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Certo che la fortuna esiste. Altrimenti come potremmo spiegare il successo degli altri? Jean Cocteau
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • VENERDÌ 27 MAGGIO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Nelle parole della leader degli industriali anche un attacco a «quella sinistra che non vuole il riformismo»
Marcegaglia in campo «Persi 10 anni. Il governo è fermo. Se serve, sono pronta a battermi» Duro discorso della presidente: «I piccoli passi non ci salvano. Subito una svolta per la crescita, partendo da fisco e infrastrutture». E poi lascia capire il suo futuro impegno nella vita politica Responsabile delle stragi di Srebrenica
Arrestato Mladic, l’ultimo boia
Sarà subito estradato all’Aja, dove è accusato di crimini contro l’umanità. Il premier serbo Tadic: «Ora la Ue ci accolga» Maurizio Stefanini • pagina 14
NUOVE RISORSE
di Errico Novi
ROMA. Si dirà: è un discorso di fine mandato, l’enfasi è praticamente d’obbligo. Però sarebbe sbagliato relegare l’intervento di Emma Marcegaglia all’assemblea di Confindustria nel registro dei congedi accorati. Non è questo, è molto altro. Nella sua ultima relazione annuale da presidente degli industriali, la Marcegaglia rovescia sul tavolo quel caleidoscopio di attese che lacera da lustri la classe dirigente del Paese: la crescita che non arriva, le richieste accolte solo in parte dal governo, l’urgenza di riforme che tutti ritengono necessarie ma che nessuno realizza, le liberalizzazioni mancate. Temi posti con un tono insolito, certo, per un leader di Confindustria: per com’è drammatizzato, per gli allarmi che solleva in modo esplicito. Ma c’è una profonda verità nell’analisi, c’è il rammarico per quegli errori che la politica continua a commettere. E la desueta ammissione: siamo pronti a uscire dalle imprese pur di difendere i nostri interessi. È l’annuncio di una discesa in campo? a pagina 2
L’Italia ha bisogno di Emma e Luca: ma senza ripetere il “modello Silvio” di Giancristiano Desiderio e cose economiche sono importanti, ma quelle civili lo sono ancor di più. E ieri Emma Marcegaglia ha tenuto all’assemblea degli imprenditori un discorso dal valore prima di tutto civile. Non lo diciamo per sminuire l’analisi economica e le proposte che ha avanzato ma, al contrario, per meglio valorizzarle. a pagina 2
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Il caso Milano/1
Il caso Milano/2
Il Cavaliere esiliato in casa
Due generazioni, non due borghesie
Berlusconi ha fallito nel progetto di governare i «salotti buoni»
Sarà il conflitto tra padri e figli a pesare di più dopo il ballottaggio
Osvaldo Baldacci • pagina 4
Giuseppe Baiocchi • pagina 5
Oggi sarà presentato il piano di aiuti economici alle popolazioni di Medioriente e Africa
Il G8 regala un sogno agli arabi I leader mondiali pronti a sostenere le rivolte per la democrazia di Vincenzo Faccioli Pintozzi
Khamenei contro Ahmadinejad
n pacchetto di aiuti alla primavera araba per miliardi di dollari – in prestiti, linee di credito e contratti commerciali – è la strada che il G8 riunito a Deauville ha scelto per sostenere la “primavera araba” in corso. Questo sostegno sarà gestito e organizzato dalla Banca mondiale e dall’Fmi che però non ha ancora un direttore. a pagina 10
Inizia la sfida finale tra i poteri di Teheran
U
di Michael Ledeen
Carla Bruni Sarkozy, al G8 di Deauville, mostra compiaciuta la gravidanza alle altre first ladies
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
102 •
l popolo di Ahmadinejad e quello di Khamenei stanno combattendo nelle strade di Tehran. È l’ultima fase della “Guerra della Successione Persiana”. a pagina 12
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il commento
prima pagina
pagina 2 • 27 maggio 2011
Quando la «società civile» integra la politica
Modello Silvio, l’unico rischio da non correre di Giancristiano Desiderio e cose economiche sono importanti, ma quelle civili lo sono ancor di più. E ieri Emma Marcegaglia ha tenuto all’assemblea annuale degli imprenditori un discorso dal valore prima di tutto civile. Non lo diciamo per sminuire l’analisi economica e le proposte che ha avanzato ma, al contrario, per meglio valorizzarle. Perché, in fondo, sul che cosa, sul come e sul perché dei fatti dell’economia italiana si sa quasi tutto, mentre sulla necessità di rinfrescare e ricambiare la classe politica non si dice mai nulla. La presidente di Confindustria ha toccato proprio questo tasto quando, citando Max Weber, ha detto che «in un momento così noi saremo pronti a batterci per l’Italia, anche fuori dalle nostre imprese, con tutta la nostra energia, con tutta la nostra passione, con tutto il nostro coraggio». Avanti, c’è posto e tanto da lavorare.
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Tuttavia, qualche precisazione va fatta. Perché dal passato che ci circonda dobbiamo pur imparare a non ripetere gli errori. E il primo degli errori da non fare è quello dell’“uomo solo al comando”. Questa avventura è bellissima per il ciclismo e per le fughe epiche di Fausto Coppi, ma in politica l’avventura si è rivelata un’illusione. La classe imprenditoriale che decide di impegnarsi in politica non deve essere mossa dall’idea di sostituire la politica con l’impresa. Il progetto tecnocratico in senso lato paga il suo prezzo ai tempi che viviamo in cui l’azione politica è erosa dalla potenza della tecnica e della finanza. Eppure, è un’illusione che non tarda a mostrarsi per quello che è: un pericolo da cui guardarsi. Al contrario, la classe imprenditoriale deve intrecciare le proprie esperienze con la politica per darle sostanza, contenuto, forza, vigore civile. Bisogna integrare, non sostituire. Abbiamo perduto dieci anni, ha detto con forza Emma Marcegaglia. In realtà, la ricerca del tempo perduto rischia di essere più lunga. Sono, infatti, praticamente venti gli anni che abbiamo buttato al vento inseguendo l’idea che da qualche parte ci siano un uomo e un sistema istituzionale capaci di essere la soluzione di tutti i problemi italiani: di quelli antichi, che provengono dalla “repubblica dei partiti”, e di quelli nuovi, che ci vengono incontro da quando è finito il Novecento. Ogni volta che è stata trovata la soluzione - il leader, il bipolarismo, il federalismo - la realtà si è prontamente incaricata di ingarbugliare le cose per mostrarci che le cose sono sempre più complesse delle astrazioni che si inventano per imbrigliarla. E la prima cosa che oggi dobbiamo dimostrare di aver appreso è che le soluzioni ai nostri problemi sono un po’ come quella verità di cui parlava sir Karl: nessuno ce l’ha bella e fatta in tasca perché non è il frutto di una testa ma di più teste e ognuno portando la sua idea e il suo interesse contribuisce a disegnarla per tutti. «C’è un mito da sfatare», ha detto la Marcegaglia con passione e ragione, «quello secondo cui in fondo l’Italia vada bene e quindi gli imprenditori devono piantarla di lamentarsi». Ecco, questa è la seconda lezione da ricavare: la libera critica è una ricchezza per il governo che la riceve e in generale per il Paese. Un governo serio ascolta le critiche che gli vengono rivolte perché prima di tutto sa che egli stesso è nato dal libero esercizio della critica.Troppo spesso e con troppo compiacimento il bipolarismo berlusconiano è passato dalla critica agli insulti all’odio politico. Quest’ultima campagna elettorale ne è stata l’ultima incarnazione. Speriamo che sia stata davvero l’ultima.
il fatto Dall’assemblea degli imprenditori a Roma applausi a Napolitano e Draghi
Il j’accuse di Confindustria Emma Marcegaglia attacca il governo che «ha fallito l’obiettivo della crescita», ma anche con «quella parte della sinistra che ancora non ha scelto il riformismo» di Errico Novi
ROMA. Si dirà: è un discorso di fine mandato, l’enfasi è praticamente d’obbligo. Però sarebbe sbagliato relegare l’intervento di Emma Marcegaglia all’assemblea di Confindustria nel registro dei congedi accorati. Non è questo, è molto altro. Nella sua ultima relazione annuale da presidente degli industriali, la Marcegaglia rovescia sul tavolo quel caleidoscopio di attese che lacera da lustri la classe dirigente del Paese: la crescita che non arriva, le richieste accolte solo in parte dal governo, l’urgenza di riforme che tutti ritengono necessarie ma che nessuno realizza, le liberalizzazioni mancate. Temi posti con un tono insolito, certo, per un leader di Confindustria – per com’è drammatizzato, per gli allarmi che sottintende o solleva in modo esplicito. Ma c’è una profonda verità nell’analisi, c’è il rammarico per quegli errori che la politica continua a commettere. E c’è netta e chiara la consapevolezza del momento decisivo per il Paese: «Ho guidato Confindustria in anni terribili, ora tutti gli organismi internazionali concordano che l’Italia ha bisogno di riforme strutturali». O la «concorrenza globale» schiaccerà l’Italia. Si sente sul ciglio di uno strapiombo dove un niente può far precipitare le imprese italiane, Marcegaglia. E perciò quando dice che «siamo pronti a batterci per l’Italia, anche fuori delle nostre imprese, con tutta la nostra passione e il nostro coraggio», la leader degli industriali non dà l’impressione di annunciare semplicemente una discesa in campo personale. È possibile che si riferisca anche a se stessa, è certo che parla di una necessità generale. E per dare il senso di una chiamata della storia cita Max Weber: «Vengono
talora momenti molto gravi nella vita di una nazione in cui la testimonianza pubblica di chi vive nell’integrità privata non è più un mero diritto civile, ma un vero e proprio dovere morale».
Sorpresa ne suscita, Emma. Qualcuno tra i rappresentanti del governo mugugna (vedi Matteoli, come si riporta in modo più ampio in un altro servizio, nda), e molti suoi colleghi si trovano spiazzati. Ma il discorso è chiaro: da «tre anni» avanziamo proposte, in buona parte inascoltate; il Paese ha perso «dieci anni in termini di minore competitività e mancata crescita»; e se continua così alle imprese non resterà altro che impegnarsi direttamente nella guida del Paese. È un’analisi grave, molto più di quanto il riflesso condizionato del gossip politico possa far credere (subito il pensiero di molti in platea corre infatti a una possibile sfida Marcegaglia-Montezemolo). Di tale gravità è in fondo prova anche il tono solenne dedicato da Marcegaglia nella prima parte della relazione all’unità d’Italia e al presidente della Repubblica Napolitano che la ascolta in prima fila, ringraziato più volte per aver difesa e giustamente celebrata quell’unità. La necessità di una discesa in campo – non necessariamente personale ma degli imprenditori in generale – si fonda, nell’intervento all’Auditorium della Musica di Roma, su una precisa critica all’attuale sistema politico: serve «uno scatto d’orgoglio della classe dirigente del Paese» ma serve soprattutto «che si abbassino i toni della polemica politica». Ancora più nello specifico: è necessario che «cessino gli attacchi e
le reazioni
Il governo cerca di parare il colpo Da Frattini e Sacconi l’invito: «Restiamo uniti». Poi la «pace» con John Elkann e la Fiat di Franco Insardà
ROMA. Le parole di Emma Marcegaglia su una cosa hanno messo tutti d’accordo: la nostra economia deve crescere e per farlo sono necessarie le riforme. Si sono accordati anche coloro che fin qui hanno avuto i numeri per farle, le riforme. Per esempio, il presidente del Senato, Renato Schifani, ha commentato: «Credo che le riforme siano indispensabili, riforme strutturali necessarie come le liberalizzazioni, oltre che lavorare per la crescita e lo snellimento della burocrazia». Condivisione espressa anche dal presidente dell’Udc, Rocco Buttiglione, che ne ha dato una lettura politica sottolineando come la relazione sia stata «praticamente un programma di governo condivisibile. Mi permetto di leggere tra le righe delle cose che ha detto, e di ricavarne alcune conseguenze logiche. Se Berlusconi dovesse vincere i ballottaggi continui a governare fino a fine legislatura, ma occupandosi del bene del Paese e soprattutto della situazione economica, piuttosto che di far guerra ai magistrati e agli avversari. Se invece dovesse perdere i ballottaggi, conseguenza logica è che dovrebbe dimettersi. Dalle parole della Marcegaglia si capisce però anche che l’opposizione di sinistra non si può considerare affidabile. Ha detto anche che di fronte a una fase nuova della politica, fase necessaria, il mondo imprenditoriale è pronto a entrare nell’agone della politica. Magari, dico io, prestando alcuni personaggi del mondo industriale che possano portare la loro esperienza, e
io auspico che viste le premesse questo possa avvenire per mezzo dell’unica novità seria, il Terzo Polo. Infine la Marcegaglia ha anche citato l’esempio della Germania, come io faccio da tempo: questo vuol dire, non tanto velatamente, che la migliore via di uscita dalla crisi e il modo più efficace di avviare riforme difficili e necessarie è la nascita di una grande coalizione».
lobbies». Pier Luigi Bersani ha criticato il «rimpallo logico tra la politica presa tutta nel suo insieme e l’imprenditoria presa tutta nel suo insieme. Un’idea che ha portato 15 anni fa alla scelta di
Lo stesso fronte sindacale mantiene le sue divisioni, con Cisl e Uil da una parte e la Cgil che rimarca alcune posizioni. Mentre per il segretario della Cisl, Raffaele Bonanni «è un discorso condivisibile perché incentrato sulla crescita. Vorrei che tutta la classe dirigente capisse che l’unico modo per cambiare le cose in Italia sia cooperare e non litigare, per questo sono da tenere in forte considerazione le parole del presidente della Repubblica». Per la leader della Cgil, Susanna Camusso, invece le analisi della Marcegaglia sulla situazione economica e la riforma del fisco sono condivisibili, ma «bisogna indicare dove si aumenta la pressione fiscale. E cioè, sulle rendite». La Camusso ha anche sottolineato di non trovarsi d’accordo sul «pensare che tutti siano uguali perché credo che questo non aiuti il cambiamento di cui il Paese ha bisogno». Infine, un fitto scambio di opinioni tra la Marcegaglia e John Elkann ha caratterizzato una parte della mattinata. Argomento: la possibile fuoriuscita di Fiat da Viale dell’Astronomia che la Marcegaglia aveva rivendicato il ruolo di Confindustria come espressione di tutte le aziende e non solo delle poche grandi imprese. Elkann, è rimasto, invece, abbottonato: «Non è un tema di oggi e non è sicuramente un tema d’attualità.
Dagli esponenti della maggioranza si è tentato di parare i colpi, portati dalla Marcegaglia verso la politica economica e di sviluppo del governo, con dichiarazioni concilianti e l’invito, come ha fatto il ministro dello Sviluppo economico, Paolo Romani, a lavorare “insieme” per costruire il futuro. Romani, però, si è appellato all’impegno e alla responsabilità di tutti: governo, imprenditori, lavoratori e sindacati. Concetto ripreso dal ministro degli Esteri Franco Frattini in un commento sul sui blog Diario italiano: «Un’esortazione a restare uniti, perché solo un Paese unito può costruire il futuro». Mentre il ministro del Welfare, Maurizio Sacconi, a proposito di un futuro impegno politico di Emma Marcegaglia ha detto: «Sarebbe una liberale in più». Ma non sono mancate anche reazioni più dure. Sia da parte della maggioranza, sia da esponenti dell’opposizione. Il ministro della Semplificazione, Roberto Calderoli, ha sostenuto che il governo sta «affrontando le sfide delle riforme e nella terza parte di legislatura intende vincere. Confindustria metta l’impegno a fare solo l’impresa, rinunciando a fare politica o attività di
Bersani invita a non generalizzare: «Non tutti i politici sono uguali, come non lo sono tutti gli imprenditori»
le delegittimazioni reciproche». Passaggio questo che, come altri, certifica la non faziosità del vertice di viale dell’Astronomia. E ancora: il «decennio perduto alle nostre spalle» viene da «divisioni e lacerazioni interne a ciascuno dei due poli della politica».
E qui giustamente l’Udc coglie l’opportunità di registrare una «bocciatura per il bipolarismo», per dirla con il responsabile economico dei centristi Gian Luca Galletti. Non c’è dubbio che sia così, e che il partito di Casini, e il Terzo polo in generale, possa compiacersi di vedere riflessi nel discorso di Marcegaglia i cardini di un’analisi proposta dal 2008. Non faziosità, per la presidente di Confindustria, non vuol dire benevolenza per il governo Berlusconi. E nemmeno per il Cavaliere stesso. I due poli, ricorda infatti la Marcegaglia, sono alle prese «con fratture e problemi di leadership personali anteposti al benessere del Paese». Più chiaro di così. Nessuna indulgenza per la maggioranza, le cui difficoltà sono ora «evidenti nel giudizio popolare», né per l’opposizione che «tra spinte antagoniste e frammentazioni è ancora incapace di esprimere un disegno riformista».
scita». Pare semplice contegno neutrale, non un auspicio per la Moratti e il premier. Anche perché, nella parte iniziale dell’intervento, si ricorda piuttosto come Confindustria abbia «incessantemente incalzato la politica sulla priorità della crescita», ricevendo scarse risposte; tanto che gli industriali, aggiunge Marcegaglia, hanno «dovuto prendere atto che le priorità della politica erano altre e diverse». E qui la stoccata a Berlusconi è inflitta senza riserve. D’altronde la presidente di Confindustria non può che rinnovare le richieste
riforma dell’università e il riavvicinamento tra istituti tecnici e imprese. Né glissa, la leader degli industriali, sulle sfide imposte dall’Ue in termini di riduzione della spesa. «Ma tagli di questa entità impongono un ripensamento complessivo della funzione dello Stato, con interventi di qualità per aiutare la crescita». Vuol dire liberalizzazioni e più in generale ridimensionamento «di ciò che lo Stato fa oggi, lasciando più spazio ai privati e al mercato». Perché serve «uno Stato che smetta di fare male il troppo che fa e che invece faccia bene l’essenziale che deve».
Nell’ultima relazione annuale da presidente, la leader degli industriali lancia stoccate ai poli «divisi al loro interno e afflitti da problemi di leadership personali anteposti al bene del Paese». Polemica con Fiat: «Non si decide da soli»
Qualche blanda imputazione di scarsa severità con l’esecutivo (per esempio da parte del pd Ventura) pare aggrapparsi a uno dei passaggi conclusivi della relazione, quello in cui la Marcegaglia dice che se il risultato dei ballottaggi «convincerà governo e maggioranza di avere ancora due anni di lavoro», la loro agenda deve concentrarsi su un’unica priorità», ossia «la cre-
della categoria al governo, e le scandisce bene: «Semplificazioni e liberalizzazioni subito. Infrastrutture subito. Riforma fiscale subito».
Allo stesso Tremonti la lista suonerà problematica. Perché la Marcegaglia non si arrende alle prescrizioni della Corte dei conti (e di fatto condivise dal ministro), ribadendo che «la leva fiscale è un potente incentivo per rilanciare lo sviluppo» e che «per questo la riforma per noi rimane importantissima». Non si tratta solo di «semplificare» e «combattere l’evasione» ma di «ridurre insieme le imposte sulle imprese e sui lavoratori». Non manca un riconoscimento rispetto a quelle risposte che pure l’esecutivo ha saputo dare, per esempio la
un imprenditore di affacciarsi alla politica e i risultati li abbiamo visti. C’è politica e politica, imprenditoria e imprenditoria. Se continuiamo così avremo ulteriori guai».
C’è un ampio capitolo dedicato alla «flessibilità in uscita» e alle proposte di Sacconi per riequilibrare le tutele tra garantiti e giovani. A cui si aggancia la digressione sulle «regole della contrattazione che abbiamo fatto di tutto per ammodernare». Passaggio che a sua volta si intreccia con la posizione molto dura della Marcegaglia sulla vicenda Fiat: «Non pieghiamo le regole della maggioranza per le esigenze di un singolo, è finito il tempo in cui pochi decidevano l’agenda di Confindustria». Persino velenosa, Emma, quando ricorda che lei, come imprenditrice, non ha mai preso un euro di incentivi. E netta nel chiarire che le regole si fanno «senza strappi improvvisi», ma con quelle 150mila imprese che «credono in Confindustria e vogliono continuare a investire in questo Paese». Applausi fragorosi. Di un’intensità inferiore solo a quella registrata quando Emma saluta l’investitura alla Bce di Mario Draghi, lui sì capace di «rendere orgogliosa l’Italia intera».
pagina 4 • 27 maggio 2011
l’approfondimento
Ormai è quasi leggendaria l’idea che il Cavaliere, tra barzellette e affari, non sia stato mai cooptato proprio dai suoi simili
L’esiliato in casa
Ossia Silvio Berlusconi. Che ha cercato di farsi accettare dai “salotti buoni” e anche di governarli (con l’operazione-Geronzi). E ci è riuscito. Ma è durato poco. Ormai è in crisi anche nel suo mondo. Ecco perché di Osvaldo Baldacci divorzio. L’assemblea di Confindustria sancisce con chiarezza e durezza la separazione da Berlusconi. In realtà i due non si sono mai amati, ma hanno piuttosto proceduto per linee parallele, con incroci e divergenze occasionali. Da una parte l’immensa galassia aziendale del premier, dall’altra tutti gli altri. Ma con le elezioni del 2008, precedute dall’ennesimo fallimento del centrosinistra e di Prodi, sembrava che Berlusconi fosse riuscito a riavvicinare a sé, almeno per mancanza di alternativa, il mondo produttivo italiano. L’operazione Geronzi, portato ai vertici in Mediobanca e Generali, sembrava sancire una fase di berlusconismo anche nelle stanze della finanza italiana. Ma ora tutto è venuto meno, e i segni di insofferenza che da Confindustria non sono mai mancati si sono ormai trasformati in palesi indicazioni di sfiducia.
È
Sfiducia, una parola che richiama le vicende dell’autunno
scorso, con i voti in Parlamento. Già allora si era visto che molti dei grandi mondi della società italiana non vedevano troppo male la possibile caduta dell’attuale governo. Almeno questa era l’impressione. Non solo Confindustria, ma anche fette importanti delle realtà sindacali, commerciali, terziarie e religiose non si sarebbero strappate i capelli alla caduta del premier. Ma poi prevalse la paura dell’incertezza e della mancanza di alternativa - tanto più in un periodo che è ancora di forte crisi - e in extremis arrivarono alcuni segnali al benestare di un proseguimento dell’esperienza di governo. All’osservatore esterno la sensazione che arrivò era che le stanze dei bottoni della società civile più che altro provarono a far capire a Berlusconi che la sua esperienza personale andava considerata conclusa, ma che la migliore via di uscita per lui e per tutti sarebbe stata quella di avviare una successione su una linea più moderata e magari più
ampia. Berlusconi non raccolse il messaggio, andò alla prova di forza, guadagnò qualche parlamentare e insieme il timoroso passo indietro apparentemente neutrale delle realtà come Confindustria (era il periodo in cui Berlusconi chiedeva alla Marcegaglia di fare il Ministro per lo Sviluppo Economico e raccoglieva il gelo dell’assemblea degli industriali), ma in realtà bruciava le sue ultime possibilità di riconquistare la fiducia di quei mondi. Con il salvatag-
Il punto cruciale della crisi è stata la prova di forza del 14 dicembre
gio del governo si è giocato le ultime carte, ha avuto qualche mese per dimostrare se una volta scampato il pericolo sarebbe stato in grado di rimboccarsi le maniche per affrontare i problemi del Paese.
Ma per l’ennesima volta non l’ha fatto. Ha preferito arroccarsi sulle sue posizioni, chiuso nelle stanze del potere circondato da fedelissimi e contractors, nominare sottosegretari senza alcuna preoccupazione che possano servire all’azione di governo ma solo alla sua sopravvivenza. Non ha affrontato la crisi, non ha rilanciato lo sviluppo, non ha preso alcuna misura che potesse essere gradita alle realtà produttive italiane. Si è limitato a ripetere i soliti annunci, presentare i soliti piani con relativi proclami. Ma in concreto, nulla. Piuttosto, la guerra ai magistrati, i toni sempre più alti e pesanti contro le opposizioni, la spocchia dell’autosufficienza. Mentre crescevano le sue aziende perso-
nali e i suoi interessi intorno al mondo (e intanto in politica internazionale si facevano le magra figure del rapporto con Gheddafi e delle altre situazione enunciate ad esempio da wikileaks), si arricchivano quelli che stavano alla sua ombra, ma poco o nulla si faceva per il sistema Italia, per le imprese, per le infrastrutture, per lo sviluppo. Paese fermo da dieci anni, ha detto la Marcegaglia, mettendo nel calderone anche la sinistra ma dando un chiaro messaggio a Berlusconi: finora abbiamo sopportato di galleggiare in attesa di qualcosa, ma ora te lo diciamo che sono lustri che non ci convinci e ci meni per l’aia, adesso basta per il presente a anche per il passato. Quando la Marcegaglia ha detto che la Confindustria non è al servizio di un solo socio, beh, forse si riferiva alle polemiche con la Fiat, ma certo la mente va anche al premier-imprendtore. E d’altro canto il ministro per lo Sviluppo Economico Romani, che rappresentando il go-
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Le analisi del voto spesso dimenticano uno dei tratti centrali della crisi meneghina
Non solo due borghesie, la sfida è tra due generazioni Dietro il caso-Milano non c’è solo il risveglio degli ambienti produttivi, ma anche un conflitto tra padri e figli che peserà molto dopo il voto di Giuseppe Baiocchi borghesi di Milano hanno dormito per un bel po’ di tempo. Se adesso si sono svegliati e tornano in campo è un buon segno...». Il commento di Cesare Romiti è significativo per indicare che l’assetto politico della città è tornato in movimento dopo la quiete seguita alla tempesta di Tangentopoli. Ma questo avviene per merito (o colpa) della borghesia meneghina oppure ha motivazioni differenti, magari più informi, sulle quali il ceto dirigente della metropoli cerca di “mettere il cappello”? Il risultato del primo turno delle elezioni comunali è stata una sorpresa per tutti, a cominciare dal clamoroso “flop” interpretativo dei sondaggisti e dei sociologi alla moda. Il sotterraneo sommovimento certificato nelle urne segnala piuttosto un diffuso desiderio di “voltare pagina” del resto comune a tutto il Paese, senza tuttavia lasciar intravedere i possibili autentici “profeti del nuovo”. Se Milano, come sempre, “anticipa”, anticipa anche nell’incertezza e nel sostanziale smarrimento. Che ci fosse nell’aria un profumo (con la “p”rigorosamente minuscola) di cambiamento era probabilmente avvertito: che questo si manifesti e si esaurisca del tutto nell’improvviso innamoramento per Pisapia e nel crudele rigetto della Moratti (azzoppata peraltro dagli errori manicomiali dei suoi presunti sostenitori) appare soltanto una effimera illusione.
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Dopo vent’anni di batoste, la ripresa della sinistra e dei salotti di riferimento è senz’altro una novità: epperò ambigua, incerta e frastagliata. Ne è simbolo la parabola dell’architetto Stefano Boeri, omaggiato da dodicimila preferenze al primo turno. Fino all’altro ieri era infatti tra i professionisti più ascoltati del sindaco Moratti nei progetti per l’Expo 2015; poi, ben sorretto da un ampio battage promozionale, si è candidato nelle primarie del centrosinistra, riportando una bruciante sconfitta ad opera di quello stesso Giuliano Pisapia, del quale appare adesso come fidato luogotenente (o forse “controllore”) come capolista del Pd. Ebbene, la ricca borghesia degli interessi e degli affari, quella in sostanza dei “poteri forti”, non ha partito. Usa quelli che ci sono e negozia, spesso sottobanco, con chi vince le elezioni. Pur di non rimettere in discussione gli eterni privilegi, di tutelare l’immobilità dell’esistente, di non rischiare in competizione aperta con altri soggetti che non siano espressione del solito capitalismo di intrecci e relazioni. Se poi, ad un cambio di giro, ritrova qualcuno a sé più omogeneo e culturalmente più affine, allora può addirittura scendere in campo, anche perché tornano in gioco quei 3 miliardi di euro collegati alla gestione del potere di Palazzo Marino e del reticolo di società partecipate. Con il
nome che porta e i modi affabili di gentiluomo di vecchio stampo, Pisapia è l’uomo ideale, soprattutto per le sue contraddizioni. Infatti l’unico vero “garantista di sinistra”, sorretto dal voto entusiasta delle tribù manettare, servirà poi a mettere un robusto freno alla pervasiva creatività della magistratura. I procuratori ambrosiani avranno nel gioco del potere esaurito la loro utilissima “funzione” con le rivelazioni morbose sui bunga bunga di Arcore. Poi è be-
I «poteri forti» non hanno partito: usano quelli che ci sono e poi negoziano con chi vince ne che rientrino nei confini. Pisapia è altresì il politico laicista dalle posizioni più estreme che misteriosamente convoglia su di sé l’ilare e acritico consenso del ramificato cattolicesimo ambrosiano, che di questi tempi si gode l’ultima ben protetta anarchia, nell’attesa preoccupata di conoscere tra breve il nome del suo prossimo e futuro Arcivescovo.
In questo concorso di circostanze e in queste finestre temporali, la discesa in campo dei maggiorenti meneghini acquista più il sapore di una operazione difensiva (se non gattopardesca) che di un’autentica spinta ad interpretare il nuovo che avanza. Anche perché la tentazione di essere parte attiva dentro il conflitto finisce per aggravare quella frattura con i ceti popolari e la piccola imprenditoria che costituisce da ormai quattro lustri la crisi di Milano. In fondo la fortuna creativa e la crescita del peso anche in-
ternazionale della città è sempre stata storicamente in quel mix originale, in quella operosa sintesi interclassista tra “popolo”e “borghesia”. Che vedeva condiviso l’orgoglio di appartenenza e insieme coltivava una comune responsabilità “civica” nell’essere ognuno partecipe dell’impegno collettivo per una Milano migliore. La sintesi spezzata allora ha visto appunto la borghesia “dormire” acquattata nei suoi interessi e il suo ritorno in campo sembra indirizzarsi più “contro” altri ceti sociali che nello spendersi in un “lavoro di squadra”.
C’è infine un aspetto del tutto assente dalle cronache politiche e tuttavia avvertibile sottotraccia. La discesa nell’agone politico della città e il rinnovato protagonismo, quasi una seconda giovinezza, dei “grandi borghesi”onusti d’anni e di prestigio sta provocando un diffuso malumore nei trenta-quarantenni. Loro, professionisti già affermati, imprenditori innovativi, protagonisti del terziario avanzato e della silenziosa rivoluzione anche informatica che sta cambiando il volto e l’economia della città, si ritrovano un’altra volta sotto il “tappo” dei vecchi. Magari voteranno a sinistra, magari sono ampiamente delusi dal centro-destra, ma stanno temendo che non arrivi mai il loro momento, anche se si sentono la spina dorsale della metropoli. E il conflitto generazionale che fatalmente arriverà a manifestarsi rischia di rendere debole l’assetto istituzionale di Milano, qualunque sia l’esito del ballottaggio. Pur se non vanno in piazza, forse gli “indignados” sono già qua, anche se nessuno se ne è ancora accorto.
verno si è lanciato in una serie di difese d’ufficio e di affermazioni che tutto va bene, implicitamente ha riconosciuto i problemi: «È arrivato il momento di dare ossigeno alle imprese», ha detto, e questo evidentemente vuol dire che prima non è stato fatto. E siccome Berlusconi non è capo del governo da due settimane…
D’altro canto che la crisi ci sia e morda davvero tanto è sotto gli occhi di tutti, e negli ultimi giorni si sono accavallati rapporti nazionali e internazionali che mostrano quanto meno la stagnazione del Paese, che ha sofferto molto la crisi e soprattutto non dà segni che ne sta uscendo. Sì, è riconosciuto che i conti dell’Italia sono stati tenuti abbastanza in ordine, ma con tagli pesanti e non selezionati, e quindi senza alcun investimento sulla crescita. Questo è il punto che ovviamente più interessa gli imprenditori, che hanno pagato prezzi pesanti e ora che in alcuni Paesi si intravede la via d’uscita si accorgono che il sistema Italia non si è attrezzato per rilanciarsi e reggere la concorrenza. A causa di problemi strutturali e dell’incapacità (o mancata volontà d affrontarli) per l’Italia l’uscita dalla crisi internazionale potrebbe addirittura risolversi in un passo indietro piuttosto che in un sollievo. E a chi attribuire questa responsabilità se non alla politica, e di conseguenza al padrone di questa politica? Come tollerare dopo quasi venti anni che si continui a promettere la Salerno-Reggio Calabria, le infrastrutture stradali, portuali, aeroportuali, l’abbassamento delle tasse, il progresso tecnologico, se le stesse persone che governano non l’hanno fatto in tutti questi anni? Se la disoccupazione cresce, i mercati internazionali guardano altrove, e intanto da noi ci si occupa della guerra tra magistratura e politica, delle leggi ad personam, della sopravvivenza a oltranza di sacche di potere, come possono guardare con fiducia al futuro gli imprenditori? Come possono sentirsi rassicurati dalla permanenza al governo di quello stesso gruppo ristretto, sempre più incapace di ascoltare voci nuove, di recepire stimoli riformisti, di assumere iniziative? Chi si occupa dei problemi dell’occupazione, del credito alle imprese, dei rapporti sindacali, del costo dell’energia, della riforma fiscale, della concorrenza internazionale, della infrastrutturazione? Non sorprende quindi che una presidente a fine mandato come la Marcegaglia, ma giovane e combattiva e con un futuro davanti, si sia fatta portavoce dell’aperto scontento che esiste tra gli imprenditori italiani e sia andata oltre i penultimatum troppo spesso ripetuti, rompendo di fatto non il dialogo ma certo i legami con l’attuale governo.
diario
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Crac-Hdc: un anno a Confalonieri
Donna torturata e uccisa nel Milanese
Yara, domani funerali e dna dell’assassino
MILANO. La procura di Milano
MILANO. Il cadavere di una don-
BERGAMO. Il dna dell’assassino
ha chiesto una condanna a un anno di reclusione per Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, accusato di favoreggiamento nell’ambito nel processo per il crac Hdc. Il gruppo Hdc era stato fondato dal sondaggista Luigi Crespi, inventore del «contratto con gli italiani» firmato da Silvio Berlusconi, e poi dichiarato fallito nel marzo 2004, schiacciato da un passivo di 40 milioni di euro. Al termine della requisitoria i pm Laura Pedio e Roberto Pellicano hanno chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Luigi Crespi, fondatore del gruppo Hdc, e pene - tra gli altri - anche per l’ex amministratore delegato della Banca Popolare di Lodi, Gianpiero Fiorani.
na, incaprettato e con segni di tortura è stato scoperto ieri dai carabinieri in un box di un condominio a Cinisello Balsamo. Per l’omicidio è stato fermato Antonio Giordano, muratore di 44 anni che vive a Sesto San Giovanni. Al garage i militari sono arrivati in seguito a una aggressione subita da una prostituta ghanese sabato scorso. Proprio la vittima ha condotto i militari fino a quel complesso di box sotterranei. All’interno del box, insonorizzato, c’era un letto, alcuni mobili, una tv e sul pavimento il corpo della vittima, circa 35 anni, forse romena. Il decesso risale a un paio di giorni prima del ritrovamento, sara’ l’autopsia disposta dal pm a spiegare le cause della morte.
diYara Gambirasio è stato trovato in un lembo di pelle incastrato nell’apparecchio ortodontico della vittima. La soluzione del caso sembra arrivare proprio mentre la bara della piccola 13enne veniva accolta dagli abitanti di Brembate di Sopra. Nella camera ardente il feretro è coperto di rose bianche, calle e il disegno del fratellino che raffigura una bambina in un prato verde. La camera ardente resterà aperta fino alle 20 di oggi. Domattina invece saranno celebrati nella palestra di Brembate i funerali della giovane promessa della ginnastica. La cerimonia sarà celebrata dal vescovo di Bergamo Francesco Beschi, presente anche Don Corinno, il parrocco che da sempre sta accanto alla famiglia della vittima.
Proseguono le proteste a Castellammare e Genova, mentre emergono i gravi ritardi di un governo che lascia affondare le sue stesse navi
Il pasticcio Fincantieri
E il ministro Romani promette in Confindustria: «Ce ne occuperemo» di Francesco Lo Dico
«C’è la necessità di trovare delle ipotesi di riconversione e di ristrutturazione condivise. Sino a quel momento i cantieri non si chiudono»: è questa la promessa fatta ieri dal ministro dello Sviluppo Economico, Romani, sempre più di frequente chiamato in causa per la crisi della cantieristica. Ma per i lavoratori e per i sindacati la convocazione del tavolo per il 3 giugno è troppo lontana
ROMA. Alla fine di alcuni giorni terribili, segnati da blocchi stradali, urla di rabbia, denunce inascoltate e azioni violente, il governo si è finalmente accorto della scure che pende sulla testa di 2251 operai di Fincantieri che da Sestri Ponente a Palermo reclamano un intervento della politica concentrata sui ministeri al Nord e la Gioconda incompiuta di Berlusconi. E come spesso accaduto nel corso della legislatura, è servita la denuncia della Chiesa, e qualche interrogazione parlamentare, perché l’esecutivo si attivasse nel tentativo di scongiurare un ciclopico piano di licenziamenti in un settore, quello cantieristico, che un tempo era strategico per il nostro Paese, e che oggi potrebbe restare la pallida ombra di quello che era stato in passato. E dire che la questione non data certo alle ultime ore. «Come deputato Udc – spiega la centrista Gabriella Mondello – della Liguria mi sono occupata da più di un anno della questione Fincantieri, che ora è arrivata come un fulmine al cel sereno su molti esponenti del governo, ma che già da tempo mi vedeva impegnata a sostegno delle preoccupazioni dei lavoratori».
Nella ricostruzione della Mondello, che ha partecipato ai presidi degli operai liguri nei giorni scorsi, emergono importanti dettagli in grado di fare luce sugli aspetti più scabrosi di quello che si preannuncia come un autentico disastro sociale. Un racconto di cui la deputata centrista ha fatto partecipe anche il ministro dello Sviluppo, Paolo Romani nel corso di un’interrogazione in aula. E che si rivela piuttosto, come la cronaca di una morte annunciata. A partire dallo stesso ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, che da mesi, insieme alle parti sindacali, aveva evidenziato la gravissima crisi in cui versa la cantieristica nazionale. Molto particolare è ad esempio la situazione dello stabilimento di Riva Trigoso: 870 dipendenti diretti, 500 dipendenti delle ditte d’appalto, oltre mille lavoratori dell’indotto. Chiuderlo significhe-
rebbe abbassare il livello occupazionale del Tigullio di un buon 60 per cento. In pratica, un’intera area geografica colpita e affondata. Ma anche un harakiri produttivo, perché a oggi lo stabilimento ligure è uno dei più produttivi di Fincantieri, in quanto assorbe oltre due terzi delle commesse del gruppo. Il piano «lacrime e sangue» studiato da Fincantieri prevede il trasferimento graduale di 500 dipendenti alla Spezia e la produzione limitata alla sola meccanica. Non proprio il core business di Fincantieri. Per molti un’abile mossa a precedere il definitivo smantellamento. E le medesime preoccupazioni e gli stessi gridi d’allarme, si agitano un po’ in tutta Italia, tant’è che il ministro Romani ieri è intervenuto sulla questione in Confindustria. «C’è la necessità di trovare delle
ipotesi di riconversione e di ristrutturazione condivise – ha affermato il ministro – . Sino a quel momento i cantieri non si chiudono».
Romani ha ricordato però «la forte concorrenza della Cina e della Corea, che possono produrre a costi largamente inferiori ai nostri e che hanno il 75 per cento del mercato mondiale. Ragione non sufficiente per mandare in malora un pezzo di industria nazionale di alta tradizione. «La cantieristica deve rimanere una filiera produttiva importante per il nostro Paese – ha spiegato Romani – perché rappresenta un’eccellenza storica del made in Italy. È necessario puntare alla competitività delle aziende per recuperare quote di mercato perdute e salvaguardare la manodo-
pera qualificata». E lo stesso presidente di Finmeccanica, Perluigi Ceccardi, sembra raccogliere positivamente i segnali di dialogo tardivi lanciati dal governo. «Una soluzione va trovata – argomenta Ceccardi –. L’azienda stessa ha ribadito che quanto presentato ai sindacati non è in un’ottica prendere o lasciare. È l’inizio di un percorso che deve portare alla salvezza dell’azienda e va mantenuto nei canali del confronto azienda-sindacato. Senza interferenze improprie».
E in Confindustria si registrano anche le aperture del ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi: «Il piano deve essere negoziato, discusso». «È una situazione – assicura Sacconi – che l’esecutivo segue da tempo con l’azienda e le orga-
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Racket del pizzo: salta in aria il bar Guida di Chiaia, a Napoli
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio
NAPOLI. Grande paura, ieri notte, tra gli abitanti della zona “bene”di Chiaia, a Napoli, a causa dell’esplosione e delle conseguenti fiamme che hanno completamente distrutto il noto bar Guida di via dei Mille, appunto a Chiaia. In molti sono stati svegliati di soprassalto dal rumore sordo della deflagrazione, segno che lo scoppio sarebbe avvenuto dall’interno del locale che ora appare completamente devastato dal rogo. La circostanza dello scoppio, udito nitidamente da moltissime persone nella zona, avvalora l’ipotesi che l’episodio possa essere ricondotto a un atto di natura estorsiva anche se non si escludono altre ipotesi. La struttura mostra enormi crepe sul muro che si affaccia lungo vico Vasto a Chiaia. La facciata del palazzo adiacente il bar, fino al quinto piano, è completamente annerita dai fumi sprigionatisi dalle fiamme. Sopra il locale non ci sono abitazioni e, finora, nessun appartamento risulta essere
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
stato interessato dall’incendio. Il locale è stato sequestrato dalla magistratura competente e sono in corso da parte della polizia indagini per accertare le precise cause dell’incendio. Anche se le autorità competenti mantengono il più stretto riserbo, è molto probabile che si tratti di un caso di «punizione» per il mancato pagamento del pizzo alla camorra, ma quel che colpisce è che è avvenuto nel cuore di uno dei quartieri più ricchi e simbolici della città.
Da sinistra, Paolo Romani, Gabriella Mondello e Marta Vincenzi. A fianco, la Fincantieri di Castellammare
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
nizzazioni sindacali». Ma la data del 3 giugno, giorno fissato per l’incontro tra Finmeccanica, parti sociali e governo, non è dietro l’angolo e la tensione resta alta. «Non siamo noi a mettere pressione al governo – chiarisce la leader di Cgil, Susanna Camusso – è piuttosto il piano aziendale che ha destato nei lavoratori legittime preoccupazioni. Vorrei ricordare che il tavolo è aperto da due anni e non vedo risposte concrete». E sul piede di guerra resta anche Raffaele Bonanni, segretario generale della Cisl che ricorda come «la maggioranza delle azioni Fincantieri sono del governo. Si faccia avanti e ci dica che intenzioni ha sul mantenimento dei siti e per garantire l’occupazione». E in vista del 3 giugno, detta la linea: «Il sindacato non è disposto a sentirsi dire che chiudiamo i siti».
Ma oggi è previsto intanto un altro importante incontro tra i sindacati e il commissario europeo all’Industria, Antonio Tajani, alla ricerca di soluzioni finanziarie comunitarie in grado di stornare il disastro dai cantieri nazionali. «La Commissione europea farà tutto quello che si può fare, rispettando le competenze – fa sapere Tajani –. C’è una strategia comunitaria a sostegno della cantieristica e stiamo lavorando per incrementare il turismo anche crocieristico. In più ci sono i fondi del Fondo sociale europeo che possono essere usati
Mondello (Udc): «Il caso è arrivato sull’esecutivo come un fulmine a ciel sereno. Invece è solo un problema ignorato» in momenti di difficoltà, anche per la riqualificazione degli operai». In notevole ritardo, il governo batte un colpo, e se l’opposizione chiede un anticipo dell’incontro fissato per il 3 giugno, il Pd avvisa in una nota che «non è accettabile la posizione di terzietà dell’esecutivo sul piano di Fincantieri che è controllata dal Tesoro il quale deve indicarne la missione e non limitarsi a commissionare e recepire il piano dell’azienda. Il governo Berlusconi ha ignorato sistematicamente la crisi di Fincantieri segnalata da tempo dal Parlamento, dalle Regioni e dai sindaci dei Comuni che ospitano gli stabilimenti. E anche ieri, non hanno accennato a placarsi le proteste. A Genova, nello stabilimento di Sestri Ponente è stato proclamato uno sciopero di due ore in quanto i lavoratori aveva-
no attaccato i loro striscioni ai cancelli della fabbrica ma le guardie le hanno rimossi. E altre due ore di sciopero sono annunciate oggi nel cantiere genovese, insieme a una manifestazione cui parteciperanno anche i commercianti e i residenti della zona. Sene analoghe a Castellamare di Stabia, dove un folto gruppo di operai si è diretto al santuario di Pompei, sfilando in corteo dinnanzi alle entrate degli scavi archeologici. Giunti sul posto hanno trovato la chiesa chiusa, ma a quel punto hanno costituito un gruppo di preghiera spontaneo invocando l’intervento della Madonna. È tornato invece alla regolare attività il cantiere di Palermo, dopo la manifestazione che aveva paralizzato la circolazione cittadina l’altro ieri. L’incontro promesso per il 3 giugno con il governatore Lombardo ha messo la protesta in stand by, dopo l’allarme di circa duecento licenziamenti previsti dal piano Fincantieri nel cantiere siciliano.
Il caso Fincantieri, insomma, si addensa sul governo come una nuvola sempre più minacciosa, che vede compatte come non mai le parti sociali al di là dei colori di partito. «Quanto sta avvenendo è come la mano di Dio che ci avverte: prepariamoci alla collera dei poveri», ha avvisato monsignor Giancarlo Maria Bregantini. Insieme alle navi di Fincantieri, può affondare lo stesso governo.
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attualità di questo dramma storico, alla prima impressione così fortemente radicato in un tardo medioevo inglese ai tempi della Magna Charta, risiede certamente nel rapporto che in esso si crea fra Potere Temporale e Potere Spirituale. E soprattutto, per noi italiani, il discorso risulta ancor più coinvolgente, dato che il personaggio di volta della vicenda è un nostro concittadino, Pandulfo, ovvero Pandolfo Masca, il legato del Papa di quei tempi. In questa maniera quella che appare una vicenda di guerra e di successione fra le solite Francia e Inghilterra, diviene in realtà motivo di un forte conflitto europeo che investe anche il nostro Paese insieme a Spagna, Germania e Austria, insomma un conflitto europeo ante-litteram.
L’
E fin dall’inizio su tutti domina la grande protagonista femminile, Eleonora d’Aquitania, al tempo 77enne, madre del debole e discusso protagonista, ma anche nonna di quello che sarà il vero eroe del dramma, Filippo Faulconbridge, detto il Bastardo. Il suo aspetto, fiero e deciso, le ricorda più che mai quello dell’altro suo figlio, Riccardo Cuor di Leone, il primo Riccardo della stirpe, la cui ombra sembra dominare nella prima parte del dramma; e in effetti si scoprirà che il Bastardo è proprio figlio di quel grande Re, come sua stessa madre Lady Faulconbridge gli rivela. Il terzo figlio dell’anziana regina, Goffredo, è padre del giovane Principe Arturo, che nel IV atto viene ucciso proprio dal pavido e pusillanime protagonista. Quest’ultimo è senza dubbio un re che mostra una debolezza congenita, quasi che il suo storico appellativo Lackland - Giovanni Senza Terra nella versione italiana - si riverberasse sulle sue azioni politiche: sembra aver ereditato i difetti di Riccardo III, di Enrico IV e di Macbeth (soprattutto quando sobilla il nobile Uberto all’uccisione del suddetto Principe Arturo) senza peraltro averne la grandezza tragica. Non è casuale che nelle primissime battute dell’atto I venga definito dall’ambasciatore francese Chatillon come «maestà in prestito», appellativo che urta immediatamente la regina sua madre. Ma subito si intuisce come, se si è arrivati a tal punto di compromissione con il regno di Francia - e la sarà guerra causata dalla mancanza di accordo politico - c’è a monte qualcosa che non va, una deviazione e una crisi delle stesse prerogative regali e, di conseguenza, politiche. Sotto consiglio del nobile Uberto la guerra si estingue in un solo modo: attraverso un matrimonio d’interesse. Per questo motivo subito dopo quel discutibile e piccolo ac-
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Il conflitto assume contorni così problematici da generare quella che pot cordo si arriva alla denuncia del Bastardo Faulconbridge, che si fa valere in maniera particolare di fronte a Eleonora, la quale sembra volerlo indicare come legittimo erede per una eventuale successione. Il Bastardo, nel momento in cui Giovanni Senza Terra e Filippo Re di Francia si sono accordati attraverso il matrimonio di Bianca di Spagna (nipote di Re Giovanni) con Luigi, Delfino del Re di Francia, sbotta finalmente in un grande monologo in cui prende di mira la sostanziale corruzione e soprattutto opportunismo della società umana: «Interesse! Asse sghembo del mondo! Il mondo, che di suo sarebbe equilibrato e fatto per andare liscio e dritto per la sua via, è deviato dall’Interesse». Tuttavia il Bastardo non è un ingenuo e, per conseguire le proprie mire, si rende conto che c’è una sola strada: «Finché si vedono i re rimangiarsi parole e giuramenti per l’Interesse, sii tu, sir Interesse, guadagno, il mio re: voglio adorare te solo». Non è una constatazione lontana dalla risoluzione del più celebre monologo di Amleto: «Così le imprese di più grande rilievo e momento, sono deviate dal loro corso naturale, e perdono il nome di azione». In ogni caso il mondo è “deviato”, fuori dal suo asse: ma il Bastardo anticipa Amleto nelle conclusioni peggiori; è infatti proprio la crisi dell’essere che si manifesta nella parola “interesse”, che in teoria presuppone etimologicamente un “trovarsi dentro l’essere”, in uno spazio che dovrebbe spingere l’uomo verso una riflessione - ma anche un’azione - per esso e attraverso di esso. L’Interesse è dunque il principale avversario di quella stessa parola, e su
Nel dramma «Re Giovanni» di Shakespeare, tra intrighi, e ricatti, il legato di papa Innocenzo, diviene simbolo della lotta tra potere spirituale e temporale Un’illustrazione della rappresentazione del “Re Giovanni” di Shakespeare al Druylane Theatre. Sotto, un arazzo che raffigura il re. Nella pagina a fianco, vecchie edizioni de “I racconti” del Bardo e del suo dramma storico “Re Giovanni”
L’attualissimo caso
di Franco pre più deviato da questioni prettamente economiche: «Economia, Orazio, economia»; così risponde Amleto sconsolato ad Orazio nella prima scena, quando il suo amico gli fa notare come le nozze della
teresse: il tentativo, più volte riuscito da parte della società umana, di abusare economicamente dell’essere stesso. «Comprare l’essere», questa è l’apologia del Bastardo nel Re Giovanni, che anticipa in questa maniera non soltanto il concetto di Dio-Denaro dei nostri giorni, ma quella che si potrebbe definire senza troppe difficoltà epoca eco-
Su tutti domina la grande donna Eleonora d’Aquitania, madre del protagonista e nonna del vero eroe: Filippo Faulconbridge detto il Bastardo
cui Amleto fonderà la sua più grande e filosofica interrogazione: la questione dell’essere. L’interesse è proprio lo “scadere dell’essere” nel mondo, sem-
madre con suo zio siano seguite molto in fretta rispetto al funerale di suo padre. Non c’è niente da fare, sbotta Amleto, «l’arrosto del banchetto funebre servito freddo al pranzo di nozze». L’economia è il vero o presunto motore del mondo, quindi il suo primo interesse. Ma proprio nel grande monologo del Bastardo si intuisce questo “scadere dell’essere” nell’In-
nomica, l’epoca in cui viviamo, l’epoca in cui come dice la «vecchia signora» di Duerrenmatt «tutto si compra».
In tal senso il Re Giovanni shakespeariano è il testo che meglio anticipa non soltanto la nostra epoca di economia mondiale, ma ancor più di contraffazione dell’essere nell’avere, come nelle suggestive pagine di Erich Fromm. E se il Bastardo nel I atto afferma che in ogni caso, abbia quello che egli abbia, lui è comunque «quello che è» (I am what I
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tremmo definire la prima guerra europea ante-litteram
di Pandolfo Masca
o Ricordi am), è evidente come il problema dell’essere, tanto decantato in Shakespeare e non soltanto da Amleto ma praticamente da tutti i suoi più grandi eroi, venga qui preso di mira attraverso una delle sue maggiori mistificazioni: ciò che dovrebbe “interessarci”, quindi avvicinarci alla questione del nostro essere proprio perché siamo “dentro l’essere”- questa l’etimologia della parola “interesse”- si risolve in realtà in una alienazione dell’essere nella sua possibilità dei “nostri comodi”, “commodity” è la parola utilizzata da Shakespeare per indicare questo «asse sghembo del mondo». E in questa maniera si muovono o si interrompono le guerre, o anche le “grandi imprese” di cui parla Amleto, proprio per lasciare spazio a questa «risoluzione d’interesse». E così avviene alla fine del II atto, quando con il matrimonio suddetto si riesce per lo meno a trovare un pusillanime accordo: quello che si può definire vero e proprio
tefice delle nozze è sempre lei, la vecchia Eleonora d’Aquitania, e chi più ne risentirà sarà proprio Lady Costanza, madre del povero Arturo già predestinato a morte.Tuttavia, e qui l’ulteriore colpo d’ala del nostro grande Autore, ecco che subentra un ulteriore elemento storico, quello che ai nostri giorni è stato definito come «l’entrata in politica di Dio». Arriva il legato di Papa Innocenzo, Pandulfo, dalla sua bella Milano: il Re d’Inghilterra Giovanni non cede alle richieste, e in men che non si dica viene scomunicato e maledetto dall’Alto Prelato. A quel
Il re sembra aver ereditato i difetti di Riccardo III, di Enrico IV e di Macbeth (soprattutto quando sobilla Uberto all’uccisione del Principe Arturo) senza per altro averne la grandezza tragica “matrimonio d’interesse”, che non riguarda soltanto le altezze reali come nel caso, ma tante altre situazioni che tutti ben conosciamo. Certo, la principale ar-
punto il Re Filippo di Francia, che si è appena legato all’Inghilterra con il suddetto impegno di nozze, è costretto a tirarsi indietro, pena la scomunica anche
per lui. Chi più se ne dorrà sarà propria la giovane Bianca di Spagna, ma anche il suo promesso sposo Delfino di Francia si sottometterà in maniera quasi infantile ai voleri di Pandulfo, quasi un Grande Inquisitore, e il III atto si conclude con una battuta alquanto laconica: «Andiamo», dice il Delfino a Pandulfo, «se voi direte sì, il Re non dirà no». E anche se nella seconda scena dell’atto V il legato pontificio sembra soccombere all’irruenza dell’ultimo confronto fra il Bastardo e il Delfino di Francia, alla fine apparirà chiaro come l’ultima risoluzione per una pace accettabile sarà escogitata da lui, come chiarisce Salisbury nell’ultima scena. Pandulfo sarà in grado di far cambiare idea a Re Giovanni, che peraltro sarà abbandonato dai suoi stessi sostenitori e, alla fine, lentamente ma inesorabilmente ucciso da un non meglio identificato avvelenamento. Insomma, una volta consumatasi tragicamente la fine del Principe Arturo, e dopo che lo stesso Re Giovanni si vede costretto ad abdicare in favore di suo figlio Enrico, il Bastardo assume il comando delle milizie inglesi che, almeno apparentemente, non si arrendono al volere della Chiesa di Roma. Ma in tal senso non si può dire che l’Inghilterra ne esca molto glorificata, anche se qualcuno ha voluto vedere nel dramma un orgoglio nazionalistico.
In realtà Shakespeare non sarà mai troppo propenso ad esaltare i cattivi rapporti fra l’Inghilterra e la Chiesa di Roma, e sembra anzi che questo dramma si ponga come una sua prima forte perplessità nel merito. La fine di Re Giovanni è abbastanza ingloriosa, e proprio nel giorno dell’Ascensione il Cardinale Pandulfo riesce a sistemare le cose come vorrebbe: la guerra viene in qualche maniera evitata, e anche se il Bastardo conclude il dramma ergendosi ad esaltare la sua nazione con la battuta: «Niente ci potrà mai fare danno se l’Inghilterra resterà fedele a sé stessa», in realtà si avverte anche troppo bene come la partita venga sovrastata dalla mano determinante della politica romana. E che comunque l’Inghilterra non è destinata a trarne grandi benefici, se si pensa all’ultimo dramma di Shakespeare su Enrico VIII, e alla maniera rozza e screditante in cui ancor oggi questo re viene considerato. Così Re Giovanni, il primo re shakespeariano in ordine storico, sembra anticipare direttamente l’ultimo. Entrambi si ribelleranno, ma in maniera assai goffa e priva di forza politica, alla Chiesa di Roma. E ne pagheranno uno scotto assai caro, rimanendo due re assai discutibili e discussi.
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la crisi in medioriente
Dopo l’incontro Obama-Medvedev un’altra figuraccia di Berlusconi, che al leader Usa parla di “dittatura dei giudici in Italia”
Marshall leader del G8
I leader delle nazioni più sviluppate si accordano per dare subito sostegno economico e politico alla democrazia nei Paesi arabi L’arrivo dei leader mondiali delle otto nazioni più sviluppate a Deauville, in Normandia. Da sinistra il presidente americano Obama; quello russo Medvedev; la Cancelliera tedesca Angela Merkel; il padrone di casa Sarkozy e il primo ministro giapponese Naoto Kan. Proprio al Paese del Sol Levante è stato indirizzato il primo saluto del G8: i capi di Stato e di governo hanno espresso “solidarietà” al Paese colpito da terremoto e tsunami n pacchetto di aiuti alla primavera araba per miliardi di dollari – in prestiti, linee di credito e contratti commerciali – è la strada che il G8 riunito a Deauville ha scelto per sostenere la “primavera araba” in corso in Medioriente e Africa settentrionale. Ovviamente, questo sostegno sarà gestito e organizzato dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale che però, ad oggi, non ha ancora un direttore. E sembra essere molto lontano dalla selezione del successore di Dominique Strauss-Khan, che si sta godendo un arresto ai domiciliari dal valore di 50mila dollari al mese.
U
I due giorni di incontro degli otto leader delle nazioni più sviluppate del mondo serviranno però anche per mettere sotto la lente di ingrandimento la crisi nucleare giapponese, gli immarcescibili cambiamenti climatici e lo stato dell’economia mondiale. Ma ieri Sarkozy – che detiene la presidenza di questo incontro – ha voluto dare il proprio tocco personale all’incontro e ha fatto parlare davanti ai leader mondiali il presidente di Google Eric Schmidt e il fondatore di Facebook Mark Zuckerberg. La novità nasce direttamente dai due giorni di incontri a Parigi su internet, la sua regolamentazione e la nuova
di Vincenzo Faccioli Pintozzi economia che l’Eliseo ha voluto fortemente organizzato. Ennesima figuraccia invece per l’Italia, con il presidente del Consiglio Berlusconi che “placca” Obama per parlare della «dittatura dei giudici di sinistra in Italia». «L’Europa ha fatto molto in risposta alla crisi economica, ma si attraversano ancora momenti difficili e l’accento dovrà essere messo su riforme dure ma necessarie per una crescita sostenibile» ha affermato il presidente del Consiglio euro-
ca» in Nord Africa e Medio Oriente, l’ex premier belga ha detto che «dobbiamo sostenere le aspirazioni democratiche nella regione». Sulla crisi libica Van Rompuy ha ricordato che «Gheddafi deve andarsene». «Domani io e il presidente della Commissione europea Barroso incontreremo in modo bilaterale i leader di Libia e Egitto per capire come meglio aiutare questi Paesi», che hanno abbracciato la transizione pacifica e democratica.
Verranno finanziati i nuovi governi di Tunisia ed Egitto, che chiedono 15 miliardi di dollari. La Banca mondiale e il Fondo monetario pronti a fornirne circa 10, mentre l’America si impegna per altri due e l’Europa (al solito) si spacca sulle modalità peo, Herman Van Rompuy, nel suo intervento di apertura insieme al presidente della Commissione Ue, Jose Manuel Barroso. «Secondo le ultime cifre - ha ricordato - Eurolandia dovrebbe crescere del due per cento quest’anno grazie a una ripresa alimentata dagli investimenti e in misura minore dal consumo privato. Il deficit delle partite correnti è in diminuzione così come il debito pubblico». Quanto alla «rivoluzione stori-
Tornando a problemi un pochino più complessi, gli otto grandi hanno deciso di concentrare la prima tranche di aiuti su Egitto e Tunisia. Una road map che, tra l’altro, il presidente Obama aveva già indicato durante il suo discorso al mondo arabo della scorsa settimana e che risolve l’annoso dilemma su “chi” aiutare durante le rivoluzioni in corso. Problema che per il Cairo e Tunisi non si pone, dato che al momento in quelle ca-
pitali opera un governo legittimo ancorché provvisorio. Le due nazioni, dopo la caduta di Mubarak e Ben Ali, hanno subito un crollo nel settore turistico e un rallentamento pauroso nel campo degli investimenti stranieri. Se a questi problemi si aggiunge la devastante disoccupazione giovanile che sta incidendo sui due Paesi si raggiunge un mix esplosivo non soltanto per le nazioni in sé, ma per l’area tutta.
Questi ingredienti sono infatti il brodo di coltura in cui l’islam radicale pesca meglio e meglio si moltiplica: nessuno è migliore, come potenziale attentatore suicida, di un giovane arrabbiato, senza lavoro e che non creda più in alcuna istituzione che non sia di tipo religioso. Sia Tunisia che Egitto denunciano un ammanco di 15 miliardi di dollari e i loro primi ministri erano presenti alla sessione francese. Il presidente della Banca mondiale Robert Zoellick ha già dichiarato che, da parte sua, sta lavorando a un aiuto da 6 miliardi di dollari; il Fondo monetario, per bocca di un portavoce, ha confermato di essere anche lui al lavoro. Gli Stati Uniti hanno già fissato in due miliardi il loro apporto, mentre, come al solito, l’Europa si è spaccata. La baronessa Ashton, che rappresenta l’Unione europea per quanto
la crisi in medioriente arack Obama lancia un nuovo Piano Marshall per il Medioriente, ma non spiega come funzionerà. I valori dell’Occidente rimangono un faro anche per la Primavera araba che continuerebbe a guardarci cercando appoggio e sostegno. Ma è proprio vero che gli Usa e l’Occidente siano ancora così determinanti per il futuro di quella complessa regione del mondo? L’abbiamo chiesto a Karim Mezran, direttore del Centro studi americani di Roma e membro autorevole dell’Institute for global studies. «La primavera araba ha bisogno dell’Occidente, perché è stato l’Occidente ad ostacolarla, sostenendo per decenni le dittature. È ovvio che se i Paesi occidentali cessano di sostenere dittature e regimi autoritari diventa più facile che le rivolte o semplicemente le richieste per maggiori libertà abbiamo ascolto. Non c’è dubbio che l’Occidente abbia ancora molto peso su questi Paesi». Ma oltre a non intervenire più nella maniera sbagliata l’Occidente – termine generico con cui potremmo definire l’America, e in qualche occasione con l’aggiunta dell’Europa – cosa potrebbe fare di attivamente positivo?
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«La politica precedente appoggiava “i figli di buona donna” che in quanto “nostri” andavano difesi a tutti i costi. Oggi Obama ha fatto capire, almeno parzialmente, che l’appoggio americano e occidentale è vincolato quanto meno a una parvenza di good governance. Quando un dittatore è costretto a ricorrere alla forza per reprimere legittime richieste popolari ”noi non lo sosteniamo più”. È un messaggio che viene lanciato anche verso le masse, per dirgli“siamo al vostro fianco”. Secondo me è sbagliato collegare il discorso di Obama del Cairo alle rivolte. Ma le giovani generazioni si ri-
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Per Karim Mezran del Centro studi americani «la partita è tutta da giocare»
«Ma dare ora i soldi è prematuro» «Molti dittatori sono ancora al potere, è rischioso mandare aiuti subito» di Pierre Chiartano bellano, sapendo che l’America può essere quantomeno moralmente al loro fianco». Vedremo se c’è ancora benzina per spingere l’onda della rivolta.Vista la resistenza del regime in Siria, come in Libia o l’atteggiamento omertoso di Paesi come la Turchia, dove vengono censurate le notizie che arrivano dal vicino siriano. «La Turchia essendo un confinante si muove con estrema cautela. Spesso da noi si insegnava quanto fossero robusti e forti i regimi autoritari.Tra potere economico e efficienza dell’apparato repressivo, abbiamo sempre concluso che non ci sarebbe stato spazio per le rivolte. Oggi questo spazio si è creato, anche se le ribellioni hanno dei nemici formidabili. Anche il movimento siriano non può pensare di poter rovesciare a breve il regime degli Assad. Servirà più tempo e il movimento dovrà allargarsi. Ma questi regime hanno del consenso tra le minoranze, perché hanno tutelato quelle religiose ed etniche. Anche in Siria la rivolta coinvolge il 50 forse il 60 per cento della popolazione, il resto rimane fedele al regime. In Egitto c’è ancora un grande consenso intorno al potere, sono alcuni settori della popolazione che si ribellano. Il resto è
riguarda la politica estera e la sicurezza, ha dichiarato che al budget “di vicinato” – i soldi che Bruxelles mette da parte per le crisi politiche – saranno aggiunti 1,24 miliardi di euro. Il fondo è al momento fissato a 5,7 miliardi di euro per il biennio 2011-2013.
Questa posizione non è piaciuta ad alcune nazioni europee, Francia e Italia in primis, che vogliono prima una revisione del sistema di bilancio. Cameron, da parte sua, ha dichiarato che “preferirebbe” concentrarsi sul sostegno politico e finanziario alla “primavera araba”, piuttosto che preoccuparsi del lato commerciale ed economico. In ogni caso, del tema si è parlato nel corso di una cena
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I rivoltosi in piazza hanno bisogno di Europa e Stati Uniti: sono stati loro a ostacolarli, sostenendo per decenni le dittature repressive contento di come vive, perché non ha mai conosciuto alternative. Guardiamo alla vicenda libica ad esempio. In Europa tutti sono contro Gheddafi, ma lì il colonnello è ancora appoggiato. La Tunisia è stata un’eccezione. In Egitto il forte intervento americano ha aiutato l’esito finale, ma negli altri Paesi la partita va giocata». E dovremo vedere anche quanto l’anima “laica” di queste rivolte rimarrà tale.
«Col tempo la migliore organizzazione e la superiore consistenza numerica degli islamisti avrà un ruolo. Non credo a
informale presso “Le Ciro’s”, dove Sarkozy e la moglie Carla Bruni hanno accolto gli ospiti. Oggi si dovrebbe conoscere tutto il piano, dettagli compresi, dell’intervento verso la primavera. Sempre che i leader abbiano mangiato bene e decidano dunque di essere un poco più pragmatici del solito. Gli aiuti umanitari all’Africa, che un tempo erano il leit-motiv di tutti questi incontri internazionali, sono invece scivolati verso la fine dell’agenda. Anche perché da questi summit difficilmente il Continente nero ottiene qualcosa in più delle belle parole di prammatica e delle promesse solenni. La situazione probabilmente più spinosa, la situazione della missione militare in Libia, è stata tenu-
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una rivolta religiosa, ma al loro ruolo quando si tratterà di gestire il potere: quando si voterà per elezioni politiche o per i referendum ». Obama è arrivato in Europa sperando anche di recuperare un oboloe appoggi per il suo Piano Marshall mediorientale. «La parola tecnicamente non esiste. Cos’è un Piano Marshall? Distribuiranno soldi alle dittature? Perché questo accadrebbe, poiché non ci sono stati ancora dei cambi di regime. Se do soldi all’Egitto, li do a una persona che era il vice di Mubarak. Cosa è cambiato? Chi li investe? Sa-
ta anch’essa sottotraccia. Un omaggio alla presenza di Medvedev, sicuramente, ma anche alla posizione tedesca: Mosca si è opposta apertamente all’imposizione di una “no-fly zone” sul Paese, mentre Berlino è stato quanto meno ambivalente. Fra gli “omaggi” tributati dall’ospite francese al leader del Cremlino anche una succosa vendita di portaelicotteri da guerra: quattro Mistral francesi da appena 400 milioni di euro l’uno. La firma, ha detto Sarkozy, «è praticamente una formalità». Ma la vendita, la maggiore acquisizione di armi estere da parte di Mosca sin dai tempi della caduta dell’Unione sovietica, ha fatto storcere il naso agli alleati della Nato e ai vicini della Russia, che temo-
rebbe una pioggia di denaro ai regimi che servirebbe solo a ristabilizzarli». Un’idea simbolica il cui effetto pratico non è chiaro per il direttore del Csa. «Soldi ne stanno già dando, e parliamo di miliardi di dollari. In che modo certi investimenti potrebbero aiutare la democrazia, se li consegno a Tantawi e ai militari egiziani?». Intanto un’altro regime autocratico, quello dei mullah di Teheran cerca di sopravvivere, continuando a tessere la tela dei propri interessi in tutta la regione. Interessi imperiali sugli Stati del Golfo e il segreto obiettivo di rovesciare la dinastia dei Saud alla guida del mondo sunnita.
«L’Iran è oggi ripiegato su stesso eroso dalla lotta interna tra Ahmadinejad e la guida suprema Khamenei. Hanno dei complicatissimi equilibri interni che non gli danno la forza per poter agire all’esterno in maniera così incisiva. Hanno sostenuto, giusto verbalmente, la rivolta in Bahrein e là si sono fermati. In Iraq hanno problemi, perché da quelle parti non sono tanto contenti di averli come vicini. Per me l’Iran è un pericolo sovrastimato. Controlleranno anche l regione di Bassora ma…». Certamente Teheran oggi fa meno paura di un tempo e forse potrebbe diventare un elemento positivo per la stabilizzazione della regione. «L’Iran andrebbe cooptato in un gioco geostrategico per gli equilibri regionali. Attualmente è destinato a rimanere un attore marginale: gli Usa non lo vogliono come interlocutore e Israele ne ha fatto un nemico per eccelenza…». Proprio da queste colonne Edward Luttwak, politologo statunitense, affermava che tra Iran e Israele non ci sarebbe un vero conflitto d’interesse, ma che fosse Teheran a usare strumentalemente l’odio verso lo Stato ebraico per accreditarsi nel mondo sunnita, altrimenti ostile alla cultura sciita. «Non è un’analisi sbagliata. È vero, sono d’accordo con Luttwak».
no più di ogni altra cosa il riarmo russo. I canadesi hanno invece spinto per parlare del vero convitato di pietra non soltanto a Deauville, ma praticamente in tutti gli incontri ad alto livello della diplomazia: la crisi del debito sovrano.
Il G20 di Toronto ha firmato un impegno non vincolante per rivedere i deficit di budget di tutti gli Stati membri entro il 2013 e poi di nuovo nel 2016. Ma questo impegno – al di là della “non vincolabilità”– è praticamente inutile se i leader non decidono una strategia comune per rilanciare le economie in difficoltà e puntellare quelle leggermente più solide. Passi che la diplomazia difficilmente deciderà di affrontare.
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la crisi in medioriente
La battaglia è fatta di cimici, pedinamenti e furti reciproci. Sono finiti persino i dollari messi da parte con la vendita del petrolio
Iran, ultimo round
Ahmadinejad e Khamenei sono sempre più impegnati in una lotta senza quartiere, una spirale di violenza e spie che ha coinvolto l’intera dirigenza iraniana. Intanto la popolazione muore di fame e i mullah creano l’atomica l popolo di Ahmadinejad e quello di Khamenei stanno combattendo nelle strade di Tehran. È l’ultima fase di quella che io chiamo “Guerra della Successione Persiana”, un’orribile lotta per affermare la prossima Guida Suprema dell’Iran dopo il passaggio di Khamenei. Non dimentichiamo che Mousavi – il leader del Movimento Verde, che gioca un ruolo fondamentale in questa partita – ha disegnato una strategia che potrebbe portare all’implosione del regime, non ad un rovesciamento a seguito di un terribile scontro. Mousavi crede che i conflitti interni siano tanto gravi che se solo si manterrà questa pressione, allora il sistema crollerà. Sperava che la pressione venisse dall’Occidente, ma così non è stato (anche se le sanzioni hanno reso la vita più difficile). Quindi il processo è più lento di quanto poteva essere, ma sta procedendo comunque lungo le linee disegnate. Credo che sia improbabile che una “fazione” possa prevalere definitivamente sul-
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di Michael Ledeen l’altra. Il leader e il presidente sono gemelli siamesi, incollati per una parte vitale delle loro anatomie, una separazione potrebbe essere fatale per entrambi. I Verdi hanno reso noto un lungo rapporto su queste pratiche, e sui loschi traffici che le parti in causa stanno esercitando vicendevolmente.
È spettacolare: «A seguito delle critiche clericali al comportamento e di Ahmadinejad e alle politiche del suo governo, i sostenitori di Ahmadinejad hanno messo sotto pressione i teologi per mezzo del Direttorato di Controspionaggio delle Guardie della Rivoluzione… installando cimici nelle loro classi e nei loro uffici, hanno cercato di costringerli a collaborare con il governo e ad approvare le iniziative di Ahmadinejad. In risposta, alcuni teologi hanno minacciato di reagire e di rimettere il governo al suo posto, il che ha portato le Guardie a stanziare delle unità di forza speciali a
Qum per reprimere qualsiasi imprevedibile sommossa». Oppure: «Dopo la decisione dell’Ufficio della Guida Suprema di trasferire la maggior parte dei ricavi dal petrolio in un contro speciale controllato da un gruppo di tre guidati da Mojtaba Khamenei, Ahmadinejad ha approfittato della prima sessione di gabinetto successiva a questa decisione per attaccare Mr. Khamenei e il suo entourage. Ahmadinejad ha definito la
I debiti di Stato sono saliti al 35% in pochi mesi: la protesta civile cresce ogni ora
Guida Suprema “ignorante e strumentalizzato”». Ancora: «Recentemente Ahmadinejad ha mandato al Ministro per l’Intelligence Heydar Moslehi i nomi dei quarantacinque alti ufficiali del Ministro dell’Intelligence chiedendo le loro dimissioni. Ahmadinejad ha anche detto che, secondo le indagini, questi individui non avrebbero dimostrato la necessaria fedeltà al gabinetto e devono quindi essere sostituiti con un numero di
individui prossimamente nominati dal gabinetto. Nel suo rapporto a Khamenei, Moslahi ha definito “l’accettazione di questa richiesta” come un “colpo grave al corpo del Ministero dell’Intelligence”». Oppure: «Nel documento di Moslehi si fa anche riferimento al ritrovamento di diverse microspie a seguito di intercettazioni nel ministero da parte di membri delle unità di controspionaggio delle Guardie della Rivoluzione. Anche l’Ufficio della Guida Suprema sarebbe sotto intercettazioni».
«A febbraio un gruppo di ufficiali di sicurezza interna vicini ad Ahmadinejad si è recato a Dubai per affari. Hanno incontrato anche due autorità politiche e militari americane negli Emirati Uniti Arabi. Nel documento, il ministro dell’Intelligence ha fortemente avvisato la Guida delle conseguenze di simili atti». Infine: «Il ministero delle Industrie ha raccontato in parlamento in un documento riservato che non è in grado di
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L’ordigno era piazzato nel quartiere turco dello shopping. Il 12 si vota
Yemen e Turchia, esplode la violenza Innestati dalla primavera araba, gli scontri di piazza si moltiplicano a Sana’a. E a Istanbul scoppia una bomba di Antonio Picasso a primavera araba, o più in generale le rivolte del Medioriente allargato, sono cadenzate ormai da violenze e attentati. Ne sono stati testimoni, ieri, la Turchia e lo Yemen, realtà lontane dal cuore della Mezzaluna fertile e dal Nord Africa, ma comunque coinvolte nell’ondata di squilibri socio-politici della regione. L’attentato che ha colpito il quartiere dello shopping Akmerkez di Istanbul cerca di suscitare panico in un contesto anatolico già teso a causa delle elezioni parlamentari, fissate il 12 giugno prossimo. Per quanto il numero delle vittime risulti contenuto, otto feriti di cui fortunatamente solo uno è grave, bisogna ragionare sulla tempistica e sulla scelta dell’obiettivo. L’attacco è stato perpetrato facendo ricordo a una bicicletta elettrica, caricata di esplosivo. L’ordigno era piazzato appena fuori il commissariato di Polizia. La scelta del quartiere e del target fa pensare che i responsabili – dalle autorità non ancora identificati, ma la stampa si è già esposta puntando il faro sui curdi – intendessero diffondere paura presso la middle class di una città sempre più in fase di sviluppo economico e, al tempo stesso, colpire le istituzioni. Il fatto che non si sia ricorso ad attentatori suicidi potrebbe escludere la pista di al-Qaeda. L’organizzazione, infatti, si era fatta viva in città solo alla fine dell’ottobre scorso. L’episodio aveva causato la morte dell’esecutore materiale dell’attacco e il ferimento di 32 persone. Ma per focalizzare a tutti gli effetti la firma di al-Qaeda bisogna risalire addirittura al 2003. Ben più probabile, a questo punto, la pista curda. Così è stato il 5 giugno dello scorso anno (5 morti) e il 28 luglio 2008 (17 morti). In entrambi i casi, gli inquirenti hanno attribuito le operazioni ai Tak, Falchi per la libertà del Kurdistan, gruppo affiliato al Partito comunista curdo (Pkk), celebre in passato per la linea terroristica adottata nel perseguire la causa di indipendenza del suo popolo. Entrambi i soggetti, recentemente, hanno alzato nuovamente la testa. In vista del voto, il sud-est del Paese è tornato a essere il fronte di un conflitto a bassa intensità. All’inizio della settimana, a Sirnak, città prossima al confine iracheno, la polizia ha trovato 45 chili di esplosivo su una strada dove sarebbe passato poche ore dopo il premier Recep Tayyip Erdogan. Ancora, all’inizio del mese, un commando dei Tak aveva assaltato un
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convoglio su cui viaggiavano alcuni dirigenti dell’Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo, movimento di maggioranza, guidato dal premier e che tenderebbe a vincere le elezioni.
Nella sparatoria era morto un agente. Dall’intercettazione di alcuni messaggi radio, è emerso che proprio l’Akp resta «l’obiettivo principale» di questa nuova insorgenza terroristica. Motivo: il suo orientamento islamico-moderato, ma soprattutto la fermezza adottata nel reprimere le istanze autonomistiche curde. Come detto, la Turchia non rientra nel quadrante infuocato delle rivolte mediorientali. La sicurezza delle istituzioni è dettata da un’economia crescente, dalla normalizzazione in senso democratico della vita politica e infine dalla posizione strategica del Paese in termini geopolitici. La membership nella Nato, l’integrazione europea e il ruolo di interlocutore con il mondo islamico (con l’Iran soprattutto) sono per Ankara i contrafforti a qualsiasi fenomeno destabilizzante. D’altra parte, non è facile nascondere le derive di criticità che indeboliscono Erdogan. Per quanto lanciato a rete nella tornata elettorale, il governo deve gestire la forte opposizione di alcuni nuclei delle Forze armate, probabilmente collusi con gli indipendentisti curdi. È una versione anatolica della strategia della tensione, la cui forza affonda nella strumentalizzazione della instabilità di tutto il Medioriente. Quando è una macroarea a rischio cedimento, anche le realtà di dimensione localistica trovano spazio per farsi sentire. Lo stesso dicasi nel lontano Yemen. In uno dei Paesi più poveri del pianeta, l’onda lunga della rivoluzione dei gelsomini ha innescato una guerra civile ufficialmente non dichiarata. Ieri, si sono contate altre decine di morti a causa delle sparatorie che hanno infiammato la capitale, Sana’a. Il presidente Ali Abdullah Saleh non intende farsi da parte. Nel frattempo dai contrasti tribali è previsto che si arriverà a una nuova separazione in due del Paese. Com’era ai tempi della guerra fredda. Il tutto a causa della primavera araba. Pur essendo tutto estraneo al desiderio di cambiamento nutrito dai giovani del Cairo o di Damasco.
Otto feriti, di cui solo uno in gravi condizioni. Mentre Saleh manda i soldati: almeno 50 vittime
spiegare gli accordi petroliferi e industriali tra Iran e Cina e tra Iran e Malesia e che non è al corrente del loro contenuto. Il Ministro delle Industrie ha anche dichiarato di non aver svolto alcun ruolo in queste attività. Dopo che il documento è stato reso pubblico in parlamento, Ahmadinejad ha sarcasticamente detto al Ministro dell’Industria ‘Ecco perché abbiamo deciso di eliminare il Ministero dell’Industria».
L’intero affare gas e petrolio del Paese adesso è nelle mani del figlio di Khamenei. Non ci sono distrazioni da parte del “governo” e quando i deputati nell’Assemblea Nazionale hanno tentato un piccolo stanziamento di fondi, hanno scoperto che il barile era vuoto: il 18 marzo il canale Iranchannel ha riferito che i mullah in Parlamento avevano scoperto un buco di 11 miliardi di dollari nel fondo di petrodollari controllato dallo Stato sul conto di scambio estero dell’Iran. Il 29 aprile il sito Asriran.com ha riportato che un membro del Parlamento aveva dichiarato che in quel conto non era rimasto nemmeno un dollaro. Non sorprende quindi che da marzo non siano riusciti ancora ad approvare il bilancio annuale. Ci sono diversi racconti sull’eventualità che i sussidi alimentari vengano estesi, cancellati, ridotti o aumentati. Le cifre che abbiamo sull’economia sono incredibilmente negative. Il debito bancario del governo è salito al 35% negli ultimi 9 mesi, la disoccupazione sale, le proteste sindacali stanno crescendo. In verità, oltre a rubare, l’unica cosa di cui è ancora capace questo regime è torturare e uccidere. Ci sono molte testimonianze sul coinvolgimento iraniano nel massacro in Siria, più recentemente una storia – di cui ho avuto conferma – secondo cui Khamenei ha ordinato all’esercito con base in Iraq “Sadr Army” di mandare migliaia di sicari in Siria per salvare il regime di Assad. Racconti precedenti riferiscono del doppio gioco di alcuni sicari di Hezbollah nelle città siriane e di ufficiali delle Guardie della Rivoluzione che agivano come comandanti in campo e come consiglieri a Damasco. Il male che sta affliggendo il popolo iraniano continua senza sosta. Ecco una recente lettera da un prigioniero che ci fa capire quanto siano terribili le prigioni: «Quello che succede dietro alle mura di questa prigione è indescrivibile e impossibile da raccontare! Finché non sono stato costretto a viverlo, mai nella mia vita avevo vissuto una simile esperienza, leggerne o ascoltarne non ha niente a che vedere con la realtà. Questa prigione non è mai stata ritratta in alcun film o in alcun libro. Per
me era inconcepibile che potesse addirittura esistere un posto simile! Suppongo che questa tragedia derivi da individui che sono costretti a passare ogni singolo momento vivendo in condizioni insopportabili, in un ambiente ristretto, confinato e contaminato, sovraffollato con prigionieri incompatibili».
«È stato difficile per me descrivere un posto in cui manca anche l’aria fresca o una piccola zona dove i prigionieri possano mettere due passi. Questo è quello che sto vivendo negli ultimi mesi, a volte trascorro notte e giorno a ponderare sui miei pensieri e sul mio comportamento; un processo che mi ha portato a conclusioni sorprendenti. Mi sento come se la mia vita stia lentamente passando da una in cui ho vissuto come un umano ad una in cui sono trattato come un animale; l’istinto di auto preservazione e il desiderio di sopravvivere sono diventati la mia guida e il mio interesse principali. Sembra che non ci sia nient’altro di cui preoccuparsi se non di rimanere vivi. Quando esco dalla mia cella, per esempio, cerco in tutti i modi di non guardare nessuno, di evitare il contatto visivo. Se mi si rivolge qualcuno che sta dormendo in cortile, faccio finta come sempre di non ascoltare le sue richieste e lo ignoro maleducatamente. Quando sono in fila per le docce o per usare il bagno, mi ritrovo a lottare come un uomo preistorico, pur cercando sempre di limitare il più possibile il contatto. Credetemi quando dico che sebbene io non sono una persona difficile, qui mi sento come se dovessi avere paura anche di respirare». Abbiamo ascoltato tante parole da parte di Barack Obama e delle sue Valchirie moraliste ogni volta che si sono vantati di voler salvare l’anima del nostro paese evitando l’omicidio di massa in Libia. Rricordate? Ci fu anche una dottrina secondo cui l’America non avrebbe potuto e voluto rimanere ferma mentre il regime tirannico massacrava civili innocenti che cercavano solo la libertà. Se questa dottrina è realmente esistita, è subito diventata uno zimbello. Noi stiamo fermi mentre la Siria e l’Iran – regimi totalitari e barbarici che uccidono il loro e il nostro popolo – perpetrano esattamente quell’omicidio di massa che abbiamo dichiarato di non voler tollerare. I membri del Congresso – che si adoperano in lodevoli appelli per sostenere il popolo della Siria e dell’Iran – non dovrebbero mai smettere di insistere che l’America invochi il rovesciamento di Assad e di Khamenei/Ahmadinejad. Lasciamo stare le dottrine. Diciamolo e basta: Assad deve andare via. Khamenei e Ahmadinejad devono andare via. Adesso.
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grandangolo Preso nei pressi della capitale il boia di Srebrenica
Belgrado arresta Mladic (e chiede in cambio l’Europa) L’Unione aveva chiesto come condizione per l’ammissione della Serbia la cattura del carnefice, accusato all’Aja di crimini contro l’umanità. Durante l’assedio di Sarajevo, fece uccidere oltre diecimila persone; l’11 luglio del 1995, a Srebrenica, ne fece trucidare 8300. Eppure, da dieci anni viveva indisturbato nel suo Paese di Maurizio Stefanini alla fine l’hanno preso. Addirittura, l’Unione Europea aveva posto il suo arresto come conditio sine qua non, per l’ammissione della Serbia. E, guarda un po’, proprio mentre l’alto rappresentante per la Politica estera dell’Ue Catherine Ashton era in missione a Belgrado, e il giorno dopo la pubblicazione di un rapporto del Tribunale Penale Internazionale in cui il procuratore Serge Brammertz definiva “non sufficienti” gli sforzi del paese balcanico per la cattura e la consegna dei criminali di guerra ancora latitanti Goran Hadzi\u0107 e Ratko proprio Mladi\u0107, Mladi\u0107 è stato arrestato dagli agenti della sicurezza di stato serba. Nel villaggio di Lazarevo presso Zrenjanin, nella regione autonoma della Vojvodina, a circa 80 chilometri a nord-est di Belgrado.
E
U na c o i nc id e n z a ? G iu s t o due anni fa la tv pubblica bosniaca aveva mostrato Ratko Mladi\u0107 che se ne andava tranquillamente a passeggio nei pressi di Belgrado. L’ex-generale serbo-bosniaco, super ri-
cercato dal Tribunale Penale Internazionale per la ex-Jugoslavia per genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, era stato mostrato in esclusiva dal magazine politico 60 minuti, in una serie di riprese amatoriali girate nei 12 anni
Fermato in un villaggio nella regione della Vojvodina, a soli 80 chilometri dalla capitale precedenti, e che lo ritraevano in scene quotidiane con la propria famiglia. La maggior parte dei filmati era stata ripresa a Kosutnjak, nei pressi di Belgrado. Non mancava però la partecipazione a una festa di matrimonio che sarebbe stata girata nella Srpska: la repubblica serbo-bosniaca confederata alla Federazione croato-musulma-
na della Bosnia-Erzegovina. Insomma: protezioni a tutti i livelli, nella Serbia doc ed in quella bosniaca.
Ufficiale di carriera, Ratko Mladi\u0107 era di stanza a Pri\u0161tina nel Kosovo quando nel 1991 scoppiò la guerra. Subito mandato come generale comandante del 9° Corpo dell’Esercito Federale a Knin, profittando di questa posizione aiutò i locali serbi a staccarsi dalla Croazia, proclamando quella Repubblica della Krajina Serba di cui Knin fu appunto la capitale. Poi, nel maggio 1992, si mise al servizio di quella Repubblica Sprska che aveva raccolto i serbi della BosniaErzegovina, collocandosi alla testa del loro esercito. Sulla sua testa il governo statunitense aveva offerto una taglia di 5 milioni di dollari: come massimo responsabile militare dei serbi di Bosnia, infatti, è accusato per i 10.000 morti durante i 43 mesi dell’assedio di Sarajevo e per gli 8300 musulmani massacrati dopo la resa a Srebrenica l’11 luglio 1995: ma non manca chi fa ascendere questa cifra a oltre 10.000. La peggiore atro-
cità commessa in Europa dai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Con quello che era già successo in quella guerra gli abitanti della città si aspettavano già il peggio, e infatti quando i serbo-bosniaci irruppero in oltre 40.000 fuggirono verso la base Onu di Potocari: a nord del centro urbano, e difesa da un centinaio di Caschi Blu olandesi incaricati di difendere quella zona che l’Onu ave a dichiarato “protetta”. In 7000 riuscirono a entrare, gli altri si accamparono di fuori. Ma all’arrivo dei serbo-bosniaci i Caschi Blu non intervennero, mentre Mladi\u0107 faceva separare gli uomini da donne e bambini. Donne e bambini furono deportati; gli uomini sopra i 12 anni passati per le armi, e poi sepolti in fosse comuni. E altri furono uccisi dopo essere stati rastrellati nelle campagne circostanti, dove pure si erano nascosti a migliaia. A gruppi di 200-300, messi in fila e uccisi a sventagliate di kalashnikov. «In quattro ore il 16 luglio ne abbiamo uccisi 1.200», racconterà al Tribunale Penale Internazionale Drazen Erdemovi\u0107. Abid Efendi\u0107, un 54enne
consegnato dagli olandesi agli uomini di Mladi\u0107 e salvatosi perché lo presero per un settantenne, testimonierà: «Ho visto decine di uomini sgozzati in un campo di grano. Ho visto teste mozzate, ragazze violentate da decine di soldati. “Musulmani”, ci urlavano,“sono arrivati per voi i giorni neri, non c’è più Tito a proteggervi!”».
Una crudele vittoria sul campo, che però si sarebbe rovesciata per i serbo-bosniaci in una sconfitta, nel momento in cui convinse l’Ammnistrazione Clinton a scendere in campo direttamente per imporre la pace di Dayton. Karadzi\u0107, l’allora presidente serbo-bosniaco, è oggi in carcere e sotto processo. E anche su Mladi\u0107 c’erano imputazioni per genocidio, complicità in genocidio, crimini contro l’umanità e violazione di leggi e costumi di guerra. Dopo che fino al novembre del 2005 aveva ricevuto una regolare pensione, anche il governo serbo l’11 ottobre 2007 aveva messo su di lui una taglia di un milione di dollari. Tutti, però, sapevano che stava ancora nascosto in
27 maggio 2011 • pagina 15
Il presidente: «Abbiamo cooperato, siamo degni di fiducia»
Boris Tadic: «Ora Bruxelles deve farci entrare subito» di Massimo Fazzi n nome della Repubblica di Serbia vi posso confermare che stamane Ratko Mladic è stato arrestato». Con queste parole, il presidente della Serbia Boris Tadic ha confermato al mondo l’arresto del boia di Srebrenica. Che ha subito presentato il conto per cercare di riaprire l’annosa questione dell’ingresso della Serbia nel club dei Ventisette Paesi membri dell’Unione europea. «Credo che l’operazione che ha portato all’arresto di Mladic renda il nostro Paese più sicuro, e più credibile. Sono fiero del risultato raggiunto, è una cosa buona per la Serbia che questa pagina della storia si sia chiusa. E che si sia conclusa la fuga di Mladic. Ora bisogna continuare a cercare i suoi complici, quelli che l’hanno aiutato a nascondersi per tutti questi anni, anche tra membri del governo. Arresteremo Goran Hadzic. Per adesso però penso che per la Serbia le porte dell’Ue siano aperte».Tadic ha poi voluto ringraziare i servizi segreti serbi che hanno agito in collaborazione con Usa e Gran Bretagna: «Si deve lavorare per la riconciliazione nazionale - ha aggiunto il presidente serbo, che non si aspetta disordini nel Paese dopo l’arresto di Mladic - la Serbia fa tutto nel rispetto delle leggi nazionali e internazionale, e continuerà a farlo. Se qualcuno tenterà di creare incidenti e disordini verrà subito arrestato e processato». Un modo per rassicurare Bruxelles sulla stabilità interna, messa a dura prova dagli scontri di piazza – e soprattutto all’interno degli stadi – che spesso portano il Paese balcanico agli onori della cronaca. In ogni caso,Tadic è un europeista convinto e sta lavorando da anni per ottenere il riconoscimento europeo. Il 22 dicembre 2009, ha presentato la domanda ufficiale per l’ingresso della Serbia nell’Unione Europea. Ma la strada è ancora lunga, nonostante moltissimi passi siano stati già percorsi. Nel 2003, primo atto ufficiale, la Serbia è stata ammessa
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Serbia. Nel marzo 2000, in particolare, era stato visto allo stadio di Belgrado a guardare la partita di calcio Jugoslavia-Cina dalla tribuna vip, scortato da 8 guardie del corpo. Varie testimonianze riferiscono pure di suoi viaggi in Russia, in Grecia e in Montenegro, e nel 2006 si parlò ripetutamente sia di un suo arresto da parte delle autorità serbe, sia di una sua morte per infarto. Probabilmente si trattava di depistaggi, sotto l’ultimo dei quali poteva però esserci qualcosa di vero. Le ulti-
Fino al 2005 aveva ricevuto la pensione poi, nel 2007, anche la Serbia lo considerava un ricercato me immagini mostrate dalla tv bosniaca, riferite probabilmente alla fine del 2008, lo mostravano infatti che camminava a fatica con l’aiuto di un bastone, mentre la moglie scherzava lanciando palle di neve. Insomma, potrebbe avere avuto davvero un ictus.
Comunque, in tutto questo tempo non sembra essersela passata male. «Qui è come il Paradiso», diceva in uno di quei filmati Mladi\u0107 alla moglie durante una partita a tennis, all’interno di una caserma dell’esercito jugoslavo. Dopo quella trasmissione, il direttore del-
l’ufficio per la cooperazione con il Tribunale Penale Internazionale di Belgrado Dusan Ignjatovic, aveva assicurato che le immagini della tv bosniaca erano al vaglio degli investigatori, ma aveva aggiunto che probabilmente si trattava di filmati vecchi. Si era detto pure che i Paesi Bassi con questa intransigenza cercavano in parte di rimediare a una figuraccia che portò addirittura a una crisi di governo. Addirittura, i Caschi Blu incaricati di proteggere i civili finirono per collaborare alla divisione tra uomini e donne previa alla mattanza, «per tenere la situazione sotto controllo». Per non buttare tutta la croce addosso agli olandesi bisogna ricordare che erano armati in modo pessimo, che avevano regole d’ingaggio sconclusionate, e che quando era stato da loro chiesto un intervento aereo di sostegno questo fu rinviato fino a quando non fu troppo tardi.
Anche il governo serbo di Mirko Cvetkovi\u0107 si era trovato in una posizione complicata. Da una parte, il punto principale del suo programma è l’adesione all’Ue. Dall’altra, il suo governo si basa su una coalizione molto ampia che va dagli europeisti del G-17 al Partito Socialista già di Milosevic, che cerca di proteggere i criminali di guerra dei vari conflitti in Croazia, Bosnia e Kosovo. Dall’altra ancora, la violenza genocida a tutti i livelli nella ex-Jugoslavia si è stratificata per generazioni, se si pensa che lo stesso Cvetkovi\u0107 ha avuto un nonno trucidato dai tedeschi durante il massacro di Kragujevac del 1941, mentre un
nonno del presidente Boris Tadi\u0107 durante la Seconda Guerra Mondiale morì nel lager Ustascia di Jasenovac, e anche il padre di Mladi\u0107 nel 1945 era stato ucciso dagli Ustascia, quando lui aveva solo tre anni. La sua carriera militare era stata favorita proprio dall’essere un orfano della guerra di liberazione.
Chissà… Certo, è pure vero che Mladi\u0107, che non ha opposto resistenza al momento dell’arresto ed anzi secondo la radio serba è stato “molto cooperativo”, non era facilmente riconoscibile. Mimetizzato sotto il falso nome di Milorad Komadic, non aveva né barba «né altro tipo di mascheramento, ma aveva un aspetto molto invecchiato». Qualcuno avrebbe creduto di riconoscerlo e avrebbe fatto la denuncia alla polizia, che avrebbe passato la segnalazione alla Sicurezza Nazionale. Ma dopo varie ore di incertezza hanno dovuto ricorrere al dna per essere sicuri che fosse proprio lui, e solo allora il presidente Tadi\u0107 ha fatto infine l’annuncio ufficiale in conferenza stampa. «Oggi abbiamo arrestato Ratko Mladi\u0107, le procedure di estradizione sono in corso». «Riteniamo che la Serbia abbia capito l’importanza di una riconciliazione con la sua storia e il suo popolo e ha deciso di muovere concretamente nel suo cammino europeo», ha commentato l’Unione Europea. Adesso Catherine Ashton chiede che il detenuto sia trasferito ”senza indugio” all’Aja, dove ha sede il Tribunale Penale Internazionale.
al Consiglio d’Europa. Ha inoltre espresso il desiderio di aderire al programma Partnership for Peace della Nato. Sia il Patto atlantico che l’Unione Europea hanno posto come condizione per la collaborazione la piena cooperazione da parte della Serbia con il Tribunale Penale Internazionale per l’ex-Jugoslavia. Dal 2004 in poi diversi indiziati si sono costituiti al Tribunale internazionale, e la Serbia sembra aver dato prova di una certa volontà di collaborazione. L’arresto di ieri porta la situazione ancora più avanti. Nel settembre 2007 la Serbia e l’Unione Europea hanno concluso i colloqui sul testo dell’Accordo di Stabilizzazione e Associazione, primo passo verso l’integrazione europea. L’accordo è stato firmato il 29 aprile 2008 (dopo due anni e mezzo di negoziati). La piena applicazione dell’Accordo è stata vincolata alla collaborazione con il Tribunale dell’Aja, e in particolare all’arresto e alla consegna dei latitanti ancora liberi. Con gli arresti di Vladimir Tolimic (2007), Stojan Zupljanin (2008) e del superlatitante Radovan Karadzic (2008), e contando l’arresto di ieri, resta solo l’ultimo latitante ricercato: il leader della Repubblica serba di Krajina Goran Hadzic. Nel maggio 2008 i partiti filoeuropeisti hanno vinto le elezioni. Il 30 novembre 2009 l’Ue ha ufficialmente abolito i visti per i cittadini della Repubblica di Serbia, sbloccando l’Accordo di associazione e stabilizzazione. Dal 19 dicembre 2009 i cittadini serbi provvisti del nuovo passaporto biometrico possono viaggiare nei Paesi Schengen. Il 25 ottobre 2010, l’Ue ha sbloccato la trattativa sulla domanda di adesione, dando il proprio benestare all’avvio di un pre-negoziato con l’invito alla Commissione a prendere in esame la questione, a patto però che la Serbia prosegua nei suoi sforzi per consegnare gli ultimi 2 ricercati al Tribunale dell’Aja. Ieri, dunque, il penultimo passo.
ULTIMAPAGINA Informazione e potere nella sfida tra Sky e la rete di Al Gore
Che cosa si nasconde dietro alla guerra per di Enzo Ghionni l mancato rinnovo del contratto tra Current, la televisione del politicamente correttissimo Al Gore, e Sky è stato al centro del dibattito politico sull’informazione e sul pluralismo. L’emittente di , dopo essere stata vista, soprattutto a sinistra, come baluardo democratico contro il duopolio Rai-Mediaset, improvvisamente è diventata una formidabile alleata di Berlusconi. Il fatto è che Sky ha ridotto il corrispettivo previsto a favore di Current per essere visibile all’interno della piattaforma a pagamento. E ciò rischia di mettere in difficoltà l’emittente di Al Gore. In realtà, negli ultimi cinque anni, centinaia di operatori italiani hanno creato nuovi canali satellitari, con la prospettiva di un mercato che, secondo le previsioni, poteva essere profittevole. Investendo centinaia di milioni di euro e mettendo in moto una macchina che complessivamente valeva diverse migliaia di occupati. Lo Stato avrebbe dovuto avere un ruolo attraverso il rimborso di parte dei costi di connessione satellitari e di una quota minima rispetto alla produzione dell’informazione. Ma, purtroppo, il mercato ha dimostrato che di rose ce n’erano poche e di spine tante. Alcune, per l’appunto, di mercato, in termini di raccolta pubblicitaria ed altre, invece, di natura reUna golamentare. per tutte: l’impossibi-
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me. Decine di milioni di euro buttati in fumo e migliaia di posti di lavoro persi.
Anche sul fronte del digitale terrestre la situazione si sta incamminando sul medesimo binario. Infatti, i fornitori di contenuti, in altri termini le imprese come Current, cui manca, però, un mentore come Al Gore, non soffrono solo per un mercato asfittico; ma anche per alcune decisioni, come quella di non assegnare loro i numeri, che vengono, invece, attribuiti con grande generosità alle emittenti preesistenti. Una barriera all’ingresso per i nuovi operatori che risiede nella necessità di garantire l’esistenza alle televisioni locali storiche; che sopravvivono in un mercato inesistente grazie al commercio di frequenze; ed ora a quello di numeri. Sicuramente business più
CURRENT TV profittevoli che produrre palinsesti che interessino ai cittadini e che producano ricavi pubblicitari. Ma di tutto questo non si parla, perché non c’è Al Gore a sponsorizzare la battaglia politica. Che dire, poi, del ruolo, del tutto passivo, dell’Autorità meno autorevole della storia d’Italia, quella per le garanzie nelle comunicazioni, che dovrebbe, per definizione, regolamentare ex ante ed interviene, invece, molto ex post. Direi a funerali avvenuti.
Infine, la situazione della stampa. Il mondo dell’informazione sta vivendo una trasformazione epocale; e richiederebbe regole nuove e certe. L’unica certezza, invece, alla faccia dei tagli lineari, è che lo stanziamento a favore del settore in pochi anni è passato da circa 700 mni di euro a poco più di 100. E che di riforma, a parte qualche spot, quelli costano poco, come quello degli Stati generali dell’editoria, nessuno ne parla. E l’intera gestione del settore è oramai rimessa a sistemi e procedure da basso impero. Ma anche qui, nessuno ne parla. Non c’è Al Gore.
Mancano le regole (e spesso mancano anche gli investitori pubblicitari): il mercato delle reti satellitari non decolla. E allora per Murdoch può essere vantaggioso ”allearsi” con Mediaset... lità per gli utenti di scegliersi la numerazione dei canali sulla piattaforma satellitare. Ragione per la quale il numero veniva attribuito da Sky, teoricamente un concorrente, con sovrapposizione, forse non casuale, tra emittenti di informazione, erotiche, televendite e maghi. E il Governo ha aggravato la situazione eliminando di fatto il rimborso pieno delle tariffe. Non mi esprimo sul merito; ma sicuramente sul metodo; non vi è stata alcuna discussione ed analisi sugli effetti. Che ci sono stati, e co-
Per la cronaca l’Autorità, quella di cui sopra, ed i cui corridoi sono consumati dai lobbisti delle maggiori società di telecomunicazioni, da noi interpellata per un’audizione, ben ha ritenuto non solo di non concederla; ma di non rispondere nemmeno, dimostrando, educazione a parte, l’interesse reale per quello che dovrebbe essere il suo mestiere: tutelare il plura-
lismo. Ed allora va avanti Tremonti con il pallottoliere, tagliando senza sapere cosa taglia, tanto il problema italiano oggi è un altro; non è che Current va in difficoltà?