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All’impudente “chi te lo fa fare”

he di cronac

degli altri, sia opposto un fermo “Noi, non possiamo fare altrimenti, la nostra via è questa”

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Julius Evola di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 25 MAGGIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Anche i vescovi sconfessano la destra milanese: «Sì alla nuova moschea, purché sia nel rispetto delle regole»

Un campanello d’allarme Licenziamenti Fincantieri: proteste e feriti a Genova e Castellammare Cresce il disagio sociale e la Corte dei Conti annuncia: «Serve una manovra da 46 miliardi». E invece Bossi chiede nuove poltrone, Berlusconi fa la vittima e Tremonti litiga con i numeri RESPONSABILITÀ NAZIONALE

VANDALISMO CIECO

È sempre più urgente un governo di unità

Ma le violenze non portano da nessuna parte

di Giancristiano Desiderio

di Achille Serra

fatti drammatici di Genova e di Castellammare, con la chiusura degli stabilimenti navali Fincantieri, si potevano tranquillamente prevedere. Invece, il «governo del fare» ancora una volta dimostra di non saper tener dietro ai fatti che realmente contano nella vita sociale ed economica della nazione. Si fa il conto che siano 2500 i posti di lavoro sui quali cadrà la scure di Fincantieri, ma è pur sempre un calcolo puramente ragionieristico perché dietro quei numeri bisogna considerare ciò che effettivamente “conta”: le famiglie. a pagina 3

redevamo di aver visto e superato tutto. Credevamo di aver superato con orgoglio gli anni bui del terrorismo, quelli che hanno visto cadere sotto i colpi dell’odio politici, magistrati, uomini delle forze dell’ordine, giornalisti. Eppure oggi ci accorgiamo che non abbiamo visto tutto e che l’Italia è di nuovo sull’orlo del precipizio. Il governo scherza col fuoco. Gli anni dell’abisso, certo, sono ormai alle spalle, ma lo scontro reso strumento di azione è ugualmente forte e il momento che la società vive, altrettanto tragico. segue a pagina 3

I

Parlano Dell’Aringa, De Michelis, Reviglio e Vaciago

Senza progetto economico la nostra industria ha già perso la sfida globale «Il confronto con la Cina e con i Paesi emergenti è perdente: bisognerebbe ripensare l’Italia alla luce del mercato futuro. Ma nessuno lo fa» Francesco Lo Dico e Franco Insardà • pagine 4 e 5

C

Netanyahu parla al congresso Usa: la palla passa ai palestinesi

Il presidente incontra Elisabetta II e i principi di Cambridge

La svolta di Israele: «Ora scelte dolorose»

London calling Obama risponde

di Enrico Singer

di Vincenzo Faccioli Pintozzi

a pace secondo Netanyahu. Di fronte al Congresso americano il capo del governo di Gerusalemme ha offerto, ieri, ai palestinesi l’occasione per arrivare, finalmente, alla composizione negoziata di un conflitto che dura praticamente da quando è nato lo Stato ebraico: «Noi non siamo colonialisti, non vogliamo occupare la terra di altri. Queste terre sono storicamente nostre, sono le terre dei nostri avi, ma sappiamo che una pace vera passerà anche attraverso degli aggiustamenti». a pagina 12

n primo giorno all’insegna, sostanzialmente, del riposo. L’arrivo della coppia presidenziale statunitense a Londra è stato segnato da qualche incidente, da molta pompa e da poco altro. Il primo giorno della visita di Stato del presidente Usa, Barack Obama. La coppia presidenziale è da ieri ospite a Buckingham Palace, ricevuta dalla Famiglia Reale, e ha incontrato il Duca e la Duchessa di Cambridge (il cui matrimonio, un mese fa, tenne il mondo inchiodato alla tv). a pagina 10

L

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

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NUMERO

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• CHIUSO

Rieducazione a Pechino

Sorpresa in Cina: è tornato Mao di Willy Wo Lap-lam a un punto di vista superficiale, gli avvenimenti degli ultimi mesi sembrerebbero suggerire che le ali riformista e conservatrice del Partito comunista cinese (Pcc) siano impegnate in una lotta feroce su questioTra politica ni fondae cultura, mentali come la libeil partito ralizzazioriporta ne politica indietro e il trattal’orologio mento dei della storia dissidenti. Da una parte, le unità pubbliche e di sicurezza statale hanno lanciato – sin dall’inizio delle “rivoluzioni colorate” in Medioriente e Africa settentrionale – la più importante repressione delle “forze destabilizzatrici”che si ricordi negli ultimi tempi. Alcuni membri del Politburo sono arrivati a chiedere il ritorno di quei valori di cui il defunto presidente Mao Zedong era portavoce.

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IN REDAZIONE ALLE ORE

a pagina 14

19.30


il fatto Giornata di grandi tensioni per i licenziamenti. Eppure il ministro Romani rinvia tutto a un incontro il prossimo 3 giugno

Il governo scherza col fuoco Otto feriti a Genova, violenze a Castellammare: esplode il caso Fincantieri. La Corte dei Conti annuncia: «Contro la crisi, una manovra da 46 miliardi» il voto di Errico Novi

ROMA. Nel chiuso di Palazzo Grazioli, nel silenzio ovattato della residenza romana di Berlusconi, ci si lamenta di non avere abbastanza voce. Altrove, a Genova e a Castellammare di Stabia, c’è invece un fragore assordante. Che risuona dalla protesta delle maestranze di Fincantieri. Un migliaio in corteo nel capoluogo ligure, centinaia in rivolta in Campania. Tutti mobilitati per il piano da 2.500 esuberi presentato il giorno prima dall’ad Giuseppe Bono. Esplode una rabbia incontrollabile. Davanti alla prefettura genovese scoppiano scontri fra manifestanti (alla testa del corteo c’è anche il sindaco ”rosso” Marta Vincenzi) e forze dell’ordine: feriti tre operai, con una decina di agenti lievemente escoriati. Giù a Castellammare forse va anche peggio: la furia si abbatte sui simboli dell’unità d’Italia custoditi in municipio, il busto di Garibaldi va in pezzi; i banchi del Consiglio comunale sono divelti, presi a sprangate pure computer e stampanti, per non parlare delle stampe alle pareti. Si salvano solo il crocefisso e il ritratto di Napolitano, e non pare un caso. Si conteranno quattro feriti, tutti tra le forze dell’ordine.

Tutto questo nel giorno in cui il rapporto 2011 della Corte dei conti sulla finanza pubblica disegna il quadro secondo le tinte della realtà: cupissime. Con la crisi «si è verificata una perdita permanente di prodotto calcolata a fine 2010 in 140 miliardi, e prevista in crescita a 160 miliardi nel 2013». Quindi il pro memoria sulle conseguenze dei vincoli europei: rispettarli comporterà un in-

Bossi chiede ancora poltrone a Milano, Berlusconi fa la vittima

Fiducia al decreto «Omnibus» Nuove tasse e addio al referendum sul nucleare di Marco Palombi

ROMA. Il voto di fiducia incassato ieri dal governo sul decreto Omnibus con cui cerca di scappare dal referendum sul nucleare (e regala la sua Iri personale a Tremonti, oltre ad aumentare le tasse sulla benzina) testimonia due cose. La prima, se vogliamo di colore, è il ritorno dei Verdi in Parlamento: prima della votazione, infatti, l’ex parlamentare ecologista Sauro Turroni ha srotolato dalla tribuna che sovrasta la presidenza di Montecitorio uno striscione del Sole che ride per dire “Ferma il nucleare. Vota sì”. La seconda deduzione che si può fare in base al voto di ieri è che nonostante si affanni da mesi a blandire e a promettere questo e quello a chiunque gli capiti a tiro, Silvio Berlusconi alla Camera continua ad avere più o meno i voti del 14 dicembre. Ieri, per dire, ne ha presi 313, addirittura uno in meno della fulgida giornata di fine anno che ha regalato alla storia della cronaca parlamentare i responsabili alla Scilipoti-Calearo, le sorprese dell’ultimo minuto come Siliquini-Polidori, gli amletici capitanati da Silvano Moffa. Curiosamente l’ex An anche ieri non s’è presentato a votare: a dicembre era membro di Futuro e Libertà ma all’ultimo secondo, quando già era in aula e pronto al sacrificio, ci ripensò e se ne andò in ufficio a pensare. Altro fatto bizzarro è che il Cavaliere, a stare ai tabulati, ancora non è riuscito una volta a farsi votare la fiducia dai Liberaldemocratici, che pure ha premiato con un posto da sottosegretario: ieri Italo Tanoni era as-

sente, Daniela Melchiorre in missione, sicuramente per qualche importante incarico governativo. La giornata di ieri, però, è anche quella in cui – proprio durante il voto – Silvio Berlusconi e Umberto Bossi hanno avuto modo di vedersi faccia a faccia: magari così finirà la sceneggiata sullo spostamento dei ministeri a Milano, rivendicato ancora ieri dal senatùr che invece ha smentito la “grande sorpresa” per il capoluogo lombardo annunciata da Calderoli (“Chiedetelo a lui”). Il premier, però, ha molto altro di cui preoccuparsi: il Pdl non tiene più e quindi ieri, incassata la fiducia, s’è piazzato nella sala del governo alla Camera e ha incontrato un po’ di gente. I coordinatori del partito La Russa e Verdini, il responsabile organizzativo Maurizio Lupi e Antonio Martino, storico consigliere e tessera numero 2 di Forza Italia. «Berlusconi ha convocato l’ufficio di presidenza per domani» (oggi, ndr), ha sostenuto quest’ultimo. Il Cavaliere, però, ha un’altra grande preoccupazione: l’Agcom. Nonostante gli facciano fare tutto al prezzo di qualche multa, il presidente del Consiglio non è contento: «Ogni parola mi costa 800mila euro di multa… Non mi fanno parlare, è incredibile», si lamentava con chiunque volesse ascoltarlo nell’aula della Camera. Forse per questo «sta lavorando ad un nuovo partito», come ha spiegato Letizia Moratti a Oggi: se è vero, potrebbe annunciarlo ai suoi già nell’ufficio di presidenza di questo pomeriggio.

tervento «del 3 per cento l’anno, pari oggi a circa 46 miliardi». Il che rende «impraticabile qualsiasi riduzione della pressione fiscale» e quindi «la rinuncia ad esercitare per questa via un’azione di stimolo all’economia». Addio sogni del Cavaliere, se pure ne stesse coltivando ancora qualcuno. Casomai servirà un’applicazione ancora più severa del rigore tremontiano, che nel giudizio della magistratura contabile viene promosso. Ma appunto, il quadro prospettico illumina future stagioni di austerity per il Paese. In particolare con un’ulteriore riduzione «in termini reali» della spesa pubblica.Anche nel senso, avverte ancora la Corte dei Conti, di stabilire «nuovi confini e nuovi meccanismi dell’intervento pubblico nell’economia».

Ecco, con una via che la stessa Corte definisce «impervia», le tensioni e le sofferenze nel Paese reale rischiano solo di moltiplicarsi. Con alcuni comparti, la cantieristica navale ne è un esempio, destinati a un’ulteriore penalizzazione. Si profila insomma l’idea di uno strangolamento del sistema, tra nuovi tagli e ricadute della recessione. Con tensioni sociali inevitabili. Sotto lo sguardo di un esecutivo che finora ha esibito una preoccupante crisi di iniziativa e di leadership, e che di fatto gioca col fuoco. Tanto che rispetto alla vicenda Fincantieri, per esempio, Pd e Udc possono dichiarare di aver messo il governo in allarme già un anno fa, inutilmente. Assenza che viene chiaramente percepita dagli operai di Sestri: quando sindaco e prefetto passano ai capi delegazione il ministro Paolo Romani, la risposta è «non ci fi-


diamo, vogliamo un fax con la convocazione dell’incontro a Roma». Dal responsabile dello Sviluppo economico arriva in effetti l’apertura di un tavolo: il 3 giugno i vertici di Fincantieri e i sindacati si incontreranno con il governo per discutere del pesantissimo piano. Ma persino dalla sigla più vicina al governo, l’Ugl di Giovanni Centrella, fanno notare che «il 3 giugno è troppo tardi» e che «gli operai hanno bisogno di risposte immediate».

È una bomba che deflagra e rischia di non essere l’ultima. Davanti al silenzio di un governo troppo impegnato a contorcersi sui propri insuccessi, con Bossi che continua a reclamare ministeri. Proprio dalla Lega arriva peraltro l’appello a Romani per la convocazione del tavolo su Fincantieri. La firma Calderoli che parla di «scarsa attenzione per le questioni occupazionali». Solo a Castellammare in effetti vanno a casa 600 dipendenti di Fincantieri e scivolano nell’abisso altri 1200 dell’indotto. Ma anche su questa vicenda emergono nella maggioranza profili di campanilismo irragionevole.Almeno secondo il sindaco di GenovaVincenzi, che vede confermati i sospetti su una strategia che salvaguardi «la parte del Nordest del Paese gettando a mare il resto: spero che i deputati della Lega», dice, «rimasti finora al nostro fianco, si impegnino a dimostrare che non si vuole spostare la produzione verso l’Adriatico lasciando il Tirreno senza proposte». Simili difficoltà paiono destinate ad aumentare con i sacrifici in arrivo nei prossimi anni. Lo lascia intravedere con chiarezza la Corte dei Conti: «La fine della recessione non comporta il ritorno a una gestione ordinaria del bilancio pubblico, richiedendosi piuttosto sforzi anche maggiori di quelli accettati». Si tratta di aggiustamenti «di dimensioni paragonabili a quelli realizzati nella prima parte degli anni Novanta per l’ingresso nella moneta unica». Delle azioni allo studio da parte del Tesoro parla fra l’altro il Financial times, con una ricostruzione fatta grazie a fonti anonime del ministero, secondo le quali già da giugno si interverrà, come previsto, per ridurre il deficit, da contenere di 35-40 miliardi entro il 2014. Dopo aver ascoltato il rapporto della Corte, Tremonti prende la parola e ricorda che sì «la crescita è stata insufficiente, ma senza la tenuta di bilancio non ci sarebbe stata nemmeno questa insufficiente crescita». Cita Cavour, contesta l’Istat, rivisita formule classiche in un inedito «primum vivere deinde crescere», rivendica la moralità della scelta di destinare gran parte delle risorse disponibili agli ammortizzatori sociali, alla sanità e alle pensioni. Certo, «il ciclo delle riforme è appena iniziato e deve continuare», ma secondo il cavourriano equilibrio «del giusto mezzo e dell’energica moderazione». Tremonti non rivede il suo approccio, ma se il resto del governo avesse almeno idee chiare quanto le sue, oggi l’Italia non sarebbe attraversata da tensioni spaventose come quelle esplose a Genova e Castellammare.

Ecco perche abbiamo perso più di un anno di tempo

Da tempo l’esecutivo ha smesso di occuparsi dei problemi

È sempre più urgente l’unità nazionale

Ma con vandalismo e insulti non si va da nessuna parte

di Giancristiano Desiderio

di Achille Serra

fatti drammatici di Genova e di Castellammare, con la chiusura degli stabilimenti navali Fincantieri, si potevano tranquillamente prevedere. Invece, il «governo del fare» ancora una volta dimostra di non saper tener dietro ai fatti che realmente contano nella vita sociale ed economica della nazione. Si fa il conto che siano 2500 i posti di lavoro sui quali cadrà la scure di Fincantieri, ma è pur sempre un calcolo puramente ragionieristico perché dietro quei numeri bisogna considerare ciò che effettivamente “conta”: le famiglie. Con una crisi finanziaria ed economica che, nonostante tutte le rassicurazioni sul peggio che è passato, non accenna minimamente a passare, il governo non è riuscito a fare la cosa più ovvia: fare di tutto per evitare la chiusura degli stabilimenti Fincantieri a Genova e nel Napoletano. Perché?

I

La risposta è scontata: perché è un governo debole. Chi, ormai ben oltre un anno fa, chiedeva una svolta decisiva e la formazione di un «governo di responsabilità nazionale» non era più lungimirante degli altri e non aveva in mano la sfera di cristallo: si limitava a considerare la necessità di unire le forze, recuperare uno spirito di coesione e serietà, stabilire priorità. Tra le priorità certamente andavano inserite politiche di salvaguardia dell’industria nazionale, sia per sostenere le famiglie e le spese, sia per cercare una via di uscita dalla crisi con la crescita dell’economia reale. Invece, sappiamo come sono andate le cose. E pur mettendo da parte i problemi privati del presidente del Consiglio, non si può passare sotto silenzio che nel mezzo della più grave crisi economica degli ultimi cinquanta anni il governo si è concesso il lusso di essere privo nientemeno che del ministro delle Attività produttive per circa un anno. E quando poi è riuscito finalmente a rimpiazzare Claudio Scajola lo ha fatto con quel Paolo Romani che in questi giorni gli operai di Sestri Ponente e di Castellammare hanno definito “ministro finto”. In pratica, non solo è stata respinta la strada della “responsabilità nazionale” ma si è fatto a meno anche della “responsabilità individuale” delle forze politiche che sostengono il governo Berlusconi al di là di ogni legittimo impedimento. Lo specchio di questa situazione è data dai diversi numeri delle economie europee e mondiali messe a confronto con l’Italia e dalle parole di Giulio Tremonti il quale alla Corte dei Conti, che ha ipotizzato l’esigenza di una maxi-manovra da 46 miliardi paragonabile a quella “lacrime e sangue” del 1992, ha così risposto: «Primum vivere, poi crescere». Dunque, il governo per sua scelta ha deciso di optare per una politica del mero controllo dei conti che è riassumibile così: «Non muoviamo nulla e aspettiamo che passi». Campa cavallo… Anche i numeri dell’Istat ci hanno fornito una fotografia impietosa dell’economia italiana che nell’ultimo decennio è praticamente rimasta ferma, tanto che la si potrebbe chiamare l’economia della de-crescita. Questo decennio coincide nel grosso con il periodo di governo di Berlusconi che, da imprenditore e da liberale e uomo del fare, avrebbe dovuto liberare gli “spiriti animali”del capitalismo e delle forze produttive di ogni ordine e grado e invece è riuscito a eguagliare l’immaginazione della battuta che fu di Massimo D’Alema: «Faremo una rivoluzione liberale». Oggi l’Italia, da Nord a Sud, è ancora una volta in piena emergenza. Ancora una volta siamo un Paese che si ritrova a lottare con se stesso: con i suoi storici ritardi, con le sue sbagliate previsioni, con l’arretratezza di apparati e di idee. Ancora una volta la nostra emergenza non è affrontare i problemi, ma cercare di uscire da uno stato emergenziale per attendere di ricadere nel prossimo. Siamo, in sostanza, una nazione priva di un “governo minimo”capace di guidarla sulla base di alcune priorità di uno straccio di progetto industriale. La maggioranza del governo in carica ha respinto con sdegno l’idea del governo di responsabilità nazionale proposto dai moderati. Legittimo. Ma è altrettanto legittimo dire oggi che lo ha sostituito con il governo degli impreparati a tutto.

segue dalla prima Il risultato di tutto questo è un costo economico dato da una crisi senza precedenti che non siamo stati ancora in grado di affrontare e che mette a repentaglio il futuro di migliaia di giovani e con loro di tutto il Paese, ma è soprattutto un costo sociale, in una spirale sempre più pericolosa che da insulto genera insulto e alimentandosi di rabbia genera nuova rabbia, come dimostrano le azioni incontrollate e ingiustificate di protesta compiute ieri a Genova, Sestri Ponente e Castellammare di Stabia. Proteste giuste e legittime nei contenuti che non autorizzano però all’uso della violenza e del vandalismo, da allontanare in qualsiasi circostanza. Eppure è questo il risultato della politica della tensione e dell’insulto, è questo l’effetto ottenuto da chi, come questo esecutivo, preferisce non interessarsi ai problemi reali del Paese e al contrario li evita, nascondendosi dietro ridicole promesse.

È questo lo scenario che abbiamo di fronte, patetico quanto pericoloso, allarmante quanto ridicolo, ottenuto da un governo inadeguato, che ci ha abituati a un modo di fare politica dai toni ogni giorno più alti e dalle “manovre” sempre più basse, prova di uno squallore ma anche di una tensione costante mai raggiunti in passato. L’esecutivo ha giocato con il fuoco perché scontro e paura hanno portato finora splendidi risultati alla maggioranza, che ha continuato a fare dell’insulto all’avversario la sua arma migliore, riuscendo persino a vincere così le elezioni politiche e ad affermarsi nel tempo come governo del fare, nascondendo in realtà il nulla. Penso alle ronde, a una politica migratoria inesistente, a bandiere sventolate a suon di espressioni a dir poco folcloristiche, come il fora di ball della Lega, a frasi inutili volte a coprire traguardi mai raggiunti. Nel tempo, almeno per un certo periodo, si è poi apparentemente abbandonata l’idea di vincere acuendo le paure della gente, una tattica da conservare in caldo, però, in vista della successiva buona occasione. Un’occasione ghiotta presentatasi con le amministrative, momento propizio per tornare ai toni della critica estrema e dell’insulto, della bugia eretta a vessillo elettorale. Si è allora individuato il bersaglio perfetto, l’avversario più temuto: è così che lo stratagemma ha raggiunto livelli inaspettati e il candidato di Milano è diventato persino un ladro di autovetture. La falsità e la gravità delle offese stavolta però non ha pagato. Ma quale miglior modo, a loro avviso, che generare ed enfatizzare ancora le paure della gente? E allora l’avversario Pisapia ha assunto tratti “mostruosi”: è diventato l’estremista incallito, l’uomo vicino ai terroristi, quello che vuole ”islamizzare”Milano e renderla un covo di zingari e di gay. Il tentativo di aggrapparsi a quelle poltrone così difficili da abbandonare ha condotto il Paese alla follia. E allora non importa se gli insulti hanno del ridicolo e se coinvolgono persino un principe della Chiesa come il cardinale Tettamanzi, accusato di aver rovinato Milano e di aver «quasi distrutto la diocesi», non curante del suo operato perché tra pochi mesi andrà in pensione; «finalmente», aggiungono sottovoce i media del premier. Lo stesso Tettamanzi accusato con le «sue mezze frasi e la sua nota ambiguità», di essere «un aiuto ai mangiapreti alla Pisapia». Tra poco, forse, diventerà anche lui un estremista comunista, o, meglio, uno di quegli oppositori di sinistra che non si lava.Tra qualche tempo si trasformerà in un partigiano in marcia per la resistenza o in una spia russa al soldo della sinistra sovietica. Spero davvero che quella città che conosco così bene possa finalmente respirare una ventata d’aria nuova. Milano può essere l’inizio di una svolta politica vera, che non faccia della scorrettezza il suo simbolo e non generi tensione nel Paese intero. Può restituire al Paese la volontà di superare ancora gli ostacoli, oggi rappresentati da una politica pericolosa e ridicola, così come il coraggio degli italiani ha saputo fare negli anni più drammatici della sua storia. La speranza è che Milano ci riporti in Italia. Un’Italia consapevole dei suoi problemi, nella quale lo scontro non è un’arma per risolverli.


pagina 4 • 25 maggio 2011

l’approfondimento

Dietro agli scontri di Castellammare e Genova c’è disagio sociale. Ma anche un cortocircuito tra economia e politica

La finestra sul declino

La sfida con la Cina noi l’abbiamo già persa: l’industria pesante non c’è più e presto saranno a rischio anche vecchie eccellenze. È con questo mercato che bisogna fare i conti: «E il governo non lo fa», dicono Dell’Aringa, De Michelis e Reviglio di Francesco Lo Dico

ROMA. «Un ulteriore colpo assestato a un’economia nazionale messa in ginocchio dalla crisi». È così che la maggiore sigla sindacale del Paese, la Cgil, classifica l’ennesimo piano lacrime e sangue che stavolta punta a ridimesnionare la cantieristica nazionale secondo gli schemi consueti della modernizzazione, parola passepartout che ormai equivale a licenziamenti di massa. Prezzo sociale inevitabile da pagare all’uccio tributi della realtà globalizzata? «Non c’è dubbio – dice aliberal l’ex ministro degli Esteri, Gianni De Michelis –. Se vogliamo che la nostra industria pesante resti competitiva, non c’è altra soluzione. Avevamo un numero esorbitante di cantieri già trent’anni fa quando ero ministro, e pensare di reggere la concorrenza di corazzate come la Corea e la Cina senza chiuderne qualcuno è davvero fantascientifico». Tra questi, quasi di sicuro, gli stabilimenti di Sestri Ponente e Castella-

mare di Stabia, dove sono previsti circa 2250 esuberi. Situazione critica, cui si aggiunge anche il terrore per un’economia italiana proiettata sì nel futuro, ma solo come il tenue bagliore di una stella già morta da tempo. È dunque il caso di chiedersi se davvero non ci sia alternativa al lugubre format italiano di questi ultimi anni di crisi, che ha lasciato per strada migliaia di operai in un quadro che le prospettive registrate dalla Corte dei Conti, diventa ogni giorno più fosco. «Purtroppo è un passo obbligato – conferma Carlo Dell’Aringa, professore di Economia politica all’Università Cattolica di Milano –. Parliamo di un calo di produzione del venti per cento nell’attività produttiva, che non può che ripercuotersi secondo le modalità cui stiamo assistendo oggi nei cantieri, e in altre grandi fabbriche italiane di recente. La crisi rende inevitabile rinunciare a settori che in passato sono stati strategici

per l’economia nazionale, ma oggi sono scarsamente competitivi rispetto all’offerta cinese che in ambito navale possiede ormai il monopolio grazie a condizioni molto vantaggiose». «Negli anni scorsi abbiamo fatto investimenti soprattutto sul settore manifatturiero – risponde Franco Reviglio, già ministro delle Finanze e del Bilancio all’inizio degli anni 90 e professore di Economia pubblica all’università di Torino –, mentre si è

De Michelis: «Se non torniamo a crescere presto, non c’è futuro»

puntato molto poco sull’industria di base . La cantieristica è arrivata a un punto di crisi in una logica che ha privilegiato la riqualificazione di altri settori industriali che sono stati sottoposti a ristrutturazione, e che hanno meno risentito della recessione».

E sulla stessa linea è anche Dell’Aringa: «A differenza di altri settori come quello alimentare, che ha saputo ben reagire alla crisi, l’industria

pesante italiana è rimasta molto indietro ed è destinata a perdere occupazione. Ma occorre il coraggio di dire che alcune perdite saranno definitive. Dobbiamo pensare a un futuro produttivo in cui l’industria pesante italiana sarà poco rilevante, e che più in generale sarà caratterizzato, e per così dire compensato dalla crescita del terziario». Ma è possibile pensare a uno schema che privilegi la riqualificazione industriale, piuttosto che i licenziamenti di massa? «Nella realtà globalizzata, è impensabile riproporre vecchi schemi che avevano ragione d’essere fino a vent’anni fa – annota De Michelis – Oggi le regole della competizione sono diverse, e non adeguarsi significa prepararsi a un futuro di marginalità. Il caso Marchionne è esemplare: bisogna concentrare le strutture produttive». Futuro all’insegna di cassa integrazione, blocchi del turn-over e famiglie abbandonate dalla causa superiore del


25 maggio 2011 • pagina 5

Giacomo Vaciago: «La Corte valuta i dati del piano Ue per il rientro dal deficit, il governo no»

«L’Europa ci impone risparmi, ma nessuno pensa alla crescita»

«Questo Paese non può continuare a vivere di rendite familiari e di welfare garantito dai nonni: tenere a posto i conti non basta più» di Franco Insardà

ROMA. «Qualcuno ora dirà che alla Corte dei Conti sono tutti comunisti. Purtroppo le cifre rese note ieri sono drammaticamente vere e i giudici contabili non hanno fatto altro che ricordare che rispetto agli impegni presi con l’Unione europea ci aspettano anni di sacrifici». Cifre che non sorprendono affatto l’economista Giacomo Vaciago, professore di Politica economica alla Cattolica di Milano. Professor Vaciago, allora è d’accordo con l’analisi della Corte dei Conti? In pratica si tratta dell’elenco del deficit da tagliare in base agli accordi presi, il 24 e 25 marzo scorso, tra i capi di Stato e di governo, visibili sul sito della Ue, ma non su quello del nostro ministero dell’Economia. In quella sede si sono decise tre grandi cose: un fondo straordinario per gli aiuti ai paesi in difficoltà, il rilancio dell’euro (europlus) e il ritorno, in venti anni, al rapporto debito/Pil non superiore al 60 per cento, con una correzione prevista di un ventesimo all’anno, partendo dal 2014 e stando sotto il 3 per cento deficit/Pil. La Corte dei Conti non ha fatto altro che prendere nota di questi accordi e ha fatto i calcoli a oggi del bilancio italiano, indicando quindi l’entità delle manovre per raggiungere gli obiettivi fissati in Europa. Il ministro Tremonti invita, però, a non drammatizzare. Lui sostiene che la questione non riguarda l’oggi, ma il domani. La cosa potrebbe anche essere vera a patto di avere chiaro che cosa bisognerà fare nei prossimi venti anni. Lo stesso Tremonti aveva annunciato che non ci sarebbero state manovre aggiuntive, invece ne sarebbe già pronta una per fine giugno. Il ministro le chiama manutenzioni, non manovre. È pur vero però che ci sono state spese impreviste: la guerra in Libia e l’esercito a Napoli per la spazzatura. Ma il problema è ben altro. Quale? L’accordo firmato in Europa può essere onorato in due modi: o lacrime e sangue, tagliando il numeratore di debito/Pil, oppure facendo aumentare il denominatore della crescita, con conseguenti costi politici. Gratis non si ottiene nulla. Non è più detto che crescendo la locomotiva tedesca abbiamo dei vantaggi anche noi, oggi esiste un’offerta sui mercati altamente concorrenziale. La Corte dei Conti indica manovre da 46 miliardi di euro, simili a quella di Amato del 1992. Quella però fu una tantum. Saranno, quindi, anni di grandi sacrifici.

Il dramma è che questo Paese non cresce e vive di rendite e non di profitti e salari. Non ha guadagni di produttività, galleggiamo, illudendoci che è il male minore. Intanto aumenta la tensione sociale. Gli scontri di Genova e di Castellammare di Stabia sono soltanto episodi di un malessere che rappresenta i costi della mancata crescita. Non dimentichiamoci che stanno arrivando migliaia di dispe-

«Ora si capisce che restare un anno senza ministro dello Sviluppo è stato un errore gravissimo» rati dal Nord Africa, mentre i nostri migliori figli vanno altrove, perché non riusciremo a trattenerli con stipendi da fame. Mentre Lufthansa abbandona Malpensa e la Maersk, il colosso danese

numero uno al mondo nel trasporto container, lascia il porto di Gioia Tauro. Chi dovrebbe intervenire? Sarebbe ora che il ministro dello Sviluppo economico facesse il suo lavoro. Non può fare tutto Tremonti perché è l’unico bravo rimasto. Per un anno non lo abbiamo avuto, mentre tutti continuavano a dire che il problema principale dell’Italia era lo sviluppo: una vera barzelletta… C’è il rischio che anche qui da noi, come in Spagna, scendano in piazza gli Indignados? Al momento no, perché come ha spiegato molto bene il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini, ci sono le nonne molto attive che si prendono cura dei bambini, le mamme che fanno di tutto e gli anziani che sostengono, con i loro risparmi, i giovani senza lavoro. La solita storia italiana: è la famiglia che funziona ancora. Questa situazione agisce da ammortizzatore sociale e non manda in piazza i giovani a protestare, perché la famiglia riesce ancora ad ammortizzare la crisi. Quanto può durare tutto questo? Quando, però, non c’è il paracadute familiare gli operai scendono in piazza, come quelli della Fincantieri. In quel caso parliamo di persone che vedono a rischio il loro reddito e il futuro. Quindi reagiscono. Il problema principale da quindici anni è la mancata crescita, prima o poi i nodi arrivano al pettine e cominciano a evidenziarsi queste aree di sofferenza in un Paese che non è governato. Ci spiega quest’ultima affermazione? Il governo intasa la Gazzetta ufficiale di norme, mentre nei paesi normali il governo agisce dalla norma in poi. Purtroppo si sono esasperati i difetti di chi crede che i problemi del Paese si risolvano con leggi. Noi abbiamo un governo che in questi anni si è difeso con tre risposte: la crisi non è colpa nostra, perché è nata nel mondo anglosassone, altri paesi al mondo stanno peggio di noi e, terza cosa, per evitare la catastrofe abbiamo difeso il bilancio pubblico così com’è non aumentando nessuna spesa e riducendo. In questo modo il governo ha difeso l’esistente, ma questa strategia è miope. Anche Standard and Poor’s non è ottimista sul nostro futuro. Infatti ha sollevato dubbi sul fatto che il governo attuale farà quei provvedimenti inizialmente sgradevoli, ma utili per ritornare a crescere, ma nonostante le rassicurazioni di Tremonti, non mi sembra che ci sia una grande condivisione di strategia in questa maggioranza. Ma non è questo il momento per parlare di queste cose. E quando se ne potrà parlare? Martedì prossimo, fino ad allora, secondo il governo, va tutto bene…

mercato, quindi? «Finché permane la situazione attuale è uno schema obbligato – chiarisce Dell’Aringa –. Per arginare la crisi e scrivere una pagina nuova occorrono ristrutturazioni e progetti chiari in grado di riposizionare il nostro Paese in uno scenario di competitività globale». Non lascia spiragli neanche il professor Reviglio, che detta la ricetta per uscire dal tunnel di una crisi che ovunque si annuncia alle spalle, e che da noi continua a rimordere più violenta che mai. «In primo luogo – annota l’ex ministro – occorre intervenire aumentando gli investimenti nelle infrastrutture, nella ricerca e nell’università. In poche parole servono riforme. Riforme per eliminare gli ostacoli burocratici alla nascita e alla crescita delle imprese, riforme dei prezzi dell’energia per rimuovere il maggior costo sopportato dalle imprese italiane rispetto ai concorrenti europei e una revisione del lavoro che garantisca maggiore flessibilità al sistema». «Detto che lo scenario industriale ci costringe a scelte difficili – spiega Gianni De Michelis – è impensabile restare immobili ad aspettare che passi la crisi. Il punto più basso è forse alle spalle, ma il dato non consola perché è fisiologicamente impossibile fare peggio di così. Servono idee e progetti in grado di rilanciare la marcia del Paese verso lo sviluppo. Il dato del primo trimestre del 2011 dice che la Germania è cresciuta dell’1,5 per cento, e che noi siamo fermi a un misero 0,1. Per tradurre i numeri in concetti, se non raggiungiamo quota due per cento in un lasso di tempo ragionevolmente breve, siamo spacciati. Dovremo rassegnarci a non avere futuro». «Il peggio della crisi l’abbiamo già vissuto – concorda Dell’Aringa – e probabilmente non ci saranno scossoni forti come questi ultimi in Fincantieri. Ma in parallelo ora servono scelte industriali che rafforzino la competitività dei settori nazionali più redditizi». «Il ministro Tremonti ha spiegato la situazione con una frase significativa:“Primum vivere, poi crescere”– commenta Reviglio – Non possiamo investire, se prima non riusciamo ad assicurare stabilità al Paese».

Ma un’idea di investimento redditizia la suggerisce l’ex ministro De Michelis: «In questo frangente occorre approfittare di quelli che chiamo i vantaggi competitivi oggettivi della Penisola. Se avessimo trasporti e catene alberghiere all’altezza, potremmo fare della naturale floridezza del turismo, la locomotiva della nostra ripresa. La bellezza del nostro Paese è tutelata da storia e geografia. Due dati immutabili che il mercato non potrà mai scalfire»


diario

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Immigrazione, nuove norme Ue

Lufthansa: «Niente Hub a Malpensa»

BRUXELLES. La Commissaria europea per gli Affari interni, Cecilia Malmström, ha presentato ieri un pacchetto di misure contro l’immigrazione clandestina in Europa. Questi i punti essenziali: reintrodurre rapidamente in Europa l’uso dei visti «in caso di improvvisi aumenti dei flussi migratori» dai Paesi, come quelli dei Balcani, dove erano stati liberalizzati; una nuova politica comune per l’asilo; l’avvio di accordi «su misura» con i Paesi del Nord Africa; facilitazioni per l’ingresso nella Ue di studenti, ricercatori e uomini d’affari. In pratica, con queste misura l’Ue accoglie le richieste francesi di frontiere più rigide verso est e assume impegni più vaghi nei confronti delle richieste italiane sugli sbarchi.

VARESE. Il sogno leghista di un mega-aeroporto a Malpensa sta franando. Dopo il trasloco di Alitalia a Roma, il mondo degli affari (e non solo) aveva riposto le sue speranze su Lufthansa. La compagnia tedesca aveva promesso di fare di Malpensa il suo quinto hub. Ieri la marcia indietro via comunicato stampa: «Rivediamo la nostra strategia sullo scalo varesino». I velivoli fino a oggi utilizzati da Lufthansa con base a Malpensa saranno trasferiti in altri aeroporti. In compenso voleranno sempre di più gli aerei Lufthansa tout court diretti a Monaco e Francoforte dove si trovano gli hub della compagnia. Morale: chi vuole andare in Cina, in Giappone, in Sud America o negli Usa dovrà fare scalo in Germania.

Kiev: arrestata Yulia Tymoshenko KIEV. Yulia Tymoshenko, l’ex premier ed ex eroina della «Rivoluzione arancione» che puntava all’integrazione dell’Ucraina nell’occidente e al distacco dall’orbita russa, è stata arrestata a Kiev. L’accusa sarebbe quella di abuso di potere. La notizia è stata diffusa dal suo partito, ma l’ufficio del procuratore ha smentito la notizia, precisando che l’ex premier tornerà libera prestissimo, dopo esser stata ascoltata sui contratti del gas con la Russia nel 2009, oggetto di un’indagine in corso e di forti polemiche politiche a Kiev. La corte di Pechersky, che si occupa dell’indagine sulla Tymoshenko, riferisce Ria Novosti, ha ordinato ieri mattina l’arresto e l’accompagnamento in tribunale sotto scorta di polizia.

I Paesi emergenti non sono riusciti a presentare un candidato unico e hanno diviso il peso che hanno all’interno del board

Fmi, un altro giallo francese

La Cina dice sì alla Lagarde. Ma la Procura di Parigi vuole indagarla di Antonio Picasso er la finanza mondiale il caso Strauss-Kahn dev’essere chiuso nei tempi più rapidi possibili. È per questo che la candidatura del ministro francese dell’economia, Christine Lagarde, alla presidenza dell’Fmi, si fa sempre più concreta. Ieri, con l’ok del governo cinese, le chance degli altri aspiranti all’incarico hanno subito un serio ridimensionamento. A Pechino, come del resto in tutto l’Occidente, il problema va risolto senza polemiche. Meglio, quindi, andare avanti con una leadership anch’essa francese, invece che cambiare il treno in corsa. Soprattutto perché tra un anno, il mandato di Straus Kahn sarebbe comunque scaduto. Un’eventuale rivoluzione al vertice del Fondo potrà essere valutata nel 2012. In realtà, la Lagarde (nata a Parigi nel 1956) non è la figura più trasparente che il contesto francese potrebbe prestare all’Fmi. Nessuno mette in discussione le sue competenze, in qualità di avvocato. E tanto meno la conoscenza del contesto internazionale. Le sue passate esperienze, come assistente di William Cohen – segretario della difesa Usa per l’Amministrazione Clinton – e alla presidenza del Cda dello studio legale Baker & McKanzie, restano due ticket di primo livello per l’attuale responsabile dell’economia francese.

Dopo il sì della Cina, Christine Lagarde è la favorita al vertice del Fondo monetario internazionale, dopo l’arresto di Strauss-Kahn. In corsa per la poltrona, oltre a lei, ci sono il ministro delle finanze belga Didier Reynders, il governatore della banca centrale del Messico, Agustin Carstens e il presidente della banca centrale del Kazakhstan, Grigory Marchenko.

P

Politicamente, la sua militanza nell’Ump, il partito di maggioranza e di presidenza, appare giovane. È solo dal 2005, infatti, che la Lagarde è tornata in patria, chiamata da Jean-Pierre Raffarin, per presiedere in successione i ministeri del commercio estero, di agricoltura e pesca e infine quello attuale di economia, industria e impiego. Quella della Lagarde è una carriera progressivamente in crescita. Al punto che, nell’ultimo biennio, ha ricevuto le congratulazioni dei più attenti osservatori economici del mondo. Nel 2009, il Financial times l’ha eletta “miglior ministro delle finanze dell’eurozona”. Contemporaneamente Forbes l’ha posizionata al quat-

tordicesimo posto tra le donne più influenti del mondo. È vero che attualmente è caduta in 43 esima posizione. D’altra parte rientra nelle prime cento della classifica ormai da sette anni. Il palmares, tuttavia, non è sufficiente per nascondere l’ombra di un’inchiesta avviata solo due settimane fa dalla procura della corte di giustizia della repubblica (il tribunale dei ministri francese). Secondo Jean Louis Nadal, magistrato responsabile del dossier, il ministro avrebbe commesso un abuso di autorità ai tempi della vendita della Adidas, da parte di Robert Louis Drefys al tycoon dello sport francese Bernard Tapie. Correva l’anno 1993. L’allora proprietario dell’Olympique Marseille aveva denunciato il Credit Lyonnais, finanziatore dell’operazione. A suo giudizio, l’istituto

di credito – partecipata statale – era riuscito a speculare sulla crescita del titolo, attraverso una serie di operazioni offshore e in modo che un eventuale acquirente di Adidas sarebbe stato costretto a pagare un prezzo gonfiato rispetto al valore reale del marchio. Nel 2008, dopo una causa di quindici anni, Tapie è riuscito a farsi pagare 200 milioni di euro, a titolo di risarcimento simbolico.

Con l’avvio della causa, aveva chiesto infatti un miliardo secco. Dato il coinvolgimento di un istituto bancario con quote governative,Tapie aveva deciso di ricorrere a un tribunale arbitrale, quindi alla giustizia privata, piuttosto che alla magistratura tradizionale. La transazione è stata risolta solo quattro anni fa, grazie a un intervento del ministro delle

finanze che ha ordinato il risarcimento in favore del magnate, il quale nel frattempo è passato dall’essere socialista a sostenere Sarkozy. Per il momento, il procuratore Nadal non si è fatto intimidire dall’eventualità che la Lagarde voli a Washington per guidare l’Fmi. Le accuse che il suo ufficio ha spiccato potrebbero condannarla a cinque anni di reclusione, oppure a una multa di 75mila euro. «Lo Stato non aveva alcun interesse ad accettare arbitrati, sospendendo il corso della giustizia ordinaria», ha commentato in tempi non sospetti – vale a dire prima dello scandalo Strass Kahn – il quotidiano Mediapart. Ancora più impietoso è apparso il giudizio dell’opposizione socialista. Secondo Segolene Royal e il resto della segreteria del partito, la Lagarde è una solo una ma-


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

A Parigi, il G8 del web studia una carta dei diritti della Rete

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

PARIGI. «Non voglio cercare di controllare la Rete, ma piuttosto aprire un dialogo proficuo tra governi e gli attori di Internet». Nicolas Sarkozy ha inaugurato ieri il vertice ”eG8” davanti a oltre mille protagonisti mondiali del web riuniti in una grande tensostruttura allestita nei giardini delle Tuileries, tra place de la Concorde e il Louvre. Il presidente ha insistito sulla necessità di una nuova governance mondiale della Rete. «C’è una contraddizione straordinaria nel dire che Internet abolisce le frontiere - ha commentato - ma poi continuare a fare come se le regole potessero essere solo nazionali». Sarkozy ha poi risposto a chi lo accusa di voler imbrigliare la Rete. La Francia è il Paese che ha introdotto ben due leggi contro la pirateria online ed è all’avanguardia nella protezione del copyright. «A costo di essere impopolare, voglio dirvi che non potete rifiutare un minimo di regole e valori comuni. Non si può - ha continuato il capo dell’Eliseo - veicolare il Ma-

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

le senza ostacoli né ritegno». Il vertice di Parigi apre un confronto su temi come la protezione della privacy e il diritto d’autore, la neutralità del web, il rischio di una nuova bolla speculativa dopo le quotazioni record di LinkedIn. A conclusione dei lavori, dovrebbe essere approvata una dichiarazione congiunta che sarà portata ai capi di Stato e di governo per il G8 di Deauville.

Da sinistra, Angela Merkel, Wen jabao e Nicolas Sarkozy. Nella pagina a fianco, Christine Lagarde

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747

rionetta nelle mani di Sarkozy. Altro che donna potentissima quindi! «Tutto secondo i piani. Ho agito con il pieno consenso del governo. Quanto alle accuse, sono le solite coltellate nella schiena», ha replicato la Lagarde. \u2028«Le donne nei posti chiave sono essenziali. Gli avversari uomini sono aggressivi, meno inclusivi», ha dichiarato all’Independent, sorvolando sul fatto che le sue maggiori detrattrici sono del suo stesso sesso. «Nelle stanze del potere c’è troppo testosterone». Con il caso Tapie, la Francia si conferma il maggiore ostacolo posto di traverso alle ambizioni della Lagarde. Il fatto che, ancora in giovane età, fosse stata rifiutata all’Ecole natio-

Augustine Carstens, governatore della Banca federale messicana, è il solo vero concorrente: non è inquisito e lavorava al Fondo nal d’administration, dovrebbe far riflettere i biografi del ministro. Christine Lagarde in quanto tale e non perché donna, stenta a recuperare il necessario endorsement presso l’establishment transalpino. A meno che non si guardi alla destra di Sarko. La corte valuterà l’inchiesta il 10 giugno. Coincidenza vuole che, quello stesso giorno, scadranno i termini per i singoli Stati membri del Fondo di presentare i propri candidati. L’elezione del nuovo presidente sarà resa pubblica alla fine dello stesso mese. In questo senso, sembra che, per accelerare i tempi, nessuno si stia accorgendo che il prossimo leader della finanza mondiale sia inquisito quanto il predecessore. Il direttore generale dell’Ocse, José Angel Gurrìa, ha dato il suo placet, non vincolante, sulla candidata

francese. Alla Lagarde non basta il pregio di essere la potenziale prima donna alla presidenza dell’Fmi. C’è un gioco di quote e di ponderazione dei voti che né Parigi né, a questo punto, Pechino sembrano non considerare. I Paesi emergenti, dai quali bisogna escludere le potenze economiche in pectore (Brasile, Cina e India) rimarcano di disporre di una quota complessiva di voti maggiore rispetto a quella dei big consolidati sul mercato internazionale. È un dato vero solo in parte. Il 5 novembre dello scorso anno, è stata proposta la modifica delle ripartizioni di voto. Ma non è stata ancora approvata. La fase di interregno permette da una parte al Messico e in misura minore il Sudafrica di restare sulla breccia in nome di un presidente dell’Fmi che non sia un cittadino europeo. Cosa mai successa dal 1950, anno di nascita del Fondo, a oggi. Dall’altra, l’ala di conservatori si sente in diritto di far rivalere le vecchie quote.

È Augustine Carstens a minacciare la Lagarde. Il governatore della Banca federale messicana sta svelando le sue carte. Non è inquisito come la rivale. Inoltre, vanta un incarico nello stesso Fmi, tra il 2003 e il 2006, in qualità di vice direttore generale. E se la Lagarde dovesse vincere, non è da escludere che il prossimo anno si giunga inevitabilmente a una definitiva emancipazione dell’Fmi dal giogo europeo.

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Curata da Caroline Bourgeois, la mostra offre uno spaccato della produzione de he la natura sia la vostra unica dea» scriveva, ai primi del Novecento, Auguste Rodin nel suo testamento esortando i giovani a lasciare ogni ambizione e a restare fedeli alla musa che aveva garantito agli antichi armonia e bellezza. Poi arrivò Marcel Duchamp che abbandonò la nobile pratica della pittura per dedicarsi al gioco degli scacchi e alla realizzazione di semiseri ready mades, capovolgendo schemi consolidati e mandando in fumo convenzioni acquisite da secoli. L’arte fu costretta ad interagire con gli oggetti della vita comune e una nuova frontiera si dischiuse. Da allora la relazione degli artisti con il mondo non sarebbe stata più traducibile in termini univoci. Niente più regole, mai più nessun decalogo. E nessuna possibilità di formulare, con la stessa perentorietà di Rodin, le linee guida per la generazione del futuro. «Ci si dovrebbe chiedere una buona volta se dopo la prima guerra mondiale l’arte sia stata solo una serie di punti interrogativi. Probabilmente è stato Duchamp a creare questa situazione e ora a un secolo distanza siamo ancora alle prese

«C

L’intenzione (riuscita) della curatrice, era quella di mettere «l’accento sull’energia che induce e che prelude a un’evoluzione» con le stesse domande» commenta Thomas Schutte. La sua scultura Vater Staat (Padre Stato), discordante, “perfida”e monumentale versione, alta quasi quattro metri, di un uomo in vestaglia privo di braccia, è stata posta all’esterno della Punta della Dogana a Venezia come viatico della seconda mostra dedicata alla contemporaneità dalla Fondazione Pinault, a testimoniare la perdita di certezze e la complessità di ogni manifestazione ed emozione estetica del nostro tempo. Lo stesso processo creativo sembra compromesso, minato alle radici da una lacerante esitazione. «Mi sento una molecola, non necessariamente un artista» sostiene Adel Abdessemed. L’arte, in sostanza come dice Maurizio Cattelan «è una realtà sfuggente» e oggi «viviamo un clima di crisi da cui sembra non esserci via d’uscita».

In un panorama connotato dall’incertezza e dalla contraddizione, il titolo scelto per questa mostra veneziana L’elogio del dubbio, risulta una pertinente chiave di lettura, il passepartout per accedere ad un universo di grandissima varietà espressiva. Un mondo ipertrofico, divertente e patetico, oltraggioso ma talvolta ancora sublime e in grado di stupirci, che cerca l’accostamento incongruo e la contaminazione dei linguaggi ingannando sempre i sensi e che nella declinazione di un’arte come interrogazione e capacità di suscitare interrogativi, trova un possibile, per quanto ampio, denominatore comune. Il percorso ideato da Caroline Bourgeois con l’intenzione di mettere «l’accento sull’energia che induce e che prelude a un’evoluzione» e «sulla forza e la fragilità della condizione umana» offre uno spaccato della produzione degli ultimi

L’arte di porsi d

di Rita P cinquant’anni selezionando diciannove artisti e sessanta opere tra le oltre duemilacinquecento della prestigiosa collezione Francois Pinault.

Apre l’esposizione uno dei maggiori esponenti del minimalismo che si pose domande fondamentali sull’identità e la funzione della scultura. Donald Judd nel 1963 lasciò da parte la tela iniziando ad esplorare la tridimensionalità e creando forme semplici e geometriche. I suoi cubi di metallo fissati al muro o adagiati a terra, prima realizzati a mano e poi industrialmente, furono il tentativo di estromettere ogni illusionismo e di liquidare insieme ad ogni velleità di rappresentazione anche l’idea stessa di aura che l’opera sembrava trascinarsi come una zavorra, impedendo il dialogo esclusivo con lo spazio. Eleganti e potenti le scatole di Judd indagavano in direzioni inesplorate convergendo nell’operazione di distruzione dei codici tradizionali propria degli anni Sessanta. Archiviata definitivamente l’invenzione del quadro e l’inautenticità della sua superficie, dilagarono le esperienze multisensoriali dell’happening e dell’installazione. Roxys, storico tableau di Edward Kienholz, compiuto nel 1960 , è in questo senso l’emblema di un’arte che si fa esperienza globale, che si complica e confonde, per diventare teatro e letteratura. Siamo alle radici di generi ormai familiari ma la riproduzione di una casa di tolleranza con i suoi ambienti grondanti di atmosfere forti, è ancora capace di turbare per la durezza di un interrogativo che verte sulle pulsioni inespresse dell’uomo. Un ambito esplorato anche da Paul McCarty, tra gli artisti più trasgressivi del panorama americano, che amputa e smembra corpi femminili, mescolando farsa e angoscia esistenziale ed esprimendo la violenza cieca dei nostri tempi. L’oscillazione verso il lato oscuro dell’uomo è tema scomodo e sempre attuale, avvertito da artisti di ge-

A Venezia, la grande esposizione «Elogio del dubbio», ovvero come rappresentare l’incertezza


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egli ultimi cinquant’anni attraverso 19 artisti e 60 opere della collezione Pinault

delle domande

Pacifici tri di Thomas Schutte, pesanti fantasie dell’immaginario collettivo, alle invenzioni leggere di Jeff Koons e di David Hammons, autori di un enorme cuore di metallo e di un abito da sposa sul punto di volare via, tributi perfetti per la città del romanticismo. Dai delicati organi cristallizzati di Chen Zhen che riconduce la creazione artistica a testimonianza di differenze individuali e culturali, all’ arte come identità, processo sempre uguale a se stesso, ben esemplificato dalla presenza di spicco di Elaine Sturtevant e dalla sua sperimentazione condotta “all’ombra” delle più importanti correnti del ventesimo secolo. Teorica della ripetizione la Sturtevant presenta un video che è un manifesto delle sue idee sul movimento ed il tempo e replica un’installazione del 1973 di Marcel Duchamp. Lo spirito guida della modernità ritorna, sempre identico solo a se stesso, anche in un omaggio esplicito dell’indiano Subodh Gupta: una rielaborazione tridimensionale in bronzo della celebre monna Lisa con i baffi, a conferma di quanto sia ancora vitale e globale il pensiero del maestro supremo del dubbio.

nerazioni diverse. L’algerino Adel Abdessemed, noto al pubblico per il video scioccante sull’esecuzione di alcuni animali, riproduce in terracotta la carcassa di un’auto bruciata nella banlieues parigine e cerca un’impossibile purificazione piegando fili di ferro, propri quelli usati nelle prigioni moderne, in cerchi perfetti. Marcel Broodthares affronta la violenza in modo apparentemente esplicito con la sua installazione dominata dai cannoni e dai fucili ma in realtà costruisce una macchina per annientare ogni significato. Era il 1975, i tempi della guerra in Vietnam e “Decor: a Conquest”che invadeva lo spazio museale rivelandone la finzione, fu uno degli ultimi lavori dell’importante concettualista belga che morì l’anno successivo, nel giorno del suo cinquantaduesimo compleanno proprio come William Shakespeare, autore che Broodthares, anche poeta, amò profondamente.

La vita che si confonde con l’arte, la realtà con la sua rappresentazione, in un gioco continuo di slittamenti e rovesciamenti di senso, fanno da guida a questa mostra dove si passa dal vuoto assoluto di Broodthares alla figurazione ritrovata, sia pure tremolante e incerta, di Thomas Housego. Dagli schele-

Nel percorso estrapolato dalla collezione Pinault, ci sono poi riferimenti imprescindibili per la capacità di innescare cortocircuiti visivi e aprire percezioni multiple e opposte “All”di Maurizio Cattelan, nove cadaveri coperti dal lenzuolo, scolpiti nel marmo bianco, è un emozionante e drammatico antiritratto dei nostri tempi, sospeso tra monumentalità classica e provocazione moderna, tra eternità e cronaca. Con Sigmar Polke, protagonista della pop art tedesca , si entra in un territorio non meno incerto dove «ciò che vediamo potrebbe non essere ciò che pensiamo di vedere». Le superfici estese del ciclo Axial Age sono il risultato di un processo irriconoscibile che sonda le potenzialità di medium diversi sovvertendo le regole pittoriche della frontalità e ottenendo un effetto di totale mutevolezza. Altro personaggio di punta, icona di una ricerca che si

apre verso zone inesplorate, è Bruce Nauman, dalla formazione molteplice che va da esperienze musicali alla studio della filosofia. Negli anni Sessanta il linguaggio e l’infinita apertura semantica diventano elemento cruciale della sua indagine, come nel neon Perfect door, perfect odor, perfect rodo. Con Nauman si entra in un campo poliforme e inafferrabile, dove si interrogano i meccanismi della comunicazione verbale alla ricerca di quel punto di rottura che è all’origine dell’arte e della poesia.

Apre lo spazio uno degli esponenti del minimalismo che si pose questioni sull’identità e la funzione della scultura: Donald Judd Non mancano lavori ideati appositamente per questa esposizione, che hanno come referente diretto la città lagunare e la sede di Punta della Dogana. I due grandi quadri di Julie Mehretu si presentano come una sorta di visione aerea brulicante di tratti calligrafici, riflesso delle atmosfere oniriche in cui vanno ad inserirsi. Mappe che disorientano, testi da decifrare, palinsesti che sovrappongono cancellature spingendo a riflettere sulla differenze tra le scritture. Con l’architettura stratificata e piena di memorie del luogo dialogano gli Appunti per una costruzione di Tatiana Trouvé . L’artista italo-francese ruba l’anima del magnifico edificio e suggerisce spazi segnati da aperture e frontiere, delimitati da oggetti allusivi ad un passato che scomparso, rappresentano l’efficace e suggestiva metafora di un paesaggio come passaggio e attraversamento. Di fluidità, osmosi ed in-

certezze identitarie ci parla anche la scenografica installazione di Roni Horny, Well and Truly che attraverso una particolare lavorazione del vetro evoca le vertiginosi trasformazioni dell’acqua. Venezia stessa, del resto, con la sua topografia liquida, l’equilibrio vacillante è una sfida ad ogni evidenza. Un’invenzione fragile che scatena paure ancestrali. In questo senso è essa stessa immagine della precarietà, di un’esistenza minacciata, dubbiosa, sempre in bilico tra ascesa e declino, sul punto di dissolversi con i suoi tesori. Eppure la città lagunare continua a guardare avanti e mai ha rinunciato alla vocazione alla contemporaneità inaugurata nel 1895 dalla Biennale e proseguita negli anni cinquanta del novecento con l’arrivo di Peggy Guggenheim a Palazzo Venier dei Leoni. Un’ apertura alle espressioni del nostro tempo rinnovata nel 2009 con il rilancio del centro di Punta della Dogana, restaurato egregiamente da Tadao Ando, che in tandem con Palazzo Grassi, altro polo delle Fondazione Pinault, offre un panorama aggiornato ed esauriente dell’arte attuale. Completa l’offerta il Museo Emilio Vedova, anch’esso inaugurato nel 2009 nei Magazzini del Sale dopo l’originale recupero che porta la firma di Renzo Piano. Splendido contenitore quattrocentesco caratterizzato da un allestimento mobile, unico in Italia, dove i teleri sospesi dell’astrattista veneziano ribaltano i ruoli tradizionali e si muovono incontro al visitatore, questo luogo è un autentico antro delle meraviglie che consente una fruizione dinamica, un’esperienza percettiva del tutto particolare che innova la concezione stessa di museo come luogo della permanenza e della ripetizione.

«Quello che accade a Venezia a mio parere e per mia stessa esperienza , ha scritto, al confine tra poesia e filosofia, Maria Zambrano, entra immediatamente nell’ordine delle cose, vi è assimilato, non c’è prima né dopo, c’è un sempre che tutto raccoglie». È quanto si può dire di ogni elogio che questa città offre alle forme del contemporaneo. Forme stridenti e perturbanti eppure inserite con naturalezza e sapienza nei vasti spazi di strutture cariche di segni, mai neutre. È quanto avviene all’ intensa scultura di Charles Ray, il ragazzo con la rana proteso verso il mare, in un gesto di dominio e di incanto narcisista, ormai simbolo di Punta della Dogana e degli ambiziosi progetti del mecenate Francois Pinault, subito inscritta in un orizzonte che sembra includere ed assorbire, mai respingere. Sarà per l’essenza stessa della storia di Venezia, crocevia di oriente e occidente, o forse per la straordinaria qualità della luce, per quei riflessi che duplicano all’infinito la realtà e costituiscono in un certo senso il correlativo oggettivo di quella ambiguità di cui l’arte contemporanea si nutre.


mondo

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Simpatico siparietto con i principi di Cambridge (William & Kate) a cui Obama confessa: «Ho guardato il vostro matrimonio in tv»

Una gita a Corte Il presidente e la moglie incontrano la Regina e dormono a Palazzo. Aspettando Westminster di Vincenzo Faccioli Pintozzi n primo giorno all’insegna, sostanzialmente, del riposo. L’arrivo della coppia presidenziale statunitense a Londra è stato segnato da qualche incidente, da molta pompa e da poco altro. Il primo giorno della visita di Stato del presidente Usa, Barack Obama. La coppia presidenziale è da ieri ospite a Buckingham Palace, ricevuta dalla Famiglia Reale, e ha incontrato il Duca e la Duchessa di Cambridge (il cui matrimonio, un mese fa, tenne il mondo inchiodato alla tv). Nella sua prima notte a Londra, però, Obama ha dormito nella residenza dell’ambasciatore Usa (e non a Buckingham Palace) perché, avendo dovuto anticipare il suo arrivo in Gran Bretagna a causa della nube di cenere vulcanica, ha creato un problema di protocollo. Protocollo che, nell’ultima vera Casa reale del mondo, è quasi più importante della Magna Charta. Inizialmente il presidente doveva arrivare a Londra, in arrivo da Dublino, alle undici di ieri mattina e trasferirsi direttamente dall’aeroporto a Buckingham Palace, ospite della regina Elisabetta II, per la cerimonia ufficiale di benvenuto. Ma il cambio di programma provocato dalle ceneri del vulcano islandese ha obbligato il presidente Usa ad anticipare il volo e ad arrivare tredici ore prima del previsto a Londra, dove però il protocollo ufficiale non era pronto ad alloggiare lui e sua moglie Michelle. Gli Obama hanno quindi dormito a Winfield House, la residenza dell’ambasciatore Usa a Londra, Louis Susman. Dalla serata di ieri, invece, Obama e la moglie Michelle si trovano nella Belgian Suite, a Palazzo Reale, utilizzata l’ultima volta proprio da Kate e William (che vi dormirono la sera delle loro nozze). Per la giornata però il programma è rimasto immutato: a Winfield House, Obama e la moglie sono stati salutati dal principe Carlo e la Duchessa di Cornovaglia; e poi, tutti insieme, il convoglio con le 22 macchine al seguito di Obama (tra cui la Beast, la berlina a prova di bomba su cui viaggiano il presidente Usa e la moglie; e l’auto del principe Carlo) si è spostato alla volta di Buckingham Palace. A Palazzo Reale era convocato l’incontro con il principe William e Catherine, freschi di nozze. Nel pomeriggio, dopo la colazione, la regina ha portato la coppia ad ammirare la collezione di arte americana nella galleria di Buckingham Palace; poi Obama si è recato all’abbazia di Westminster per depositare una corona di fiori al milite ignoto (sullo stesso monumento dove fu depositato il bouquet da sposa di Kate); dopodiché si è riunito brevemente con il premier britannico David Cameron e con il leader dell’opposizione laburista, Ed Miliband.

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con il quale, di temi da discutere, ce ne sono in abbondanza. La questione più scottante è di certo quella riguardante il posizionamento di missili BMD che gli Stati Uniti vogliono installare in Romania, che si può definire senza troppe difficoltà il giardino di casa della Russia. Non c’è da stupirsi, dunque, se il Cremlino non abbia accolto con un sorriso compiaciuto questa notizia. Per gli USA il progetto ha una chiara valenza difensiva. Diversa la prospettiva russa, che come qualunque altro Paese, non accoglie con piacere l’istallazione di testate missilistiche così vicine ai propri confini. Nell’ambito del G8 si discuterà inoltre della questione riguardante il nuovo direttore del FMI che, secondo la cancelliera tedesca Merkel e il presidente francese Sarkozy dovrebbe essere comunque un europeo. Il candidato sostenuto dai due leader sembra essere Christine Lagarde, ministro francese delle finanze. La posizione di Obama su questo punto è per il momento difficile da prevedere.

E se è vero che gli Stati Uniti non hanno il peso necessario per eleggere il direttore generale del Fondo - per tradizione europeo, contro il direttore della Banca mondiale, americano - è vero anche che i voti Usa all’interno del board diventano fondamentali in caso di divisione interna al blocco europeo. E conoscendo i leader dei Ventisette, questa sembra essere un’ipotesi che va presa in considerazione praticamente ogni volta che l’Europa viene chiamata ad assumere una posizione unitaria su un qualsiasi argomento. Insomma, il G8 francese non avrà enorme rilevanza dal punto di vista geopolitico, ma sarà un round di studio dei nuovi equilibri (sempre in mutamento) della scacchiera mondiale.

Parlando alle Camere britanniche riunite (un onore solitamente riservato ai Windsor) l’inquilino della Casa Bianca chiederà, probabilmente, un rinnovato sforzo in Afghanistan

Obama ha concluso la giornata con una cena di Stato a Buckingham Palace. Un programma dunque riposante, che rivela l’importanza della giornata di oggi e dello storico discorso con cui il presidente americano – che parla alle Camere riunite (onore solitamente riservato ai reali) – chiederà con ogni probabilità all’Inghilterra uno sforzo in più in Afghanistan. Ancora più delicata invece si prospetta la visita a Deauville, in Francia, non solo per il summit del G8 previsto per i giorni 26 e 27, ma soprattutto perché in quell’occasione Obama incontrerà il presidente russo Medvedev

L’appello di “O’bama” per la terra dei suoi avi

E all’Fmi chiede pietà per Dublino di Massimo Fazzi

La presidentessa irlandese McAleese. In alto, il presidente Obama insieme a Elisabetta II. Nella pagina a fianco il britannico Cameron

toni sembravano quelli di un illustre predecessore, quel John Fitzgerald Kennedy che alla Porta di Brandeburgo proclama di essere “un berlinese”, ma fortunatamente il bagno di folla che ha accolto il presidente Obama a Dublino non vive sotto una dittatura. In ogni caso, l’assunzione di paternità ”irish” rivendicata dal presidente potrebbe avere più senso di quanto sia sembrato in un primo momento. In pratica, la visita del presidente Barack Obama in Irlanda alimenta le speranze del governo di Dublino di ottenere un taglio dei tassi di interesse sul prestito da 85 miliardi di euro ricevuto da Unione Europea e Fondo Monetario Internazionale (Fmi). Ma anche per il mantenimento di un tassa sulle imprese al 12,5 per cento.

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«Il presidente Obama in marzo è stato chiaro nel dire che l’Irlanda ha l’appoggio degli Stati Uniti» su una riduzione dei tassi sul pacchetto di aiuti ricevuto dall’Ue e dal Fmi, ha detto il ministro degli Esteri irlandese Eamon Gilmore. L’Irlanda è sotto pressione da parte di alcuni Paesi dell’area euro, in particolare Francia e Germania, per un aumento della tassa sulle imprese attualmente al 12,5 per cento in cambio di un taglio del tasso di interesse sul prestito pari al 5,8 per cento. La Grecia ha ottenuto una riduzione di un punto percentuale degli interessi in marzo impegnandosi a raccogliere 50 miliardi di euro entro il 2015 con la vendita di asset del governo. «Gli Stati Uniti ovviamente non saran-


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Un articolo a doppia firma sul “Times” per cercare di convincere l’opinione pubblica

Il filo rosso che “slega” Londra e Washington

Il presidente Usa e il premier Cameron firmano insieme un nuovo patto d’acciaio. Ma il loro amore sembra finito di Osvaldo Baldacci è qualcosa di strano nel viaggio di Obama in Europa. Una serie di rapporti inquieti che sono evidentemente appannati e logorati e cui si vuole dare una lustrata per farli di nuovo scintillanti. E anche la storia antica e recente contribuisce a colorare questa visita con filtri un po’insoliti. Il rapporto tra gli Stati Uniti di Obama e la Gran Bretagna per esempio rivela alcune bizzarre curiosità. Per inquadrare la visita in Gran Bretagna si può forse partire dalle parole che insieme hanno scritto sul Times Obama e Cameron: «Il nostro rapporto (quello tra Usa e Gb, ndr) non è solo speciale, ma anche essenziale, per noi e per il mondo». In realtà questa affermazione va in contrasto con gli esordi della presidenza Obama, nata in contrasto con l’era Bush, era di massima vicinanza tra Washington e Londra quando a Downing Street c’era Tony Blair. Una vicinanza molto criticata nelle isole britanniche dove si accusava e si accusa il leader laburista di essere stato troppo accondiscendente col presidente conservatore americano, in tema di guerre e non solo. Quel punto culminante era stato seguito da una crisi e da una rottura, ed era stata messa in discussione anche la condizione di rapporto speciale tra i due Paesi. L’avvento di Obama non aveva certo migliorato la situazione: sì, il fascino universale che questo presidente ha esercitato si è sentito anche in Gran Bretagna, ma poi nei fatti le cose andavano diversamente. E la vittoria dei conservatori di Cameron certo non lasciava prevedere un nuovo idillio con gli Stati Uniti a egemonia democratica. Peraltro nella sua fase iniziale la crisi economica non ha certo incentivato il miglioramento dei rapporti tra i due paesi anglosassoni. Prima la crisi finanziaria statunitense che ha investito come uno tsunami l’Inghilterra, poi al contrario la forte crisi delle banche britanniche e la svalutazione della sterlina che non hanno contribuito a facilitare la gestione della crisi anche oltreoceano.

C’

no direttamente coinvolti nelle trattative che stiamo avendo con gli altri partner europei, non sarebbe appropriato. Ma ritengo – aggiunge Gilmore – che la visita del presidente Obama sia un segnale di sostegno in questo momento» aggiunge Gilmore.

«Vogliamo vedere le attività irlandesi prosperare e crescere. Siamo in contatto con l’Irlanda e gli altri per determinare quale è la strada migliore per l’Irlanda per continuare a crescere». Il presidente della camera di commercio americana, Thomas Donohue, ha visitato l’Irlanda nei giorni scorsi e ha espresso il proprio appoggio alla tassa sulle imprese al 12,5 per cento nei giorni seguenti in Le Germania. aziende americane – ha osservato Donohue – restano impegnate nei confronti dell’Irlanda che «sotto pressione avrebbe potuto facilmente mandare all’aria il clima favorevole per le imprese che l’ha aiutata a diventare un hub in termini di innovazione, tecnologia e servizi». Nel 2009 gli investimenti americani in Irlanda erano pari a 158 miliardi di euro, più di quanto investito in totale in Brasile, Russia, India e Cina. Insomma, anche per strizzare l’occhio ai 40 milioni di americani figli di emigranti irlandesi che l’anno prossimo saranno chiamati al voto insieme al resto degli Stati Uniti per scegliere il presidente - sembra evidente che Obama abbia scelto una strada favorevole a Dublino. Che sicuramente non merita di cadere sotto il maglio della speculazione internazionale, ma che non può neanche pensare che sia l’Unione europea (o il Fondo monetario) ad accollarsi per sempre i suoi debiti.

Nel 2009 gli investimenti americani in Irlanda erano pari a 158 miliardi di euro, più di quanto investito in totale in Brasile, Russia, India e Cina

E chiaramente c’è stato un periodo in cui ciascuno pensava a sé, a salvare se stesso, anche a rischio di irrigidire i rapporti con l’altra sponda. Allo stesso tempo forse oggi è proprio la crisi a riavvicinare i due grandi paesi: avendo legami economici così forti e vincolanti e rendendosi infine conto che nessuno può pensare di uscire dalla crisi richiudendosi solo su se stesso, Usa e Gb sono costretti a tornare ad andare a braccetto, parallelamente al volume di intrecci finanziari che li legano. «Gli Stati Uniti restano il maggiore investitore in Gran Bretagna e la Gran Bretagna il maggiore investitore negli Stati Uniti, ognuno sostenendo la creazione di milioni di posti di lavoro nei rispettivi paesi. Vogliamo incoraggiare di più lo scambio di capitali, beni e idee», spiegano al Times Obama e Cameron. E anche per questo Obama è a Londra. Nel loro articolo comune Obama e Cameron hanno sottolineato che Stati Uniti e Gran Bretagna devono cooperare per ricostruire le proprie economie, dopo

«il profondo shock che ha colpito l’economia globale negli ultimi anni». «Siamo due Paesi diversi - sottolineano -, ma la nostra destinazione deve essere la stessa, ovvero una crescita forte e sostenibile, la riduzione del deficit e del debito e la riforma del sistema finanziario, così da non essere più aperti agli abusi del passato». Si potrebbe poi divertirsi un po’sulla storia simbolica di Obama, che – per la verità come molti altri presidenti prima di lui – sembra subire tremendamente il fascino della monarchia inglese.

Un altro simpatico paradosso: il democraticissimo self-made-man di colore, difensore dei poveri e dei diritti civili, nemico dei potenti e delle aristocrazie economiche e politiche (almeno questa è la visione che vorrebbero darne i suoi sostenitori liberal) non riesce a nascondere di essere incantato dalla monarchia britannica. E confessa candidamente di aver seguito in tv il matrimonio di William e Kate (non essendo stato invitato) e di essere rimasto colpito. Tanto da aver aggiunto come fuori programma l’incontro con i principi e di soggiornare nella suite della loro notte di nozze (un po’ kitsch, per la verità). Ma non solo. Obama, il presidente nero, figlio del Kenya, già colonia della corona, bandiera del Paese che ha fondato la modernità e le libertà moderne proprio con la sua guerra di indipendenza contro la madre patria inglese, si reca a rendere omaggio alla regina. Non che non lo debba fare, per carità, ma questo insieme di passi di Obama fa comunque il suo effetto, proprio perché è Obama. E poi non dimentichiamo un ultimo punto politico: se c’è una cosa chiara nella politica estera dell’attuale amministrazione di Washington, è che l’Europa è del tutto marginale. Il viaggio di Obama in questo senso non cambia le cose ma aumenta il senso di straniamento. Perché Obama si sta rendendo conto che non può del tutto trascurare l’Europa, ma allo stesso tempo dà l’impressione di una gita turistica che omaggia una vecchia gloria. Di sostanza c’è poco, se non forse il corteggiamento agli elettori di origine irlandese e polacca per le prossime presidenziali statunitensi. In mezzo, la visita alla Francia, che in tempi recentissimi è tornata a essere a sua volta distante dagli Stati Uniti quasi come ai tempi della guerra in Iraq. Con la Libia esempio perfetto della confusione che regna: c’è chi dice che Obama è ben contento di aver subappaltato la guerra a Londra e Parigi, eppure mi sembra che dalla strategia su Tripoli emergano più contrasti che collaborazioni tra una sponda e l’altra dell’oceano. Con la Francia impegnata in un nuovo progetto di grandeur, e gli Stati Uniti più attenti a una politica difensiva e di contenimento, cercando di non perdere posizioni. E non necessariamente le due linee sono compatibili. Intanto Washington si prepara ad allinearsi con Cina e Paesi emergenti per sfilare la presidenza del Fondo monetario Internazionale all’Europa, e in particolare alla Francia. Una visita dai contorni strani quella di Obama alla vecchia Europa.


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I confini del ’67 «sono indifendibili, ma se Abu Mazen riconosce il nostro diritto a esistere siamo pronti a trattare con loro»

La pace secondo Israele Davanti al Congresso Usa, Netanyahu propone “un accordo di compensazione” di Enrico Singer ti. Un compromesso territoriale, insomma, può essere l’approdo delle trattative. «Noi non siamo colonialisti, non vogliamo occupare la terra di altri. Queste terre sono storicamente nostre, sono le terre dei nostri avi, ma sappiamo che una pace vera, alla fine, passerà anche attraverso dei, dolorosi compromessi», ha detto Netanyahu. Questa è già una svolta. Una mano tesa. È, soprattutto, un’apertura al presidente dell’Anp, Abu al Mazen, quale Benjamin Netanyahu ha lanciato un appello a superare l’ostilità di Hamas al riconoscimento di Israele che è il vero ostacolo alla pace. Dopo il faccia a faccia con Barack Obama che ha convinto il presidente americano ad accogliere le tesi israeliane sui confini del ’67, adesso il capo del governo di Gerusalemme cerca di convincere anche i palestinesi. Ma l’impresa è molto più difficile e il suo esito estremamente incerto. Di sicuro Netanyahu

a pace secondo Netanyahu. Di fronte al Congresso americano il capo del governo di Gerusalemme ha offerto, ieri, ai palestinesi l’occasione per arrivare, finalmente, alla composizione negoziata di un conflitto che dura praticamente da quando è nato lo Stato ebraico, il 18 maggio del 1948. Con la conferma dei punti irrinunciabili – primo fra tutti il diritto di Israele a esistere in pace e in sicurezza – e con una novità: il ritorno meccanico ai confini del 1967 non è possibile perché quelle frontiere sarebbero «indifendibili», ma da parte israeliana ci saranno delle compensazioni. È questa la parola magica che potrebbe riaprire i colloqui diret-

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con il suo discorso al Congresso ha voluto rilanciare la palla dall’altra parte del campo. Ha voluto mettere di fronte a una scelta i palestinesi che, nonostante la formale riconciliazione tra Fatah e Hamas, rimangono divisi nella sostanza sul problema dei problemi: il riconoscimento di Israele che i moderati di Abu Mazen accettano e che gli integralisti di Khaled Meshal continuano a negare proclamando che il loro vero obiettivo non è tanto la nascita dello Stato palestinese, quanto la distruzione di quello ebraico.

La primavera araba, per Netanyahu, è l’ulteriore prova che

non è Israele la causa di tutti i mali del Medioriente, che sono i sistemi politici degli altri Paesi della regione a non rispondere, prima di tutto, alle esigenze di libertà e di democrazia delle loro popolazioni ed è lì che il cambiamento è necessario per costruire un futuro di pace e di stabilità. «Io ho avuto il coraggio di dire agli israeliani che sono pronto a riconoscere lo Stato palestinese, Abu Mazen deve avere il coraggio di dire al suo popolo che deve riconoscere Israele», ha detto ancora Netanyahu. La pace con i palestinesi è «vitale» ma è anche «un sogno» che non si realizzerà fino a che «non sarà garantita la

Egitto e Iran sono i nuovi attori sullo scenario mediorientale, e il sunnismo in crisi. Parla il direttore di “Limes” Lucio Caracciolo

«Per ora la Palestina è un’illusione ottica» a questione palestinese spesso agitata nei discorsi ufficiali interessa poco gli Stati arabi, che in fondo disprezzano quel popolo. La politica imperiale di Teheran più del destino del West Bank o di Gaza stanno determinando il futuro dei nuovi assetti regionali. Abbiamo chiesto a un grande esperto di rapporti internazionali e direttore della rivista Limes, Lucio Caracciolo un’analisi sul Medioriente prossimo venturo. «Non penso che la questione israelo-palestinese sia così centrale come spesso ci viene presentata. Ha sicuramente un valore simbolico. Ma è anche vero che sia Israele che gli altri Paesi arabi non la considerano una materia strategica. Gli arabi al di là della retorica non considerano i palestinesi una loro priorità». Caracciolo dunque minimizza il valore reale della creazio-

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di Pierre Chiartano ne di uno Stato palestinese e delinea nuovi scenari con attori che reciteranno ruolo un po’ diversi da quelli sin qui visti. «Israele e Iran da un parte e dall’al-

da un punto di vista geostrategico, è l’Iran. Che in qualche maniera considera lo Stato ebraico l’arcinemico e viceversa. Alla fine però penso che tra Iran e

Per uno Stato palestinese manca il territorio, manca la popolazione, poiché i palestinesi sono troppo divisi tra loro. Oltre le dichiarazioni formali, la sostanza è che quei territori restano sotto il controllo israeliano. Con Israele, sarà così tra il mondo arabo sunnita. In particolare il futuro dell’Egitto. Sono problemi connessi ma diversi. L’unico Paese che in questo momento può minacciare la preponderanza d’Israele nella regione,

Israele sia possibile arrivare ad un compromesso.Teheran non ha davvero interesse a distruggere Israele e lo Stato ebraico non ne ha a una contrapposizione permanente con l’Iran. A questo pun-

to entrano in gioco gli attori arabo-sunniti, in modo particolare l’Egitto e l’Arabia Saudita. La novità dell’Egitto dopoMubarak è che tornerà protagonista della regione. L’ex presidente egiziano faceva sostanzialmente ciò che gli veniva detto da americani e israeliani. Chiunque vada al suo posto avrà una sua autonoma politica e ciò sarà un grosso problema per Israele». E anche il futuro degli accordi di Camp David, caposaldo della pace regionale per alcuni decenni, è assai incerto.

«In maniera strisciante, ma penso proprio che gli equilibri nati a Camp David verranno presto messi in discussione. Soprattutto ci sarà una revisione dell’approccio egiziano verso Gaza. Specialmente se i Fratelli musulmani dovessero avere un ruolo più rilevante nel-


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riconoscere – anche senza la preventiva pace con Israele – l’esistenza dello Stato palestinese. E questo accordo di facciata, questo minimo comun denominatore tra le componenti palestinesi è quello che è stato trovato finora da Salam Fayyad, premier del governo ufficiale dell’Anp, e Ismail Haniyeh, il premier di Hamas che comanda a Gaza. Ma non si sa ancora a chi sarà data la responsabilità del primo governo unitario, quale sarà la sua linea strategica e se, davvero, vedrà la luce. Anche perché sulla strada di una effettiva riconciliazione si è accanito anche il destino: Salam Fayyad è stato colpito da un infarto ieri ad Austin, in Texas, dove si trovava per assistere alla laurea del figlio. Le sue condizioni sono state definite stabili dal portavoce del governo di Ramallah, Ghassan Khatib, secondo il quale Fayyad ha subito un intervento di stent aortico. La malattia del primo ministro di Abu Mazen, comunque, com-

con l’obiettivo di trasformare giuridicamente i trecentomila israeliani che vivono in Cisgiordania in immigrati clandestini. Un modo per esasperare la crisi piuttosto che per risolverla. Anche se l’esito dell’eventuale voto alle Nazioni Unite non è scontato. Gli Stati Uniti per primi hanno bocciato l’idea di sottoporre all’Assemblea una simile risoluzione anche se fu proprio Barack Obama ad augurarsi che nel 2011 all’Onu potesse essere rappresentato anche lo Stato palestinese. Quel progetto, lanciato a pochi mesi dalle elezioni di mid term, però, secondo Obama doveva essere realizzato attraverso trattative dirette tra l’Anp e Israele che cominciarono rapidamente sotto l’impulso della mediazione americana, ma che fallirono altrettanto rapidamente. Anche l’Europa, per adesso, è fredda sull’ipotesi di votare in sede di Assemblea generale dell’Onu il riconoscimento dello Stato palestinese e lo stesso ministro

La primavera araba «è l’ulteriore prova che non è Israele la causa di tutti i mali del Medioriente. Sono i sistemi politici di quei Paesi a non rispondere alle esigenze di libertà dei popoli» sicurezza di Israele». Una miscela di speranze e di timori, insomma, perché Netanyahu – che ha cominciato il suo discorso definendo l’America un «alleato indispensabile» del suo Paese – non scorge ancora segnali positivi e univoci nel fronte palestinese. Anche ieri, mentre il premier israeliano parlava a Washington, il vicepresidente dell’ufficio politico di Hamas, Mussa Abu Marzuk, che si trovava in visita a Mosca, ha ripetuto che il suo movimento non riconoscerà mai lo Stato di Israele e ha bollato come un «errore storico» il riconoscimento che fu deciso dall’Olp di Yasser Arafat già nel

1993 con gli accordi di Oslo.A dimostrazione dei contrasti interni all’Anp, un dirigente di Fatah, Azzam al Ahmed, che faceva parte della stessa delegazione ricevuta anche dal ministro degli Esteri russo, Serghei Lavrov, ha detto che l’Autorità nazionale palestinese «non intende fare una dichiarazione unilaterale d’indipendenza», ma è determinata a sottoporla in settembre al voto dell’Assemblea generale dell’Onu e si augura ancora che, prima, possa riprendere il negoziato diretto con Israele.

L’appuntamento al Palazzo di vetro fissato per la fine dell’esta-

la politica del Cairo. Quindi un maggiore appoggio ad Hamas nella Striscia sarà visibile». La politica imperiale di Teheran, la maniera con cui agisce sul lungo periodo potrà influenzare il nuovo corso nella regione, soprattutto a danno dei sauditi. «Penso che l’Iran si consideri un impero da sempre, che i suoi riferimenti geopolitici siano quelli imperiali di Ciro il grande piuttosto che lo stesso Khomeini. E che la sua sfera d’interessi vada dal Libano all’Asia centrale. Inevitabilmente entrerà in conflitto con gli attori arabo-sunniti del Golfo e in primis con l’Arabia Saudita. Negli ultimi trent’anni Gerusalemme e Riad si sono trovati d’accordo nell’affrontare Teheran, adesso la partita e un po’ più complicata». Giocoforza si arriva al punto, cioè fino a quando Washington punterà sui principi Saud e quando comincerà a pensare all’Iran come nuovo interlocutore per la stabilità della regione. «Per ora e ancora per molto tempo Washington appoggerà i sauditi, ma prima o poi dovranno decidere e, in qualche misura, già ora una forma d’accordo con l’Iran mi sembra inevitabile. A questo proposito è interessante il

te è il vero motore di tutto l’intreccio di mosse e contromosse che si sta dipanando in questi ultimi giorni. A partire dalla riconciliazione tra Fatah e Hamas dopo anni di scontri anche fisici e armati. Tra gli integralisti che controllano la Striscia di Gaza e i moderati che governano, da Ramallah, i territori della Cisgiordania sotto amministrazione palestinese, non è stata ancora trovata l’intesa per dare vita a un esecutivo unitario e la data di nuove, libere elezioni è continuamente rimandata. Ma almeno un accordo di facciata era indispensabile per poter sottoporre alle Nazioni Unite l’ipotesi di

plica una situazione già molto delicata e aumenta le preoccupazioni di Netanyahu che ha subito rivolto un messaggio di auguri a Fayyad e che teme il progressivo indebolimento di chi, all’interno dell’Anp, è disponibile al dialogo con lo speculare rafforzamento delle posizioni oltranziste di Hamas.

La paura di Netanyahu è che il negoziato, in fondo, non interessi alla leadership che si sta affermando tra i palestinesi e che la tattica di Hamas punti tutto, ormai, sul riconoscimento dello Stato palestinese da parte dell’Assemblea generale dell’Onu

degli Esteri russo, ieri, ha detto alla delegazione dell’Anp che Mosca è favorevole alla soluzione dei“due popoli, due Stati”, ma che è preferibile raggiungerla con il negoziato. Forse una maggioranza numerica favorevole al riconoscimento dello Stato palestinese esiste nell’Assemblea generale dell’Onu, ma potrebbe scontare l’opposizione di un fronte vasto e qualificato di Paesi trasformando quella palestinese in una vittoria di Pirro. Anche dopo il discorso di Netanyahu al Congresso, la scommessa di una pace negoziata resta difficile. Ma è anche l’unica possibile.

ran si muove secondo proprie dinamiche interne e secondo la resistenza trova o non trova nella regione. Certo negli ultimi anni i due grandi imperi, da sempre in competizione, sembrano aver trovato un modus vivendi anche perché hanno interessi in comune a cominciare da quelli energetici». Quindi Turchia e Persia potrebbero diventare i puntelli per una nuova stabilità mediorientale, ma Caracciolo suggerisce «anche per una nuova instabilità».

conflitto interno persiano. Dove il clero che conta sempre di meno, ha una posizione intransigente, mentre Ahmadinejad appare più possibilista rispetto a una trattativa con l’America». Ahmadinejad ha fatto una grande apertura verso la tradizione iranica per stemperare l’eccesso di islam voluto dal regime dei

mullah. «Ormai la gente intorno al presidente parla di una sorta di islamismo iranico più che sciita. Una specie di nazionalismo religioso». E se la Turchia ha un modello tutto diverso da quello iraniano, la sua ascesa nella popolarità regionale può avere svolto un ruolo nel cambiamento di passo di Teheran. «L’I-

Tornando alla vicenda palestinese il direttore di Limes è tranchant su possibili soluzioni o mediazione tra Washington e Gerusalemme, che possano aprire la strada a una soluzione del problema: la nascita di uno Stato palestinese. «Non credo che oltre le risoluzione dell’Onu che, come è noto, non contano nulla, si possa ottenere la costituzione di un vero Stato palestinese. Innanzitutto manca il territorio, manca la popolazione, poiché i palestinesi sono troppo divisi tra loro. Oltre le dichiarazioni formali la sostanza e che quei territori restano sotto il controllo israeliano. Fino a quando esisterà Israele sarà così».


cultura

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Le riforme necessarie al Paese sono bloccate, mentre peggiora la repressione contro i dissidenti. L’analisi di uno dei più acuti conoscitori della politica di Pechino

Sorpresa: Mao è tornato La frangia più conservatrice del Partito comunista cinese riporta indietro l’orologio e “ri-educa” il popolo al maoismo di Willy Wo Lap-lam a un punto di vista superficiale, gli avvenimenti degli ultimi mesi sembrerebbero suggerire che le ali riformista e conservatrice del Partito comunista cinese (Pcc) siano impegnate in una lotta feroce su questioni fondamentali come la liberalizzazione politica e il trattamento dei dissidenti. Da una parte, le unità pubbliche e di sicurezza statale hanno lanciato – sin dall’inizio delle “rivoluzioni colorate” in Medioriente e Africa settentrionale – la più importante repressione delle “forze destabilizzatrici” che si ricordi negli ultimi tempi. Alcuni membri del Politburo sono arrivati a chiedere il ritorno di quei valori di cui il defunto presidente Mao Zedong era portavoce. Dall’altra, si sono registrate nuove richieste di riforme politiche e tolleranza per l’espressione individuale da parte di alcuni presunti riformisti, fra cui il premier Wen Jiabao. Pechino sembra aver deciso per una svolta conservatrice e persino quasi-maoista, il che impone la domanda: esistono ancora controlli incrociati e bilanciamento fra le diverse fazioni del Partito? Il Partito – vecchio di quasi 90 anni – ha sempre dichiarato che non esistono all’interno della propria leadership “roccaforti montuose”, un modo per definire cricche e blocchi di potere; la verità è che invece le fazioni con diverse politiche ed ideologie esistono sin dai primi giorni di Mao.

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Prima di rispondere a questa domanda, è utile e istruttivo esaminare la repressione dei dissidenti in corso, senza precedenti per durezza di esecuzione. Sin dalla primavera, le autorità del Pcc hanno cercato di imporre un controllo quasi totale su ogni aspetto della vita nazionale: politica, ideologica e culturale. Oltre agli attivisti noti in tutto il mondo come l’artista Ai Weiwei, un gran numero di avvocati weiquan (“protettori dei diritti civili”), dissidenti e dirigenti di Organizzazioni non governative sono stati arrestati. Una dozzina di giornalisti ed editori di giornali relativamente liberali – come il Southern Metropolitan News di

Guangzhou – sono stati repressi per aver mostrato simpatia per Ai o per Liu Xiaobo, vincitore del premio Nobel adesso in carcere. Si è intensificata anche l’azione della polizia contro le chiese non ufficiali.

La scorsa domenica, alcuni rappresentanti della pubblica sicurezza di Pechino si sono scagliati contro i fedeli della

In tv e alla radio vengono trasmessi solo programmi “patriottici” come le opere rivoluzionarie dei tempi della Rivoluzione culturale chiesa protestante di Shouwang che, per la sesta domenica di fila, cercavano di organizzare un incontro in pubblico nell’angolo sud-orientale della capitale. Centinaia di fedeli sono stati arrestati. Ma è aumentato anche il numero degli arresti dei leader delle chiese “domestiche” delle province.

Per paura che i dissidenti potessero chiedere una versione cinese della Rivoluzione del gelsomino che si è verificata in Tunisia all’inizio di quest’anno, poi, la parola molihua (gelsomino) è stata bandita dai media stampati ed elettronici, così come da inter-

net. Il Festival culturale internazionale del gelsomino che si svolge in Cina, previsto per questo mese nella provincia del Guangxi, è stato annullato. Per assicurarsi che le onde radio trasmettano soltanto materiale politicamente corretto e “armonioso”, l’Amministrazione statale per la radio, i film e la televisione ha chiesto alle stazioni nazionali di trasmettere in prima fascia programmi “patriottici” come le “opere rivoluzionarie” dei tempi della Rivoluzione culturale. Apparentemente, programmi “occidentalizzati”e “volgari”come i thriller e le storie di spie sono stati proscritti. Ancora più significativo, buona parte della nazione è impegnata in una campagna febbrile tesa a resuscitare i valori maoisti. La metropoli occidentale di Chongqing, che ha iniziato tre anni fa questo revival maoista, ha chiesto ai quadri del Partito e agli studenti di passare almeno un mese l’anno a lavorare nei villaggi impoveriti, così da “imparare dalle masse”. I prigionieri delle carceri locali vengono rilasciati prima, se eccellono nella conoscenza dell’opera di Mao. Il vice presidente Xi Jinping, che è anche il capo della Scuola centrale del Partito, ha detto all’inizio della cerimonia per il semestre che gli studenti dovrebbero passare più tempo a studiare “le opere maggiori” di Mao Zedong e altri canoni marxisti. Sfor-

zi simili, ha detto Xi, aiuterebbero i dirigenti del futuro ad essere più “credibili politicamente” e più abili nell’usare “in maniera creativa i punti di vista e le prospettive marxiste per risolvere i problemi”. Quegli analisti che pensano che esista ancora una modica forma di controllo e bilancio interno alle fazioni del Pcc hanno citato una serie di dichiarazioni rilasciate qualche tempo fa dal premier Wen Jiabao, che è divenuto il più liberale fra i 25 membri del Politburo. Wen è l’unico dirigente di alto grado ad aver insistito sul fatto che “non esiste via d’uscita”per il Paese se le riforme politiche rimangono congelate; ha anche ribadito che gli obiettivi raggiunti dalle riforme economiche saranno cancellati senza una liberalizzazione della vita politica. Il premier ha ripetuto più o meno gli stessi mantra durante le sue visite in Malaysia e Indonesia, avvenute lo scorso mese. Ancora più significativo, durante un incontro di un’ora con un politico di Hong Kong vicino a Pechino, Wu Kangmin, il premier si è scagliato contro due “forze politiche”che trattengono le riforme: “I rimasugli del feudalesimo e i rappresentanti del veleno residuo della Rivoluzione culturale”. Wen ha accusato coloro che sostengono queste forze di “rifiutarsi di dire la verità ed essere innamorati della menzogna”.

Esiste, ovviamente, ancora un buon numero di accademici e intellettuali che rischiano le molestie della polizia per parlare contro la direzione conservatrice in corso in questi giorni. L’economista Mao Yushi (che

non ha rapporti di parentela con il presidente Mao) guida un think-tank privato: ha compiuto un velato attacco contro i dirigenti conservatori che “hanno riportato indietro l’orologio”. In un testo molto letto dal titolo Riportare Mao Zedong alla sua vera persona, che è circolato all’inizio di maggio su internet, Mao ha scritto che gli intellettuali cinesi dovrebbero avere il coraggio morale per “riconoscere e condannare i molti errori compiuti da Mao, che hanno rovinato la nazione”. Lo storico di Shanghai Xiao Gongqian ha avvertito che riportare i principi maoisti in auge potrebbe dare un colpo al corpo delle riforme e delle politiche di apertura: “C’è una stretta connessione fra le politiche e le ideologie della ‘cultura rossa’ e quelle ‘dell’estrema sinistra’: dobbiamo alzare la guardia contro il revival maoista”. Mentre le credenziali liberali di intellettuali d’élite come Mao e Xiao non sono in dubbio, non appartengono alla cricca comunista e hanno pochissime possibilità di influenzare le decisioni politiche ai massimi livelli.

L’indicazione più chiara che la maggioranza assoluta dei maggiori leader cinesi abbiano scelto la fazione conservatrice, persino i valori quasi-maoisti, è venuta dall’alleanza apparente fra la Lega dei giovani comunisti del presidente Hu Jintao e i cripto-maoisti guidati da Bo Xilai, membro del Politburo e segretario del Partito a Chongqing. Insieme al vice presidente Xi, Bo è un membro anziano della potente “Cricca dei principini”, legata al tramonto degli anziani del Partito. Sin dal 2008, Bo ha portato avanti


cultura

nella sua città le due campagne “colpire gli elementi neri” e “cantare la gloria dei rossi”. Nella politica cinese, per “neri” si intende la triade della mafia cinese mentre per “rossi” si intendono i precetti maoisti. All’inizio, Hu e i suoi colleghi della Lega si sono rifiutati di arrendersi al carismatico Bo. Alcuni fra gli aiutanti del presidente sono arrivati persino a sussurrare che Hu fosse scandalizzato dal machiavellico uso fatto da Bo della crociata “rossi-neri”, intesa come un modo per aumentare il proprio profilo nazionale e per brigare fino ad avere un seggio nella Commissione permanente del Politburo.

Dall’alto il presidente Mao Zedong; il suo successore Deng Xiaoping; il “liberale” Jiang Zemin, esponente della cosiddetta “terza generazione”. In basso il premier cinese Wen Jiabao e, piccolo, Hu Yaobang

Tuttavia, sin dalla fine dello scorso anno, una serie di alti dirigenti comunisti hanno iniziato a farsi vedere a Chongqing e a magnificare le performance di Bo. Fra questi vi erano alcuni fra i “pesi massimi” della Commissione: il capo della propaganda Li Changchun; il vice presidente Xi; il capo dell’anti-corruzione He Guoqiang e il leader della sezione legge e ordine, Zhou Yongkang. Xi, presunto successore di Hu alla Segreteria del Partito prima, e poi alla presidenza, ha detto che “la campagna contro le triadi è una buona cosa, perché ha ottenuto ils sostegno popolare e ha portato sostegno e felicità alle masse”. Alcuni sguardi si sono fatti più attenti quando, lo scorso mese, persino il presidente dell’Assemblea nazionale del popolo Wu Bangguo e il membro del Politburo (incaricato dell’organizzazione) Li Yuanchao hanno

compiuto un pellegrinaggio a Chongqing. Il viaggio di Li è quello che ha ottenuto più attenzione, dati i suoi legami intimi con la Lega giovanile del presidente Hu. I media locali hanno riportato l’appoggio di Li all’operato di Bo: “Dobbiamo perseverare con la campagna contro le triadi, perché queste creano problemi nella società così come minano le basi dello Stato”. Li ha magnificato il cosiddetto “modello Chongqing” socio-economico e il suo sviluppo perché, ha detto, “le innovative politiche cittadine rappresentano un nuovo modo per risolvere i molti problemi della Cina”. È arrivato persino a sostenere il ritorno agli standard maoisti. Facendo riferimento al ritorno delle “canzoni rosse”, lo zar dell’Organizzazione ha detto: “Se non cantiamo queste canzoni, la nostra società potrebbe presto cambiare colore”.“Cambiare colore”è un termine con cui il Partito indica la possibilità che lo Stato socialista possa mutare in un“vassallo del capitalismo”. L’appoggio di Li a Bo indica la preoccupazione crescente nelle fazioni dominanti all’interno del Partito nei confronti delle voci di dissenso, e potrebbe segnalare il fatto che le due fazioni abbiano stretto un patto per sopprimere insieme quelle forze d’opposizione in crescita che starebbero minacciando il Paese.

In effetti, un consenso fermo sembra essere emerso fra le maggiori fazioni, fra cui la Lega, la fazione di Shanghai e la Cricca dei principini in modo

25 maggio 2011 • pagina 15

che il “dominio perenne del Partito” possa resistere anche se Pechino non riesce a fermare il dissenso con efficacia. Si è verificato un primo segno di discordia all’interno dell’Assemblea nazionale del popolo quando il Parlamento, dominato dal Partito, ha approvato all’inizio dell’anno un budget di 624,4 miliardi di yuan (circa 62 miliardi di euro) per “migliorare la stabilità socio-politica”. Per la prima volta nella storia del Partito, questi fondi hanno superato quelli investiti per l’Esercito di liberazione popolare. Inoltre, gli organi statali e di Partito incaricati dell’ideologia, propaganda e organizzazione hanno eliminato tutti gli ostacoli per creare norme armoniose e patriottiche, molte delle quali hanno chiare radici maoiste.

Questo non significa, ovviamente, che le molte fazioni del Partito abbiano fatto la pace. Sin dall’era di Deng Xiaoping, la mela della discordia fra i numerosi blocchi di potere è stata

Anche il Festival culturale internazionale del gelsomino, previsto per questo mese nella provincia del Guangxi, alla fine è stato annullato

l’ideologia, in particolar modo su come la nazione avrebbe dovuto adottare il meccanismo di mercato o assorbire i capitali stranieri. Le battaglie fra le fazioni, tuttavia, sembrano ora appartentemente combattute su temi come personale e ideologia economica, non ideologia o politica. Per esempio, le varie fazioni si scontrano per vedere chi riesce a ottenere il maggior

numero di seggi nel Politburo e nella Commissione centrale del Partito, organismi che si formeranno nel 18esimo Congresso del Pcc previsto per l’ottobre del 2012. Altamente significativo è anche lo scontro fra i rivali per chi controllerà i lucrosi settori del business. La Fazione energetica, ad esempio, è in rapida crescita e spera di mantenere il proprio controllo monopolistico sulle conglomerate statali che controllano petrolio, gas, elettricità e nucleare. Da un punto di vista superficiale, la pace fra le fazioni dovrebbe rendere il Partito più unito e meglio preparato per affrontare le dure sfide del 21esimo secolo. Eppure, la morte della lotta fra bande – almeno fino a che si tratta di questioni ideologiche e politiche – porta con sé moltissimi rischi per il futuro politico della Cina. In particolare, data l’indefinita moratoria posta sulla liberalizzazione politica, la diminuzione di controlli e bilanciamento fra i poteri del Partito potrebbe allontanare ancora di più il regime dalle aspirazioni delle masse. Fino ad oggi, il risultato più tangibile del consenso all’interno del Politburo di Hu Jintao è la soppressione delle voci “disarmoniche” all’interno della comunità. In parte per l’uniformità di pensiero al vertice, chi decide e i quadri intermedi potrebbero divenire sempre meno sensibili rispetto agli errori compiuti da funzionari troppo zelanti, che fanno di tutto per fermare i dissidenti e i presunti simpatizzanti dell’Occidente. Una leadership molto unita – specialmente se impegnata a far rivivere i valori maoisti e nazionalistici – potrebbe inoltre essere meno disposta ad ascoltare le critiche dell’esterno.

Mentre la Cina si prepara a sedersi al tavolo dei maggiori leader della comunità internazionale, potrebbe scoprire che la propria struttura politica di stampo leninista non farà altro che allontanare ancora di più la nazione da quei valori universali su cui l’architettura universale è ancorata.


ULTIMAPAGINA La collezione-Burcardo rischia di trasferirsi al pianterreno della Siae

L’assurdo trasloco di Sofocle, Plauto, Terenzio di Laura Giannone

l Sofocle latino edito a Venezia nel 1543 da Giovanni da Borgofranco, l’Aristofane nel testo greco (Firenze, Bernardo Giunta 1515 e Benedetto Giunta 1540) e in versione italiana (Venezia 1545), il Plauto in latino stampato da Lazzaro Soardi a Venezia nel 1511, il Terenzio in latino (1553 e 1569) e in italiano (1542), il Seneca tradotto da Lodovico Dolce (1560). Oppure, saltando di secoli (la vera magia delle biblioteche) quasi tutte le edizioni di Carlo Goldoni dal Settecento ad oggi e migliaia di copioni, molti dei quali manoscritti e autografi (dal Liolà di Pirandello nella doppia versione italiana e siciliana alla versione francese di Elektra di Hugo von Hofmannsthal per Eleonora Duse). Copioni appartenuti ad importanti compagnie, che spesso recano visti e tagli di censura delle varie autorità politico-territoriali. E collezioni di locandine (come quella del romano Teatro Argentina, assolutamente completa dal 1919 al 1944, anno in cui la guerra ha imposto la chiusura del teatro stesso), carteggi autografi (oltre 25mila documenti), fino al fondo lasciato da Carlo Emilio Gadda, ovvero la biblioteca personale che lo scrittore conservava nella

I

Al posto dello storico e magico Palazzetto romano, dovrebbe a breve essere ospitato nel più grande (ma asettico) edificio dell’Eur sua ultima casa in via Blumensthil, a Roma, composta di circa 2.500 volumi e di 70 testate di periodici in varie annate.

Sono alcune delle meraviglie conservate nella romana Biblioteca e Museo teatrale del Burcardo, specializzata nella storia teatro e dello spettacolo e ubicata nel tardo gotico palazzetto omonimo, proprio alle spalle del Teatro Argentina. Un piccolo gioiello della nostra cultura, curato e difeso da sempre con grande passione e attenzione e oggi sempre più frequentato da un pubblico di nicchia e specializzato «anche se non mancano le visite guidate di persone semplicemente appassionate dell’arte teatrale» ci spiega Maria Teresa Iovinelli, responsabile della biblioteca. Di proprietà della Siae, la miracolosa collezione rischia oggi di essere trasferita dal magico Palazzetto del Burcardo all’asettico pianterreno della Siae all’Eur. Più lar-

go e capace in termini di magazzino («la biblioteca conta 40mila volumi, più un archivio fotografico di 30 mila scatti, più raccolte, manoscritti, carteggi e decine di migliaia di documenti», ci spiega sempre Maria Teresa Iovinelli), la location è pur tuttavia meno consona al materiale, senza considerare che ancora nessuno ha presentato un progetto in grado di far capire come si vuole valorizzare la collezione. E questo non è un problema secondario, perché se solo di trasferimento volumi si dovesse trattare, è chiaro che lentamente la biblioteca verrebbe privata della sua linfa vitale. «Altra cosa è se venissero spostate solo alcune collezioni lasciando la parte più importante nella sede del Burcardo, in modo che questa possa continuare a crescere assieme al museo, che un domani dovrebbe (ma anche

In questa pagina, alcune immagini della Biblioteca romana del Burcardo; gli attori Eleonora Duse e Ettore Petrolini qui mai nessun progetto, solo parole, ndr) essere ingrandito».

Le biblioteche specializzate, così come i piccoli musei sono la vera grande ricchezza museale dell’Italia. Viene detto, urlato e scritto da anni. Parole a fondo perduto, che non riescono a produrre risultati, che cadono nel vuo-

& COMPANY to dell’indifferenza di chi, quei beni, li dovrebbe salvaguardare, valorizzare. Con dei piani di recupero e di sostegno. E invece tutto avviene per caso, senza progettualità. In nessun altro Paese troviamo una capillarità di istituti della cultura capace di eguagliare la nostra rete di biblioteche, musei civici e privati. E tutti, dicasi tutti, da almeno vent’anni hanno grandi problemi gestionali, i soliti problemi di risorse che non mancano neppure ai più conosciuti cugini maggiori, ma presentano anche tanti vantaggi sia dal punto di vista della gestione che della fruizione da parte del pubblico. Perché, nonostante la percezione sia diversa, il patrimonio conservato nelle piccole biblioteche o musei non è certo inferiore per qualità a quello dei grandi musei, ma certo più circoscritto. Il che spesso significa uscire di casa con il preciso intento di vedere esattamente un oggetto, una singola collezione permanente, e poterla apprezzare in maniera più intima, senza fretta. Esattamente come si fa quando si entra nella grande sala libraria del Burcardo e si attraversano le sale del suo piccolo e delizioso museo. Si attraversano secoli di teatro, opere, allestimenti, cartelloni, sogni. Letteratura. E soprattutto storia italiana. Quella che dovrebbe essere esaltata e tramandata. E certamente non rinchiusa in un magazzino, grande e comodo per carità, ma asettico e impersonale. Tutto il contrario della cultura.


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