nuovo polo a Pisapia in caso di ballottaggio tra quest’ultimo e la Moratti. Sullo stesso sito ne scrive anche Stefano Rolando, che dedica gran parte dell’intervento presentato ieri nella parte alta dell’homepage all’attivismo del “Gruppo per il 51”. Una rete organizzata da un’altra figura chiave della borghesia professionale e imprenditrice di Milano, Piero Bassetti. Ebbene il suo gruppo, che coinvolge lo stesso Vitale, Fabrizio Onida e suo fratello, il costituzionalistaValerio, promuove proprio un avvicinamento tra Nuovo polo e centrosinistra. In vista del ballottaggio, ovviamente. E sempre nell’intervento di Rolando c’è un forte appello, a nome del “Gruppo per il 51” a impegnarsi negli ultimi giorni per scuotere il blocco dell’astensionismo.

Non si capisce dunque chi davvero può essere sfavorito dalla diserzione diffusa. Nando Pagnoncelli, direttore per l’Italia dell’Ipsos, distingue due piani d’analisi. «Premessa: siamo in una fase in cui c’è una forte disaffezione per la politica. La crisi sollecita i cittadini a chiedere risposte rispetto a temi come il lavoro e le tutele sociali. Invece il dibattito pubblico ruota da oltre


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il commento

Questa città è più avanti della politica Globalizzazione, imprese, solidarietà: i vecchi leader non hanno capito le trasformazioni di Savino Pezzotta d ogni ora che passa è sempre più evidente che le elezioni amministrative di domenica e lunedì hanno il loro epicentro a Milano. In questa città si gioca la vera partita politica per il futuro della legislatura e per le dinamiche politiche dell’intero Paese. La scelta di Berlusconi di guidare la lista del Pdl ha cambiato i connotati di una prova elettorale che poteva essere l’occasione - Dio sa quanto ce n’era bisogno - di discutere dei problemi, dei cambiamenti e delle potenzialità che Milano poteva mettere in campo per sé, per la Lombardia, per L’Italia, in un nuovo e fecondo rapporto con il mondo e i processi innescati dalla interdipendenza economica, culturale, religiosa, sociale determinatasi con la crisi economica mondiale. Invece siamo costretti a discutere di Berlusconi e dei suoi conflitti personali con la magistratura. È un’offesa alla città, ai suoi abitanti e a coloro che, contro ogni speranza, continuano a pensar bene della politica. Ancora una volta siamo di fronte ad una grande mistificazione: sappiamo tutti che Berlusconi non occuperà mai il seggio di Palazzo Marino e che la sua candidatura é solo un affannoso tentativo di riprodurre un vecchio schema plebiscitario. Ma è anche il segnale della sua debolezza. Poi c’è l’opportunismo leghista che predica il federalismo e poi si accoda al massimo del centralismo romano rappresentato dal Presidente del consiglio. Si è passati da “Roma ladrona” a “Roma Poltrona”.

A

Ma neanche il centro-sinistra è esente da contraddizioni, visto che si è subito adeguato alla dinamica bipolare imposta da Berlusconi. Oltre alla polemica antiberlusconiana e ad alcuni temi scontati, non mi sembra abbia elaborato una forte proposta politica. Unica vera novità e alternativa è la coali-

un anno sugli affari personali del premier o sulla giustizia. Questo ha prodotto una disaffezione, non a caso i dati annunciano un’astensione in salita». Circostanza temuta da Berlusconi, ma come ricordato anche dal fronte anti-Moratti. E allora? Pagnoncelli precisa: «Alle amministrative la tendenza al non voto è comunque più contenuta. Gli elettori hanno priorità come la qualità della vita, sono più motivati. Quanto dice il professor Vitale dunque è vero: c’è un risveglio dell’impegno civico, a Milano. Ma riguarda ancora delle minoranze. Se dovessi giudicare in termini generali, direi che è impressionante per esempio il silenzio attorno all’Expo. Non ho visto sollevazioni popolari». Ma

zione di terzo polo che sostiene la candidatura di Manfredi Palmeri. Lo è da punto di vista programmatico e da quello della composizione, in cui un corretto rapporto tra laici e cattolici garantisce una vera laicità positiva. È una opportunità per tutto quell’elettorato deluso da questo inconcludente bipolarismo e che sembra essere attratto dall’astensionismo.

Le questioni politiche non devono far perdere di vista quello che la città di Milano rappresenta oggi e le sfide che pone alla politica. Siamo di fronte a una città più dinamica ed innovativa di quanto appaia ma che sta pagando troppo il blocco di una classe politica che non ha colto - e che ancora fa fatica a cogliere - le dinamiche innovative e creative che l’attraversano, che ne modificano la dimensione strutturale e sovrastrutture e la rendono aperta e espansiva. Bisogna rendersi conto che Milano non è una città “luogo”, ma ha assunto una dimensione che la rende un nodo importante della retificazione mondiale ed europea. Sempre più si caratterizza con l’assunzione di processi e criteri innovativi e creativi che tendono ad interferire in modo pervasivo con i processi produttivi, con le modalità di servizi alle imprese e alle persone, in cui la finanza e i sistemi creditizi sono in tutti i processi che contano. Sono convinto che sia una tra le città più innovative del mondo e che ormai abbia assunto la dimensione e le dinamiche di una metropoli globalizzata. Sono questi processi che in larga parte sono

insomma una mobilitazione c’è: è una mobilitazione selettiva. E si è piuttosto incoraggiati a credere che il fenomeno riguardi chi vuole cambiare la città. Compresi i suoi assetti di potere.

Fulvio Scaparro, tra i padri della psicopedagogia in Italia, ha firmato l’anno scorso un Manifesto per Milano insieme con Vitale e il vicedirettore del Corriere della Sera Gian Guido Vecchi. Ha l’impressione che «prevalga finalmente una tendenza Milano-centrica anziché quella Berlusconi-centrica degli anni scorsi. Stavolta ho davvero l’imbarazzo della scelta tra molti candidati al Consiglio comunale che meriterebbero di essere eletti. Persone che non sono topi

sfuggiti alla politica e che stanno modificando gli stili di vita, l’universo dei desideri e le forme delle relazioni sociali e personali dei milanesi.

Per rendere più chiara l’idea di quanto vengo esponendo devo affidarmi a questa metafora: a Milano la lingua comune è diventato l’inglese, l’italiano è il dialetto e il meneghino lo parlano solo pochi snob. Teniamo presente che circa il 70% degli abitanti della città è di seconda o prima generazione, ma

Il voto può essere un «nuovo inizio» per investire sul futuro. A partire dall’Expo in programma nel 2015 tutti si sentono milanesi e ambrosiani, dimostrando, al contrario di quello che pensano le camice verdi di Bossi, che la città possiede naturalmente una vera capacità di accoglienza e di integrazione di tutti coloro che per vari motivi vengono da fuori. Potremo dire che è sempre in grado di produrre processi di ibridazione tra la sua vocazione cosmopolita e il radicamento ambrosiano. Questa città è un punto centrale dell’interscambio culturale a livello mondiale. Vivacità, dinamicità e creatività che si riverberano nella produzione di beni e servizi, a sostanziare l’affermazione che contraddice l’idea della improduttività della cultura. Basta gettare lo sguardo sulle attività imprenditive che, seppur provate dalla crisi, hanno mantenuto una

di partito ma che hanno lavorato e lavorano per la città, in diversi campi, dalla viabilità alla qualità dell’aria. Facce diverse». Un’élite che anticipa i tempi ri-

forte propensione all’innovazione nel settore manifatturiero, nelle biotecnologie, nel design e nella moda, nei settori creativi come quelli delle nuove tecnologie, della ricerca di fonti energetiche alternative, nei servizi avanzati per le imprese e la pubblica amministrazione, nei settori di cura e assistenza. Ma potremmo anche valutare le forme innovative e creative nel campo della solidarietà realizzate dalle associazioni laiche e cattoliche, dove il principio di sussidiarietà ha trovato una declinazione nuova ed efficace. Il vero handicap di questa città sta in una classe politica che si è chiusa nei vecchi rituali e non ha colto quello che stava mutando. Si è creata così una sorta di schizofrenia tra la vita esteriore di chi è rimasto fermo ai riti di palazzo e la vita reale della città. Questa dicotomia va ricomposta attraverso una classe dirigente nuova come sta tentando di fare la coalizione del terzo. Ecco le motivazioni per cui diventa importante questa presenza, l’unica in grado di contribuire di far andare Berlusconi al ballottaggio. Quello che la sinistra non sa fare oggi può essere possibile attraverso la nuova coalizione e un candidato come Manfredi Palmeri. È politicamente importante portare il centro destra al ballottaggio perché ciò renderebbe evidente la fine di un ciclo politico negativo soprattutto nella presente legislatura e si confermerebbe il processo di declino del suo leader.

Ma, fatte tutte queste considerazioni, occorre anche dire che le elezioni amministrative di Milano non si colgono sul finire della storia, ma al suo inizio perché servono anche a investire su nuova classe dirigente che da ora si predispone per il 2015. Solo chi ha lo sguardo lungo può conquistare il futuro e generare speranze per il sorgere di una buona politica.

mettere solo toppe sui problemi della città, su urgenze immediate come l’Expo e la viabilità.Tendenza che se invece prevalesse ci consegnerebbe ancora una

time tornate». Ecco la tendenza Milano-centrica. Ed ecco confermata l’impressione, suggerita anche da Pagnoncelli, di un doppio volto: quello dell’elettorato di centrodestra deluso e impigrito a cui s’oppone la Milano moderata e riformista che risale la china. «Le contraddizioni che fino a tempo fa sembrava corrodessero solo la sinistra cominciano a intaccare anche la destra berlusconiana e leghista». E in effetti in queste ore le tensioni sul posto da vicesindaco tra il Pdl larussiano e il Carroccio di Salvini si sono aggravate. Segni dietro i quali Scaparro intravede «quello scatto d’orgoglio che dovrebbe rompere l’incantesimo iniziato nel ’94».

Il direttore dell’Ipsos intravede una mobilitazione selettiva. E Scaparro parla di «tendenza Milano-centrica che finalmente si impone su quella Berlusconi-centrica» spetto al resto della città? Un’avanguardia della Milano che, nel suo insieme, precede sempre e comunque il resto del Paese? «Evidentemente la predicazione di chi in questi anni ha chiesto un progetto di lungo respiro è riuscita a lasciare un segno». Cioè finalmente c’è una classe dirigente che si candida «a non

città-arlecchino, e non quella Milano proiettata nel futuro di cui c’è bisogno».

È plausibile insomma che una parte della città «non sia disponibile a schierarsi nel referendum Berlusconi sì-Berlsconi no. Il pericolo che tutto si riduca a questo è meno forte che nelle ul-


l’approfondimento

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Tutti hanno notato che alla manifestazione con il premier e la candidata del Pdl non c’era alcun dirigente lumbard

L’incognita Lega

Berlusconi ha trasformato il voto in un referendum sul governo (anche per nascondere i limiti della Moratti). Il Pd arranca e il Carroccio sta in finestra senza impegnarsi. Insomma, come sempre Milano è un laboratorio nazionale di Giancarlo Galli osteneva Gaetano Salvemini, grande storico e politico del secolo passato: «Le lotte amministrative milanesi non sono che i prodromi delle lotte politiche italiane. Quel che pensa Milano, domani lo penserà l’Italia». Ritrovo lo spirito di quella lontana profezia (peraltro più volte concretizzatasi: col fascismo, con la Resistenza, col centrosinistra, col craxismo ed il leghismo bossiano, infine col berlusconismo), nelle parole di Bruno Tabacci, parlamentare lombardo di lungo corso ed ora fra gli artefici del listone “centrista” che col giovane Manfredi Palmeri candidato-sindaco vuole inserirsi a cuneo nel duello all’ultimo voto Fra Letizia Moratti e Giuliano Pisapia. Dice col realismo che lo contraddistingue da sempre il Bruno: «Non pensiamo di vincere, ma di giocare al secondo turno un ruolo decisivo: dare una mazzata a Berlusconi e mettere a nudo le contraddizioni della Lega». Ecco il disegno strategi-

S

co di Tabacci & Co. Impedire la rielezione immediata di Donna Letizia. Mi dà i “suoi”numeri: la Moratti fra il 48 ed il 49 per cento, Pisapia attorno al 35, i centristi al 10. Il resto sparpagliato fra velleitari outsiders. Nel Circo Barnum dei sondaggisti, trovano sostanziale conferma con però due astute precisazioni: la percentuale dei potenziali astenuti è ancora altissima, un elettore su quattro; inoltre i “veggenti”si concedono un margine di errore del 3-4 per cento. Il che significa che la partita è ancora tutta e più che mai incerta.

Un fatto è comunque chiaro come il sole: il voto amministrativo di domenica-lunedì a Milano ancor prima che “comunale”ha valenza “nazionale”. Se Donna Moratti non passa subito superando la soglia del 50,01, per Berlusconi (capolista dei candidati consiglieri a Palazzo Marino), per il Capo, è sconfitta bruciante. Con immediati riflessi in Roma-Capitale dove, su sollecitazione del pre-

sidente Napolitano, la “nuovissima” maggioranza di centrodestra dovrà andare alla conta in Parlamento. Passiamo allora agli interrogativi e relativi retroscena. Letizia Moratti in questi anni ha governato bene, benino, mediocremente, male? L’opinione pubblica è divisa e in non poca misura lacerata nello stendere una pagella. Un ottimo per avere conquistato l’Expo del 2015 ma una stiracchiata sufficienza per come ha gestito il prosieguo: pressoché

Il centrista Manfredi Palmeri punta a rompere il duello destra/sinistra

tutti i programmi in ritardo. Ampia bocciatura invece per la “gestione ordinaria”, dal traffico alla pulizia delle strade. Soprattutto il diffuso sentimento che il sindaco si sia dimenticato o quasi delle periferie mentre s’è fatta paladina di uno sviluppo edilizio gratificante solo per i grandi immobiliaristi. Alla luce di questo scenario così pieno di ombre, la ricandidatura della Letizia è stata quanto mai sofferta. Umberto Bossi l’ha tenuta sino a poche settimane fa

sulla corda. Pur non avendo un candidato “suo”, la Lega voleva farla pesare a Berlusconi. In ogni caso mettere a verbale che in caso di sconfitta, il Carroccio non ha responsabilità dirette. (In proposito: corre voce, non confermata da nessuna parte, che in caso di ballottaggio, la Lega potrebbe optare per la “libertà di voto”). Anche Berlusconi ha tergiversato nella riconferma della Moratti. Motivo, il possibile “rientro in pista” di Gabriele Albertini, sindaco per due mandati (dal 1997 al 2006), dalla straordinaria efficienza, ora europarlamentare. Senonché Albertini andava accarezzando il progetto di una grande coalizione, recuperando finiani e centristi. Se a dicembre il governo fosse caduto, il candidato sarebbe quasi certamente stato lui. Avendo la politica nazionale avuto altri sviluppi, la riconferma della Moratti è divenuta obbligata. Anche per le pressioni “castali” esercitate dalla Famiglia: petrolieri miliardari, padroni dell’In-


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«Il futuro è deciso solo in piccola parte dagli amministratori»

«La nuova Milano fa paura al Cavaliere»

«Questa non è più la città delle imprese ma quella dei servizi»: la sfida sul premier secondo Sergio Romano di Franco Insardà

ROMA. «Se Berlusconi attribuisce al risultato di Milano una grande importanza e ne fa la ”sua” campagna elettorale è inevitabile che la cosa assuma una valenza politica nazionale. Tutto si può dire del premier tranne che non abbia coraggio: ha deciso che questa partita lo riguarda e, inevitabilmente, se ne assumerà gli onori della vittoria o le conseguenze della sconfitta». È questa la lettura che l’ex ambasciatore Sergio Romano, editorialista del Corriere della Sera, dà di quello che da molti osservatori viene definito il laboratorio politico d’Italia e che potrebbe rappresentare la svolta politica per il Paese. Milano, però, è sempre stata protagonista nei cambiamenti del quadro politico. La città ha certamente queste caratteristiche, ma dopo aver dato il via alle grande svolte politiche tende in qualche modo a fare un passo indietro e a lasciarsi riassorbire dalle preoccupazioni maggiori che sono di carattere economico e imprenditoriali. È una città assertiva e intraprendente, ma non sfrutta la sua vittoria e torna a occuparsi delle cose che le piacciono. Un atteggiamento legato al suo tessuto borghese? Sì, ma la borghesia milanese è cambiata. Oggi c’è quella delle professioni, dei servizi, della finanza che costituisce la vera e propria spina dorsale della città. Mentre la borghesia imprenditoriale si è fortemente ridimensionata per la fine delle grandi industrie. E questo fenomeno come si può interpretare? Da questo punto di vista la città dimostra dinamismo e vivacità, perché riesce a sostituire la propria classe dirigente. Mentre la classe politica non sembra essere al passo con i cambiamenti della città, soprattutto per quanto riguarda le periferie e i nuovi “italiani”. È chiaro che le amministrazioni di destra, Albertini prima e Moratti poi, seppure con stile e priorità un po’ diversi hanno sempre puntato su uno degli aspetti fondamentali di Milano: la crescita. Hanno, quindi, privilegiato ciò che maggiormente favorisce questa nuova borghesia. Il progetto di oltre venti grattacieli nella zona di Porta Garibaldi è legato alla nascita di una città degli affari. Un anno fa fu pubblicato sul Corriere della Sera il Manifesto per Milano, una sorta di appello all’orgoglio della città. Un invito che è stato raccolto? Il futuro di una città solo in piccola parte è deciso dalla sua amministrazione, molto dipende dalle scelte dei suoi cittadini e a Milano lo fanno molto più rapidamente. Non dimentichiamoci che è stata la prima città che ha avuto la fibra ottica. Lei, quindi, coglie una vivacità nel com-

portamento dei milanesi? Direi proprio di sì e lo vedo soprattutto con gli stranieri. Mentre venti anni fa le comunità principali presenti in città era quella statunitense e quella svizzera, oggi ci sono romeni, marocchini, egiziani, albanese e cinesi. E quindi? Questi immigrati, come nel Veneto, stanno diventando piccoli imprenditori che è un segno sia di vivacità di queste persone, sia di disponibilità dell’ambiente che le accoglie. Insomma, con tutte queste premesse, mi sento di scommettere sul futuro di Milano. E a breve ci sarà l’Expo. Sull’Expo ho, invece, qualche perplessità e resta per tutti un punto interrogativo. La sua fisionomia non è chiara nemmeno a chi ci abita, spero che lo sia tra qualche mese e alla prossima amministrazione. Nella quale ci potrebbe essere una Lega sempre più forte. Berlusconi è consapevole di dover combattere due battaglie: una con le opposizioni, l’altra con la Lega. La vittoria per il Cavaliere non è l’affermazione della Moratti, ma la sua elezione al primo turno. Sul fronte interno se la deve vedere con un Bossi che vuole conquistare Milano e questo potrebbe essere un errore del Senatùr. Perché? La Lega l’aveva già conquistata Milano nel ’93, ma non gli andò bene. Il Carroccio è una forza lombarda, riconoscibile come tale, e che risponde a caratteri propri della regione. La Lombardia non ha mai amato Milano, sempre vista come un’ingombrante estranea, prevaricatrice e arrogante. E gli altri candidati? Pisapia è una persona molto interessante, ma non è chiara la fisionomia di Milano con lui sindaco, soprattutto per le forze politiche che lo sostengono. Sarà, comunque, interessante vedere se riuscirà a mobilitare, anche per ragioni estranee all’amministrazione della città, una componente abbastanza larga di sentimenti di sfiducia e stanchezza nei confronti di Berlusconi. In quel caso ci potrebbe essere il ballottaggio e allora per il cavaliere sarebbe una sconfitta. Un Berlusconi che è impegnato a Milano anche a Palazzo di giustizia. Si tratta di un prolungamento della campagna elettorale con altri mezzi. Usa quella tribuna e quei metodi aggressivi per la sua campagna. Dei quali potrebbe beneficiare anche la Moratti. È evidente. Non ha il carattere del militante combattivo, ma ha un rapporto con Berlusconi molto stretto.

Il premier è consapevole di dover combattere due battaglie: una con le opposizioni, l’altra con la Lega

ter.Va aggiunto che con dispendio di mezzi e generoso impegno personale, Donna Letizia sta facendo il possibile e l’impossibile per darsi un’immagine popolare. La si ritrova ovunque: sui manifesti e nei mercati rionali; nei salotti e negli ospizi per anziani.

Sull’altra barricata, Giuliano Pisapia. Slogan: «Il vento cambia». Si presenta col volto “nuovo”; in realtà è politico più che scafato. Classe 1949, penalista, da giovane difendeva contestatori ed extraparlamentari. Poi il Parlamento, nelle liste di Rifondazione comunista. Nell’autunno scorso, colpo di teatro: il Partito democratico indice le “primarie” in vista della designazione del candidato-sindaco. L’architetto Stefano Boeri, brillante professionista che ha a lungo lavorato a fianco della Moratti per il progetto Expo, è favoritissimo. Ma il suo charme non è sufficiente a bloccare l’onda delle preferenze per Pisapia. La borghesia progressista a braccetto dei Centri sociali, lo boccia sonoramente: dovrà accontentarsi, il Boeri, del ruolo di capolista per il Consiglio. Ora, Pisapia ha un traguardo: trascinare la Moratti al ballottaggio. Quindi batterla sul filo di lana, chiamando a raccolta tutti gli scontenti. Quel che gli fa difetto è la fumosità di un programma per ridare slancio alla metropoli del Nord. Mentre Donna Letizia contrappone il miraggio dell’Expo 2015 che tuttavia nasconde colate di cemento, speculazioni urbanistiche. Contropartita: almeno di venti milioni di visitatori, per la felicità di albergatori, osti, commercianti. Ciò detto, va ribadito: dalle urne di maggio uscirà un verdetto soprattutto politico, con riflessi nazionali. Il primo ad ammetterlo è lo stesso premier, sceso nell’agone con piglio e cipiglio, ben cosciente di rischiare grosso. Eccolo allora fare intendere senza perifrasi, in comizi affollatissimi, quel che potrebbe accadere in caso della sconfitta della Moratti, con ricadute sulla stabilità del governo: nuove tasse (dal ritorno dell’Ici sugli immobili ai Bot), lo spettro di

un’imposta patrimoniale. Quanto basta per allarmare una piccola borghesia che ai danèe tiene moltissimo. Lascia intendere: in cabina pensate al vostro portafoglio! E gli umori dell’elettorato immenso? In quest’antivigilia sostanzialmente indecifrabili. Marchiati da sentimenti di disaffezione a 360 gradi verso un po’ tutti gli schieramenti. I cattolici praticanti (all’incirca un quarto dei votanti) si presentano all’appuntamento a ranghi dispersi. Doverosamente silente la Curia, solo i ciellini fanno campagna per la Moratti. Quanto ai simpatizzanti del Pd, il curriculum di Pisapia non aiuta.

La vera incognita è però rappresentata dall’elettorato leghista: un robusto 15 per cento alle ultime politiche, sino a poche settimane fa valutato in crescita, e ora disorientato. Dopo le “incomprensioni” sulla Libia, ma non solo. L’armonia fra il cavaliere e il Carroccio pare incrinata. Fatto è che sul megapalco del Palasharp, con Berlusconi che abbraccia la Moratti, non uno straccio di bandiere verdi. Nemmeno il rampante parlamentare e capogruppo a Palazzo Marino Matteo Salvini che contende al veterano Riccardo De Corato (ex Msi, ex An) la poltrona di vicesindaco. Come si spiega? Gli specialisti in futurologia avanzano un’ipotesi: nel caso di uno scivolone di Donna Letizia, Bossi non vuole finire coinvolto. Comprensibile. Al Palasharp, Berlusconi ha detto: «Non possiamo perdere. Dobbiamo vincere al primo turno, poiché è in gioco anche il mio governo. C’è da credergli. E poiché la Lega sembra percepire un sottile odore di bruciato attorno alla Moratti, con la vecchia tecnica del piede in due scarpe, vuole sottrarsi ad una verifica ad alto rischio. Non bastasse: chi sarebbe il successore di Berlusconi a Palazzo Chigi nel caso di un infortunio elettorale milanese con immediate ripercussioni romane? Giulio Tremonti, il valtellinese superministro economico del quale è arcinoto il rapporto preferenziale con la Lega. E per il Cavaliere di Arcore si spalancherebbe la prospettiva di un Sunset Boulevard, viale del Tramonto, con la magistratura alle calcagne. In caso di vittoria, invece, un sostanziale tranquillo periodo di fine legislatura con all’orizzonte il “sogno” di succedere al Quirinale a Giorgio Napolitano. Ecco perché, in questo weekend, a Milano, si gioca la finale di una partita a scacchi che ha per posta gli assetti e gli equilibri politici nazionali prossimi venturi. Proprio come previsto da Salvemini, in quanto la storia ama spesso ripetersi.


diario

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ROMA. «Senza la riduzione reale e significativa del peso del fisco non si cresce. Tutte le azioni a favore delle imprese diventano solo “pannicelli caldi” se non si attua la “madre” di tutte le riforme, vale a dire la riduzione della pressione fiscale» giunta in termini reali oltre il 50%. Lo ha detto il presidente di Rete Imprese Italia, Giorgio Guerrini, aprendo l’assemblea annuale dell’organismo. «La diminuzione della pressione fiscale - ha detto Guerrini - è la priorità del Paese e deve essere accompagnata da una concreta riduzione della spesa pubblica insieme ad una lotta all’evasione da condurre senza pregiudizi e valorizzando lo strumento degli studi di settore». L’organizzazione delle Pmi ha «apprezzato il positivo cambio di marcia da parte del Governo che nel Decreto sviluppo ha recepito l’esigenza di abbassare la pressione burocratica sulle imprese. Le positive misure di snellimento degli adempimenti tributari non esauriscono tuttavia le aspettative degli imprenditori e devono preludere - ha ribadito Guerri-

Rete Italia chiede al governo: «Subito giù le tasse alle imprese»

ni - a una riforma che, mettendo mano all’impianto generale della tassazione, si ponga obiettivi ambiziosi: innanzitutto la riduzione della pressione fiscale sul lavoro e sulle imprese e la semplificazione radicale del sistema». «Guardiamo con attenzione al federalismo fiscale anche se avvertiamo sempre più forte il rischio che i principi della riforma vengano travolti nella loro attuazione, generando ancora maggiore complessità nella gestione dei tributi e un ulteriore aumento delle tasse. Il rischio esiste» ha proseguito ricordando le critiche delle imprese alla reintroduzione della tassa di soggiorno ed il meccanismo dell’Imu. Guerrini si è detto «fortemente preoccupato, perché la tassa di soggiorno penalizza la competitività del nostro sistema turistico. E siamo fortemente preoccupati che la nuova imposta destinata a sostituire l’Ici sulle seconde case e sugli immobili produttivi in realtà provochi un deciso innalzamento della pressione fiscale sulle imprese del Paese», ha concluso.

Al vaglio un pacchetto tra i 60 e 80 miliardi di euro. Ma Atene dovrà fare le privatizzazioni e accettare ulteriori tagli alla spesa

Grecia, servono altri aiuti

Europa e Fmi studiano un nuovo piano per evitare il fallimento di Francesco Pacifico

L’attuale programma di aiuti a favore della Grecia da parte di Ue e Fmi, con 110 miliardi di euro totali, prevede un parziale ritorno del Paese sui mercati con emissioni di bond a lunga scadenza dal prossimo anno. Ma sulla previsione pesano le tensioni e le incertezze sull’avvio dei piani di rientro del prestito e le voci di un nuovo programma di aiuti

ROMA. I mercati scommettono su un nuovo pacchetto di aiuti da 60 miliardi di euro. Anche se c’è chi azzarda che ne siano necessari cento. La Germania e tutti i guardiani dell’euro pretendono ancora lacrime e sangue. E in mezzo c’è la Grecia, oggi bloccata dall’ennesimo sciopero generale contro l’austerity.

Atene, da un lato, spera in un nuovo sconto da parte dei partner, magari sotto forma di allungamento dei termini di restituzione del prestito. Dall’altro paga tutto il prezzo della crisi riconoscendo (come ha fatto nell’asta di ieri) a chi sottoscrive i suoi bond a breve termine una rendita del 4,88 per cento. Un tasso in rialzo di 8 punti rispetto all’ultima asta del 12 aprile. A dispetto di quanto pensa Standard & Poor’s, Georges Papandreou prova a tranquillizzare l’Europa: «La maggioranza schiacciante del mio popolo vuole che continuiamo con i grandi cambiamenti necessari». Ma siccome sotto il Partenone non si decide soltanto il futuro della Grecia, Angela Merkel ha fatto la voce grossa: «È ancora troppo presto per decidere se Atene avrà bisogno di ulteriore aiuto finanziario». Per la cancelliera, «in primo luogo si deve capire qual è lo stato della situazione. Solo allora, eventualmente, posso decidere cosa deve essere fatto. Noi non facciamo nessun favore né alcuna speculazione sulla Grecia. Io sono il tipo di persona che trae le conseguenze dopo aver visto e analizzato i numeri». E i numeri dovranno fornirli gli ispettori della Ue, della Bce e del Fmi. Da ieri nella capitale greca, stanno vagliando i conti di Atene per capire dove (e quanto) si può ancora tagliare. E soprattutto se il governo rispetta gli impegni presi in cambio del salvataggio da 110 miliardi. Lavoro propedeutico alla decisione di un nuovo intervento, che potrebbe essere presa all’Ecofin di lunedì prossimo. Non certo una missione di routine. Il commissario agli Affari economici e monetari, Olli Rehn, ha allungato il ti-

ming e parlato di «una decisione nelle prossime settimane». Ma il politico finlandese, pur confermando che «è presto per indicare cifre precise», ha annunciato un nuovo approccio, più pragmatico, di Bruxelles alla gestione di crisi come quella greca. Infatti è balsamo per tutti i Pigs sapere che verranno abbassati i tassi dei prestiti concessi all’Irlanda, mentre il Portogallo si vedrà riconosciuto un livello del 5,5 per cento. Certa, invece, la caduta dell’euro. Che non aiuta nemmeno le esportazioni dell’area e che appesantisce a dismisura gli spread tra i titoli dell’area e il bund tedesco. Non a caso la Cina, anche per la debolezza della moneta verso dollaro e yen, ieri ha potuto annunciare un nuovo record per le esportazioni: +29,9 per cento su base annua a 155,7 miliardi di

dollari, con un avanzo di 11,4 miliardi per la bilancia commerciale. Sulla stessa scia Corea, Taiwan e Malesia. Complice il downgrading sulla solvibilità di Atene deciso da Standard & Poor’s, la divisa europea ieri ha aperto con l’ennesimo record negativo sul dollaro (1,4285). Quindi è risalita progressivamente spinta dai rumors su un nuovo pacchetto d’aiuti e dal miglioramento del deficit commerciale dell’altro malato d’Europa, il Portogallo, per poi chiudere a 1,4355 dollari.

I “cambisti” temono che una nuova stretta sul debito greco metta in ginocchio il sistema bancario, a sua volta è legato a doppio filo alle maggiori realtà creditizie tedesche e francesi. Moody’s è pronta a declassare otto istituti. Si inne-

scherebbe una spirale, che soltanto una proroga del fondo di stabilità finanziaria europea (Fesf) può evitare. Per le stesse ragioni, invece, hanno virato in positivo le Borse. E guarda caso hanno ripreso terreno proprio i titoli dei bancari altamente penalizzati nei giorni scorsi. Milano chiude in crescita dello 1,47 per cento, mentre nel resto d’Europa Londra sale dell’1,28, Francoforte dell’1,23, e Parigi dell’1,13. Se la credibilità sul debito greco è ai minimi, ancor più bassa è quella nutrita sulla capacità del suo governo di mantenere gli impegni presi in cambio del primo salvataggio da 110 miliardi. Olli Rehn ha reso onore alla Grecia, «che è riuscita ad effettuare una riduzione di 78 punti del suo rapporto deficit-Pil. È un risultato molto significativo». Ma non


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Arrestato il boss camorristico del clan di Giugliano

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

NAPOLI. Mega operazione coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Napoli, ieri, per arrestare sette persone, con l’accusa di associazione per delinquere di stampo mafioso. Preso anche Feliciano Mallardo, detto ”o’ sfregiato”, il boss del clan camorrista di Giugliano, in Campania. Sequestrati 900 immobili e 23 aziende, per un ammontare complessivo di oltre 600 milioni di euro. Gli arrestati, secondo le indagini, sono appartenenti ad una cellula, direttamente comandata dai vertici del clan Mallardo, che aveva costituito numerose società, operanti nelle province di Roma e Napoli, con le quali venivano investite le ingenti risorse derivanti dai traffici illeciti. Le aziende del clan avevano acquisto il controllo di interi settori economici: dalla produzione e commercializzazione del caffè, ai centri scommesse, al commercio all’ingrosso di bibite e prodotti parafarmaceutici. Nel settore edile gli arrestati hanno

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

effettuato, per conto del clan Mallardo, speculazioni edilizie e costituito numerose società immobiliari operanti soprattutto in provincia di Roma. Sigilli su alcuni cantieri edili e su circa 230 tra terreni e unità immobiliari tra Roma, Mentana, Guidonia Montecelio, Monterotondo e Sant’Angelo Romano. «Un’altra operazione straordinaria che dimostra come la nostra strategia stia funzionando», ha commentato il ministro dell’Interno, Roberto Maroni.

Da sinistra, il presidente della Bce JeanClaude Trichet, quello del Fmi Dominique Strauss-Kahn e la cancelliera Angela Merkel

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

basta ancora per «stimare il fabbisogno per il 2012», per capire se il Paese può farcela da solo. Ecco perché la Merkel evita di fare vaticini. Gli operatori e gli analisti però sembrano certi che come c’è stato un rallentamento nell’applicazione del piano di rientro così la nazione non sia in grado di ritornare a rifinanziarsi direttamente sui mercati. Di conseguenza, si va verso un prolungamento della fase di aiuti da parte di Ue e Fmi, che però sarà pagata a caro prezzo. Prima il Wall Street Journal ha parlato di un nuovo pacchetto da 60 miliardi di euro. Quindi è toccato all’agenzia Dow Jones, mettere assieme voci capziose diffuse da funzionari del governo greco e aspettative degli operatori per confermare l’ipotesi. E poco importa se l’esecutivo l’abbia smentita. Secondo Dow Jones il piano di aiuti da 60 miliardi sarebbe stato orchestrato già venerdì scorso al summit straordinario tra i ministri dell’Ecofin e Jean-Claude Trichet. Dove i presenti, pur restii a fare ulteriori concessioni, si sono convinti che non c’è altra strada per garantire la linfa necessaria al Paese. La quale ha scadenze vicine ai 27 miliardi di euro nel 2012 e ad altri 32 miliardi nel 2013. Il quotidiano ellenico Kathimerini ha spiegato che al Fmi non si esclude un intervento tra gli 80 e 100 miliardi, con un’iniezione da 30 miliardi soltanto per il fabbisogno fino al 2013. Soprattutto

Papandreou conferma le misure di austerity prese nei mesi scorsi. Ma i partner non hanno più fiducia in lui

lità del debito greco, a giugno». E in quest’ottica anche le ipotesi di bailout greco finiscono per essere respinte dai guardiani dell’euro. Il governatore della Banca del Lussemburgo, Yves Mersch, ha sentenziato che «la ristrutturazione del debito della Grecia non è un’opzione. Siamo in uno stato di diritto, c’è un programma scritto da rispettare». Il premio Nobel Paul Krugman ha aggiunto che «l’uscita dalla moneta unica farebbe male alla Grecia nel lungo termine. La situazione più a lungo resta irrisolta, minore è la speranza che il Paese sia in grado di resistere».

ha chiarito le nuove condizioni che Bruxelles vuole imporre ad Atene. Chiaramente più rigide che in passato. Intanto un maxi piano di privatizzazioni per garantire le emissioni: da cedere le quote detenute in Hellenic Telecom, nella società elettrica nazionale Public Power, nell’aeroporto di Atene. Se non bastasse, anche nuovi licenziamenti nell’amministrazione pubblica e tagli alla spesa per ulteriori 7 miliardi.

Governi e organismi finanziari, intanto, sentono di dover riprendere la loro battaglia contro la speculazione. Dalla Bce Lorenzo Bini Smaghi si è scagliato contro chi incentiva l’ipotesi bailout per suo tornaconto personale, come «i possessori di Cds, che assicurano contro il rischio di default sovrano, spesso senza nemmeno possedere i titoli di stato». Dalle colonne della Stampa il nostro rappresentante nel board dell’Eurotower ha sottolineato le responsabilità di «alcune banche d’affari e da studi di avvocati in cerca di provvigioni che si erano però dimenticati di evidenziare gli effetti negativi». Tutte realtà che avrebbero fatto credere al governo greco di riuscire a ottenere uno sconto sul conto da pagare per sistemare le dissestate finanze pubbliche.

Soltanto l’Ecofin del 16 maggio, lo stesso che dovrà anche ratificare un nuovo intervento di aiuto al Portogallo, farà chiarezza. Secondo un alto funzionario citato dal Wall Street Journal, la Grecia si aspetta che una decisione finale sull’eventuale nuovo pacchetto venga presa «dopo il rapporto sulla sostenibi-

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kype: un’azienda con un giro d’affari da 860 milioni di dollari, ma che perde 7 milioni all’anno. Cui a giugno si sono connessi 124 milioni di utenti, ma di cui solo 8,1 paganti. Con un know how che nessuno possiede nel Voip, con relazioni di primo piano con i carrier e le telecom attraverso accordi per la transizione alle reti Lte ad alta velocità, ma che non è mai riuscita a convincere investitori e pubblicitari a sostenere il proprio business. Nel 2005 eBay l’aveva rilevata per 3,1 miliardi di dollari, ma già nel 2009 aveva deciso di dar via i due terzi del pacchetto azionario al prezzo di realizzo di appena 2 miliardi di dollari, a un gruppo di investitori tra cui spiccavano il fondo Silver Lake, Canada Pension Plan Investment Board e Andreessen Horowitz. Come si dice a Roma, «jel’hanno tirata dietro». Come mai adesso una vecchia volpe come Bill Gates ha deciso di spendere 8,5 miliardi per portare nell’orbita Microsoft un carrozzone del genere? La risposta, probabilmente, sarebbe data meglio se si potesse esprimerla in ugro-finnico. Nel senso che va considerata assieme all’altra decisione per cui a marzo sempre Microsoft ha stipulato con Nokia l’alleanza globale per cui si è impegnata a versarle un miliardo di dollari in cinque anni: per sviluppare e promuovere gli smartphone con a bordo il proprio sistema operativo, in cambio di un fee di Nokia per ogni copia di Windows Phone utilizzata sui propri terminali, all’utilizzo dei brevetti della stessa Nokia e a un’intesa su una strategia di marketing condivisa.

S

Nokia e Skype, appunto. Ovvero: Finlandia ed Estonia. Due Paesi appena divisi dallo Stretto di Finlandia, con le due capitali che stanno ad appena 80 km l’una dall’altra. Ma uniti dalla fede

il paginone

Il Colosso di Redmond conclude il più grande affare della sua storia. Una mossa luterana. E dalla passata dominazione svedese. E dal ricordo di dure lotta di indipendenza contro russi e sovietici. E da due lingue appartenenti alla più vasta famiglia ugro-finnica assieme a ungherese e lappone, ma che tra di loro sono talmente simili da permettere la mutua incomprensibilità, e da essere considerate da qualche linguista semplici varianti dialettali di uno stesso idioma. E, da ultimo, dalla comune entusiastica adesione alle New Economy. La Finlandia, così, è diventata Nokialand. Pochi Paesi industrializzati dipendono infatti da una singola società come la Finlandia da Nokia: un terzo della capitalizzazione in Borsa, un quarto dell’export, il 3,5% del Pil, l’1,1% dell’impiego. Una storia che inizia nel 1865 con la fondazione di una segheria.

Vede questa segheria spostarsi nel 1871 nella cittadina di Nokia, per sfruttare l’energia a buon mercato del locale fiume. Poi nel 1902 per utilizzare la stessa corrente alla segheria si aggiunge una centrale elettrica. Nel 1904 la centrale attrae una società leader nella fabbricazione degli stivali di gomma. Nel 1912 attorno alla lavorazione della gomma nasce una terza società produttrice di cavi telefonici. Nel 1918 e 1922 la società degli stivali compra rispettivamente la segheria e la fabbrica di cavi, anche se una Nokia unificata non verrà costituita formalmente se non nel 1967.

Colpo grosso di Bill Gates che per 8,5 miliardi di dollari batte Facebook e Google conquistando la società di telefonia che collega milioni di utenti via internet

Microsoft stac

di Maurizio Dopo il 1945 si accolla l’onere patriottico di fornire la quota di cavi telefonici richiesta dall’Urss alla Finlandia col Trattato di Pace, mettendo però così le mani sul mercato del blocco comunista. Dopo il 1973, vedendo che la crisi energetica sta mettendo gran parte dei suoi prodotti tradizionali fuori mercato, cerca per un po’ di ampliare il suo business ai televisori. E infine nel 1989, proprio mentre il crollo del blocco dell’Est fa crollare il Pil e fa schizzare la disoccupazione al 20% in una Finlandia che si era adagiata troppo su quel mercato, la Nokia sbarca nel mondo dei telefonini con prodotti user friendly, usabili senza doversi rompere la testa per ore sui manuali di istruzione. L’intuizione salva la Finlandia, trasformandola nella Nokialand. E Favorisce il decollo della

Silicon Valley di Helsinki. Tuttora Nokia è la numero uno mondiale dei cellulari: nel 2010, il 32,6% dell’1,4 miliardi di apparecchi venduti. Ma dal 2004 Nokia inizia a perdere la sfida dei cellulari di terza generazione. Anch’essa, per la verità, inizia a creare i suoi smartphone. Ma sembra soffrire questa corsa alla complicazione, che trasforma in handicap quella semplicità che era stata la sua arma vincente. E appunto per superare l’handicap Nokia iniziato a cercare nuove sinergie tecnologiche, fino agli accordi con Intel e appunto con Micro-

banda larga è un diritto sancito dalla Costituzione; bar e ristoranti offrono un collegamento wireless gratis ai clienti; il 99% delle transazioni bancarie avviene via Internet; esiste una carta d’identità elettronica che consente l’accesso ai servizi della Pubblica Amministrazione via pc; e anche il diritto di voto può essere esercitato via Internet a semplice richiesta. E sono stati appunto i tre estoni Jaan Tallinn, Ahti Heinla e Priit Kasesalu a studiare la soluzione tecnica che ha permesso la nascita di Skype, anche se l’idea originale era venuta dallo sve-

Con i soldi dell’operazione verranno appianati i debiti del gruppo, che ha chiuso lo scorso anno con una perdita di 7 milioni di dollari nonostante gli 860 milioni di fatturato soft. Ma accanto a Nokialand, c’è appunto l’e-Stonia. Dove lo Stato ha deciso di investire l’1% del Pil all’anno sulla tecnologia dell’informazione applicata alla Pubblica Amministrazione, il cosiddetto E-government; dove nel febbraio del 2000 il Parlamento ha stabilito per legge il diritto del cittadino alla connessione; e dove il 7 aprile del 2004 lo stesso diritto a Internet è stato inserito nella Costituzione. In Estonia ci sono dunque oggi 1140 punti Wi-Fi; tutte le case hanno oggi l’Adsl; il collegamento in

dese Niklas Zennström e dal danese Janus Friis: ovvero gli stessi del popolare client di file sharing Kazaa. Formalmente Skype Limited ha la propria sede centrale a Lussemburgo, ma il 44% dei suoi dipendenti sta nella capitale estone Tallinn, e a Tallinn viene svolta anche la gran parte dell’attività di sviluppo. Microsoft, dunque, i computer. La finlandese Nokia i telefonini. E l’estone Skype i telefoni. Definizione tecnica del prodotto, nato nel 2002: «un software proprietario freeware di mes-


il paginone

sa nel segno di Windows 7 (e di Nokia). Ora si attende il via libera dell’Antitrust

cca il telefono

o Stefanini saggistica istantanea e VoIP. Esso unisce caratteristiche presenti nei client più comuni (chat, salvataggio delle conversazioni, trasferimento di file) ad un sistema di telefonate basato su un network Peer-to-peer». Tradotto in altri termini: con Skype si può telefonare via Internet, e cioè gratis. O meglio: sfruttando quel che già si paga per usufruire della connessione Internet. Il che, però, ha finora contribuito soprattutto ai guadagni dei provider di Internet, piuttosto che della stessa Skype.

In pratica, gli unici che pagano sono quelli che si abbonano a SkypeOut: che permette di chiamare a telefoni fissi, anche se a costi minori che non le chiamate tradizionali. Ma se Skype viene offerta come gadget con un pc o con un telefonino, ovvio che può diventare un affare redditizio. «Mirare al costo zero», è la quarta delle dieci famose regole della New Economy di Kevin Kelly. Poiché il valore non dipende più dalla scarsità ma dall’abbondanza, allora la generosità produce ricchezza. Arrivare a regalare certe utilità previene il crollo dei prezzi, e permette di trarre vantaggio dall’unica cosa che è veramente scarsa: l’attenzione umana. La New Economy

dunque regala giornali per vendere pubblicità, regala abbonamenti a Internet e cellulari per vendere telefonate, regala software per vendere computer. E può regalare la piattaforma Skype appunto per promuovere i servizi Microsoft e i cellulari Nokia. Ma nel decalogo di Kevin Kelly c’è anche la regola numero cinque: “alimenta la Rete per prima”. Dal momento che le

reti incrementano la ricchezza, l’obiettivo primario di un’impresa non è più centrato sulla massimizzazione del proprio valore, ma di quello dell’intera Rete. Se muore la Rete, muore anche l’impresa. Dunque, per competere con successo bisogna saper collaborare con i concorrenti, dal momento che le aziende hanno successo solo se la maggior parte delle altre aziende ha successo. E

Creato nel 2003, Skype offre telefonate gratuite o a prezzi bassi sfruttando la tecnologia Voip. Ha più di 800 milioni di utenti, 124 milioni connessi al mese, di cui 8.1 milioni paganti

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fu proprio per aver approfittato di un errore del genere, che Bill Gates è divenuto Bill Gates. All’origine del Pc, infatti, fu il grande scontro tra Apple con il suo Macintosh e la Ibm. Il sistema di icone della Apple era migliore, perché più semplice da usare che non il pesante schema di ordini da scrivere in inglese della Ibm. Ma la Apple fece l’errore di chiudersi nella torre d’avorio della sua eccellenza, mentre la Ibm accettò di rendere il proprio sistema compatibile. E la trovata della Microsoft, che le ha dato un primato che tutt’ora resiste, fu appunto quello di clonare con le “finestre”di Windpws il sistema a icone della Apple, in un ambiente Ibm-compatibile.

Grazie a questa intuizione, Windows ha chiuso la Apple nella sua nicchia dorata, riuscendo anche a competere con successo con la sfida del sistema libero Linux: a proposito, inventato anch’esso in Finlandia. Ma quel grande successo, da cui la liquidità di 50 miliardi di cui Microsoft dispone, non ha impedito a Gates di infilare tutta una serie di papere successive, perdendo regolarmente tutta una serie di appuntamenti successivi. Primo fra tutti, quello di non aver creduto all’inizio a Internet. Così, gran parte della storia successiva di Microsoft è stata un continuo approfittare della sua posizione dominante per imporre i propri “strumenti” al posto di chi ne aveva già inventati di altri, e al costo di farsi appunto punire a ripetizione dall’anti-trust europea. E così, ad esempio, è riuscita a imporre il browser Explorer contro Navigator. Ma quando si è imposto Google non è riuscita più a togliergli il primato dei motori di ricerca, malgrado abbia via via cercato di contrapporgli i vari Msn Search, Windows Live Search, Live Search, Bing. E così, dall’alto del suo primato Google ne ha approfittato per sfidare a sua volta Explorer con Google Chrome. Ma ancora peggio è andata dall’altronde col boom di Wikipedia, che dal 2009 ha costretto Microsft a chiudere la sua Encarta. Come si vede, è un problema abbastanza parallelo a quello di Nokia. «A volte due cattivi ne fanno un buono», dice però il nuovo governo. E tre magari si può spiegare che facciano meglio ancora: primato pur in bilico di Windows che deve riuscire a imporsi anche fuori dei sistemi operativi; più primato pur in bilico di Nokia che deve riuscire a imporsi anche nei cellulari dalla terza generazione in poi; più primato di Skype che deve riuscire a tradursi in un utile materiale. Dunque: rafforzare il sistema operativo per telefonini con un software in grado di competere con Google Voice di Android e Face Time di iOs. E impedire che su Skype mettesse invece le mani Google, a sua volta impegnata in una corsa in cui il terzo incomodo era Facebook e in cui il prezzo era salito prima a 3 miliardi e poi a 4. Certo: inserire direttamente Skype nel sistema operativo significherebbe mettere in allarme tutte le authority del mondo. Forse meglio dunque diluirlo all’interno di Windows Live e messanger. Nel frattempo, secondo gli analisti i soldi li ha messi Gates, ma il grande vincitore è finora Zuckerberg. A Facebook infatti non interessava tanto avere Skype per sé, quanto piuttosto toglierla a Google. Che tanto agli asset Skype tramite Microsoft ci riuscirebbe ad accedere lo stesso.


mondo

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Colpite le sedi della tv di Stato e dell’agenzia Jana. Ma l’Alleanza assicura: «Nessuna escalation in corso»

Il giallo di Gheddafi Ancora bombe su Tripoli. La Nato: «Non sappiamo se è vivo o morto» di Antonio Picasso ivo o morto che sia Gheddafi, gli obiettivi della Nato sono «solo militari». Non è chiara la posizione dell’Alleanza atlantica di fronte all’incalzare degli eventi in Libia. Per gli osservatori è difficile fornire un’analisi esaustiva del conflitto. Le forze in campo, al contrario, dovrebbero essere in grado di tracciare con maggiore certezza lo scenario. Se non altro sulle sorti del Colonnello. I ribelli lo danno per spacciato. I suoi fedelissimi smentiscono. La Nato non si sbilancia. Peraltro, appare strano che Gheddafi non sia classificato come un target da colpire nei raid. «Noi non prendiamo di mira singoli individui», ha puntualizzato Carmen Romero, numero due dell’ufficio stampa alleato. Ieri, l’attenzione si è concentrata sulle sorti di Misurata, come appunto sull’ipotesi di morte di Gheddafi. Entrambe le notizie restano avvolte dall’incertezza. L’eventuale scomparsa del Raìs dovrebbe indurre Bruxelles a esprimersi con maggiore sicurezza. La Nato, infatti, non potrebbe che sperare di meglio. Un’escalation in suo favore, con annessa eliminazione di Gheddafi, aprirebbe un varco di uscita da questo inatteso ginepraio libico. È certo, infatti, che Sarkozy – ormai due mesi fa – non si aspettasse di gestire una guerra tanto lunga e dai contorni sfumati. I quasi 2.300 raid compiuti dagli alleati peseranno sulle casse di ogni nazione coinvolta, ma soprattutto sull’immagine di coloro che ambivano a mostrare i muscoli di fronte ai propri elettori. Ed è sempre di ieri la richiesta dell’Onu di aprire una tregua negli scontri per alleviare le sofferenze della popolazione. Morto Gheddafi, lo stand by si trasformerebbe nell’auspicabile resa incondizionata dei suoi uomini. «Gheddafi è finito», dichiarava lunedì il segretario della Nato, Anders Fogh Rasmussen. Parole volte a dare fiducia ai ribelli nel teatro di guerra, come pure alle forze militari dell’Alleanza impegnate nei cieli libici. Finito sì. Morto però? La dichiarazione del diplomatico danese non conferma l’uccisione del Raìs. All’ini-

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zio della guerra, Bruxelles si era mossa con la convinzione di poter scalzare Gheddafi e installare un governo amico a Tripoli. Una sicurezza, questa, che si è rivelata eccessiva. Le forze fedeli al Colonnello hanno dimostrato una tenacia tutto sommato prevedibile. Si tenga presente che l’esercito libico, fino al 2010, era ritenuto il più qualificato di tutto il Nord Africa. Oggi, l’eliminazione fisica di Gheddafi fiaccherebbe repentinamente il nemico.

Tecnicamente parlando, la Nato non sarebbe fuori dagli schemi. La risoluzione Onu n. 1973, infatti, autorizza il ricorso a «tutti i mezzi necessari per proteggere i civili, a esclusione di qualsiasi azione che comporti la presenza di una forza occupante». In pratica, se Gheddafi fosse morto nei raid che lunedì notte ha preso di mira il

L’Onu ha lanciato un appello per una tregua, necessaria per far fronte all’emergenza umanitaria. Soprattutto a Misurata suo bunker a Tripoli, nessuno potrebbe recriminare azioni illegittime. In realtà, è ancora tutto da dimostrare. Fino a ieri pomeriggio, si parlava del compound pesantemente colpito dalle bombe Nato. La notizia associata all’assenza del Colonnello dalla scena pubblica, ormai dalla fine di aprile, ha innescato il meccanismo delle congetture. La smentita si è svelata in fretta. Senza essere, però, sufficientemente esaustiva per dimostrare che Gheddafi sia ancora in vita. Secondo alcune testimonianze, pare che il rifugio del Colonnello non sia stato nemmeno bombardato. Va detto inoltre che, se il Raìs non si mostra alle telecamere è perché, proprio alla fine del mese scorso e nel medesimo bunker in questione, è morto suo figlio, Saif al-Arabi. A questo punto, invece che arrivare alla conclusione

affrettata della sua morte, perché non pensare che Gheddafi abbia scelto di manovrare le proprie truppe da una postazione più protetta? Non è altrettanto certo se l’assedio di Misurata sia stato finalmente rotto. Nel pomeriggio di ieri, le informazioni apparivano poco chiare. Pare che i ribelli abbiano respinto a quindici chilometri dal centro della città le forze filo-Gheddafi. Queste avrebbero ancora il controllo dell’aeroporto. Sulla terza città del Paese si è abbattuta la furia gheddafista. La scorsa settimana, i suoi uomini avevano impedito l’attracco e la partenza di alcune navi impegnate nel soccorso umanitario. Il bombardamento di quattro depositi petroliferi, nella zona portuale, ha provocato una serie di incendi che, al momento, risultano ancora difficili da domare. Nel frattempo, Human Right Watch (Hrw) e la Croce Rossa hanno denunciato la scarsità di cibo, acqua e medicinali.

La prima ha aggiunto una prima stima di vittime dell’assedio: duecento in questi due mesi. Forse trecento. La viru-


mondo

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La moglie del presidente fugge a Londra, il fratello sanzionato dalla Ue

Assad dà il via ai rastrellamenti

Da giorni la Guardia Repubblicana siriana cerca i capi delle rivolte. La Ue minaccia l’inasprimento delle pene di Luisa Arezzo a pressione internazionale sul regime di Bashar al Assad in Siria è aumentata nelle ultime ore: ieri sono entrate in vigore le sanzioni approvate la scorsa settimana dall’Unione europea contro 13 alti esponenti del regime, tra cui il fratello minore del presidente siriano, Maher, capo della Guardia Repubblicana, ma non è escluso (lo ha detto ieri il ministro degli esteri tedesco Westerwelle) un inasprimento delle restrizioni se il regime non darà segnali di dialogo. Il provvedimento, che impone il congelamento dei beni e il divieto di visto, è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale dell’Ue. Maher al Assad, 43 anni, presentato come “il principale”responsabile della repressione contro i manifestanti, precede sulla lista il capo dell’intelligence, il generale Ali Mamlouk, 65 anni, e il nuovo ministro dell’Interno, Mohammad Ibrahim al Shaar. Il provvedimento adottato dall’Ue prevede anche un embargo sulle armi verso la Siria. Intanto, secondo la stampa britannica, la moglie del presidente Assad, Asma, sarebbe fuggita nel Regno Unito con i suoi tre figli. La donna, 35 anni e con dopia cittadinanza (siriana e britannica) alloggerebbe in una casa a Londra o vicino alla capitale. La first lady siriana non è più apparsa in pubblico da quando sono iniziate le proteste contro il regime, ma fino a pochi giorni fa era data per certa la sua presenza accanto al marito. Ora ha ceduto: di fronte alle crescenti violenze è stata invitata «ad andarsene il prima possibile» e «la sua prima reazione è stata quella di andare a Londra perchè la sua famiglia è lì», ha detto una fonte diplomatica araba. «La sua partenza è avvenuta nel massimo riserbo, ma ora è al sicuro lì con i suoi tre figli, circondata dalle guardie del corpo», ha aggiunto la fonte.

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lenza degli attacchi è giustificata dai lealisti in quanto i ribelli sarebbero sostenuti da differenti gruppi terroristici. Da quasi un mese,Tripoli avverte della presenza Abdelhakim al-Hasari, esponente di al-Qaeda, giunto in Libia per coordinare la rivolta. Da qui, il ricorso ad armi pesanti contro la popolazione. Sia Misurata sia altrove. Qaedisti o no, gli uomini del Colonnello stanno facendo di tutto per creare una crisi umanitaria, che dovrà essere gestita dal futuro governo libico.

È il grottesco canto del cigno del dittatore nordafricani. Il suo modo di avvelenare i pozzi prima della fine. Il regime non ha nulla da perdere. Tanto meno ora che il procuratore della Corte Penale Internazionale, Luis Moreno-Ocampo, sta preparando un atto di accusa per crimini di guerra e contro l’umanità, nei confronti di Gheddafi, del figlio Seif-al-islam e per il capo dei servizi segreti, Abdullah al-Senoussi. L’iniziativa sarebbe rafforzata dalla notizia sul reclutamento di soldati bambini. Il quotidiano britannico, Daily Telegraph, ha raccolto le testimonianze di due minorenni, catturati ad aprile dagli insorti, che hanno dichiarato di essere stati addestrati e poi spediti al fronte. A Misurata sono state consegnate loro le armi, con la minaccia di essere uccisi in caso di diserzione o di resa. Unico contrappunto positivo, rispetto alla nebulosa di informazioni, è dato dalla bonifica delle acque prospicienti il porto della città. «Abbiamo tolto le mine che le forze pro-Gheddafi avevano piazzato lungo i corridoi di avvicinamento al porto di Misurata lo scorso 29 aprile. Due di questi ordigni sono stati distrutti dalle navi dell’Alleanza. Mentre una terza, che non è stata trovata non è più considerata una minaccia impellente». Lo ha comunicato il generale di brigata Claudio Gabellini, Chief Operations Officer per la missione Unified Protector.

In alto: ecco cosa resta di una parte del bunker di Gheddafi dopo i bombardamenti della coalizione. A sinistra: il Raìs (che non si vede in pubblico da ormai 10 giorni, tanto da alimentare il sospetto che sia ferito o addirittura morto) e alcuni lealisti che calpestano la bandiera americana in segno di disprezzo. A destra, Asma Assad, la moglie di Bashar, fuggita a Londra con i tre figli del presidente

ta a porta, ha sostenuto in una intervista al New York Times di aver «probabilmente» domato le rivolte. «Credo che abbiamo superato la fase più pericolosa. Lo spero e lo credo», ha detto Bouthaina Shaaban, portavoce ufficiale del governo e consigliere di Bashar al Assad. Peraltro convinto dell’imminente inizio di un dialogo ufficiale con le opposizioni (bisogna dire che ieri - anche se il se è d’obbbligo) sembra siano stati liberati cinque esponenti dell’opposizione. Fra questi lo scrittore Fayez Sara (arrestato l’11 aprile), il leader del partito popolare democratico Georges Sabra (arrestato il 10 aprile) e il militante Kamal Sheikho, arrestato il 16 marzo. Detto questo, sempre ieri l’esercito ha continuato i suoi rastrellamenti a Baniyas, Bayda, Marqab e Latakia - principale porto siriano, nella provincia di Damasco - nonché a Idleb, nel nord-ovest.

Secondo Amnesty International sono 580 le persone morte dall’inizio delle rivolte, a metà marzo. Mentre ora dopo ora emergono nuovi dettagli sulla sanguinosa repressione delle proteste: le forze di sicurezza siriane usano gli stadi di calcio delle città di Baniyas e Dara’a come prigioni in cui trasferire le persone arrestate durante le retate condotte negli ultimi giorni in centinaia di case (solo a Baniyas gli arresti sarebbero oltre 450. La guardia repubblicana sta infatti cercando di arrestare i capi politici dell’opposizione, come Anas al-Shaghri. Ma ciononostante gli autori del sito Syrian Revolution 2011 hanno scritto su Facebook che «le manifestazioni proseguiranno tutti i giorni» e hanno invitato a una «giornata di solidarietà con i detenuti politici rinchiusi nelle prigioni del criminale regime siriano». E questo in attesa delle manifestazioni di venerdì prossimo, che non hanno ancora un nome (“della sfida” e “della rabbia” sono già stati usati), ma sono già in corso di preparazione. Certo che è paradossale che venerdì scorso, mentre il presidente Bashar al-Assad deponeva una corona di fiori sulla tomba dei martiri siriani caduti negli scontri con l’esercito turco cento anni fa (quando i soldati ottomani aprirono il fuoco contro i manifestanti che chiedevano la fine dell’occupazione turca), le forze di sicurezza e l’esercito della Siria aprivano il fuoco contro i dimostranti a Homs e Hama. Chissà che Assad non abbia saputo trarre insegnamento da questo episodio, riflettendo sul fatto che l’occupazione turca è finita e l’impero ottomano è crollato.

In una ricerca porta a porta la polizia irrompe a Baniyas, Bayda Marqab e Latakia, principale porto di Siria

Ma se la first lady è al sicuro, lo stesso non si può dire per il suo popolo, che continua imperterrito a scendere in piazza ed a protestare pacificamente da sette settimane a questa parte. Venendo regolarmente soffocato nel sangue o condotto nelle carceri del Paese (peraltro gli arresti sono così numerosi che due stadi sono stati trasformati in galere a cielo aperto). Una situazione gravissima che il regime continua a negare, tanto che ieri si è consumato l’ennesimo paradosso. Il regime di Damasco, infatti, dopo diversi giorni in cui l’esercito ha bombardato con carri armati e blindati diverse città, procedendo a uccisioni e arresti por-


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grandangolo Prove anche di legami con esponenti italiani di un partito di estrema sinistra

Wikileaks/2: le relazioni pericolose di Chavez il “colombiano”

Pubblicati ieri dall’Iiss alcuni documenti riservati sui ribelli delle Farc che confermerebbero rapporti col governo di Caracas all’insegna di soldi, armi e attentati. Le informazioni diffuse mettono in imbarazzo il presidente venezuelano, descritto come opportunista, doppiogiochista, falso e pronto a qualsiasi voltafaccia per servire i propri interessi.Anche con l’eliminazione di oppositori di Pierre Chiartano colazione con Reyes. Potrebbe essere questo il titolo del libro basato sui nuovi documenti che svelano i rapporti tra Caracas e i capi delle Farc. Relazioni pericolose all’insegna degli interessi di bottega e del puro opportunismo. Soldi, armi, attentati e tradimenti, doppi o tripli, ci sono tutti gli ingredienti per una narco-novelas alla Elmer Mendoza. I rapporti tra il principale gruppo terrorista colombiano e il Venezuela sono di lunga data. Le Farc per anni hanno coltivato rapporti con il governo di Caracas da quando il caudillo Hugo Chavez è montato in sella al cavallo rivoluzionario latinoamericano. Con Washington che appoggiava i governi colombiani, nel tentativo di frenare l’attività dei cartelli della droga, diventava conveniente per il Venezuela giocare di rimessa dando fastidio al vicino di casa e all’odiato yanqui.

A

Ieri è stato pubblicato dall’International institute for strategic studies (Iiss) di Londra un ulteriore capitolo sulla storia delle intricate relazioni tra il gruppo comunista colombiano e il governo di Caracas. Nel 2008 durante un’irruzione in un campo delle Farc nella giungla vengono trovati centinaia di file che provano nel dettaglio i rapporti con i governo venezuelano. Prendono così forma i «Farc file», pubblicati ieri dall’istituto londinese. Il primo marzo le forze speciali e la polizia colombiana, passando il confine, attaccarono la base di Raùl

Reyes e uccisero il leader guerrigliero, dopo un breve ma cruento combattimento. Fra gli oggetti trovati nel suo rifugio, c’erano anche due computer portatili. Un caudillo imbarazzato, nei giorni successivi, aveva commentato: «ora l’arma segreta dei colombiani è un computer, il presunto Pc di Raul Reyes. Questo computer è come un servizio à la carte: vuoi una bistecca? O del pesce fresco? Come vuoi che venga preparato?

I «Farc file» descrivono i contatti tra il Caudillo e le formazioni ribelli degni di una narco-novelas Da quel computer puoi trovare tutto ciò che decidono gli imperialisti». L’ironia di Chavez era motivata da un fatto molto semplice: i file trovati nel portatile di Reyes lo citavano come contatto, come fornitore di armi e persino complice nel narcotraffico. Motivo per cui, nel settembre 2008, il ministero del Tesoro degli Usa aveva inserito nella sua black list tre alti funzionari venezuelani. Gli hard

disk dei computer di Reyes contengono tantissimi altri dati preziosi quali contatti all’estero, trasferimenti di denaro, traffico di droga e alleanze delle Farc.

Nella preziosa documentazione, pubblicata ieri dall’istituto britannico, anche molti inediti del sorprendente archivio segreto di Reyes, al secolo Luis Edgar Devía Silva, capo del comitato internazionale dell’organizzazione rivoluzionaria. Tra i documenti ci sarebbero anche prove di rapporti tra il gruppo e rappresentanti italiani di un partito di estrema sinistra. E i documenti sono così importanti che lo stesso Chavez ha dovuto, poco tempo fa, ammettere che molti politici alleati di governo hanno avuto rapporti con i ribelli colombiani, ma che il tutto sia avvenuto «alle nostre spalle», ha sostenuto il caudillo latinoamericano. Ma dai dossier emerge naturalmente una storia molto diversa. I rapporti con le Farc erano congeniali a Caracas per tenere impegnati sia i colombiani che gli americani in una difficile guerra di logoramento contro le forze ribelli. Una strategia che difendeva gli interessi venezuelani. Nel Duemila ci sarebbe addirittura stato un incontro segreto, in Venezuela, tra Chavez e l’allora leader ribelle Reyes. L’accordo raggiunto in quel vertice prevedeva che Caracas prestasse denaro all’organizzazione comunista per l’acquisto di armi. Ne è nata subito una querelle sull’autenticità dei file, naturalmente montata ad arte

da chi in Venezuela e altrove è piuttosto imbarazzato da ciò che emerge nei dossier. Comunque nel 2008 l’Interpol ha respinto la possibilità che l’archivio, che comprende documenti risalenti al primi anni 1980, sia stato ritoccata. A dimostrazione della validità delle informazioni contenute nel pc di Reyes ci sono diverse operazioni che hanno portato al ritrovamento di un certo quantitativo d’uranio in Colombia e di dollari in Costa Rica. Oltre a numerose operazioni di polizia portate a termine dal governo Canadese, spagnolo e statunitense.

Tutte prove concrete sull’autenticità dei documenti, sostengono all’Iiss. E nel libro è ben descritto il percorso altalenante dei rapporti tra i ribelli e il caudillo. Vere montagne russe della diplomazia segreta che recentemente ha portato il governo di Caracas ad arrestare, Joaquim Pérez, sospettato di far parte dello stato maggiore delle formazioni comuniste. Pérez che aveva visuuto per anni in Svezia, è stato poi estradato in Colombia. Una “creanzella” fatta al governo del presidente Juan Manuel Santos, per rispondere alle continue accuse colombiane che le Farc operino dal territorio venezuelano. Naturalmente i file descrivono dei rapporti «veri» di un politico – Chavez – che utilizza, a seconda degli interessi del momento, certe relazioni pericolose, con bizantinismi degni del più autentico Macchiavelli. Ora si dialoga ed si fanno accordi, ora si tradi-


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Le Farc, nate nel 1964 come formazioni armate, ormai danno segni di stanchezza

Una storia lunga mezzo secolo, tra guerriglia, droga e (molti) affari sporchi di Etienne Pramotton e Forze armate rivoluzionarie della Colombia-Esercito del popolo (Farc-Ep) sono nate il 27 maggio 1964. Si sviluppano come organizzazione marxista-leninista e rappresentano il movimento di guerriglia più antico d’America latina che si batte per essere riconosciuto come parte belligerante nel conflitto colombiano. Politica sostenuta anche dal presidente venezualeno Hugo Chavez. Il presidente Alvaro Uribe ha sempre negato questa possibilità, sostenendo che le Farc sono un’organizzazione criminale, che sopravvivono compiendo atti terroristici, sequestrando ignari cittadini e sfruttando il narcotraffico. «Sono – ha avuto modo di affermare poco tempo fa – i nazisti della Colombia». Negli ultimi anni gli Stati Uniti e l’Unione europea hanno inserito le Farc fra le organizzazioni terroristiche, una decisione che il segretariato dello Stato maggiore della guerriglia respinge e chiede di annullare.

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sce una parte per facilitare l’ascesa di amici. In altri momenti la ragion di Stato prevale su tutto e gli amici di ieri sono gli avversari del momento. E quando faceva comodo politicamente Chavez, senza alcun problema, faceva sponda o alle Farc o ai colombiani. Un bell’esempio di questi comportamenti risale al novembre 2002, pochi giorni prima del previsto incontro tra il rais venezuelano e l’allora presidente colombiano Alvaro Uribe. In quel periodo le Farc avevano chiesto il permesso all’esercito di Cara-

Il Bolivarian intelligence service arruolò le Farc per svolgere alcuni “servizi” poco puliti e attentati in Venezuela cas di poter attraversare il territorio del Venezuela con una spedizione di rifornimenti. Si trattava di semplici uniformi. I militari venezuelani diedero loro il permesso, salvo poi tendergli un’imboscata, catturare alcuni ribelli e permettere a Chavez di arrivare all’incontro con Uribe col prezioso regalo.

Mono Jojoy il capo militare ucciso insieme ad altri nove guerriglieri in un bombardamento nel settembre del 2010, non aveva un’alta opinione di Chavez. Lo considerava un politicante opportunista e disorganizzato. E aveva definito un ex ufficiale della Marina venezuelana, che fungeva da collegamento con Chavez, «uno dei peggiori delinquenti» avesse mai incontrato. Ma questi episodio sono stati l’eccezione nella regola che faceva del suolo venezuelano un porto sicuro per le formazioni paramili-

tari colombiane. Tra le tante “perle” dei venezuelani c’è anche il tentativo dell’intelligence di Caracas, prima chiamata Disip e poi diventata pomposamente Bolivarian intelligence service, di arruolare le Farc per svolgere alcuni “servizi” poco puliti in casa.

Oltre a mettere a segno alcuni attentati dinamitardi nella capitale venezuelana, tra il 2002 e il 2003, i guerriglieri comunisti venivano utilizzati per l’addestramento dei membri delle agenzie venezuelane. Un vero colpo da maestro, vista l’infinita esperienza di questa gente, forgiati da decenni di guerra clandestina. Non è chiaro se fu una decisione presa in autonomia dai capi dell’intelligence di Caracas o se Chavez ne fosse direttamente a conoscenza. Comunque le Farc addestrarono per conto di Caracas numerosi gruppi filo-Chavez, tra cui anche la Bolivarian liberation force, alcuni membri del Partito comunista venezuelano e cellule del gruppo 23 Enero. Poi c’è il capitolo delle richieste “particolari” da parte del caudillo agli amici guerriglieri e narcotrafficanti. Nel 2006, nello stato maggiore delle Farc si discuteva come far fuori Henry Lòpez Sisco, nel 1986 a capo del Dispi e responsabile dell’eliminazione di alcuni gruppi eversivi dell’estrema sinistra venezuelana. «Ci chiesero se era possibile ammazzarlo» avrebbe affermato lo stesso Reyes. Ricordiamo che le Farc, nate negli anni Sessanta per fare una rivoluzione di stampo comunista, hanno poi preso strade diverse per mantenere in piedi l’organizzazione, compreso il traffico di droga. Nel gennaio 2008 il presidente venezuelano – coinvolto come mediatore anche nel sequestro di Ingrid Betancourt – aveva avanzato la richiesta al governo colombiano e a tutta la comunità internazionale di riconoscere le Farc come «forza belligerante» di un conflitto civile e non più come un gruppo terrorista. Un anno in cui probabilmente Chavez aveva da chiedere qualche favore agli amici della giungla.

Esponenti del Partito comunista crearono queste formazioni paramilitari dopo un accordo con il leader delle Autodifese contadine (Ac), Pedro Antonio Marin, conosciuto come Manuel Marulanda Velez e soprannominato Tirofijo, morto il 26 marzo 2008, per un infarto. Le Farc sono guidate dal quasi sessantenne Guillermo Leon Saenz, detto Alfonso Cano, e da un gruppo di altri sette membri tra i quali il comandante militare Jorge Briceño. Nel 1984 le Farc negoziarono la pace con il presidente Belisario Betancourt e crearono un braccio politico chiamato Unione patriottica (Up) che ottenne 15 seggi in Parlamento. Ma otto anni più tardi, dopo che gli attivisti dell’Up furono decimati da «squadroni della morte» di estrema destra, sostenuti da narcotrafficanti e legati all’esercito colombiano, ripresero la lotta armata. Alla fine del 1990, con l’Esercito di liberazione nazionale (Eln) riaprirono negoziati di pace con il presidente liberale Cesar Gaviria, ma due anni dopo le trattative fallirono. In questi anni gli oltre 17mila uomini delle Farc, fortemente armati, hanno attaccato caserme di polizia e infrastrutture energetiche, sequestrato centinaia di persone, imposto «tasse rivoluzionarie» ad imprese e coltivatori di co-

ca, e sono accusati di aver compiuto diversi attentati nelle città. Nel novembre 1998, per promuovere un dialogo di pace, il governo decise di concedere loro un’area di 42mila chilometri quadrati, denominata «zona di distensione». Ma il 20 febbraio 2002 il presidente conservatore Andres Pastrana interruppe bruscamente le trattative revocando il provvedimento ed accusando le Farc di aver compiuto numerosi atti illeciti, tra cui quello di finanziarsi con la produzione di coca. In anni recenti le Farc si sono avvicinate al movimento bolivariano promosso dal presidente venezuelano Hugo Chavez proponendo un accordo umanitario per lo scambio di 45 ostaggi «eccellenti» con 500 guerriglieri nelle carceri colombiane. Nel gennaio del 2008, grazie alla trattativa avviata con Chavez, erano state liberate due donne, la ex deputata Consuelo Gonzalez de Perdomo e Clara Rojas, che nel 2002 era stata sequestrata con la candidata presidenziale del Partito verde Oxigeno, Ingrid Betancourt. La donna, la più famosa tra le personalità sequestrate dai guerriglieri, fu poi liberata dalla prigionia il 2 luglio 2008, più di 6 anni dopo la data del sequestro. Sostenitrice politica di Pastrana nelle presidenziali del 1998 prenderà poi le distanze dall’uomo politico.

Come parte della sua campagna elettorale del 2002 (le elezioni vinte da Álvaro Uribe Vélez), la Betancourt volle andare nella zona smilitarizzata di San Vicente del Caguán per incontrarsi con le Farc. Una decisione non tanto stravagante all’epoca. Molti infatti sono stati i personaggi pubblici e i politici che hanno approfittato dell’esistenza della zona smilitarizzata per incontrarsi con esponenti delle forze ribelli. Sempre nel 2008 si era costituita all’esercito colombiano Nelly Avila Moreno, soprannominata Karina. Una militante del Fronte 47, considerato uno dei più violenti tra le strutture dei rivoluzionari colombiani, dando il via a una serie di defezioni tra le fila delle unità ribelli. A dimostrazione che ormai la stanchezza per decenni di guerriglia senza più una startegia politica stava prendendo il sopravvento.


spettacoli

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Tanti i registi e i film di qualità in concorso. Tra gli italiani spiccano Moretti e Sorrentino. Ma occhio ai francesi...

Habemus Cannes! Quella che si apre oggi è una edizione che si annuncia (finalmente) azzeccata di Alessandro Boschi arafrasando il Monco alias Clint Eastwood nel memorabile finale di Qualche dollaro in più, anche noi italiani leggendo il programma di Cannes potremmo dire «c’è aria di famiglia in quel festival». Dove per famiglia si intende, appunto, la parte più nobile della famiglia cinematografica italiana. E non solo per i due annunciatissimi film in concorso, Habemus Papam dell’adorato (soprattutto dai francesi) Nanni Moretti, e This must be the place di Paolo Sorrentino che già da soli ci danno la forza di una corazzata. Ma per tanti altri motivi. A cominciare dalla Palma Onoraria alla sua prima edizione, che verrà conferita a Bernardo Bertolucci. Oddio, i puristi potrebbero obiettare che in realtà una simile onorificenza era stata già assegnata in una edizione di qualche anno fa a Clint Eastwood. Sì, proprio lui, lo stesso della citazione. Ma non è proprio la stessa cosa, in quanto quel riconoscimento altrettanto meritato era stato istituito in corso d’opera, cioè a Festival già in svolgimento, mentre in questo caso Bertolucci, del quale sarà proiettato Il conformista, sarà il primo a beneficiare di un premio allestito con tutti i crismi.

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Moretti, Sorrentino e Bertolucci, tre nomi che rappresentano tre generazioni differenti di cineasti, a dimostrazione che il tanto spesso e non sempre a torto vituperato cinema italiano qualcosa di buono lo ha sempre fatto e continuerà a farlo. In realtà dei nostri solo Nanni Moretti ha vinto la Palma d’oro nel 2001 con La stanza del figlio, mentre Paolo Sorrentino, giusto tre anni fa, nel 2008, si è aggiudicato il Premio della Giuria con Il Divo. Mentre Bertolucci, più portato a vincere Oscar, ha solo avuto delle nomination anche se, nel 1981, “regalò” a Ugo Tognazzi la possibilità di vincere il premio come migliore attore protagonista con La tragedia di un uomo ridicolo. Breve parentesi: Tognazzi, anche lui adorato dai francesi, era orgogliosissimo di quel premio e aveva scelto di custodirlo nella sua casa sulle

colline del Lazio che lui considerava il suo buen retiro, la cosiddetta “Tognazza”, dove chi scrive ha avuto il privilegio di ammirarlo, il premio, appeso nella saletta di proiezione.

Torniamo al festival e agli italiani ivi presenti. Da segnalare subito Corpo celeste, l’esordio alla regia della sorella di Alice Rohrwacher, sorella della più famosa Alba, primo titolo italiano a essere selezionato per la Quinzaine des realisateurs. Distribuito da Cinecittà Luce, è una storia ambientata tra Reggio Calabria e l’Aspromonte. Le prime indiscrezioni sono molto positive, sperem. Per quanto riguarda gli eventi di contorno, prima di tornare al concorso, e sempre in ambito “Italia mia”, sarà bene non di-

menticare la proiezione de La macchina ammazza cattivi di Roberto Rossellini, del già citato Il conformista di Bernardo Bertolucci e L’assassino di Elio Petri. Tutti e tre gli eventi sono inclusi in Cannes Classics, sezione davvero preziosa dedicata a film restaurati o “ripescati”, una medaglia al valore del festival che, ricordiamo, si aprirà l’11 maggio e si concluderà il 22. Il concorso. Beh, la prima cosa che salta all’occhio è che questa volta, forse, ci siamo. Il grande Terrence Malick sarà dei nostri con The tree of life. Interpretato da Brad Pitt e Sean Penn, protagonista quest’ultimo anche del film del nostro Sorrentino, è senza dubbio l’evento più atteso. Dopo avere saltato a piedi pari tutti i festival della scorsa stagione Ma-

Grande attesa anche per la Palma Onoraria che per la prima volta verrà conferita a Bernardo Bertolucci, del quale sarà proiettato «Il conformista»

lick si concede permettendoci di vedere quello che molti ancora a scatola chiusa definiscono un capolavoro.

Per motivi molto diversi tra loro incuriosiscono molto Melancholia di Lars von Trier, destinato a dividere ancora il pubblico tra chi lo adora e chi, più ragionevolmente, lo considera un intelligente cialtroncello, e Ichimei di Takashi Miike. Il regista giapponese, autore di disturbanti film di culto come Ichi the killer e Zebraman, è davvero capace di tutto e di certo anche intorno alla sua opera c’è una grandissima attesa da parte di orde di sfegatatissimi fan. Grandi aspettative anche per La piel que habito di Pedro Almodovar, che segna il ritorno di Antonio Banderas in un film del regista spagnolo. Il ricostituirsi della coppia d’oro (cinematograficamente parlando) del cinema spagnolo potrebbe preludere ad un altro successo del regista di Calzada de Calatrava già trionfatore nel 1999 con Tutto su mia madre. In verità grande successo anche per Volver, però in quel caso si aggiudicò “solo” il premio per la migliore sceneggiatura. Venendo ai gusti personalissimi di chi scrive ammettiamo il nostro debole per il regista finlandese Aki Kaurismäki che, probabilmente portandosi le “pizze”sottobraccio del suo Le havre, approderà a Cannes senza eccessivi clamori. A nostro avviso Kaurismäki è il regista più geniale e a basso costo del secolo. E lo diciamo sapendo bene di esagerare, ma per l’autore di film come Nuvole in viaggio, go Cowboy Leningrad America, Ho affittato un killer, Juha (muto e in bianco e nero!), Vita da Bohème siamo pronti a

esporci. Anche perché nel 2002, proprio qui, col bellissimo L’uomo senza passato, pur di non assegnargli la Palma d’oro gli vennero conferiti ben due premi: migliore attrice protagonista (Kati Outinen) e Gran premio della giuria. La Palma d’oro andò, come ricorderete al potente ma convenzionale Il pianista di Roman Polanski, per il quale si prodigò non poco la giurata Sharon Stone che evidentemente trovò una valida sponda nel presidente David Lynch. Ergo, verrebbe da dire, agli americani non piacciono i film a basso costo e senza star. Lettura semplice, financo semplicistica, ma tutt’oggi riteniamo che quel verdetto fu una beffa, un’occasione persa; c’era la possibilità di premiare il cinema della passione e delle idee, gli venne preferito il cinema del portento e degli argomenti forti (l’Olocausto).Vedremo quest’anno.

Per i papabili alla Palma d’oro non trascurerei i fratelli Dardenne, Jean-Pierre e Luc, con Le gamin aù velo. O Radu Mihaileanu con La source des femmes. Ma è tutt’altro che da escludere l’exploit dei numerosi, bravi e meno conosciuti concorrenti, venti in tutto. Questo a dimostrazione di un concorso solido e vario. Che inizierà con il film di Woody Allen, non in concorso. Forse il vecchio Woody non avrà più l’appeal di un tempo, ma c’è sempre il serio rischio che Midnight in Paris risulti un bellissimo film. Peraltro già dal titolo sembra avere tutti i presupposti per essere amato dai transalpini. Chiuderà Les bien-amiés di Christophe Honoré, che avrà un cast fatto apposta per la chiusura della monté de marches: oltre a


spettacoli

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I cineasti, come sempre omaggiati al Festival, sono ancora in carcere nel loro Paese

E a sorpresa arrivano anche due pellicole iraniane

Sono «In Film Nist» di Panahi e «Bé Omid é Didar» di Rasulov, giunti in gran segreto su una chiavetta Usb e su un dvd di Andrea D’Addio

CANNES. Jafar Panahi, un anno dopo. Fu nel maggio scorso, durante la conferenza stampa di Copia Conforme di Abbas Kiarostami presentato in concorso al Festival di Cannes, che Juliette Binoche scoppiò in lacrime in mondovisione chiedendo la liberazione del regista iraniano allora incarcerato da due mesi e ancora in attesa di processo. Oggi la Croisette riapre i battenti con la sua 64esima edizione, ma la situazione del cineasta e del suo amico e collega Mohammad Rasulov, incarcerato anch’egli all’epoca, entrambi “colpevoli” di avere pensato e discusso un film sull’Onda verde e l’Iran post elezioni 2009, non è migliorata, anzi, la sentenza di primo grado dello scorso dicembre li ha condannati a sei anni di carcere e a venti lontano dalle scene. Subito dopo il processo, in attesa dell’appello, i due sono stati prima rilasciati e poi, dopo un mese, riportati in carcere. È proprio durante questa finestra temporale che in condizioni di clandestinità, entrambi hanno deciso di realizzare ognuno un nuovo lavoro di cui nessuno, almeno fino all’altro ieri, sapeva nulla e che Cannes a sorpresa ha deciso di includere nel proprio programma. I titoli sono: In Film Nist (il cui significato tradotto, Questo non è un film, ricorda i paradossi di Magritte) e Bé Omid é Didar. Il primo è firmato da Panahi con la collaborazione di Mojtaba Mirtahmasb (altro regista a cui è stato ritirato il passaporto) e verrà mostrato il 20 maggio, fuori concorso nell’ambito di una proiezione speciale, mentre e Bé Omid é Didar è stato inserito nel programma della sezione “Un Certain Regard”il prossimo 13 maggio.

se Gills Jacob aveva voluto dedicare uno speciale pensiero a Panahi: «È sempre nei nostri cuori e nelle nostre preoccupazioni, così come lo sono tutti i cineasti imprigionati nel mondo».

Un messaggio a cui lo stesso Panahi ha voluto rispondere il 5 maggio con una lettera subito pubblica dal Festival: «Il fatto di essere vivi e il sogno di mantenere il cinema iraniano intatto ci incoraggia a superare le restrizioni che ci vengono imposte. I nostri problemi sono la nostra fortuna. La comprensione di questo promettente paradosso ci incita a non perdere la speranza e a proseguire il nostro cammino. Problemi più o meno seri continuano ad esistere in tutto il mondo. Tuttavia il nostro dovere ci spinge a non cedere e a cercare delle soluzioni». Un anno prima, in un’altra lettera al festival, l’incipit era stato sicuramente più duro: «Cari amici, vi saluto dalla mia oscura cella nella prigione di Evin». Ora invece, almeno dalle sue parole, sembra si riesca a percepire un filo di ottimismo. Certo è che dalla Costa Azzurra a Teheran la comunicazione sembra costante. Non è un caso, se oltre a questi messaggi e alla presentazione di In Film Nist, Cannes tributerà un altro omaggio a Jafar Panahi. Seppur assente, il cineasta sarà infatti premiato dalla prestigiosa Quinzaine des Réalisateurs con la “Carrosse d’or”, riconoscimento assegnato a un regista per le sue qualità innovative, il coraggio e lo spirito indipendente dei suoi lavori. Cannes non è comunque l’unico festival ad avere preso a cuore la situazione dei cineasti iraniani arrestati il primo marzo del 2009. Durante lo scorso festival di Venezia, “Le Giornate degli Autori” presentarono The Accordion, un simpatico cortometraggio che ad oggi è l’ultima opera di finzione realizzata da Panahi (di cui è in queste settimane nelle sale italiane Offside, Orso d’argento nel 2006), mentre lo scorso febbraio la giuria della Berlinale ha lasciato sempre una sedia vuota in suo onore ogni volta che si riuniva, entrava in sala o presenziava conferenze stampa, così come fece Cannes un anno prima. Al di là della concorrenza per accaparrarsi i film migliori o di maggiore richiamo mediatico, i richiami in tal senso che i festival europei stanno cercando di far arrivare al governo di Ahmedinajan, sono forse la prima, vera operazione comune che stanno intraprendendo assieme negli ultimi anni. La speranza è che si possa prima o poi parlare di lieto fine e che quando ciò accadrà, l’imprescindibile corsa per essere il primo festival omaggiato della presenza del cineasta iraniano o dei suoi colleghi meno famosi, ma allo stesso tempo vittime di una censura che manda in carcere e spegne le ambizioni, non si svolga per cercare visibilità, ma solo per celebrare un dramma forse allora alle spalle. Peccato che sia solo una speranza, peccato che ci sia di mezzo un “se”.

Il primo, fuori concorso, verrà proiettato il 20 maggio; il secondo il 13 maggio nella sezione «Un Certain Regard»

Ludivine Sagnier, Catherine Deneuve, la figlia Chiara Mastroianni, Louis Garrel, Milos Forman (sì, proprio lui, il regista di Qualcuno volò sul nido del cuculo) e, last non least, Michelle Delpech, che qualcuno di voi, lo speriamo fortissimamente, ricorderà magnifico interprete della canzone L’isola di Wight. Quella che faceva: Sai cos’è l’isola di Wight? È per noi l’isola di chi ha negli occhi il blu della gioventù Di chi canta hip hip hip hippee.

Grande colpo, monsieur Gilles Jacob (e anche Thiérry Fremaux, naturalmente), importante quasi quanto la presenza delle ultime opere di Mohammad Rassulof (Bé Omid é Didar) e Jafar Panahi (In Film Nist), registi perseguitati dalle autorità di Teheran. Chapeau.

In queste pagine: la Palma d’Oro e la locandina della 64esima edizione del Festival di Cannes; i fotogrammi del film di Moretti “Habemus Papam” e di “This must be the place” di Sorrentino; i registi Bertolucci e Panahi

I due film sono arrivati in Francia nella massima segretezza, uno in una chiavetta Usb e l’altro in un Dvd. Il delegato generale del Festival, Thierry Frémaux, così li descrive: «Quello di Panahi è una sorta di film-diario, vi racconta la sua vita in questi ultimi mesi, settantacinque minuti incentrati su di un uomo capace di accettare il proprio destino, pur soffrendo a causa dell’imposizione di non produrre arte. Quella di Rasoulof invece è una pellicola più lunga, circa cento minuti: è la storia di una giovane donna, un avvocato interpretato da Leyla Zareh, che alla ricerca di un visto per lasciare il Paese viene puntualmente ostacolata dalla burocrazia. È un film cittadino, assolutamente magnifico. Panahi e Rasoulof sono registi e le loro azioni ci comunicano la loro impossibilità a smettere di lavorare. Se noi abbiamo accolto i loro film è perché prima di tutto sono dei bei lavori, ma è innegabile che la loro presenza qui a Cannes in questo momento è un segnale forte. L’istituzione che sta dietro al Festival vuole proteggere gli artisti, la comunità del cinema si stringe come una grande fratellanza intorno ai colleghi iraniani». Lo scorso aprile, in occasione della presentazione del programma ufficiale del festival, il presidente della kermes-


ULTIMAPAGINA Oggi in campo a Grozny una selezione di ex glorie del calcio nello stadio voluto dal discusso Ramzan Kadyrov

Diego, Bobo, e il dreamteam di Francesco Lo Dico scorrere la rosa adunata da ogni anfratto della memoria alla volta di Grozny, ogni buon tifoso di calcio dovrebbe gongolare. Le punizioni di Maradona, i tackle di Costacurta e le sciabolate di Baresi, il capoccione di Bobo Vieri, il dribbling di Figo, le gomitate di Ayala, i gol di rapina di Jean-Pierre Papin, la pelata di Barthez: una parata di stelle così, di solito puoi metterle insieme soltanto sulla playstation. Non fosse che la ragione sociale di un così lauto evento calcistico, è nient’affatto benevola, e tutt’altro che caritatevole con la storia recente.

A

Mecenate dell’incontro di calcio previsto oggi nella martoriata repubblica, è nientemeno che il primo ministro Ramzan Kadyrov, o come lui stesso ama presentarsi con apposito decreto “il Capo della Cecenia”. Un tifoso di calcio, pedatore dilettante, più noto all’umanità per il simpatico hobby della dittatura, intrapreso con crescente professionalità a partire dal 2005. Presidente tra l’altro anche del Terek Grozny, da lui affidato alla direzione tecnica di Ruud Gullit non più di qualche mese fa, il leader paracalcistico non ha badato a spese per inaugurare il nuovo stadio della capitale. E così, una dopo l’altra, ha depositato ai piedi delle vecchie glorie precettate per l’evento una montagna di denari. Il nuovo stadio di Grozny che oggi sarà calcato dal Pibe de Oro e soci è una sorta di paradosso: una struttura da 30.000 posti costruita

Presidente del Terek, da lui affidato alla direzione tecnica di Ruud Gullit, il leader ceceno aveva confezionato già a marzo un tragicomico match secondo tutti gli standard internazionali della Fifa, in una terra che calpesta tutti gli standard internazionali dei diritti umani. Non c’è niente di meglio che una squadra affiatata, quando si tratta di raccontare la passione di Kadyrov per le sfide stracittadine. A capo del Servizio di Sicurezza Presidenziale, l’uomo è implicato ad esempio in numerosi casi di tortura e omicidio. E l’Associazione per i Popoli Minacciati (GfbV) reputa che il 70 per cento di tutti gli assassinii,

DELL’AUTOGOL stupri, rapimenti e casi di tortura in Cecenia siano stati commessi dal suo esercito privato, detto Kadyrovtsy, che si avvale del generoso contributo di 3000 uomini. Poco abile con la palla tra i piedi, un autentico fenomeno nel prendere a calci l’avversario, a Kadyrov non mancano però le intuizioni del fantasista. Il giovane dittatore spera infatti di alimentare con la parata di stelle in campo oggi nel nuovo impianto intitolato a suo padre Akhmar (morto nella tribuna d’onore del vecchio stadio in seguito a un attentato), la grancassa mediatica.

Grozny non è stata inclusa tra le tredici città indicate nella candidatura di “Russia 2018” approvata dalla federazione calcistica internazionale, e pertanto Ramdan spera di attrarre le luci della ribalta sulla sua amata città, in cerca di approvazione e spiragli dell’ultimo momento. Ma come da tradizione, la macchina propagan-

Nella foto grande, il presidente Kadyrov alza la coppa insieme ai calciatori del Terek Grozny. Qui sopra, il leader in campo. Ai lati, il nuovo stadio ceceno

distica di Ramzan il Barbarossa, è scivolata su qualche madornale buccia di banana. Poco prima dell’incontro di oggi, l’ufficio stampa del presidente dava per confermata la presenza di Zidane, quella probabile di Platini e quella in dirittura d’arrivo di tutta la Juventus al completo. Certamente a loro insaputa. Perché Zizou ha smentito, Michel non s’è sentito, e i bianconeri hanno comunicato che tendenzialmente avrebbero preferito giocare il posticipo di campionato con il Chievo. A dire il vero, già l’otto marzo si era capito che tipo di schemi si applicano, sulla lavagnetta di mister Kadyrov. In campo c’erano, tra gli altri, Romario, Bebeto, Cafu, Dunga, Denilson, Zé Maria e André Cruz. E inoltre Rai, che ha così commentato la sua partecipazione: «Ho partecipato a un evento sfacciatamente politico e populista, senza considerarne le conseguenze». L’asso brasiliano aveva ancora in mente il disinvoloto arbitraggio dell’incontro che opponeva i carioca a una squadra capitanata da Kadyrov in persona. Pur di fargli segnare un goal, il direttore di gara ha quasi raddoppiato il secondo tempo perché Kadyrov non riusciva a segnare neanche a trascinarlo di peso oltre la linea insieme alla palla. Due rigori falliti, ovviamente inesistenti, e un terzo finalmente centrato. Probabilmente, dopo tanta agonia, il portiere aveva finalmente capito il da farsi.


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