he di cronac
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Correndo dietro al piacere è facile incappare nel dolore Michel De Montaigne
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 17 MAGGIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Torino vota compatta. Bologna in bilico: straordinario il risultato di Raimondo Pasquino a Napoli
La Caporetto di Berlusconi Aveva detto: «Milano, test su di me». La sconfitta è clamorosa Pisapia sopra di 7 punti: il premier non commenta. Solo Fassino (e forse Merola) al primo turno. Exploit di De Magistris. Bersani: «Il vento del Nord è cambiato». Terzo polo decisivo nei ballottaggi NON SOLO IL BERLUSCONISMO
La soddisfazione (e l’allarme) del Terzo Polo
Arriva la conferma: questo sistema è in fin di vita
«L’alternativa alla doppia tenaglia estremista» Il radicalismo del premier perde ma rafforza quello di sinistra
di Giancristiano Desiderio
Errico Novi • pagina 3
Milano non ha perso Letizia Moratti. A Milano ha perso Silvio Berlusconi. Perché se il presidente del Consiglio decide di essere capolista nella sua città e sceglie di trasformare un voto amministrativo in un voto politico e gli elettori gli voltano le spalle, la sconfitta è politica.
A
L’opinione del politologo Paolo Pombeni
«Ora il Cavaliere è proprio dimezzato»
a pagina 2
LA VERA MALATTIA
Superare la logica della politica come “duello”
LA DEBACLE SOTTO IL DUOMO Giuliano PISAPIA (Centrosinistra)
Letizia MORATTI (Centrodestra)
di Francesco D’Onofrio na riflessione complessiva sull’ampio turno amministrativo che si è realizzato in questi giorni in molte parti d’Italia può essere utilmente svolta anche prima della precisa conoscenza dei dati concernenti le singole realtà comunali e provinciali chiamate al voto. a pagina 7
U
Manfredi PALMERI (Terzo Polo)
Mattia CALISE (Mov. 5 stelle)
48% 41% 5,3% 3,3%
«Il Pdl ha perso dappertutto: ora serve un’alternativa vera» Francesco Lo Dico • pagina 4
Il clima sembra essere quello del 1993
Quella voglia di outsider I dati parlano chiaro: l’Italia cerca una nuova scelta politica Maurizio Stefanini • pagina 6
Dopo la conferma della candidatura di Draghi alla Bce
Ora a Palazzo Koch si balla il valzer della successione La moglie del finanziere e quella voglia di Eliseo
La decisione annunciata dal procuratore Ocampo
Madame Strauss-Khan: se Parigi val bene (giustificare) uno stupro
L’Aja spicca un mandato per arrestare Gheddafi: crimini di guerra
Roselina Salemi • pagina 12 seg1,00 ue a p agina 9CON EURO (10,00
Gianfranco Polillo • pagina 14 I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
94 •
WWW.LIBERAL.IT
Antonio Picasso • ultima pagina • CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
21.30
pagina 2 • 17 maggio 2011
speciale elezioni
l’editoriale I disastrosi numeri di un test che era destinato a fallire
Ora è ufficiale: il bipolarismo è morto di Giancristiano Desiderio Milano non ha perso Letizia Moratti. A Milano ha perso Silvio Berlusconi. Perché se il presidente del Consiglio decide di essere capolista nella sua città e sceglie di trasformare un voto amministrativo in un voto politico e gli elettori gli voltano le spalle, la sconfitta è politica e non amministrativa. Le elezioni di Milano sono state pensate e condotte dal capo del governo come un referendum sulla sua persona. Ha perso. La lezione che si ricava da Milano è allora triplice: crisi accertata del bipolarismo, declino della leadership di Berlusconi, fine dell’egemonia dell’alleanza del Nord tra Lega e berlusconismo. Vediamo.
A
Il nostro giornale lo scrive, con analisi, riflessioni, documenti, da tempo. Ora, però, possiamo aggiungere - come si dice - il dato elettorale: se si sommano voti raccolti dalla Moratti e da Pisapia si arriva a circa l’88 per cento (mentre andiamo in stampa) mentre nel 2006 destra e sinistra erano addirittura al 99 per cento. La perdita secca di oltre dieci punti va al di là di ogni commento. Il centrodestra è più debole perché ha perso il suo profilo di polo moderato o dei moderati che era da sempre la sua origine sociale prima ancora che politica. La campagna elettorale condotta direttamente da Berlusconi e da ambienti politici a lui molto vicini è stata l’esatto opposto della moderazione, tanto che - caso più unico che raro - ci sono stati richiami e interventi del presidente della Repubblica per invitare al rispetto delle istituzioni, delle persone e delle idee di equilibrio e ragionevolezza. Per il centrodestra è questa probabilmente la maggiore sconfitta perché la bocciatura di Milano anticipa la bocciatura nazionale. In altre parole, il centrodestra non è più affidabile. La leadership di Berlusconi è da ieri ufficialmente sul viale del tramonto. E, questa volta, l’attacco è serio e consistente perché non viene dai magistrati, né dai comunisti ma dagli elettori e gli elettori più vicini al premier. La sconfitta è bruciante perché è avvenuta sul campo politico. Anzi, proprio i processi e il giustizialismo gli danno forza elettorale. Non a caso Berlusconi aveva chiesto ancora una volta un plebiscito sulla sua persona secondo la sua logica populista e radicale. Questa volta, però, la logica plebiscitaria non ha funzionato e se si vanno a vedere i voti ciò che manca è proprio l’elettore moderato. Berlusconi, alleato a prescindere con la Lega, ha cercato in ogni modo di schiacciare i moderati, ma il calcolo si è rivelato non solo sbagliato ma anche miope. Infatti, perdendo per il tradimento che lo stesso Berlusconi ha fatto delle ragioni dei moderati, il premier ha imboccato con le sue gambe il viale del tramonto. La sua leadership bipolare si reggeva su un punto essenziale: era il riferimento della cultura liberale e cattolica. Oggi Berlusconi è in crisi perché la sua cultura politica è diventata radicale e sterile.
Berlusconi senza i moderati non vince e la Lega non compensa né numericamente né idealmente l’assenza del polo dei moderati. Il dominio del berlusconismo e del leghismo, con la roccaforte a Milano e in Lombardia, è in evidente fase calante. Un ciclo sta finendo. I confini politici ed elettorali dell’alleanza o asse del Nord sono diventati più angusti: senza l’anima moderata Berlusconi non riesce più a incrementare voti. Li perde e non li conquista. È questo l’aspetto più importante di questa tornata elettorale: il giocattolo costruito da Berlusconi e Bossi con il Pdl e la Lega si è inceppato. Rotto. Non funziona più. E se non funziona più a Milano, si può immaginare come giri a vuoto nel “resto dell’Italia”.Ora viene il bello. Berlusconi proverà a rigirare la frittata. Inutilmente, perché il verbalismo e il marketing hanno già raggiunto i loro limiti diventando dei boomerang.
il fatto Torino elegge Fassino al primo turno. A Napoli exploit di De Magistris. Bologna in bilico
La Madunina gli dice no
Berlusconi aveva detto: «Milano sarà un test su di me». Ma la débacle è clamorosa: Pisapia stacca la Moratti di 7 punti. Terzo Polo decisivo al ballottaggio di Marco Palombi
ROMA. Spira da nordest e a Roma si sente fin dal primo mattino. Soffia sulla città eterna mentre, come voleva Giorgio Caproni, i giornali rotolano nel vento analfabeta. In giornate così può capitare di sentirsi mancare il fiato, venir meno la parola e sentire incombere su tutto come un presagio di sventura. Una melanconia che aumenta esponenzialmente se, in una giornata come questa, siete un “colonnello”del Pdl e vi tocca commentare lo schiaffone delle amministrative. E infatti passa Ignazio La Russa e dice: «Il ballottaggio a Milano è colpa del Terzo Polo», come se non lo avessero informato che Manfredi Palmeri correva contro Letizia Moratti. Arriva Denis Verdini e minimizza: «Risultato che non ci aspettavamo, ma intanto a Napoli Gianni Lettieri veleggia (sic,
ndr) e i problemi sono tutti del Pd». Roberto Formigoni aspetta il tardo pomeriggio per sostenere che «c’è stato un problema di comunicazione».
Meglio non dare del criminale all’avversario? Macché, «non si è riusciti a comunicare il buon lavoro fatto per la città». Anche il vicecapogruppo alla Camera Osvaldo Napoli, che di solito va giù dritto come un fuso nelle dichiarazioni, ieri traballava: «A Milano poteva andare peggio», ma anche «è un risultato che nessuno di noi si aspettava», comunque «è a livello nazionale che l’elettorato ci ha premiato» (non pare a guardare Cagliari, Salerno e qualche altra decina di posti dovunque in Italia). Sandro Bondi ha fatto una variazione sui soliti temi, che però stavolta suona abbastanza ridicola: «È
solo grazie all’impegno e allo slancio generoso del presidente Berlusconi che è stato possibile ottenere questi risultati». Il fatto è che magari non si sa bene chi ha vinto, ma che il Cavaliere e la sua politicizzazione delle amministrative abbiano perso è l’unico dato certo: non è un caso che mentre tutti stavano già straparlando da ore, lo stato maggiore della Lega se ne stava rinchiuso nel bunker di via Bellerio senza proferire parola, ma lasciando trapelare ai cronisti una furiosa incazzatura contro il Pdl, la sua candidata di Milano e il suo capo di Arcore. La prima che si presenta in tv è la “moderata” Carolina Lussana, che ammette: «Se i dati rimangono questi, si impone una riflessione». I numeri infatti, prendendo per buone le ultime proiezioni disponibili mentre andiamo in stampa,
speciale elezioni parlano chiaro: Letizia Moratti perde nettamente da Giuliano Pisapia e si scorda per strada pure due-tre punti percentuali arrivati invece alle liste della sua coalizione. Buono il risultato del candidato del Nuovo Polo Manfredi Palmeri (tra il 5 e il 6%) e del giovane grillino Mattia Calise (al 3,5%), i cui elettori saranno decisivi al ballottaggio. Il fatto è che il centrodestra a Milano ha subito una vera e propria emorragia di voti: dalle regionali dell’anno scorso il Pdl perde sette punti e la Lega quattro, mentre la sindaco addirittura dieci rispetto alle precedenti comunali (vinse al primo turno col 52% dei voti). Un bagno di sangue che - al netto delle preferenze personali al capolista Silvio Berlusconi di cui si parlerà oggi - pone un problema vero alla coalizione che governa a Roma: se il Pdl cede terreno, anche per via della scissione dei finiani, la Lega non guadagna, anzi perde pure lei. Vuol dire che ciò di cui parlavano i lumbard in campagna elettorale - cioè dell’insofferenza del loro elettorato verso il Cavaliere - è una realtà che si è tradotta in voti veri, non è rimasta nelle pance leghiste e nei mugugni sul web: per questo, in serata, si parlava di un Bossi intenzionato a rimettere la Lega sull’asse di lotta già nel tradizionale raduno di Pontida convocato dopo i referendum. Il Carroccio peraltro, se si esclude il Veneto in cui ha ormai cannibalizzato il Pdl, va maluccio anche nelle piccole città settentrionali (un disastro a Trieste) con la significativa esclusione di quelle in cui corre da sola contro il partito del predellino: a Rho e Gallarate i candidati leghisti, appoggiati da liste civiche vicine a Futuro e Libertà, dovrebbe andare al ballottaggio contro l’uomo del centrosinistra. Nell’area moderata si dimostra, in sostanza, e persino in un contesto sfavorevole come le comunali nelle grandi città, che senza il Terzo Polo nessuno ha una maggioranza politica da spendere, il centrodestra su tutti. È il motivo per cui gli oriundi berlusconiani dentro Futuro e Libertà, Urso e Ronchi, si sono affrettati ad offrire un accordo al Pdl, che s’è affrettato a siglarlo, venendo però smentiti dalla coalizione in pochi minuti: «Bisogna fare attenzione a evitare scelte sbagliate: faremo accordi sui programmi con le persone che riterremo credibili, senza pregiudizi. Ronchi? Io parlo con Fini e Bocchino». In ogni caso, spiega il leader dell’Udc, «il 5 o 6 nelle città del Nord, dove non abbiamo insediamento, vuol dire il 910% alle politiche, cioè senza di noi non si governa».
Quanto al centrosinistra il caso di scuola è Napoli. Mentre a Torino il candidato del Pd, Piero Fassino, vice largamente e a
LE ALTRE TRE CITTÀ CHIAVE NAPOLI
TORINO Piero FASSINO (Centrosinistra)
Michele COPPOLA (Centrodestra)
Alberto MUSY (Terzo Polo)
Vittorio BERTOLA (Mov. 5 stelle)
56% 27% 5% 5%
22% Gianni LETTIERI 40% (Centrodestra) Raimondo PASQUINO 10% (Terzo Polo) Luigi DE MAGISTRIS 26% (Idv - Sinistra) Mario MORCONE (Centrosinistra)
17 maggio 2011 • pagina 3
Bologna Virginio Merola dovrebbe spuntarla per un pelo già al primo turno (il predecessore Flavio Delbono vinse al ballottaggio) nonostante un Movimento 5 Stelle attorno al 10%, è nel capoluogo campano che è successo l’imponderabile: l’ex pm Luigi De Magistris straccia il candidato democratico, il prefetto Mario Morcone, appoggiato pure da Sel, anche grazie al voto disgiunto di molti elettori del Pd e vendoliani. Per restare al lessico di Verdini, l’uomo voluto da Cosentino per il centrodestra, Gianni Lettieri, “veleggia” attorno al 40%, il dipietrista per così dire “bordeg-
BOLOGNA
50% Manes BERNARDINI 30% (Centrodestra) Massimo BUGANI 9% (Mov. 5 stelle) Stefano ALDROVANDI 5% (Terzo Polo) Virginio MEROLA (Centrosinistra)
Da sinistra Piero Fassino, Manas Bernardini e Raimondo Pasquino (Terzo Polo)
«L’alternativa alla doppia tenaglia estremista» Casini: «Al secondo turno non faremo sconti» di Errico Novi
ROMA. Decisivi a Milano. Essenziali a Napoli. Il peso acquisito dai candidati e dalla coalizione del Terzo polo è visibile a tutti.Tanto che da entrambi gli schieramenti parte subito un fitto corteggiamento. Persino Antonio Di Pietro chiede a Casini, Fini e Rutelli di compiere una scelta per un’alleanza «moderata nei contenuti ma radicale nel modo di portare avanti le proprie rivendicazioni». Ma i tre leader del polo moderato tengono innanzitutto a sottolineare che il dato proposto da queste Amministrative va considerato sotto la specie politica e non semplicemente in termini numerici. «L’impronta estremista che Berlusconi ha dato alla campagna elettorale appiattendo il Pdl sulle posizioni leghiste, o addirittura scavalcandole in tema di giustizia, ha avuto una risposta di segno uguale e contrario, come dimostrano l’affermazione di De Magistris a Napoli e il successo della sinistra più radicale», si legge innanzitutto nel comunicato ufficiale diffuso dal Terzo polo nel tardo pomeriggio. E a proposito della direzione imposta dal Pdl e da Berlusconi alla campagna elettorale, nella nota del Terzo polo si aggiunge: «Nessun partito moderato europeo lo avrebbe fatto e ciò caratterizza ormai il nostro bipolarismo come uno scontro tra estremismi». Quindi il giudizio sul risultato dell’alleanza: «Siamo grati agli elettori per il significativo segnale di attenzione dato al Terzo polo che dimostra di avere uno spazio politico-elettorale destinato a crescere e a essere decisivo, tanto ai ballottaggi quanto alle future elezioni politiche. È evidente che senza il Terzo polo non si governa», si legge dunque nel
comunicato, «non tanto e non solo in termini numerici quanto e soprattutto in termini politici, perché la soluzione dei problemi dei cittadini non può essere affidata a coalizioni condizionate da radicalismi ideologici e populisti».
Da qui i leader della coalizione moderata, che si sono incontrati anche a pranzo, fanno discendere il criterio che sarà seguito rispetto alle sfide del secondo turno: «Valuteremo con i candidati sindaci del Terzo polo le scelte più appropriate per i ballottaggi, e lo faremo nell’interesse esclusivo dei cittadini senza scelte pregiudiziali o corsie privilegiate». La risposta alle molte sollecitazioni arriìverà nei prossimi giorni. Già oggi ci sarà un primo incontro, con i vertici dell’alleanza che valuteranno innanzitutto i risultati nelle varie città e le ottime affermazioni riportate in diversi comuni (a Napoli come in capoluoghi importanti come Siena, dove Gabriele Corradi viaggia oltre il 15 per cento). E si discuterà in particolare con i candidati del Terzo polo nelle città chiamate al ballottaggio. Saranno questi ultimi a valutare innanzitutto le proposte fatte sui programmi dai diversi sfidanti. Ma è già abbastanza chiara e condivisa l’analisi sull’esito delle sfide più attese. «Queste erano elezioni amministrative ma se c’è uno che ha voluto trasformarle in referendum è Berlusconi e il referendum lo ha perso», ha detto infatti Casini. E Rutelli ha fatto notare come «solo uno ha voluto rendere queste elezioni amministrative come una sfida politica e si chiama Silvio Berlusconi».
gia” abbondantemente sopra il 25%, l’ex dipendente del Viminale “stramba” a meno del 20. Mantiene le attese il candidato del Terzo Polo, Raimondo Pasquino, che “ammara” vicino al 10%. I democrats hanno già detto che al ballottaggio appoggeranno l’ex magistrato, mentre Antonio Di Pietro s’è messo a parlare al paese come se avesse vinto lui.
In realtà i risultati sorprendenti di Pisapia (Sel) e De Magistris (Idv) - maturati però in situazioni molto particolari - rischia di far passare in secondo piano il dato complessivo di quei partiti, che non è affatto positivo: mentre i numeri del Pd, infatti, sembrano crescere quasi dappertutto la stessa cosa non può dirsi dei suoi alleati. Il partito di Di Pietro a Milano, ad esempio, si dovrebbe fermare al 3%, cioè meno della metà di quanto prese un anno fa alle regionali, mentre Sinistra e Libertà dovrebbe passare dal 2,5 al 4,5%, buon risultato ma un po’ poco se si esprime il candidato sindaco e si punta alla leadership nazionale del centrosinistra. Ottimo, invece, il riscontro del Movimento 5 Stelle, elettorato comunque in parte vincolato al non expedit di Beppe Grillo: prendere il 4% dei voti nel capoluogo lombardo spendendo settemila euro è una specie di miracolo. Pierluigi Bersani, infine, dovrebbe aver messo a segno un punto contro i “verificazionisti” interni, cioè Veltroni: ha tenuto Bologna e Torino e pure i risultati di lista in genere lo premiano rispetto al recente passato. Quanto al Cavaliere, ha perso, ma oggi dirà che non è vero.
pagina 4 • 17 maggio 2011
speciale elezioni
L’opinione del politologo Paolo Pombeni: «Il Popolo della libertà deve riflettere. I falchi hanno fallito su tutto»
Il Cavaliere dimezzato
«Non c’è dubbio. Berlusconi ha perso il suo personale referendum e queste elezioni gli infliggono un duro danno d’immagine. Anche la Lega registra un brusco stop. Ora il governo cercherà di prolungare la sopravvivenza» di Francesco Lo Dico
ROMA. «Berlusconi ha perso il suo referendum a Milano, non c’è dubbio. Il deludente risultato della Moratti è un grave colpo per il Pdl e un monito ai falchi come Stracquadanio e Santanchè che hanno condotto una campagna elettorale all’insegna dell’aggressione. Il premier aveva messo la propria faccia sui manifesti, e dovrà ammettere che questa volta è stato sconfitto dalla stessa logica personalistica che voleva tramutare in una prova di forza. È ancora presto per dire che il premier è arrivato alla sua Caporetto, perché il governo ha tuttora una maggioranza sufficiente, ma certo è che comunque, al di là dell’esito finale del ballotaggio, la sua immagine, e l’appeal verso gli elettori, escono appannati». Professore di Scienze politiche all’università di Bologna,
Paolo Pombeni commenta così l’inaspettata caduta del centrodestra a Milano, che dovrà andare al secondo turno contro un candidato del centrosinistra avanti di molti punti contro ogni più roseo pronostico dei sondaggisti del Cavaliere, e forse dello stesso Pisapia. Professore, è Milano la Caporetto politica di Berlusconi? Per il presidente del Consiglio è un boccone difficile da mandare giù. Nella sua Milano si sarebbe aspettato un referendum popolare che avrebbe sancito la prova politica più dirimente del suo intatto carisma. Ha lavorato alla campagna elettorale in prima persona ma l’esito è che il referendum si è concluso con una sconfitta. Tutto è ancora da decidersi al ballotaggio, è vero. Ma l’abbondante vantaggio di Pisapia sulla Moratti è un chia-
ro segnale di logoramento. Ci saranno ripercussioni nazionali, visto che la Lega aveva lasciato trapelare che in caso di una cattiva performance a Milano avrebbe potuto pensare a un clamoroso distacco dal Pdl? Il premier aveva attirato su di sè i riflettori della città anche
«Il bipolarismo è meno forte, ma il voto di protesta complica i piani alle alternative»
per calmierare le ambizioni crescenti della Lega. Ma per Berlusconi Milano si è tramutata invece in un duro colpo simbolico che lo indebolisce non soltanto agli occhi degli antagonisti, ma anche di fronte all’alleato di governo tenuto in secondo piano. C’è da dire però che la maggioranza di Berlusconi in Parlamento è an-
cora salda e che il premier ha i numeri per andare avanti, a mio modo di vedere. Non si può ancora dire che l’era berlusconiana sia giunta al termine, anche perché il premier in passato ha saputo rovesciare le sconfitte con improvvisi colpi di coda. E poi va notato che la Lega non avrà alcuna intenzione di fare la voce grossa: oggi sappiamo che non ha i numeri per abbandonare il Cavaliere. Bossi resterà a fianco dell’alleato anche in caso di una Milano appaltata al centrosinistra? Le votazioni devono far riflettere anche gli esponenti del Carroccio. Queste elezioni non parlano soltanto di un Cavaliere dimezzato, ma anche di una Lega in calo di consensi. L’ipotesi di corsa autonoma avanzata da Maroni prima del voto ormai non è percorribile. La verità è che dati alla mano, la Le-
17 maggio 2011 • pagina 5
Resistono fortini del centrodestra come Varese e Treviso, centrosinistra al primo turno a Ravenna e Lucca
Si indebolisce in tutto il Nord l’asse tra il premier e Bossi
Non funziona la sfida solitaria del Carroccio a Trieste, escluso dai ballottaggi con percentuali sotto il 10 per cento. E i veti lumbàrd aprono un caso a Pavia di Riccardo Paradisi
ROMA. Se Emilio Fede usasse ancora le bandierine per disegnare il risultato elettorale sullo stivale, il Nord Italia sarebbe meno azzurro. Il principale segnale infatti che queste elezioni amministrative fanno registrare è la fine della spinta propulsiva del Pdl e del berlusconismo sul fronte del Nord e a Milano, che erano i suoi epicentri di irradiazione. Gli altri due sono la frenata della Lega e il successo dell’antipolitica. La Lega contribuisce alla vittoria del centrodestra in alcune città ma arretra quasi ovunque in termini di voti, anche a Milano (almeno rispetto alle Politiche) e Bologna. O a Trieste, l’unica città capoluogo dove il Carroccio andava da solo e si ferma bel al di sotto del 10 per cento, restando esclusa dal ballottaggio sia alla Provincia, dove si ferma al 7 per cento, che al Comune, con uno score intorno al 6. Avanza invece clamorosamente, con epicentro nell’Emilia Romagna, il qualunquismo aggressivo del movimento grillino Cinquestelle, che fa il paio con l’avanzata di De Magistris a Napoli. Una fotografia questa che genera alcune conseguenze ma che intanto va messa meglio a fuoco in attesa che la camera oscura delle proiezioni rilasci un’immagine via via più nitida dei risultati amministrativi. Intanto il quadro parziale è che a Torino Fassino vince senza colpo ferire e che a Bologna tra centrosinistra e centrodestra lo stacco è di quasi venti punti. Il centrodestra resiste a Varese e Treviso col contributo decisivo della Lega e soprattutto a Mantova governata finora dal centrosinistra, dove conquista un ballottaggio dagli esiti incerti. Ma a Mantova ha vinto la Lega, non certo il Pdl: in particolare il lumbàrd Giovanni Fava avrebbe ottenuto, a metà circa dello scrutinio, il 40,5% mentre il candidato del centrosinistra si sarebbe fermato al 34,3. Un caso paradigmatico è quello di Pavia, dove sembrano venire già al pettine le contraddizioni tra Pdl e Lega che si sono registrate in queste amministrative. A Pavia infatti sarà necessario quasi sicuramente il ballottaggio del 29 e 30 maggio per eleggere il nuovo presidente dell’amministrazione provinciale. Ruggero Invernizzi, candidato del centrodestra (appoggiato da Pdl, Lega Nord, Popolari d’Italia Domani e Democrazia cristiana lombarda), è attestato al 45,5 per cento; Daniele Bosone, candidato del centrosinistra (sostenuto da Pd, Italia dei Valori, lista civica della Mela e Sinistra e Libertà), è al 32,4 per cento. Saranno loro due, fra quindici giorni, a contendersi il palazzo di Piazza Italia. Il punto è che l’ago della bilancia potrebbe essere Vittorio Poma, presidente uscente, che non è stato ricandidato dal centrodestra dopo il no della Lega Nord. Poma, che si è candidato con una lista che porta il suo nome e con il soste-
gno dell’Udc, sfiora per il momento l’11 per cento. Le trattative per definire eventuali alleanze in vista del ballottaggio cominceranno già nelle prossime ore. La coalizione guidata da Berlusconi è costretta poi al ballottaggio a Vercelli per esempio, commissariata dal marzo dello scorso anno, dove il candidato del centrodestra, quando ancora lo spoglio delle schede è in corso, si sarebbe fermato al 45,5 per cento delle preferenze,
A Cagliari in vantaggio Massimo Zedda, candidato di Sinistra e libertà. Vercelli in bilico mentre Luigi Bobba, il deputato teodem del Pd, avrebbe ottenuto il 34,3 per cento dei consensi.
Ancora: a Trieste la presidente uscente della Provincia, llyana Maria Teresa Bassa Poropat, non riuscirebbe a vincere al primo turno, raggiungendo il 48,5 per cento delle preferenze, e dovrebbe dunque andare al ballottaggio con lo sfidante Giorgio Ret, Pdl, che ha ottenuto il 29,9 per cento delle preferenze mentre a Treviso il centrodestra riuscirebbe a riconfermare Leonardo Muraro, presidente uscente, con il 58,3 per cento dei voti. A Ravenna, invece, il centrosinistra riuscirebbe a riconfermare la guida della Provincia: il candidato del centrosinistra, Claudio Casadio, quando ancora lo spoglio delle schede non è terminato, si attesta al 62,3 per cento delle preferenze, così anche a Lucca, dove Stefano Baccelli, presidente uscente, riuscirebbe a essere riconfermato con il 52,6 per cento dei voti, con Gabriele Brunini, candidato dal centrodestra, al 43,4. Spostandosi sul centro della penisola: la Provincia di Macerata, guidata da un commissario dal giugno dell’anno scorso, potrebbe andare al ballottaggio. Il candidato del centrosinistra, Antonio Pettinari, si è fermato al 45,2, tallonato dal rivale del centrodestra che si attesta, al momento, al 39,4. Vittoria al primo turno invece ad Arezzo per Giuseppe Fanfani alle
elezioni per il Comune. Il candidato del centrosinistra ha ottenuto il 50,3. Altro dato significativo quello di Cagliari dove Massimo Zedda, candidato del centrosinistra ed esponente di Sinistra e libertà, è in testa e rischia di superare il 50%. Le conseguenze, cui si accennava, di questo nuovo assestamento politico sono evidenti. La principale è che i principali attori del bipolarismo italiano Pdl e Pd, sono costretti a fare il conti con le loro ali estreme. Il Pdl con la Lega e le prevedibili reazioni di Bossi che dove non avrà più convenienza a marciare con Berlusconi comincerà una strategia di dissociazione. Il Pd con il giustizialismo antipolitico che lo insidia nelle sue roccaforti emiliano-romagnole attraverso l’avanzata dei grillini e lo schiaffeggia a Napoli con il successo del dipietrista De Magistris. Da queste amministrative la fragilità di certe sindromi d’autosufficienza sono più evidenti.
ga non sa dove andare, e perciò non ha altra scelta utile che restare nel guado insieme all’alleato. Al centro non esistono ancora veri spazi di convergenza per governare il Paese. Il Pd ha accolto i risultati di queste comunali con un certo entusiasmo. Non crede però che De Magistris a Napoli, e i candidati del Movimento 5 stelle dovrebbero far riflettere anche i moderati del centrosinistra? C’è indubbiamente una forte ascesa del cosiddetto voto di protesta, che premia in un periodo di grande crisi i messaggi politici più radicali. E che complica parecchio l’esito dei ballotaggi nell’ottica del bipolarismo tradizionalmente inteso. I candidati di Grillo hanno raccolto una significativa porzione di voti in libera uscita dal centrosinistra, che a Torino raccoglie una vittoria ampiamente preventivabile, mentre a Napoli non può certo cantare vittoria e a Bologna si è dimostrato in affanno. Queste comunali sono il certificato elettorale che sancisce la fine del bipolarismo? Non ci sono i numeri per sancire la fine del bipolarismo. Si può dire che il bipolarismo di coalizione, che risente di molti malfunzionamenti strutturali, esce da questa tornata elettorale meno saldo, come dimostra il caso di De Magistris a Napoli. Il voto si è spostato piuttosto nelle sacche di protesta e in partiti di accezione estremista, che se da una parte complicano la vita al derby tra destra e sinistra, dall’altra rendono più impervio il compito di chi intende disegnare una terza via ver il Paese. Al momento, al centro sembra mancare la carica politica sufficiente a rappresentare l’alternativa ai guasti del bipolarismo. Come finirà a Napoli e a Milano, dove il Terzo Polo potrebbe risultare decisivo? A Milano il Terzo Polo dovrà decidere tra la forte tentazione di dare una brusca spallata al berlusconismo, e l’ipotesi di appoggiare un candidato che per tradizione politica non è del tutto compatibile con le preferenze dei moderati. A Napoli invece De Magistris rappresenta probabilmente per il Terzo Polo una opzione impossibile.
L’aria che si respira subito dopo le urne assomiglia moltissimo a quella che spirava alla fine della prima Repubblica
Voglia di outsider
I dati delle amministrative ripropongono il desiderio di novità politica dell’elettorato italiano e la sfiducia nel sistema. Proprio come nel ’93 di Maurizio Stefanini i torna al ’93. O, se vogliamo, è questa, a 18 anni di distanza, la terza tornata del ’93. Allora si votò infatti in due tornate: il 6 giugno, con ballottaggio il 20; il 21 novembre, con ballottaggio il 5 dicembre. A giugno per la prima volta si sperimentò a livello di massa il maggioritario con l’elezione dei sindaci, ma il sistema dei partiti era ancora in pieno quello della Prima Repubblica, sia pure nella versione estrema delle politiche del 1992, più la successiva scissione del Patto Segni. Referendari a parte, quell’evento aveva innescato la disintegrazione dell’antico blocco sociale imperniato sulla Dc: con l’associazionismo cattolico che aveva iniziato a riprendere la propria autonomia, l’Azione Cattolica magari distinta dalle Acli, le Acli distinte da Comunione e Liberazione e Comunione e Liberazione distinta dalla Cisl.
S
Nel frattempo Dc, Psi e Psdi collassavano, travolti dagli scandali e dalle microscissioni. E nello spazio lasciato libero dal collasso di Dc e Psi si inseriva un po’ di tutto: la Lega; Il Msi; anche un nuovo esperimento di area liberaldemocratica tra Pri, Pli e Patto Segni; ma tutti l’un contro l’altro armati. In altre zone però il Patto Segni andava invece col Pds, che in generale riusciva a affrontare la disintegrazione del centro con una politica delle alleanze che lo portava in condizione egemonica, soprattutto grazie all’espediente di presentare un po’ dovunque candidati esterni. Anche la Rete di Leoluca Orlando riusciva
però spesso a presentare candidati di grosso spicco, che a loro volta riuscivano a inserirsi nella dissoluzione del centro.
A Milano, dunque, finiva al ballottaggio tra il leghista Formentini e il retino Dalla Chiesa: quest’ultimo appoggiato dalla sinistra, ma al secondo turno era invece Formentini a prevalere. A Torino fu un derby a sinistra tra il retino ex-sindaco comunista Diego Novelli e l’ex-fucino appoggiato dal Pds Valentino Castellani, poi vincitore. Altro derby a sinistra a Catania tra il retino Claudio Fava e l’ex-Pri appoggiato dal blocco a guida Pds Enzo Bbianco: anche qui, vittoria di Bianco. L’asse Pli-Pri-Segni portò al ballottaggio il repubblicano Brini a Ravenna e il liberale Ciaurro a Terni, e Ciaurro vinse pure: ma affondò a Milano, Ancona e Siena, mentre Pli e Pri scomparivano nel resto d’Italia (salvo un sindaco repubblicano a Agrigento). Il Msi otteneva i suoi primi sindaci di capoluoghi, a Chieti e a Latina. La Dc al Nord tendeva a ridursi a un terzo della sua consistenza storica. La Lega invadeva la provincia. E il Pds era il grande vincitore. La botta dava una spinta ulteriore alla dissoluzione del sistema, e già a novembre era sparito l’asse liberaldemocratico, erano spartiti i derby a sinistra, e era sparita anche ogni residua possibilità della Dc di arrivare ai ballottaggi. A Nord vinceva la Lega, che mandava i propri candidati al ballottaggio a Venezia e a Genova; il Msi vinceva al centro-sud, mandando al ballottaggio a Roma
Fini contro Rutelli e a Napoli Alessandra Mussolini contro Bassolino; ma la sinistra si giudicava poi tutte e quattro queste grandi partite, mentre a Palermo vinceva subito il retino Leoluca Orlando con punteggio quasi bulgaro. Insomma, il Pds appariva in condizioni di vincere a mani basse le politiche anticipate che si prospettavano col nuovo sistema elettorale. Ma solo per evaporazione dell’avversario, mentre Lega a Nord e Msi al sud costituivano un’alternativa non cumulabile. Lo spazio c’era, Segni cercò di intercettarlo, ma con la sua potenza mediatica lo estromise Berlusconi, e nacque il sistema partitico della Seconda Repubblica.
Che ora dopo questo turno amministrativo sta appunto come il sistema partitico della Prima Repubblica nel giugno del 1993: distrutto, ma senza un chiaro ricambio già costituito. Va male infatti un po’ dappertutto l’asse Pdl-Lega. Moratti seconda a Milano; Coppola non raggiunge il ballottaggio a Torino; Lettieri non va oltre il 43% a Napoli malgrado il disastro di 18 anni di giunte di centro-sinistra; Manes Benardini a Bologna prende poco più di quanto non aveva preso la volta scorsa Cazzola, malgrado stavolta non ci sia la concorrenza della lista Guazzaloca. Ma a Milano il Pd deve stare a rimorchio del vendoliano Pisapia, anche se la sua lista avrebbe sorpassato il Pd. A Bologna malgrado il tonfo di Manes Bernardini Merola rischia di essere costretto al ballottaggio, per l’exploit dei grillini. A Napoli al ballot-
speciale elezioni taggio non andrebbe Morcone, ma il dipietrista De Magistris. E solo a Torino Fassino ce la farebbe al primo turno. Insomma, il Pdl non prende niente.
Il Pd conferma quel che ha, ma non va oltre. Di Pietro, Grillo e Vendola ottengono successi: ma ognuno per conto proprio a livello locale, e senza riuscire a proiettare alcuna possibile costruzione di un’alternativa nazionale. Mentre il Terzo Polo appena ha iniziato a presentarsi. Che succederebbe dunque se si andasse alle politiche con un quadro del genere? Qua, è tutta un’incognita. L’arretramento del blocco Pdl-Lega potrebbe essere considerato fisiologico in qualsiasi normale sistema democratico, dopo tre anni di governo in situazione di crisi economica mondiale. Ma il fatto è che Milano è il cuore del sistema e dell’immaginario berlusconiano, mentre a Torino, Bologna e Napoli il centro-sinistra non avrebbe potuto essere più disastrato di quanto era. Insomma, c’è l’impressione che stavolta l’eccesso di sicurezza con cui Berlusconi reagisce a ogni critica e a ogni problema richiamandosi al mandato che gli hanno dato gli elettori possa davvero cominciare ad infastidirne abbastanza da cominciare a perdere. Ma è questo l’inizio della frana che permetterà la ricomposizione del centro-destra su nuove basi? Oppure il blocco berlusconiano, pur indebolito, resterà egemone? Un’incognita collegata anche alla capacità del Terzo Polo di approfittare o no di questa crisi, senza entrare in crisi a sua volta. E che farà la Lega? Fedeltà nibelungica al Cav, oppure riprenderà a correre per conto proprio ovviamente ritirando fuori le sparate indipendentiste? Dall’altra parte, immaginare un’alleanza addirittura estesa ai grillini sembra in questo momento veramente hard. Ma in questi ultimi anni ne abbiamo viste di tutte.Vedremo dunque un centro-sinistra sparpagliato in quattro schieramenti tutti capaci di entrare in Parlamento per conto proprio malgrado la soglia di sbarramento? Oppure riassisteremo a una riedizione dell’ammucchiata del 2006 che a questo punto più che riveduta e corretta potremmo veramente definire riveduta e peggiorata? E che succederà se invece, ipotesi forse a questo punto sempre più probabile, nessuno riuscirà a prendere la maggioranza in particolare al Senato, e ci ritroveremo di fronte a un Parlamento con rappresentate sei o sette alleanze differenti? La logica di una incipiente Costituzione Materiale Maggioritaria con l’indicazione del candidato a premier da parte degli elettori, come si concilierebbe con una situazione che riporterebbe alla Costituzione Formale di un sistema parlamentare dove le coalizioni dovrebbero essere contratte in sede di Camere? Appunto, si torna al ’93. Con la differenza che allora stavano sparendo solo i partiti che avevano governato l’Italia dal 1947 in poi. Ma gli altri partiti, nuovi o trasfigurati, esistevano ancora. Adesso, anche quelli hanno fatto la stessa fine. E tutto da ricostruire ex-novo. Magari è pure meglio.
Sopra, l’ex leader socialista Bettino Craxi. A destra, il fondatore del Partito popolare don Luigi Sturzo. Nella pagina a fianco, un elettore al voto durante le amministrative di ieri
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Verso la ricostruzione di una cultura di governo democratica e globale
E ora, superiamo tutti il “bipolarismo del duello” Nel segno di Sturzo, occorre re-intrecciare le vicende amministrative locali con la politica nazionale di Francesco D’Onofrio na riflessione complessiva sull’ampio turno amministrativo che si è realizzato in questi giorni in molte parti d’Italia può essere utilmente svolta anche prima della puntuale conoscenza dei dati concernenti le singole realtà comunali e provinciali chiamate al voto. L’intreccio tra le vicende amministrative locali e la politica nazionale ha infatti riguardato e riguarda molteplici profili sui quali è opportuno soffermarsi, proprio prima della puntuale conoscenza dei risultati. Una questione di fondo si è posta anche questa volta, ma purtroppo essa è stata in qualche modo occultata dalle vicende politiche nazionali. Occorre peraltro aver presente anche in questa ultima vicenda che altro è stato ed è il rilievo delle vicende amministrative quale esso è apparso sui mezzi di informazione nazionali (stampa, radio e televisioni in particolare), altro è stato il rilievo che le specifiche vicende locali hanno avuto per i mezzi di informazione locali appunto. Ed è altrettanto opportuno aver presente che anche questa volta un ruolo particolare è stato svolto dai mezzi elettronici di comunicazione, che risulteranno sempre più rilevanti anche in futuro, come aveva già dimostrato l’elezione di Barack Obama, e come stanno ora dimostrando le vicende del Nord Africa e del Vicino Oriente. Mai come in queste ultime settimane, infatti, l’intreccio tra vicende locali e politica nazionale è stato vissuto anche all’insegna dei rapporti non meno complessi che esistono proprio tra comunicazione e politica. Occorre pertanto aver presente che la rilevanza che è stata data alle singole vicende amministrative locali ha costituito e costituisce una linea politica di fondo della stessa identità delle diverse forze politiche.
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diverse realtà locali abbiano un diverso rilievo nazionale o per le dimensioni – piccole, medie o grandi – di ciascuna realtà o per i problemi – localistici o nazionali – che esse pongono in evidenza.
Una cultura politica che parta dunque dalle amministrazioni locali, come è stata l’idealità di fondo di Luigi Sturzo, e che trova oggi consacrazione persino formale nell’articolo 118 della Costituzione vigente, si caratterizza pertanto proprio per l’affermazione della specificità delle amministrazioni comunali e provinciali, pur senza negare in alcun modo il rilievo politico nazionale che esse possono avere. Si tratta dunque di riuscire a proiettare nei tempi politicamente ragionevoli le dinamiche nazionali delle diverse formazioni politiche che hanno dato vita alle elezioni locali: esistenza o meno dei simboli di partito; alleanze basate su programmi realizzabili o meno in sede locale; connessione più o meno stretta tra amministrazione locale da un lato e regionale e nazionale dall’altro; crescente rilievo anche locale delle iniziative europee. Sono questi i molti punti di intreccio tra elezioni amministrative locali e politica nazionale, proprio perché il rapporto tra locale, nazionale ed europeo è parte essenziale della stessa identità di ciascuna forza politica: locale o localistica; nazionale o centralistica; europea chiusa o aperta che essa sia alla dimensione nuova della globalizzazione. Nel valutare pertanto i risultati amministrativi locali occorrerà dunque aver soprattutto presente che essi concorrono a costruire il governo di una amministrazione comunale o provinciale. Nel prefigurare gli esiti nazionali delle elezioni amministrative medesime occorre pertanto aver riguardo innanzitutto ai tempi, che possono non essere identici per le diverse forze politiche, così come non identici possono essere per le medesime forze politiche la rilevanza delle rispettive proposte di governo nazionale e della conseguente ispirazione europea, così come delle potenzialità che ciascuna realtà locale esprime in riferimento proprio al processo di globalizzazione in atto. Occorre pertanto essere in grado di dare risposte molteplici a queste domande. Si rileva infatti anche in tal modo l’angustia della costrizione delle realtà locali medesime in questa sorta di “bipolarismo del duello” che non riesce mai a vedere questa grande varietà, che costituisce parte essenziale di una cultura di governo democratica.
Si tratta dunque di riuscire a proiettare nei tempi politicamente ragionevoli le dinamiche generali delle diverse formazioni politiche che hanno dato vita alle elezioni locali
Dare l’assoluta precedenza alle persone e ai programmi locali significava appunto voler contemperare il significato strettamente amministrativo locale con il rilievo politico nazionale che soprattutto le vicende concernenti i maggiori centri urbani hanno avuto oggi ed avranno anche in futuro. In sostanza si tratta di eleggere amministratori comunali e provinciali. Si tratta pertanto di concorrere a scegliere persone e programmi destinati comunque a svolgere una attività amministrativa locale, che risulta di particolare rilievo proprio per gli elettori di ciascuna realtà locale medesima. Ciò non significa – ovviamente – ignorare che le
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Una circolare della Congregazione per la Dottrina della Fede inviata ai vescovi di tutto il mondo chiude l’offensiva lanciata dal pontefice contro gli abusi nella Chiesa
«Pedofilia, ora basta tolleranza» di Luigi Accattoli a Lettera circolare sugli abusi sessuali del clero pubblicata ieri dalla Congregazione per la dottrina della fede – e inviata alle conferenze episcopali di tutto il mondo perché ne traggano un direttorio per l’applicazione ai singoli paesi – completa il risanamento normativo della terribile materia portato avanti con tenacia da Papa Benedetto. A metà luglio dell’anno scorso erano state riformate le procedure vaticane ma restava da realizzare un’analoga revisione delle “linee guida” a cui si ispirano i vescovi locali – “linee guida”che il nuovo corso vaticano aveva reso obsolete. Completata l’opera – gli episcopati avranno un anno di tempo per recepire le norme dell’anno scorso e le indicazioni pubblicate ieri – risul-
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creto extragiudiziale”e quella di presentare al Papa i casi più gravi per la dimissione dallo stato clericale, il passaggio del termine della prescrizione da dieci a venti anni con possibilità di deroga oltre tale periodo.Significative anche l’equiparazione ai minori delle persone con limitato uso di ragione e l’introduzione di una nuova fattispecie: la pedopornografia. La circolare di ieri integra e aiuta a comprendere le norme dell’anno scorso. In particolare le completa per quanto riguarda la collaborazione con le autorità civili, la “cura” delle vittime e dei colpevoli, la selezione dei candidati. Sulla questione della collaborazione con le autorità civili la “Guida”pubblicata nell’aprile dell’anno scorso sul Sito della Santa Sede affermava che “va sempre dato seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte”. Vale a dire che non essendovi un quadro giuridico uniforme, nell’insieme dei paesi dov’è presente la Chiesa cattolica, non si possono dare direttive univoche ma solo dei criteri da affidare all’elaborazione dei singoli episcopati.
Sempre più chiaro il marchio personale impresso dal Papa teologo all’intera materia con queste revisioni e con il suo esempio personale: rigore nella ricerca della giustizia e nell’espiazione ta ancora più chiaro il marchio personale impresso dal Papa teologo all’intera materia con queste revisioni e con il suo esempio personale: rigore nella ricerca della giustizia e nell’espiazione delle colpe, collaborazione con le autorità civili, rinnovato scrupolo nella selezione dei candidati al sacerdozio e a ogni ufficio o responsabilità ecclesiale. Un giorno forse quest’opera verrà posta tra quelle centrali del Pontificato di Benedetto XVI. I media l’anno scorso avevano giustamente segnalato – fra le novità delle “Norme sui delitti più gravi” pubblicate in luglio – le procedure snellite, l’apertura dei tribunali ecclesiastici ai laici, la possibilità di procedere “per de-
La circolare di ieri richiama quella norma e ricorda che “l’abuso sessuale di minori non è solo un delitto canonico, ma anche un crimine perseguito dall’autorità civile” ed è dunque “importante cooperare con esse nell’ambito delle rispettive competenze”. A questo punto viene affermato un criterio di grande rilievo pratico: «Questa collaborazione non riguarda solo i casi di abusi commessi dai chierici, ma riguarda anche quei casi di abuso che coinvolgono il personale religioso o laico che opera
nelle strutture ecclesiastiche». Se l’abusatore di un bambino non è il parroco, ma – poniamo – un catechista, il vescovo è tenuto comunque a prestare la sua “collaborazione” con la polizia e con la magistratura. C’è poi – nella circolare – un inciso che aiuta a intendere l’intricata materia: le “linee guida” delle conferenze episcopali dovranno «tener conto della legislazione del Paese della Conferenza, in particolare per quanto attiene all’eventuale obbligo di avvisare le autorità civili». La circolare cioè definisce “importante”la collaborazione con le autorità civili ma non obbliga i vescovi a denunciare il sospettato di abusi a meno che la legge del Paese non preveda quest’obbligo. Negli Stati Uniti quest’obbligo c’è ma – per esempio – non c’è in Italia. La prassi consigliata dalla Santa Sede, in questi ultimi anni, per i Paesi nei quali non vi è l’obbligo di legge della denuncia, è stata quella di invitare le vittime a sporgere loro la denuncia alle autorità civili. In concreto: a un vescovo italiano si presenta una famiglia che accusa un prete di aver abusato di un suo figlio; il vescovo non va dal magistrato o dai carabinieri a denunciare il prete, ma invita la famiglia a farlo. Nei confronti delle vittime e dei loro familiari, la circolare invita a imitare l’esempio dato dal Papa con i tanti incontri – nei diversi Paesi – con gli “abusati” e stabilisce tassativamente che «la Chiesa, nella persona del
Vescovo o di un suo delegato, deve mostrarsi pronta ad ascoltare le vittime ed i loro familiari e ad impegnarsi per la loro assistenza spirituale e psicologica». Sulla necessità di curare meglio la formazione dei seminaristi si afferma che “una diligenza particolare” dev’essere riservata al “doveroso scambio d’informazioni” in merito a quei candidati al sacerdozio o alla vita religiosa che si trasferiscono da un seminario all’altro”.
Ultimamente le cronache hanno parlato di un diacono di Orvieto suicida per essergli stata negata l’ordinazione al sacerdozio – a motivo di dubbi sulla sua capacità di autocontrollo sessuale – il quale era passato successivamente per tre seminari. Si avverte naturalmente che “il chierico accusato gode della presunzione di innocenza”, fino a prova contraria, anche se il vescovo “può cautelativamente limitarne l’esercizio del ministero, in attesa che le accuse siano chiarite”. Per cogliere la portata delle riforme introdotte da Benedetto XVI
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Benedetto XVI al Convegno per il 50° della Mater et Magistra
E sui temi etici si può dissentire
«È legittimo il pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale» di Vincenzo Faccioli Pintozzi uello di Benedetto XVI è un magistero sempre più improntato a dare una risposta reale ai problemi reali della Chiesa e dei fedeli. Salito al soglio di Pietro con un’aura di “timido studioso”, il Papa sta dimostrando sempre più la sua capacità di analisi di questioni che - dalla finanza alla libertà religiosa, passando per la lotta alla pedofilia nella Chiesa - sono molto poco ieratici. Ieri lo ha dimostrato una volta di più, scrivendo che esiste «un legittimo pluralismo tra i cattolici nella concretizzazione della Dottrina sociale. Papa Roncalli scriveva che in questo ambito «[…] possono sorgere anche tra cattolici, retti e sinceri, delle divergenze. Quando ciò si verifichi non vengano mai meno la vicendevole considerazione, il reciproco rispetto e la buona disposizione a individuare i punti di incontro per un’azione tempestiva ed effica-
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con le norme dell’anno scorso e con questa circolare non è sufficiente analizzare le innovazioni ma occorre un minimo di inquadramento storico dell’emergenza del dramma della pedofilia lungo gli ultimi quarant’anni e della reazione della Chiesa a esso, nonché del ruolo personale svolto da Ratzinger cardinale e Papa. Per l’inquadramento storico, va tenuto presente che data dagli anni Settanta del secolo scorso l’avvio dell’indagine sociale e medica sul fenomeno della pedofilia. I primi documenti da parte di episcopati cattolici sono degli inizi degli anni Ottanta e vengono dal Canada e dagli Usa, cioè dagli stessi Paesi dove prese corpo quella nuova
mento del 18° anno della vittima e non dalla data del reato. Nel 2001 questo nuovo rigore fu esteso a tutti i Paesi e l’intera materia fu affidata alla Congregazione per la Dottrina. Il ruolo personale del cardinale Ratzinger prende corpo a partire da questa data ed è decisivo per intendere le ultime innovazioni. Esse erano state – nella sostanza – tutte già acquisite sotto forma di “facoltà speciali”richieste dal cardinale Ratzinger e concesse da Papa Wojtyla, in particolare negli anni 2003 e 2004.
Divenuto Papa nel 2005 egli si preoccupò che quelle “facoltà”non avessero a decadere e le confermò a soli quindici giorni dall’elezione. Infine la riforma contenuta nelle “nuove norme” dell’anno scorso e specificata dalla circolare di ieri. Quanto compiuto sabato a Genova dal cardinale Angelo Bagnasco in risposta all’arresto di un suo parroco – con accuse di abusi sessuali e droga – può essere visto come esemplificazione del comportamento dettato a tutti i vescovi del mondo da Papa Benedetto: il cardinale ha “sospeso” il parroco dalle sue funzioni, è andato nella sua parrocchia a parlare ai fedeli, ha espresso “fiducia nella magistratura”, ha parlato con “sgomento e vergogna”di quanto accaduto e si è detto “vicino” alle persone “colpite”. C’è tutto quanto oggi ha specificato – a nome del Papa – il cardinale Levada.
Per cogliere la portata delle riforme nate con le norme dell’anno scorso e con questa circolare non è sufficiente analizzare le innovazioni ma occorre un minimo di inquadramento storico attenzione. I tribunali hanno preso a dare seguito alle denunce e sono esplosi i primi scandali nazionali a carico del clero cattolico del Nord America e dell’Irlanda. In risposta a questa evoluzione la Santa Sede rese più rigorose le norme e le procedure, prima in riferimento agli Usa (1994) e poi all’Irlanda (1996): con due successivi “indulti”– cioè deroghe dal Codice canonico – ai vescovi di questi Paesi fu portato da 16 a 18 anni il limite di età per l’abuso a carico di un minore e si fissò la decorrenza del decennio per la prescrizione dal compi-
www.luigiaccattoli.it
Forte grido d’allarme anche per la finanza internazionale che, dopo i primi attimi di tregua concessi dalla crisi planetaria, è tornata a minacciare la società ce: non ci si logori in discussioni interminabili e, sotto il pretesto del meglio e dell’ottimo, non si trascuri di compiere il bene che è possibile e perciò doveroso».
È il fulcro del discorso pronunciato ieri da Benedetto XVI ai partecipanti al Convegno promosso da Giustizia e Pace in occasione del 50esimo anniversario dell’enciclica Mater et Magistra, promulgata da Giovanni XXIII e punto cardine della dottrina sociale della Chiesa come elemento essenziale della missione della Chiesa. Il Papa, parlando ai presenti, ha detto infatti: «Nella Mater et magistra Papa Roncalli, con una visione di Chiesa posta al servizio della famiglia umana soprattutto mediante la sua specifica missione evangelizzatrice, ha pensato alla Dottrina sociale – anticipando il beato Giovanni Paolo II – come ad un elemento essenziale di questa missione, perché «parte integrante della concezione cristiana della vita» (n. 206). Giovanni XXIII
è all’origine delle affermazioni dei suoi Successori anche quando ha indicato nella Chiesa il soggetto comunitario e plurale della Dottrina sociale. I christifideles laici, in particolare, non possono esserne soltanto fruitori ed esecutori passivi, ma ne sono protagonisti nel momento vitale della sua attuazione, come anche collaboratori preziosi dei Pastori nella sua formulazione, grazie all’esperienza acquisita sul campo e alle proprie specifiche competenze».
Ma, andando oltre il tema della “legittima pluralità” di opinioni, Benedetto XVI ha lanciato anche l’allarme: «Dai vari squilibri globali, che caratterizzano la nostra epoca, vengono alimentate disparità, differenze di ricchezza, ineguaglianze, che creano problemi di giustizia e di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità, specie nei confronti dei più poveri». Ma questi fenomeni, ha aggiunto, «non sono meno preoccupanti di quelli legati ad una finanza che, dopo la fase più acuta della crisi, è tornata a praticare con frenesia dei contratti di credito che spesso consentono una speculazione senza limiti». Fenomeni di speculazione dannosa si verificano anche con riferimento alle derrate alimentari, all’acqua, alla terra, finendo per impoverire ancor di più coloro che già vivono in situazioni di grave precarietà. Analogamente, l’aumento dei prezzi delle risorse energetiche primarie, con la conseguente ricerca di energie alternative guidata, talvolta, da interessi esclusivamente economici di corto termine, finiscono per avere conseguenze negative sull’ambiente, nonché sull’uomo stesso». Un grido d’allarme incastonato nella realtà, cui il pontefice sprona a rispondere: «Rispetto alle grandi sfide odierne, la Chiesa, mentre confida in primo luogo nel Signore Gesù e nel suo Spirito, che la conducono attraverso le vicende del mondo, per la diffusione della Dottrina sociale conta anche sull’attività delle sue istituzioni culturali, sui programmi di istruzione religiosa e di catechesi sociale delle parrocchie, sui mass media e sull’opera di annuncio e di testimonianza dei christifideles laici (cfr Mater et magistra, 206-207). Questi debbono essere preparati spiritualmente, professionalmente ed eticamente».
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I palestinesi dei campi profughi mandati a morire sulla frontiera dello Stato ebraico. Anche i militari libanesi sparano sulla folla
L’intifada di frontiera Manovre di Damasco per spaventare ”Bibi” In attesa del nuovo corso di Barack Obama di Pierre Chiartano ornano a riaccendersi i fuochi di rivolta lungo i confini d’Israele. La commemorazione della Naqba, la «catastrofe», come viene ricordata dai palestinesi la nascita di Israele, è stata dominata ieri da violenti scontri ai confini dello Stato ebraico che hanno fatto almeno 16 morti. A quanto pare le minacce siriane hanno avuto un esito e centinaia di profughi palestinesi dei campi libanesi e siriani sono stati mandati a farsi ammazzare sul confine con lo Stato ebraico. Nei giorni scorsi un noto imprenditore siriano, molto vicino a Bashar al
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Assad, aveva affermato che la stabilità e la sicurezza di Damasco fossero collegati a quelle dello Stato ebraico. Il miliardario Rami Makhluf, cugino del presidente, aveva lanciato una fatwa “laica” contro Gerusalemme. Seguita, inaspettatamente, dalla mobilitazione di centinaia di profughi palestinesi. Nulla a che vedere con i movimenti di piazza della primavera araba, ma comunque un fenomeno che ha messo Israele in difficoltà. Tsahal ha dovuto sparare e i morti contano. Dopo anni di controllo attento e di un equilibrio raggiunto faticosamente, anche grazie alla lunga guida italiana della missione Onu Unfil, il Libano meridionale sembra di nuovo sul ciglio del baratro.
Damasco è dagli anni Settanta che garantisce che dalle alture del Golan nessuno prenda di mira la terra di Sion e pur manovrando i disperati dei campi palestinesi, non sembra amarli poi così tanto. Da sempre Damasco si è ritagliata un ruolo di broker politico: genera e risolve problemi a ciclo continuo.Vuole essere indispensabile negli equilibri regionali. Ora che il regime alawita è in pericolo, usa le stesse armi nel tentativo di sopravvivere. E la Siria degli Assad fa comodo a molti,Turchia compresa, dove i media hanno molto edulcorato la sostanza della rivolta. Insomma, un regime duro e impopolare sembra meglio di un punto interrogativo. Ma spesso la politica sta alla storia come i metereologi al tempo. Ora Damasco ha spinto centinaia di palestinesi verso la morte, nel tentativo di scavalcare il confine, in una sorta di Terza intifada. Vedremo nei prossimi giorni se riuscirà veramente a riaccendere i fuochi della rivolta palestinese. Bisogna esserci stati in un campo profughi, come quello nei pressi di Tiro a sud del fiume Litani, per capire cosa siano in grado di produrre quei luoghi disumani. Chi abita in posti del genere può solo coltivare odio. E forse per questo motivo le con-
dizioni igieniche, sociali ed economiche di quei ghetti non migliorano mai. Devono produrre martiri, per ogni situazione. Neanche Hezbollah osa entrare in quelle bidonville, la sicurezza interna è garantita da elementi di Fatah e Hamas. Secondo quanto riporta il sito web del quotidiano israeliano Haaretz, due manifestanti sarebbero stati uccisi dai soldati israeliani nei pressi di Majdal Shams, nella regione del Golan, al confine siriano, mentre dieci persone avrebbero perso la vita a Maroun aRas, al confine con il Libano, stando a un bilancio fornito dall’esercito libanese che avrebbe a sua volta sparato. Un testimone, che ha parlato in condizione di anonimato, ha però detto all’Afp che i morti al confine siriano sarebbero sette, mentre un giovane palestinese sarebbe stato ucciso nella Striscia di Gaza. I feriti negli scontri sarebbero invece oltre cento. Secondo fonti dell’esercito israeliano citate sempre da Haaretz, i soldati israeliani schierati al confine con il Libano avrebbero sparato in aria e alle gambe dei manifestanti palestinesi, accorsi a centinaia, per impedire loro di entrare in territorio israeliano, mentre sarebbero
dazione dello Stato ebraico, nel 1948. I militari hanno arrestato 186 persone dopo gli scontri che hanno provocato 353 feriti, secondo il ministero della Sanità. E l’Italia finalmente gioca un ruolo positivo sul tavolo diplomatico. È infatti l’inquilino del Colle più alto, in visita in Israele e Medioriente a cercare di tessere la tela del dialogo. Prima con la dichiarazione, fatta durante la visita in Cisgiordania, del salto di rango della rappresentanza dell’Autorità nazionale palestinese in Italia: diventerà una missione diplomatica guidata da un amba-
Anche il presidente Giorgio Napolitano, ieri in visita in Cisgiordania, attiva la diplomazia del Colle sul fronte israeliano e quello dell’Autorità nazionale palestinese stati i soldati libanesi che si trovavano sul posto ad aprire il fuoco indiscriminatamente.
Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha avvertito che Israele è determinato a difendere le proprie frontiere. «Ho ordinato all’esercito di agire con la massima moderazione, ma anche di impedire che le nostre frontiere siano forzate», ha affermato il primo ministro in una dichiarazione ai media. Anche al Cairo si è aperto un sipario da Intifada, nella notte tra domenica e lunedì. Almeno 24 persone sono state ferite domenica vicino all’ambasciata d’Israele nella capitale egiziana in violenti scontri tra agenti di polizia e manifestanti che protestavano per il terzo giorno consecutivo in occasione dell’anniversario della fon-
sciatore. Poi criticando il progetto che tanto spaventa Gerusalemme: la politica dei fatti compiuti in seno al Palazzo di vetro. Napolitano infatti non ritiene che il conflitto israelo-palestinese possa essere risolto da una decisione delle Nazioni Unite di settembre che – come prospettato dalla leadership palestinese – riconosca l’indipendenza della Palestina a prescindere dall’andamento dei rapporti con Israele. Un tentativo che farebbe saltare il tavolo delle trattative. «L’idea della nascita di uno Stato palestinese ha come presupposto che esso voglia vivere in pace accanto a Israele», ha sottolineato Napolitano. Un implicito riferimento alla posizione di quelle componenti politiche palestinesi, come Hamas, che non riconoscono l’esistenza di Israele.
La prospettiva di due popoli e due Stati «è riconosciuta anche – ha sottolineato il capo dello Stato – dagli attuali governanti israeliani». Napolitano ha lodato Abu Mazen che, dopo l’accordo tra il Fatah e Hamas, ha parlato di un prossimo «governo del Presidente» palestinese, composto da tecnici e guidato, per quanto riguarda i negoziati con Israele, dallo stesso presidente dell’Anp. Mazen da parte sua ha sottolineato come senza un congelamento degli insediamenti sarà difficile che il processo di pace e i negoziati proseguano. Grande attesa anche per il nuovo intervento di Barack Obama sul Medioriente. Il presidente Usa prima della partenza per il tour europeo, nei prossimi giorni, traccerà le nuove linee della politica americana in quella regione. Dopo le improvvise dimissioni dell’inviato della Casa Bianca per il Middle East, George Mitchell, gli occhi di tutti gli analisti sono ora puntati sul contenuto del nuovo documento di Obama. Dopo la vittoria su bin Laden, riuscirà il presidente Usa a superare lo stallo quasi infinito del problema palestinese? Ricordiamo che Mitchell, uomo di Obama fin dal suo insediamento, aveva avallato la politica del total freeze degli insediamenti in Cisgiordania, come precondizione della ripresa dei negoziati. Posizione criticata da molti come «irrealistica», tra questi Elliot Abrams del Council on foreign relations. Un approccio che avrebbe provocato non poche «frustrazioni» su entrambi i lati del tavolo negoziale.
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Perché Netanyahu appoggia il regime siriano (secondo l’editorialista di Haaretz)
La rivoluzione araba bussa a Gerusalemme
Il rischio che Assad comprometta la calma al confine è meno grave dell’eventualità che venga rovesciato di Aluf Benn a rivoluzione araba domenica ha bussato alla porta di Israele, in occasione delle manifestazioni della Giornata della Nakba (la “Catastrofe”palestinese del 1948, quando centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono o furono espulsi dalle loro case, in coincidenza con la creazione dello Stato di Israele) organizzate dai palestinesi di Siria e Libano a Majdal Shams e Maroun alRas. I dimostranti che sono entrati nel villaggio druso ai piedi del Monte Hermon hanno frantumato l’illusione che Israele possa vivere comodamente, come una “villa nella giungla,” completamente tagliata fuori dai drammatici eventi che la circondano. Più delle rivoluzioni in qualsiasi altro paese arabo, la rivolta contro il regime di Assad in Siria aveva minacciato di sconfinare in Israele. Il presidente Bashar al-Assad sperava che la sua posizione di leader dell’“opposizione” ad Israele lo avrebbe salvato dal destino dei suoi omologhi in Tunisia ed Egitto. Quando la sua poltrona ha cominciato a traballare, si temeva che Assad – o chiunque lo avesse rimpiazzato – avrebbe cercato un’escalation del conflitto con Israele al fine di recuperare legittimità presso l’opinione pubblica siriana e nel mondo arabo in generale.
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In alto, soldati israeliani sulle alture di Gerusalemme, in distanza si vede la Cupola della Roccia. A lato, Barack Obama ed a sinistra il premier israeliano Benjamin Netanyahu. A sinistra, Bashar al Assad, presidente siriano
Ma il rischio che Assad pregiudicasse la calma e la stabilità sul confine settentrionale era visto da Israele come meno minaccioso della prospettiva che egli venisse rovesciato. Per questo motivo Israele si è astenuta dall’intervenire a sostegno della rivolta contro di lui. Le Forze di Difesa Israeliane (Idf) avrebbero potuto schierare un’ingente forza sulle alture del Golan giustificando quest’azione con la “paura di un’escalation”, attirando di conseguenza l’esercito siriano sull’altro lato del confine, lontano dai manifestanti di Dara’a e Homs. Invece, Israele ha adottato la politica del “restare alla finestra” lasciando che Assad reprimesse la rivolta nella speranza che la deterrenza e la stabilità venissero preservate. Questa calma è stata compromessa domenica, e lo scenario da incubo che Israele ha temuto fin dalla sua fondazione è diventato reale: che i rifugiati palestinesi semplicemente iniziassero a marciare dai loro campi profughi in direzione del confine, cercando di esercitare il loro “diritto al ritorno”. Israele si era preparata a probabili manifestazioni per la Giornata della Nakba in Cisgiordania, a Gerusalemme Est, in Galilea e nel Triangolo, ma invece è stata la diaspora palestinese che ha cercato di forzare le sue barriere di confine. Più che un fallimento dell’intelligence, la situazione ha evidenziato i limiti della forza. È
impossibile controllare tutti i fronti disperdendo le forze ovunque. Ci sarà sempre un luogo meno protetto, e il nemico lo sfrutterà. Israele è stata rapida nell’accusare Assad e, come di consueto, anche l’Iran, di aver inviato «sobillatori siriani e libanesi», secondo le parole del portavoce delle Idf, «al fine di distogliere l’attenzione dalla repressione delle manifestazioni in Siria».
È tuttavia difficile immaginare che la politica israeliana nel nord possa cambiare e che il governo cercherà di infiammare la frontiera come risposta, al fine di contribuire a rovesciare Assad e di sostituirlo con un regime più soddisfacente. Israele cercherà invece di fare in modo che questo episodio rimanga isolato, tentando di riportare la calma in quell’area. Il primo ministro Benjamin Netanyahu
È impossibile controllare tutti i fronti disperdendo le forze ovunque. Ci sarà sempre un luogo meno protetto, e il nemico lo sfrutterà ha cercato di utilizzare l’incidente nel nord per rafforzare la sua campagna di pubbliche relazioni con Washington. Dal suo punto di vista, questa è un’ulteriore prova che Israele si trova di fronte a forze che vogliono la sua distruzione.
«Questa non è una lotta per i confini del 1967», ha detto Netanyahu in risposta all’incidente sul confine del Golan, «ma una sfida all’esistenza dello Stato di Israele, che essi definiscono come una catastrofe a cui bisogna porre rimedio». Netanyahu ha ottenuto un’altra piccola vittoria, ieri, dopo che il presidente Barack Obama ha annunciato che avrebbe parlato alla conferenza dell’Aipac. Obama non comparirà di certo nella roccaforte dei sostenitori di Israele in America al fine di attaccare gli insediamenti e l’occupazione. La sua decisione di essere presente a questo evento, invece di inviare il suo vicepresidente, lascia però presupporre che Obama non abbia intenzione di scontrarsi con Netanyahu al loro prossimo incontro.
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mondo
Ereditiera, blogger, scrittrice: gli occhi verdi più belli di Francia. Sapeva dei vizi del compagno, ma oggi crede al complotto. Resisterà?
Parigi val bene uno stupro
Anne Sinclair sogna tanto il ruolo di première dame da difendere il marito di Roselina Salemi
Stanco e provato, Dominique Strauss-Khan (difeso da Benjamin Brafman, lo stesso avvocato che riuscì a far scagionare Michael Jackson dall’accusa di pedofilia) viene portato via dalla polizia di New York. Il numero uno del Fmi rischia una condanna fino a 20 anni di carcere se dovessero essere confermati i capi di imputazione di aggressione sessuale, stupro e sequestro di persona. La moglie però crede alla sua innocenza e mogli, di solito, sono le ultime a sapere. Ma è difficile che la sveglissima Anne Sinclair, terza consorte di Dominique StraussKahn, scrittrice, giornalista diplomata all’Institut d’études politiques di Parigi, blogger, ereditiera, e ancora pochi giorni fa potenziale premiere dame socialista, ignorasse il dettaglio molto noto del corteggiamento estremo praticato dal marito, tanto estremo che a Bercy, quando era ministro delle Finanze (dal ’97 al ‘99), nessuna voleva restare sola con lui in ufficio o in ascensore. Anne è stata la prima a sapere e ad attrezzarsi. A parte le biografie piccanti, le voci di corridoio e le barzellette, uno scandaletto pubblico c’è già stato. Nel 2008, un anno dopo l’arrivo alla guida del Fondo Monetario europeo, DSK si mette nei guai. Lo accusano di aver agevolato ( in cambio di sesso), la carriera di Piroska Nagy, dipendente ungherese del Dipartimento Africa del Fondo e moglie dell’ex direttore della Banca centrale argentina, Mario Bleier. L’inchiesta si sgonfia quasi subito: niente favoritismi, niente molestie, ma «una relazione fra adulti consenzienti». Anne se la cava con uno sbrigativo perdono via blog: «Sono cose che succedono nella vita di una coppia. Si è trattato dell’avventura di una notte. Ci amiamo come il primo giorno, e tutti e due abbiamo già voltato pagina». Anche se sono le pagine di un’enciclope-
L
dia. Forse il matrimonio altoborghese, l’alleanza politico economica, minimizza questioncelle tipo la fedeltà, o forse nell’ambiente internazionale e cosmopolita in cui è cresciuta contano altre cose: le mogli sono fatte di ghisa o materiale equivalente, in ogni caso indistruttibile. Certo, Anne Sinclair non può prenderla bene. Ha lavorato duramente per costruire l’immagine di una coppia
Classe 1948, nata a New York, “Madame” è la nipote del più importante mercante d’arte del XX secolo degna dell’Eliseo in vista delle lezioni del 2012 e un sondaggio di Paris Match, recentissimo, lasciava intuire buone possibilità. Il 65 per cento dei francesi ha dichiarato che la vedrebbe volentieri al posto di Carla Bruni, liquidata con uno sconfortante 31 per cento. Invece, le tocca la difesa scomoda del marito arrestato in maniera persino plateale («Non
credo a una sola parola delle accuse, non dubito che la sua innocenza sarà provata»), le tocca credere nella teoria del complotto (che, avendo visto qualche spy story, sarebbe anche plausibile) o ammettere che il brillante economista è irrimediabilmente incosciente. A meno di colpi di scena, la candidatura verrà archiviata. Anne avrà un bel problema, una macchia sul pedigree, una gran delusione. E alle delusioni non è abituata. Nata a New York nel 1948, figlia di un industriale ebreo dei cosmetici (Robert Schwartz) appartiene a una famiglia da romanzo.
Sinclair, che ha sostituito Schwartz, è il nome di battaglia usato dal padre durante la Resistenza contro i nazisti. Il nonno materno, Paul Rosenberg, era l’agente di Picasso e Matisse, oltre che il più grande mercante d’arte del ventesimo secolo. Tanto per capirci: Picasso non ha mai dipinto niente su commissione, ma ha fatto un’eccezione per Rosenberg che nel 1918 gli aveva chiesto un ritratto della moglie con in braccio la figlia Micheline, madre di Anne. Un quadro stimato tra i 20 e i 25 milioni di euro, che la signora Strauss Kahn fa ha consegnato due anni fa al Museo Picasso di Parigi per pagare i diritti di successione dell’immensa collezione di famiglia. Una vita lussuosa, la sua, benedetta anche dal
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Vacilla l’alibi del direttore del Fmi
DSK dal giudice e la gauche piomba nel caos
È l’incarnazione perfetta della sinistra chic, salotti buoni, filosofi e scrittori. Lusso e socialismo. Ma adesso? dono della bellezza e da un raro charme. Dopo Brigitte Bardot e prima di Laetitia Casta, Anne presta il volto alla «Marianna», uno dei simboli, continuamente aggiornati, della Repubblica. È il 1989 e «gli occhi più belli della televisione francese» brillano su TF1 prima del tiggì serale. Anne Sinclair conduce “Sept sur Sept” l’intervista della domenica sera con i protagonisti della politica, e non solo: da Francois Mitterrand a un giovane, rampante Nicolas Sarkozy, da Helmut Kohl a Mikhail Gorbaciov, da Shimon Peres a Bill Clinton, da Madonna, a Woody Allen, senza dimenticare Bill Gates.
È amica di Yves Montand e Simone Signoret, può alzare il telefono e chiamare chiunque. La trasmissione comincia alle 19, orario di rientro dal weekend, eppure la seguono regolarmente tra i 10 e i 12 milioni di spettatori, un’audience smisurata e fedele. I francesi adorano il suo garbo, le sue domande fastidiose, il suo modo di ruotare la penna guardando fisso l’intervistato, nello studio buio come un confessionale. La celebrano, la paragonano a Larry King e a Charlie Rose, la premiano con l’equivalente di un Emmy Award. Piace il suo stile diretto, anche quando lascia il posto a un collega pur di non stringere la mano al leader dell’ultradestra Jean Marie Le Pen. Eccola, l’incarnazione
L’alibi fornito del direttore generale del Fondo Monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, per contrastare l’accusa di violenza sessuale su una cameriera per cui è stato arrestato sabato sera a New York, potrebbe non essere solido: è quanto hanno riferito fonti del gruppo francese Accor, a cui appartiene l’albergo Sofitel dove si sarebbero svolti i fatti. Secondo queste fonti, la cameriera sarebbe entrata nella camera di Dsk - secondo la sua versione dei fatti - a mezzogiorno, mentre il politico francese «ha effettuato il suo check out fra le 12.28 e le 12.38». L’orario è fondamentale, perché inzialmente sembrava che la presunta violenza si fosse consumata intorno alle 13 e dunque, l’alibi fornito dall’avvocato di DSK, poteva rappresentare un vero argine difensivo. Ma così non è stato. La vittima ha portato indietro le lancette di un’ora e dunque la tempistica potrebbe essere compatibile con l’accusa. Ma altri dettagli rischiano di compromettere la posizione processuale di StraussKahn: secondo i rapporti sul caso inviati dai diplomatici francesi al ministero degli Esteri di Parigi, riportati da Atlantico.fr, «dei graffi sono stati constatati sul torace dell’autore presunto dei fatti. Quest’ultimo ha dato il suo consenso a effettuare nuovi esami». La polizia avrebbe utilizzato dei rape kit i ”kit di stupro”, appositamente studiati in questi casi per effettuare prelievi sui corpi di vittima e accusato. E adesso ci vorranno almeno 5 giorni prima di conoscere gli esiti del Dna. Comparso ieri stanco e provato in un’aula del tribunale di NewYork, Dsk potrebbe tornare libero dietro una cauzione di 2 milioni di dollari e solo se “attrezzato” di braccialetto elettronico. Rischia dai 20 ai 25 anni di carcere, ovviamente qualora l’accusa venisse provata. Intanto crescono le voci sul web di una macchinazione ai danni dell’uomo che poteva mettere seriamente in pericolo la rielezione di Nicolas Sarkozy. Ad alimentare le polemiche, il caso del giovane studente di scienze politiche, nonché simpatizzante dell’Ump, il partito di Sarkozy, Jonathan Pinet, che ha battuto i media americani, riferendo dell’arresto in anteprima su Twitter.
perfetta della sinistra chic, “caviar gauche” (definizione che detesta), salotti buoni, filosofi e scrittori. Lusso e socialismo. A questo aggiungiamo l’ambizione, il successo personale e la capacità di domare un uomo non certo facile, reduce da due divorzi, quel Dominique Strauss-Khan dalla leggendaria fama di sciupafemmine. Sono due trofei, l’uno per l’altra, e insieme sembrano perfetti. Anne sposa Dominique nel ’91, forse sottovalutando la sua fama, o forse considerando con troppo ottimismo la possibilità di cambiarlo. Quando lui, nel ’97, diventa ministro delle Finanze, lascia il video per evitare il conflitto di interessi, mantenendo però alcuni incarichi al tiggì di TF1.
Il suo destino, a questo punto, si lega sempre di più a quello di DSK. Lo segue a Washignton DC, dopo la nomina al Fondo Monetario Internazionale nel 2007 (la loro casa di mattoni rossi a Georgetown vale quattro milioni di dollari), ma punta a tornare alla grande dall’esilio americano, perché le manovre per le elezioni del 2012 sono già cominciate. Frequenta Bernard-Henri Lévy, Pierre Arditi e Bernard Kouchner. Comincia a firmare opinioni, e spera – così dice - che il marito non accetti un secondo mandato. Lei ha un’immagine fortissima, è la faccia che mancava ai bobos rimasti orfani: nemica giurata della chirurgia estetica, chioma corvina, elegantemente spettinata, splendide rughe portate con orgoglio sotto gli ipnotici occhi grigioazzurri, ancora bellissi-
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica) Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118
mi, severi tailleur neri abbinati a notevoli gioielli. (Sarkozy, la chiama, con ironia, «la dame et ses bagouses»). Scrive un libro sui Rosenberg per farsi perdonare la ricchezza, obiettivamente imbarazzante quando si tratta di criticare lo sfarzo altrui: oltre alla casa di Washington e alle opere d’arte, ci sono due appartamenti a Parigi (uno, meraviglioso, di 260 metri quadrati nell’incantevole Place des Vosges) e un «riad» con piscina a Marrakech, dove la coppia va spesso in vacanza, c’è un tenore di vita che prevede abitudini costose (gli abiti di DSK ,confezionati dal sarto di Obama costano da 7 a 35mila dollari). Si accredita come politologa, e il suo blog ” Deux ou trois choses vues d’Amérique ” diventa una spina nel fianco di Sarkozy. Che adesso si domanda da dove arriva l’insperata fortuna dello scandalo, a meno che il mandante non sia lui.
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grandangolo L’eredità del Governatore, tra incognite politiche e internazionali
Bankitalia, chi balla il valzer della successione
L’Eurogruppo conferma la candidatura di Mario Draghi alla Bce. Si dovrà attendere la decisione dei capi di Stato e di governo, prevista per il 24 giugno, quindi il passaggio del testimone di Trichet, a novembre. Ma in Italia è già iniziato il toto-nomine per il vertice di palazzo Koch. L’unica cosa certa: dovrà mettere d’accordo tutte le istituzioni di Gianfranco Polillo on la decisione odierna dell’Eurogruppo - che ha confermato la candidatura di Mario Draghi alla Bce - un nuovo passo in avanti è stato compiuto. Si dovrà attendere ora la decisione dei capi di Stato e di governo, già prevista per il 24 giugno, quindi il passaggio del testimone di Jean-Claude Trichet il primo novembre. Se tutto andrà bene - come auspichiamo - Mario Draghi salirà solo allora sullo scranno più alto dell’Eurotower. Un riconoscimento soprattutto alla persona - come ha scritto Giuliano Amato - o qualcosa di più? Riflettere su questo argomento non significa solo dare a Cesare quel che è di Cesare, ma trarre auspici per la soluzione di un problema, che il passaggio di Draghi comporta. Chi sarà il suo successore in Banca d’Italia?
C
L’argomento aleggia nella stampa italiana tra mosse dei diversi sponsor e improvvisati king maker accumunati dalla volontà di individuare, forse con troppo anticipo, l’identikit del possibile successore. Gioco ad alto rischio, visto l’intervallo che ci divide da quella data, in un contesto politico, come quel-
lo italiano, che vive momenti di grande incertezza. Ci sono poi le incognite internazionali. Chi poteva immaginare quello che è successo, sabato scorso, a Dominique Strauss-Kahn, arrestato sul jet che doveva condurlo a Parigi con l’accusa di violenza carnale nei confronti di una cameriera dell’albergo in cui ave-
Tra i fattori determinanti per la scelta, le incertezze di quest’ultimo scorcio di legislatura va appena trascorso la notte? Non si dimentichi che Der Spiegel aveva proposto, attribuendone le intenzioni ad Angela Merkel, di barattare la presidenza della Bce, con quella del Fmi. Un’organizzazione, quest’ultima, che nell’attuale contesto internazionale svolge un ruolo cruciale nella gestione della crisi, derivante dall’ecces-
so di debito degli Stati sovrani. Vale, quindi, la pena di riflettere meglio sulle ragioni che hanno portato Mario Draghi alla candidatura che abbiamo detto. Se non altro per trarne auspici sulla procedura da seguire per individuare il suo sostituto a palazzo Koch. Siamo d’accordo con Giuliano Amato, quando sottolinea le indubbie capacità dell’attuale Governatore. La sua padronanza della materia, il garbo che lo contraddistingue, il suo senso di responsabilità nello svolgere il ruolo che gli è stato assegnato. Mille episodi ne confermano lo spessore. Quando lasciò la carica di direttore generale del Tesoro, a Bruxelles, fatto insolito, i suoi colleghi organizzarono una grande festa di commiato. Le cronache l’hanno più volte ritratto in coda all’aeroporto, come un «comune mortale». Nessuna ostentazione di ruolo o di potere. Sulla sua competenza tecnica - basti pensare agli incarichi che tuttora ricopre negli organismi internazionali - o sulla sua indipendenza di giudizio non dobbiamo spendere parola alcuna. Lo dimostrano le polemiche a distanza di questo o quel ministro, quando Banca d’Italia sforniva dati
ineccepibili sulla situazione economica o sociale del Paese non particolarmente graditi. Ma mettere in ombra lo sforzo fatto dall’Italia per garantire la sua stabilità finanziaria: questo non ci sembra giusto. Siamo il Paese con un debito pubblico enorme. Ma siamo anche coloro che hanno saputo gestire quest’enorme fardello meglio di altri. E non parliamo del Pigs - a cui per polemica politica molti hanno tentato di assimilarci - vale a dire del Portogallo, dell’Irlanda, della Grecia o della Spagna. Se estendiamo il confronto all’Inghilterra, alla Francia o alla stessa Germania non siamo secondi a nessuno. Il nostro era un debito pregresso, che affonda le sue radici negli anni Settanta. Quello degli altri - tendenzialmente identico a quello italiano, salvo la Germania - è stata la conseguenza dello sforzo compiuto nell’arginare la crisi finanziaria. Ma l’Italia - questo è il refrain - cresce meno. Dato incontestabile. Il problema è come si esce da questo cul de sac: aumentando il deficit, come sostiene una parte dell’opposizione, oppure avviando quelle riforme - a partire dal mercato del lavoro - che risolvano i problemi di fondo
della nostra società? Secondo punto: la Banca d’Italia. Mario Draghi ne ha ricostruito una credibilità, scossa in precedenza dalla gestione di Antonio Fazio. Un periodo di luci ed ombre, dove le seconde alla fine hanno fatto aggio sulle prime.
C’era una sofferenza diffusa tra i dirigenti dell’Istituto, in quell’ultimo periodo. Un Governatore assediato, che aveva difficoltà nel coinvolgere, nelle sue scelte, il gruppo dirigente dell’Istituto. Basti ripensare agli incontri segreti con alcuni protagonisti - Fiorani - di quella tormentata vicenda. Mario Draghi ha avuto il compito non facile di ripristinare un clima di fiducia e i risultati si sono visti nelle recenti nomine dei nuovi dirigenti. Personaggi di grande spessore, sia tecnico che umano. Da Salvatore Rossi a Umberto Proia, da Daniele Franco a Fabio Panetta, da Marino Ottavio Perassi a Vieri Ceriani. Uomini con storie e culture diverse che fanno a pezzi quell’immagine stantia di una banca dominata da una cultura laica - contro la finanza cattolica con forti venature massoniche. Si potrà prescindere, nella scelta del nuovo Governatore, da
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Via libera al piano da 78 miliardi per il Portogallo. Tensioni su euro e Borse
Grecia, conto più leggero per il nuovo salvataggio Smentita l’ipotesi di ristrutturazione per il debito ellenico, si va verso una dilazione delle scadenze già previste di Francesco Pacifico
ROMA. In una giornata frenetica come quella di ieri, la pratica più semplice è stata avviare le procedure per la nomina di Mario Draghi alla presidenza della Bce. Candidatura sulla quale la Germania e il Nordeuropa nutrono ancora dubbi. Anche se si guardano bene dal renderli pubblici con la Grecia che è ancora una volta da salvare, il Portogallo che aspetta lo sblocco di quasi 80 miliardi di euro e con la poltrona di direttore del Fmi da blindare dopo l’arresto di Dominique Strauss-Kahn.
un coinvolgimento più generale della Banca? Se la scelta di un outsider, come fu Mario Draghi, era giustificata da eventi eccezionali, come fu appunto la direzione di Antonio Fazio, oggi siamo tornati nel solco di una grande tradizione. La stessa che ha garantito, in tutti questi anni, quell’indipendenza che la nascita dell’euro -
La soluzione dovrà essere concertata tra il Superministro, la presidenza del Consiglio, il Quirinale un dato che non va dimenticato - ha enormemente potenziato. Questo spiega, in particolare, perché la sponsorizzazione di questo o di quel personaggio pure ai vertici di istituzioni finanziarie prestigiose - ci lascia indifferenti. Non parliamo delle loro capacità intrinseche, ma dei mondi diversi di cui questi possibili candidati sono espressione. Tra il dire e il fare c’è di mezzo il macigno di una candidatura condivisa da una delle poche strutture italiane che nonostante qualche intemperanza di uomini politici - resta una risorsa che non può essere mortificata. Riuscirà la politica a quadrare il cerchio? Le incognite sono più di una. Ci sono, innanzitutto, le incertezze di
quest’ultimo scorcio di legislatura. Come saranno cambiati, a novembre, i diversi rapporti di forza? Maggioranza e opposizione, ma non solo. La soluzione, qualunque essa sarà, dovrà essere concertata tra i vertici istituzionali: ministro dell’Economia, presidenza del Consiglio, il Quirinale. Negli ultimi mesi, per nomine di rilievo inferiore, non sono mancate le frizioni. È facile prevedere che il problema si riproporrà in un tema come questo. Giorgio Napolitano, in particolare, non si limiterà a un ruolo notarile. Non è sfuggito il piglio con il quale ha richiamato il ministro dell’Economia. Nel decreto sullo sviluppo erano contenute norme che riguardavano i poteri di Banca d’Italia in tema di vigilanza sulle retribuzioni e sull’onorabilità dei manager bancari. Norme successivamente espunte da Via XX settembre, sebbene fossero coerenti con una recente direttiva di carattere europea.
Si può discutere se quella era la sede più opportuna per contemplarle. Se così fosse non si comprenderebbero i rilievi del Colle. A leggere in controluce quelle mosse, non si può fare a meno di cogliere un segnale di attenzione che va ben oltre lo specifico legislativo. Il Presidente sembra ammonire. Il ruolo di Banca d’Italia è troppo importante per essere giocato esclusivamente sul terreno dei rapporti di forza esclusivamente politici. Che se ne tenga conto quando verrà il momento di procedere alla nomina del nuovo Governatore.
Al posto del francese, che sabato ha visto svanire tutte le sue ambizioni politiche in un albergo di Times Square, ieri a Bruxelles c’era il vicedirettore Nemeta Shafik per discutere degli aiuti a Lisbona e delle prossime mosse per Atene. Ma dalla Commissione hanno rassicurato che le vicende giudiziarie di Dsk «non avranno alcun impatto sui piani di salvataggio dei Paesi dell’Eurozona in difficoltà. E il Fmi darà continuità alle sue decisioni». Non a caso da uno dei Paesi metti sotto sorveglianza, l’Irlanda, il ministro per gli Affari europei Lucinda Creighton dichiarava: «Noi trattiamo con l’istituzione, non con le singole persone. Eppoi non è inusuale che il vertice del Fondo non partecipi a un incontro come questo, e dunque non credo che ci sarà alcun impatto sui lavori». Nessun rallentamento ai pacchetti per aiutare le economie dei Pigs messe in affanno dalla speculazione. Ma in Europa, come si dimostrano certi non detti durante il vertice dei ministri finanziari, il timore è che il Fmi possa seguire la stessa involuzione dell’Onu, dove le economie più mature vedono via via ridimensionato il loro ruolo da parte degli emergenti. Quello che era un tempo un feudo europeo, potrebbe diventare terra di conquista di Shri S.Sridhar, attuale presidente e managing director della Central Bank of India. Di questo sono convinti anche i bookmakers inglesi, che nella terna dei favoriti aggiungono Arminio Fraga (ex presidente della Central Bank of Brazil) e l’ex governatore della Banca del Messico, Guillermo Ortiz. Molti analisti non escludono che nel tempo il Fmi tenga meno in conto l’Europa. Senza dimenticare che il successore di Strauss-Kahn dovrà portare a compimento una riforma della governance che, gioco forza, sposterebbe verso est gli equilibri dell’organismo. Se ieri mattina fosse stato a Bruxelles, Dsk avrebbe ribadito la sua contrarietà a una ristrutturazione del debito greco, spiegando che nuove misure più austere finirebbero sol-
tanto per aumentare le tensioni sotto il Partenone. Una linea che di fatto è passata anche all’Eurogruppo di ieri. Chiuso il pacchetto di aiuti destinato al Portogallo (78 miliardi, tutti al 5,5 per cento e dei quali 12 per il sistema bancario), Nord e Sud dell’Europa si sono confrontati sul futuro di Atene, anche in prospettiva del fatto che nel 2012 il debito pubblico ellenico resterà ancora insostenibile. Sarà infatti pari al 166,1 per cento del Pil. Falchi e colombe del Vecchio continente hanno più di un timore che i pacchetti di riforma concordati dopo la concessione dei prestiti in Grecia e in Irlanda, finiscano soltanto per lenire le capacità di contagio. Per quanto riguarda le vicende elleniche, c’è la certezza che il Paese potesse fare molto di più. Eppure la situazione nella quale vive Atene fa escludere una ristrutturazione secca del debito, con un taglio del valore nominale dei titoli. di conseguenza ieri si è lavorato soprattutto sull’ipotesi dell’allungamento delle scadenze, purché con l’avallo dei finanziatori privati. Il ministro olandese Jan Kees de Jager ha ammesso che «a livello europeo discutiamo di tutto, compresa la ristrutturazione, ma in pubblico siamo molto reticenti a farlo». Mentre l’Austria si è detta favorevole «a un riscadenzamento del debito», seguendo le aperture fatte in questa direzione dalla Germania. Di conseguenza, il miglior alleato finiscono per essere la Bce e il sistema finanziario europeo. Istituti tedeschi in testa, sono in molti a sapere che una ristrutturazione del debito peserebbe sull’esposizione delle banche e terrebbe la Grecia per molti anni fuori dai mercati per rifinanziarsi.
Con la missione della troika (Ue,Bce e Fmi) ancora in corso, una decisione dovrebbe essere presa soltanto al vertice europeo di giugno. Intanto Papandreou dovrà convincere gli alleati delle sue capacità sia a mantenere gli impegni presi nei mesi scorsi sia a tenere sotto controllo la piazza. Senza contare un’altra dose di austerity, che però potrebbe concentrarsi soltanto sulle privatizzazioni. L’incertezza, intanto, indebolisce l’euro: soltanto in serata e in scia del rafforzamento della commodities, recupera terreno e tocca quota 1,4217 sul dollaro contro l’1,4181 di venerdì. Deboli anche le principali Borse: Milano ha ceduto lo 0,36 per cento, Francoforte lo 0,2, Londra lo 0,04 e Parigi lo 0,72.
ULTIMAPAGINA Il Procuratore della Corte Penale Internazionale spicca il mandato d’arresto contro il Raìs: «Ha ordinato le stragi»
Gheddafi, giustizia a tutto di Antonio Picasso a richiesta di arresto per il colonnello Muhammar Gheddafi, da parte del Tribunale penale internazionale (Tpi) è giunta con perfetta puntualità. Ieri, il Procuratore generale Luis Moreno Ocampo è comparso davanti alla stampa di tutto il mondo per confermare le voci che erano circolate la scorsa settimana e soprattutto per soddisfare le promesse che egli stesso aveva avanzato. Il suo ufficio ha fatto richiesta formale ai giudici dell’Aja di spiccare un mancato di cattura contro il rais libico. Il capo di imputazione è crimini contro l’umanità. «Gheddafi ha ordinato personalmente gli attacchi contro suoi connazionali innocenti», ha detto il magistrato argentino. «Le forze del regime si sono accanite nella devastazione di abitazioni civili e nello sparare contro i manifestanti, ricorrendo indiscriminatamente ad armamenti pesanti, come pure posizionando cecchini che hanno preso di mira i cortei». A sostegno di queste accuse, Ocampo si è dichiarato in possesso di prove e soprattutto di una lunga serie di testimonianze. Queste ultime, però, sono tenute sotto protezione. «Coloro che sono fuggiti dalla Libia hanno paura di parlare. Temono ripercussioni verso i propri familiari che sono ancora nel Paese.Tuttavia, questo è il momento per fermare i crimini e parlare!» ha chiosato Ocampo. A questo punto, se i giudici del Tpi accoglieranno la richiesta della procura, saranno le autorità di Bengasi – facenti funzione di governo provvisorio – a dover eseguire il mandato di cattura. «Sono loro che hanno la responsabilità di catturare i responsabili che si trovano sul territorio nazionale». Ocampo ha chiesto di emettere un mandato di arresto anche per il figlio del rais, Seif al-Islam, e per il capo dell’intelligence, Abdullah Al-Sanousi. Anche per loro, l’accusa è di crimini contro l’umanità.
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È raro che, durante una crisi della portata di quella libica, gli organi della comunità internazionale si muovano con tanta rapidità, come invece ha fatto il Tpi. La scorsa settimana, gli analisti avevano espresso alcune perplessità in merito a un’iniziativa tanto delicata. La Nato non può dire di aver completato le proprie operazioni. E tanto meno il Comitato nazionale di transizione, dalla sua sede di Bengasi, può definirsi il successore del regime. La Libia non è stata pacificata. I negoziati con Gheddafi, o con chi per lui, non sono iniziati. Perché allora esporsi con una mossa che potrebbe apparire come una provocazione e, di conseguenza, aizzare ulteriormente i fedelissimi del colonnello?«L’applicazione dell’ordine di arresto è un segnale contro chi continua a compiere crimini», ha tenuto a precisare Ocampo. Il Tpi, in sostanza, ha scelto di creare un precedente giudiziario vincolante. Da oggi, in una situazione di guerra contro un regime dittatoriale, la giustizia internazionale si muo-
verà su binari paralleli rispetto all’Onu. Nel caso fallissero i tentativi diplomatici e militari, sarebbe la corte dell’Aja ad avere ancora una carta in mano. In tal senso, sono state fatte spesso ipotesi più o meno attendibili su un rifugio di Gheddafi, all’estero e una volta che si sarà arreso. Con un mandato di cattura internazionale, i Paesi che potrebbero ospitare il rais si riducono. Questo è un elemento che mette in evidenza l’astuzia di Ocampo.
Il procuratore del Tpi si è dimostrato sempre come il difensore dei diritti umani e delle grandi cause, forse un po’ troppo idealizzate. Questa volta, a pochi mesi dalla scadenza del suo mandato, gli va riconosciuto il merito di essersi destreggiato nel campo della politica internazionale con una disinvoltura che i leader politici attuali non hanno sfoggiato. Con questo non significa che la guerra libica volga al termine. Anzi, l’iniziativa dell’Aja può innescare una catena di ritorsioni, da parte del colonnello, che forse nemmeno la Nato è in grado di parare. Tanto meno il governo di Bengasi. Gli scontri attualmente proseguono. Ieri gli aerei dell’Alleanza hanno colpito nuovamente la periferia est di Tripoli, dove un sito radar è stato distrutto. Contestualmente non si ferma l’ondata di sbarchi in Sicilia. Secondo Save the children, dall’inizio dell’anno, Lampedusa ha accolto 1.300 bambini
OCAMPO
Ordine di cattura anche per Saif al Islam, figlio del Colonnello, e Abdallah al Senussi, capo dei servizi segreti. Frattini: «Il regime ha le ore contate» che sono giunti sulle coste del’isola al seguito delle loro famiglie o, peggio ancora, completamente abbandonati. Le Ong fanno appello alle istituzioni internazionali affinché venga prestata l’adeguata attenzione anche a coloro che fuggono dal teatro di guerra. Nel frattempo, continua la partita a scacchi tra i governi stranieri su come abbreviare i tempi di agonia della Libia gheddafista. In questi giorni è in corso la visita a Washington dell’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune europea (Pesc), Lady Catherine Ashton. La responsabile
della diplomazia Ue ha in agenda una lista di incontri con il Segretario di Stato, Hillary Clinton, il consigliere per la sicurezza nazionale, Tom Donilon, e con l’inviato americano in Afghanistan e Pakistan, Marc Grossman.
A parte quest’ultimo, con cui la Ashton discuterà degli sviluppi recenti nella regione dopo l’eliminazione di bin Laden, gli incontri bilaterali in programma appaiono la fotocopia di quelli effettuati dal segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, la scorsa settimana. Da aggiungere c’è solo il summit con re Abdullah II di Giordania. Bruxelles si sente coinvolta direttamente nella questione libica per ragioni umanitarie, di immigrazione, come pure di vicinanza geografica. Non ha quindi intenzione di lasciare che le sorti del Nord Africa restino nelle mani di Londra e Washington. Un atteggiamento simile è riscontrabile in Russia. È attesa proprio oggi a Mosca una delegazione inviata da Gheddafi per un vertice con il ministro degli esteri, Sergei Lavrov. Ma il Cremlino ha fatto sapere che si confronterà anche con i rappresentanti del governo di Bengasi.