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Se una cosa merita di essere fatta, merita anche di essere fatta male

Gilbert Keith Chesterton

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 13 MAGGIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Il premier lancia messaggi ai milanesi («Pisapia è amico dei violenti») e ai napoletani («Stop alle demolizioni»)

Fattore Moratti: il Pdl ha paura Berlusconi difende le “unghie”del sindaco e si mette contro la Lega sostenendo le case abusive.Ma è tutto nero di seppia: la verità è che lui e il suo partito vivono Milano con la sindrome della sconfitta CAMPAGNE GRIDATE/1

CAMPAGNE GRIDATE/2

Moderazione e innovazione: il doppio tradimento di Letizia

Sta bruciando la coda di paglia della maggioranza

di Franco Insardà

di Giancristiano Desiderio

a memoria va a Gabriele Albertini. A quei venti milioni di lire che l’ex sindaco spese nel 2001 per la campagna elettorale. Perché, come ricorda Sergio Scalpelli, «qualsiasi sindaco che ha governato in maniera appena decente, quando si ricandida non ha bisogno di fare una campagna elettorale così dispendiosa come quella di Letizia Moratti». Perché, come aggiunge un altro campione del riformismo milanese come Salvatore Carrubba, «Albertini in pratica non fece campagna elettorale, la sua rielezione era indiscussa. Il dispendio finanziario della Moratti è un segnale negativoa». a pagina 4

ra hanno paura. E la paura, in politica, non è un buon stato d’animo. Soprattutto i moderati - e il Pdl vorrebbe essere un partito moderato - dovrebbero esprimere tranquillità e serenità. Invece, siamo alle accuse, alla riscoperta degli anni Settanta, al terrorismo. Il fatto, poi, che Letizia Moratti abbia improvvisamente imboccato una strada così pericolosa e per lei insolita sta proprio a significare che il centrodestra nella sua interezza ha paura di perdere Milano. Berlusconi ha fatto già da tempo ricorso alla sua arma più oleata: la politicizzazione del voto amministrativo. a pagina 2

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Contro l’immigrazione

Se l’Europa torna agli egoismi nazionali di Luisa Arezzo

L’allarme del Fondo monetario internazionale

Bce: «Fate riforme contro l’inflazione» Non solo Grecia, Irlanda e Portogallo nel mirino: «Allarme contagio per il debito». E Francoforte chiede rigore e tagli stabili alle spese Francesco Pacifico • pagina 6

Oggi, a sorpresa, il governo di Bengasi sarà ricevuto ufficialmente a Washington

La Nato spara ancora su Gheddafi Continuano i raid sul bunker del raìs. Ma è giallo sulla sua foto di Antonio Picasso

Il direttore di “al-Quds al-Arabi”

Il regime non fermerà le piazze siriane

rosegue l’incognita Gheddafi. Le supposizioni sulla sua morte sono state smentite ieri con il video trasmesso dalla televisione di Stato libica, al-Jamahiria. Forse. Di sicuro, c’è che la Nato ha continuato a bombardare anche ieri notte il bunker del raìs a Tripoli. E che oggi Washington, a sorpresa, riceverà con tutti gli onori i rappresentanti del governo di Bengasi. a pagina 10

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di Abd al-Bari Atwan l fatto che decine di migliaia di manifestanti continuino a scendere nelle strade e nelle piazze della maggior parte delle città della Siria e che oltre venti persone siano cadute vittima del regime, conferma che ampi settori della popolazione siriana non temono la morte. a pagina 10

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

92 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

La Danimarca chiude le sue frontiere e l’Unione deve ridiscutere Schengen embrava una proposta destinata a cadere nel vuoto, forse solo una provocazione. Invece il Partito Popolare Danese l’ha spuntata: la Danimarca ha sospeso il trattato di Schengen e reintrodotto i controlli alle frontiere. La decisione è arrivata poche ore prima del vertice Ue dei ministri degli Interni e della Giustizia dedicato proprio alle freontiere e non può essere stata casuale. Sia perché ha sconvolto l’agenda in discussione, sia perché ha messo l’Europa davanti a un fatto compiuto poche ore prima dell’ultimo passo intermedio prima del Consiglio Ue di fine giugno che deciderà sulla possibilità di reintrodurre temporaneamente controlli di frontiera nell’area Schengen, come richiesto da Francia e Italia. a pagina 12

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19.30


l’analisi

prima pagina

pagina 2 • 13 maggio 2011

Il premier «butta in politica» le amministrative

Sta bruciando la coda di paglia del Pdl di Giancristiano Desiderio ra hanno paura. E la paura, in politica, non è un buon stato d’animo. Soprattutto i moderati - e il Pdl vorrebbe essere un partito moderato - dovrebbero esprimere tranquillità e serenità. Invece, siamo alle accuse, alla riscoperta degli anni Settanta, al terrorismo. Il fatto, poi, che Letizia Moratti abbia improvvisamente imboccato una strada così pericolosa e per lei insolita sta proprio a significare che il centrodestra nella sua interezza ha paura di perdere Milano. Berlusconi ha fatto già da tempo ricorso alla sua arma più oleata: la politicizzazione del voto amministrativo. Si dovrebbe discutere dei problemi dei cittadini di Milano,Torino, Bologna, Napoli ma il capo del governo, alla faccia del federalismo e dell’autonomia, preferisce “buttarla in politica”. Questa volta Berlusconi ha perfino rispolverato un concetto che gli fu caro nell’ormai lontano 1994: «Fermiamo la sinistra». Anche la sua preoccupazione di dire “non penso al Quirinale”e di specificare «voglio governare e mi impegno solo per non far vincere la sinistra» è la perfetta sintesi della paura di perdere e della scelta di estremizzare la campagna elettorale.

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Oggi Berlusconi sarà a Napoli per chiudere - e speriamo che non gli venga in mente di riaprirla domani - la campagna elettorale. La scelta di Napoli non è casuale: va in Campania per annunciare ai napoletani l’apertura della nuova discarica di Nola per ripulire il capoluogo. L’uscita napoletana gli serve come ricaduta anche per il resto del Paese. Resta il fatto, però, che Napoli attualmente è sporca e il ciclo di smaltimento dei rifiuti, che proprio il premier aveva assicurato come imminente, è molto ma molto lontano dalla realizzazione e si va avanti a botta di discariche. Ma anche se sarà presente a Napoli, Berlusconi avrà la testa altrove: a Milano. Solo l’idea di andare al ballottaggio lo tormenta perché sarebbe di fatto già una sconfitta. La sua città è il simbolo della sua affermazione e la bocciatura dei milanesi è l’inizio della fine. Se perde la fiducia dei milanesi non riuscirà più a riconquistare la fiducia degli italiani. È qui che nasce la paura di queste ore che, in realtà, è la paura di questi giorni. I sondaggi che Berlusconi ha in mano non sono positivi. La paura inizia da qui. Il tentativo di minimizzare dopo lo “scivolone” della Moratti è il tentativo di far passare sotto-silenzio il passo falso del sindaco uscente. A conti fatti Milano è soprattutto la capitale del berlusconismo.Tramontata da tempo la definizione di capitale morale, ricondotta nei limiti delle cose la seconda definizione di capitale economica, oggi Milano è la capitale del berlusconismo che misura lo stato di salute della politica di Berlusconi. Anche l’esigenza di ridimensionare il conflitto con il presidente Napolitano ha un’origine milanese: non a caso proprio il presidente della Repubblica ha ricordato «la Milano di Alessandrini». Su questo punto così sensibile - la magistratura - Berlusconi ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco incassando il colpo in un momento in cui non ha più il controllo dell’opinione pubblica milanese. La sua condotta ora oscilla: cerca il dialogo e il reciproco rispetto con il Quirinale e al contempo cerca la “guerra” con gli avversari politici e con il suo fantasma preferito: il comunismo. Ma questa oscillazione, questo “pendolo di Berlusconi”, è il frutto amaro della paura di perdere la città «della nostra avventura di libertà». Se la Moratti non vince al primo turno, il governo Berlusconi non si rafforza con il secondo turno.

il fatto Botta e risposta fra il premier e Calderoli sullo stop alle demolizioni di case abusive

La paura nelle urne

Berlusconi minaccia e promette: difende la Moratti e litiga ancora con la Lega. Milano ormai per lui è l’ultima spiaggia, anche a costo di andare al ballottaggio di Errico Novi

ROMA. Non è un day after. È una replica. Letizia Moratti torna a scavare nel passato di Giuliano Pisapia. Non rinnega niente dell’affondo di mercoledì. Anzi. Dopo aver rilanciato, nel corso di una tribuna elettorale, l’accusa al candidato della sinistra di «frequentare terroristi», il sindaco uscente fa di più. Rilascia una dichiarazione in cui semplicemente dice: «Confermo tutto quello che ho detto. E ringrazio Berlusconi per la solidarietà». Ecco, nonostante il brusio risentito del Carroccio, nonostante le molte attestazioni ricevute da Pisapia persino da esponenti del centrodestra, Letizia tira dritto. «Pentita?», le chiedono nel corso del dibattito televisivo a cui partecipa anche il candidato del Terzo polo Manfredi Palmeri e gli altri aspiranti sindaci. Lei non si scompone: «No», altro che pentita. «La mia intenzione era ed è sottolineare che non può essere considerata come moderata la storia di una persona che in quegli anni era vicina ad ambienti terroristici». Nessun passo indietro neppure sull’impropria evocazione della vicenda processuale, che vide il penalista milanese assolto con formula piena: «Ho citato la sentenza perché dimostrava quello, cioè la frequentazione di terrosisti». Letizia in versione tupac amaru. Letizia che sembra la Santanchè, con un tono di voce appena meno scomposto. Sindaco uscente che, soprattutto, conferma di doversi affidare alla soluzione più estrema. Pur di riguadagnare terreno, pur di tentare, disperatamente, di scampare a un rischiosissimo ballottaggio. Al netto dei distinguo della Lega, dei molti silenzi in cui si rifugia quasi tutto il Pdl, c’è un dato: il Cavaliere –

e con lui la Moratti – è preoccupato dai sondaggi. Ha scommesso tutto su Milano e sulla vittoria al primo turno. Che al momento però resta improbabile. I timori, per il premier, nascono dall’altissimo grado di astensione previsto in molte grandi città, e nel capoluogo lombardo in particolare. Forte diserzione delle urne che all’ombra del Duomo colpirebbe soprattutto l’elettorato di centrodestra. Assai più mobilitati infatti paiono, anche a Berlusconi, quei settori della società civile di ispirazione riformista e in generale tutte quelle fasce di elettori che intravedono la storica possibilità di un ribaltone. Un successo di Pisapia a Milano rappresenterebbe quello che è stato Guazzaloca a Bologna per il centrodestra. L’opportunità eccita dunque le file avversarie. Silvio lo sa bene. E per questo corre ai ripari. Per questo dice che «in una campagna elettorale segnata dagli attacchi verbali e dalle violenze verbali della sinistra, ogni tanto è giusto che Letizia tiri fuori le unghie». Pieno sostegno, dunque, anche perché «in campagna elettorale si possono capire comportamenti che non saranno poi gli stessi quando si dovrà governare».

La paura c’è. C’è la netta sensazione, nella war room del Cavaliere, che «una forte astensione come quella prevista a Milano possa favorire soprattutto Pisapia». Ecco la ragione dell’affiancamento di Berlusconi dopo l’iniziale disappunto per il passo falso della candidata. «Ma non è il caso di dare troppa importanza alle voci riportate sui giornali», dice un fedelissimo del premier, «tanto è vero che già mercoledì quelle presunte reazioni contrariate sono state smentite subito da Bonaiuti.


l’incontro

Napolitano, presidente «moderato» Davanti agli studenti fiorentini dice: «Faccio quello che posso. Sempre nel rispetto della Carta» di Gualtiero Lami

ROMA. In un modo o nell’altro, il Quirinale è uno degli attori principali di questa piccola tornata elettorale che si sta trasformanodnin un incubo per Berlusconi. Il Qurinale inteso come luogo simbolico e come sinonimo del suo inquilino attuale, Giorgio Napolitano. Berlusconi ieri, intervistato dal Gr1 ha escluso – per la prima volta in modo diretto – interessi sul Colle per il proprio futuro: «Io non penso affatto di andare al Quirinale, penso a governare». Affermazione sibillina da intendere sempre come la richiesta di un appoggio personale in questo che egli stesso ha trasformato un referendum su di sé. Non a case, nella stessa intervista, il Cavaliere ha attinto dal suo vecchio copione elettorale i soliti improperi nei confronti della sinistra che «reintrodurrebbe l’Ici, metterebbe una tassa patrimoniale sui beni delle famiglie italiane, aumenterebbe dal 12,50 al 25% delle imposte su Bot e Cct, consentirebbe intercettazioni a go go e spalancherebbe le porte agli immigrati per dare loro la possibilità di votare dopo cinque anni e alterare gli equilibri e la bilancia elettorale che dal 1946 a oggi è stata sempre favorevole ai moderati e al centrodestra». Ecco, alla luce di tutto ciò, Berlusconi pensa «soprattutto a impedire che la sinistra possa ritornare al governo perché conosciamo ciò che ha fatto negli anni». Nulla di nuovo, dunque, come pure non è nuovo il superattivismo del premier negli ultimi giorni di campagna elettorale, abitudine che in questi ultimi vent’anni gli ha consentito di recuperare anche situazioni che sembravano disperate. Vedremo come andrà questa volta. Sull’altro versante, quello dell’inquilino attuale del Quirinale, il presidente Napolitano era ieri a Firenze,

dove ha incontrato un nutrito gruppo di studenti universitari nel Salone dei Cinquecento, a Palazzo Vecchio, a Firenze. È stato accolto da una standing ovation che è andata avanti così a lungo da indurlo a commentare: « Sento la fiducia di tutti gli italiani». Dopo di che, ha aperto il suo inter-

Gli risponde il Cavaliere in un’intervista: «Non ho alcun interesse ad andare al Quirinale. Il mio compito è fermare la sinistra»

Parlamento nazionale non è condannato a sparire e non è destinato a ridursi a un esercizio povero e meschino delle sue facoltà». Il suo discorso non era limitato solo all’Italia: «Esiste il problema di riqualificare i Parlamenti ed i parlamentari nazionali. In Gran Bretagna per piccole cose i parlamentari si sono dovuti dimettere. Ma noi abbiamo una scala di giudizio un po’ diversa e per questo motivo tutto quel clamore ci può sembrare eccessivo...». «Io credo - ha in ogni caso puntualizzato - che ci sia la questione di rilanciare il ruolo del Parlamento nazionale».

vento dicendo «faccio quello che posso e che devo fare secondo la Costituzione», e ha continuato spigando: «Sento la responsabilità e la fiducia degli italiani di tutte le idee politiche e di tutte le condizioni sociali». Poi, riferendosi alla ricorrenza del 150° dell’unificazione del Paese, ha colto l’occasione per un appello alla solidarietà e al confronto tra le idee: «La nostra unità richiede pluralismo, sussidiarietà. Questo vale per l’Italia e anche per l’Europa». Napolitano ha parlato anche del ruolo delle Camere: «Il

Berlusconi è d’accordo, è fuori strada chi pensa il contrario». E infatti la giornata regala due certezze: la Moratti non segue il consiglio di qualche esponente della maggioranza e di molti opinionisti, a cominciare dal vicedirettore del Corriere della Sera Giangiacomo Schiavi, che le suggerivano di scusarsi con Pisapia. Sottoscrive e conferma tutto. Secondo dato, il presidente del Consiglio smentisce le reazioni attribuitegli nelle prime ore, parla di buon effetto mediatico e dice che «Pisapia non può lamentarsi di niente, con il suo passato». Toni cupi da ultima battaglia, da ridotta estremista che precede una possibile slavina elettorale. «La Moratti è nervosa», come sintetizza Casini.

portare una cosa del genere. E bisogna dunque ricordare di quale personaggio stiamo parlando».

Ma se davvero è così, se cioè da parte di Berlusconi già si mette in conto un secondo turno, la verità è che le conseguenze del voto di domenica rischiano di essere pesanti per il governo. Pochi, davvero pochi, nel Pdl considerano l’ipotesi senza fare drammi – per esempio Enrico La Loggia, pronto a ricordare che già nell’occasione precedente la Moratti vinse di poco e che all’epoca c’erano con lei sia Fini che l’Udc – perché la circostanza

Se il ministro per la Semplificazione si accontenta di un vago avvertimento («dovrà parlarne con noi») , l’ex guardasigilli è più netto: «Non si discute nemmeno, la Lega non voterà quel provvedimento». Una crisi di gravità prossima a quella delle scorse settimane sulla Libia. Il premier minimizza e dice che «Bossi ha un forte senso della competizione elettorale e in questi casi ognuno fa per sé». Ma c’è molto altro, evidentemente. Nel tardo pomeriggio arriva una presa di posizione del presidente del Senato Schifani: «Auspico che si torni al confronto, al dialogo e ai problemi della gente, e che non ci siano il vilipendio e la conflittualità». Ma è un richiamo che il capo del governo non è in grado di assecondare: ora come ora è mosso solo dal pericolo di una catastrofe milanese, anche se a questo rischia di aggiungersi l’ansia per una Lega molto ricompattata dalla polemica sugli abbattimenti in Campania. Sul tema, oltre al Carroccio di stretta ortodossia, si ritrova perfettamente anche il ministro dell’Interno Maroni, mai troppo in armonia con Cosentino e il Pdl napoletano, nonostante la recente visita sul Golfo. Nel caos generale si aggiunge pure la malcelata frattura che allontana gli ex An del Pdl dai lumbàrd, in particolare a Milano, dove la polemica sul posto da vicesindaco tra De Corato e Salvini è interminabile. E certo Berlusconi non pare potersi rasserenare rispetto alla decisione di Bossi di rinviare il raduno di Pontida: Calderoli lega lo slittamento a una svolta «epocale» che l’happening potrebbe sancire. Il peggio che il premier potesse sentirsi dire.

Il primo cittadino uscente: «Confermo tutto, il mio avversario era amico dei terroristi». L’impennata, spiegano i berlusconiani, concepita anche per mettere il Terzo polo in difficoltà in vista di un probabile secondo turno

E qual è il senso della strategia? Secondo altre voci che si raccolgono nella cerchia ristretta del Cavaliere, dietro l’impennata dei toni su Milano ci sarebbe già una strategia per il ballottaggio: «Con il confronto spostato tutto sulle giovanili amicizie di Pisapia con katanghesi e terroristi di Prima linea, verrà messo in difficoltà anche il Terzo polo. Il ragionamento è semplice: vi immaginate i moderati di Casini e Fini che chiedono al loro elettorato milanese il sostegno per uno che frequentava gente come Sandalo e Donat Cattin? Come fanno al secondo turno a dire che sono schierati con Pisapia? E soprattutto come possono pretendere che il loro elettorato moderato si butti nelle braccia di uno che aveva amici vicini a Prima linea? Questa è la città che sfilò imponente e silenziosa dopo l’assassinio di Alessandrini. I moderati, la borghesia professionale, la società civile liberale di quella città non può sop-

rischia di produrre subito complicazioni ulteriori con la Lega. Intanto è assai diffuso il timore che in caso di ballottaggio il Carroccio non si impegni per nulla, come è già accaduto in altre sfide locali in cui non erano in gioco suoi esponenti. E poi già adesso l’aria che tira con Bossi è al limite dell’irrespirabile. Berlusconi continua a dire che «l’alleanza con la Lega è solidissima» ma riceve per tutta risposta una porta sbattuta sul muso: nessuno spazio, dicono prima Calderoli e poi Castelli, per una «sanatoria sull’abusivismo in Campania» che invece Berlusconi promette già da qualche giorno, sollecitato da Cosentino e dal resto del Pdl locale.

Napolitano poi si è sottoposto alle domande degli studenti e per questo ha toccato i temi più diversi. Quello della rappresentanza femminile nelle istituzioni, per esempio, a proposito del quale ha detto: «A vedere le piccole percentuali di donne elette in Parlamento in Italia cadono le braccia» ha detto Napolitano evidenziando che c’è un problema generale di sottorappresentanza femminile in tutte le istituzioni e nelle aziende «ma il punto più nero è la rappresentanza nel Parlamento». Per i consigli di amministrazione delle aziende, ha spiegato, si è fatto ricorso alle quote rosa. «È un metodo sbrigativo ma efficace. Sarebbe meglio dare prove collettive di impegno». Dare più spazio alle donne significa anche riconoscere, ha concluso, i loro meriti, «vorrà pur dire qualcosa il fatto che siano sempre di più le donne a vincere in maggioranza nei concorsi pubblici, anche nell’ultimo concorso in magistratura». Poi è stato toccato il capitolo delle riforme. Secondo il capo dello Stato, «per andare verso un sistema delle autonomie che comprenda anche aspetti di federalismo non ci si può limitare al campo fiscale. Occorre anche una Camera delle Regioni e delle Autonomie per corresponsabilizzare i rappresentanti locali e regionali sui problemi del bilancio pubblico». In ogni caso, «restano da misurare gli effetti sociali» dei decreti attuativi del federalismo anche ricorrendo a «correttivi necessari». Quello che è certo, ha però evidenziato, è che «se si vuole andare verso un autonomismo che raggiunga anche aspetti di federalismo non ci si può limitare solo all’aspetto fiscale».


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l’approfondimento

Dopo l’aggressione televisiva al candidato della sinistra, parlano Sergio Scalpelli e Salvatore Carruba

Il doppio tradimento Letizia Moratti si era presentata come una manager efficiente ed equilibrata. Ma la sua gestione di Milano è caduta proprio su questi due temi cruciali: innovazione e moderazione. Però questa volta la città se ne è accorta di Franco Insardà

ROMA. La memoria va a Gabriele Albertini. A quei venti milioni di lire che l’ex sindaco spese nel 2001 per la campagna elettorale. Perché, come ricorda Sergio Scalpelli, «qualsiasi sindaco che ha governato in maniera appena decente, quando si ricandida non ha bisogno di fare una campagna elettorale così dispendiosa come quella di Letizia Moratti». Perché, come aggiunge un altro campione del riformismo milanese come Salvatore Carrubba, «Albertini in pratica non fece campagna elettorale, la sua rielezione era indiscussa. Il dispendio finanziario della Moratti è un segnale negativo per un sindaco con un cognome così importante e al suo secondo mandato. Fare questa fatica per evitare il ballottaggio è in un certo senso già una sconfitta». Sergio Scalpelli, direttore delle relazione esterne di Fastweb, che dal 1983 al 1992 ha diretto la casa della cultura di Milano ed è stato assessore della giunta Al-

bertini dal 1997 al 2001, ieri mattina sul suo profilo Facebook ha commentato indignato: «Sto semplicemente pensando che Giuliano Pisapia è un galantuomo che sulla giustizia ha sempre detto cose condivisibili ed è un garantista vero, mentre la mamma di Batman è una miserevole incompetente». E ancora: «Sto pensando che a Milano vivono diversi zoticoni. A oggi infatti né la mamma di Batman, né Gattuso si sono ancora scusati...».

Mentre per Carruba, ex direttore del Sole24Ore e anche lui assessore della giunta Albertini «le ultime ore della campagna elettorale non hanno rafforzato l’idea di una Moratti moderata. Anticipata su questo da Berlusconi e con una sinistra che, come al solito è caduta nel gioco. Alla fine i poveri milanesi si troveranno a decidere su due candidati che, in alcuni casi, sono molto lontani dal loro modo di intendere il sindaco, al netto delle polemiche di questi ultimi giorni».

Secondo Scalpelli la Moratti «non ha saputo dare continuità alla gestione di Albertini che l’ex sindaco definiva “da amministratore di condominio”. Una definizione che incarna bene quello che i milanesi, a differenza di altre città, vogliono dalla loro amministrazione: un sindaco vicino alle esigenze dei suoi concittadini e al tempo stesso che risolva i problemi pratici. Il milanese non chiede all’amministrazione di organizzargli la vita dalla culla alla tomba, vuole

Sergio Scalpelli: «La candidatura di Palmeri apre una prospettiva interessante»

soltanto che gli garantisca il minimo dei servizi per una buona qualità della vita. La Moratti è venuta meno in tutto questo, disconoscendo il modello-Albertini, senza riuscire a proporne uno suo. La massima espressione dell’innovazione dovrebbe essere l’Expo, ma a detta di tutti si è impantanato per una lotta di potere. Sulla moderazione può bastare l’atteggiamento che la Moratti ha avuto nei confronti di Giuliano Pisapia alla fine del faccia a faccia di Sky».

L’amministrazione Moratti, secondo l’ex direttore del Sole24Ore, si è caratterizzata per «una certa fuga sui temi propri della città sui quali si dovrebbe misurare l’efficienza: dal funzionamento della macchina comunale al modo di gestire le periferie, dalle politiche culturali a quelle sociali e del lavoro. Mentre sull’Expo nelle ultime settimane c’è stata una accelerata con una governance chiara, ma la città non ha capito in questi anni quale saranno gli effetti positivi dell’evento».

Sergio Scalpelli prova a disegnare la fisionomia dell’elettorato moderato milanese che secondo lui vive una condizione di «malessere che sarà solo in parte naturalmente intercettato da Manfredi Palmeri. Mi riferisco a quell’elettorato che dal 1994 a oggi si è schierato con il centrodestra. Il malessere di questi cittadini ha due caratteristiche: una specifica su come è stata governata la città in questi ultimi cinque anni e l’altra lega-


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Luigi Crespi e Maurizio Pessato dopo il colpo basso della Moratti: «Nel Pdl è terrore ballottaggio»

«L’insulto in tv non sposta voti, i milanesi sono disorientati»

Secondo i sondaggisti, la cattiva prova del sindaco uscente non influirà in modo significativo. «Continuano a vincere delusione e incertezza» di Francesco Lo Dico

ROMA. Se il fine giustifica i mezzi, la Moratti se ne impipa altamente. E poco le importa di Milano, se anche all’indomani della performance televisiva che le è costata una denuncia per diffamazione aggravata, il volto terreo del sindaco uscente non tradisca alcuna espressione di rammarico. Restano di sale colleghi ed esponenti del Pdl che hanno porto le scuse a Pisapia, resta di cera lei, che anche ieri ha proseguito nelle accuse all’avversario politico nonostante l’altolà intimatole dal premier, indignato per la pessima resa televisiva della sua controfigura in privato. E abbastanza tiepido nella difesa d’ufficio per interposta persona, peraltro condita da un gustoso anacoluto che testimonia di una logica troppo contorta persino per lui: «Che ci sia stato un ricordo di questo genere da parte della nostra candidata in una campagna elettorale che la sinistra ha segnato con i suoi attacchi e le sue violenze verbali facendone quasi una campagna da guerra civile, ogni tanto è giusto che anche Letizia tiri fuori le unghie». Magari insieme a un buon manuale di sintassi. Coe che sia, alla vigilia del voto è ormai evidente che il centrodestra sia attraversato da un panico diffuso. Nonostante i gadget avveniristici in dotazione, forse la volata è diventata troppo ardita persino per una come la mamma di Batman. A dispetto della cascata di milioni di euro riversata nella campagna elettorale, la paura di una spiacevole sorpresa nelle urne è più che palpabile, insomma. Anche a detta di sondaggisti come Luigi Crespi, direttore dell’omonimo istituto di ricerche: «È scorretto parlare di paura nel centrodestra. Il sentimento che esprime il clima che c’è in casa del Pdl è il terrore. Le ultime uscite della Moratti non cambiano la sostanza di un confronto politico inesistente. Era un candidato del tutto inadeguato anche prima dei numeri su Sky, tant’è che sui manifesti elettorali c’è la faccia del premier. Se il sindaco uscente riuscisse ad arrivare al ballottaggio, sarà solo per l’abilità comunicativa di Berlusconi, che ha trasfigurato Letizia nella sua incarnazione mi-

lanese». Ed è sostanzialmente concorde anche Maurizio Pessato, direttore di Swg: «A questo punto l’ipotesi più probabile è il ballottaggio, ma non bisogna attribuire troppo rilievo alle ultime esternazioni di Letizia Moratti. Lo scontro con Pisapia non farà altro che amplificare l’emotività del voto e la ormai consolidata polarizzazione degli elettori di centrodestra e centrosinistra chiamati alle armi. La Moratti non ha tratto un grande vantaggio da questo

«Letizia non perderà consensi perché non ha elettori ma soltanto votanti prestati da Silvio» attacco perché l’aggressività non è ben accolta dall’opinione pubblica che si aspetta che i candidati siano l’uno contro l’altro ma sulla base degli argomenti. Le baruffe tra bambini non portano voti. Anzi la disaffezione aumenta e l’astensione potrebbe salire. Non c’è un vantaggio reale, anzi. I toni alti di quest’ultimo scorcio di campagna elettorale potrebbero spingere qualche altro indeciso a disertare il voto per sfiducia nella politica. E anche se il ragionamento non è decisivo su Milano in generale gli astenuti avranno un forte ruolo in queste amministrative». «Credo che il trend astensionistico si confermerà altrove – ribadisce Luigi Crespi –. Il modello di voto milanese, pro o contro Berlusconi, non avrà uguale successo nel resto d’Italia. Al nord i leghisti andranno comunque a votare, ma bisognerà vedere se al centro e al sud si manifesterà una identica propensione, specie fra gli elettori di centrosinistra o, come mi appare più proba-

bile, se si proseguirà con un calo dell’affluenza alle urne».

Tradizione vuole che l’assenteismo alle urne privilegi di solito l’elettorato di sinistra, ma Crespi obietta: «A Milano il luogo comune della destra che non va a votare è già stato smentito. Basti pensare al caso recente di Ombretta Colli. Il Pdl non deve temere l’astensionismo, ma soltanto il candidato che ha scelto. Una cosa è certa: con le ultime infamie la Moratti ha perso in prestigio e in stile. Ma non perderà voti per un semplice motivo: perché non ha suoi elettori ma soltanto il prestito di quelli di Berlusconi». E Pessato di rimando: «Le intenzioni di voto non cambiano, anche perché a Milano non ci sono molte liste come in altre città di Italia dove la situazione è più fluida e in costante aggiornamento. Nel capoluogo è una partita a due». Un derby, l’ennesimo di questo sfibrante bipolarismo morente, su cui Luigi Crespi ha molto da ridire. «Ci si appella ogni momento alla par condicio, ma in realtà è stato fatto un uso criminoso della televisione. Agli elettori non è stata data una vera possibilità di scelta. Media e stampa hanno costruito il contraddittorio soltanto intorno a Pisapia e Moratti, lasciando le briciole soltanto agli altri candidati. Negli elettori è stata inoculato ad arte il veleno del bipolarismo: o di qua o di là, senza nessuna alternativa, e senza la tanto sbandierata necessità fondante della democrazia, che fa gridare alternativamente alla morte del pluralismo e alla censura». «Nell’area terzista non c’era forse l’intento di costruire un’ipotesi forte su Milano – spiega Pessato – ma piuttosto l’intento di distinguersi, e semmai di dire la propria al ballottaggio». E se i nostri analisti concordano sull’ipotesi del doppio turno, è giocoforza tentare di immaginare come possa finire la sfida. «È il ballottaggio il vero spauracchio del Pdl, perché sulla seconda sessione di voto pesa tra l’altro l’incognita del Terzo Polo – annota il direttore di Crespi Ricerche –. L’incertezza viene anche dal fatto paradossale che Pisapia è la più grande fortuna della Moratti, che è riuscito a trovare un competitor ancora più inadeguato di lei».

ta alla crisi dell’elettorato di centrodestra». Carruba ritiene che la impopolarità della Moratti «sia tangibile soprattutto nei ceti medio-alti, mentre per la periferia è difficile fare previsioni, perché tradizionalmente in queste zone il sindaco, chiunque esso sia, attrae e fa simpatia. Sarebbe un errore, però, pensare che i ceti medioalti possano rappresentare l’intenzione di tutti i milanesi. Non bisogna sottovalutare la “pancia” della città, rappresentata in buona parte dalla Lega che, in questa competizione avrà un grande risultato. La possibilità, però, che si possa arrivare al ballottaggio rappresenta una sconfitta sia per la Moratti, sia per Berlusconi. Sarebbe, comunque, lei a perdere, non certamente la sinistra a vincere». E Scalpelli, che insieme a Massimo Cacciari e altri aveva provato a lanciare la candidatura di Gabriele Albertini, aggiunge: «Sarebbe stata una operazione che avrebbe segnato la crisi del blocco elettorale di centrodestra. Oggi, comunque, la candidatura di Manfredi Palmeri apre una prospettiva politica interessante. Purtroppo va considerata anche l’inconsistenza del Pd che, se al posto di Pisapia, persona stimabilissima e del quale condivido molte battaglia soprattutto sulla giustizia, fosse riuscito a candidare Stefano Boeri, persona identificabile con il mondo delle professioni e del riformismo, la partita sarebbe stata ancora più aperta».

La moderazione, poi, che doveva essere uno dei cavalli di battaglia del modello Moratti in quest’ultimo mese ha subito un colpo di grazia definitivo: dalla vicenda Lassini, alla radicalizzazione impressa da Berlusconi, fino alle accuse in video lanciate dal sindaco a Pisapia. «Questo imbarbarimento dello scontro sempre secondo Scalpelli -, questo tipo di bipolarismo ha creato un malessere molto forte in quell’elettorato tipico di tradizione cattolica della vecchia borghesia milanese che esprimeva la classe dirigente. Una borghesia trasformata, ma non imbarbarita, che oggi rappresenta le professioni e i mercati finanziari. Una parte di questa, che definirei più radical-chic, storicamente detesta il populismo berlusconiano, ma la maggioranza in questi quindici anni ha sostenuto il Cavaliere. La componente leghista, invece, anche se non è stata mai moderata non ha mai aderito fino in fondo all’humus della Moratti e nell’ipotesi di ballottaggio non mi stupirei che la Lega cominciasse a marcare la propria diversità». E Salvatore Carruba fa notare che le amministrative milanesi diventeranno un test nazionale «se perderà Berlusconi. L’eventuale ballottaggio sarà solo un incidente di percorso, ma se dovesse cadere Milano gli effetti sarebbero devastanti per la maggioranza».


diario

pagina 6 • 13 maggio 2011

Mora show: «Non sono un magnaccia»

Pacchetto sicurezza, no della Consulta

Pescara, morti 3 bimbi per un batterio

MILANO. «Non sono un magnaccia». Così ieri pomeriggio l’indagato nell’inchiesta Karima-Riby, Lele Mora, si è difeso dall’accusa di induzione e favoreggiamento della prostituzione. «Ruby ad Arcore - ha spiegato durante una conferenza stampa nel capoluogo lombardo - non l’ho portata io. Non importa se l’ha portata Emilio Fede, Nicole Minetti o un’altra persona, come poi in realtà è successo. Non importa perché ad Arcore non è successo nulla, ci sono state solo delle cene». A portare la giovane marocchina, ha quindi sottolineato Mora, «sono stati degli imprenditori che non so chi siano». L’ex manager dovrà andare in tribunale il 27 giugno per l’udienza preliminare che deciderà sul rinvio a giudizio.

ROMA. La Corte Costituzionale ha bocciato un’altra norma del pacchetto sicurezza del 2009. I giudici della Consulta hanno dichiarato illegittimo l’obbligo per il giudice di disporre la sola custodia cautelare in carcere quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il reato di omicidio volontario. Per la Consulta si possono prevedere anche misure alternative come la detenzione domiciliare. «Sono allibito per la decisione di oggi della Corte Costituzionale». È l’immediato commento del ministro dell’Interno, Roberto Maroni, a proposito della sentenza della Consulta. Il titolare del Viminale si è così espresso lasciando la riunione straordinaria del consiglio interni Ue sull’immigrazione.

PESCARA. La Procura di Pescara ha aperto un fascicolo sulla morte di tre neonati avvenuta nei giorni scorsi all’ospedale civile di Pescara in seguito molto probabilmente ad un’infezione causata dal batterio «Serratià». Al momento il reato ipotizzato è quello di omicidio colposo. Sono comunque in corso accertamenti per fare luce sulla vicenda. Secondo alcune fonti i neonati deceduti erano affetti da alcune precedenti patologie. Le indagini sono coordinate dal pm Mirvana Di Serio. I neonati avrebbero contratto il virus da un quarto bambino che era in cura nel reparto di neonatologia terapia intensiva dell’ospedale di Pescara e poi guarito. Anche la Asl ha avviato un’indagine interna.

Secondo il Fondo monetario e la Bce, la crescita dell’inflazione e il peso dei debiti pubblici rallentano la ripresa in Europa

L’Italia resta sotto sorveglianza Roma fanalino di coda per la crescita. Tensioni sulle prossime emissioni di Francesco Pacifico

La Bce prevede che l’inflazione resterà «nettamente» oltre Il 2 per cento nei prossimi mesi, con il rischio di rialzi a medio termine. «La pressione al rialzo sull’inflazione, derivante soprattutto dalle quotazioni dell’energia e delle materie prime, è ravvisabile anche nelle fasi iniziali del processo produttivo», dice Francoforte

ROMA. La ripresa europea rallenta stretta com’è tra le tensioni sull’inflazione e i debiti delle principali economie fatti durante gli anni della crisi. Questa la fotografia del vecchio Continente che si evince sia dall’ultimo rapporto del Fondo monetario sia dal bollettino della Bce di maggio. E la situazione resta così stagnante, che anche Paesi che hanno registrato strette draconiane sui conti pubblici come l’Italia e il Belgio, possono pagare per l’onda lunga che ha travolto già Grecia, Irlanda e Portogallo. Gli analisti di Washington hanno messo nero su bianco che «la crisi dell’Irlanda ha generato una nuova ondata di turbolenze sul mercato a novembre 2010 intensificando il rischio sovrano per i Paesi periferici dell’Eurozona, contagiando altri Stati come Italia e Belgio».

Alla base di questa conclusione l’ampliamento tra gli spread dei titoli di Stato di Roma e Bruxelles e il bund tedesco. Forse un po’ poco per fare analisi catastrofistiche e – infatti nello stesso rapporto si legge che «il contagio all’economia reale è rimasto confinato ai Paesi colpiti dalla crisi del debito» – fatto sta che tanto è bastato per far scatenare furiose polemiche. Il ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi, ha replicato che «siamo al riparo dal contagio perché combiniamo una robusta disciplina di bilancio con la ricchezza della nazione. Con l’instabilità del governo saremmo un Paese a rischio, ma per fortuna la stabilità c’è. Dobbiamo tenere ferma la barra della disciplina della finanza pubblica». Quindi ne ha approfittato per attaccare la sinistra e ipotizzare che con l’opposizione a Palazzo Chigi, «saremmo come la Grecia». Ancora più duro Renato Brunetta: «L’Italia non è stata assolutamente travolta da deficit e debito, i mercati non hanno reagito attaccandoci, lo spread con i titoli di stato tedeschi è rimasto sostanzialmente invariato». Quindi ha stigmatizzato chi ha dedotto un allarme, sfo-

gliando il rapporto. «È una lettura molto parziale, il Fmi non ha detto questo, ma che c’è un problema di bassa crescita. Il problema è come incrementare la crescita senza fare debito. Vedo assolutamente positivo il giudizio». Fatto sta che l’equazione tra bassa crescita ed alto debito ha creato non poche tensioni a 24 ore dal via libera ai conti italiani del capomissione del Fmi in Italia, Antonio Borges, e soprattutto dall’avallo di Angela Merkel alla candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Bce. Nome sul quale si registrano resistenze proprio per la poca virtuosità del Paese di origine. Proprio per evitare un incidente diplomatico e inutili tensioni sul Belpaese, Arrigo Sadun, direttore esecutivo per l’Italia al Fmi, ha specificato che «l’ipo-

tesi che l’Italia possa essere contagiata dalla crisi del debito che affligge la Grecia e altri Paesi europea è del tutto fuorviante». Anche perché la missione del Fondo appena terminata a Roma, e che ha dato esito positivo, «è stata una delle visite più approfondite: si è protratta per circa due settimane, perché gli ispettori hanno fatto un’analisi particolarmente approfondita e alla fine si sono dovuti arrendere di fronte ai dati della Ragioneria generale e delle altre agenzie». Sadun promuove «il consolidamento dei conti pubblici», il «rafforzamento del settore bancario, con l’Italia avanti rispetto al resto d’Europa» e la «strategia conservativa del ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, che si è dato obiettivi di politica fiscale che poi sono stati superati dalle cose. È una strategia

utile perché i mercati in questa fase devono essere sorpresi positivamente, con target orientati alla prudenza». Ma sia da Washington sia da Francoforte è unanime la richieste di riforme per rendere più competitiva la macchina Italia. Fatta eccezione per la Germania, Fondo e Bce presentano all’Europa (e per l’ennesima volta) una serie di ricette che i Paesi membri conoscono bene ma che fanno fatica ad applicare per paura di ritrovarsi con le piazze inferocite e i magazzini pieni di prodotti invenduti. Intanto l’Eurotower mette nel mirino «i correttivi per assicurare progressi verso la sostenibilità delle finanze pubbliche», visto che i dati a disposizione «indicano un’evoluzione disomogenea tra i Paesi per quanto riguarda l’osservanza dei piani di risanamento concordati».


13 maggio 2011 • pagina 7

e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Abuso delle carte di credito Rai, Minzolini indagato per peculato

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

ROMA. Il direttore del Tg1 Augusto Minzolini è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Roma con l’accusa di peculato nell’ambito dell’inchiesta riguardante l’uso della carta credito che la Rai gli ha concesso per le sue spese. A determinare l’iscrizione con «atto dovuto» di Minzolini sono stati gli elementi raccolti dalla Guardia di Finanza nell’ambito dell’inchiesta che è affidata al procuratore aggiunto Alberto Caperna e che riguarda le spese sostenute dal direttore del Tg1 attraverso l’uso della carta di credito aziendale. A raccogliere gli elementi utili all’inchiesta sono stati gli investigatori della Guardia di Finanza che hanno acquisito anche i documenti raccolti dalla Rai nel corso di un’indagine interna disposta dallo stesso Ente radiotelevisivo. L’inchiesta era stata avviata tempo fa sulla base di un esposto presentato alla Procura di Roma da

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

un’associazione di consumatori. Nello specifico, gli inquirenti sarebbero a lavoro su una serie di spese non autorizzate che ammonterebbero a 68mila euro in quindici mesi. Il direttore della testata giornalistica potrebbe essere convocato prossimamente a piazzale Clodio per fornire la sua versione dei fatti. «È un atto dovuto» è stato il breve commento rilasciato nel primo pomeriggio di ieri all’Adnkronos dal direttore del Tg1.

Da sinistra, Jean-Claude Trichet, Giulio Tremonti e Maurizio Sacconi. A fianco, Dominique Strauss-Kahn

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

Come annunciato già dal capomissione Fmi Borges per l’Italia, anche per la Bce «sussiste il rischio che, in alcuni Paesi, non vengano conseguiti gli obiettivi di bilancio stabiliti dal Consiglio Ecofin per la necessaria e tempestiva correzione dei disavanzi eccessivi». Ma poi c’è il capitolo riforme, che spazia dal patrimonio pubblico alle liberalizzazioni per far abbassare i prezzi, fino ad arrivare alle politiche fiscali, che devono sia favorire una migliore redistribuzione delle ricchezze sia fungere da leva competitiva. Quindi, magari sull’onda di quanto fatto in Germania, va riscritto il welfare, alzando l’età pensionabile, legando i salari alla produttività ed eliminando tutti quegli aiuti che finiscono per incentivi al parassitismo. Più in generale l’Eurotower si sofferma alle ultime modifiche sulla governance dell’area. «Servono requisiti più stringenti, una maggiore automaticità delle procedure e una più chiara attenzione ai Paesi più vulnerabili che registrano perdite di competitività». Visto che soltanto i tedeschi sembrano in grado di conquistare fette di mercato tra i ricchi emergenti o Oltreoceano, Bce e Fmi fanno notare che la crescita in Europa prosegue, anche se è frenata «dall’aggiustamento dei bilanci in diversi comparti». Con l’incognita petrolio, i funzionari di Francoforte hanno rivisto al rialzo dello 0,1 per cento la stima di crescita del Pil

Per Sadun (Fmi) «non c’è rischio di contaggio per le finanze» del Belpaese, ma servono riforme per ripartire

rapporto deficit/Pil, la percentuale viene fissata dall’Fmi al 4,3 per cento nel 2011 e al 3,5 nel 2012, meglio della media di Eurolandia dove il dato è visto attestarsi rispettivamente al 4,4 e al 3,6. Ma un’altra minaccia da non sottovalutare è l’inflazione, che sale assieme con le pressioni sulle materie prime e le agitazioni nei Paesi arabi. «È probabile», fa notare la Bce, «che il tasso resti nettamente al di sopra del 2 per cento nei prossimi mesi». Infatti dovrebbe attestarsi in media al 2,5 per cento nel 2011 e all’1,9 nel 2012.

La Bce spiega che «l’aumento dell’indell’area, che dovrebbe toccare l’1,7 per cento nel 2011. Un decimale in più «ascrivibile soprattutto a una più intensa attività interna all’inizio dell’anno in alcune tra le maggiori economie dell’area, in particolare in Germania». Per l’anno dopo stabili le stime di una crescita del Pil dell’1,9 per cento. Più ottimisti verso Eurolandia gli esperti del Fmi. Secondo loro, nonostante anche nel Vecchio Continente si veda traccia di quella «ripresa globale che sta guadagnando forza», inflazione e affaticamento dei conti pubblici porteranno Il Pil dell’area a crescere del +1,8 per cento quest’anno e del 2,1 nel prossimo. E la crisi dei debiti sovrani finirà anche per rallentare l’Italia, che nel 2011 e nel 2012 non andrà oltre, rispettivamente, il +1,1 e il +1,3 per cento. Sul fronte del

flazione armonizzata non deve generare effetti di secondo impatto nel processo di formazione di salari e prezzi, dando luogo a spinte inflazionistiche generalizzate. Le aspettative devono rimanere saldamente ancorate in linea con l’obiettivo di mantenere i tassi di inflazione su livelli inferiori ma prossimi al 2 per cento nel medio periodo». Da Washington arrivano stime di poco diverse per il biennio in corso: +2 e +2,1 per cento rispettivamente nel 2011 e nel 2012. Il Fondo monetario fa notare che l’Italia potrebbe beneficiare di «una discreta ripresa dei consumi», mentre andrà a rilento quella degli investimenti. In ribasso (dello 0,1 per cento) le previsioni sul tasso di disoccupazione. Per il 2011 si stima un livello del 9,8 per cento, che calerà al 9,5 dopo un anno.

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A cinquant’anni dal suicidio, ritratto dello scrittore che trasformò la vita, la morte e la guerra in alta letteratura l cinquantenario della morte di Ernest Hemingway rischia di trasformarsi in una grande kermesse. Una sorta di “fiesta mobile”organizzata a fini turistici. E invece sarebbe proprio tempo di tornare a riflettere sul romanziere americano a mente fredda: fu davvero uno dei più grandi scrittori del Novecento? Oppure la sua fama andò molto al di là del suo valore? I veri innovatori non furono Scott Fitzgerald (suo scopritore e grande estimatore) e Faulkner, mentre lui, il papa, fu colui che più si giovò della loro rivoluzione? Vedremo se la critica si porrà questi interrogativi. E se rifletterà su altri temi, ancora più affascinanti: il senso della morte e dell’intensità della vita iscritto in tutte le sue opere, il coraggio fisico e la sfida del pericolo, le donne e il machismo, il peso che ebbe la politica, la sobrietà spesso rude del racconto e del suo linguaggio.

I

Hemingway ha dato tutto questo ai suoi lettori e tutto questo fa parte del suo immenso fascino che in Italia ha avuto in Fernanda Pivano, l’appassionata interprete e traduttrice. Ma i primi estimatori in Cesare Pavese ed Elio Vittorini. Intanto, sul mito di Ernest in parecchi cercano anche oggi di costruire le loro fortune. A Pamplona, luogo di elezioni della corrida, si stanno per aprire i festeggiamenti. E a Cuba, ancora dominata da Fidel, da giugno tutto si chiamerà Hemingway: bar, ristoranti, gli amati cocktail, le gite per turisti nel mare antistante. Poi, c’è Parigi che ricorderà la “generazione perduta”a suon di convegni e visite guidate ai bistrot. In Italia è già partita una grande mostra, con conseguente catalogo: Il Veneto di Hemingway. Mentre Neri Pozza ha già tradotto un bel libro che racconta della prima moglie dello scrittore. Ma il settore donne verrà arato da tutti: quattro consorti e un numero sterminato di amanti sono

un“campo letterario parecchio fruttuoso”. Insomma, il grande business del cinquantenario sta per partire e - per il momento - i più sobri sembrano essere proprio gli americani. Ma anche loro - c’è da giurarci - non si lasceranno sfuggire l’affare. Eppure il 2 luglio del 1961 fu un giorno profondamente triste per i milioni di lettori di Ernest. Quel giorno il loro idolo dopo tanti tentativi bloccati o falliti - riuscì a darsi la morte. In preda alla malattia mentale, con crisi maniacali e depressive continue, lo scrittore riuscì a suicidarsi con un colpo di fucile. Gli ultimi anni erano stati per lui un vero calvario. Elettroshock continui, di cui aveva parlato con Fernanda Pivano: «Mi hanno tolto l’unica cosa alla quale ancora tenevo, la mia memoria». E poi quell’incubo di essere spiato dall’Fbi che temeva il suo rapporto privilegiato con Castro, peraltro cessato da qualche tempo, ammesso che fosse andato al di là di una cordiale conoscenza. Povero papa, aveva sofferto molto e molto aveva fatto i conti con la morte. Le sue opere nonché le sue grandi passioni sono tutte la metafora della violenza della vita e della sua fine: la corrida che adorava, la caccia in Africa, la pesca a Cuba: su tutto questo ha scritto alcuni dei suoi romanzi più belli. E poi ha raccontato della guerra: di quella mondiale e di quella civile spagnola. Insomma, la morte per lui è stata una feconda ossessione diventata grande letteratura. A un certo punto, dopo tanto rifletterci, accadde: era una mattinata calda e lui lo fece con calma. Riuscì a dissimulare le sue intenzioni sino alla fine. Abbandonata Cuba, viveva allora arroccato nella sua villa di Ketchum nell’Idaho. La moglie Mary Welsh ha raccontato che la sera prima l’aveva portata a cena fuori e sembrava di buon umore.Tutto tranquillo, dunque, ma la mattina venne svegliata da un colpo di fucile secco e potente come la prosa del marito. All’età di 63 anni se n’era andato. «Chi ha coraggio - aveva detto - muore anche mille o

Viaggio nella storia del Novecento attraverso la cifra straordinaria di Ernest Hemingway

Con la penna, il fucile e i giornali di Gabriella Mecucci duemila volte, se è intelligente, ma va avanti lo stesso». Il 2 luglio del ’61, però, lui si fermò. E si fermò perché lo aveva scelto: forse non ne poteva più di avere coraggio.

Era nato nel 1899 nei pressi di Chicago. I primi 18 anni li passò in America ma, giovanissimo, sbarcò in Europa: Parigi e la Spagna soprattutto, ma anche l’Italia. La sua infanzia fu serena e anche piuttosto agiata. Partecipò alla prima guerra mondiale e su questa scrisse uno dei suoi romanzi più belli: Addio alle armi, la storia di un amore per una donna molto più grande di lui, che curò le sue ferite e che alla fine lo lasciò. Nel 1918 tornò in patria e cominciò a collaborare con il Toronto star. Ne 1920 si trasferì a Parigi come cor-

rispondente del giornale e lì conobbe James Joyce, Ezra Pound, Gertrude Stein. Assaggiò per la prima volta quella vita da “generazione perduta”, fatta di alcol, eccessi, donne. E di arte. La raccontò in uno dei suoi capolavori: Fiesta mobile. Del vino diceva: «È uno dei maggiori segni della civiltà del mondo». E della scrittura: «Scrivete in maniera semplice e chiara e soltanto di cose e persone che conoscete». E lui applicò sempre questa regola. Una delle poche in tanta sregolatezza. Eppure, era animato da profondi valori: l’antimilitarismo, ad esempio: fu sempre contrario alla guerra anche se si rendeva conto che


il paginone

Dai racconti ai grandi romanzi

Le opere pubblicate in Italia Nel corso della sua vita, Ernest Hemingway ha scritto un’enorme quantità di opere tradotte e pubblicate in tutto il mondo.Tra quelle edite in Italia ricordiamo: “Torrenti di primavera”(1951); “Il ritorno del soldato Krebs” (1942); “L’invincibile (cinque racconti)” (1944); “E il sole sorge ancora”(1944); “Addio alle armi”(1946); “Per chi suona la campana” (1946); “La quinta colonna” (1946); “Verdi colline d’Africa” (1946);“Uomini senza donne”(1946); “Chi ha e chi non ha” (1945); “Avere e non avere” (1946); “Morte nel pomeriggio” (1947); “I quarantanove racconti” (1947); “Il vecchio e il mare”(1952).Tra le opere postume pubblicate in Italia: “Fiesta mobile” (1964);“Di là dal fiume e tra gli alberi” (1965); “Isole nella corrente” (1970); “I racconti di Nick Adams” (1973); “Il leone buono”(1978); “Il toro fedele” (1980); “88 Poesie” (1982); “Lettere 1917-1961”(1986); “Ventuno racconti-parte I e II”(1986);“Il giardino dell’Eden”(1987); “True at first light (Vero all’alba)” (1999); “La corrente e Incroci-Un’antologia”(2010). Tra le biografie a lui dedicate, ricordiamo: “Album Hemingway” a cura di E. Romano (1988) e quella di Fernanda Pivano “Hemingway”(1985).

c’erano stati dei momenti in cui era impossibile evitarla. Un sentimento mutuato da quel primo conflitto mondiale, tutto vissuto in Italia, e di cui aveva raccontato, in modo straordinariamente realistico, pur non avendola vista, la “rotta di Caporetto”. Partecipò anche al più feroce e sanguinoso degli scontri, quello fra fratelli di sangue: la guerra civile spagnola. La raccontò in un romanzo - il suo più bello insieme a Il vecchio e il mare - che metteva a fuoco una parte importante della sua filosofia della vita: Per chi suona la campana. In questa c’era prima di tutto la difesa della libertà: si schierò con i repubblicani e da allora godette per sempre della fama di liberal, di uomo di sinistra. Poi c’era il coraggio stoico di Robert che andava verso la morte certa pur di compiere il proprio dovere. E infine c’era il ruolo delle donne, tanto importanti nella sua vita nonostante un conclamato machismo. In realtà Maria e Pilar sono due eroine e tocca a loro, oltreché al protagonista, essere le corifee della libertà. Una, Maria - giovane e bella - testimone vivente della violenza del franchismo e del fascismo, l’altra, Pilar che non tace sulle stragi dei comunisti in Catalogna e in Navarra. Il suo racconto non comparve nella versione pubblicata da Vittorini sul Politecnico. Per non turbare troppo il Pci di Togliatti? Servì a poco però: lo scontro col partito venne solo rinviato.

Donne guerrigliere quelle del papa, ma anche capaci di grandi amori e portatrici di felicità. E qui si dovrebbe aprire un capitolo a sé della vita dello scrittore: quella delle sue love story. Un tombeur de femmes impenitente, ma anche un amante appassionato che conquistò donne come Merlene Dietrich, di cui diventò anche uno dei migliori amici, e Ava Gardner solo per fare due nomi. Ma l’elenco completo è impossibile: somiglierebbe al catalogo di Don Giovanni. E poi ci sono le quattro mogli di cui la terza, Martha Gellhorm, giornalista e scrittrice, disse di lui: «In amore ho avuto poca fortuna, mi è andata meglio con le cameriere». E lui, per tutta risposta: «È una iena». I due erano troppo liberi e autonomi per sopportarsi e lei si sentiva schiacciata dalla fama del marito. Per il resto, Ernest fu sempre molto apprezzato dalle sue donne che lo giudicavano forte e leale. Un macho vecchia maniera, uno strano gentiluomo. In questa rapida carrellata come non tener conto dell’amore di Hemingway per la corrida? Due grandi libri lo racconta-

no: Fiesta e Morte nel pomeriggio. Anche questo scontro fra l’uomo e l’animale richiama alla mente dello scrittore le donne: «Per la maggioranza dei mariti la conservazione del proprio ascendente sulle mogli sta innanzitutto nel fatto che esiste un numero limitato di toreri, senza contare sul numero limitato di mogli che abbiano visto la corrida». Se una donna vi partecipasse, s’accorgerebbe infatti che il protagonista di quella sfida non ha pari nel mondo maschile. La sua grazia, il suo coraggio, la sua bellezza, oscurano qualunque altro. Ma, ovviamente, al centro della corrida c’è la vera ossessione di Hemigway: «Se un uomo è ancora in rivolta contro la morte, gode nell’attribuirsi uno degli attributi divini, quello di impartirla». Una riflessione profonda, verrebbe voglia di chiedersi: perché allora impartirla a se stessi? È forse questo il modo non per padroneggiare un attributo divino, ma essere Dio tout court? Lo scontro finale fra l’uomo e il toro è anche il luogo - per Hemingway - dove si misura il coraggio. Anzi, l’esatta dimensione di questo si può cogliere dopo che un torero ha ricevuto l’incornata. La sua reazione è la vera cartina di tornasole della debolezza o della forza di un uomo. Lo scrittore non era capace di misurarsi alle “cinque de la tarda”: non sapeva volteggiare né maneggiare la muleta, ma poteva cimentarsi nella caccia grossa. Sprezzante del pericolo avrà numerosi incidenti nel praticarla. Fratture e ferite che indeboliranno il suo corpo. Ma la salute verrà dello scrittore verrà messa a dura prova dai fiumi d’alcol ingeriti: dalle grandi sbronze venete e parigine, dai daiquiri ai mojto preparati per lui a San Sebastian e a Cuba. Nell’isola caraibica approderà per la prima volta nel 1939 e la lascerà solo un anno prima della morte. Una grande passione, legata

soprattutto alla pesca. Da questa nascerà il suo libro forse più bello: Il vecchio e il mare. Un nuovo scontro fra uomo e animale. Fra Santiago e il marlin (simile ad un pescecane). Il pescatore cattura la gigantesca preda e vuol condurla in porto, ma non riesce a issarla sulla barca. E allora la lascia in acqua e la trascina verso la riva. Ma grossi pesci lo inseguono e divorano il marlin pezzo a pezzo, fino a ridurlo solo alla carcassa.

Costruito sul modello epico di Moby Dick, il racconto è la metafora della lotta per la sopravvivenza. E lo scontro fra i due protagonisti non è solo fisico, ma anche psicologico. Non è però narrazione di morte e di sconfitta, ma rappresentazione ed esaltazione della vita, della competizione, ma anche del rapporto con la natura, dell’amore che Hemingway aveva per essa. Ancora una volta torna l’idea del coraggio. Il vecchio e il mare gli fece vincere il Pulitzer e, nel ’54, arrivò anche il Nobel. Di questo straordinario racconto-metafora, come di tutti i romanzi più belli dello scrittore, venne fatto un film. La sua realizzazione avvenne fra grandi sbornie e altrettanto grandi bisticciate del papa con il protagonista Spencer Tracy. Il tutto sotto gli occhi di una bellissima Katherine Hepburn, eternamente vestita di bianco. E il rapporto con Castro? La fotografia che lo ritraeva con Hemingway sul Pilar fece il giro del mondo: serviva troppo alla propaganda cubana far sapere che il romanziere allora più famoso era un amico del regime. Il papa però, pur di sinistra e certo non oppositore del castrismo, non era entusiasta del regime. Del resto, rimase molto poco nell’isola ormai diventata comunista. Se ne tornò negli States, dove la mattina del 2 luglio partì il colpo fatale. Il vecchio Ernest Hemingway se ne andò, rimase però fra noi uno dei giganti della letteratura del Novecento: i suoi romanzi affascinano ancora milioni di giovani e sono in cima in cima alla classifica dei best-seller mondiali.


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Intensificati i raid su Tripoli (e le aperture diplomatiche agli insorti). Il video del raìs? Per l’Alleanza è una bufala

Ma Gheddafi dov’è? Oggi il vertice fra Obama e il leader dei ribelli. Londra apre l’ambasciata del Cnt di Antonio Picasso rosegue l’incognita Gheddafi. Le supposizioni sulla sua morte sono state smentite ieri con il video trasmesso dalla televisione di Stato libica, al-Jamahiria. Forse. L’emittente tripolina ha mostrato le immagini del colonnello che riceve alcuni ospiti in un lussuoso salone. La scena appare tranquilla. Chi lo omaggia lo fa porgendogli le condoglianze per l’uccisione del figlio Saif al-Arabi, avvenuta domenica scorsa, e lo incita a condurre i propri uo-

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prima volta che un regime sceglie di mettere davanti alle telecamere una copia esatta del proprio dittatore. È anche possibile che il video sia stato girato prima del bombardamento di lunedì notte, che avrebbe effettivamente ucciso o messo in fuga il raìs. Quel che non torna è la data che appare sul video nelle immagini in questione. Sul megaschermo visibile alle spalle di Gheddafi, scorre un servizio della stessa al-Jamahiria. Qui si legge il riferimento al

Una flotta britannica di sette unità sta convergendo su Cipro, dove Londra ha una base militare. E se quei 600 Royal marine fossero il primo blocco per una futura operazione di terra? mini sulla strada per la vittoria. Gheddafi, che indossa gli abiti tradizionali della sua tribù, sembra tranquillo. Il volto butterato è protetto dagli ormai noti occhialoni da sole. Immediate sono giunte le supposizioni sulla veridicità delle immagini.

Si pensa che il personaggio sia un mero sosia. Teoria più che attendibile. Non sarebbe la

giorno mercoledì 11 maggio 2010. Questo potrebbe ribaltare tutte le ipotesi e confermare che il raìs è vivo.

Del resto, è vero che la tv libica risulta una fonte poco obiettiva. In qualità di voce filo tripolina, potrebbe aver deciso di mandare in onda un filmato non attuale, con l’obiettivo di spiazzare i nemico, ma anche

di spronare i lealisti sulla linea di fuoco. La cronaca, infatti, conferma che la guerra è tutt’altro che finita. Non tanto perché il colonnello non si mostri in pubblico, quanto per le risorse, erroneamente sottovalutate, che le Forze armate libiche continuano a sfoderare. In particolare, è la 32esima Brigata la spina nel fianco dei ribelli. I diecimila uomini dell’unità meccanizzata e comandati dal terzo figlio del rais, Khamis Gheddafi, si stanno muovendo agevolmente all’interno del Paese. Già due anni fa, era circolata la voce che alcuni istruttori del Sas, le forze speciali britanniche, fossero state inviate dal governo Brown a Tripoli per l’addestramento proprio della Khamis Brigade. Ieri Tripoli è stata sottoposta da un nuovo raid degli aerei Nato; tre le vittime accertate e il bunker del colonnello colpito di nuovo. Nel frattempo, i gheddafisti hanno colpito Ajdabhiya, a sud di Bengasi. Mentre, stando al Comitato nazionale di transizione (Cnt), Misurata sarebbe passata del tutto nelle mani dei ribelli. Insomma, dubbi sulle sorti del nemi-

Sopra: guerriglieri libici. Il Cnt ieri ha confermato che Misurata è tornata definitivamente sotto il suo controllo. A destra: Muammar Gheddafi. In basso: Bashar al Assad, il presidente siriano che sta soffocando le proteste nel sangue

Il direttore del quotidiano panarabo “al-Quds al-Arabi” spiega perché le proteste non cesseranno. Oggi il venerdì delle donne

Siria, la piazza resisterà. Fino alla fine l fatto che decine di migliaia di manifestanti continuino a scendere nelle strade e nelle piazze della maggior parte delle città della Siria e che oltre venti persone siano cadute vittima del fuoco delle forze di sicurezza a Homs e Hama, conferma che ampi settori della popolazione siriana non temono la morte e che l’arrivo dei carri armati ad assediare le città non servirà ad annientare o a spegnere la rivolta siriana. La sollevazione in Siria continua ad essere pacifica, rifiuta tutte le provocazioni del fuoco degli agenti della sicurezza, tese a trasformarla in una ribellione armata, non ascolta gli incitamenti e le esortazioni provenienti dall’estero, poiché il grado di coscienza politica e morale è molto elevato nei ranghi della popolazione siriana. I siriani si rendono conto che vi è il rischio che scocchi la scintilla della guerra civile, che esploda la di-

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di Abd al-Bari Atwan scordia confessionale, così come si rendono conto che la battaglia non sarebbe alla pari con un regime che possiede un arsenale colmo delle armi più moderne, e un esercito che non esiterà ad utilizzarle per schiacciare ogni eventuale ribellione popolare armata. Certamente i carri armati sono più forti dei singoli manifestanti, ma c’è da chiedersi se essi saranno in grado di uccidere venti milioni di siriani che si sono liberati dal complesso della paura e non temono la morte. Si sbagliano i falchi del regime se credono che riusciranno a schiacciare la rivolta ricorrendo alle uccisioni sistematiche ed a soluzioni securitarie. Ecco infatti che le proteste sono entrate all’incirca nella loro ottava settimana, senza che emergesse alcun segno di debolezza o di paura presso i manifestanti.

Al contrario, essi sembrano aumentare di forza e di numero, tanto da aver spinto l’esercito ad intervenire con i carri armati per assediare intere città ed opporsi ai dimostranti. È vero che la rivolta da sola non riuscirà ad imporre le riforme democratiche che chiede fin dal primo giorno, o a cambiare il regime, ma è altrettanto vero che i servizi di sicurezza e l’esercito che le si oppongono, malgrado la loro forza non vinceranno, e non raggiungeranno il loro obiettivo essenziale di spegnere le proteste. Gli intransigenti all’interno del regime, che hanno avuto la meglio fino a questo momento, ritengono che offrire concessioni reali che si accordino alle richieste dei rivoltosi potrebbe venire interpretato come un segno di debolezza da parte del regime, e pertanto inaspriscono la repressione e danno l’ordi-

ne di uccidere sparando con proiettili veri. Ma questo è un comportamento suicida, privo di una visione consapevole che tragga insegnamento dall’esperienza di altri che hanno fatto ricorso agli stessi metodi e hanno fatto una brutta fine. I mezzi di informazione siriani mettono in dubbio il patriottismo dei dimostranti e parlano di un complotto che avrebbe come bersaglio la Siria, nel quale sarebbero coinvolti paesi stranieri. Forse questi discorsi sull’esistenza di un complotto contengono qualche briciolo di verità, poiché la Siria è un paese che è sempre stato preso di mira. Ma la risposta a un complotto straniero passa attraverso la risistemazione della propria casa, il rafforzamento dell’unità nazionale, l’avvio di riforme reali.

L’opposizione siriana, sia all’interno che all’estero, è caratterizzata da un forte senso patriottico. Se vi fosse-


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beduino e come tale è vendicativo. Sta mettendo in ginocchio la sua stessa popolazione e tenendo sotto scacco gli ex amici occidentali. Sopravvivendo, sarà difficile che si dimenticherà di chi l’ha tradito. Dall’altra parte della barricata, il Cnt non può certo ricoprirsi di gloria sul campo, ma almeno dispone di un appoggio politico straniero sempre più consistente. Ieri Londra ha invitato il governo provvisorio di Bengasi ad aprire una propria rappresentanza diplomatica permanente. Cameron, in questo modo, sorpassa Sarkozy. È stato il secondo a premere per l’intervento armato. Ora Londra comincia a raccogliere i frutti politici dei raid. Sicché bisogna attendersi un processo di ricostruzione della Libia made in England? È ancora presto per dirlo. Oggi il leader del Cnt, Mahmoud Jabril, è atteso a Washington. Difficile che gli Usa si facciano soffiare concessioni petrolifere e controllo politico di un soggetto strategico del quadrante nordafricano.

Di fatto è noto che il Regno Unito desideri consolidarsi in Libia. La pressione viene in buona parte dalla British Petroleum. La stessa che, si era pensato, avesse indotto Gordon co numero 1, come pure sugli scenari futuri del conflitto.

A questo punto, l’eventualità che gli scontri possano finire in pochi giorni va messa da parte. Avrebbe un senso se Gheddafi fosse effettivamente morto. Nell’ipotesi di fuga, al contrario, le eventualità sono più articolate. Potrebbe essere ancora in Libia, oppure fuggito oltreconfine. Eventualmente in Niger, Ciad oppure Sudan. Il più attendibile sarebbe quest’ultimo, per ragioni politiche e inte-

resse comune con il presidente Omar al-Bashir. La Corte penale internazionale è in procinto di spiccare un atto di accusa verso Gheddafi, per crimini di guerra e contro l’umanità. In tal caso, a Karthoum i due raìs condividerebbero gli stessi problemi nei confronti delle autorità dell’Aja.

Al di là di tutto, bisogna ricordarsi che Gheddafi è un figlio del deserto. Il fatto che, in tempi non sospetti, girasse il mondo portandosi dietro la sua

ro gruppi legati a progetti stranieri – ed in particolare americani – sarebbero gruppi isolati e rifiutati da tutte le componenti della popolazione siriana. E lo stesso vale per i loro mezzi di informazione e per i loro vertici finanziati da ambienti sospetti. Il popolo siriano è sceso in piazza ed ha affrontato i proiettili veri poiché non gli è stata data la possibilità di prendere parte realmente al processo politico e di avere accesso agli ambienti decisionali che stabiliscono il suo destino e dirigono i suoi affari. Questo popolo, che ha nel proprio sangue i geni di un impero e di un’intera civiltà, non può e non deve essere trattato come un popolo incapace. Esiste ancora una possibilità di salvezza, ma solo attraverso il dialogo, e non tramite le soluzioni securitarie e l’intervento dei carri armati per assediare le città e sparare sui manifestanti. Ci addolora il fatto di non vedere alcun segnale tranquillizzante che indichi che il regime vuole un simile dialogo. L’ala intransigente all’interno del regime sembra infatti non credere a tale dialogo, e considerarlo piuttosto un segno di debolezza e di arrendevolezza. Ma questa è

tenda avrebbe dovuto suggerire qualcosa agli osservatori internazionali. Il raìs non ha mai dimenticato le proprie origini. Non si è abbandonato all’opulenza come hanno erroneamente fatto i suoi ex colleghi di Tunisia e ed Egitto. L’arte di arrangiarsi, il nomadismo e la capacità di scomparire e riapparire improvvisamente - spiazzando l’avversario - restano nel suo gene. Oggi proprio queste doti ancestrali è possibile che siano tornate utili al raìs. Inoltre, bisogna ricordarsi che è un

questo modo, si metterebbe di traverso ai cinesi. Pechino non sta aspettando altro che sui cieli del Nord Africa torni il sereno per entrare in contatto con i nuovi regimi e rivedere, in sue favore, le concessioni di gas e petrolio. Alla fine però, la crisi libica non dev’essere ridotta a una banale guerra per l’oro nero. La Gran Bretagna sta rivedendo le proprie ambizioni diplomatiche in chiave geopolitica, non solo economica.

Le rivolte del mondo arabo sono un’opportunità per mostrare nuovo vigore in sede internazionale. Ecco allora che assume un significato ben preciso l’operazione “Leone cipriota”, avviata in questi giorni dalla Royal Navy. Una flotta di sette unità, con altre navi appoggio, stanno convergendo su Cipro, dove Londra ha sapientemente conservato una propria base militare svincolata da qualsiasi alleanza con forze straniere. L’Ammiragliato sostiene che si tratti unicamente di un’esercitazione, «con lo scopo di dimostrare le capacità versatili e l’alto livello di preparazione della Forza Operativa di Reazione Rapida (Rftg)». In realtà, la composizione del contingente, oltre al luogo e alla tempistica delle manovre fanno sospettare altro. E

Oggi il leader del Cnt, Mahmoud Jabril, è atteso a Washington. Difficile che gli Usa si facciano soffiare concessioni petrolifere e controllo politico di un soggetto strategico nordafricano Brown a rilasciare Abdelsalet al-Megrahi, il terrorista libico autore della strage di Lokerbie, tornato a Tripoli due anni fa. La major, del resto, deve recuperare dopo lo sfiorato crack dello scorso anno, paventato con il disastro ecologico del Golfo del Messico. E c’è da dire che, in

se quei 600 Royal marine fossero stati mandati a Cipro perché in transito per la Libia? Infine, Cipro è di fronte alla Siria. Anche quello è un Paese in rivolta. Cameron ne è ben consapevole. E se partisse proprio da Londra la manovra per pacificare il Medioriente? Libia in primis.

Ma coloro che spingono verso la distruzione, la morte e la guerra civile stanno accrescendo la loro forza – e lo diciamo con tutto il dolore possibile. Quando alcune potenze occidentali impongono sanzioni su alcune personalità del regime siriano ad esclusione del presidente Bashar al-Assad, questo conferma ai nostri occhi quello che abbiamo sempre detto, e cioè che il difetto sta nella vecchia guardia del regime, che ancora pensa secondo la mentalità del massacro di Hama del 1982, utilizza gli stessi metodi, rifiuta il dialogo e considera chiunque chieda delle riforme come un nemico che deve essere ucciso.

L’ala intransigente del regime ritiene che offrire riforme reali ai rivoltosi sia un segnale di debolezza un’interpretazione erronea che riflette una visione incapace di leggere correttamente i cambiamenti mondiali degli ultimi anni, il principale dei qua-

li è rappresentato dalla rivoluzione informatica e dalla crescente influenza dei moderni mezzi di comunicazione. Non vogliamo la distruzione della Siria, né vogliamo che essa scivoli nel baratro della guerra civile e della discordia confessionale, e non dubitiamo affatto che il popolo siriano, in tutte le diverse componenti del suo mosaico confessionale, etnico e religioso, condivida con noi lo stesso desiderio.

Per questa ragione i carri armati hanno assediato la città di Dara’a, e continuano a cadere i martiri a Homs, Hama e in altre città. Venerdì scorso è stato il “venerdì della sfida”. In precedenza vi era stato il “venerdì della rabbia”. Oggi sarà il “venerdì delle donne libere”. Perché la rivolta continuerà e non si fermerà fino a quando coloro che sono al potere a Damasco continueranno a rifiutare il dialogo e le riforme e a non ascoltare il lamento del loro popolo.


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grandangolo Dodici (e più) forze politiche lavorano contro l’immigrazione

Schengen, ovvero il ritorno degli egoismi nazionali

Paradosso vuole che mentre l’Europa cerca di salvaguardare il Trattato, i singoli Paesi lo mettano in discussione. A farlo soprattutto forze emergenti di estrema destra, che però conquistano un consenso crescente. La Danimarca ha appena reintrodotto i controlli alle frontiere. Ma chi sono i veri nemici della libera circolazione? di Luisa Arezzo embrava una proposta destinata a cadere nel vuoto, forse solo una provocazione. Invece il Partito Popolare Danese l’ha spuntata: la Danimarca ha sospeso il trattato di Schengen e reintrodotto i controlli alle frontiere. La decisione è arrivata poche ore prima del vertice Ue dei ministri degli Interni e della Giustizia e non può essere stata casuale. Sia perché ha sconvolto l’agenda in discussione, sia perché ha messo l’Europa davanti a un fatto compiuto poche ore prima dell’ultimo passo intermedio prima del Consiglio Ue di fine giugno che deciderà sulla possibilità di reintrodurre temporaneamente controlli di frontiera nell’area Schengen, come richiesto da Francia e Italia. Il motivo della scelta danese è riassunto dalle parole Claus Hjort Frederiksen, ministro delle finanze: «Durante gli scorsi anni abbiamo visto crescere i crimini transfrontalieri» ha spiegato, «questa decisione punta a frenare il problema». Troppa immigrazione e troppa criminalità da oltreconfine per il governo danese: il gioco non vale più la candela, meglio tornare al passato.

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Entro due, massimo tre settimane la polizia tornerà a controllare chi entra dai confini con la Germania, ma anche nei porti e sul ponte che collega Danimarca e Svezia. Il ministro Frederiksen ha spiegato che saranno istallate nuove apparecchiature elettroniche di identificazione alla frontiera tedesca, stru-

mentazioni in grado di identificare le targhe delle macchine. Così come gran parte delle leggi sull’immigrazione introdotte nell’ordinamento danese, anche stavolta a spingere per il ripristino dei controlli alle frontiere è stato il Partito Popolare Danese. Lotta all’immigrazione clandestina, lotta alla criminalità internazionale, lotta al narcotraffico: questi alcuni dei capisaldi del

so il partito popolare teme l’ondata di immigrati nordafricani. E stringe i cordoni attorno alle sue frontiere. E la Ue sussulta, temendo che una decisione unilaterale possa innescare una reazione a catena. Tanto da chiedere a Copenaghen «chiarimenti per analizzare la portata giuridica e amministrativa e l’eventuale impatto sulla libera circolazione dei beni e delle persone».

Per l’austriaca Maria Fekter «Fare entrare gente che non si può nutrire con i suoi mezzi e senza risorse» crea dei criminali

Ma il dietrofront danese, che al momento si difende dall’accusa dicendo che i controlli saranno solo sulle merci e non sulle persone, è simbolicamente devastante. Oltretutto le sue spiegazioni cozzano pesantemente con le dichiarazioni del ministro e con le spese messe a bilancio per reintrodurre i controlli, con tanto di voce body scanner da impiantare ai varchi transfontalieri. Il Partito popolare danese fa parte di quella galassia - che qualcuno ancora si ostina a definire meteora - di movimenti di estrema destra che sempre più piede e peso stanno prendendo in Europa. Ma che sempre più, in maniera incontrovertibile, sono espressione di una fetta della popolazione Ue fra i 20 e i 45 anni che non si sente protetta dall’Unione e che sceglie la via dell’intolleranza per far valere le proprie paure e incertezze. Esattamente come ha fatto, sempre ieri, la Finlandia. Dove il partito nazionalista ed euroscettico Veri Finlandesi, terza forza del paese dopo il recente voto del 17 aprile, guidato dal nazionalista Timo

partito. La leader Pia Kjærsgaard aveva già speso parole molto chiare: «I controlli alle frontiere sono un diritto per i nostri cittadini», un diritto ritenuto necessario per porre un freno soprattutto all’entrata in Danimarca di stranieri provenienti dai paesi dell’Europa orientale, paesi ritenuti (non solo a Copenhagen) inaffidabili nel gestire l’emigrazione. Ma adesso la macchia dell’incertezza si sta allargando. Ades-

Soini, ha annunciato di non voler entrare a far parte della coalizione di governo, dopo che Helsinki si è detta disposta a sostenere il piano di aiuti finanziari al Portogallo. Il successo di Soini, infatti, è solo l’ultimo di una serie di affermazioni registrate da formazioni populiste ed euroscettiche. Da qui a fine anno nuove e importanti consultazioni elettorali potrebbero essere l’occasione per ulteriori conferme di un fenomeno che ha ormai inequivocabili dimensioni europee: a ottobre si voterà in Polonia e Svizzera, a novembre toccherà a Danimarca e Croazia. E le previsioni non sono buone, soprattutto considerando che il cavallo di battaglia di questi movimenti, al momento, è davvero la lotta dura all’immigrazione. E così si arriva al paradosso che mentre l’Europa si interroga su come salvaguardare Schengen, aprendo alla possibilità di sospensioni limitate nel tempo, molti dei 27 si interrogano sulla possibilità di rivedere le regole della libera circolazione in toto. Fomentandosi a vicenda e rifiutando l’etichetta di xenofobi e intolleranti. Dodici sono i protagonisti di questa battaglia parallela, che per ordine di lettura e non di importanza sintetizziamo in ordine alfabetico (sarebbero 13 se volessimo includere anche l’Italia con la Lega). Austria: due le formazioni di carattere nazionalista e populista (le stesse che hanno posto il veto all’acoglienza degli immigrati tunisini dotati del permesso temporaneo rilasciato dall’Italia) pre-


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Ieri il vertice straordinario Ue dei ministri degli Interni e Giustizia sull’immigrazione

L’anatema di Bruxelles contro la chiusura dei confini. Ma il tema non è più un tabù di Laura Giannone a reintroduzione temporanea dei controlli alle frontiere nazionali nell’area Schengen, un rafforzamento di Frontex ed un sistema comune d’asilo europeo: questo il pacchetto di proposte sull’immigrazione presentato ieri dalla Commissione Ue al Consiglio straordinario dei ministri degli Interni dei 27 a Bruxelles. Tema delicato, che ha guadagnato ieri ulteriore attenzione con l’annuncio danese di voler ripristinare i controlli alle frontiere intraeuropee. Provvedimento, sul quale la Commissione ha già chiesto chiarimenti a Copenaghen, che dovrebbe entrare in vigore entro tre settimane e riguarderà essenzialmente i controlli alla frontiera con la Germania e sul ponte sull’Oeresund che collega la Danimarca alla Svezia. Per il presidente del Parlamento Ue e primo ministro polacco Jerzy Buzek, tuttavia, «Schengen non deve essere distrutto». A fargli eco il capo della diplomazia tedesca, Hans-Peter Friedrich, «sorpreso» del provvedimento danese. Meno cauto il leader dei conservatori Joseph Daul, secondo cui la reintroduzione permanente dei controlli alle frontiere nazionali è «totalmente inaccettabile». Il tedesco Manfred Weber parla di «egoismi nazionali» e il j’accuse viene lanciato anche dall’europa socialista. Dal canto suo, anche il presidente della Commissione Ue, Jose Manuel Barroso, si è detto «preoccupato», più in generale «per le recenti spinte xenofobe dei movimenti populisti». Abbiamo identificato problemi nella gestione di Schengen - ha detto Barroso - ma dobbiamo evitare argomenti estremisti che vogliono sfidare lo spirito comunitario. Più cauta la Spagna, che non ha respinto la proposta italo-francese di riforma del Trattato, se questa servisse ad «adattare Schengen alle diverse realta» di ogni Paese. Per Parigi, invece, rafforzare i confini significa «sostenere l’Europa nell’affrontare circostanze straordinarie», come il flusso di immigrati alimentato dalle rivolte del mondo musulmano. Sulla proposta danese, inoltre, voce in capitolo anche per la commissaria incaricata delle questioni su sicurezza e immigrazione, Cecilia Malmstrom: «La Commissione, come guardiana dei Trattati Ue, non permetterà l’inde-

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senti in Parlamento con 55 seggi. Il partito delle Libertà (Fpo) di Hans Christian Strache e l’Alleanza per il futuro (Bzo), fortissima soprattutto nella regione della Carinzia, regione d’origine del suo fondatore Jorg Haider, morto in un incidente stradale. Belgio: la tradizionale formazione di estrema destra del Vlaams Belang (Interesse Fiammingo), con connotazioni separatiste e xenofobe, è stata nelle ultime elezioni superata dalla più moderata Nuova Alleanza Fiamminga (Nva) di Bart de Wever, che non reclama una maggiore indipendenza della regione delle Fiandre, ma all’interno della Ue. Bulgaria: il movimento

In autunno Polonia, Danimarca, Croazia e Svizzera andranno al voto. E si teme l’ennesima ondata ultra-nazionalista Ataka combatte soprattutto l’ingresso della Turchia nella Ue ed è contro l’immigrazione musulmana. Danimarca: il partito popolare danese (Df) della ultraconservatrice ed euroscettica Pia Kjaersgaard ha ottenuto 24 seggi (14,6% dei voti) nelle ultime elezioni politiche. Sostiene esternamente il governo di centrodestra guidato da Mark Rutte (e lo influenza enormemente, visto che la sospensione di Schengen è stata barattata con l’appoggio alla nuova riforma delle pensioni voluta da Rutte). Finlandia: il movimento populista nazionalista, xenofobo ed euroscettico dei Veri Finlandesi (True Finns) di Timo Soini, è balzato al 19% dei consensi diventando la terza formazione politica del Paese dietro ai conservatori (20,4%) e, per un soffio, anche ai socialdemocratici (19,1%). Francia: il Front national (Fn) di Jean-Marie Le Pen aveva raggiunto

una prima volta il suo apice tra la fine degli anni ’90 e i primi del 2000, per poi crollare nelle elezioni del 2007 con un’emorragia di voti verso l’Ump di Nicolas Sarkozy. Con il passaggio di consegne alla figlia Marine arriva al 22% nei sondaggi, tanto che quest’ultima promette ai suoi concittadini, in caso di elezione nel 2012, un referendum per l’uscita dalla Ue. Olanda: nato sulle ceneri della formazione di estrema destra e antiIslam guidata da Pim Fortuyn, ucciso nel 2002, il Partito delle libertà (Pvv) di Geert Wilders è diventato il terzo partito con le europee del 2009, confermando il risultato nelle politiche del 2010, in cui ha ottenuto 23 seggi.

Regno Unito: né il British national Party (Bnp) né l’euroscettico Partito per l’indipendenza del Regno Unito (Ukip), che ha come priorità l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue, seggono in Parlamento a Londra. Ma hanno rispettivamente 2 e 12 seggi a Strasburgo. Romania: il partito della Grande Romania, ha come slogan “Cristiani e patrioti per liberare il Paese dai ladri”. Ungheria: guidato a partire dal 2006 da Gabor Vona, 32 anni, il partito Jobbik nell’aprile scorso è entrato in Parlamento come terza forza politica del paese con il 16,7 per cento dei voti. È apertamente xenofobo, omofobo e anti-Rom. Tanto da aver proposto di cambiare il nome di Rom (che troppo li identifica con il Paese) con quello di gitani. Svezia: nel settembre 2010 le urne hanno regalato ai Democratici di Svezia (Sd) di Jimmi Akesson il 5,7% dei voti che hanno garantito loro 20 seggi. Il partito fonda il consenso sulla lotta contro l’islamizzazione del paese e il no all’immigrazione musulmana. Svizzera: dal 2003 il primo partito della Confederazione è l’Unione democratica di centro, formazione di destra populista. Ha ottenuto grandi consensi su due referendum di iniziativa popolare: la proibizione di costruire minareti ed il rimpatrio automatico degli stranieri che commettano crimini (proposta presentata nelle scorse settimane anche dal governo Sarkozy e poi stralciata per le numerose polemiche interne).

bolimento di Schengen - ha detto - e solo in casi eccezionali vi potrà essere la reintroduzione di controlli temporanei alle frontiere». Una decisione da prendere comunque «su base comunitaria». Un punto sul quale gli Stati membri sono divisi. Base comunitaria, infatti, può significare due cose diverse: che le decisioni di sospendere Schengen devono essere fondate su criteri precisi, definiti dall’Ue a livello collettivo e sottoposti al controllo giuridico della Commissione europea; e che le decisioni siano prese non unilateralmente dallo Stato membro, ma su sua richiesta, secondo una procedura comunitaria.

La Commissione non ha ancora presentato una proposta formale di revisione di Schengen (si riserva di farlo nelle prossime settimane, dopo aver valutato l’esito del dibattito ministeriale), ma sembra intenzionata a chiedere entrambe le cose. Ma diversi paesi si oppongono all’abbandono del diritto di decidere unilateralmente la reintroduzione temporanea dei controlli alle frontiere, e lo hanno detto a chiare lettere, ad esempio, il ministro tedesco e i suoi colleghi austriaco e ceco. I francesi ipotizzano addirittura la convocazione lampo di un Consiglio dei ministri dell’Interno ogni qualvolta uno Stato membro di Schengen intenda prendere una decisione di sospensione. In questo caso i colleghi sarebbero informati, ma si resterebbe evidentemente in ambito intergovernativo e non comunitario. Di fronte al rischio di non avere la maggioranza qualificata dei paesi dalla sua parte, l’Esecutivo Ue punterà probabilmente sull’obiettivo minimo, ma strategico, di “comunitarizzare” i criteri e i casi in base ai quali i paesi potranno fare uso di questo diritto. Gli Stati membri non dovrebbero attendere il via libera preventivo della Commissione o della maggioranza degli altri paesi, ma sarebbero comunque passibili di censura ex post da parte di Bruxelles (con procedure d’infrazione fino al ricorso in Corte di giustizia) se una loro decisione di sospendere Schengen risultasse non fondata sulle motivazioni comunitarie.


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società

La crisi dell’Urss e le tensioni Est-Ovest dietro a uno dei fatti più clamorosi dell’intera storia del Novecento. Nel quale c’è ancora molto da indagare

Strategia anti-Wojtyla Dall’attentato al caso-Orlandi: c’è un disegno unico come spiega un libro di Imposimato e Provvisionato di Giancristiano Desiderio iazza San Pietro, 13 maggio 1981, trent’anni fa. Festa della Madonna di Fatima, ore 17.17, il turco Mehmet Ali Agca spara contro Giovanni Paolo II. Il mondo contemporaneo non è più il mondo di tre decenni fa. Ma se papa Wojtyla fosse morto, il mondo non sarebbe il mondo di oggi. Trent’anni fa l’Unione Sovietica era ancora in piedi e il momento del crollo, repentino e inevitabile come poi si è rivelato, non si sospettava. Il mondo era ancora diviso in due come una mela: Este e Ovest, Oriente e Occidente. In questo bipolarismo internazionale il papa giocava un suo ruolo non privo di pericoli: con l’appoggio a Solidarnosc minacciava di scardinare, nel nome della libertà e dell’autodeterminazione dei popoli, gli equilibri politici mondiali sanciti aYalta. I colpi di pistola in Piazza San Pietro erano diretti contro il papa che conosceva bene, per esperienza e verità umana, il doppio volto del totalitarismo del XX secolo. Ripercorriamo i lunghi attimi di quel pomeriggio di trent’anni fa.

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Come tutti i mercoledì di primavera, la folla invade la piazza delimitata dalle colonne del Bernini per assistere all’udienza generale all’aperto del pontefice. Alla sinistra della basilica Giovanni Paolo II, in abito bianco, sale sulla campagnola scoperta con a fianco il suo segretario, Stanislaw Dziwisz, e il suo cameriere personale, Angelo Gugel. A piedi, a seguire la vetturetta, c’è anche Alois Estermann, il futuro capitano della guardia svizzera, che morirà assassinato diciassette anni dopo. Per il papa e gli uomini della sicurezza è un giorno come tanti altri. Tutto è assolutamente tranquilli, niente di insolito. È un normale momento di catechesi, molto importante per i pellegrini di tutto il mondo. La campagnola, condotta dall’autista del papa, Sebastiano Baglioni, percorre una decina di metri e giunge all’arco delle Campane. Il papa è in piedi. La campagnola fa il suo ingresso in Piazza San Pietro per cominciare i due giri previsti dal cerimoniale nel corridoio transennato. Lungo il percorso la gente è in festa: “Viva il papa”, Viva Giovanni Paolo”, Viva Wojtyla”. La vettura rasenta le transenne in modo che il papa possa salutare da vicino i fedeli accalcati alle barriere e stringere loro le mani. Dopo aver percorso il lato sinistro, la campagnola si avvia lungo il lato destro. All’altezza

del portone di bronzo, nei pressi dell’ufficio postale mobile, il papa si piega verso una bambina per abbracciarla. Così ora si trova a pochi metri da un uomo. Il suo killer: Ali Agca che indossa una giacca grigia e una camicia bianca ed è vicino ad una transenna. Il calcio di una Browning calibro 9 gli affiora dalla cintura dei pantaloni.

Sono le 17.17. Il turco Agca estrae la pistola, la punta contro l’uomo vestito di bianco e spara. Giovanni Paolo II, ferito al ventre, si accascia tra le braccia di don Stanislaw mentre centinaia di colombi si levano in volo. Tra la fol-

Nella spaccatura «bipolare» del mondo diviso tra Oriente e Occidente, il Papa polacco (vicino a Solidarnosc) giocava un ruolo pieno di pericoli la c’è un attimo di sbandamento. Il tempo è come sospeso. Ma un attimo. Quindi le grida e la fuga. Anche la campagnola è in fuga. L’autista, infatti, capisce che è necessario far presto e trasportare il papa verso l’ambulanza.

Come sempre, ce n’è una attrezzata per la rianimazione nelle vicinanze. Dopo dodici minuti dagli spari di Agca l’ambulanza parte alla volta del Policlinico Gemelli. Più volte il papa ha fatto sapere che, in caso di necessità, vuole essere portato in ospedale come un cittadino normale. Al bordo, assieme al papa ferito, oltre a don Stanislaw, c’è anche il dottor Renato Buzzonetti, direttore dei servizi sanitari del Vaticano e medico personale del pontefice, con un infermiere. Don Stanislaw, chino sul papa, lo sente pronunciare qualche parola che somiglia a una preghiera. Nonostante l’ora di punta, il tragitto dura solo otto minuti. Giovanni Paolo II, che cinque giorni dopo compirà sessantuno anni, viene ricoverato nel reparto di rianimazione e da lì portato subito in sala operatoria. È ferito all’addome e perde molto sangue. Dopo un attimo di scompiglio generale, il pontefice viene fatto saliere al decimo piano. La pressione arteriosa sta scendendo pericolosamente, il polso è ormai quasi impercettibile. Le sue condizioni generali sono quasi disperate. La sala operatoria viene allestita all’istante. Durante il tragitto don Stanislaw impartisce l’estrema unzione al papa. Intanto arriva il professor Francesco Crucitti, uno dei primari di chirurgia del Gemelli. Il resto della storia, come si dice in ogni bella

storia a lieto fine, la conoscete già. Ma le cose non stanno proprio così. Perché non è neanche detto che questa storia, una vera e propria spy story, si concluda a lieto fine.

Per conoscere in ogni piccolo particolare la storia dell’attentato a Giovanni Paolo II c’è adesso un ottimo libro da cui ho attinto a piene mani, praticamente copiando, per scrivere questo lungo articolo. Il libro s’intitola Attentato al papa e gli autori sono Ferdinando Imposimato - uno dei magistrati che hanno lavorato di più sul caso Moro - e Sandro Provvisionato, giornalista e capo della cronaca del Tg5 (sul papa e per la stessa casa editrice, Chiarelettere, c’è da segnalare anche un altro libro: Wojtyla segreto di Giacomo Galeazzi e Ferruccio Pinotti). Continuo citando ancora, sia pure senza virgolette, quanto dicono Imposimato e Provvisionato all’inizio del loro scrupoloso lavoro. Le indagini sull’attentato hanno lasciato dietro di sé un’infinità di buchi neri, dubbi e punti interrogativi, sia per le contraddittorie rivelazioni di Agca, sia per volontà della stessa vittima dell’aggressione armata, il pontefice e di conseguenza il Vaticano, divenuto in quegli anni un ricettacolo di spie dell’Est. Nell’epoca della coesistenza pacifica e della Ostpolitik a nessuno conveniva che la verità dei fatti venisse a galla. E la verità dei fatti, ancora una volta in contrasto con la verità giudiziaria, è che Giovanni Paolo II non è rimasto vittima dell’attentato criminale di un folle isolato ed estremista, ma di un vero e proprio complotto, ordito dall’Unione Sovietica e messo in


società

13 maggio 2011 • pagina 15

Tre drammatiche immagini dell’attentato a papa Wojtyla, in mezzo alla comunità dei fedeli riunita in piazza San Pietro, il 13 maggio 1981. Nella pagina a fianco, Giovanni Paolo II, completamente ristabilito incontra, nel carcere di Rebibbia, il suo attentatore, il turco Ali Acga

atto dalla Bulgaria con la complicità della mafia turca e l’impiego dei servizi segreti dell’Est. Un complotto che con ogni probabilità prevedeva anche l’eliminazione del leader sindacale polacco Lech Walesa.

In questa storia, che nei fatti conclude il Novecento, sono coinvolti sei paesi come la Francia, la Bulgaria, la Russia, la Germania, la Turchia, la Polonia; un killer, Ali Agca, che dice di essere Gesù Cristo. Un gruppo di spie di tutto rispetto che si infilano nelle stanze del papa: monsignori, cardinali e persino guardie svizzere. Due giudici bulgari che giudici non sono e anzi sono ritenuti gli organizzatori del sequestro del 1983 di Emanuela Orlandi, la ragazza romana che diventa strumento inconsapevole del terrorismo internazionale. Ma non è ancora finita: c’è un morto che in realtà non è morto (ossia il presunto organizzatore dell’attentato al papa), due italiani trattati come spie dal governo bulgaro per ritorsione nei confronti del nostro governo ma che spie non sono, e poi un sindacalista incarcerato e scarcerato vent’anni dopo, senza nemmeno ricevere le scuse. Tra omicidi, sequestri, furti, ricatti, minacce, spie, criminalità organizzata c’è anche un monaco benedettino con Maserati Biturbo color giallo oro, ma è una spia della Stasi. Ma il cuore del libro Attentato al papa è il cuore di Emanuela. «Anche per i sequestri Gregori e Orlandi - sostiene Imposimato - le prove raccolte in questi ventotto anni dimostrano la serietà della pista dell’Est e l’assurdità di qualunque altra ipotesi. I due rapimenti furono la continuazione dell’attacco a Giovanni Paolo II che, peraltro, di ciò si convinse nel settembre 1997, quando lesse la lettera di Agca che io stesso ebbi premura di fargli avere. Sia nell’attentato al papa sia

nei sequestri - soprattutto in quello della Orlandi - si vede con chiarezza la stessa mano che si propone di fermare il papa. In entrambi gli eventi, il Kgb e i servizi segreti bulgari sono presenti accanto alla Stasi».

Se si escludono i primi contatti, il cui fine è quello di far credere alla fuga volontaria, le telefonate ricattatorie giungono solo al papa e a Casaroli, mai agli Orlandi. Il papa parte per il suo secondo viaggio in Po-

l’attentato e il sequestro». Il lavoro certosino dell’ex magistrato esperto in atti e strategie di terrorismo «mi consentì di scoprire alcuni rapporti dei carabinieri che risalivano al 1984e che erano stati completamente ignorati. Documenti fondamentali per la verità, dai quali emerge un vasto e preciso piano di rapimenti di cittadini vaticani appartenenti a famiglie molto legate al papa. Avevo intuito bene, perché quelle carte - rapporti, ma anche interrogatori condotti dai carabinieri - dimostravano che prima di Emanuela altre ragazze erano entrate

Secondo molti, il «complotto» sovietico contro Giovanni Paolo II con ogni probabilità prevedeva anche, subito dopo, l’eliminazione del leader sindacale polacco Lech Walesa lonia ed Emanuela è rapita. Il papa, al ritorno dalla sua visita nel suo paese natale, tace sui suoi personali trionfi e, nei suoi messaggi da San Pietro, parla solo di Emanuela e della sua famiglia. «La mia convinzione che esistesse una globale strategia contro il papa - prosegue Imposimato nacque quando presi in esame il caso Orlandi. Nonostante le evidenti connessioni (identico l’obiettivo, identici i luoghi dei due delitti) mi chiesi la ragione del distacco temporale di oltre due anni tra

nel mirino dei terroristi. Una addirittura fin dal maggio 1981, subito dopo l’attentato. Scoprii anche, a conferma della mia intuizione, che Agca aveva anticipato al giudice Martella, ancor prima della scomparsa di Emanuela, il programmato rapimento di cittadini vaticani per ottenere uno scambio con lui. Quindi la povera Emanuela è stata un obiettivo di ripiego».

C’è poi da chiedersi quale fu la posizione di Casaroli. Nelle sue memorie Casaroli non parla né dell’attentato al papa né del caso Orlandi. Quattro anni cancellati. Perché? «Io credo - spiega Imposimato - per

l’imbarazzo di fornire un resoconto inesatto. Egli deplorava il presenzialismo del papa e la sua sfida a Mosca. Casaroli era schierato a favore dei paesi socialisti. E non a caso dal 5 luglio 1983 i rapitori si misero in contatto con il numero da lui fornito per fare richieste contro il papa. I suoi amici Stehle e Brammertz tennero costantemente informata la Stasi, e Casaroli non poteva non saperlo. Le notizie fornite dai due, infatti, erano troppo precise. Inoltre, come poté non insospettirsi del fatto che i rapitori venissero a sapere quasi in tempo reale dei suoi contatti con il pm Domenico Sica? Casaroli negò anche di essere stato informato del progetto di attacco al papa, ma fu smentito dagli uomini del servizio segreto francese. Molti - come scrisse don Virgilio Levi su L’Osservatore Romano il giorno dopo l’attentato sapevano che era imminente».

C’è ancora una domanda senza risposta: Emanuela è viva? Ferdinando Imposimato risponde dicendo che «dalla lettura degli atti risulta che Emanuela è stata tenuta in vita almeno fino al 1997. I segnali in tal senso sono molteplici e si basano su diverse testimonianze. Non è possibile che Emanuela sia stata uccisa subito dopo il rapimento: la voce registrata a distanza di mesi lo dimostra. E poi c’è la testimonianza della professoressa Baum, che nell’agosto 1983 parlò con lei. Inoltre ci sono le testimonianze di diverse persone dell’ambiente turco che vivono da anni in Germania. Dopo essere stata rapita dai Lupi grigi su incarico dei bulgari, Emanuela non è stata uccisa. Certamente ha convissuto con qualcuno dei suoi rapitori. Sulla base della mia esperienza, non è la prima volta che ciò accade. E non deve stupire. Che sia ancora viva non è possibile dirlo. Io penso e mi auguro che sia così».



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