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La debolezza del potere

supremo è la più terribile calamità dei popoli Napoleone Bonaparte

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 12 MAGGIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

I ribelli riconquistano l’aeroporto di Misurata: una vittoria simbolica molto importante che potrebbe preludere a grandi novità

Obiettivo Gheddafi: vivo o morto Anche i servizi israeliani accreditano la voce che il Colonnello sia nascosto nel deserto. Comunque è ormai chiara la svolta della Nato: prendere il raìs per far finire la guerra Parla Edward Luttwak

di Enrico Singer

«Sì, Washington ha cambiato strategia. Vi spiego perché»

Breve storia di un insulto

cciso assieme al figlio Saif al Arab e a tre suoi nipotini nel bombardamento del 30 aprile che ridusse la casa del suo ultimogenito, dove si trovava a cena, in un ammasso di macerie. Oppure ferito in quella stessa operazione della Nato e ricoverato adesso chissà dove. Oppure fuggito dal suo bunker sotterraneo di Bab al Aziziya – ormai preso di mira quasi tutte le notti dagli attacchi aerei – e nascosto nel deserto, forse vicino ad Ash Shurayf, nella sua tenda confusa con tutte le altre tende beduine che punteggiano la sabbia attorno a quell’oasi, non lontana dal confine con il Ciad che potrebbe anche diventare il suo ultimo rifugio. Se già non lo è diventato. Sulla sorte di Gheddafi le ipotesi sono almeno quattro. Senza contare quella che lo vuole ancora al comando, anche se sparito della circolazione per evidenti ragioni di sicurezza. Di sicuro c’è soltanto che, dalla notte del 30 aprile, nessuno lo ha più visto in pubblico. a pagina 2

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«L’esercito libico resta nascosto: stanarlo con gli aerei ormai è difficilissimo. Non resta che colpire chi lo guida» Pierre Chiartano • pagina 4

Parla il generale Vincenzo Camporini

«Se davvero è fuggito, mancano pochi giorni alla vittoria» «La svolta finale potrebbe essere vicina: ormai sembra certo che non abbia più il controllo delle operazioni» Luisa Arezzo • pagina 3

Il razzismo della sporcizia (prima di Berlusconi) di Maurizio Stefanini a doccia è di sinistra, la vasca di destra, sentenziava Nanni Moretti. Ovvero: si rimane più puliti limitandosi a un’aspersione più frequente, o è meglio un’immersione completa però destinata a essere più occasionale? Non dite che il dilemma non è certamente di spessore teologico, perché invece fu proprio questa una delle ragioni del grande scisma tra Chiesa di Oriente e Chiesa di Occidente: i cattolici battezzano infatti per aspersione, mentre gli ortodossi per immersione.

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a pagina 8

Tremonti candida ufficialmente il Governatore

Scambio di accuse al duello in diretta tv su Sky

Merkel, sì a Draghi

Lite Moratti-Pisapia

Via libera alla presidenza della Bce

Ma il Colle: «Più rispetto in politica»

di Francesco Pacifico

Le difficoltà di Confindustria e sindacati

di Franco Insardà

Le ingiurie contro i pm e contro il Quirinale

ROMA. Forse, la corsa alla presi-

Operai e imprese, chi vi rappresenta?

ROMA. Oltre a vigilare sulle re-

Le offese, ultima spiaggia del Cavaliere

denza della Bce è finita. Forse. Perché Angela Merkel per la prima volta, in un’intervista, si è sbilanciata a favore di Mario Draghi per la successione a Jean-Claude Trichet. «Conosco Mario Draghi - ha detto la cancelliera tedesca - si tratta di una personalità interessante ed esperta, che è molto vicino alla nostra idea della cultura della stabilità e di una solida economia». E allora l’Italia lo ha candidato ufficialmente. a pagina 10

di Gianfranco Polillo azzardato accostare il disagio delle organizzazioni sindacali a quello di Confindustria? Forse no. Calderoli è stato forse eccessivo nel definire il gotha degli industriali italiani: la «Cgil degli oligarchi». Già l’esistenza di questa possibile analogia denota, tuttavia, un clima, se non una vera e propria diagnosi, che è rivelatore di umori più profondi. a pagina 12

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

gole, Giorgio Napolitano prova a imporne una semplice semplice. Perché «la lotta politica», ha spiegato il presidente della Repubblica, «non deve essere una guerra continua. Ci deve essere rispetto reciproco tra le parti che competono per conquistare la maggioranza nelle elezioni». Ma le parole dell’inquilino del Quirinale stridono con la lite in diretta televisiva che ieri ha infuocato il duello su Sky tra Letizia Moratti e Giuliano Pisapia. a pagina 6 91 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

di Achille Serra uperare l’incredibile. Potrebbe essere questo il nuovo slogan del nostro presidente del Consiglio, capace di scendere ogni giorno più in basso alzando il tono delle offese ai danni di chiunque osi opporsi al suo potere. Quando la misura sembra colma ci accorgiamo che le parole diventano ingiurie e la vita politica si trasforma in conflitto costante. a pagina 6

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


l’analisi Sono quattro le ipotesi sulla sorte di Gheddafi, ormai scomparso dal 30 aprile. Dalla morte alla fuga in Ciad

Il Colonnello del deserto Privi degli ordini del leader libico, i lealisti perdono l’aeroporto di Misurata. E Ban Ki-moon chiede: «Immediato cessate il fuoco» di Enrico Singer cciso assieme al figlio Saif al Arab e a tre suoi nipotini nel bombardamento del 30 aprile che ridusse la casa del suo ultimogenito, dove si trovava a cena, in un ammasso di macerie. Oppure ferito in quella stessa operazione della Nato e ricoverato adesso chissà dove. Oppure fuggito dal suo bunker sotterraneo di Bab al Aziziya – ormai preso di mira quasi tutte le notti dagli attacchi aerei – e nascosto nel deserto, forse vicino ad Ash Shurayf, nella sua tenda confusa con tutte le altre tende beduine che punteggiano la sabbia attorno a quell’oasi, non lontana dal confine con il Ciad che potrebbe anche diventare il suo ultimo rifugio. Se già non lo è diventato. Sulla sorte di Gheddafi le ipotesi sono almeno quattro. Senza contare quella che lo vuole ancora al comando, anche se sparito della circolazione per evidenti ragioni di sicurezza. E ognuna ha i suoi sostenitori pronti a giurare che le cose stanno davvero così. Di sicuro c’è soltanto che, dalla notte del 30 aprile, nessuno lo ha più visto in pubblico. Non è andato nemmeno al fu-

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nerale di Saif al Arab che, pure, sarebbe stato l’occasione perfetta per denunciare con il dolore quella che in tanti discorsi in tv aveva bollato come l’aggressione dell’Occidente e, per quello che ci riguarda più da vicino, come il tradimento dell’Italia. Proprio questo silenzio e questa assenza moltiplicano il mistero sul vero destino del Colonnello e s’intrecciano alle domande sul futuro.

Su una possibile successione che cambierebbe il volto del regime aprendo scenari politici fin qui considerati utopie, come un dialogo tra i ribelli di Bengasi, guidati dal Consiglio transitorio di Mustafa Abdel Jalil, e l’eventuale nuovo capo del governo di Tripoli che, senza più Gheddafi, potrebbe porre fine alla guerra. Ban Ki-moon, il segretario generale dell’Onu, lo spera e, ieri, ha contattato al telefono il primo ministro libico, Ali al Baghdadi al Mahmoudi, per proporgli un immediato cessate il fuoco. Ban Ki-moon ha lanciato un appello per fermare i combattimenti e ha chiesto al regime di porre fine agli attacchi contro i civili. Il segre-

tario generale dell’Onu ha anche annunciato che l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Libia, il giordano Abdelilah al Khatib, tornerà «al più presto possibile» a Tripoli, quasi a confermare che qualche cosa è effettivamente successo e che finalmente esiste uno spazio per la trattativa. Ma andiamo per ordine. Chi giura che il raìs è morto, lo fa perché ha visto di persona gli effetti del bombardamento della casa di Saif al Arab che si trovava sempre nel comprensorio superprotetto della caserma di Bab al Aziziya. Dopo l’attacco, la residenza era completamente sventrata: in uno stato ben peggiore di quello che si era potuto vedere dalle immagini trasmesse dai telegiornali. La Nato ha usato ordigni speciali che creano una violenta pressione in orizzontale per aumentarne la capacità distruttiva. Molto difficile, dunque, che il Colonnello possa es-

sere rimasto incolume se davvero si trovava in quella casa. Secondo i sostenitori di questa tesi, la notizia della sua morte sarebbe tenuta segreta per non demoralizzare le milizie lealiste, impegnate nella battaglia contro i ribelli, in attesa del momento opportuno per annunciare un cambio al vertice.

A smentire le voci della morte di Gheddafi, però, c’è chi afferma di averlo visto pregare sulla tomba di Saif al Arab. La visita al “Cimitero dei Martiri” di Tripoli, se c’è stata, è avvenuta in forma assolutamente privata perchè ai funerali del figlio e dei nipoti, Muammar Gheddafi non ha partecipato: questo è dimostrato dalle riprese televisive e la sua assenza non era passata inosservata. L’ipotesi che il Colonnello sia ancora vivo, ma sia fuggito dal suo bunker nella capitale è stata riferita ieri dal movimento “17 febbraio”, legato ai ribelli.

Gheddafi sarebbe nascosto nella zona desertica di Ash Shurayf, circa 400 chilometri a Sud della capitale, nella parte meridionale della Sirte, la sua regione d’origine. Dal nuovo nascondiglio potrebbe, in caso di necessità, fuggire verso il vicino Ciad. Fin qui le voci. Le dichiarazioni ufficiali arrivano dalla Nato e anche dal governo italiano e convergono su un punto: «Gheddafi non è l’obiettivo dei bombardamenti», ha detto il portavoce dell’Alleanza atlantica, e il ministro degli Esteri, Franco Frattini, ha ribadito che il compito della missione in Libia è di «proteggere i civili, non di uccidere qualcuno». Altra cosa, però, è capire se le pressioni internazionali abbiamo aperto una crepa nel regime. Secondo Frattini, le «moltissime defezioni», dimostrano che probabilmente è vicino «un punto di svolta». Vivo o ferito – se non morto – oppure fuggito, Gheddafi è comunque sempre più isolato.

Ma chi potrebbe prendere il posto di Gheddafi? Sin dai primi giorni della crisi si era parlato di una possibile “successio-


prima pagina

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l’intervista

«Se davvero è fuggito, la guerra è finita» Parla il generale Camporini: «Se il raìs non controlla l’esercito, sarà tregua in pochi giorni» di Luisa Arezzo e sia morto o vivo non si sa. Ma sembra certo che il Raìs non abbia più il controllo delle operazioni. «Una svolta» secondo il generale Vincenzo Camporini, consigliere del ministro degli Esteri e già capo di stato maggiore della Difesa. Che si sbilancia e dice: la guerra potrebbe cessare entro pochi giorni» Generale, dove sta Gheddafi? Sono in tanti a volerlo sapere. Il mio auspicio è che i più ansiosi a volerlo capire siano i suoi collaboratori. Questo indicherebbe un taglio nella sua catena di comando. Se così fosse, saremmo davanti a una svolta del conflitto. Dunque l’ipotesi sul campo è che il Raìs non riesca più a dare ordini e abbia perso il controllo della situazione? Più che un’ipotesi è un’auspicio. Non abbiamo ancora elementi che possano darci conferme in tal senso, ma se questo è avvenuto siamo davanti a un punto di non ritorno e le ostilità potrebbero cessare anche nell’arco di un tempo molto, molto breve. I ribelli, ma anche altre fonti, sostengono che Gheddafi abbia lasciato la capitale e che non sia più né nel suo bunker né all’interno di obiettivi militari sensibili. È verosimile? Sì, questo è anche quello che si deduce da tutte le informazioni che arrivano, pur facendo la tara, come è giusto che sia, sulle notizie. Una cosa mi sembra però di capire, anche da quanto sta accadendo a Misurata (dove i ribelli avrebbero ripreso il controllo dell’aeroporto controllato dai lealisti, ndr.): c’è un cambio di atmosfera per cui l’assedio sembra si stia trasformando in un assedio verso chi assediava la città. Assistiamo dunque a un rovesciamento dei fronti che potrebbe aprire alla possibilità dell’istituzione di un tavolo delle trattative dove i sostituti di Gheddafi, ma non Gheddafi stesso, siano pronti a negoziare con i ribelli di Ben-

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ne dinastica”, ma un avvicendamento all’interno della famiglia, a questo punto, appare poco credibile. Il Colonnello ha due mogli e otto figli. Dall’unione con Fatima è nato Mohammad, il primogenito, che è al vertice della Lybiana, una delle due società nazionali di telefonia mobile. Presidente del comitato olimpico, ha avuto diverse incomprensioni con gli altri fratelli – tutti nati dal matrimonio con Safia – non ultima quella che lo ha visto confrontarsi con Mutassim e Saadi per il controllo della Coca Cola in Libia. Chi si era ritagliato il ruolo di erede designato è Saif al Islam, la voce del regime. Era considerato il più aperto alle riforme, ma nello sviluppo del conflitto ha scelto la linea dura. Poi c’è Saadi, ex calciatore ap-

gasi. Questo tavolo potrebbe definire un nuovo quadro politico all’interno della Libia soddisfacente in primo luogo per i libici e poi chiaramente anche per la comunità internazionale. A Washington e nel quartier generale della Nato si sospetta che Gheddafi abbia saputo in anticipo dell’attacco tripolino e sia scappato. Fonti intelligence rivelano che sarebbe stato un nuovo sistema di difesa elettronico, fatto arrivare di recente in un’ambasciata straniera della capitale, ad avvertirlo del raid.

Presto potrebbe essere istituito un tavolo delle trattative fra i ribelli e le forze lealiste, ma al netto del Colonnello Non ho nessun elemento al riguardo. Ho letto anche io questa notizia, ma mi sembra veramente un elemento di fantapolitica con scarsissima attendibilità, anche perché di che apparati elettronici si può parlare... un telefono. Non riesco neanche ad immaginare che tipo di tecnologia potrebbe essere impiegata con una finalità del genere. Non esiste. Il segretario generale dell’Onu Ban ki Moon ha rivolto un appello alle parti in conflitto perché cessino gli scontri, a Misurata e nel resto del paese, sottolineando la necessità di proseguire il dialo-

prodato anche nel campionato italiano (ha giocato nel Perugia, nell’Udinese e nella Sampdoria). All’inizio della rivolta il padre lo aveva inviato a Bengasi per tentare di riprenderne il controllo: ha fallito miseramente e per poco non è finito in mano ai ribelli. Mutassim Bilal è l’uomo dei servizi segreti: tenente colonnello dell’esercito è stato alla guida del Consiglio per la sicurezza nazionale. Militare anche Khamis che gli insorti chiamano “il macellaio”. È il sesto figlio del Colonnello e comanda la brigata più impegnata contro i ribelli. Poi c’è Hannibal, noto per avere spedito la moglie Aline in ospedale a Londra con una frattura al naso. E c’è Aisha, l’unica figlia femmina, giovane avvocato che

go politico e la necessità di far arrivare degli aiuti. Arrivando proprio a cavallo della svolta, come dobbiamo interpretare questo appello, il secondo in meno di 24 ore? Secondo me con il quadro complessivo di cui abbiamo parlato finora. Se effettivamente Gheddafi ha perso o sta perdendo il controllo delle sue forze, il messaggio non è più nei confronti del Colonnello, ma è nei confronti di quelli che stanno combattendo seguendo le direttive di Gheddafi. E questa ripetizione a distanza di 24 ore potrebbe essere un segnale che anche le Nazioni Unite si orientino verso l’ipotesi di uno sfaldamento del fronte gheddafiano e quindi alla possibilità di raggiungere al più presto un cessate il fuoco. Il suo presto cosa significa? Qualche giorno, una settimana o di più? Se le ipotesi che abbiamo fatto corrispondono alla realtà, io credo che stiamo parlando di quache L’elemento giorno. chiave a mio parere non è più solo la volontà dei sostenitori di Gheddafi di continuare a combattere, quanto la volontà degli insorti, una volta che prendessero il sopravvento, di fermarsi per discutere. Insomma, bisogna che non siano animati da una volontà di vendetta che li porti a punire chi li ha ostacolati. Mi sbilancio: se le cose vanno come io spero, penso che in qual-

ha fatto parte del collegio difensivo di Saddam Hussein. L’ottavo figlio era Saif al Arab, morto nel bombardamento del 30 aprile. Più che nella famiglia, il possibile successore di Gheddafi va cercato tra i vertici del regime che hanno ormai

che giorno si possa arrivare a un significativo cambiamento di rotta e probabilmente anche a un cessate il fuoco. Tornando all’eventuale tavolo delle trattative: per i ribelli si siederebbero i leader del Cnt, ma al posto di Gheddafi chi potrebbe avere l’autorità per sostituirlo? Ci sono tutti gli anziani delle tribù pro Gheddafi che a questo punto potrebbero diventare degli interlocutori. Qui stiamo parlando di una fetta cospicua della popolazione libica che grazie alla sua appartenenza alla famiglia o al clan della tribù si sentiva da una certa parte. Non c’è dubbio che abbiano una loro struttura gerarchica interna, ancorché su base tribale, che fa sì che i loro capi possano avviare una trattativa a tutto campo. Salvaguardando quello che per noi è più importante: l’integrità della Libia, allontanando lo spettro di una spartizione e restituendo alla comunità internazionale un interlocutore unico che possa collaborare a tutto campo, dal settore energetico al flusso dei migranti. Lunedì la Corte penale internazionle dell’Aja spiccherà il mandato di cattura contro Gheddafi. Alla luce di quanto detto non crede che ciò potrebbe avvelenare gli animi? Speriamo che ci mettano un po’ di più. Ma se Gheddfi dovesse ricomparire dopo il cessate il fuoco e dopo aver avviato una trattativa, che si fa? Se si avvia una trattativa e si consolida una leadership della parte gheddafiana al netto di Gheddafi, io non credo che lui abbia più alcuna possibilità di riprendere il controllo. Se ricompare lo fa a suo rischio e pericolo, visto che a quel punto ci sarà un mandato del Tribunale internazionale. Non credo che gli convegna ricomparire, quanto piuttosto cercare con molta discrezione un asilo da qualche parte per evitare danni maggiori.

voltare le spalle al Colonnello e, forse, prenderne il posto.

Uno di loro, Ali Abdussalam Treki, ex ambasciatore all’Onu, l’ha già fatto. Treki aveva sostituito al Palazzo di Vetro Mohammed Shalgham, che as-

Chi potrebbe prendere il posto del Raìs? Ad inizio crisi si era parlato di una possibile successione dinastica, ma un avvicendamento familiare è ormai poco credibile compreso quanto sia senza sbocchi la fedeltà al raìs. Non c’è soltanto l’ex ministro degli Esteri, Mousa Kousa, che è fuggito a Londra e ha già rivelato molti misteri sulla strage di Lockerbie del 1988. Voci insistenti parlano di almeno altri dieci uomini che potrebbero

sieme al suo vice Ibrahim Dabbashi, aveva preso le distanze dal regime subito dopo l’avvio della rivolta. Indiscrezioni dalla Gran Bretagna prevedono imminente il passaggio nel gruppo dei dissidenti di Tarek Khalid Ibrahim, vice capo dei diplomatici a Londra. E la lista

delle defezioni non è finita. Secondo Al Jazeera sono prossimi a cedere il capo dei servizi segreti esteri, Abuzed Omar Durda, e lo speaker del Parlamento, uomo d’apparato del partito unico libico, Mohammed Zwei. A loro si potrebbe aggiungere anche il sottosegretario agli Esteri, Adbulati al Obeidi, che accompagnava Kousa nella visita ufficiale in Tunisia quando il ministro fuggì in Gran Bretagna. Un’altra defezione eccellente potrebbe essere quella del potente ministro del Petrolio, Shukri Ghanem. E se in questo effetto-domino entrasse anche Abdullah Senussi, cognato e prezioso consigliere del Raìs, il colonnello Gheddafi resterebbe davvero l’ultimo irriducibile.


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l’approfondimento

La guerra è arrivata a un punto di svolta e l’amministrazione americana ha finalmente chiarito la propria posizione

Bersaglio Gheddafi

«Washington ha cambiato strategia: l’esercito dei lealisti si nasconde, i ribelli non lo fanno uscire allo scoperto perciò i raid aerei per ora non sono risolutivi. Bisogna togliere agli ufficiali di Tripoli la loro guida: ecco il vero obiettivo della missione», dice Edward Luttwak di Pierre Chiartano utti a caccia del Colonnello, ormai diventato l’unico e vero obiettivo strategico della campagna di Libia. Mentre s’intensificano i raid mirati della Nato e i ribelli sembrano – il condizionale è d’obbligo – riprendere l’avanzata, la sorte di Muammar Gheddafi continua a suscitare interrogativi. Secondo alcune voci, non confermate, il rais avrebbe lasciato Tripoli. Il leader libico, la sua famiglia e i suoi più stretti collaboratori avrebbero abbandonato la capitale libica il Primo maggio scorso, dopo il raid dell’Alleanza atlantica in cui sono rimasti uccisi il figlio Saif al Arab e tre nipoti del colonnello. A Washington e nel quartier generale della Nato si sospetta che Gheddafi abbia saputo in anticipo dell’attacco dell’Alleanza atlantica, riuscendo così a scappare. Altre voci provenienti da fonti vicine all’intelligence israeliana avrebbero rivelato che sarebbe stato un nuovo sistema di dife-

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sa elettronico, fatto arrivare di recente in un’ambasciata straniera di Tripoli, ad avvisare Gheddafi dell’imminente raid. Le stesse fonti hanno sottolineato come nelle ultime due settimane, da quando sarebbe stato attivato questo sistema – e anche in questo caso il condizionale è di rigore – la Nato ha colpito soprattutto edifici governativi vuoti e installazioni militari abbandonate.

Abbiamo chiesto a un grande esperto di questioni strategico-militari, come Edward Luttwak che, fra i numerosi incarichi, svolge anche quello di consulente del Pentagono, quale futuro aspetta il rais di Tripoli, ammesso che sia ancora vivo. «Non sono molto aggiornato sulla vita e sulla morte di Muammar Gheddafi. Ma è chiaro che lui sia l’unico obiettivo strategico in Libia. Non c’è niente altro da bombardare nel Paese nordafricano che ne valga la pena». Il colonnello dunque, come bin La-

den nel documento strategico del presidente Barack Obama del 2009 sull’Afghanistan, sarebbe diventato «un obiettivo strategico», secondo l’esperto di Washington.

«La chiave per comprendere meglio tutta la situazione è che le forze ribelli non combattono. Non ingaggiando sul campo di battaglia le forze di Tripoli, queste non si dispiegano sul terreno per reagire o difendersi, in un modo che sia rico-

«In ambito internazionale non esiste più la Libia, esiste la tribù del raìs»

noscibile dall’aria». Luttwak spiega come le unità del rais non possano essere colpite da attacchi aerei mirati. «Quando si bombarda dall’alto, si possono individuare prevalentemente i bersagli che sono disposti sul terreno in una maniera individuabile. Senza combattimenti in atto, lo schieramento delle truppe e dei mezzi non si vede. Potrebbero nascondersi ovunque, in un centro abitato come in un mercato, visto che i ribelli non li attaccano. Mo-

strano le armi alle telecamere e poi sparano in modalità automatica a ripetizione». Un modo che nessun militare professionista userebbe per non sprecare munizioni. «Fra i ribelli libici evidentemente è questo il modo in cui si pensa di combattere: mostrare le armi. Ho visto immagini dove si vedevano mitragliere antiaeree sparare a raffica in aria senza avere nessun obiettivo da colpire. Poiché i ribelli non combattono, le truppe di Gheddafi non hanno bisogno di schierarsi sul terreno». Quindi è difficile poterle colpire con i raid aerei, perché non si possono distinguere dai gruppi di civili.

«L’unico obiettivo credibile di conseguenza è quello di eliminare Gheddafi, i figli e la figlia. Questa guerra è un business della famiglia del colonnello. Li uccidi e vinci. Il governo americano ha dovuto spiegare con tutte le dovute cautele che il rais di Tripoli non fosse un


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Nella piccola enclave irachena sulla linea di confine vivono 3.400 dissidenti iraniani

Non c’è solo la Libia, anche Baghdad va a fuoco

Teheran sta cercando di trasformare l’Iraq in una sua provincia. E paradossalmente ci sta riuscendo con la complicità occidentale di Daniel Pipes opo che le forze americane lasceranno l’Iraq alla fine del 2011, Teheran cercherà di trasformare il suo vicino in una satrapia (cioè una provincia, uno stato satellite) a grande svantaggio degli interessi occidentali, arabi moderati ed israeliani. L’Iran sta lavorando con grande solerzia per raggiungere questo obiettivo, sia appoggiando le milizie irachene sia inviando le proprie truppe nelle zone di confine. Baghdad reagisce con debolezza a questo progetto, con il suo capo di Stato Maggiore che propone un patto regionale con l’Iran e i politici di spicco che ordinano attacchi contro il Mujahedeen-e-Khalq (Mek), un’organizzazione di dissidenti iraniani con 3.400 membri residenti a Camp Ashraf, a 60 miglia a nordest di Baghdad. La questione del Mek è l’emblema della sottomissione irachena all’Iran. Anche alla luce di alcuni sviluppi recenti. Il 7 aprile scorso il Mek ha reso pubbliche delle informazioni riguardo la crescente capacità iraniana di arricchire l’uranio, una rivelazione che il ministro degli Esteri iraniano ha rapidamente confermato. L’8 aprile, proprio mentre il segretario alla Difesa Usa Robert Gates visitava l’Iraq, le forze armate del paese hanno attaccato Ashraf. Le sequenze trasmesse da Fox News e dalla Cnn mostrano gli iracheni negli Humvees, i veicoli blindati per il trasporto truppe forniti dagli Usa, e i bulldozer che travolgono i residenti disarmati, mentre i cecchini sparano contro di loro, uccidendo 34 persone e ferendone 325. L’ordine del piano d’attacco top secret dell’esercito iracheno “l’Iraqi Security Forces Operation Order No. 21, Year 2011”, rivela come Baghdad consideri i residenti di Ashraf come «il nemico», evidenziando una collusione tra Baghdad e Teheran.

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Q u e s t o e p i s o d i o ha avuto luogo malgrado le recenti promesse di Baghdad di trattare umanamente i dissidenti iraniani e di proteggerli. Il presidente della Commissione per le Relazioni estere del Senato Usa, John Kerry, ha giustamente descritto l’attacco come un «massacro», mentre l’ex-governatore Howard Dean ha definito il premier iracheno un «assassino di massa». L’Alto Commissario Onu per i diritti umani «ha condannato» l’attacco e la Missione Onu di Assistenza all’Iraq

(Unami) ha espresso una «profonda preoccupazione». L’11 aprile, il consigliere per gli affari militari del Leader supremo iraniano Ali Khamenei (secondo un comunicato stampa) «ha elogiato l’esercito iracheno per il suo recente attacco alle roccaforti del Mek e ha chiesto a Baghdad di continuare ad attaccare la base terroristica fino a distruggerla». Il 24 aprile, malgrado l’insistenza del-

Dal 1997 i Mujahedeen e-Khalq (Mek) sono considerati dagli Usa una rete terroristica le Nazioni Unite affinché «i residenti di Camp Ashraf venissero protetti dalla deportazione forzata, dall’espulsione o dal rimpatrio», Baghdad e Teheran hanno siglato un accordo di

estradizione che i media di stato iraniani interpretano come un meccanismo per trasferire forzatamente i membri del Mek in Iran, dove li aspetta un destino orribile. I maltrattamenti iracheni verso i dissidenti iraniani non solo sollevano delle preoccupazioni umanitarie, ma mettono anche in evidenza una maggiore importanza del Mek come meccanismo volto a contrastare l’obiettivo americano di minimizzare l’influenza di Teheran in Iraq.

Detto questo, Washington – che nel 2004 ha concesso lo status quo di “persone protette” ai residenti di Ashraf in cambio della loro resa – ha una parziale responsabilità per gli attacchi contro Ashraf; nel 1997, ha dato un contentino a Teheran e, contrariamente alla realtà e alla legge, ha ingiustamente annoverato (e continua a farlo) il Mek nella lista delle Organizzazioni terroristiche straniere. “Un’etichetta” che Baghdad sfrutta a suo vantaggio. Ad esempio, il deputato Usa Brad Sherman (democratico della California) asserisce che «in occasione di discussioni private, l’ufficio dell’ambasciatore iracheno ha detto che le mani del governo iracheno non sono imbrattate di sangue, ma almeno in parte lo sono quelle del Dipartimento di Stato perché il Mek compare nella lista dei gruppi terroristici e pertanto, l’Iraq non ritiene di dover stare a rispettare i diritti umani». La designazione terroristica offre altresì a Baghdad un pretesto per espellere i residenti di Ashraf e possibilmente estradarli in Iran. In questo momento di crisi, come rispondere all’appello del senatore Kerry lanciato a «tutte le parti interessate (…) per cercare una soluzione pacifica e durevole?». Qui di seguito tre raccomandazioni: 1) al governo Usa. Eliminare il Mek dalla lista delle organizzazioni terroristiche, in seguito alla volontà di una larga maggioranza bipartisan in seno al Congresso, dell’ex-consigliere per la sicurezza nazionale di Barack Obama e di eminenti repubblicani. 2) All’Unione europea. Imporre delle sanzioni economiche all’Iraq, se Baghdad continuerà a bloccare una delegazione di parlamentari dell’Ue che desidera visitare Ashraf (non dimentichiamoci che la Ue è il secondo partner commerciale dell’Iraq). 3) Alle Nazioni Unite. Insediare ad Ashraf una delegazione dell’Unami, sorvegliata da una piccola forza Usa, per impedire futuri attacchi iracheni e soddisfare la richiesta dell’Alto Commissario Onu per i diritti umani di avviare «un’inchiesta completa, indipendente e trasparente» sull’attacco ad Ashraf in modo che «qualsiasi persona responsabile di un uso eccessivo della forza» venga perseguita. Perché è arrivato il momento di agire con urgenza a Camp Ashraf, apripista di una crescente influenza iraniana sull’Iraq, prima che Teheran trasformi l’Iraq in una satrapia.

bersaglio. Negli Stati Uniti esiste una legge particolare che proibisce l’assassinio dei capi di governo. In prati ca in Libia possiamo uccidere chiunque, meno l’unico responsabile. E nessuno vuole confessare questo semplice fatto: è l’unico obiettivo strategico. Se vuoi bombardare, in Libia, puoi solo colpire la sabbia, degli innocenti che non centrano nulla con questa guerra, oppure Gheddafi». Quindi la legge lega le mani agli americani, quindi è molto probabile che saranno altri a dover “terminare” il colonnello. I francesi da tempo hanno truppe speciali, specialmente nel ramo acquisizione obiettivi, e anche gli inglesi hanno disseminato qualche “topo” nel deserto.

«I francesi hanno tentato già diverse volte di centrare il bersaglio. Forse saranno gli italiani a farlo. Dopotutto sono gli italiani a conoscere perfettamente geografia, topografia e architettura dei luoghi più frequentati dal colonnello. Sono stati loro a costruire – o hanno collaborato a costruire assieme a turchi e coreani – i posti di comando del rais. Non so dove sia adesso imboscato. L’unica maniera di finire questa guerra è di beccare lui. Ciò che è successo negli ultimi mesi, a seguito di tutti questi cambiamenti politici (la primavera araba, ndr) è l’evidenza di ciò che si sapeva da tempo. Cioè che questi cosiddetti Stati non esistono. Quando i loro rappresentanti vanno alle Nazioni Unite e affermano “noi siriani, il popolo siriano…” è una finzione. Esistono solo la famiglia Assad e i suoi interessi. In Libia non esistono gli interessi del popolo libico… tutte storie… esiste solamente la famiglia Gheddafi e i suoi affari. È un fenomeno comune nel mondo arabo. Non ci sono i marocchini, c’è solo il re. In Arabia Saudita c’e solo la famiglia reale dei Saud con i suoi 10mila principi. Ognuno dei quali ha bisogno di un jet privato. Questa è la realtà. In Libia non possiamo bombardare un Paese immaginario, ma dobbiamo colpire la vera Libia che è costituita dalla famiglia Gheddaffi e dalla sabbia». E che il raìs venga fatto fuori a breve termine Luttwak non lo da tanto per scontato. «La maniera per uccidere un dittatore è quello di usare uno stiletto, non una bomba d’aereo», chiosa l’esperto di Washington. «Sì, i francesi hanno anche truppe speciali sul terreno, ma occorre capire che, mentre i ribelli non combattono affatto, le unità speciali da quelle parti non è che stiano facendo cose proprio rocambolesche. Fanno un lavoro d’addestramento inutile. Basta vedere i filmati, chiunque sia del mestiere non ha bisogno di altre informazioni».


politica

pagina 6 • 12 maggio 2011

A quarantotto ore dalla chiusura della campagna elettorale per le amministrative cresce la tensione nel centrodestra

Rissa finale per Milano

Scambio di accuse tra Moratti e Pisapia in diretta tv. Proprio nel giorno in cui Napolitano aveva detto: «Basta guerre politiche» di Franco Insardà

ROMA. Oltre a vigilare sulle regole, Giorgio Napolitano prova a imporne una semplice semplice. Perché «la lotta politica», ha spiegato il presidente della Repubblica, «non deve essere una guerra continua. Ci deve essere rispetto reciproco tra le parti che competono per conquistare la maggioranza nelle elezioni». E le parole dell’inquilino del Quirinale sembrano dirette al centrodestra, che a quarantotto ore dalla chiusura della campagna elettorale per le amministrative fa di tutto per accendere il clima. Il Capo dello Stato ha chiesto alla classe politica di fare un passo indietro rispondendo a una domanda, rivolta via web da uno studente nel corso della giornata della scuola nei 150 dell’Unità di Italia, su come vorrebbe vedere l’Italia nel 2061, in occasione dei festeggiamenti per i 200 anni dell’unità. «Innanzitutto - detto Napolitano - è difficile immaginare come sarà l’Italia tra 50 anni. Dipenderà comunque molto da voi giovani. In ogni caso mi auguro un’Italia più serena, più sicura di se e che sappia essere consapevole delle sue grandi tradizioni». Se martedì a Crotone Silvio Berlusconi ha sentenziato che gli esponenti della sinistra non si lavano e che sono i magistrati napoletani ad aver riempito la città di immondizia (oltre a riservare nuovi insulti a Casini e a Fini, nonostante fosse in Calabria per fare campagna per la centrista Dorina Bianchi), ieri ci ha pensato Letizia Moratti a dare l’ennesima lezione di bon ton.

Il facca a faccia televisivo negli studi di Sky Tg24 tra il sindaco uscente e Giuliano Pisapia, suo principale concorrente, si è, infatti, trasformato in uno scontro con tanto di querela finale. Giusto per citare gli ultimi episodi di una serie infinita. La Moratti prima ha assicurato di essere una “moderata”, ma nella replica finale è andata all’attacco frontale: «Giuliano Pisapia ha affermato - è stato riconosciuto responsabile dalla Corte di Assise del furto di un veicolo utilizzato successivamente per il sequestro e il pestaggio di un giovane». L’incontro finisce senza neanche una

C’è un disperato bisogno di scontro frontale dietro agli insulti ai Pm di Milano

L’assalto alle procure, ultima spiaggia del premier di Achille Serra uperare l’incredibile. Potrebbe essere questo il nuovo slogan del nostro presidente del Consiglio, capace di scendere ogni giorno più in basso alzando il tono delle offese ai danni di chiunque osi opporsi al suo potere. Quando la misura sembra ormai colma ci accorgiamo una volta di più che le parole diventano ingiurie e la vita politica si trasforma in conflitto costante. Diventa persino difficile commentare le esternazioni di chi, come lui, ha perso ogni freno inibitorio e cerca di inasprire un dibattito in cui probabilmente si sente già perdente. Ecco allora che si cerca la lotta a tutti i costi, persino contro quella straordinaria figura rappresentata dal Capo dello Stato, lui sì, ancora una volta coraggioso e fermo nel salvaguardare una democrazia sottoposta ogni giorno agli attacchi di chi vorrebbe trasformarla in dittatura. Una dittatura sotterranea, che si concretizza sempre più in un potere legislativo ormai totalmente asservito al suo volere grazie a una indegna legge elettorale che fa dei parlamentari dei nominati e non degli eletti dal popolo, ma anche una dittatura che si alimenta di attacchi continui alla magistratura, e che, tra una legge ad personam e l’altra, trova persino il tempo di sferrare ridicoli attacchi al Colle.

S

D’altro canto non stupisce un attacco a quel capo dello Stato che ha “osato” onorare la memoria di alcuni dei più illustri magistrati caduti negli Anni di piombo, che ha scelto di ricordare, ricevendo i familiari delle vittime del terrorismo nel Giorno della memoria. Certamente, per chi ha avuto il coraggio di definire eroe un tale Mangano, è impossibile anche solo capire che per noi gli eroi sono ben altri. I nostri eroi si chiamano Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ma anche Emilio Alessandrini, Guido Galli, Giorgio Ambrosoli. Gli stessi eroi i cui volti hanno campeggiato nelle tre giganti serigrafie issate sulla facciata del Palazzo di Giustizia di Milano. Gli stessi volti che hanno accolto lunedì scorso l’imputato Silvio Berlusconi. Già, perché proprio mentre il Capo dello Stato onorava la memoria dei magistrati uccisi, a Milano, dove si svolgeva un’udienza del processo Mills, il premier ha sferrato ancora

i suoi indegni attacchi, paragonando persino la Procura del capoluogo lombardo a un’associazione per delinquere.

Un paragone di fronte al quale non può certo tacere chi, come me, con i magistrati di quella Procura ha lavorato a stretto contatto per ben vent’anni. Giorno dopo giorno ho condiviso con tutti loro pagine tragiche della storia del nostro Paese ma anche successi importanti e momenti di gioia indimenticabili. Anni di lavoro intensi, nei quali siamo stati costretti ad affrontare la perdita di molte vite umane, piangendo amici e uomini coraggiosi: penso tra tutti, ad alcuni, come Alessandrini, o Galli. Questi magistrati hanno lavorato senza risparmiarsi negli anni tremendi del terrorismo e dei sequestri di persona, incuranti del rischio della vita; hanno lavorato senza sosta contro i criminali peggiori e lo hanno fatto con grande successo. Sono loro ad aver cancellato la piaga dei sequestri, ol-

Emilio Alessandrini, Guido Galli, Giorgio Ambrosoli restano degli esempi alti di impegno e grande dedizione allo Stato tre 100 a Milano in 10 anni e ancora è a loro che si devono arresti clamorosi in ambito terroristico. Paragonare alcuni pm a un «cancro per la democrazia» è quanto mai indegno. Eppure una malattia, una discarica, un’associazione per delinquere sono solo alcuni degli ingiuriosi epiteti attribuiti alle toghe da un premier fuori controllo. Certamente nelle fila della magistratura possono esserci elementi faziosi o schierati, pm che puntano alla politica e al successo mediatico, ma siamo ben lontani dall’immagine di una banda criminale che agisce ai suoi danni e ai danni del Paese che intende propinare a tutti noi. Mi chiedo allibito come osi lanciare certe accuse visto che nel suo partito compaiono figure ben più oscure, condannati per mafia e altri gravi reati, eppure nessuno ha mai pensato di dare a quello schieramento dell’associazione per delinquere. Il limite dell’incredibile ancora una volta è superato ma il Paese non può tollerare più. Ha bisogno di mettere da parte fango e ingiurie per ritrovare democrazia e giustizia. Un bisogno oggi rinnovato anche dal ricordo speciale di quei tanti magistrati che per quella democrazia e giustizia sono giunti a sacrificare la vita. Un ricordo che nessuno potrà mai sporcare.

stretta di mano e nel pomeriggio Pisapia ha annunciato di voler presentare querela contro la Moratti per diffamazione aggravata aggiungendo: «Letizia Moratti mente sapendo di dire il falso e mi diffama. Sono stato vittima di un errore giudiziario e sono stato assolto per non aver commesso il fatto. Così non si può fare campagna elettorale, Milano non può avere un sindaco bugiardo che usa questi metodi». Già durante la trasmissione comunque tra i due candidati c’erano stati momenti di tensione con la Moratti che sollecitata dal conduttore Emilio Carelli sul terreno giustizia, dopo che il premier Berlusconi ha imposto lo scontro tra politica e magistratura come filo conduttore di una campagna elettorale dell’esito decisivo anche per le sorti del governo nazionale, risponde: «Mi occupo dei problemi milanesi, voglio restare sul mio programma». La Moratti respinge anche le accuse di Pisapia di essere «sempre stata dalla parte dei poteri forti, come testimonia il Pgt, che è chiaramente un regalo agli immobiliaristi». Ma per il candidato del centrosinistra è anche «importante avere un luogo per esercitare il diritto di culto sancito dalla Costituzione», e ciò significherà che se sarà eletto sindaco «Milano avrà una sua moschea in tempo per l’Expo».

Apprezzamenti all’invito di Napolitano sono giunte da tutte le forze politiche. Da Milano il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, ha detto: «Noi cerchiamo di tenere ben presenti le indicazioni del Presidente della Repubblica e di tenere un pochino di campagna elettorale concreto e serio, non entriamo nelle polemiche assurde sollevate dal centrodestra e da Berlusconi per scaldare l’aria o nelle provocazioni come quella della Moratti». E il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini, da Benevento ha detto: «Noi siamo convinti che il presidente della Repubblica è’ un presidio serio per tutti gli italiani mentre abbiamo un presidente del Consiglio che è’ al limite della irresponsabilità, sembra un comico di “Scherzi a parte”. La colpa è sempre degli altri: dei magistrati, di Fini, di Casini, mentre dei problemi


politica

12 maggio 2011 • pagina 7

Con lui anche i giovani imprenditori che avevano puntato su Profumo

«Così si rilancia la città più indebitata d’Italia»

Alberto Musy, candidato del Terzo polo a Torino: «Basta con la fuga di cervelli dalle nostre università» di Michele Ghiggia

TORINO. È la sfida delle molte eredità. Quella di un sindaco apprezzato come Chiamparino, il nuovo progetto Fiat. Il candidato sindaco del Nuovo polo a Torino, Alberto Musy, è però l’unico che si propone di raccogliere un altro testimone, lasciato in corsa da quel Francesco Profumo, rettore del Politecnico, apparso nei mesi scorsi l’alfiere della borghesia intellettuale.Venuta meno l’investitura dei riformisti su di lui, i giovani delle imprese e delle università hanno scelto Musy, avvocato 44enne e professore di Diritto comparato. E il Nuovo polo si è subito ritrovato attorno al suo nome. Che la parte più dinamica del capoluogo piemontese sia dalla parte di Musy lo si è visto anche nel confronto con gli altri due candidati, Coppola e Fassino, organizzato martedì sera dai Giovani imprenditori. Lei appare come una figura di sintesi tra l’anima cattolica del Nuovo polo e quella laico-liberale. Una sintesi riuscita anche a livello nazionale? Guardi, non è alle Amministrative che si discute del programma politico generale. Ora è giusto parlare dei progetti relativi alla città. Comunque a Torino il coinvolgimento delle componenti liberali, qui tradizionalmente ben radicate, sembra riuscirle bene. Grazie a un programma concreto fatto di proposte chiare e aperto a contributi esterni. Non a caso, su ciascuno dei punti principali del programma abbiamo organizzato un incontro in cui cittadini e associazioni hanno avuto la possibilità di dire la loro. Il suo programma è intitolato “Radici torinesi. Respiro internazionale”. Come si coniuga l’anima notoriamente riservata di Torino con l’esigenza di internazionalizzare la sua vocazione industriale? È un luogo comune che Torino abbia un’anima riservata. Questa è l’unica città in Italia in cui, dal ’700 in avanti, si è respirata un’aria internazionale. L’internazionalizzazione è una questione di dotazione infrastrutturale e capacità attrattive. Come comune, abbiamo il compito di rendere appetibile la città a nuovi investitori attivando forme di detassazione per chi fa impresa e rendendo più semplici le procedure burocratiche, magari attraverso un assessorato alla Semplificazione. Diciamo sì anche alla Tav che avvicina Torino e l’Italia al resto d’Europa e rilancia il nostro sistema d’imprese. Una delle sfide è riuscire a trattenere qui i molti“cervelli”formati nelle università. Torino ospita due poli d’eccellenza, il Politecnico e l’Università. Noi pensiamo di inserire un ulteriore virus di competitività promuovendo l’insediamento a Torino del campus europeo di un’università americana, una sorta di terzo incomodo

Il presidente Napolitano ieri ha chiesto una tregua alla politica ma Letizia Moratti e Giuliano Pisapia (in alto) hanno risposto con una lite in diretta tv nel confonto su Sky del governo e delle amministrazioni non se ne parla mai. Questa è la costante. Debbo dire che c’è veramente da mettersi le mani nei capelli». Anche dal suo sito internet Casini ha risposto agli attacchi ricevuti dal premier: «Il presidente del Consiglio sta diventando un comico di “Zelig” o di “Striscia la Notizia”. Berlusconi sta parlando di tutto, meno che dei problemi degli italiani, di quei problemi che il suo governo non ha affrontato. Noi vogliamo sforzarci a parlare dei temi che affliggono il Paese e che meritano risposte concrete».

Concetti espressi anche dal segretario dell’Udc Lorenzo Cesa, a Cosenza per sostenere il candidato a sindaco Mario Occhiuto, in quota Udc e sostenuto anche dal Pdl: «Invece che fare campagna elettorale all’insegna di false promesse e di attacchi personali ai leader di altri partiti, forse è bene che vada a “Zelig” a raccontare qualche barzelletta». La butta sull’ironia Rocco Buttiglione: «Sembra che il presidente del Consiglio voglia togliere poteri al Presidente del-

la Repubblica, ma anche alla magistratura, anche ai pm e alla Corte Costituzionale. Non vorrei che volesse togliere poteri anche al Papa. Ancora no, ma nel futuro non possiamo saperlo. Il modello di tutto il potere nelle mani di uno solo l’Italia l’ha sperimentato già una volta, con pessimi risultati, e nessuno ne ha nostalgia».

Il presidente dell’Udc ha ironizzato anche sulla nomina dei sottosegretari: «Se Silvio Berlusconi propone di assegnare un altro sottosegretario a ogni ministero, io ho una proposta ancora migliore: riduciamo alla metà il numero dei parlamentari, moltiplichiamo per tre il numero dei sottosegretari in modo che ogni parlamentare di maggioranza sia anche sottosegretario. È l’unico modo in cui Berlusconi può soddisfare tutti gli appetiti che lui stesso ha scatenato con le campagne acquisti con le quali vergognosamente ha creato a sostegno del proprio governo un gruppo di responsabili che Pier Ferdinando Casini molto opportunamente ha chiamato “disponibili”».

che aumenti la qualità dell’offerta formativa. Una volta formati, bisogna impedire che i giovani siano costretti ad andar via per trovare lavoro. Il che, in concreto, si traduce nell’offrir loro maggiori possibilità di occupazione. Istruire un giovane ha un costo per il territorio che lo ospita e perderlo a vantaggio di altre città rappresenta anche una perdita economica. Come si fa a coniugare i tagli imposti dall’indebitamento del Comune con politiche sociali di sostegno alle famiglie e alle fasce più deboli della popolazione? È necessario cambiare il metodo di scelta dei beneficiari delle politiche per la famiglia favorendo i nuclei con più figli nell’assegnazione delle case popolari e dei posti negli asili nido. Lei vede una qualità di servizi uniforme su tutto il territorio urbano, o ci sono differenze tra centro e periferie? Le differenze sono evidenti. Negli ultimi anni il centro è stato trasformato in un gioiellino, a scapito delle periferie, spesso abbandonate a se stesse. Bisogna intervenire portando in queste zone servizi, infrastrutture ed eventi. Non è possibile che ci siano angoli della città, come piazza Vittorio, in cui i residenti soffrono per l’eccesso di movida e zone in cui non accade nulla. Negli ultimi 12 anni Torino è cambiata: come valuta l’eredità dei sindaci precedenti? È innegabile che l’amministrazione guidata da Chiamparino abbia reso Torino più bella e vitale. Va detto però che Torino, con quasi 4 miliardi, è la città più indebitata d’Italia e che il prossimo sindaco dovrà adottare serie misure per affrontare il problema. La mia ricetta è tagliare enti e consulenze inutili e cedere quote delle partecipate non strategiche. Lei dice: “Sì al merito e alla competenza”. Come si fa a farli valere nella macchina comunale? Nelle grandi organizzazioni è normale, soprattutto nei momenti di cambio di direzione politica, procedere a una valutazione comparativa delle competenze dei dirigenti e dei funzionari. Credo più a una analisi di questo tipo che all’introduzione di manager esterni. Il pubblico ha una sua peculiarità che chi proviene dal privato spesso non comprende. In campagna elettorale lei ha incontrato in più occasioni i giovani: come si fa a dar loro risposte concrete, soprattutto sulla disoccupazione? Lo ripeto: è necessario promuovere la cultura del merito. Il merito è la prima forma di legalità e giustizia. L’esito della competizione elettorale influirà sul progetto politico del Nuovo polo? Il successo elettorale sarebbe di buon auspicio per continuare su questa strada.

Nelle politiche sociali bisogna favorire i nuclei familiari con più figli. Dai colloqui con la gente è nato un programma pieno di concretezza


pagina 8 • 12 maggio 2011

il paginone

Le accuse di scarsa igiene mosse dal premier alla sinistra, hanno destato polemiche. Ma

Il “profumo” del mostro politico

La dubbia vena digestiva dei tedeschi e i comunisti “pelosi” degli anni 70, il lezzo dei Mori e i luridi zingari di Lombroso: non c’è nemico che non sia stato detto “fetido” dall’avversario di Maurizio Stefanini a doccia è di sinistra, la vasca di destra», sentenziava Nanni Moretti in Ecce Bombo. Ovvero: si rimane più puliti limitandosi a un’aspersione più frequente, o è meglio un’immersione completa però destinata a essere più occasionale?

«L

Non dite che il dilemma non è certamente di spessore teologico, perché invece fu proprio questa una delle ragioni del grande scisma tra Chiesa di Oriente e Chiesa di Occidente: i cattolici battezzano infatti per aspersione, mentre gli ortodos-

I “pelosi” e le carogne

«Aridatece er puzzone!»: scritta comparsa sui muri di Roma poco dopo la Liberazione.

«Pelosi»: termine spregiativo usato negli anni 70 dall’estrema destra per indicare “quelli di sinistra”.

«Fascisti carogne tornate nelle fogne»: slogan usato negli anni 70 dall’estrema sinistra si per immersione. Certamente, potrebbe avere una importante pregnanza politica, nel dibattito che si è appena acceso. «I leader della sinistra non è che si lavino molto. Poi essendo costretti a venire in Parlamento - devono andare in bagno e sono

costretti a farsi la barba, ma non è che si lavino molto», ha detto Silvio Berlusconi a un comizio a Crotone. «Il nemico sempre puzza», ha risposto a ruota Umberto Eco su Repubblica, in un articolo di prima pagina intitolato Il diverso che viene trasformato in nemico. Ovvero: non è che gli ha risposto proprio. Il pezzo è tratto infatti da un saggio contenuto in una raccolta di scritti “d’occasione” appena uscita per Bompiani, ed è presumibile che fosse stata programmata prima dell’uscita estemporanea del Cav. Però, si tratta di una coincidenza per lo meno curiosa.

In realtà, Eco si riferisce ai vari modi in cui nel corso della storia sono stati definiti come nemici a partire da certi indici di difformità veri o presunti gli appartenenti ad altre etnie. Eco ricorda ad esempio un“tale Berillon”che all’inizio della prima guerra mondiale scrisse un saggio per dimostrare «che il tedesco produceva più materia fecale del francese, e di odore più sgradevole». E il Giuseppe Giusti di Sant’Ambrogio, riferito ai soldati tedeschi da lui incontrati in una chiesa milanese. «Mi tenni indietro, chè, piovuto in mezzo/ di quella maramaglia, io non lo nego/ d’aver provato un senso di ribrezzo,/ che lei non prova in grazia dell’impiego./ Sentiva un’afa, un alito di lezzo;/ scusi, Eccellenza, mi parean di sego,/ in quella bella casa del Signore,/ fin le candele dell’altar maggiore». Però i tedeschi e affini ritengono a loro volta che a puzzare siano ad esempio medio-orientali in generale e ebrei in particolare. Eco cita un bizantino visto dall’ambasciatore del Sacro Romano Impero Liutprando da Cremona nel 968, e da lui definito “fetido”. E il domenicano svizzero Felix Fabri che nel ’500 fa un lungo viaggio in Terra Santa, Arabia e Egitto, e racconta di come «i Saraceni emettono un certo orribile lezzo, per cui si danno a continue abluzioni di diverse sorti; e siccome noi non puzziamo, ad essi non importa che ci bagniamo insieme a essi. Ma non sono altrettanto indulgenti


il paginone

I versi di Giusti

a la retorica del “cattivo odore” è uno stratagemma antico. In odore di razzismo «Mi tenni indietro, ché, piovuto in mezzo/ di quella maramaglia, io non lo nego/ d’aver provato un senso di ribrezzo,/ che lei non prova in grazia dell’impiego./ Sentiva un’afa, un alito di lezzo;/ scusi, Eccellenza, mi parean di sego,/ in quella bella casa del Signore,/ fin le candele dell’altar maggiore»: “Sant’Ambrogio” di Giuseppe Giusti, sui soldati austriaci

con gli Ebrei, che puzzano ancora di più... Così i puzzolenti saraceni sono lieti di trovarsi in compagnia dì chi come noi non puzza». E la santa benedettina renana Ildegarda di Bingen, che nel XII secolo descrive l’Anticristo nato dal popolo dei giudei e che spande “il fetore più orribile”.

Mentre l’ebreo Cesare Lombroso definisce invece puzzolente lo zingaro, perché“si nutre di carogne”. Infine Eco cita l’invento-

I montoni d’Occidente

«Quando mangi montone, tutto il tuo corpo puzza»: insulto tradizionale rivolto dai nord-coreani agli occidentali durante i negoziati per l’armistizio della Guerra di Corea re di James Bond Ian Fleming, che in Dalla Russia con amore in piena guerra fredda descrive «l’odore della metropolitana di Mosca in una sera calda», come «profumo dozzinale che dissimulava gli effluvi animaleschi. In Russia, la gente si inzuppa letteralmente di profumo, sia che abbia fatto, sia che non abbia fatto il bagno, ma soprattutto quando non l’ha fatto». In effetti, basta fare una ricerca a caso su internet in qualche lingua alle voci corrispondenti a “puzza”e a vari appellativi etnici, per comprendere come un tale tipo di etichette sia tutt’altro che un residuo del passato. «Mi hanno detto milioni di volte: gli europei non si lavano tutti i giorni, in particolare i francesi», scrive ad

esempio l’utente di un forum Usa dedicato agli europei. Sembra che il problema sia piuttosto comune in una vasta area. Solo per prepararmi». «E allora preparati!», gli risponde un altro utente. «Sai, in Svezia e Finlandia si fanno la sauna e sudano un sacco. Poi si rotolano nella neve che li rinfresca. Nel Regno Unito i britannici approfittano della pioggia. Seguono in continuazione le previsioni meteorologiche e al primo accenno di pioggia mettono la testa di fuori e si passano lo shampoo. I francesi e gli italiani mangiano un mucchio di aglio e il suo odore in genere sovrasta ogni altro odore del corpo. Gli olandesi e i tedeschi, vai a capire che fanno. Cerca solo di non salire mai su un trasporto pubblico quando stai tra di loro. Gli svizzeri e gli austriaci si fanno il bagno nella vasca ogni venerdì dal 1920. Con l’ora legale la spostano al sabato. Nessuno sa perché. Ogni uscita in questi Paesi va fatta di domenica, fin quando gli indigeni odorano ancora di fresco». D’altra parte Bryan Ward-Perkins, un inglese docente a Oxford cui però all’essere figlio di un archeologo classico ha valso di essere nato e cresciuto a Roma, nel suo La caduta di Roma e la fine della civiltà ha manifestato ai suoi compatrioti il sospetto che l’immagine repellente e puzzolente dei barbari in L’ultima legione, bestseller di Valerio Massimo Manfredi poi divenuto film, in «uno scrittore che vive a Bologna, sia dovuto alla vista dei turisti inglesi e tedeschi nelle pizzerie di Rimini non meno che al V secolo». Certo, il repertorio di Umberto Eco tende a essere tendenzioso: nel senso che, pur implicitamente confermando che lo stesso popolo può essere vittima e autore di stereotipi, il lettore ne trae l’idea che siamo noi occidentali i razzisti secondo i quali i “diversi”puzzano. In realtà, gli storici arabi delle Crociate, i racconti aztechi e incaici sulla Conquista, i resoconti dei giapponesi e dei cinesi sui primi incontri con gli europei, affermano che è vero anche il contrario: al loro naso, erano gli oc-

cidentali a puzzare. «Quando mangi caprone tutto il tuo corpo puzza», era un insulto tradizionale che al tempo delle trattative per l’armistizio nella Guerra di Corea i plenipotenziari nord-coreani avevano l’abitudine di rivolgere ogni tanto alle controparti occidentali.

Effettivamente al tempo di Cortés gli spagnoli si lavavano un paio di volte all’anno, contro il paio di volte al giorno degli aztechi. Ma qualche antropologo ha tratto la più banale impressione che avendo ogni gruppo etnico-culturale una propria gamma di odori cui è abituato, tende automaticamente a considerare aberrante la gamma di odori cui invece non è consueto. Insomma, noi italiani non ci accorgiamo del puzzo di aglio della nostra dieta: ma percepiamo benissimo quello di whisky e birra tipico di molti di quegli stessi statunitensi che l’aglio invece non lo sopportano. Naturalmente poi in molte culture i cattivi odori sono stati associati alle classi più basse della società. E in ita-

I profumi di Maometto «Tre cose ho amato di questo vostro basso mondo: la preghiera, i profumi e le donne»: Maometto liano di chi tiene in modo eccessivo a mostrare che sta in alto si dice infatti che “ha la puzza sotto il naso”. Però, avere la puzza sotto il naso può anche essere un semplice problema di iper-

sensibilità personale. Nel 1996, in particolare, Berlusconi mandò a ogni deputato di Forza Italia un flaconcino spray al mentolo con la seguente lettera di accompagnamento: «Egregio onorevole, certo di farle cosa gradita, la prego di accettare questo piccolo omaggio fresco e profumato, e di usarlo al fine di rendere sempre piacevoli gli incontri tra lei e il presidente di Forza Italia, onorevole Silvio Berlusconi, nonché dei suoi elettori». La firma: «Un cittadino che confida nel benessere». Sembra che il giorno prima avesse avuto problemi a sedere tra gli eletti del suo gruppo. Questa straordinaria ipersensibilità accomunerebbe il Cav a Maometto, cui fu attribuita una famosa frase: «tre cose ho amato di questo vostro basso mondo: la preghiera, i profumi e le donne». Messo assieme al fatto di aver obbligato i musulmani a pregare cinque volte al giorno e a lavarsi prima di ogni preghiera… Ma pure Gesù, riferisce il Vangelo, amava i profumi, e il suo primo scontro con Giuda si ebbe quando Maria di Betania sparse una libbra di olio di nardo ai suoi piedi, asciugandola poi con i suoi capelli. «Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento danari per poi darli ai poveri?», lo rimproverò Giuda. «Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri li avete sempre con voi, ma non sempre avete me». Insomma, il profumo come attributo dei Messia, che infatti in ebraico significa appunto “unto” di olio profumato.

Il comizio di Crotone, peraltro, ci ricorda un’altra caratteristica storica italiana. Che è stata quella di trasformare il nemico ideologico quasi in un’etnia diversa, da estirpare dal suolo nazionale, e da squalificare intanto con quegli stessi criteri di“trasformazione del nemico”individuati da Eco. Berlusconi ora dice che a sinistra puzzano, ma negli anni 70 all’estrema destra si usava il termine “pelosi” per definire “quelli di sinistra”: e non solo estrema. D’altra parte, il sistema è sempre stato abbondantemente reciproco. “Fascisti carogne/ tornate nelle fogne”, fu un famoso slogan pure degli anni 70: doppiamente imperniato appunto sulla puzza, della carogna e della fogna, cui a destra si rispose ad esempio definendo un giornale “La Voce della Fogna”. Autoironia d’altronde contenuta nella famosa prima scritta nostalgica che apparse sui muri della Roma appena liberata dagli Alleati nel 1944, mentre Mussolini era ancora vivo e al potere, sia pure precario, a Salò.“Aridatece er puzzone!”


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economia

La Germania apre al candidato italiano per la Bce. Ma in cambio vuole una politica monetaria meno accomodante di oggi

Un sì (e mezzo) per Draghi

La Merkel si sbilancia. Tremonti prima fa l’ironico poi lo propone di Francesco Pacifico

«Conosco Mario Draghi ha detto Angela Merkel in un’intervista - si tratta di una personalità interessante ed esperta, che è molto vicina alla nostra idea della cultura della stabilità e di una solida economia. La Germania potrebbe appoggiare una sua candidatura alla presidenza della Bce». La notizia è stata confermata poco più tardi da un suo portavoce: «Quando sarà annunciata la candidatura, il governo la appoggerà» ROMA. Dopo tanto traccheggiare Angela Merkel dà il suo assenso alla presidenza di Mario Draghi alla Bce. Allo sbarco su quella poltrona che i tedeschi consideravano loro per diritto divino. E sulla quale avrebbero posto Axel Weber, se non fosse che l’ex governatore della Buba si è suicidato annunciato prima del dovuto la fine della politica monetaria accattivante dell’ultimo biennio. Così, in mancanza di candidati alternativi, la cancelliera ha dovuto accordarsi alla strada già seguita da Nicolas Sarkozy, i governi di Spagna e Belgio, la city londinese e il Financial Times. E poco importa se ognuno ha aspettative diametralmente opposte su quello che dovrà fare all’Eurotower l’attuale inquilino di Palazzo Koch. Ieri mattina prima è stata diffusa un’intervista al Die Zeit, al quale la premier tedesca ha dichiarato: «Conosco Mario Draghi è una persona molto interessante e di esperienza. È molto vicino alle nostre concezioni di cultura della stabilità e di economia solida. La Germania potrebbe appoggiare la sua candidatura per l’incarico di presidente della Bce». Quindi è toccato al suo portavoce, Christoph Steegmans, eliminare gli ultimi dubbi: «Se Draghi si candida, la Germania lo appoggia». Un bel colpo per l’abile commis de l’etat che ha gestito il Tesoro negli anni post

Una carriera al vertice: dalla Sapienza alla Goldman Sachs

Tutti gli incarichi del professore Nato a Roma il 3 settembre 1947, coniugato, due figli, Mario Draghi ha ottenuto la candidatura ufficiale alla presidenza della Banca centrale europea in nome di un curriculum prestigioso. Nominato governatore della Banca d’Italia il 29 dicembre 2005, è già membro del Consiglio Direttivo della stessa Bce, membro del Gruppo dei Sette e del Gruppo dei Venti oltre che del Consiglio d’Amministrazione della Banca dei Regolamenti Internazionali. È inoltre governatore per l’Italia nel Consiglio dei Governatori della Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, della Società Finanziaria Internazionale, dell’Associazione per lo sviluppo internazionale, dell’Agenzia multilaterale di garanzia degli investimenti e della Banca Asiatica di Sviluppo. E ancora Alternate Governor per l’Italia presso il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Interamericana di Sviluppo e la Società Interamericana di Investimento. Dall’aprile 2006 è Presidente del Financial Stability Forum, divenuto Financial Stability Board dal-

la primavera del 2009. Una carriera al vertice, quella di Mario Draghi, che ha preso l’abbrivo a partire dagli anni 70, quando consegue, con il massimo dei voti e lode, la laurea in Economia all’Università degli Studi di Roma “La Sapienza“, discutendo la tesi con il prof. Federico Caffè. Prosegue poi gli studi al Massachusetts Institute of Technology sotto la guida dei proff. Franco Modigliani e Robert Solow, conseguendo il Ph.D. in Economics. A partire dal 1975 diventa professore incaricato prima di Politica economica a Trento, poi di Macroeconomia a Padova e di Economia matematica aVenezia, quindi di Economia e politica monetaria a Firenze ove, dal 1981 al 1991, è ordinario della stessa disciplina. Dal 1984 al 1990 ricopre la carica di Direttore esecutivo alla World Bank. Nominato Direttore Generale del Tesoro il 17 gennaio 1991, vi resta fino al 2001. È stato Vicepresidente e Managing Director di Goldman Sachs International e, dal 2004 al 2005, membro del Comitato esecutivo del Gruppo Goldman Sachs.

Tangentopoli e dell’uscita dallo Sme, che è andato a studiare la finanza internazionale da un osservatorio particolare (la vicepresidenza di Goldman Sachs) e che ha rimesso ordine in Bankitalia dopo lo scontro tra la politica (Tremonti), parte dei grandi istituti e il suo predecessore Antonio Fazio. E un bel colpo anche per il governo italiano e lo stesso Giulio Tremonti, che ieri, presentando la prossima missione del Fondo monetario nel Belpaese, ha preso la palla al balzo e dichiarato alla stampa: «Mi sembra di aver già firmato il documento con il quale l’Italia appoggerà la candidatura di Draghi alla Bce».

Nei giorni scorsi erano trapelate voci da Berlino, secondo le quali la cancelliera era pronta a interrompere la corsa di Draghi verso Francoforte, propendogli in cambio la poltrona di presidente del Fondo monetario, che il socialista Dominique Strauss-Kahn si appresta a lasciare per correre contro Sarkozy per l’Eliseo. Quindi il governo tedesco ha fatto chiarezza sulle sue intenzioni. Martedì sera durante una telefonata con Silvio Berlusconi e ieri in un vertice con il presidente della Ue José Maria Barroso, la Merkel avrebbe chiarito che cosa si aspetta da Draghi. Cioè che la sua Bce continui nella sua battaglia contro l’inflazione e che prosegua la fase di


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

mo continuare su questa strada. Ma non basta un giorno , non basta un decreto». Tremonti ha fatto sapere di aver «concordato con la delegazione del fondo monetario le cose da fare nel presente e nel futuro. Ha annuito quando Antonio Borges ha spiegato che «l’Italia è sulla strada giusta ma ha bisogno di una crescita molto più forte. Servono interventi sistemici per eliminare questi vincoli alla crescita». E ne ha approfittato per mandare un chiaro messaggio a Confindustria e ai sindacati: «Si può raggiungere l’obiettivo non in un solo giorno, con un solo soggetto, o con una sola legge, serve un periodo più lungo e più soggetti, pubblici e privati, che lavorano insieme».

exit strategy dalle politiche anticrisi. Non sarà difficile convincere Mario Draghi a seguire questa strada. L’attuale governatore della Banca d’Italia ha sempre detto di guardare alla Germania, alla sua rigorosa politica di bilancio, agli investimenti destinati all’innovazione tecnologia e alle riforme nel welfare. Non a caso la cancelliera ha sottolineato che il banchiere «è molto vicino alle nostre concezioni di cultura della stabilità e di economia solida». Più complesso sarà far digerire questa nomina ai tedeschi. Ai quali non era andato giù neppure che Berlino avesse dato il suo assenso all’elezione del portoghese Vitor Constancio a numero due dell’Eurotower, perché, in base al calcolo che per il principio della piena rappresentanza dei membri dell’Unione, la presidenza sarebbe toccato a un banchiere di uno dei paesi del Nord. Cioè ad Axel Weber.

Dopo aver perso la battaglia sulla riforma della governance europea, la Merkel dovrà spiegare perché il direttorato della Banca centrale europea è interamente espresso da due paesi con passivi elevatissimi dei conti pubblici: il Portogallo che è dovuto ricorrere agli aiuti di Ue, Bce e Fmi per far fronte alle scadenze, e l’Italia che per debito pubblico è seconda soltanto alla Grecia. A essere precisi, manca ancora un atto ufficiale della Germania per appoggiare Draghi. Ma a meno che l’italiano non si ritiri dalla corsa, la successione a Trichet sembra ormai segnata. Ma aver messo il tricolore sul pennone del grattacielo di Bruxelles non basterà al Belpaese per accelerare il suo risana-

Il Fondo monetario promuove i conti del Belpaese ma vuole più sforzi per il futuro. Il Tesoro promette misure espansive

Soprattutto il numero del Tesoro e il capomissione del Fmi hanno concordato su quanto l’Italia corra a doppia velocità. Borges ha ammesso di essere«abbastanza preoccupato per la situazione nel Sud dell’Italia e per il divario con il Nord del Paese. Tremonti ha aggiunto che per «non diventare un paese diviso, dobbiamo concentrare un parte delle nostre attività nel meridione». Intanto il ministro farebbe bene ad ascoltare l’Ocse, che ha suggerito quale il fronte principale da affrontare: il cuneo fiscale. L’Italia, infatti, è al terzo podio nella classifica mondiale per il peso delle tasse sugli stipendi, ma solo 22ma per livello dei salari a parita’ di potere d’acquisto. La retribuzione media di un italiano con 25.155 dollari e inferiore ai 30 mila nell’Unione europea, ma il carico fiscale nel 2010 è salito al 46,9 per cento rispetto al 34,8 della media Ocse. Spaventa soprattutto il

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mento dei conti. A Roma per la chiusura dell’annuale missione Antonio Borges, capo-delegazione del Fmi, ha spiegato che «l’Italia è sulla strada giusta per quanto riguarda il consolidamento fiscale», quindi ha apprezzato «i rilevanti progressi ottenuti nel 2010». Dubbi invece sul futuro. Nello statement finale del Fondo si legge che «il consolidamento previsto implica un aumento annuo dell’avanzo primario di circa un punto percentuale del Pil fino al 2014. Ma secondo stime meno ottimistiche, il deficit nel 2012 sarà un po’ sopra il 3 per cento del Pil». In conclusione, il «piano del hoverno appare ottimistico sugli effetti del consolidamento fiscale sul fronte delle entrate. Ma si è fatto ricorso a tagli generalizzati e non sono state specificate le misure per raggiungere il consolidamento dopo il 2012».

Di fronte ai controllori venuti da Washington Giulio Tremonti ha confermato il suo credo. E garantito che «il bilancio pubblico deve essere stabilizzato e non può essere usato per fare spese». Ma se dal Fondo monetario hanno stigmatizzato la vacuità delle misure di consolidamento negli anni successi al pareggio di bilancio, il ministro ha preferito soffermarsi sulle mosse per rimettere in piedi l’economia nel breve termine. Per venire incontro alle richieste che arrivano sia dalla sua maggioranza sia dalle parti sociali, il titolare di via XX settembre ha annunciato: «Abbiamo fatto un decreto e continueremo a farne altri. Cercheremo di ridurre la mano morta dell’economia, di dare indicazioni ad esempio sul credito di imposta e la ricerca scientifica. Abbiamo fatto riforme strutturali sul federalismo, sulla scuola, etc., e sappiamo che dobbia-

Direttore da Washington Michael Novak

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carico fiscale che grava sui redditi dei lavoratori più deboli. In Italia un single si vede sottrarre il 46,9 per cento dello stipendio da tasse e contributi previdenziali con un lieve aumento rispetto al 2009. Soltanto in Belgio, Francia, Germania e Austria le cose vanno peggio. Per un lavoratore sposato e con due figli il peso del fisco si attesta al 37,2. Soltanto in Francia e Belgio il carico fiscale e’ superiore. In Svizzera invece un single paga solo il 20 e appena l’8,3 se è sposato e con due figli a carico. Ben 12 paesi presentano un cuneo fiscale inferiore al 20 per cento per le famiglie, mentre per i single nessun paese extra europeo presenta una tassazione superiore al 30 per cento.

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grandangolo Dai malumori in Confindustria alle divisioni del sindacato

Imprese e operai si chiedono: chi ci rappresenta?

Il caso-Fiat ha fatto esplodere una crisi di rappresentanza che covava da tempo dentro un mondo del lavoro trasformato sia dalla recessione sia dallo sviluppo globale del mercato. Costi, diritti, tempi di produzione, partecipazione: sono tutti temi destinati a incidere (e dividere) sempre di più all’interno delle dinamiche produttive di Gianfranco Polillo azzardato accostare il disagio delle organizzazioni sindacali a quello di Confindustria? Forse no. Roberto Calderoli è stato forse eccessivo nel definire il gotha degli industriali italiani: la «Cgil degli oligarchi». Già l’esistenza di questa possibile analogia denota, tuttavia, un clima, se non una vera e propria diagnosi, che è rivelatore di umori più profondi. Qualcosa che si è sedimentato in una linea di continuità – dopo la burrascosa esperienza di Antonio D’Amato – che ha prodotto insofferenze e malumori. Quando Calderoli aggiunge di aver trovato «una certa arroganza professionale nell’intervento della leader di Confindustria, secondo uno stile non rimpianto che fu del suo predecessore Montezemolo» non fa altro che dare la stura a una valutazione di carattere più generale. Questi i dati più appariscenti. Sullo sfondo, invece, delle assise tanto reclamizzate, quanto povere d’informazioni. Un dibattito a porte chiuse, dove l’unico spiraglio è stato offerto dall’anonimo imprenditore che, su Twitter, bolla i protagonisti: «che noia questi interventi». Mentre Stefano Parisi – ex direttore generale della Confederazione – si scaglia contro i «professionisti della rappresentanza». Che cosa non ha funzionato? Emma Marcegaglia ha riunito circa sei mila imprenditori. Un fatto senza precedenti. Per avere qualcosa di simile bisogna risalire al 1992, in un contesto economico e sociale profondamente diver-

È

so. E non tanto perché quello fu l’anno della “grande stangata” del governo Amato, quanto per quello che ha rappresentato quel giro di boa per la società italiana: l’intreccio tra crisi economica e crisi politica che portò alla fine della Prima Repubblica e la destrutturazione del vecchio sistema politico, sotto l’incalzare di “mani pulite”. Quella platea servì ad accelerare il cambiamento.

Nei giorni scorsi Emma Marcegaglia ha riunito seimila imprenditori a Bergamo (a porte chiuse): un fatto senza precedenti La domanda che sorge è la seguente: perché una riunione a porte chiuse? Per dimostrare capacità di ascolto: è stato detto. Ma già in questo c’è il germe del sospetto. Questo significa, infatti, che finora questa capacità è mancata? E le riunioni preliminari – il giro dell’Italia in lungo e in largo – a cosa sono servite? In genere, nella gestione delle organizzazioni di massa – e Confindustria non fa eccezione – le grandi manifestazioni

servono a lanciare messaggi, a condizionare l’azione degli altri soggetti in campo, a ostentare forza e consenso. Nel chiuso delle stanze, invece, tutto si scolora. Il messaggio diventa ambiguo e la sua forza di penetrazione si riduce.

Ecco quindi un primo parallelismo con il disagio del sindacato. Una volta c’erano le grandi manifestazioni unitarie. Oggi anche la festa del 1 maggio diventa occasione di polemiche. Naturalmente le situazioni sono diverse. Confindustria resta l’unica organizzazione del fronte imprenditoriale, anche se le voci di abbandono da parte di questo o quello sono ricorrenti. Nel sindacato, invece, la frattura è reale. Cisl, Uil e Ugl sono, da tempo, in lotta con la Cgil, al punto che la vecchia unità sindacale è divenuta un pallido ricordo del passato. L’ennesimo colpo è arrivato proprio il giorno prima le assise di Bergamo. Con lo sciopero generale lanciato dall’organizzazione di Susanna Camusso – una vecchia cambiale sottoscritta da Epifani nei confronti della Fiom, prima di lasciare la segreteria generale – su una piattaforma evanescente: più lavoro e meno precarietà. Come se ci fosse qualcuno che potesse sostenere il contrario o opporsi a un simile obiettivo.Tant’è che nei cortei, pure numerosi, che hanno attraversato le piazze d’Italia la presenza era polarizzata: tanti giovani – soprattutto studenti – e tanti pensionati. Le generazioni di mezzo hanno disertato l’appun-

tamento. Padri e madri che abbandono i loro figli? Si trattasse solo di questo. La sconfitta – quella più dolorosa – la Cgil l’ha subita a Torino, negli stabilimenti dell’ex Bertone: dove si è consumato il fallimento di una strategia e dove la vecchia egemonia dei metalmeccanici ha subito un colpo dal quale non sarà facile riprendersi. Si pensava che Sergio Marchionne fosse una “tigre di carta”. L’amerikano che voleva imporre modelli di relazioni sindacali di tipo muscolare. O si fa come dico io o niente. Tanta insoddisfazione non solo da parte del sindacato, ma degli stessi vertici di Confindustria. Ed ecco allora la risposta, costruita a tavolino. Prima Mirafiori e Pomigliano d’Arco: una mezza sconfitta che equivaleva a una mezza vittoria. Un referendum sofferto, passato solo per un pugno di volenterosi. Quindi il ricorso alla magistratura per rimettere indietro le lancette dell’orologio e vanificare quei risultati. Il tutto in attesa della rivincita. A Torino, nella roccaforte rossa delle ex aziende Bertone, dove la Fiom aveva oltre il 60 per cento della rappresentanza sindacale, sarebbe stata una valanga di “no”in grado di rimettere tutto in discussione. Mai delusione fu così grande. La valanga vi fu, ma di segno contrario. Un risultato, addirittura,“bulgaro”con centinaia di tute blu che seguivano le indicazioni contrarie delle rappresentanze di base e sconfessavano la Fiom nazionale. Un ammutinamento, come noi stessi abbiamo scritto, che la


Parla il dg Giampaolo Galli me diventa assordante. Troppo lenti sono i tempi con cui il Paese reagisce di fronte all’emergenza. E allora è meglio la fine di un orrore che un orrore senza fine.

dice lunga sulla reale capacità di rappresentanza di quest’organizzazione sindacale.

Dov’è stato l’errore? Nel ridurre il tutto al tratto psicologico. Marchionne non ha fatto altro che fare il suo modesto mestiere di imprenditore. Deve costruire automobili che poi dovrà vendere. Se in Italia il costo – a causa della continua violazione delle regole sottoscritte – diventa proibitivo, allora non resta che andare altrove. Dove intraprendere diventa possibile. Semplice, ma anche estremamente complesso. Era il vecchio Marx che parlava della concorrenza come “potenza estranea”che costringe tutti ad adeguarsi alla propria legge. Fattore di sviluppo – l’ulteriore crescita delle

Nel sindacato la frattura è reale. Cisl, Uil e Ugl sono in lotta con la Cgil: l’unità del passato ormai è solo un pallido ricordo forze produttive – ma anche vincolo che impedisce deroghe e furbizie. Antonio Gramsci – non Friedrich August von Hayek – in Americanismo e fordismo ne aveva compreso pienamente la dinamica e il tratto evolutivo. Nella regressione culturale del “nuovismo”questi elementi si sono, invece, persi. Ed è stata l’inevitabile sconfitta. Quell’episodio tratteggia un secondo aspetto della crisi. Essa è percepita più dalla base che non dai vertici delle burocrazie delegate a rappresentare le relative istanze. Questo è, forse, il dato che unisce organizzazioni pur così diverse, come Confindustria e una parte del sindacato. C’è chi ritiene ancora di vivere nel mondo di Max Weber e invece siamo nell’orizzonte teorico di Robert Michels. Stabile divisione del lavoro, specializzazione dei compiti, una burocrazia depositaria del potere legale: questo il pensiero del primo. Per

Michels, invece, la burocrazia degenera in una struttura oligarchica volta all’autoconservazione. Che alla fine non riesce a cogliere i fermenti del mondo che vorrebbe rappresentare. Questa è una parte del copione andato in scena anche a Bergamo, a quanto è possibile sapere visto il blackout informativo. Le forme non sono state quelle della rivolta plateale, come nel caso della Fiom, ma le critiche non sono mancate. Basta con i convegni, i talkshow televisivi. Più interesse al territorio, maggiori servizi, una burocrazia meno romanocentrica. Malumori ancora epidermici, che tuttavia sono la spia di quel malessere diffuso di cui si diceva in precedenza. Semplici pettegolezzi? C’è, invece, un dato sorprendente.

Nel corso delle assise è stato effettuato un sondaggio. Nove domande, alcune per la verità banali. Chi può essere contrario alla meritocrazia? Successo plebiscitario con il 92 per cento dei consensi. Ma altre domande erano insidiose, come quelle che riguardavano proprio Confindustria. Alla domanda se l’Organizzazione dovesse essere più incisiva, abbandonando rituali e liturgie, solo il 4 per cento degli intervistati ha ritenuto che questo fosse un falso problema. Per il resto degli industriali la risposta ha assunto le caratteristiche del plebiscito. Altri temi che ci hanno colpito. Quello della svolta fiscale. Si può essere a favore di un’imposta patrimoniale? Il disaccordo era scontato. Meno le adesioni che hanno totalizzato una percentuale pari al 37 per cento. Quindi una parte consistente del mondo imprenditoriale ritiene che la proposta – originariamente avanzata da Carlo De Benedetti e poi ripresa da esponenti del centro – sinistra – abbia diritto di cittadinanza. È un dato che va letto in controluce: dimostra una profonda sfiducia nelle possibilità che ha l’Italia di uscire dal cul de sac in cui si è cacciata, per via dell’alto debito, senza una misura traumatica. Si dirà che questo responso contrasta con la proposta di privatizzare l’Ice (73 per cento dei consensi), ma questa ambivalenza è figlia di uno smarrimento programmatico. Nei giorni in cui Standard & Poor’s declassa il debito greco ponendolo al di sotto della spazzatura di Napoli, il grido d’allar-

Sempre rimanendo in tema di fisco, è degna di attenzione la proposta di sostituire l’Irap con un aumento dell’Iva e non solo per l’immediata risposta del ministro Romani. Quest’imposta si sa è la bestia nera degli imprenditori. Colpisce in modo indiscriminato. Obbliga a una doppia contabilità. Raddoppia il carico fiscale sui conti aziendali. Si accanisce contro il lavoro e l’indebitamento, visto che entrambi sono doppiamente tassati. Problemi antichi ai quali non è stata data finora risposta, nonostante gli impegni elettorali. Verrebbe quasi voglia di non parlarne, se non vi fossero gli esempi stranieri. Germania e Inghilterra, solo per citare i principali paesi europei, hanno aumentato l’Iva per ridurre il carico fiscale sui fattori della produzione. Una scelta virtuosa dal punto di vista macroeconomico. L’Iva colpisce i consumi. Ma in una fase di bassa inflazione, se si accompagna a una riduzione delle imposte sulle persone, ha un effetto neutrale sulla tenuta dei redditi reali.Tolgo con la mano sinistra per dare con la destra. Diverse sono invece le conseguenze sul quadro generale: in questo modo si colpiscono le importazioni e si favoriscono le esportazioni. Un succedaneo della svalutazione monetaria, come insegnano appunto i casi della Germania e dell’Inghilterra. Ed allora: perché non farlo, correggendo gli attuali andamenti che vedono, invece, il sopravanzare delle entrate derivanti dalle imposte sulle persone? Piccolo mistero, in attesa della grande riforma fiscale e dei suoi tempi indefiniti. Gli imprenditori si sono dimostrati cauti. La maggioranza, tuttavia (67 per cento), si è dichiarata a favore. Un segnale da non trascurare. I risultati che più ci hanno colpito, tuttavia, sono quelli relativi al lavoro. «Confindustria – era stato chiesto – deve continuare il percorso intrapreso per rendere i contratti nazionali di lavoro più flessibili, derogabili, esigibili». La risposta è stata convinta: 92 per cento. Qui il governo non c’entra. Per definizione. La “pratica” è tutta di Confindustria e delle Organizzazioni sindacali. Cisl, Uil e Ugl si sono dichiarate da tempo d’accordo. Si oppone Cgil, rivendicando un diritto di veto. Finora Confindustria si è mossa con grande incertezza. Lo dimostra quanto è avvenuto per il cosiddetto “Patto per lo sviluppo”. Tante buone intenzioni, ma su questo punto, che poi è il cardine delle reciproche relazioni, i passi sono stati incerti. Cgil ha fatto valere le proprie prerogative, congelando il negoziato. Si può fare di più? Gli imprenditori dicono di sì. Anche a costo di andare a un confronto più duro con l’organizzazione di Susanna Camusso. Comprendiamo le difficoltà di quest’ultima. La sua organizzazione è ormai simile alle matrioske russe. L’ultima bambola ha le fattezze della Fiom di Landini, che, a sua volta, subisce le pressioni di Cremaschi. Ma può la minoranza della minoranza, con il suo massimalismo passatista, bloccare un intero processo, che non trova adesioni nemmeno presso i propri militanti? Domanda puramente retorica. E allora: avanti con quel pizzico di coraggio in più che ci vuole per affrontare la peggiore crisi di questo dopoguerra.

Confindustria chiede scusa per gli applausi alla Thyssen MILANO. «L’applauso all’amministratore delegato di Thyssen è stato sbagliato, inopportuno, e colgo l’occasione per chiedere scusa a nome di Confindustria ai familiari delle vittime e all’opinione pubblica che si è sentita colpita e offesa». Lo ha detto ieri il direttore generale di Confindustria, Giampaolo Galli intervenendo alla trasmissione Cofeee Break su La7 e tornando sull’applauso che la platea delle Assise Generali degli industriali, sabato scorso a Bergamo, ha tributato all’ad della ThyssenKrupp. Un applauso che, seppure «sbagliato e inopportuno», secondo Galli «va capito perché è spontaneo in una platea di imprenditori. Perché c’è stato? Perché le imprese si trovano preoccupate per l’estrema incertezza del diritto in Italia». Secondo il dg di Confindustria sul tema della sicurezza è necessario il massimo impegno e «non si possono fare sconti». Galli ha ricordato che durante l’assise di Bergamo, che si è tenuta a porte chiuse, ci sono stati due applausi, tra i quali uno «molto intenso alla presidente Marcegaglia quando ha detto con grande forza che ogni incidente sul lavoro è una sconfitta per l’impresa. Questo è un punto molto chiaro per noi». «Noi siamo i primi a essere seriamente impegnati affinché non ci siano incidenti - ha detto successivamente Galli -. Noi abbiamo un impegno fortissimo sulla sicurezza sul lavoro. Un manager cerca di fare squadra con i propri dipendenti. Se non lavori insieme con gli operai non vai da nessuna parte. E un incidente sul lavoro può anche distruggere anni di lavoro fatto per creare una squadra».

Il dg di Confindustria ha poi spiegato quelle che potevano essere le ragioni dell’applauso, legandole dell’incertezza del diritto. «Le regole - ha detto - vanno applicate in modo uguale per tutti, in modo equo e giusto. Le sentenze si rispettano, ma ha detto lo stesso Guariniello che la sentenza era storica, un unicum, che accadeva per la prima volta al mondo. Personalmente - ha poi aggiunto - credo che le sentenze non debbano essere esemplari, ma giuste». Il nodo - secondo il direttore di Confindustria - è quello di «una giustizia che in alcuni casi è più severa che in altri paesi europei e in altri casi non fa nulla. Inoltre abbiamo un’amministrazione che in questo caso sembrerebbe non funzionare. La stessa procura ha avviato un fascicolo contro la Asl che aveva fatto controllo e non aveva trovato nulla di irregolare. Forse questa cosa in Germania non sarebbe successa. Sarebbe arrivato l’ispettore».


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Escalation di appelli al jihad. Perché la rete deve trovare il suo nuovo leader e la guerra alla successione è cominciata. A colpi di proclami

Talebani tali figli Dallo Yemen al Qaeda minaccia: gli Usa «il peggio deve ancora venire» di Antonio Picasso l peggio deve ancora arrivare», dice Nasser al-Wahishi, leader di al-Qaeda nella Penisola arabica (Aqap). «Promettiamo ad Allah che continueremo la nostra marcia e che la morte dello sceicco non farà che accrescere la nostra determinazione nel combattere ebrei e americani». In termini di comunicazione, il messaggio del terrorista, presumibilmente nascosto in Yemen, non aggiunge nulla alla maledizione lanciata da al-Qaeda contro gli Usa venerdì scorso. L’organizzazione conosce i suoi target e li mette in allarme. D’altro canto, i continui ammonimenti, privi fortunatamente a oggi di iniziative concrete, suggeriscono che il jihad deve ancora riprendersi dalla sberla ricevuta ad Abbottabad. Ben più interessante è l’origine della dichiarazione. Il fatto che venga da Aqap, anziché dalla succursale pakistana, conferma che la guerra per la leadership dell’intero trust terroristico è aperta. In questo senso, le cellule della penisola arabica hanno tutte le carte in regola per vincere la propria battaglia.

«I

Questo a livello logistico. La stessa cosa, tuttavia, si potrebbe dire per il Maghreb, dove Aqmi – al-Qaeda nel Maghreb islamico appunto – vanta un’operatività senza paragoni, oppure per il quadrante iracheno. Per questo motivo, non si può scartare l’ipotesi di una leadership assunta da una succursale locale. Al-Qaeda deve esser vista come un franchising. In questo è possibile che Aqmi, Aqap o altre sigle tentino di assumere il ruolo di capo cordata.

È possibile che Aqmi, Aqap o altre sigle tentino di assumere il ruolo di capo cordata, perché l’organizzazione ha bisogno di un “chairman”

È in Yemen che si possono rintracciare le origini della famiglia bin Laden. Questo significa che un erede di sangue dello sceicco ucciso potrebbe raccogliere un significativo consenso locale. Ed è ancora lì che sono stati installati numerosi campi di addestramento per mujaheddin che, in un secondo step, sono stati inviati al fronte afgano, oppure a combattere a fianco degli shabab nel Corno d’Africa. Insomma, lo Yemen potrebbe non aver nulla da invidiare rispetto ai talebani.

Di tutt’altro tipo è il discorso in merito alle singole personalità. L’organizzazione jihadista potrà decidere, infatti, di investire maggiormente in un’area piuttosto che un’altra.Tuttavia, avrà bisogno di un “chairman” che faccia da mentore comunicativo. Da uomo immagine, in pratica, disposto a vivere nascosto per il resto dei suoi giorni, salvo apparire improvvisamente in video per minacciare il nemico. Finora il nome più probabile che è stato avanzato è quelA sinistra: Osama bin Laden. In apertura: dei talibani. A destra, dall’alto: Al Zawahiri, il mullah Omar, lo yemenita Nasser al Wahayshi e Omar bin Laden

lo di Ayamen al-Zawahiri. Non potrebbe essere altrimenti. Il medico egiziano vanta un’esperienza all’interno della galassia jihadista che risale ancora a prima della nascita di al-Qaeda e che nessun cobelligerante può vantare. Al-Zawahiri era già un terrorista quando nemmeno Osama bin Laden aveva immaginato di dedicare la propria vita al jihad.

Membro della fronda più intransigente della Fratellanza musulmana, si ritiene coinvolto nell’assassinio del presidente egiziano Anwar al-Sadat, nel 1981. Successivamente ha scalato con rapidità la piramide della “rete”. In qualità di nume-

ro 2 ha saputo mostrarsi in linea con maggiore frequenza del suo capo ora defunto. Ed è proprio questo il cavallo di battaglia di al-Zawahiri. La sua dote telegenica non ha eguali nella galassia qaedista. Solo bin Laden poteva fargli concorrenza. Non per niente, sulla testa del medico egiziano l’Fbi ha emesso una taglia di 25 milioni di dollari. Ed è ben plausibile che gli Stati Uniti, quando parlano di possibili nuovi interventi mirati in Pakistan – per colpire l’organizzazione ora che è in fase di ripresa – facciano riferimento proprio a lui. Se al-Zawahiri morisse, l’organizzazione sarebbe davvero ridimensionata. Tuttavia, i


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so. Al-Wahishi è intervenuto con l’evidente intenzione di candidarsi alla guida di al-Qaeda. Dalla sua, il comandante di Aqap ha l’aura di mistero che si addice a un potenziale leader terrorista su scala mondiale. È ignota la sua età, come pure la taglia che le agenzie Usa potrebbero aver spiccato. Si sa che ha servito a fianco di bin Laden in Afghanistan fino al 2001. Per poi essere inviato nell’Arabia felix. Si tratta di un comando strategico per l’intera organizzazione. Dallo Yemen, al-Qaeda ha saputo far parzialmente sua la pirateria attiva nel Mar rosso e ha sconfinato in territorio saudita; targt obbligatorio per tutta la filiera jihadista.

to riguarda le relazioni tra Cina, India, Pakistan e, per tangenziale, Afghanistan. I movimenti di autodeterminazione del Kashmir sono tradizionalmente estranei a qualsiasi tipo di guerra confessionale. Tuttavia, nell’ultimo biennio New Delhi ha denunciato Islamadab di strumentalizzare la tensione locale per favorire il transito di talebani e altri gruppi mujaheddin verso l’Unione indiana. Proprio ieri, l’Unione indiana ha consegnato alle autorità pakistane una lista di cinquanta ricercati, molti di loro coinvolti nelle stragi di Mumbai di novembre 2008.

Il paradosso è che, a suo tempo, AlWahishi era stato arrestato in Iran. Le autorità di Teheran poi lo estradarono in Yemen, dove venne segregato nel carcere di massima sicurezza di Sana’a, dal quale è riuscito a fuggire. Oggi, sebbene non si possa quantificare in dollari la sua cattura, è interessante sapere che le polizie di Usa, Arabia Saudita, Yemen e forse pure Iran sono sulle tracce di AlWahishi. Il secondo nome, in sede yemenita, è quello di Fahd Mohammed Ahmed, detto “alQuso”. Washington è disposta a sborsare 5 milioni di biglietti verdi a chi lo scova. Nato 36 anni fa, è l’uomo di punta della tribù degli alwaqi, la più esposta al proselitismo qaedista. Infine, merita una riflessione Omar bin Laden, 31 anni e sposato un’inglese. Fino a ieri, si è

Per Fahd Mohammed Ahmed, detto “alQuso”, Washington è disposta a sborsare 5 milioni di dollari. Nato 36 anni fa, è l’uomo di punta della tribù degli alwaqi, la più esposta al proselitismo qaedista sessant’anni che l’attuale vice di al-Qeda compirà il 19 giugno non gli giovano nella corsa alla testa del gruppo. Si sta parlando, infatti, di un’organizzazione giovane, dinamica, che predilige ricorrere all’high tech e alle nuove generazioni. Ben lontana da una Spectre capeggiata da un oscuro grande vecchio. Osservando altrove, il primo pensiero va al Mullah Omar.

In questo caso, il punto debole del comandante talebano è proprio il fatto di essere talebano. Condurre la guerra nel cuore dell’Asia centro-meridionale è sì un’opportunità. Perché da quel quadrante i talebani stan-

no mettendo in scacco gli Usa e i loro alleati Nato. Tuttavia, alQaeda non aspira all’affermazione di un califfato in Afghanistan, ed eventualmente in Pakistan. Il suo obiettivo è l’affermazione di uno Stato islamico transnazionale. Il jihad non è un mero conflitto localistico, ma la lettura in chiave moderno-globale della Guerra santa, che – giudizio dei suoi propugnatori – viene osannata nel Corano. Vista così, la figura del Mullah Omar sarebbe ridotta a quella di un capo banda locale. Capace in termini tattici e operativi, insignificante da un punto di vista politico. Il versante yemenita, a sua volta, presenta tre nomi di pe-

sempre pensato che il clan e i parenti ristretti dello sceicco ucciso fossero esclusivo dalla linea di successione. Per il semplice motivo che non avessero mai sposato la linea terroristica di Osama. La dichiarazione rilasciata al New York Times potrebbe cambiare le cose. Il giovane bin Laden ha detto che, eliminando suo padre, gli Usa hanno violato i principi fondamentali. «Hanno ucciso un uomo disarmato, gettando il suo corpo in mare e sparando anche contro i suoi familiari». In teoria, il dolore di un figlio nel seguire in diretta la morte del padre è comprensibile. Dal momento in cui la vicenda chiama in causa al-Qaeda, è

più complesso fornire lo stesso giudizio. La posizione assunta da Omar, a questo punto, potrebbe indurre pensare che sia lui a voler prendere la guida dell’organizzazione fondata dal padre.

La sua totale mancanza di esperienza nel settore, fortunatamente, pone in dubbio questa teoria. In questo, Omar non ha seguito le orme del fratello Saad, lui sì da considerare l’erede dello sceicco. Se non fosse stato ucciso nel 2009. Ritornando sul fronte del centro-sud asiatico, viene da pensare allo scenario kashmiri, poco noto alle cronache occidentali, ma delicatissimo per quan-

Nell’elenco compaiono Hafiz Saeed e Masood Azhar, rispettivamente al comando di Lashkare-Toibe e del Jaise-Mohammed, ma soprattutto quello di Illyias Kashmiri, noto anche all’intelligence statunitense. New Delhi è convinta che quest’ultimo e altri terroristi siano nascosti a Karachi. Dal Pakistan non sono giunte smentite di sorta. Caso vuole che, giorni fa, a Washington sia circolata la notizia che sarebbe necessario stare attenti proprio a Kashmiri, veterano della guerra in Afghanistan contro l’Armata rossa, ex membro della Harkar-ul Jihad Islami (Huji) e ancor più della Brigata 313. Ed ecco allora che il pericolo torna a emergere dal Paese dei puri. È evidente, infatti, che nel caso non fosse al-Zawahiri ad averla vinta, la leadership potrebbe andare comunque a un latitante legato in qualche modo con le varie realtà armate del Pakistan. Ma è pure vero che, proprio a seguito della polverizzazione di tutti questi soggetti, ogni comandante ha la possibilità di diventare leader incontrastato, come può provocare fratture al vertice dell’organizzazione. Ne consegue che, sempre in linea all’immagine di franchising che è stata attribuita ad alQaeda, sono alte le opportunità per l’incremento delle iniziative da parte di succursali e cellule locali. In questo caso primeggia Aqmi in Nord Africa. Ma non si può dimenticare il peso che potrebbero ottenere singoli cani sciolti. Per esempio Adam Yahiye Gadahn e Anas al-Liby, rispettivamente valutati per uno e cinque milioni di dollari. Entrambi, appunto perché pesci piccoli agli occhi dell’Fbi, potrebbero sfoderare quella ambizione dei giovani che vogliono diventare capi il più in fretta possibile.


ULTIMAPAGINA Da oggi al 16 maggio, il XXIV Salone Internazionale del Libro di Torino

I 150 anni di Unità d’Italia, pagina dopo di Diana Del Monte na raccolta di testimonianze e saperi, tutti protetti dall’ampio abbraccio dei padiglioni espositivi del Lingotto. Da oggi al 16 maggio il XXIV Salone Internazionale del Libro di Torino torna a proporsi come una celebrazione del pensiero attraverso la parola di carta, e non solo.

U

Paese ospite dell’edizione 2011 è la Russia, presente durante la serata inaugurale di ieri sera nella figura e nella voce della scrittrice Ljudmila Ulitskaya e nella musica della BisQuit Orchestra, ensemble fondato nel 2002 da un gruppo di ex studenti del N.A. RimskyKorsakov. La madrina della vetiquattresima edizione è Daniela di Sora, editore di Voland; coerentemente con gli interessi della sua fondatrice, la piccola casa editrice nata nel 1995, guarda con particolare interesse alle letterature slave e a quella russa, portando al Salone 2011 nuovi autori come Mikhail Shishkin, Marina Palej e Zachar Prilepin accan-

L’ingresso del Salone internazionale del libro di Torino; la scrittrice russa Ljudmila Ulitskaya; la Bis-Quit Orchestra; gli scrittori Shishkin, Palej e Prilepin

ne, dunque, è la mostra 1861-2011. L’Italia dei Libri, ideata da Rolando Picchioni e curata da Gian Arturo Ferrari. Un’iniziativa dedicata ai testi fondativi, i libri che hanno fatto e diviso gli Italiani, con un viaggio che racconta la nostra storia unitaria attraverso la lente del libro e dei suoi protagonisti. Proprio in occasione dei festeggiamenti nazionali, il Salone si rinnova e conquista terreno. Accanto ai tre padiglioni espositivi del Lingotto Fiere, ci sarà lo spazio interamente dedicato all’area professionale con l’International Book Forum. La vera novità, tuttavia, è L’Oval, la struttura di 20.000 metri quadri a campata unica nata per ospitare le gare di pattinaggio ai Giochi Olimpici Invernali di Torino 2006 e parte del polo espositivo dal luglio 2009. Per raggiungere il nuovo spazio è stato predisposto un apposito camminamento coperto che dalla ferrovia arriva direttamente all’Oval. Al suo interno trovano posto la mostra dedicata al 150° anniversario dell’Unità d’Italia; il

PAGINA La ventiquattresima edizione della kermesse, che quest’anno ospita la letteratura russa, celebra l’unificazione del Paese attraverso una mostra curata da Gian Arturo Ferrari e dedicata ai nostri testi fondativi to ai grandi testimoni del Novecento. A rappresentare ufficialmente il proprio Paese durate la serata inaugurale sono stati Alexander Zharov (viceministro per le Telecomunicazioni e i mass media della Federazione Russa) e Vladimir Grigoryev (vicedirettore dell’Agenzia Federale per la Stampa e le Comunicazioni di Massa). Al fianco della Russia, il Salone rinnova il ruolo di invitato d’eccellenza alla Palestina, già nel programma 2008 con propri autori e quest’anno presente con un proprio stand. L’edizione 2011 non poteva ovviamente ignorare le celebrazioni dei 150 anni d’Italia. Grande protagonista della ventiquattresima edizio-

Bookstock Village, rivolto ai giovani lettori; il Padiglione Italia con gli stand delle regioni italiane; gli stand delle istituzioni nazionali; l’area Lingua Madre; Libro e Cioccolato, Tentazione e Meditazione; lo spazio dedicato al paese ospite ed ai piccoli lettori, nonché una nuova sala convegni. Un’edizione, quest’ultima, che non dimentica i nuovi strumenti di lettura; al centro di questa nebulosa che intreccia cinque percorsi di visita si trova, infatti, il «sedicesimo decennio», lo Spazio Telecom Italia con il libro del futuro fra digitale ed eBook. Predisposto dall’organizzazione anche un Salone Off che dal 6 maggio sta invadendo la città; terreno di conquista fino al 16 saranno alcune piazze impegnate in una caccia al tesoro e un’azione coreografica di massa di 250

danzatori volontari. Per il secondo anno consecutivo, poi, un grande autore si sottometterà al voto elettronico di visitatori ed espositori per tornare in autunno a incontrare gli studenti e il territorio del Piemonte. Dopo Amos Oz, i candidati stavolta sono Javier Cercas, Assia Djebar e Anita Desai. In una recente intervista, Ljudmila Ulitskaja riportava le parole di un amico medico che lavorava in una casa di cura: «In ogni camera c’è una biblioteca vivente perché c’è una persona che racconta qualcosa».

«La testimonianza della conoscenza - aggiungeva la Ulitskaja parlando dei suoi libri può avvenire anche in maniera indiretta» e così, dichiarandosi dedita a questo compito, l’autrice russa riallo cordava stesso tempo e per via altrettanto indiretta quanto sfogliare un libro sia la scoperta di esperienze non vissute, di luoghi non visti, di momenti non vissuti. In breve, di altri uomini; un ottimo motivo per non mancare il Salone dedicato al suo Paese.


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