10611
mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
he di cronac
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 11 GIUGNO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il premier e Bossi hanno già detto che non andranno alle urne, mentre le divisioni sui quesiti attraversano gli schieramenti
Dove ci porta il quorum Da sedici anni i referendum falliscono. Andrà così anche stavolta? L’Italia è sospesa su questo interrogativo.Venti tra i maggiori opinionisti azzardano una previsione PERCHÉ ANDARE
PERCHÉ NON ANDARE
Un segnale politico al governo
Ma c’è anche l’astensione intelligente
di Francesco D’Onofrio
di Enrico Cisnetto
i è molto discusso di un vero e proprio diritto al non voto di fronte ai referendum. Occorre peraltro non limitarsi ad una visione circoscritta a questi specifici referendum, ma saper andar oltre e guardare ad una visione sistemica dell’istituto referendario medesimo. L’istituto referendario abrogativo italiano costituisce infatti una sorta di unicum nel panorama delle democrazie liberal-democratiche. Nato come un istituto per «correggere» il Parlamento, dopo l’introduzione del maggioritario è diventato uno strumento politioc contro il governo. Per questo,da un punto di vista sistemico, è conseguente ritenere che domani e dopodomani si debba votare. a pagina 3
i sono molte ragioni per mandare a casa Berlusconi e il suo governo. Ma volere quell’obiettivo politico non è una buona ragione per rinunciare, attraverso il referendum, all’opzione del nucleare e alla liberalizzazione del servizio idrico. Questioni, cioè, di rilevanza strategica che riguardano il futuro del Paese e la cui abrogazione segnerebbe una spaventosa regressione. Perché prima o poi l’epoca del Cavaliere finirà, ma temiamo che, dopo, la disastrosa eredità del berlusconismo e le tossine dell’antiberlusconismo lasceranno solo macerie. D’altra parte, chiusa questa maledetta stagione, quando si dovrà governare, perché rinunciare a strumenti che sono fondamentali? a pagina 5
S
Dal fisco alla crescita
Il premier si sbaglia, tre miliardi non bastano di Gianfranco Polillo ome sarà la battaglia di primavera? Sarà semplice difesa dei conti pubblici o, finalmente, conterrà qualcosa per favorire lo sviluppo del Paese? Su questo dilemma s’interrogano politici ed economisti, in attesa di vedere le carte che Giulio Tremonti sta covando. A differenza del passato, tuttavia, non potrà essere una scelta solitaria. Silvio Berlusconi sta premendo affinché si abbia un minimo di condivisione, forte dell’appoggio di Umberto Bossi, scottato dalle ultime elezioni e dallo scarso successo, conseguito nel Nord, della sua formazione politica. Analoga attenzione da parte dell’opposizione. Ma cosa significa manutenzione? Questa linea minimalista può rimettere in moto lo stanco treno dell’economia? Le cifre che circolano sono diverse. Silvio Berlusconi ha parlato di 3 miliardi. Altri di 7.Vedremo i testi che Tremonti sta elaborando. Come dovremo vedere se il provvedimento conterrà le misure che scatteranno negli anni successivi.
C
a pagina 8
C
Il “gioco di società” proposto da liberal
Al mare o alle urne Ecco i pre-exit poll Per Pansa, Merlo e Gramellini passa per un pelo, mentre Feltri azzarda un 56%. Per Orfeo, Cappellini e Rondolino, non supera il 40%. Vespa e Ostellino non si sbilanciano Francesco Lo Dico • pagina 2
Rapporto. Scrittrici, giovani imprenditrici, madri: con loro cambia il Medioriente
La Primavera (araba) è donna Amina, Neda, Manal, Shirin: la rivoluzione ha un volto femminile di Antonio Picasso
Safak Pavey contro Erdogan
Anche in Turchia c’è una sfida in rosa
ulla emarginazione delle donne nel mondo islamico si è detto tanto. Tuttavia, proprio quando l’argomento dovrebbe restare inchiodato sulle prime pagine dei giornali, si assiste a una sorta di offuscamento della questione. Solo la parentesi dell’8 marzo, giornata ovviamente simbolica, ha acceso una luce sull’argomento. Poi però il buio. Adesso, innece, l’universo femminile è in prima linea nella primavera del mondo arabo. a pagina 24
S
se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
di Luisa Arezzo afak Pavey è scesa in campo. E se il suo nome (ancora) non vi dice nulla, sappiate che per il premier della Turchia, Tayyp Erdogan, il suo ingresso in Parlamento è visto come il fumo negli occhi. Perché la giovane (ha 36 anni) e carismatica Safak è un simbolo per buona parte del paese ed espressione della migliore intellighenzia della Mezzaluna. a pagina 26
S
NUMERO
112 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’inchiesta Abbiamo chiesto ai nostri più importanti opinionisti di fare una prevsione sulla vera sfida del referendum di domani
La battaglia del quorum Da sedici anni, non si arriva al 50%+1. Molti dicono che stavolta sarà diverso. Non solo perché Bossi e Berlusconi non andranno alle urne di Delfi, come oggi, è soltanto una questione di fegato. Ma come finirà il referendum?
di Francesco Lo Dico
ROMA. Tastano ogni giorno il polso dell’opinione pubblica, mettono insieme fatti, ipotesi e sensazioni per spiegarci com’è fatto il presente. Ma soprattutto come può diventare il futuro. Da prassi raccontano oggi quello che tutti conosceremo soltanto domani. Chi, più del giornalista, può essere giustamente definito un prognostico? Uno che cioé, secondo prefisso, anticipa quella conoscenza più nota ad Atene come gnosis? Tutto ciò che si poteva dire pro o contro il referendum è stato ormai scritto (e visto pochissimo in televisione, in mezzo a un’epidemia di refusi e afasie invalidanti). E dunque non c’è niente di meglio, confortati dall’autorevolezza del greco antico e di una sfacciataggine postmoderna, che interrogare alcune tra la più autorevoli Pizie della carta stampata. Con un’avvertenza metodologica: in adempienza al Concilio di Delfi II, il vaticinio non ha richiesto il sacrificio di nessuna capra. Motivo in più per ringraziare sentitamente coloro che hanno reso omaggio, con tanta ironia che speriamo ricambiata, all’antica arte aruspicina. Ai tempi
Roberto Alfatti Appetiti Massimo Bordin Stefano Cappellini Vittorio Feltri Gianna Fregonara Oscar Giannino Massimo Gramellini Eric Jozsef Paolo Liguori Ugo Magri Francesco Merlo Liana Milella Mario Orfeo Piero Ostellino Giampaolo Pansa Fabrizio Rondolino Filippo Rossi Alessandro Sallusti Fabio Tamburini Luca Telese Sergio Valzania Bruno Vespa
46-47% NON SA 40% 55-56% NON SA 51-52% 50%+1 (il tuo) 65% NON SA 49% 50,1% 52-55% 42% NON SA 50%+1 45% 51% 40% 50,1% 54% 52,7% NON SA
La previsione più favorevole è quella di Eric Jozsef, corrispondente in Italia del quotidiano francese Libération:«Vince decisamente il sì», spiega aliberal, «Il nucleare arriverà a una quota abrogativa tra il 65 e il 70 per cento, mentre per l’acqua dico un numero secco, 70 per cento». Chapeau. Ma un vaticinio serio, non può fare a meno di chi del domani ha fatto il suo mestiere: Filippo Rossi, direttore deIl futurista. «Il referendum passa con il 51 per cento», pronostica Rossi. Finora ne ha azzeccate molte. Ora è il momento di scoprire se anche lui «ha sempre ragione». Il direttore delGiornale, Alessandro Sallusti è invece scettico: «Credo che non passi, si fermerà sulla soglia del 40 per cento». Ardisce, ma non ordisce. Stupisce, invece,Vittorio Feltri: «Il referendum passa con una percentuale tra il 56 e il 57 per cento. Ma il mio, più che un auspicio, è un timore». Rassicuriamo tutti. Mentre il direttore ci parla, non ha le mani sul volante. L’ha lasciato a un altro. Ottimista, ma senza rammarico, si dimostra l’editorialista di Repubblica,
prima pagina
11 giugno 2011 • pagina 3
il commento
Ecco perché votare è la cosa migliore Inutile nascondersi, il referendum ormai è cambiato: è diventato uno strumento politico di Francesco D’Onofrio i è molto discusso di un vero e proprio diritto al non voto di fronte ai referendum. Occorre peraltro non limitarsi ad una visione circoscritta a questi specifici referendum, ma saper andar oltre e guardare ad una visione sistemica dell’istituto referendario medesimo. L’istituto referendario abrogativo italiano costituisce infatti una sorta di unicum nel panorama delle democrazie liberal-democratiche. In altri Paesi, infatti, non vi sono referendum abrogativi di leggi, ma altri tipi di referendum: consultivi o propositivodeliberativi. All’Assemblea costituente italiana – infatti – si discusse molto sul rapporto tra la potestà legislativa parlamentare da un lato, e il potere anche normativo del corpo elettorale dall’altro. La discussione su questo punto si intrecciò con quella concernente il voto politico: da considerare sempre e comunque esercizio di un diritto, o anche un vero e proprio dovere? In questo ultimo caso, prevedere una specifica sanzione per il non voto o limitarsi ad una semplice sollecitazione di tipo politico-morale? È comunque opportuno aver sempre presente che la Costituzione la stava scrivendo una Assemblea costituente eletta con il sistema proporzionale, sì che ad un sistema di questo tipo occorre comunque guardare anche per l’equilibrio tra potestà legislativa parlamentare e potestà normativa abrogativa popolare.
S
che da un lato e diritto e dovere di voto nei referendum abrogativi dall’altro, va pertanto tenuto presente allorché si discute sull’esistenza o meno di un vero e proprio diritto al non voto sia nelle elezioni politiche sia nei referendum. Ulteriori considerazioni devono essere svolte in conseguenza dell’ampliamento della potestà legislativa regionale, intervenuto con il nuovo Titolo V della seconda parte della Costituzione. La materia referendaria risulta pertanto più complessa di quanto si è potuto constatare anche in riferimento ai quesiti referendari sottoposti agli italiani in questi giorni. Alla luce del testo costituzionale vigente si può pertanto comprendere la specifica previsione di un quorum di validità perché un referendum abbia un effetto abrogativo di una legge. Ma occorre ben considerare che sono intervenute significative modifiche legislative proprio in riferimento alle leggi elettorali, anche se non sembra che si sia colto il collegamento certamente politico tra sistema elettorale e referendum popolare abrogativo.
Per i costituenti doveva servire a correggere il Parlamento, ora serve per manifestare contro il governo
Questo collegamento tra diritto e dovere di voto nelle elezioni politiFrancesco Merlo: «Il referendum passa. Sarà determinante la reazione degli italiani alla legge truffa del governo sul nucleare. Non è più una questione di logica binaria».
Molto agguerrito il direttore di TgCom, Paolo Liguori: «Non me ne importa niente, i referendum sull’onda dell’emotività sono dannosi perché pregiudicano per anni le leggi dello Stato. Quando è passato il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, si è tenuto conto della volontà dei cittadini? Niente affatto. Dal ’93 ho scelto di votare soltanto in caso di refererendum costituzionali». Ci sarebbe da votare anche sulle legge Alfano, ma pazienza. Legittimo impedimento. Deciso anche Fabio Tamburini, direttore di Radio24: «Il quorum sarà raggiunto a mio avviso, ma non sono in grado di dire con quale percentuale». Non fa pronostici a favo-
prio il rapporto tra potestà legislativa del parlamento e indirizzo politico del governo. L’esplicita previsione di un premio di maggioranza attribuito al partito o alla coalizione di partiti che siano risultati la maggiore tra le minoranze che si sono presentate al voto popolare, comporta infatti la necessità di una valutazione sistemica e non “rapsodica” del dibattito sul voto o non voto al referendum. In una valutazione sistemica infatti si può rilevare che l’istituto referendario abrogativo si configurava sostanzialmente come uno scontro tra corpo elettorale da un lato e parlamento dall’altro, entrambi fondandosi sul fatto – prima ancora che sul diritto – di una sostanziale eguale legittimazione a produrre norme legislative. Il sistema elettorale proporzionale faceva infatti dei
Con l’ultima legge elettorale nazionale (quella comunemente definita porcellum) si è sostanzialmente modificato pro-
re o a sfavore, l’editorialista del Corriere della Sera, Piero Ostellino. Altro che dura legge del bipolarismo, in questo caso tertium est datur. «Il referendum passa, ma con grande fatica», annuncia Giampaolo Pansa. Che tiene a precisare però che «non votare è un diritto tanto quanto votare. Il presidente Napolitano ha sbagliato a invitare alle urne. E noi dobbiamo ricordare che c’è anche il sacrosanto diritto di starsene a casa propria». Come da titolo del suo ultimo saggio: il potere inutile dei giornalisti italiani. Grande feeling invece a via del Tritone, dove il direttore del Messaggero, Mario Orfeo, e il fresco caporedattore, Stefano Cappellini, concordano sul pronostico: «Il referendum non passa». Lieve variazione sul tema, la percentuale: Orfeo punta una fiche sul 42%, Cappellini
sul 40. In questo caso nessuna battuta. Lavorano a pochi passi dalla redazione di liberal. Scommette sulla vittoria dei referendari, l’editorialista di Repubblica, Filippo Ceccarelli: «Il quorum arriverà al 53 per cento». Anche qui come da titolo di un suo brillante saggio. Più che un pronostico, un disegno preparatorio per un fregio celebrativo. «Passa ma a fatica, diciamo 51 o
parlamentari i rappresentanti del corpo elettorale. Vi era in tal caso la previsione di una sostanziale coincidenza tra la volontà del corpo elettorale e le leggi approvate dal Parlamento medesimo.
Si poteva in questo contesto comprendere la esplicita previsione di un quorum di validità per i referendum popolari abrogativi: le leggi approvate dal Parlamento erano sostanzialmente espressione quanto meno della volontà della maggioranza del corpo elettorale, sì che la previsione di un quorum di validità per i referendum finiva con lo stabilire una sorta di limite al medesimo potere abrogativo popolare. Allorché invece si opera con una legge elettorale che prevede esplicitamente un premio di maggioranza per chi ha vinto le elezioni, non si può più affermare che le leggi non siano espressione dell’indirizzo politico governativo, posto a fondamento dello stesso premio di maggioranza. Siamo dunque in presenza di una sostanziale modifica sistemica dell’istituto referendario abrogativo: voluto inizialmente quale contrasto tra corpo elettorale e Parlamento, esso è diventato un istituto di sostanziale contrasto tra opposizione e maggioranza. Se si può dunque ritenere – da un punto di vista circoscritto – che si tratti ancora di un diritto di voto o di non voto, da un punto di vista sistemico, invece, è conseguente ritenere che si debba votare.
lata di una notte di mezza estate. Se dovessi sbilanciarmi su una percentuale, diciamo il 45%». Ma avverte: «Sbaglio sempre i pronostici». Scarsa confidenza con gli astri. Anche se di recente ha ottimamente recitato in Figli delle stelle di Lucio Pellegrini. Non si sbilancia il giornalista di Radio Radicale, Massimo Bordin. Nessuna scommessa. «Se non si giocano soldi, non ci si di-
Disaccordo tra i due direttori del “Giornale”: Alessandro Sallusti scommette che il referendum non passa, Vittorio Feltri pronostica un quorum al 57 per cento. 52 per cento», osserva l’economista di Libero,Oscar Giannino. Acqua libera tutti?
Più tiepido Fabrizio Rondolino, neoeditorialista delGiornale: «Il referendum non passerà nonostante l’eccitazione delle ultime comunali. Credo poco alla spal-
verte». Vero. Ma non dev’essere peggio di una domenica con Pannella. Astenute (direttamente dal Corriere della sera) anche Gianna Fregonara, che declina cortese, e Maria Teresa Meli, che riattacca piccata. Come da blog: politicamente scorretta? Affabile come pochi, Massimo Gra-
mellini, vicedirettore de La Stampa: «Il referendum passa con il 50% per cento dei voti più uno. Il tuo». Intelligenti pauca. Almeno stavolta non ci salveranno gli ingenui. Ha l’aplomb dello scommettitore professionista, il vicedirettore di RadioRai, Sergio Valzania: «Punto sul 52,7 per cento a favore del quorum. Ha registrato?». Per Roberto Alfatti Appetiti, firma del Secolo, niente da fare: «Non passa, si ferma al 46 o 47 per cento». Per la serie all’armi, siam diretti. «Passano tutti i quesiti, con una media del 54 per cento», risponde il giornalista del Fatto Quotidiano, Luca Telese. Che in caso di vittoria, ha qui servito il titolo del prossimo libro: “Qualcuno era nuclearista”. Astenuto, ma di umore scintillante, Bruno Vespa. Allontanato Santoro, pare quasi che canti: «Ho un Vespa special che, risolve i problemi...». Lui ci risponde con una risata:«Nemmeno per sogno».
pagina 4 • 11 giugno 2011
l’approfondimento L’altra notte, alciuni militanti di Greenpeace hanno messo in atto un blitz contro il nucleare in occasione del referendum. All’alba, sono apparsi grossi manifesti contro il nucleare sul Colosseo, sul campanile di San Marco a Venezia e (qui nella foto) su Ponte Vecchio a Firenze
L’estrema mobilitazione degli studiosi. Garattini: «Un tema del genere non andava sottoposto a consultazione popolare»
L’appello ignorato
«Non abrogate la ricerca»: questo il senso del messaggio lanciato da decine di docenti: il voto sul nucleare rischia di trasformarsi in una sconfitta per la scienza consumata per ragioni politiche. E del tutto ignorata dai giornali di Errico Novi
ROMA. Danni ne ha fatti tanti, la politica guerresca. Difficile però immaginare, fino a qualche mese fa, che potesse produrre effetti così devastanti su un campo a lei di solito estraneo, quello della ricerca. E invece dal referendum, in particolare dal quesito sul nucleare, rischia di venire proprio questo drammatico effetto: una specie di messa al bando della ricerca. Una espulsione dei principi della ricerca dal dibattito pubblico. Nella scelta dei linguaggi stessi di questa campagna referendaria si è quasi sempre rinunciato ad adottare le parole della scienza. «Come avvenne con l’altra consultazione popolare sull’atomo, tenuta sull’onda emotiva di Cernobyl, anche stavolta andiamo verso un esito che rischia di essere molto negativo per il nostro Paese». A dirlo non è un nuclearista di professione, ma uno dei più grandi scienziati italiani, Silvio Garattini, noto per le sue conquiste nel campo della farmacologia, dunque lontano dal circuito dell’industria energetica.
L’effetto collaterale a cui principalmente si riferisce Garattini è appunto il seguente: «Come allora, anche stavolta il referendum finirà per bloccare la ricerca. Vede, l’Italia ha dei fisici eccellenti, bravissimi in campo nucleare. Ma se viene meno qualsiasi speranza di un’applicazione pratica, è chiaro che questi scienziati andranno altrove, o comunque rinunceranno a svolgere la loro attività». È la tesi sostenuta nell’appello (a pagamento) pubblicato ieri sul Corriere della Sera con la firma di decine tra docenti universitari, manager, presidenti di associazioni, che chiedono di non «chiudere definitivamente l’opzione nucleare in Italia». Uno dei sottoscrittori, il docente di Impianti nucleari dell’università di Padova Giuseppe Zollino, rivendica la necessità di «dare prova dell’esistenza di una voce alternativa al clamore delle posizioni contrarie al nucleare non supportate da un punto di vista scientifico». E aggiunge all’Adn-Kronos che, appunto, «se dovesse vincere il sì, si
bloccherebbe il dibattito sulla politica energetica del Paese, mentre bisogna lasciare aperte tutte le alternative e la ricerca deve continuare, naturalmente con fini applicativi».
Aspetto finora sottovalutato, calpestato in nome della battaglia politica costruita attorno ai quesiti. E ha ragione il professor Garattini a evocare il precedente di Cernobyl: stavolta è persino peggio. Perché oltre che da un fatto altrettanto sconvolgente
«Abbiamo tanti bravi fisici, ora andranno via», dice il fondatore del Mario Negri
come il disastro di Fukushima, la campagna referendaria è viziata anche da un fattore politico assai più banale, e fuorviante: l’alta politicizzazione di tutta la battaglia referendaria derivata dal quesito sul legittimo impedimento. È quello il catalizzatore delle energie riversate nel dibattito. Ed è qui la ricaduta devastante che la politica conflittuale produce su un tema delicato come quello dell’energia. Garattini non ha dubbi su questo: «Mai una consultazione popolare è
avvenuta in un clima di tale confusione», dice il fondatore dell’Istituto Mario Negri. Con lui, lo sostiene un altro grande scienziato decisamente immune da accuse di partigianeria come Umberto Veronesi: in un’intervista pubblicata ieri sempre dal Corriere l’oncologo e presidente dell’Agenzia per la sicurezza nucleare dice con chiarezza che «questo referendum, così accorpato ad altri quesiti, avverrà in un clima in cui l’espressione del pensiero dei cittadini rischia di essere in parte viziata». Confusione fatale, quella tra ricerca, energia e scontro sulla giustizia. Ma forse è tardi perché appelli pure rivolti da voci così autorevoli possano riordinare i termini del dibattito. D’altronde, dice Garattini, «ogni volta che i problemi vengono politicizzati c’è sempre qualcuno che assume una certa posizione non perché profondamente convinto ma semplicemente per opporsi a qualcun altro». Oltretutto la scelta del nucleare «è un problema squisitamente tecnico che
11 giugno 2011 • pagina 5
Il vero rischio è che così questa stagione lasci un’eredità ancora peggiore
Ma io vi spiego perché astenersi può essere intelligente Non è necessario passare per il referendum per mandare a casa Berlusconi. E, anzi, su nucleare e acqua i quesiti sono sbagliati di Enrico Cisnetto i sono molte ragioni per mandare a casa Berlusconi e il suo governo. Ma volere quell’obiettivo politico non è una buona ragione per rinunciare, attraverso il referendum, all’opzione del nucleare e alla liberalizzazione del servizio idrico. Questioni, cioè, di rilevanza strategica che riguardano il futuro del Paese e la cui abrogazione segnerebbe una spaventosa regressione. Perché prima o poi l’epoca del Cavaliere finirà, ma temiamo che, dopo, la disastrosa eredità del berlusconismo e le tossine dell’antiberlusconismo lasceranno solo macerie. D’altra parte, chiudere questa maledetta stagione ha senso ed è legittimo nella misura in cui si vuole tornare a governare un Paese lasciato allo sbando: e allora, se si dovrà governare, perché rinunciare a strumenti che sono fondamentali? Se passa per la seconda volta il rifiuto del nucleare, metteremo una pietra tombale definitiva sulla possibilità di usare l’atomo per produrre energia. Può anche darsi che quando sapremo i reali effetti di Fukushima e avremo il quadro chiaro delle decisioni che si adotteranno in Europa, ci convinceremo dell’opportunità o addirittura della necessità di accantonare il progetto nucleare, ma proprio per questo non dobbiamo privarci della chance opposta. Quanto all’acqua, acclarato che nessuno intende violare il principio che trattasi di bene pubblico, se passa il referendum ci troveremo nella condizione che un sistema distributivo che – è proprio il caso di dirlo – fa acqua da tutte le parti, non potrà essere ammodernato, completato emesso in efficienza perché non ci saranno i denari necessari (100-120 miliardi nei prossimi dieci anni) vista la condizione della nostra finanza pubblica, locale e nazionale. Infatti, con il sì sarà cancellato il meccanismo previsto dalla legge Ronchi di gare pubbliche con cui affidare a terzi (siano essi pubblici o privati) il servizio idrico sulla base di condizioni concessorie e tariffarie stabilite dai Comuni, e si tornerà a soggetti pubblici locali lottizzati. E questa doppia evirazione per buttar giù un governo che se cadrà – ora, fra qualche mese per votare a primavera 2012 o comunque prima della scadenza naturale – non sarà certo per due leggi che ha già clamorosamente disconosciuto? E sì, perché sul nucleare ha fatto marcia indietro – e pure malamente, perché se voleva evitare il referendum, come era opportuno, avrebbe dovuto intervenire senza lasciare margini alla Cassazione – e sull’acqua ha di fatto dimenticato di avere la paternità della Ronchi con la pilatesca e ridicola indicazione della “libertà di voto”. Insomma, comunque la si giri, questi referendum non meritano il voto degli italiani. D’altra parte si potrebbe dire “sven-
C
turato il referendum che ha bisogno di questi eroi”: Bertolt Brecht probabilmente non sarebbe entusiasta di questa rivisitazione della sua celeberrima affermazione, ma è lampante che, con testimonial come Adriano Celentano e Vasco Rossi e censori come Antonello Venditti che se la prende con gli astensionisti, appare chiaro che la cifra del confronto referendario non è seria e che il dibattito è di grana grossa. Dunque, per le ragioni politiche che abbiamo visto, ma anche
La legge sul legittimo impedimento è stata già di fatto bloccata dalla Consulta
alla luce di questi ultimi estemporanei endorsement, va detto chiaro e forte che domenica e lunedì occorre avvalersi della facoltà di astensione. La quale non è, come si dice a sproposito, un atteggiamento anti-democratico e qualunquista, ma è anzi un’arma legittima per esprimere il proprio dissenso. Il non voto è una legittima espressione politica valida quanto lo è il voto.
Proprio perché meno specifico ma più politico, possiamo invece discutere del quarto quesito, quello sul cosiddetto “legittimo impedimento”, per il quale sarei anche favorevole a votare “Sì”, se non fosse che, rispetto alla sua formulazione originale, è stato talmente ridimensionato dalla Corte Costituzionale nel gennaio scorso da essere ormai un semplice palliativo. Quindi, astenetevi, o, se proprio volete andare a votare, ritirate solo la scheda sul legittimo impedimento e non le altre tre. D’altronde, visto che il tasso di astensionismo medio italiano non ar-
riva al 20% per le grandi consultazioni politiche (19,5% a quelle del 2008, 16,4% del 2006), dobbiamo forse considerare paesi meno saldamente democratici la Germania che ha il 22,3%, la Francia che raggiunge il 37,4% o il Regno Unito che arriva al 38,7%? Con tutta evidenza è proprio il contrario: astensionismo non fa rima con menefreghismo. Se poi parliamo di referendum, l’astensione riveste un ruolo ancora più significativo. Infatti, chi si reca alle urne per votare in un referendum lo fa perché è favorevole alla motivazione che ha spinto a indire la votazione. Ergo, i “no” sono una esigua minoranza se votano, ma diventano maggioranza se scelgono di non andare a votare, impedendo il raggiungimento del quorum. L’astensione non è quindi l’arma di chi preferisce il mare o la montagna alla canicola del seggio, ma è un modo legittimo per rispondere al quesito referendario: in entrambi i casi, anche se con modalità differenti, si esprime una risposta negativa alla domanda referendaria. E il quorum, che è assolutamente necessario mantenere, non è un capriccio del legislatore, ma uno strumento che permette di tutelare le leggi democraticamente votate dal parlamento, facendo in modo che non vengano abrogate con il voto di una minoranza. D’altronde, se dal 1946 ad oggi, su un totale di 15 referendum che necessitavano del quorum, ben 7 non l’hanno raggiunto e, soprattutto, se è dal 1995 che una consultazione referendaria non supera lo sbarramento, qualcosa vorrà ben dire.
Prendete quello del 1987 sul nucleare. Se andiamo ad analizzare il voto di ventiquattro anni fa scopriamo, numeri alla mano, che se coloro che votarono “no” non si fossero recati al seggio, il referendum che ha di fatto cambiato la storia della politica energetica italiana, impedendo la prosecuzione della produzione di energia nucleare nelle centrali già esistenti non avrebbe raggiunto il quorum. Nel dettaglio: si recò al seggio il 65,1% degli italiani, e i “sì” che furono il 71,9% contro il 28,1% dei “no”, vinsero con una maggioranza schiacciante. Ma se si sommassero i contrari votanti e gli astenuti si otterrebbe il 51%, che diventa 59% aggiungendo le schede bianche e nulle. Dunque, se allora chi era contrario a smantellare il nucleare non avesse votato anziché recarsi alle urne a esprimere quella contrarietà, avrebbe ottenuto il risultato che si prefiggeva Non basta questo per decidere di evitare oggi di ripetere quello che allora si rivelò un clamoroso errore? E non sarà forse che è di questo che hanno paura coloro che insorgono al solo sentire la parola astensione? Meditate italiani, meditate. (www.enricocisnetto.it)
doveva essere affrontato con attenzione, non con un referendum. e ancor meno con un referendum celebrato sotto la spinta emotiva di una tragedia, che impedisce all’opinione pubblica di valutare con obiettività».
Paralizzare la ricerca. Visto che persino le parole del Papa vengono arruolate nella campagna referendaria, varrebbe la pena di notare almeno che in realtà quello del Pontefice è soprattutto un forte appello perché si persegua la ricerca. Garattini insiste su questo, sul fatto che «senza applicazioni concrete è facile immaginare cosa sarebbe della ricerca in campo biologico, o di quella farmaceutica se gli scienziati sapessero che dai loro studi non potrebbe comunque venire la produzione di nuovi farmaci». Ma il fatto stesso che l’oggettività scientifica sia stata sostanzialmente accantonata, in questa campagna referendaria, non rischia di disincentivare persino la ricerca su altre fonti di energia, comprese le rinnovabili? Non c’è insomma il rischio di un effetto depressivo generale? Il farmacologo milanese vede il problema in termini assai più generali, nel senso che «la depressione, profonda, viene da anni ormai in cui la ricerca è stata trascurata. Da tutti i governi, senza distinzione di colore politico. Adesso va peggio perché siamo in un momento di crisi in cui tutti i Paesi tendono ad investire di meno. Ma è sempre stato così: questo come altri governi hanno sempre mostrato di non credere nella ricerca». Se insomma dalla vittoria del sì venisse un rimbalzo negativo sulla propensione a sviluppare studi e investimenti sull’energia, questo troverebbe un terreno già ampiamente sfavorevole. «Peraltro credo che sotto lo zero non si possa nemmeno andare», ironizza Garattini. Ma insomma il panorama è desolante davvero, soprattutto per il nesso, che il fondatore del Mario Negri puntualmente ricorda, con «l’esiziale rinuncia all’innovazione, che solo la ricerca può sostenere. Parliamo del pericolo di uscire dal novero dei Paesi industrializzati, perché senza innovazione non si riesce a creare prodotti dal valore aggiunto, e quindi in grado di sostenere le esportazioni. Parliamo cioè della sola opportunità che un Paese come il nostro ha per reggere la competizione con le economie emergenti». E figurarsi quanto può pesare la rinuncia alla conoscenza in un settore come l’energia, in cui l’Italia dipende drammaticamente da altri Paesi. Ma agli animatori del dibattito referendario è sembrato assai più comodo rifugiarsi nella scorciatoia della politicizzazione, che provincializza il dibattito ma anche, purtroppo, la dimensione dell’Italia rispetto ai grandi scenari dell’economia mondiale.
diario
pagina 6 • 11 giugno 2011
Santoro, record per l’addio
Caso Unipol: «Risarcire Fassino»
Schiaffo di Muti ad Alemanno
ROMA. Ascolti record per la
MILANO. Piero Fassino, ex se-
ROMA. Al povero Alemanno
puntata di chiusura di Annozero di giovedì sera su Rai2. Il programma di Michele Santoro è stato visto da una media di 8 milioni 389 mila telespettatori pari al 32.29% di share. Per Prima di Annozero, ovvero l’anteprima del programma, gli spettatori sono stati 6 milioni 174 mila pari al 22.82%. Nel corso del suo monologo di saluti (nel quale aveva annunciato che avrebbe detto la sua sul divorzio consensuale dalla Rai), Santoro ha rilanciato con un tocco di furbizia, dicendosi pronto ad offrire ancora alla Rai la sua collaborazione per un euro a puntata. Ma il presidente della Rai Paolo Garimberti, ha commentato: «Basta giochini, se ha un progetto lo mandi alla Dg».
gretario dei Ds e ora sindaco di Torino, deve essere risarcito dall’imprenditore Fabrizio Favata per la vicenda del «passaggio di mano» e della «fuga di notizie», dell’ormai famosa intercettazione di una telefonata tra lui e Giovanni Consorte in cui diceva «abbiamo una banca». Lo ha stabilito il gup di Milano Stefania Donadeo, che ha condannato Favata a due anni e quattro mesi e al risarcimento dei danni morali a favore dell’esponente del Pd. Fassino, infatti, si è costituito parte civile nel processo a carico di Favata ed è anche parte civile in quello, con rito ordinario, a carico di Paolo Berlusconi, editore de Il Giornale che pubblicò l’intercettazione, che comincerà il 4 ottobre.
non ne va più bene una. Era riuscito a strappare il sì all’unanimità dall’Assemblea capitolina (dopo un antipatico tira e molla all’interno della stessa maggioranza di centrodestra) alla cittadinanza onoraria di Roma al maestro Riccardo Muti ma il grande direttore d’orchestra, appena saputa la notizia ha ringraziato e rifiutato spedendo una lettera direttamente al sindaco. «No grazie» anzi ha scritto in un fax inviato da Salisburgo dove il Maestro si trova in questi giorni. E ha aggiunto: «gli echi che mi sono arrivati da Roma sulla questione li ho trovati patetici e desolanti». Malgrado la durezza di Muti, Alemanno ha fatto finta di nulla: «Alla fine, il Maestro accetterà».
Prosegue l’inchiesta (sarebbe più grave la posizione di Signori) e il ministro si preoccupa per il possibile ruolo della camorra
Scende in campo Maroni
Una task force del Viminale per contrastare le scommesse nel calcio di Riccardo Paradisi
ROMA. Contro la nuova eruzione di scommesse clandestine, eterna riedizione della Calciopoli italiana, adesso scende addirittura in campo il ministero dell’Interno. È lo stesso titolare del Viminale Roberto Maroni, in una conferenza stampa tenuta assieme al Presidente del Coni Gianni Petrucci e al presidente della Figc Giancarlo Abete, ad annunciare il varo di una task force istituzionale per combattere le scommesse clandestine, un osservatorio sul modello di quello per la lotta alla violenza negli stadi. «Siamo partiti dall’esperienza positiva dell’Osservatorio sulla violenza per creare un’unità investigativa vera e propria composta da elementi del Ministero degli Interni, Coni, Figc, Ministero dell’Economia, Monopoli, Unire e Sogei», dice il ministro dell’Interno. Una struttura in cui verrà dunque coinvolto anche il ministero dell’Economia attraverso la struttura dei Monopoli. Un network che dovrà raccogliere le indicazioni di anomalie nei flussi di scommesse e all’interno del quale ci sarà un organismo di valutazione di queste segnalazioni che verranno da concessionari o altre fonti, mentre la parte più strettamente investigativa verrà affidata a Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.
Un’iniziativa che raccoglie il plauso della Figc e del Coni ma che configura un’evidente commissariamento politico e istituzionale del calcio e dei suoi organi di controllo deputati, i quali da soli si dimo-
«Siamo partiti dall’esperienza positiva dell’Osservatorio contro la violenza nello sport - ha spiegato Maroni - che in questi anni ha sviluppato una serie di iniziative che hanno migliorato la sicurezza negli stadi e abbiamo deciso di replicare l’iniziativa per la prevenzione di combine nelle scommesse»
strano ancora una volta insufficienti a prevenire e individuare irregolarità e illeciti. Iniziativa opportuna quella del Viminale considerato il giro d’affari illecito mosso da questa nuova puntata di Calciopoli e soprattutto considerato il sospetto d’infiltrazione di organizzazioni criminali nella vicenda. Obiettivo della struttura resta comunque la messa in sicurezza degli eventi sportivi sul fronte delle manipolazioni delle scommesse. Un fronte vasto e caldo considerato il mercato delle scommesse legali in Italia. Sommando Lotto, Superenalotto e Bingo è un mercato che ammonta a un monte
complessivo di 60 miliardi l’anno dei quali lo sport attrae 6 miliardi di euro e dove il calcio in particolare ha un ruolo predominante. Per garantire la regolarità delle scommesse il Viminale intende capitalizzare il lavoro svolto con l’Osservatorio sulle partite di calcio che ha permesso di ridimensionare il fenomeno della violenza dentro e fuori gli stadi e mettere in atto una serie di controlli incrociati. All’unità investigativa sarà poi affidata l’opera di prevenzione sulle combine, quale centro unificato per raccogliere tutte le informazioni e valutare le segnalazioni dei concessionari a propo-
sito di flussi anonimi per un eccesso di scommesse su singole partite di calcio o altri eventi sportivi, indici solitamente rivelatori di qualche movimento sospetto. L’attività investigativa sarà invece demandata a un gruppo con rappresentanti di polizia, carabinieri e guardia di finanza che vedrà all’opera esperti dello Sco, del Gico, del Ros e della Dia.
Maroni definisce l’iniziativa «un buon punto di partenza» per una reazione immediata, «nell’interesse esclusivo del mondo dello sport e delle persone oneste», anche tenendo conto appunto che «non si
può escludere un intervento della criminalità organizzata in questo settore, che può rappresentare un forte interesse nell’ambito del riciclaggio di denaro sporco». Il nuovo istituto potrà però occuparsi soltanto delle scommesse realizzate in Italia. Per quel che riguarda le scommesse all’interno dei Paesi Ue verrà invece proposta la costituzione di un network europeo sul modello di questa unità investigativa, che a sua volta trae origine dall’esperienza positiva realizzata con l’Osservatorio sulla violenza negli stadi e che servirà a monitorare flussi anomali di scommesse su tutti gli eventi sportivi euro-
diario
ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Caso Battisti, Frattini richiama l’ambasciatore a Brasilia SAN PAOLO. L’ex terrorista Cesare Battisti si è trasferito da Brasilia a San Paolo, dove intenderebbe stabilire la sua residenza. A riferirlo è stato il senatore del Partito dei lavoratori, Eduardo Suplicy. Battisti è stato accompagnato dal suo avvocato Luiz Eduardo Greenhalgh, secondo quanto dichiarato dal deputato della maggioranza di governo al sito del settimanale Veja, e ha già presentato una richiesta al ministero del Lavoro per ottenere un visto che gli consenta di restare in Brasile nella sua qualità di scrittore. Battisti, come si sa, in Italia è stato condannato all’ergastolo in contumacia dalla giustizia italiana per quattro omicidi commessi negli anni Settanta. Quanto alla sua permanenza definitiva in Brasile, una decisione potrebbe essere presa il 22 giugno, quando si riunirà il Consiglio nazionale per l’e-
I consumi e la coperta corta dell’energia migrazione chiamato a pronunciarsi sui visti per “situazione particolari”. Fonti vicine alla difesa di Battisti hanno fatto sapere che è probabile che l’ex militante dei Proletari armati per il comunismo si stabilisca a San Paolo, dove si trova anche la sede della casa editrice che pubblica i suoi libri, la Martin Fontes. Intanto, a rinfocolare le polemiche bilaterali, il ministro Frattini ha richiamato in Italia l’ambasciatore a Brasilia per protesta.
sabilità, e non sensazioni. «Ci sono dei fatti sui quali occorrerà andare fino in fondo. Per quanto riguarda la visibilità del pubblico ministero, non possiamo che richiamarci al nostro codice etico, alla necessità di equilibrio e di evitare situazioni non collegate allo svolgimento delle indagini. L’auspicio è che tutto possa portare all’accertamento delle responsabilità».
pei. Quanto all’ambito extracomunitario, non c’è invece modo, dice lo stesso Maroni «di avere un riscontro immediato per le scommesse fuori dai Paesi Ue su eventi sportivi che si disputano in Italia, anche se la Polizia postale italiana sarà incaricata di monitorare tutti i principali siti di scommesse, per individuare eventuali flussi anomali».
Si diceva della reazione positiva della Figc: «Dal governo è stata data una risposta di qualità – ha dichiarato il presidente Abete - a un fenomeno mondiale che riguarda il nostro sport e il nostro calcio. Oggi l’illecito sportivo corre il rischio di diventare uno strumento per arricchirsi sul sistema delle scommesse non operando secondo le regole, quindi c’è un’attività di contrasto che deve essere sviluppata». C’è una coda polemica però che coinvolge la stessa federazione su cui pesa il sospetto dell’immobilismo o quanto meno dell’attendismo, almeno a stare alle dichiarazioni, poi parzialmente corrette, del legale del difensore del Sassuolo Daniele Quadrini: «Allertammo la Figc già l’11 maggio, la federazione poteva muoversi prima della magistratura». Prima di Quadrini era stato l’attaccante del Lecce, Corvia, a dire di aver presentato alla procura della Figc un esposto il 16 maggio. La Federazione respinge però ogni illazione: ci si stava muovendo – è la tesi che viene opposta – ma poi le indagini che si stavano approntando sono state superate dalle inchieste della magistratura. Nell’inchiesta sulle scommesse nel calcio - questo almeno è l’auspicio del presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara - prima di tutto è necessario accertare fatti e respon-
11 giugno 2011 • pagina 7
Intanto mentre l’inchie-
Per il ministro, è necessario anche un coordinamento a livello europeo contro il racket
Dall’alto: Giuseppe Signori e Cristiano Doni, il pm De Martino e le proteste dei tifosi. A fronte, il minstro Maroni
sta partita da Cremona sul calcioscommesse si allarga a macchia d’olio per accertare appunto fatti e responsabilità, all’estero si scommette sul calcio scommesse italiano. I bookmaker aprono le quote sulla possibile squalifica di qualche giocatore, di quei nomi cioè finiti sul taccuino degli inquirenti, anche se si tratta in gran parte ex calciatori. Dalle intercettazioni sarebbero emersi due nomi eccellenti: quello di Daniele De Rossi e di Sergio Pellissier. Mentre sul primo però è arrivata la smentita del pm Di Martino, sul secondo si attendono ancora informazioni in merito. Si fanno anche i nomi del coinvolgimento di Marco Paoloni (portiere del Benevento) e Daniele Quadrini (attaccante del Sassuolo). I bookmaker sono pronti a scommettere che per i giocatori coinvolti alla fine dell’inchiesta le squalifiche saranno superiori ad un anno: un’ipotesi che si gioca a 1.67, contro il 3.75 sull’evenienza di pene più lievi. Giocate aperte anche sul numero di giocatori coinvolti alla fine dell’inchiesta: per gli allibratori saranno cinque o più (quota 2.50), difficilmente più di dieci (quota 4.00). Scommesse a parte sono già ipotizzabili, per Atalanta e Siena, misure durissime, a partire dall’annullamento della promozione in serie A appena conquistata.
omunque vada, ci dobbiamo preparare. A cosa? A vivere in un mondo con meno risorse, meno energia, meno abbondanza. Non è neanche detto che sia un mondo peggiore da questo che conosciamo. Sarà un altro mondo. Come dice quello slogan un po’ stupido: un altro mondo è possibile. Molto probabilmente sarà così, ma non sappiamo come sarà. L’unica cosa che appare più o meno certa è che l’energia - meglio: la potenza energetica - di cui dispone il mondo non basta per soddisfare il mondo intero. E quando la coperta è troppo corta, qualcuno rischia di restare scoperto. A meno che non s’impari l’arte di arrangiarsi o di mettere a frutto i non pochi accorgimenti a cui possiamo fare ricorso. Ecco perché la lettura del libro di Luca Mercalli - il presidente della Società meteorologica italiana, ma soprattutto “quello” della trasmissione di Fabio Fazio Che tempo che fa - è utile fin dal titolo: Prepariamoci, edito da Chiarelettere.
C
Luca Mercalli non è né un catastrofista né un miracolista. Non pensa che la catastrofe sia imminente, non dice di avere la ricetta giusta in tasca per risolvere tutti i problemi energetici e di consumo della nostra civiltà industriale avanzata. Dice solo, magari con una certa enfasi quando cita Latouche e la decrescita, che ci dobbiamo dare una regolata perché la vita alla grande come la conosciamo oggi - auto, televisione, lavatrice, computer, cemento, consumi, rifiuti, elettroqualsiasicosa - non è destinata a durare per sempre. A un certo punto, anche se non si sa bene quando, le nostre risorse energetiche cominceranno a scarseggiare e allora sarà meglio non farsi trovare impreparati. Prepararsi per il signore che annuncia che tempo che fa in televisione significa limitare i consumi, soprattutto d’acqua, non sprecare, avere un orto da curare perché fa bene alla pancia e al portafogli, attrezzare le case secondo la filosofia del riuso e del riciclo e delle energie rinnovabili. Non sarà una ricetta che fa miracoli, avverte il metereologo, ma almeno quando arriverà il maltempo saremo meno indifesi. Anche a Mercalli non piace il nucleare. Ma, a differenza di altri, non prospetta soluzione alternative definitive e risolutive. Al contrario, dice che non bisogna nutrire false attese dall’energia che si può ricavare dal sole, dal vento e dalle biomasse. Insomma, per il futuro Mercalli non dice faremo la stessa vita perché rimpiazzeremo l’energia che abbiamo con altra energia più bella ed ecologica. Dice, invece, faremo un’altra vita perché ci sarà meno energia per tutti. È vero? È senz’altro vero se si rinuncerà alla fonte che “produce” energia: il nucleare. Infatti, la domanda «possiamo rinunciare al nucleare?» è incompleta perché la domanda esatta è «possiamo rinunciare al nucleare e conservare la nostra civiltà come la conosciamo oggi?». Ecco, rinunciare sì può, per alcuni si deve, ma non tutti sanno che bisogna cambiare vita. Preparatevi.
pagina 8 • 11 giugno 2011
economia
Tutti gli indicatori ci dicono che il 2011 sarà meno brillante del previsto: la modifica delle spese e delle entrate va fatta subito
La manovra e le bugie
I tre miliardi di «manutenzione» previsti da Berlusconi non bastano: la nostra economia sta di nuovo rallentando e bisogna agire subito di Gianfranco Polillo ome sarà la battaglia di primavera? Sarà semplice difesa dei conti pubblici o, finalmente, conterrà qualcosa per favorire lo sviluppo del Paese? Su questo dilemma s’interrogano politici ed economisti, in attesa di vedere le carte che Giulio Tremonti sta covando. A differenza del passato, tuttavia, non potrà essere una scelta solitaria. Silvio Berlusconi sta premendo affinché si abbia un minimo di condivisione, forte dell’appoggio di Umberto Bossi, scottato dalle ultime elezioni e dallo scarso successo, conseguito nel Nord, della sua formazione politica. Analoga attenzione da parte dell’opposizione. Pierluigi Bersani si è dichiarato disponibile a dare il suo contributo, ponendo tuttavia dei paletti, in tema di riforma fiscale, che non lasciano ben sperare. Soldi ai lavoratori e penalizzazione delle rendite finanziarie. Difficile equazione. Lo spread sui titoli pubblici italiani è ancora alto: 155 punti base, nella giornata di ieri, nonostante la flessione del bund tedesco. Se aumentasse la tassazione, sarebbe un piccolo boo-
C
Il governo prevede iniziative di bilancio morbide per prossimi due anni, e solo dopo un intervento correttivo merang. È vero che gli investitori esteri non pagano le tasse, ma aumentare quelle sui titoli di stato penalizzerebbe ancor di più le famiglie italiane, riducendo quel minimo sollievo – i titoli a medio termine (4 anni) rendono poco più del 3,5 per cento – che deriva loro dalle fatiche accumulate. Se invece si risparmiasse il “bot-people”, le maggiori entrate non pagherebbero neppure una tazzina di caffè. Quindi incertezza che si aggiunge a incertezza. E su questo fondo limaccioso cova il fuoco della protesta e dell’anti-politica.
Molto nasce da un equivoco. Mario Draghi, nella sua ultima relazione da Governatore della Banca d’Italia, aveva condiviso la scelta del Governo. «Appropriati - aveva detto - sono gli obiettivi di pareggio di bilancio nel 2014 e l’intenzione di anticipare a giugno la definizione della manovra correttiva per il 2013-14». Come interpretare queste parole? Se fossimo nel “paese normale”, una volta vagheggiato da Massimo D’Alema, ne avremmo preso atto e, serenamente, ci saremmo rimboccate le maniche per ricercare le soluzioni più appropriate. Invece siamo nel clima incandescente dello scontro politico permanente, dove ogni cosa è giusta e lecita. A la
Guerra aperta tra berlusconiani e “tremontiani” sul decreto Sviluppo
La maggioranza ormai litiga su tutto. Addirittura sull’Anas di Marco Palombi
ROMA. Ormai non reggono più, persino nei rapporti umani la frattura nella maggioranza - e addirittura all’interno del Pdl – è oltre il livello di guardia. Il terreno per contendere non è importante, ma è evidente che quello economico è il più delicato e periglioso: si parla, visto che in Parlamento c’è poco altro, della riforma dell’Anas proposta dal capogruppo leghista Reguzzoni - e bocciata da Pdl e governo - e del decreto Sviluppo, attualmente nelle commissioni di Montecitorio. Spiega una fonte leghista: «Berlusconiani e tremontiani ormai litigano su tutto, sul decreto dobbiamo per forza ricorrere alla fiducia». E, con ogni probabilità, fiducia sarà: Silvio Berlusconi ha fatto sapere che il Consiglio dei ministri l’ha già autorizzata e giovedì se n’è discusso pure in conferenza dei capigruppo. Il ministro Elio Vito non l’ha ancora detto ufficialmente, ma siccome sul testo ci sono poco un migliaio di emendamenti e la maggioranza non può resistere a tutti quei voti, probabilmente già mercoledì sera l’esecutivo la annuncerà in aula: così si voterebbe la fiducia giovedì per arrivare al voto finale sul decreto venerdì. Nonostante almeno su questo la strada sia già stata tracciata, non accennano a diminuire le tensioni dentro il partito del predellino. Ieri, per dire, è toccato alla berlusconiana di rito previtiano, Iole Santelli, dare qualche mazzata a Giulio Tremonti: «Nessuno ha mai vinto le elezioni risanando i bilanci. Dobbiamo cambiare la nostra politica economica: nei primi tre anni di legislatura abbiamo dovuto mettere a posto i conti, ma ora come lo spieghiamo agli italiani che ciascuno di noi spende 380 euro per il debito dei greci e nel frattempo noi tiriamo la cinghia?». Di chi è la colpa? «Se Tremonti migliorasse il suo carattere e cominciasse a dialogare di più con gli altri non farebbe un soldo di danno al
governo, ma soprattutto all’Italia». Le raccomandazioni della deputata del Pdl non paiono però aver fatto breccia nelle abitudini del ministro dell’Economia. Il suo collega degli Esteri, ad esempio, ieri non sapeva che dire ai giornalisti che lo interrogavano: «Chi pagherà la manovra per il pareggio di bilancio? Il ministro dell’Economia e il presidente del Consiglio hanno la risposta che io non ho». Forse Giulio Tremonti potrebbe contribuire a far sapere qualcosa al povero Frattini a mezzogiorno di oggi, quando interverrà dal palco del convegno dei Giovani di Confindustria a Santa Margherita Ligure: ma forse il ministro assediato dai suoi potrebbe dare una spiegazione – come vaticina il sito Dagospia – sul perché non abbia smentito quanto riportato da un articolo di Libero di giovedì («Mi hai messo i servizi segreti alle calcagna», sarebbe l’accusa rivolta da Tremonti al Cavaliere). Dietro gli stracci che volano, c’è una crisi politica sempre più conclamata: dentro il PdL che perde i pezzi, certo, ma anche tra il partito berlusconiano e l’alleato storico della Lega. Quello sulla regionalizzazione dell’Anas potrebbe essere l’ostacolo politicamente più pericoloso: i toni d’altronde già sono alle stelle. Dicono che Altero Matteoli sia fuori dalla grazia di dio per il progetto leghista, mentre Gianni Alemanno e Renato Polverini credono che la regionalizzazione sia il primo passo per imporre il pedaggio sul Grande raccordo anulare e hanno festeggiato la bocciatura della pdl Reguzzoni da parte del ministro delle Infrastrutture con toni da stadio: «Alemanno deve scegliere se essere il sindaco della capitale di un importante paese o fare dichiarazioni degne di un bullo di borgata», ha sostenuto allora il viceministro leghista dei Trasporti, Roberto Castelli. Come si dice, dagli amici mi guardi iddio…
guère come a la guère: come dicono i francesi. E l’interpretazione di quelle parole è divenuta subito un’arma da imbracciare: manovra da 40 miliardi – è stato detto – una semplice sciocchezza. Se fossero queste le intenzioni del Ministro dell’economia, bisognerebbe chiamare il 118. In un clima congiunturale, segnato dalla crisi evidenziata ancora ieri dal Centro studi di Confindustria, il solo pensare a questa ipotesi rischia di determinare un effetto snow-ball. La palla di neve che genera la valanga. Sgombriamo, quindi, il campo da ogni equivoco. Anticipare la manovra, non significa concentrarla in un solo anno, ma rispettare la tempistica prevista dal “Documento di economia e finanza 2011”, elaborato dal Governo e approvato dal Parlamento. Vale a dire: semplice manutenzione nei prossimi due anni, quindi un intervento correttivo, pari a 1,2 punti di Pil nel 2013 e a 1,3 nel 2014.
Dato a Cesare quel che è di Cesare, cerchiamo di capire due altri punti: cosa significa manutenzione e se questa linea minimalista può rimettere in moto lo stanco treno dell’economia. Le cifre che circolano sono diverse. Silvio Berlusconi ha parlato di 3 miliardi. Altri di 7.Vedremo i testi che Tremonti sta elaborando. Come dovremo vedere se il provvedimento conterrà, fin da ora, le misure che scatteranno negli anni successivi, secondo il timing indicato. Qui c’è un altro problema. Conviene anticipare il tutto o rispettare le cadenze naturali? Quindi una manovra limitata al solo 2012, lasciando sullo sfondo gli impegni futuri? Vi sono ragioni che depongono a favore di entrambe le ipotesi. Vediamo. Il 2010 non è andato poi così male per l’economia italiana. Secondo gli ultimi dati Istat, l’anno si è chiuso con una crescita dell’1,3 per cento. Modesta. Sennonché siamo nel mondo delle medie di Trilussa: uno mangia un pollo, il secondo digiuna. La media è mezzo pollo a testa. Il nord-est è, infatti, cresciuto del 2,1 per cento, il nord-ovest dell’1,7 percento, il centro dell’1,2 per cento, mentre il Mezzogiorno è risultato stazionario (0,2 per cento). Se avesse seguito la scia degli altri territori, il tasso di sviluppo complessivo, a livello nazionale, sarebbe stato dell’1,7 per cento. Ecco allora un’indicazione prioritaria. A che punto è il Piano per il sud? Possibile che, dopo tanto parlare, non si abbia alcun risultato concreto? Secondo punto. Come sarà il bilancio di fine anno? Le preoccupazioni, purtroppo, aumentano. Il Governo aveva previsto un incremento del Pil dell’1,1 per cento. Finora il tasso di crescita – il cosiddetto “maturato” – è stato dello 0,5 per cento, ma le prospettive sono peggiorate. La produzione industriale è ferma. Il clima di fiducia delle imprese,
economia
11 giugno 2011 • pagina 9
Berlusconi e Tremonti, malgrado i sorrisi e gli abbracci di facciata, sono ai ferri corti. Il premier vuole una manovra morbidissima mentre il ministro sa che i conti (e l’Europa) ci impongono molto di più: anche il monito di Mario Draghi per intervenire presto andava nella stessa direzione. Non basta più neanche Gianni Letta a fare tornare la pace
per quanto riguarda ordini e fatturato, è notevolmente peggiorato, proprio in quest’ultimo mese. C’è poi l’incognita americana, destinata a pesare sugli equilibri mondiali e, di riflesso, su quelli europei, con una ricaduta immediata sulle prospettive italiane. A luglio Ben Bernake, il presidente della Fed, dovrà decidere. Continuerà a pompare liquidità nel sistema e comprare titoli se non proprio tossici, comunque scarsamente potabili, o non sarà costretto a fare un primo passo lungo l’exit strategy? Dovrà, in altri termini, stringere un cappio monetario fin troppo lento? Due, quindi, i pericoli per l’Italia: un tasso di crescita più lento del previsto e una stretta monetaria, che la Bce ha già posto in atto, aumentando il tasso di riferimento di 0,25 punti. Conseguenza? Una manutenzione più pesante del previsto (più dei 3 miliardi annunciati da Berlusconi, insomma). Si dice, in questi casi, che l’attacco sia la maggior difesa. Tentare di controbilanciare questi pesi negativi, significa anticipare, per quanto, possibile la riforma fiscale per dare un po’ di respiro. Lo scontro che si è consumato, tra Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti, riflette questi dati reali e le connesse preoccupazioni.
Il Presidente del Consiglio ha detto che prima dell’estate presenterà al Parlamento la legge delega sulla riforma fiscale. È una scelta giusta, che tranquillizza, tuttavia, solo in parte. Più che di norme, abbiamo bisogno di effetti immediati. Le buste paga dei lavoratori devono aumentare rapidamente. I bilanci delle imprese devono essere alleggeriti, quanto prima, dal carico fiscale. Una semplice legge delega – lo abbiamo visto con il federalismo – non rispetta questi tempi. E mentre i medici sono a consulto, il paziente rischia di morire. Abbiamo pertanto bisogno di
una manovra che saldi il breve con il medio periodo. Che anticipi quel che si può fare subito, come momento non scisso di una strategia di più ampio respiro. Il che vale sia sul fronte delle entrate sia su quello della spesa. Sulle imposte è difficile che si possa ridurre il loro carico complessivo. Si può tuttavia puntare su un diverso mix – imposte dirette e indirette – che ci avvicini all’Europa. Le anomalie italiane, sotto questo profilo, sono fin troppo evidenti.Troppe imposte personali, poche sui consumi. Bisogna cominciare a rovesciare questo rapporto, con effetti benefici sul quadro congiunturale. La stessa Agenzia delle entrate si rende conto di questa contraddizione. Sta utilizzando il cosiddetto “redditometro” – vale a dire l’analisi dei consumi individuali – per giudicare la congruità delle dichiarazioni dei redditi. Un lavoro immane. Non sarebbe più semplice tassare adeguatamente questi consumi e risparmiarsi la fatica?
Sul fronte delle spese il discorso è ancora più complesso. I “tagli lineari”hanno dato tutto quello che potevano dare.
ding review: vale a dire l’obbligo di scomporre le varie poste di bilancio per enuclearne i sottostanti programmi di intervento. Che ne è stato? Un puro esercizio accademico che non ha prodotto risultati concreti. Bisogna recuperare il tempo perduto, introducendo quelle modifiche nel modo di funzionare della Ragioneria Generale che si renderanno necessarie. Se l’operazione si realizza, durante il periodo della semplice “manutenzione” dei conti pubblici,
L’esecutivo aveva previsto un incremento del Pil dell’1,1 per cento. Finora il tasso di crescita è stato solo dello 0,5 per cento e le prospettive generali sono peggiorate Sarà stato pure il metodo Gordon Brown, com’è solito ripetere Giulio Tremonti, ma l’Italia non è l’Inghilterra. L’Amministrazione di Sua Maestà Britannica ha regole, valori e procedure che noi nemmeno ci sogniamo. Dobbiamo, quindi, voltare pagina; ma non è semplice. Occorre del tempo a condizione che si cominci fin da oggi. Nella finanziaria del 2008 (articolo 67, comma 3) era previsto l’avvio della spen-
possiamo arrivare alle scadenze impegnative del 2013 e del 2014 attrezzati quanto basta per passare dalla scure – i tagli lineari – al fioretto dei risparmi mirati e razionali. In una situazione tutt’altro che semplice l’Italia ha quindi le risorse per gestire questa navigazione perigliosa. Il nodo, come si è soliti dire, è solo politico. Ma è qui che possono intervenire gli uomini di buona volontà. A chi è fuori dal coro delle contrapposi-
zioni politiche, chiediamo autonomia e iniziativa. Ci si batta per indicare la strada percorribile, mettendo da parte le suggestioni di chi vuol giocare solo una partita di potere. La legislatura andrà come deve andare, ma fin da ora è possibile indicare una possibile via d’uscita, nell’interesse del Paese.
Mai come oggi il merito dei problemi ha una rilevanza prevalente su quello dei semplici schieramenti, la cui dinamica incontrollata può solo aumentare lo stato d’incertezza e di confusione. Se vogliamo lavorare per il domani, dovremo calarci in questa prospettiva. Poi, come si dice, l’intendance suivra. E gli elettori, alla ricerca di una soluzione razionale, premieranno il coraggio e la determinazione. Del resto solo un cieco non può vedere come il clima sia cambiato. Le promesse, le suggestioni, la demagogia – sia di destra che di sinistra – non pagano più.Tutti avvertono il morso di questa crisi. Sono anche disposti ad affrontare gli inevitabili sacrifici che essa comporta. Su un punto, tuttavia, non si transige. Basta con le cialtronerie. Siamo gente seria. Ed è venuto il momento di dimostralo.
politica
pagina 10 • 11 giugno 2011
Bruno Tabacci avrà la delega al Bilancio, Stefano Boeri alla Cultura e all’Expo ROMA. Così come promesso in campagna elettorale la sua giunta è per metà formata da donne. Giuliano Pisapia l’ha presentata ieri e si è detto soddisfatto «non solo per la disponibilità di eccellenze, ma anche perché mi auguro sia un forte segnale per le attese di questa città». Il sindaco di Milano ha rivendicato il merito di aver chiuso l’organigramma in dieci giorni e l’autonomia con la quale ha scelto gli assessori: «Ho ascoltato tutti, ma poi ho preso in piena autonomia le decisioni e ne sarò responsabile. Se avrò sbagliato la responsabilità sarà solo mia perché la scelta è stata mia. Questa giunta è figlia di una grande stagione di partecipazione che Milano ha vissuto da quando è iniziata la campagna elettorale del centrosinistra. Ora inizia una meravigliosa avventura nell’interesse della città’ che darà risposte serie alle attese di chi vive a Milano». Così, dopo gli ultimi confronti con i partiti che lo hanno appoggiato il sindaco ha sciolto, gli ultimi nodi della sua giunta. A proposito di notizie su lunghissimi incontri notturni e scontri sui nomi Pisapia ha voluto precisare di non essere «mai stato in riunione fino alle sei di mattina con i rappresentanti dei partiti ho semmai fatto le sei di mattina con il mio staff per lavorare. E non ho mai battuto i pugni sul tavolo, non solo perché non è mia abitudine, ma perché non ce n’è mai stato bisogno». Il primo cittadino ha mantenuto le deleghe a Partecipate, Innovazione, Risorse umane e organizzazione, Giovani, Agenda digitale, Sistemi informativi, Avvocatura, Facility management, Comunicazione, Sistema di gestione della qualità. La pattuglia rosa è capeggiata dal vicesindaco Maria Grazia Guida, direttrice della Casa della Carità, eletta nel Pd e vicina agli ambienti cattolici. All’avvocatessa Ada Lucia De Cesaris è stato affidato l’assessorato all’Urbanistica, alla sociologa del centro studi Cgil Cristina Tajani quello alle Politiche per il lavoro, Sviluppo economico, Università e ricerca. Daniela Benelli dovrà occuparsi dell’Area metropolitana e del Decentramento e Carmela Rozza, la più votata tra le donne candidate ed ex segretaria del Sunia, della Città metropolitana. Qualche sorpresa ha suscitato la scelta delle ultime due donne: Lucia Castellano, direttrice del carcere di Bollate, e
Pisapia cambia colore: dall’arancione al rosa Nella giunta sei assessori su dodici sono donne. Il vicesindaco è Maria Grazia Guida di Franco Insardà
Ecco la squadra di Palazzo Marino Sei donne e sei uomini per la squadra di Giuliano Pisapia. Maria Grazia Guida è il vicesindaco con deleghe all’Istruzione, Rapporti con il Consiglio comunale, Attuazione del programma. Daniela Benelli, è l’assessore all’Area metropolitana e al Decentramento, Chiara Bisconti, al Benessere, Qualità della vita, Sport e tempo libero. A Stefano Boeri Cultura, Expo, Moda, Design. A Lucia Castellano Casa, Demanio, Lavori pubblici. L’assessore al Commercio, Attività produttive, Turismo, Marketing territoriale è Franco D’Alfonso, Lucia De Cesaris è quello all’Urbanistica, mentre Marco Granelli alla Sicurezza, e Pierfrancesco Majorino al Welfare. Pierfrancesco Maran, assessore alla Mobilità, e all’Ambiente. Bruno Tabacci, assessore a Bilancio e Cristina Tajani, al Lavoro.
Chiara Bisconti, direttrice del personale del gruppo Nestlè. La prima è l’assessore alla Casa, al Demanio e ai Lavori pubblici, la seconda al Benessere, Qualità della vita, Sport e tempo libero.
I sei uomini della giunta milanese sono invece Bruno Tabacci, portavoce di Alleanza per l’Italia, al quale è
te, il giovane Piefrancesco Maran è quello alla Mobilità, Ambiente, Arredo urbano e Verde Franco D’Alfonso, ex manager Finivest e stretto collaboratore di Pisapia nella corsa a Palazzo Marino, ha avuto la delega al Commercio, Attività produttive, Turismo, Marketing territoriale. Infine Marco Granelli è l’assessore alla
A sopresa la direttrice del carcere di Bollate, Lucia Castellano, si occuperà di Sicurezza mentre la manager Nestlè, Chiara Bisconti, gestirà il Personale stato affidato l’assessorato al Bilancio, Patrimonio eTributi, Stefano Boeri, architetto curatore del masterplan Expo e primo degli eletti nella lista del Pd, che ha avuto delega alla Cultura, Expo, Moda e Design. Il capogruppo del Pd nel precedente Consiglio comunale, Piefrancesco Majorino è l’assessore alle Politiche sociali e servizi per la salu-
Sicurezza e coesione sociale, Polizia locale, Protezione civile, Volontariato.
A conti fatti, quindi, il Pd ha avuto cinque assessori (Guida, Boeri, Majorino, Maran e Granelli), due sono andati a Sinistra Ecologia e Libertà (Benelli e Tajani), uno alla lista “Milano civica per Pisapia” (D’Alfonso). Mentre la Bisconti, la Castellano e la
De Cesaris sono da considerarsi “indipendenti” indicate dal sindaco. Così come lo stesso Tabacci che, come ha precisato il candidato a sindaco centrista nei giorni scorsi: «La sua presenza in giunta non riguarda le scelte ufficiali del Terzo Polo». A sostituire Manfredi Palmeri alla presidenza del Consiglio comunale dovrebbe essere Basilio Rizzo, della Federazione della Sinistra. Un ruolo che accontenta in parte lo schieramento, rimasto fuori dalla giunta insieme all’Italia dei Valori e ai Radicali. L’Idv ha già minacciato un appoggio esterno e la Federazione di Sinistra non sembra davvero accontentarsi di avere il decano del consiglio Basilio Rizzo alla presidenza dell’assemblea di Palazzo Marino. «Abbiamo sostenuto Pisapia fin dalle primarie - ha detto il portavoce di Fds Nello Patta - per governare Milano, non per fare i guardalinee». Il sindaco, durante la conferenza stampa di presentazione della giunta ha auspicato che Basilio Rizzo possa essere eletto presidente dell’assemblea di Palazzo Marino: «La mia è solo una valutazione e non voglio anticipare una decisione che spetta al consiglio comunale. Ho fatto solo un auspicio, ma per quella carica serve un soggetto in grado di essere garante di tutti. Rizzo lo conosco molto bene e sono certo che lo sarà».
Oltre alla lista dei dodici assessori Pisapia ha annunciato oggi anche altre due nomine per quanto riguarda gli organi di garanzia. Il presidente emerito della Corte costituzionale Valerio Onida rappresenterà l’autorità per le garanzie civiche in collaborazione con l’avvocato Umberto Ambrosoli, figlio del liquidatore della Banca privata di Michele Sindona e ucciso da un suo sicario. Piero Bassetti rappresenterà infine la consulta per l’internazionalizzazione del sistema Milano. Apprezzamenti per i nomi indicati da Pisapia sono venuti da molti ambienti politici e sociali milanesi. Ma non sono mancate le critiche, come quella dell’ex vicesindaco di Milano e consigliere del Pdl Riccardo De Corato: «La vera novità della giunta che il neo sindaco di Milano ha presentato, riguarda la presenza all’interno di questa compagine dal dopoguerra ad oggi di assessori che fanno riferimento all’area radicale difensori da sempre dell’area dei centri sociali e quindi di quella cosiddetta “no global”».
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
MEDIOEVO RITROVATO Il Mercato delle Gaite a Bevagna
di Gabriella Mecucci era una volta un bellissimo paese (o cittadina) delElettra. Arrivarono giornalisti da tutta Italia e quello del Corriere La splendida l’Umbria, la cui comunità viveva fuori dai grandi e piccoli cirdella Sera nel suo articolo si lamentò perché a Bevagna, così si chiama il sfida è cuiti dei tour culturali e turistici. Stavano bene, ma nessubellissimo paese, non c’era nemmeno una locanda. Per dormire, ti no si occupava di loro. Non che sentissero troppo la dovevi accomodare in qualche località limitrofa. Da allora sono ricostruire al meglio mancanza degli altri. Anzi, coltivavano con piacere le loro passati una ventina d’anni e nella cittadina sono nati alberil modo di vivere tra il 1250 e tradizioni, anche in orgogliosa solitudine. La più singhi, agriturismi, residenze d’epoca, con oltre ottocento il 1350. Così tra mestieri, cibi e luoghi golare fra queste erano i nomi: tutti o quasi proposti letto. Di più: è diventata una delle attrazioni venienti dalla classicità. C’era una gran mesturistiche del «cuore verde». E un grande inteld’incontro, i quattro rioni della cittadina umbra se di Priami, Tarquini, Atristoteli, Ascani, Ulislettuale come Giuseppe De Rita l’ha definita un ripropongono ogni anno un pezzo si, Pindari, nonché di Cleopatre, Agrippine Peneloposto ideale, il miglior luogo d’Italia per la tranquilpi Teodolinde. Incredibile a dirsi, non c’era nemmeno di “storia materiale”. La singolar lità e la piacevolezza della vita, «una piccola città a misuuna Samantha né una Deborah. A un certo punto - e cioè nei ra d’uomo». Che Bevagna fosse bellissima, dalla piazza ai vicotenzone raccontata li - uno primi anni Novanta - venne terminato il restauro del magnifico scenario medioevale fra i più straordinari e i meglio conserin un libro teatrino locale e un regista d’eccezione come Massimo Castri fece lì le vati - era vero anche una ventina d’anni fa. Che è successo di così nuovo, prove e la «prima», anzi le «prime», visto che ce ne fu più d’una, di una sua tanto da metterla al centro di innumerevoli e variegate attenzioni?
C’
Parola chiave Speranza di Sergio Valzania Márai e la metafora del gabbiano di Pier Mario Fasanotti
NELLA PAGINA DI POESIA
In Poliziano, l’essenza del Rinascimento di Filippo La Porta
Giacometti, umano troppo umano di Rita Pacifici Quelle inquiline del sesto piano di Anselma Dell’Olio
Contro la dittatura del Contemporaneo di Marco Vallora
medioevo
pagina 12 • 11 giugno 2011
Da quando il giornalista del Corriere si innervosì per la scomodità che gli toccò scontare, è nato a Bevagna Il Mercato delle Gaite. Per capire di che si tratta, il turista alla ricerca di luoghi incantevoli da qualche giorno può trovare in libreria uno splendido volume fotografico con le immagini coinvolgenti di Livio Bourbon e un gustoso racconto di Bruno Caldarelli (Editrice La Rocca, 248 pagine, 35,00 euro), dal titolo: Il Mercato delle Gaite. Grandi storie di piccola gente o, forse, piccole storie di gente grande. Detto in breve, foto e testo raccontano di un gioco inventato abbastanza di recente dai bevenati, in cui si mescolano lotta per il primato, cultura sopraffina, lavoro manuale e business per autofinanziarsi. In genere le feste dei paesi antichi sono figlie della tradizioni. La nascita dei «Ceri» di Gubbio, che si ripetono tutti gli anni il 15 maggio, si perde nella notte dei tempi. E la «Giostra del Saracino» di Arezzo la ritroviamo nei versi di Dante. Le Gaite invece sono nate poco più che una ventina d’anni fa da un gruppo di bevenati, amici e grandi conversatori, nonché cultori della storia e della bellezza del loro paese. Passeggia e chiacchiera, chiacchiera e passeggia, nacque l’idea vincente. Gli illuminati «padri costituenti» si inventarono un gioco che, oltre alla competizione, comportava la collaborazione di tutti i cittadini. Il Mercato delle Gaite è un pezzo di «storia materiale» - direbbero gli studiosi degli Annales - perfettamente ricostruita.
La formula vincente è così composta. Al primo punto c’è la lotta fra i rioni di Bevagna che sono quattro: San Giorgio, San Giovanni, San Pietro e Santa Maria. La competizione per rioni o quartieri - qui si chiamano Gaite funziona un po’ovunque la si faccia. La gente si aggrega e ha una bandiera in cui identificarsi. Ma a Bevagna la scelta fatta dai «padri costituenti» è particolarmente coinvolgente: il Mercato è una tenzone a cui prende parte, in qualche modo, l’intera cittadinanza, non un solo campione che lotta per portare il Palio nella propria contrada. Non è come a Siena, per intenderci. Alle Gaite non ci sono panchinari. Si tifa e si partecipa, si partecipa e si tifa. Le prove sono quattro: tre collettive e una individuale (il tiro con l’arco). Solo alla fine della gara, che dura un’intera settimana, si sa chi ha vinto. Per sei notti si va a letto sul chi va là. Quale Gaita ha fatto meglio? Come giudicherà la giuria? Ma al di là del tiro con l’arco, le altre tre volte su cosa si compete? Siamo arrivati alla pensata più bella dei «padri costituenti». Ci si
batte per realizzare al meglio l’ambiente medioevale (1250-1350): i mestieri così come si facevano allora (prima sfida), i luoghi conviviali d’epoca (seconda sfida) e i mercati trecenteschi (terza sfida). Sembra facile, ma realizzare uno di questi luoghi - sia un’officina o una bettola - è parecchio complicato. Richiede una grande conoscenza e una altrettanto grande manualità. Facciamo un esempio. Ammettiamo che vogliamo raffigurare il lavoro di un artigiano che nel Trecento faceva le monete. Dobbiamo informarci su quali me-
tutto con un occhio particolare, naturalmente, all’Umbria e ai dintorni. Ma non basta, per vincere bisogna tentarle tutte. E allora, in una delle annate migliori del Mercato, la Gaita di San Pietro pensò che nel Medioevo già esisteva il più antico mestiere del mondo. E, quindi, in una ricostruzione che si rispetti non poteva mancare un bordello. Non era semplice farlo, ma la sfida venne raccolta con entusiasmo. Le prostitute trecentesche vennero piazzate in un locale a pianterreno e «si fece in modo che dall’apertura sulla strada i potenziali clienti fossero attratti da colorate trasparenze di leggerissimi velari, il cui ondulare nella penombra nascondeva e mostrava le rotondità di due compiacenti presenze femminili, lascivamente distese. Un effetto conturbante», racconta Caldarelli. Per realizzare tutta questa roba, non occorre solo studiare, ma avere buone mani per realizzare. Insomma, si tratta di documentarsi a lungo e poi di lavorare per un mese buono. E i soldi per reggere tutto questo dove si recuperano? Cucinando nelle bettole delle Gaite cibi d’epoca e allietando così i tanti turisti attratti dai singolarissimi menù. Una faticaccia, ma il business funziona. Dopo una settimana di gare, patemi, sudori, alla fine arriva il giudizio delle giurie. Qui, i «padri costituenti» l’hanno studiata proprio bene. Chi assegna la vittoria è infatti un gruppo di studiosi del Medioevo molto qualificati. Così Alcune immagini che, se hai messo qualcosa fuori posto di Livio Bourbon chessò, un metallo, un tessuto, una verdu(Spin 360) tratte dal libro ra - quelli se ne accorgono subito. E per “Il Mercato delle quell’anno ti sei giocato il Palio. Sempre Gaite” (testi più difficile. I bevenati per vincere sono di B. Caldarelli, diventati così bravi con le mani che molti Editrice La Rocca). fra i professori-giudici non hanno più laPer informazioni sciato il Mercato delle Gaite e da membri sull’edizione 2011: della giuria si sono trasformati in frewww.ilmercatodel quentatori della tenzone, in tifosi, e, quallegaite.it, che volta, anche in partecipanti. Del resto info@ilmercatodel a chi insegna che cosa era davvero il Melegaite.it, 0742 361847 dioevo serve parecchio avere un rapporto con gente che sa fare attrezzi, luoghi e cibi d’epoca. Racconta il libro che una volta, uno di questi professoroni per far vedere agli allievi come erano fatte le monete del Trecento, se le fece prestare dai fabbri delle Gaite.
talli venivano usati, con quali strumenti si fondevano, quali effigi c’erano e via ricercando… Se andiamo al mercato, vestiti di tutto punto con panni d’epoca, attenti a non mettere però fra l’ortofrutta i pomodori perché non c’erano. Bisogna informarsi, dunque, su cosa si produceva e dove la si produceva. Quali erano gli animali più allevati e quelli che non si trovavano. Il anno IV - numero 22 - pagina II
ritrovato
Partito il Mercato, anno dopo anno, Bevagna si è sempre più riempita di gente ora curiosa, ora appassionata del gioco. Migliaia e migliaia di turisti hanno così scoperto quanto questa cittadina umbra sia bella: hanno sostato nella piazza centrale che è un vero capolavoro dell’arte di conservare un ambiente medioevale così come era. Ed è qui che hanno visto svolgersi l’ultima gara, quella del tiro con l’arco. Poi, un bel giorno è arrivato Livio Bourbon e ha fotografato i luoghi e la gente delle Gaite. Ne è venuto fuori un libro molto bello, con i volti, gli ambienti, gli scorci di Bevagna. Sfogliarlo sarà un piacere non solo per chi ha partecipato a qualche edizione, ma per tutti. Dal 16 giugno l’incanto si ripete. (Per il programma del Mercato delle Gaite, che si conclude il 26 giugno, e che si articola in concerti, gare gastronomiche e di tiro con l’arco, botteghe dei mestieri e mercati medioevali, consultare il sito www.ilmercatodellegaite.it, ndr).
MobyDICK
parola chiave
11 giugno 2011 • pagina 13
SPERANZA trana virtù, la speranza, quasi ambigua, sfuggente, proiettata verso il futuro e quindi vuota di presente.Vive una condizione intermedia tra le altre virtù teologali, tutta contemplazione la fede, tutta azione la carità. La speranza sembra non avere uno spazio proprio di realizzazione, rivolta verso il domandi che ancora non c’è e che comunque ha poco a che fare con il qui e l’adesso. I vocabolari la definiscono «attesa fiduciosa di un evento o una persona graditi e desiderati», quasi un quadretto agreste dipinto ad acquerello, dai colori sfumati, con qualche nuvoletta in cielo per dare profondità. Non mi pare possibile che una virtù, decisiva per definizione, manchi fino a questo punto di fibra, di determinazione, di potenza eroica. Le parole dei Vangeli sembrano poi indicare per la speranza una direzione di sviluppo e affermazione diversa da quella dell’attesa, esse non sono rassegnate alla dimessa aspettativa di un dopo risolutivo, di qualche cosa che non c’è ma ci sarà, non è detto quando, per la nostra salvezza. Al contrario, tale salvezza non è annunciata nel futuro ma proclamata nel presente e persino radicata nel passato, con la formula giovannea di introduzione attraverso l’In principio, che riprende il Bereshit della Genesi, la parola che apre il racconto della creazione. Già allora il Verbo era presente e il mondo esiste «per mezzo di Lui», e quindi è stato salvato prima dei tempi, al momento stesso della creazione, da un sacrificio
S
Il suo significato non è di carattere visionario, attendista, irrealizzato. Non si rivolge al futuro ma si concentra sul presente. Tutto sta nell’entrare in consonanza con l’idea di salvezza
Un incrocio di sguardi di Sergio Valzania
Nella sequenza canonica le virtù teologali sono presentate nell’ordine fede, speranza e carità. Si tratta di un percorso di formazione. La fede è infatti il fondamento delle cose che si sperano. E, così procedendo, si arriva a capire che ciascun uomo è l’eletto del Signore misterioso che esiste nella storia e al di fuori di essa, dato che non ne è condizionato ma la domina e la indirizza. L’alleanza proclamata da Dio con l’uomo è realizzata e pienamente valida, non contiene clausole che ne ritardino l’entrata in vigore. Il Signore è pronto qui e ora ad abbracciare la più cara delle sue creature.
Solo in questo contesto possiamo chiederci il significato, il contenuto della virtù della speranza, che non può essere di carattere visionario, attendista, irrealizzato. Secondo me esso si situa nei pressi della capacità profetica, che nella concezione cristiana è collegata all’oggi, al discernimento dei segni dei tempi, alla lettura dell’agire quotidiano di Dio e non a un invasamento, a una possessione ispirata, secondo l’accezione pagana. Allo stesso modo la speranza cristiana non si rivolge al futuro, non guarda oltre l’orizzonte del tempo, ma si concentra sul presente e consiste nella sforzo di osservare il mondo allineando il proprio sguardo a quello di Dio, in modo da scorgerne la realtà profonda e luminosa. Dice il profeta Michea: «Volgo lo sguardo
al Signore, spero nel Dio della mia salvezza» (Mi 7,7). In questo incrocio di sguardi, in questo rivolgersi che è un entrare in consonanza, ci impegniamo a riconoscere attorno a noi, nella nostra esperienza quotidiana, i segni dell’opera della salvezza, ad accettare il mondo come il luogo predisposto per la realizzazione di un incontro, il nostro con Lui, in contemporanea con infiniti incontri diversi, nostri e Suoi, tutti ricchissimi, fino
a comporre la complessa meraviglia di ciascuna preziosa vita umana e la sinfonia del creato nella quale tutte hanno il loro posto centrale. Nella sequenza canonica le virtù teologali sono presentate nell’ordine fede, speranza e carità. Si tratta del disegno di un percorso di formazione. La fede rappresenta il primo stadio del cammino, consiste nell’accogliere in sé il dato esistenziale della presenza di Dio, premes-
sa che condiziona in modo radicale l’intera nostra esperienza del mondo. La speranza è il passo successivo, dice la lettera agli Ebrei «la fede è fondamento delle cose che si sperano» (Eb 11,1) e questo significa anche che dobbiamo leggere la nostra esperienza umana non come frutto del caso ma in quanto atto d’amore, primo gesto di una chiamata che continua a realizzarsi ogni giorno e ci convoca a un lavoro continuo su noi stessi per poter rispondere a essa in maniera appagante. Infine giunge la carità, la risposta all’amore di Dio che non può manifestarsi in uno spazio diverso dall’amore stesso, rivolto a Dio e a tutto il creato, ai nostri simili per primi. L’amore per il prossimo richiede però come presupposto la speranza, perché solo guardando a lui con lo sguardo di Dio ci incamminiamo lungo un percorso di correttezza nei suoi confronti, lo riconosciamo per quello che è, sfuggiamo dalla tentazione di farne un tramite al servizio dei nostri progetti. L’amore non è un dato astratto, una valuta che si può trasferire con un ordine da un conto a un altro, è invece un’esperienza concreta, sofferta, partecipe, che si radica nella capacità di leggere nell’altro il bene che Dio ci legge, l’oggetto del suo amore determinato e particolare, indirizzato a quella singola persona. Ciascun uomo, ciascuna donna è l’eletto del Signore.
La speranza di essere oggetto dell’amore divino qui e oggi, indipendentemente dalle apparenze di una vita che non sempre soddisfa quelli che ci appaiono come i nostri desideri, si trasforma in strumento che ci rende capaci di riconoscere gli altri come fratelli e di impegnarci ad agire di conseguenza. Senza illusioni di uscire dalla storia, di negare il mistero del peccato originale, ma consapevoli del fatto che non stiamo attraversando una valle di lacrime, non siamo nati per soffrire e la vita terrena deve rappresentare un viatico per quella eterna. In questo senso siamo responsabili della nostra vita come di quella degli altri. Nell’Apocalisse di Giovanni, la «rivelazione», per tre volte Dio ricorda di essere l’Alfa e l’Omega, l’inizio e la fine della storia e della vita del mondo e di ogni uomo, assicura in questo modo di avvolgere l’esistenza di ciascuno in una sorta di bozzolo di tenerezza e di affetto. Riecheggiano in questo contesto le parole di Gesù sul suo essere la vite dalla quale si dipartono i tralci, irrorati dalla linfa che li attraversa e che dona loro la capacità di fruttificare. Il salmo 118, tante volte citato, recita: «La pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo». Per conoscere il mondo, per comprenderlo bisogna assumere il punto di vista di Dio, adeguarsi a un modo di agire che non è quello del potere umano e appartiene invece alla potenza divina, definisce lo stile del Signore, il suo partecipare affettuoso alla nostra vita, un’evidenza che la speranza riconosce e alla quale si affida nel presente e non in un futuro che ha da venire perché, prosegue il salmo 118, «Questo è il giorno fatto dal Signore, rallegriamoci in esso».
pagina 14 • 11 giugno 2011
MobyDICK
Pop
musica
di Bruno Giurato
I Red Hot Chili Peppers E I PRELIMINARI DEL ROCK
di Stefano Bianchi ll’ombra della Tour Eiffel c’è chi continua a capovolgere la musica. Marc Collin e Olivier Libaux, in vita loro, non si sono mai sognati di comporre canzoni: per il semplice motivo che gli bastano e avanzano quelle scritte da altri. Coadiuvati dall’intercambiabilità di sei voci femminili (Camille, Mélanie Pain, Phoebe Killdeer, Nadeah Miranda, Helena Noguerra e Mareva Galanter) è dal 2004 che portano avanti con successo (più di settecentomila dischi venduti) il progetto Nouvelle Vague del copia-e-incolla. Con criterio però, buongusto e un bel po’di talento. Per Collin e Libaux, Nouvelle Vague ha un triplice significato: oltre a riferirsi al movimento cinematografico nato negli anni Cinquanta coi vari François Truffaut, JeanLuc Godard, Eric Rohmer e Claude Chabrol, è la traduzione francese della britannica New Wave e strizza l’occhio alla bossa nova. Tolto il cinema (nient’altro che uno snobistico pallino da saletta d’essai, per i due parigini), rimangono in gioco la New Wave e la bossa nova a dimostrazione di quanto l’affaire sia intrigante. Vizio dei Nouvelle Vague, infatti, è far rivivere in modo sofisticato e il più possibile «bossanovista» i successi di fine anni Settanta/Ottanta ma non solo quelli: anche i brani meno noti (purché eccezionali, a loro insindacabile giudizio) che magari hanno fatto rima con punk e dark. Qualche esempio: Nouvelle Vague, il disco d’esordio del 2004, reinventava in versione lounge pezzi barricaderi (Guns Of Brixton dei Clash), canzoni ultra pessimiste (Love Will Tear Us Apart, Joy Division), gingilli elettronici (Just Can’t Get Enough, Depeche Mode) e bizzarrie assortite (Making Plans For Nigel degli XTC; In A Manner Of Speaking dei Tuxe-
elle foto recenti sembrano un gruppo di vecchi in gita sul lago Trasimeno, o una comitiva di pensionati in viaggio a Tindari (Montalbano docet). Ma il profilo anzianotto va bene così. Dati i tempi, per fare i rocchettari bisogna avere molto di anziano: le generazioni ggiovani ormai vanno a ritmo dei dj; può capitare in giro per Berlino di trovare un centro sociale di dieci piani con venti sale e 200 dj che si esibiscono in una serata. Neanche un gruppo live, figuriamoci un gruppo rock. Ed eccoli qui, dunque. I Red Hot Chili Peppers. Con il loro funk rock rap, con il chitarrista John Frusciante che come al solito suona male (ma suona giusto), con il cantante Anthony Kiedis che francamente stona, e dal vivo dopo la prima mezzora di voce costantemente un po’ out stanca pure. E col bassista Flea che a dispetto dell’immagine da lurido reietto è un supervirtuoso di basso e songwriting. Tornano i RHCP. Dopo aver prospettato un titolo che probabilmente avrà causato incubi alla loro etichetta discografica, e cioè Dr. Johnny Skinz’s disproportionately rambunctious polar express machine-head, per un certo periodo caldeggiato da Anthony Kiedis, pare che adesso i Peppers abbiano optato per il titolo definitivo. Forse non molto originale, ma funzionale sì. Secondo un tweet di Flea, il disco è stato battezzato I’m with you e sarà pubblicato il prossimo 30 agosto. Il testo del messaggio del musicista: «I’m With You, August 30th!!! whahoooooo!!! yip! yippeeee!!!! whaaaaaaa!!!!!!! yes y3es ys ye s yes yes yeyeyeye yes yes yeslovelovelove». Come si vede l’anzianità non è solo una delle condizioni preliminari per fare rock. L’altra è un cervello poco o male funzionante. E ci sta in pieno. Questo è solo rock ’n roll. Ma ci piace.
N
A
Jazz
zapping
Gli anni Ottanta dei Nouvelle Vague do Moon). Bande à part (2006), trattava à la Jobim suoni plumbei (Bela Lugosi’s Dead, Bauhaus), ritornelli da Top Ten (Heart Of Glass dei Blondie; Dancing With Myself di Billy Idol) e technopop (Let Me Go, Heaven 17). Nouvelle Vague 3, uscito nel 2009, si divertiva a tropicaleggiare Police (So Lonely), Talking Heads (Road To Nowhere) e Soft Cell (Say Hello, Wave Goodbye), col triplo salto mortale di God Save The Queen (Sex Pistols). Con Version Française, invece, gli anni Ottanta sono di casa e si trasformano in un caleidoscopico easy listening sull’onda transalpina del post punk e dell’electropop.Ve la ricordate Amoureaux Solitaires di Lio? Rieccola, in soffice bossa nova, cantata da Hugh Coltman. E Mala Vida dei Mano Negra? Olivia Ruiz ce la rilancia in un look spagnoleggiante da Gipsy Kings. Week-
end à Rome di Etienne Daho? Si ritrova sognante e un po’ svampita nell’interpretazione di Vanessa Paradis. E se Marcia Baila (Les Rita Mitsouko) è pop deluxe nelle corde vocali di Adrienne Pauly, Où veux-tu qu’je r’garde (Noir Désir) è sfrontata grandeur a precipizio sul rock e L’aventurier dei «dissidenti» Indochine, proposta da Helena Nogerra e Louis Ronan Choisy, sembra uscita da un film di Quentin Tarantino. Ma i Nouvelle Vague non celebrano solo Parigi (vedi Déréglée di Marie France, icona della vita notturna, che Mélanie Pain reinventa in chiave unplugged): ripescano Les Dogs da Rouen (Sandy, Sandy), Les Gamines da Bordeaux (Voilà les anges), i Kas Produkt da Nancy (So Young But So Cold) per poi sconfinare in Belgio e addirittura in Svizzera a recuperare Putain, Putain dei TC Matic e Two People In A Room di Stephan Eicher. Nouvelle Vague all’ennesima potenza.Tanto vale esagerare. Alè! Nouvelle Vague, Version Française, Discograph, 18,99 euro
La Voce che Hiromi non esprime a parole
Hiromi Uehara, pianista e compositrice, il talento più straordinario dell’attuale scena jazzistica giapponese e non solo. Nata nel 1979, aveva debuttato nel 2003 e il pubblico italiano ebbe l’occasione di apprezzarla già nel 2004 a Umbria Jazz. Nelle prossime settimane si avrà l’occasione di riascoltarla e constatare nuovamente le sue altissime qualità di pianista. Hiromi suonerà infatti il 10 luglio all’Arena Santa Giuliana di Perugia nel corso di Umbria Jazz. Il suo ritorno è stato preceduto dalla pubblicazione, martedì scorso sul mercato discografico italiano, del suo ultimo lavoro, Voice, in cui è accompagnata dal bassista Anthony Jackson e da Simon Phillips, un nuovo batterista di grandi capacità suggeritole, oltre che da Jackson, anche da Stanley Clarke, anch’egli bassista, con cui Hiromi aveva collaborato nel 2009 e 2010 in due importanti lavori, Jazz in the Garden e Stanley Clarke Band.
È
Contrariamente ad alcurebbero una maggiore di Adriano Mazzoletti ni suoi precedenti visibilità. album, Hiromi ha Del suo ultimo alrinunciato, in quebum e del titolo ha st’ultimo, alla preparlato la stessa senza di David Hiromi: «Quando Fiuczynski, un intesuono, mi rendo ressante e originale conto che la musichitarrista che è staca filtra emozioni. to uno dei suoi magHo chiamato quegiori ispiratori. Lo sto album Voice, stile di questa brillante pianista evidenzia perché credo che la voce reale delle perinfatti in molti passaggi, l’influenza che sone sia espressa nelle loro emozioni. su di lei hanno esercitato i chitarristi. Chi Non è qualcosa che dici, è qualcosa che ha avuto occasione di assistere ai suoi hai nel tuo cuore. Forse è qualcosa che concerti sarà rimasto colpito dalla sua non hai ancora detto, forse non lo dirai esile e fragile figura che contrasta con la mai, ma è la tua vera voce. La musica grande forza con cui esegue cascate ri- strumentale è molto simile. Non hai parobollenti di arpeggi, di uno stile, al con- le o testi ad aiutarti, solo la vera voce che tempo, raffinato e inventivo. Eccellente non esprimi a parole, ma che puoi ricopianista dunque Hiromi, che va ad ag- noscere quando è reale». Su nove brani, giungersi agli altri solisti giapponesi an- otto sono di sua composizione, mentre cor poco o punto conosciuti e che merite- l’ultimo è una interpretazione della So-
nata per piano n° 8 di Beethoven Patetica. La ragione di questa scelta la si evince scorrendo la sua biografia: «Prende le prime lezioni di piano all’età di sei anni.A sette entra a far parte della prestigiosa Yamaha School of Music. A dodici si esibisce in pubblico con un’orchestra sinfonica giapponese. A quattordici, a Praga, ottiene grande successo con l’Orchestra Filarmonica Ceca». Era l’inizio di una carriera in ambito classico. Quando però nel 1996 a diciassette anni, incontra prima Chick Corea, successivamente Ahmad Jamal, i suoi interessi si indirizzano verso il jazz. Si iscrive alla Berklee School dove nel 2003 di diploma a pieni voti. I nove album realizzati a suo nome, fra il 2003 e il 2011, fanno di questa pianista una delle personalità più importanti del jazz di oggi. The Trio Project, Hiromi Voice, Telearc, Distribuzione Egea
MobyDICK
arti Mostre
ualcosa sulla Biennale. Teoricamente non ne dovrei parlare, per deontologia, per non rischiare il conflitto d’interessi, avendo partecipato alle commissioni di segnalazioni d’artisti, presunti validi e decorosi, da inserire nelle sedi distaccate, regionali, del Padiglione Italia, diffuso sul territorio. Che non essendo state ancora aperte, già ne abbiamo sentito dir tutto il male possibile e stroncare, su presunzione d’un sapere preveggente, da parte d’una classe di cronisti pecoroni e prevenuti, terribilmente irrigimentati. Altra cosa è il Padiglione vero e proprio all’Arsenale, ove a segnalare il meglio o il peggio dell’arte in Italia, sono questa volta (colpevoli) i cosiddetti intellettuali, di cui ahimé mi trovo a far parte. Per cui, ovvio, dovrei tacere, e non tenterò alcuna difesa. Ma non posso non rilevare comunque, dall’altra parte, l’allarmante conformismo, politicamente correttissimo, e curiosità indipendente zero, di critici schierati faziosamente (è dir poco), che han tutto il diritto di sparare contro il bazaarSgarbi, per carità, e prendersela con lo stenditoio un po’ lavanderia della signora Tagliabue Miralles (che pure s’è meritata un Leone d’Oro alla carriera architettonica, mai contestato) e lamentare la posizione un po’supina e stesa di alcune opere sacrificate, leggi Carol Rama o Vallorz, e sia! Ma allora come fanno a non accorgersi, per decorosa par condicio, e non dire mai, nemmeno sotto tortura, per vile connivenza contemporaneistica, quanto sia altrettanto bazaar e fiera campionaria (del nulla) e senza un guizzo di fantasia alcuna e nemmeno un sussulto d’orgoglio curatoriale, quel lazzaretto smidollato e tassonomico, anemico e asettico, svizzerino e magramente algido, del percorso Biennale-Curiger, che ammorba i fantasiosi spazi dell’Arsenale e conduce regal-nulmente al nostro contestatissimo Padiglione? Non si penserà che se le opere-nulle e vuote, vengano poi meticolosamente centellinate e distillate, secondo
Q
Archeologia
11 giugno 2011 • pagina 15
Contro la dittatura del Contemporaneo di Marco Vallora una cesura danzata «elegantissima», come dice qualche collega (anche perché di fatto non c’è nulla da mostrare, e regna il vuoto pneumatico) questo sia meno bazaar dell’altro... semplicemente un bazaar orizzontale e poverista, basta intenderci sulle parole e star tutti felici. Ma quello che irrita: scovare uno, almeno uno, degli screditabililissimi colleghi, che trovi il coraggio di dire che per un lungo kilometro e passa dell’intiero corridoione dell’Arsenale ma non ti capita d’inciampare mai (visto che ci sono stanze improvvisamente e insulsamente buie; dislivelli gratuiti; salette maleodoranti, ove ti devi porre in circolo sotto un cerchio di metallo, che di botto e a tradimento ti rovescia addosso un rumore insostenibile), di imbattersi in un’opera, dico una, che sia una, davvero interessante o intrigante… Ma dove mai lo troverai mai questo pusillanime eroe? E per esempio quella stessa col-
lega, per di più romana, che s’esalta per la «pulizia» sublime dell’accrochage-Curiger, ha poi anche l’ignoranza di segnalarti, quale opera geniale, quella che per lei sarebbe un «Colosseo quadrato» (nonchiedetemi-di-chi, ma c’è) perché forse è lei che non s’è mai spinta all’Eur, e non sa riconoscere che quella maquette è semplicemente il riprodotto Palazzo della Civiltà Italiana, disegnato da Guerrini e Lapadula, in stile Libera. Libera nos a malo (et ignorantia): e così, tutti quelli che sparano contro il dilettantismo della domenica dei convocati al Padiglione Italia, strano non si siano accorti che tra i dilettanti c’è anche un ritratto, sarà più tardo, sarà di bottega, sarà una copia, comunque notevole, d’un certo Piero della Francesca. Raccomandato, chissà da quale parente... Eh, già, la colpa è di Sgarbi, che stipa troppe cose insieme e che non capisce nulla d’arte contempora-
nea. Ma sinceramente, ci può essere qualcosa di più brutto, e domenicale, e cattivo gusto di quei serpentoni di bronzo (anche qui, meglio dimenticare nomi d’artisti inesistenti) che Bonami però ha fatto pervenire che so io, dalla Lituania o dall’Ucraina (si pensi alle spese) per il padiglione dislocato-russo, con un titolo che è già tutto un programma: Modernikon? Ma lì nessuno osa dire nulla, perché Bonami è così trendy, e moderno, e chic! È questo che fa sorridere e insieme infuriare: la dittatura, alla frutta ormai, del Contemporaneo a tutti i costi. (E anche per questo, forse, s’accaniscono tanto contro avversari più lucidi, che con bazaar sarcastici ironizzano e riflettono, comunque, su rituali e riti massonici silenti del mercato dell’arte, mai messi sinora in discussione. Chissà perché poi se il solito svizzero Hirshhorn o Adeagbo del Benin ci propinano i loro mercati afro-rionali o gli ammassi d’almanaccati detriti duchampiani, si cade in brodo di giuggiole. Se uno ti mostra invece lo stato, anche precario, ma con alcune scoperte dell’arte d’oggi, magari scelta da intellettuali ormai completamente scollati da un universo artistico, che solo trent’anni fa i Parise, i Montale, i De Libero, Sinisgalli e Gatto dominavano magnificamente, allora lì, anatema: merda! Troppo facile, cari signori! A riparlarne.
Cina e Giappone, sulle orme di Maria Teresa Lucidi n’apripista curiosa e testarda. Così era considerata la studiosa Maria Teresa Lucidi, docente di Storia dell’arte dell’Estremo Oriente dal 1970 al 2002 alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma «La Sapienza». E per renderle omaggio, alcuni giorni fa è stato presentato il libro Alla maniera di... Convegno in ricordo di Maria Teresa Lucidi. L’imponente volume di 776 pagine - curato da Pierfrancesco Fedi, Chiara Silvi Antonini, Paola MortariVergara Caffarelli, Alida Alabiso, Daniela Sadun, Francesco Noci e Tullio Aurici ed editato dalla Casa Editrice Università La Sapienza raccoglie i contributi scientifici presentati da diversi colleghi, allievi ed esperti di varie discipline (archeologiche, storiche e linguistiche) nel convegno tenutosi nel 2007 presso il dipartimento di Studi Orientali della Sapienza in onore della studiosa. Tra gli oltre 50 contributi, quelli dei docenti Daniela Sadun, Luisa Bongrani, Biancamaria Scarcia Amoretti, Chiara Silvi Antonini, Fabio Scialpi, Bianca
U
di Rossella Fabiani Maria Alfieri, Arcangela Santoro, Donatella Mazzeo e Marco Bussagli; quelli dei suoi amati allievi Marco Maccarelli e Caterina Brunelli e ancora quello di Nadia Fiussello, quello di Erika Forte e quello di chi scrive. Nella sua attività didattica e di ricerca scientifica Maria Teresa Lucidi (1930-2005) si occupò principalmente delle problematiche inerenti l’archeologia, l’arte e la sfera filosofica cinese, indagò l’arte e le concezioni estetiche del Giappone e s’interessò anche dei contatti e dei rapporti culturali tra le civiltà dell’Asia Orientale con quelle dell’Eurasia. La mostra, da lei promossa e coordinata, sulla Via della Seta nel 1994 e il convegno organizzato sulla presenza italiana nel Giappone Meiji (18681912) nel 2000 riunirono, inoltre, numerosi esponenti del mondo scientifico e della cultura a livello nazionale e internazionale, ottenendo unanimi consensi per i risultati raggiunti. Il convegno in suo ricordo e gli atti relativi che ora sono stati pubblicati rappresentano perciò non sol-
tanto un tributo al suo operato, ma propongono anche interessanti ipotesi di ricerca nel segno di un percorso che segue, in alcuni casi, intendimenti e modelli di approccio critico da lei perseguiti. Diverse generazioni di colleghi, allievi e studiosi hanno infatti presentato al convegno, e quindi pubblicato, un proprio lavoro sulle tematiche che hanno accompagnato le ricerche della collega, dell’insegnante ma anche dell’amica. I testi sono suddivisi in aree specifiche: i rapporti che intercorrono, dalla Preistoria a oggi, tra le grandi civiltà dell’Asia; il ruolo svolto dalla Via della Seta e le forme d’arte a essa correlate; le testimonianze del rapporto tra Oriente e Occidente nel corso del tempo; i temi pertinenti tanto all’archeologia quanto all’arte, antica e attuale, della Cina; gli esiti peculiari della produzione artistica giapponese; e, infine, lo studio della formazione e della composizione delle raccolte italiane con opere e oggetti d’arte orientale. Conclude il volume, in un’apposita Appendix, la pubblicazione di un suo articolo postumo sulla pittura di paesaggio in Cina e in Giappone, tema da lei a lungo indagato e approfondito. Ma al di là di ogni merito scientifico, Maria Teresa Lucidi è stata una persona ricca di umanità, pronta e disponibile nei confronti di generazioni di allievi che hanno seguito i suoi corsi, non di rado irruenta e testarda, ma capace di riconoscere le ragioni degli altri. Sempre autorevole, mai autoritaria.
MobyDICK
pagina 16 • 11 giugno 2011
onsiderava il suo lavoro un fallimento progressivo, una lunga e ineluttabile sequenza di approssimazioni, sempre imperfetto. Il suo studio parigino di rue Hipollyte Maindron conservava memoria di una lotta furiosa con la materia, i detriti di un disfare implacabile, di un moto perpetuo di creazione e annientamento perché ogni forma gli appariva sempre impari, perdente, infinitamente al di sotto del reale. Come disse a Jean Genet avrebbe voluto modellare una statua per poi sotterrarla e fare in modo che riapparisse soltanto molto più tardi. Sottrarre l’opera all’opacità del presente e affidarla a un’altra epoca che forse avrebbe posseduto una maggiore capacità di penetrazione. Quegli esseri filiformi e corrosi che Alberto Giacometti realizzò negli anni successivi alla seconda guerra mondiale rivoluzionando la scultura del Novecento, in effetti non sembravano appartenere al presente ma a «un’età sepolta». Somigliavano a «rose del deserto», dall’aria «dolce e aspra di eternità che passa». Un tratto arcaico e potente, nonostante l’apparente fragilità, che proietta le figure del grande artista sempre in avanti o indietro, in un territorio indefinibile, nonostante egli attraversasse il cubismo, il surrealismo e l’esistenzialismo. Quello di Giacometti è un percorso votato alla solitudine perché fondato
C
una lunga indagine sull’archivio privato condotta da Michael Peppiatt che getta nuova luce sul metodo di lavoro adottato dall’artista per forzare il visibile. Quale fosse l’anima, l’autentica vocazione sottesa all’opera di Giacometti, è chiaro sin dagli esordi. Nato nel 1901 nel villaggio svizzero di Borgonovo, in un ambiente ricco di stimoli, il padre è pittore impressionista, a soli tredici anni scolpisce la testa del fratello Diego, che lo scultore considerò sempre parte integrante e fondante del suo percorso. Seguiranno altri ritratti dei fratelli e della madre. Non sono soltanto semplici esercitazioni formali. C’è qui l’anticipazione di una problematica ineludibile. Come rendere giustizia alle cose, come cogliere la somiglianza, non tradire l’unicità di un soggetto in un mondo dove tutto è inimitabile. Gli studi classici, i viaggi in Italia dove conosce Masaccio, Giotto e Tintoretto, lo indurranno a riflettere su quanto il vero sia obiettivo difficile e ingannevole. Persino il Rinascimento sembra aver mancato il bersaglio affidandosi a una soluzione più scientifica che pittorica. Giacometti studia e copia l’arte del passato elaborando una riflessione che riscatta dall’insuccesso, dallo scacco a cui sembra destinata ogni mimesi, soltanto le forme astratte. Il brillante studente che da Ginevra nel ‘22 si trasferirà a Parigi per seguire i corsi di Bourdelle, al-
il paginone
Il suo desiderio sarebbe stato quello di modellare una statua e sotterrarla per sottrarla al presente, affidandola a un’epoca con maggiori capacità di penetrazione. Ma l’autentica vocazione dell’artista che ha rivoluzionato la scultura del ‘900 era forzare i limiti della rappresentazione scavando nelle sembianze fino all’osso, fino alla traccia ultima dell’uomo
La mostra a lui dedicata, che sta per chiudere al Maga di Gallarate, getta una luce nuova sul suo metodo di lavoro adottato per forzare il visibile
Giacometti, umano su uno studio della visione insistente, fuori dal comune, perseguito con un’ossessione che ha pochi precedenti nell’arte occidentale. Una straordinaria avventura dello sguardo che inizia precocemente, quando il piccolo Alberto vedeva del mondo esterno soltanto alberi e pietre, con una percezione già posseduta dalla ricerca di assoluto, impregnata da quella sottile verticalità e dalla qualità rocciosa che costituiranno il tratto distintivo delle sue sculture.
La realtà costituì per lui un obiettivo irrinunciabile, fonte di turbamenti infiniti. L’arte, era solito dichiarare, «m’interessa ma la verità infinitamente di più». Questa verità egli la riversò non solo nella scultura e nella pittura ma anche in moltissimi disegni e schizzi, spinto da un’autentica compulsione a catturare l’apparenza che accompagnò tutta la sua vita. Appunti visivi che costituiscono un aspetto rilevante della sua attività, ora ben documentato dalla mostra in corso presso il Maga di Gallarate Giacometti. L’anima del Novecento, che oltre a un centinaio di opere, offre il risultato di anno IV - numero 22 - pagina VIII
lievo di Rodin, incrocia a questo punto le sperimentazioni cubiste e postcubiste. Ha inizio per l’artista un allontanamento meditato, un esilio inevitabile dalle forme reali. Eppure a correggere gli eccessi dell’avanguardia interviene la memoria della stilizzazione egizia e dell’arte primitiva, in grado di congiungere universalità e concretezza, di condurre il mondo sensibile al limite estremo senza mai distaccarsene. Donna con cucchiaio del ’26, rivisitazione di un oggetto africano in chiave antropomorfa, Testa che guarda del ‘28, tra le opere più estreme in direzione dell’astrattismo, sono declinazioni personali della scomposizione analitica, rappresentazioni dell’uomo al grado zero ma anche un estremo canto d’amore per ciò che rischiava di sparire per sempre dissolto dallo spirito geometrico, inghiottito dal magma informe dell’estetica moderna. L’incontro con i surrealisti porterà a Giacometti ancora una volta l’illusione di una meta condivisa. L’artista svizzero diventerà amico e interlocutore stretto dei maggiori protagonisti del movimento e in particolare di André Breton, entusia-
di Rita Pacifici sta del giovane che dal ‘27 cominciò a trasferire in scultura quel bagaglio iconografico fatto di associazioni libere, desideri inconsci e immagini mentali immesso nella pittura da Salvador Dalì. Palazzo delle quattro del mattino, Gabbia e Palla sospesa, celebrata in molti scritti come icona dei nuovi codici espressivi, sono proprio sogni scolpiti che consentiranno a Giacometti di ottenere una rapida affermazione. «Ecco finalmente delle pietanze di pietra, del cibo di bronzo meravigliosamente vivo, e a lungo capace di risvegliare, ravvivare la nostra gran fame» scriveva nel 1929 Michel Leiris ammirando le sculture cave, «frutti svuotati» del promettente artista che folgorò anche Jean Cocteau. Ma il cibo surrealista, spalancato sugli abissi psichici, risulterà di scarso nutrimento per la fame di realtà che perseguita Giacometti e che gli si impone attraverso epifanie continue: tre ragazze che passeggiano, le persone sedute in un cinema in contrasto con la vita finta dello schermo, i visitato-
ri del Louvre, così vividi vicino a opere che all’improvviso «appaiono simili a un balbettio timido e malcerto lanciato attraverso i secoli», segnali molti più deboli della vita stessa.
Il surrealismo fu un gioco, un momento di passaggio e non un punto d’arrivo. Un pensiero estetico che ha prodotto solo begli oggetti. Un equivoco, ammetterà l’artista. O forse un’opportunità per esercitarsi sul meccanismo della visione. Per affinare le armi in attesa di altre battaglie, perché ben altra cosa è l’arte. L’oggetto invisibile del ‘35, l’idolo che stringe il vuoto con le mani, chiude l’adesione dello scultore al gruppo guidato da Breton. Seguirà un silenzio lunghis-
11 giugno 2011 • pagina 17
“L’uomo che cammina” del ‘47, prima di una serie di sculture replicate in numerose varianti fino al ‘66, anno della morte di Alberto Giacometti (ritratto, a sinistra, da Cartier Bresson). Sopra alcune opere pittoriche dell’artista. Nella pagina a fianco le figure filiformi e minuscole degli anni Quaranta
simo. Oltre dieci anni prima di tornare a esporre, anni in cui l’artista inverte di nuovo l’impulso creativo dall’interiorità inconoscibile all’esistenza e al suo centro vitale che l’arte del Novecento sembra aver rimosso.
Per scacciare i fantasmi dell’irrealtà Giacometti torna a copiare dal vero e lavora tutti i giorni per cinque anni, dal ‘35 al ‘40, con lo stesso modello. Ritorna alle origini e riprende a esplorare i soggetti familiari anche attraverso la pittura con risultati importanti come nel ritratto della madre del ‘37. Negli stessi anni in cui Picasso compone Guernica, il grandioso affresco che con linguaggio modernissimo denunciava gli orrori della storia, lo scultore che fino a questo momento è stato al passo con i tempi, cerca l’uomo nella sua nuda essenza recuperando lo studio e il metodo accademico. Dal 1940 nascono esseri minuscoli, appena accennati, di cinque, dieci centimetri che costituiscono la prima risposta al tentativo di restituire dell’uomo una «visione totale». Piccole figure su piedistalli sproporzionati, quasi una citazione classica di
stituite alla grandezza naturale ma non meno prive di materia delle precedenti miniature. Lunghe, esilissime, ieratiche. Colte nell’atto primordiale dell’incedere oppure immobili come le Donne di Venezia, solitarie o in gruppo come Foresta. Dietro c’è il modello esplicito di Rodin ma queste linee dall’aspetto umano non sono più costruite attraverso la sovrapposizione di punti di vista diversi, non consentono più di essere osservate come le sculture classiche. Sono presenze che irrompono nello spazio all’improvviso e ci trafiggono, un bagliore di reale puro subito catturato dallo sguardo. Ancora una volta l’esperienza del vedere si risolveva in un processo di sottrazione, in una negazione, in un’assenza. Determinava forme così consunte e disincarnate da non suggerire più la vita ma evocare un tormento, farsi sostanza di un malessere. Materializzazione di quel dramma dell’incomunicabilità messo in scena da Beckett, per il quale Giacometti disegna la memorabile scenografia con l’albero di Aspettando Godot, e di quel disagio del vivere teorizzato da Jean Paul Sartre. Mai la materia fu meno eterna, più vici-
rica riduzione di un corpo a un solo elemento che mostra la propria decomposizione. Dopo il 1950 è anche la pittura a intensificarsi, è attraverso il disegno e i pochi, essenziali colori che Giacometti prosegue la propria indagine verso un’origine perduta, una sorgente nascosta, rinchiusa nel cerchio della nostra fisicità, ma egualmente inaccessibile. Moltissimi i dipinti memorabili, come il ritratto alla moglie Annette e quelli a Jean Genet, che testimoniano l’impegno a mostrare di ogni soggetto la presenza tangibile, interiore ed esteriore, a riportare a galla insieme alla somiglianza qualcosa che sfugge e che nel Novecento si ritrova con la medesima intensità soltanto in Francis Bacon. Spiegherà così questo impulso profondo: «Sento il bisogno di dipingere volti, sono quasi allucinato dai volti delle persone. Come un segno ignoto, come se ci fosse qualcosa da vedere che non si vede al primo colpo d’occhio». Occorre infine accennare all’enigma del viso stesso di Giacometti, antico, antidiluviano, lo descrive Sartre, alla sua testa come «tagliata con l’accetta» che colpì il fotografo Brassai, ai lineamenti che sem-
troppo umano un’arte che sembra non esistere più. La scultura è lingua morta, teorizzerà pochi anni dopo con un suo celebre scritto Arturo Martini. Eppure proprio questi simulacri così minuti da poter essere schiacciati con un dito esprimono la fede smisurata di un artista verso la propria irrinunciabile missione. Il ritorno alla figurazione, sia pure larvale, sarà considerato con ironia dagli ex compagni di strada. Ma la ricerca di Giacometti non si ferma. Al suo ritorno a Parigi, dopo la pausa forzata a Zurigo a causa della guerra, mette in atto una trasformazione successiva. L’uomo che cammina del ‘47, è il primo di una serie di sculture, replicate in numerose varianti fino al ‘66, anno della morte, che rappresentano il vertice indiscusso della sua attività e rompono del tutto con le contemporanee espressioni artistiche. Figure re-
Ha attraversato il cubismo, il surrealismo e l’esistenzialismo. Ma il suo è stato un percorso votato alla solitudine, una straordinaria avventura dello sguardo na a essere umano, scrisse il filosofo che farà di Giacometti l’artista simbolo dell’esistenzialismo. C’è qualcosa di eroico nel forzare i limiti per riportare indietro dal vuoto in cui era caduta la rappresentazione, anche solo un fantasma evanescente. Come se procedesse per avvicinamenti successivi e togliesse «un velo dopo l’altro», l’artista che in questi anni ottiene riconoscimenti straordinari e riprende a esporre in tutto il mondo, prosegue il cammino delimitando sempre più il proprio campo d’indagine, concentrandosi quasi esclusivamente sul volto ed estraendo dagli occhi, dai singoli lineamenti quanto c’è di essenziale e di individuale, scavando nelle sembianze fino all’osso per strapparne l’anima primitiva. Nel ’47 modella Il naso, fantasmago-
bravano scolpiti, così simile alle sue sculture che si è tentati di interpretare il corpus della sua opera come un immenso autoritratto. Non si può fare a meno allora di ricordare Jorge Luis Borges con i suoi meravigliosi racconti sull’assoluto e quel personaggio che si era proposto di disegnare il mondo vagando per tutta la vita per scoprire alla fine di aver tracciato l’immagine del proprio volto. L’eredità che Giacometti ha lasciato è l’archetipo dell’artista che sacrifica tutto al proprio viaggio conoscitivo, che non rinuncia a entrare nel labirinto dell’apparenza per seguire la traccia ultima dell’uomo, in bilico tra tutto e niente ma pur sempre limite invalicabile senza il quale non c’è nessun autentico sguardo e nessun’arte è possibile.
Narrativa
MobyDICK
pagina 18 • 11 giugno 2011
libri
Sándor Márai IL GABBIANO Adelphi, 163 pagine, 16,00 euro
uesto romanzo di Sándor Márai, tra i più raffinati che abbia mai scritto, fa riferimento, già a partire dal titolo, al volo dei gabbiani che, giunti dall’estremo Nord europeo, si riposano sopra e accanto al Danubio che taglia Budapest, e qui, coi loro versi stridenti, rauchi e per nulla «sentimentali», elemosinano pezzi di pane, si gettano in picchiata come suicidi per poi risalire nell’aria. Volatili che sorvolano un mondo in guerra, poca cosa probabilmente dinanzi ai loro occhi indifferenti, «quasi crudeli». Occhi che somigliano a quelli grigioverdi della giovane donna scandinava che cerca ospitalità in Ungheria, confidando in una vicinanza etnico-linguistica che ha il sapore di destino. Si fa chiamare col suo nome finnico, Aino Laine, che significa Unica Onda. Si affaccia, con la leggerezza di un uccello, nello studio di un importante consigliere di Stato, al quale chiede protezione dopo che le bombe hanno distrutto la sua casa lassù, al Nord, dopo soggiorni a Parigi e a Londra. L’uomo, raffinato e pensoso burocrate, ha appena scritto qualcosa da consegnare al ministro, parole che incideranno sugli eventi della storia, parole che disegneranno una linea di separazione tra due epoche, o almeno questa è l’intenzione o la speranza. In ogni caso l’uomo sa bene che il tumultuoso rotolare delle decisioni politiche riguarda non più il singolo individuo, ma le masse. Ecco, è questo il nuovo soggetto sociale. La mutazione è accaduta quando le grandi città hanno fagocitato le individualità riducendole a statistica o addirittura a «cellule in coltura da laboratorio» così che nascono e vivono senza però «vivere» la propria morte. I pensieri del consigliere di Stato si accumulano, si autoalimentano e si aggrovigliano nel tepore di una stanza che pare inviolata dalla guerra, così come sono terreno esistenzialmente neutri i teatri dove gruppi di persone chiedono, e ottengono, musica al posto delle parole cui nessuno più crede. In questo sofisticato labirinto mentale, il consigliere ha un fremito quando si accorge che l’ospite finlandese somiglia in modo impressionante alla «sua» amata Ilona, suicida a soli 22 anni. Come se il passato fosse tornato con sembianze nemmeno tanto ingannevoli, innestando riflessioni sulla desolan-
Q
te banalità dell’uomo allorquando si crede un unicum e non parte di un tutto, di un universo che sta sopra e dentro di noi e procede senza strappi, semmai con somiglianze. Ilona, prima di scomparire dal mondo, aveva parlato di morte con il consigliere. Anzi, lo aveva invitato al gesto estremo a due. Aveva formulato la proposta «in tono salottiero», lui l’aveva considerata una spiritosaggine. Invece la tragedia per avvelenamento c’è stata. Perché? I suicidi non sono altro che «un’infantile e delirante vendetta»: vero, ma questo non spiega tutto. Il padre di Ilona addita come colpevole un presunto amante della figlia, un docente di chimica dall’aspetto geniale, sulfureo e folle. Ricorda il consigliere, fiaccato dal dolore e dalla sorpresa, che Ilona aveva detto che «non tutto ciò che accade può essere giudicato da un punto di vista umano». Il burocrate invita a teatro la giovane finlandese, infine a casa sua. Lei rappresenta «la dolcezza della vita» che, come diceva Taillerand, è stata conosciuta «solo da chi ha vissuto prima della Rivoluzione francese». C’è un bacio, in una cornice di compostezza e di algida eleganza che non include o prevede il pathos: «…in fondo alla vita - scrive Márai - c’è il bacio… solo così i corpi riescono a esprimere quel che cercano per tutta l’esistenza». Il consigliere, dinanzi a una donna che è stordente e sublime copia di Ilona, spende parole per convincerla che si può esistere, e tornare a esistere, «in un’infinità di modi». Le sussurra: «È come se il tuo corpo e il mio si fossero dati appuntamento nostro malgrado, nel caos dell’esistenza». L’uomo discetta su ogni cosa fino a lambire ipotesi sull’amore come scelta che si ripropone, «prodigio in carne e ossa». L’autore continua a far conversare i due su una corda tesa. Finché la sporca realtà quotidiana irrompe. Lui si accorge che la bella ospite è lì per una missione precisa. Mandata da chi? Da una belva con aspetto umano, dalla «risata bizzarra» simile a quella dei folli… la voce di una bestia, «come se il lupo si mettesse ad abbaiare e a ridere». La volgarità del tradimento si sfibra in cortesia astratta e surreale, produce malinconia cosmica. Il gabbiano risale. Poco importa quel suo guardare feroce.
Márai e la metafora del gabbiano
Uno dei più raffinati romanzi dello scrittore ungherese. Dove un amore felice si ripresenta con risata di belva...
Riletture
di Pier Mario Fasanotti
Viaggio à rebour tra musica e letteratura
onfesso che ho vissuto» potrebbe ripetere Walter Mauro, mutuando il famoso titolo dell’autobiografia di Pablo Neruda, dopo aver scritto l’ultima riga di questo suo viaggio à rebour nella sua lunga vita, affidato al giovane e intraprendente editore Giulio Perrone, con il titolo La letteratura è un cortile. E anche se la battuta è di Enrico Falqui questo titolo rispecchia il carattere e l’atteggiamento di Walter Mauro, sempre apparentemente distaccato da ciò che ama, e forse proprio per troppo amore e per troppe delusioni. E in verità la sua è stata una vita da bigamo, divisa fra la passione per la letteratura e quella per il jazz, che lo hanno fatto diventare un critico famoso in tutti e due questi campi. Ai quali si deve aggiungere, per completarne il ritratto, la sua avversione al fascismo, che gli rivelò la stupidità delle dittature quando, in un negozio di musica, trovò un disco intitolato Le tristezze di San Luigi, eseguito dall’orchestra di Luigi Braccioforte, e scoprì che si trattava del famoso Saint Louis Blues suonato da Louis Armstrong, e ciò per rispettare la proibizione dell’uso di parole straniere! Questa rivelazione avvenne, mentre era
«C
di Luciano Luisi ancora un ragazzo, a Bari che, nonostante sia nato a Roma, può considerare la sua città perché ci è vissuto fino alla maturità classica e dove è «diventato uomo». A Bari, grazie all’amicizia dell’editore Laterza, potè conoscere Benedetto Croce, il primo incontro importante della sua vita, fra i molti che fanno stimolanti queste pagine. La personalità di Walter Mauro è come una pianta cresciuta in un terreno fertile: sua madre era una affermata pianista che portava in casa il culto della musica; suo padre, pur essendo un ufficiale pilota, amava l’opera, e possedeva una vasta biblioteca cha ha determinato la sua scelta di vita. Ma fondamentale fu l’aver ascoltato a Roma una lezione su Leopardi di Ungaretti, con il quale si laureò. Ciò che affascina il lettore di queste pagine è che, da critico e giornalista, Mauro
Da Ungaretti a Louis Armstrong, le passioni e gli incontri di un critico: Walter Mauro si racconta
mescola nella sua narrazione aneddoti e giudizi penetrando nella personalità dei grandi scrittori anche dal punto di vista umano essendo in gran parte diventati suoi amici, da Moravia a Bassani, da Pavese a Calvino, da Prisco a Rea, solo per citarne alcuni. Letteratura e Jazz si uniscono come accade a Parigi dove Walter incontra, fra tanti grandi, Sartre e Simone De Beauvoir ed è presente quando esplode la passione fra il jazzista nero Miles Davis e la musa dell’esistenzialismo Juliette Greco. Tanti anni dopo, sulla storia di quell’amore Mauro scriverà, dopo una quarantina di libri di saggistica su letteratura e jazz, il suo primo romanzo. Grazie alla sua compagna, la poetessa e ispanista Elena Clementelli, conosce a Roma Raphael Alberti ed entra in contatto con la cultura spagnola. I suoi viaggi non hanno confini: neppure gli scrittori più schivi riescono a sfuggirgli, da Roth, a Marquez a Ehremburg, e sono incontri indimenticabili. Alla fine del suo racconto Mauro dice che la nostalgia non è nelle sue corde, ma si può credergli?
MobyDICK
poesia
11 giugno 2011 • pagina 19
Poliziano e il limite della parola poetica
l Rinascimento è la ragione principale per cui ogni anno sciamano nel nostro Paese milioni di turisti e per cui innumerevoli stranieri si mettono a studiare la nostra cultura. Eppure nelle università americane sanno tutto, poniamo, di Botticelli, ma ignorano Poliziano, per evidenti ragioni linguistiche (la pittura è un linguaggio tendenzialmente immediato, universale). Si pensi solo che ancora negli anni Cinquanta negli Stati Uniti gli italiani erano richiesti nei cantieri come scalpellini, solo perché nell’immaginario siamo il Paese di Michelangelo (come ricostruisce John Turturro nel suo film omaggio al padre carpentiere Mac). Peccato, perché credo che l’anima umanistica del Rinascimento, insieme solare e insidiata dall’ombra, oscillante tra la vita come danza permanente e coscienza della vanità del tutto, si esprima con radiosa perfezione nei versi di Poliziano e di Lorenzo de’ Medici (suo amico e sponsor, benché meno colto). Qualche volta, commentando le poesie della nostra grande tradizione letteraria, mi è capitato di soffermarmi sulla natura duplice di questa tradizione (ma la stessa cosa si potrebbe dire delle arti figurative o della musica): semplice e raffinata, popolare e aristocratica (ai suoi albori anche i versi di un Iacopone da Todi erano in fondo plebei ed eleganti…). Così nei Detti piacevoli di Poliziano (composti tra il 1477 e il 1479: epigrammi, facezie, brevi apologhi, etc.) si ritrovano per Giovanni Folena una componente indigena (la prontezza intellettuale) e un’altra aristocratica (l’eleganza formale). Solo un esempio dai Detti, peraltro di un modo di dire ancora oggi assai diffuso: «El Barghella, quando vedeva fanciulli o gittar sassi o gli sentiva far romore, soleva dire: - O Erode, dove se’tu ora?».
I
Grazie a una traduzione dell’Iliade, a soli 16 anni, inviata a Lorenzo de’Medici, Poliziano fu subito invitato a corte come precettore di Piero, e ne diventò l’intellettuale più prestigioso. In lui ritroviamo sempre un rigore, un equilibrio (la docta varietas) che ad esempio nell’espressionismo beffardo del coetaneo Luigi Pulci, cercheremmo invano. Scrive indifferentemente in latino e in volgare (si pensi anche solo al ricchissimo epistolario) e dialoga con gli antichi come se fossero suoi contemporanei. La sua opera, di sterminata erudizione, ricapitola i miti greci e latini, le narrazioni medievali, le figure della poesia stilnovistica, etc., non con il distacco di un repertorio postmoderno ma con la consapevolezza di appartenere a una stessa civiltà, quasi atemporale, come i fiorentini che nelle giostre si mascheravano da antichi ateniesi… Nel poema capolavoro delle Stanze, interrotto per la morte violenta di Giuliano de’ Medici (Congiura dei Pazzi), cultura classica e cultura romanza si fondono alla perfezione dentro una «compresenza di elementi linguistici eterogenei» inedita per la nostra letteratura volgare, segnata dal «tono stilistico
il club di calliope
di Filippo La Porta uniforme» di Petrarca (Giulio Ferroni). Anche nelle Rime in volgare, dove il registro stilistico è ulteriormente abbassato, la scelta di generi popolari come i rispetti (analoghi agli strambotti, ottave di endecasillabi) e le ballate (e non, mettiamo, i più ricercati sonetti), da parte di un umanista così raffinato e filologicamente agguerrito, va nella stessa direzione. Nei rispetti d’amore una tematica già molto usurata (dallo Stil novo in poi: ad esempio questo invito alla donna amata, e per definizione distante: «E però, donna, rompi un tratto el ghiaccio,/ assaggia anche tu el frutto dell’amore:/ quando l’amante tuo t’arà poi in braccio/ d’aver tanto indugiato arai dolore./ Questi mariti non ne sanno straccio,/ perché non hanno si ‘nfiammato il core.») viene nobilitata attraverso la soave musicalità e la forma perfetta delle ottave. Nelle ballate il candore di Poliziano ci mostra il mondo come se fosse la prima volta: «Costei per certo è la più bella cosa/ che ’n tutto ‘l mondo mai vedesse il sole:/ lieta, vaga, gentil, dolze, vezzosa,/ piena di rose, piena di viole». Nei versi di Poliziano si esprime l’essenza del Rinascimento, il senso di una felicità fuggevole e travolgente, legata alla giovinezza, e quasi l’impossibilità della tragedia (come nei versi dello stesso Lorenzo o nei
quadri di Botticelli): «Ben venga maggio/ e ‘l gonfalon selvaggio!/ Ben venga primavera,/ che vuol ch’uom s’inamori;/ (…)». In altre ballate troviamo modi plebei, scherzosi, grotteschi, triviali, etc: «Una vecchia mi vagheggia,/ vizza e secca insino all’osso;/ non ha tanta carne addosso/ che sfamassi una marmeggia./(…)» o anche «Canti ognun, ch’i canterò,/ dondol, dondol, dondolò./ (…)», o infine «Io vi vo’, donne, insegnare/ come voi dobbiate fare./ Quando agli uomini vi mostrate,/ fate d’esser sempre aconce/ (benché certe son più grate, quando altrui le vede sconce)/ (…)/ Le saccente e le leziose/ a vederle pasar ch’i muoia;/ le fantastiche e ombrose,/ non le posso aver più a noia./ (…)».
No, Poliziano, e la corte medicea, possono tollerare tutto tranne la noia. Il rispetto che ho scelto - sull’eco -, di assoluto ed estenuato virtuosismo, era particolarmente caro al poeta: si tratta del rifacimento, insieme giocoso e sognante, di un epigramma di ignoto poeta greco. C’è in questi versi uno spirito ludico, beffardo, non lontanissimo dalle novelle di Boccaccio. Ma a lui, come del resto a Botticelli (ispirato dalle sue Stanze), non interessa la psicologia o il realismo. Secondo il grande critico d’arte Roberto Longhi a Botticelli sta a cuore solo la linea, purificata da chiaroscuri, tanto che nella sua Adorazione dei magi i presenti appaiono singolarmente affilati e nervosi: «possibile che non ci fosse fra tutti un individuo grasso»? (Breve ma veridica storia della pittura). Così Poliziano segue la linea e il ritmo della sue figure classiche piuttosto che le loro complicazioni psicologiche. Per il carnascialesco, rinascimentale, festoso Poliziano la poesia non riesce però a vincere la morte. Rileggiamo il canto straziato di Orfeo (composto a Mantova in due giorni, AN ED CO alla corte dei Gonzaga), la sua supplica a Plutone nella Fabula d’Orfeo (ripresa del mito nella forma di una sacra rappresentazioChe fai tu, Eco, mentr’io ti chiamo? - Amo. ne, e anzi primo dramma profano del nostro teatro): «Pietà! Pietà! del misero amatore/ Ami tu dua o pur un solo? - Un solo. pietà vi prenda, o spiriti infernali./ Qua giù Et io te sola e non altri amo - Altri amo. m’ha scorto solamente Amore,/ volato son qua giù con le sue ali./ Posa, Cerbero, posa il Dunque non ami tu un solo? - Un solo. tuo furore, ché quando intenderai tutti e mie Questo è un dirmi: Io non t’amo - Io non t’amo. mali,/ non solamente tu piangerai meco, ma qualunque è qua giù nel mondo cieco». Per Quel che tu ami ami tu solo? - Solo. un momento Orfeo si illude di poter liberare Chi t’ha levata dal mio amore? - Amore. la sua amata attraverso la cetra e il canto. Ma ciò non avverrà. Una Furia gli dice: «vaChe fa quello a chi porti amore? - Ah more! ne son tue parole,/ vano el pianto e’ l dolor». La parola poetica perfino dentro la visione di un poeta cortigiano, frequentatore di liete brigate e devoto al sentimento della forma come Poliziano, riconosce i propri limiti. Il Angelo Poliziano radioso sogno umanistico della Firenze me(Dai Detti piacevoli) dicea si incrina alla fine del ’400 e cede spazio, perfino nella pittura di Botticelli, alle inquietudini religiose di Savonarola.
Viene il mattino azzurro nel nostro padiglione: sulle panche di sole e di crudissimo legno siedono gli ammalati, non hanno nulla da dire, odorano anch’essi di legno, non hanno ossa né vita, stan lí con le mani inchiodate nel grembo a guardare fissi la terra.
Alda Merini Da Vuoto d’amore, Einaudi, 1991
P
E
SEI POETESSE DAL NORDEST in libreria
di Loretto Rafanelli
ella elegante veste grafica di Ellerani editore, esce il libro Poete a Nordest, antologia che raggruppa sei scrittrici di valore, prevalentemente friulane. Una buona idea questa, perché permette di evidenziare le virtuosità poetiche di scrittrici di una zona d’Italia un po’ ai margini; ma pure di dar conto di una presenza poetica, quella femminile, certamente ricca. Sei poetesse che hanno scritture molto differenziate, e offrono una mappa esauriente della poesia del Nordest. Antonella Bukovaz ha una versificazione tra il prosastico e l’aforistico, che si esprime con inesauribile labirintica forza; Marina Giovannelli ha una voce delicata ed emozionante, la sua poesia è una interrogazione continua, con una preci-
N
sa attenzione alle problematiche sociali; Marina Moretti evidenzia una sicura maturità, espressiva e linguistica, le sue poesie sono attraversate da una grande passione umana e civile, e ci paiono tra le più riuscite del volume; Gabriella Musetti, si pone di fronte al dolore e alle vicende della vita con nitida parola e sincera, onesta ricerca; Mary Barbara Tolusso esprime bene il groviglio della vita, con la sua caoticità e le sue ipocrisie, in un cercarsi e un cercare continui; Claudia Vocina scrive poesie in sloveno e in italiano, e sono versi dai tratti leggeri come pennellate, frammenti classicheggianti e puliti. Il volume è accompagnato da belle immagini di cinque brave artiste friulane: Battistella, Blarasin, Jandolo, Marchionni, Santoro.
pagina 20 • 11 giugno 2011
di Enrica Rosso empre più nutrita, sempre più ricca, martedì 7 giugno ha preso il via la XVIII edizione della rassegna Garofano Verde - Altri amori - Scenari di teatro omosessuale con la direzione artistica di Rodolfo Di Giammarco che con il sostegno di Roma Capitale - Assessorato alle Politiche Culturali e Centro Storico ha qui inteso offrire al pubblico romano «una tribuna emozionale», un luogo non luogo in cui ascoltare e assistere, insomma riflettere, sulle tematiche legate all’orientamento sessuale. Abbiamo assistito alla serata inaugurale godendo dell’interpretazione - parlare di reading ci sembra riduttivo in questo caso, seppure si sia trattato di un’esecuzione al leggio - di una strepitosa e applauditissima Giuliana Lojodice che, con la complicità di Valentina Capone, ha dato voce a La donna dello scandalo dal romanzo di Zoe Heller, curato per l’occasione da Luca de Bei. Da subito magnetica, intensa e carnale, Lojodice ha ricostruito egregiamente quella Barbara Covett provata da infinite subdole e stritolanti sofferenze autoinflitte da una personalità degna di un manuale di psicoanalisi che nel 2007 valse a Judi Dench, che ne era interprete nel film Diario di uno scandalo, un meritatissimo Premio Oscar. La sera seguente Peter Stein e Maddalena Crippa sono saliti sul palco del Teatro Belli per mettere il loro carisma al servizio di Tributo, orchestrato da Carlotta Corradi. Ancora in scena fino a domenica le prismatiche serate dei Corti Teatrali Gay, vale a dire 15 pezzi inediti usciti dalla fucina del corso di scrittura teatrale «Officina Teatrale», prestati a nove interpreti diretti da Francesca Staasch. Il 13 Der Puff frammenti cantati di corpi internati, un cabaret pensato da Francesca Falchi per rievocare le vicende delle lesbiche tedesche perseguitate dai nazisti in un intreccio di monologhi e canzoni d’epoca interpretate da Rita Atzeri. Il 14 una serata all’insegna della ricerca del suono interiore con il concerto-reading Spell - volume II, ideato e diretto da Alessandro Fea, un viaggio multisonoro a
S
Televisione
Teatro Oltre le frontiere dell’identità MobyDICK
spettacoli DVD
TIBERIO MITRI FINO ALL’ULTIMA RIPRESA l titolo italiano dei pesi medi e quello europeo, lo scontro titanico con Jack LaMotta e lo sposalizio con la Miss Italia Fulvia Franco, ma anche il cinema, la morte di due figli, le droghe e l’alcolismo e la tragica fine sui binari di un treno. Nemmeno i biopic sportivi più celebrati di Hollywood sono riusciti ad assommare in sé l’incredibile serie di eventi che è stata la vita di Tiberio Mitri. Ci ha provato, con rigore narrativo e testimonianze vibranti, Gian Piero Palombini, che con il suo Tiberio Mitri - Non credevo che la vita fosse così lunga, fa il punto su un’icona degli anni Cinquanta.
I
PERSONAGGI
RARE TRACCE DEL MONDO DI RINO investigare le frantumazioni del desiderio indipendentemente da chi ne sia il bersaglio. Il 15 con Zoo, che Giovanni Franci ha adattato dall’omonimo romanzo di Isabella Santacroce, andrà in scena la crudezza, il ribollire della tensione sessuale all’interno di un nucleo familiare, mentre il 16 con Tuttonostro, firmato a sei mani da Alessandro Di Marco, Valentina Reginelli, Claudio Renzetti si darà voce al desiderio di procreazione delle coppie gay. Cala ‘a saudage, per la drammaturgia e regia di Giuseppe L. Bonifati in scena il 17 e il 18, è una storia di pregiudizi e intolleranza ambientata nel sud Italia che ha per protagonisti tre sudamericani. In chiusura altri due sostanziosi readings: il primo il 20 e il 21, a più voci, è tratto dal romanzo cult di Christopher Isherwood A single
Man nella traduzione di Dario Villa ed è curato da Valentino Villa; la sera dopo sarà Isabella Ferrari con Gender, tratto da testi e autobiografie di transessuali a presentarci storie di uomini oltre le frontiere dell’identità. Il caso Braibanti di Massimiliano Palmese, diretto da Giuseppe Marini ci restituirà invece il processo, ovviamente drammatizzato, di Aldo Braibanti, l’intellettuale denunciato per plagio nel ‘68 dal fratello che non ne condivideva le inclinazioni sessuali; un caso che all’epoca fece molto discutere.
Garofano Verde - Altri Amori Scenari di teatro omosessuale, Teatro Belli fino al 26 giugno, info: www.garofanoverde.it, tel. 06 5894875
el trentennale della scomparsa di Rino Gaetano, straordinario chansonnier tornato sugli altari dopo anni di polvere, è bene rileggere la biografia che Silvia D’Ortenzi dedica al grande artista calabrese: Rare tracce(Arcana, 158 pagine, 10,00 euro). Comprendere l’opera d’ingegno, vuol dire soprattutto rovistare nelle origini che l’hanno nutrita. E il libro della D’Ortenzi sa scavare abilmente nella storia di Rino, grazie al contributo di amici e professionisti che ne condivisero parabola e fortune. Il giusto tributo a Kammamuri’s. Perché come pochi riempì di verità l’inesausta invenzione artistica.
N
di Francesco Lo Dico
Hotel Patria: il meglio è ancora possibile
molto bello, ma anche abbastanza raro oggi, dire «ci siamo». Finalmente. E aggiungere magari che quattro sole puntate sono poche. Mi riferisco a Hotel Patria, Rai 3 in prima serata, programma-inchiesta condotto da Mario Calabresi (41 anni), direttore della Stampa, il più sobrio dei quotidiani a larga diffusione. Calabresi spiega subito qual è il suo obiettivo: narrare, in questo periodo di declino nazionale, episodi «di coraggio, di passione e di tenacia». Di persone che credono che il meglio sia ancora possibile. È andato a rivisitare la sua vecchia scuola elementare del quartiere San Siro (Milano), un quartiere formato dal «ghetto dei ricchi» (ville) e da 124 case popolari. In mezzo il tram numero 16, quello che dal Duomo porta allo Stadio. Un tempo nei casoni popolari c’erano i meridionali, molti dei quali erano napoletani i cui figli venivano chiamati «bambini dei cavalli» perché i genitori lavoravano all’ippodromo.Vergognosa abitudine, trent’anni fa: molti genitori benestanti s’infor-
È
di Pier Mario Fasanotti mavano sulla composizione delle classi, diffidenti verso i «terroni». Oggi nella stessa scuola su 93 allievi 80 sono stranieri. Provenienze diverse. È l’avamposto di ciò che succederà, secondo certi studi, nel 2050 in Italia, quando ci sarà «il sorpasso» degli stranieri. La scuola è un rassicurante esempio di integrazione. Tutti si sentono italiani, e sanno pure cantare bene l’inno di Mameli. Alla domanda «che cosa associ all’Italia», ecco alcune risposte:
«pace», «laghi», «Roma», «quasi come una casa». Calabresi ha parlato con la direttrice e verso le 16, al suono della campanella, istintivamente si è accostato al muro prevedendo l’ondata disordinata dei bambini in uscita. Non ce n’era bisogno: i piccoli, tutti col grembiule, hanno formato ordinate file a due. Ed ecco un ricordo strettamente personale, ricostruito senza retorica ma doverosamente legato alla Storia. L’allievo Mario, figlio del commissario di Polizia Luigi assassinato dai brigatisti ispirati da Lotta Continua, si rintanava in classe durante l’intervallo. Finché «un bimbo dei cavalli», Iaio, scardinò la sua paurosa riservatezza: «Ehi, commissario Basettoni vieni a farci vedere come giochi a calcio!». Lui uscì. Poi i
due si spiegarono. Iaio sapeva della morte di suo padre, ma lo rassicurò: «È un nostro segreto». Agli altri aveva annunciato: «Questo è il figlio di un poliziotto che cattura i ladri». Questa scuola elementare oggi è un ottimo esempio di convivenza tra italiani e neo-italiani. L’anno prossimo verrà abolita la prima classe, poi toccherà alla seconda e via di seguito fino alla cancellazione dell’intero istituto. In base alla normativa che per formare una classe gli «stranieri» (non importa se nati qui) non devono superare il 30%. Che succederà? La linea di demarcazione tra «ghetto dei ricchi» e case popolari diventerà un muro scomodo. E pericoloso. Gli extracomunitari manderanno i figli in altre scuole, (usando tre mezzi pubblici). Gli italiani benestanti hanno l’opzione dell’Ecole française. Protestano pure loro. Che cosa dire a quel bambino che ha detto «vorrei aiutare lo Stato italiano»? Ce lo spieghi il governo. Ce lo spieghi l’Italia arroccata in anacronistiche roccaforti di sapore leghista.
MobyDICK
Cinema
11 giugno 2011 • pagina 21
di Anselma Dell’Olio
ondon Boulevard è l’interessante debutto nella regia di William Monahan, sceneggiatore di The Departed - il bene e il male (Martin Scorsese, 2006). Tratto dal romanzo di Ken Bruen, il film attira per l’assonanza con l’indimenticabile capolavoro di Billy Wilder, Sunset Boulevard (Il viale del tramonto, 1950) con Gloria Swanson nel ruolo della decaduta star del muto Norma Desmond. Eric von Stroheim è il suo ex regista e fedele maggiordomo, William Holden lo sceneggiatore squattrinato che trova rifugio nel bizzarro ménage e ne resta intrappolato. Il noir ambientato sul Tamigi è lontano dalla perfezione gotica-dark del predecessore, eppure offre una visione pulp sconocchiata ma non indegna, del sottobosco criminale londinese. C’è un ex-detenuto intenzionato a sfuggire i lunghi tentacoli della malavita, e una star reclusa braccata dai paparazzi. Il racconto di Bruen cambia lo stato d’animo della protagonista. Norma era una diva scartata per l’arrivo del sonoro e della mezz’età: sogna un ritorno in cima alla scala scintillante e scivolosa di Hollywood. (È uno shock scoprire che la Swanson aveva appena 50 anni all’epoca - nei ricordi è una strega decrepita). Charlotte (Keira Knightley), la diva di London, è poco più che ventenne e già in fuga dal mondo del cinema che le ha dato gloria, ricchezza, ruoli stereotipati, umiliazioni e molto peggio. Norma venera lo star system; Charlotte lo aborrisce. Jordan, il suo von Stroheim o tuttofare, è il sublime David Thewlis (Naked di Mike Leigh, Il grande Lebowski, L’assedio, The New World - Il nuovo mondo). L’ex attore e maggiordomo dice a Mitchel (Colin Farrell): «Se non fosse per Monica Bellucci, Charlotte sarebbe l’attrice più stuprata del cinema». Il giovane fusto (quando Farrell toglie la camicia, sembra un bronzo di Riace in miniatura) è assunto come bodyguard e buttafuori della star, assediata da fotografi appollaiati sui tetti giorno e notte, per spiarla nell’intimità della sua villa a Holland Park. Charlotte e Mitchel hanno in comune di trovarsi preda: lei della stampa tabloid, lui dell’efferato boss Gant (il magnifico Ray Winstone, degno erede di Broderick Crawford), deciso ad arruolarlo con ogni mezzo nella sua gang, sempre a corto di braccia forti con sale in zucca.
L
C’è un ex marito cacciato di casa per alcolismo e tradimento con l’amica del cuore di Charlotte nel lettone coniugale; la sua esistenza è rappresentata da una spettacolare collezione d’automobili d’epoca, tra cui una favolosa Rolls Royce cabriolet del 1960, che Mitchel prenderà in prestito per un giro di resa dei conti.Tra i diversi elementi del racconto che invogliano a saperne di più ma poco sviluppati, c’è Briony, la sorella di Mitchel (Anna Friel). Il fratello cerca in vano di proteggere la disgraziata sorellina, imbottita di droga, ghiotta di alcol e di maschi da spolpare dei loro beni. I personaggi di contorno sono tutti affascinanti, come Billy, picciotto demente e scellerato (il memorabile Ben Chaplin di Momenti di gloria, Birthday Girl e La sottile linea rossa), il poliziotto corrotto Bailey (il bravo Eddie Marsan, l’istruttore di guida di Happy-Go-Lucky), e Penny (Ophelia Lovibond), l’amica-nemica di Charlotte (era lei l’amante del coniuge etilico) che dà la dritta a Mitchel sul posto di gorilla. Il copione non riesce ad armonizzare e approfondire tutte le promettenti fila del racconto, come non dà lo spazio che merita a Keira Knightley (Non mi lasciare, La duchessa, Orgoglio e pregiudio), attrice che sin dal-
Quelle inquiline del sesto piano Sotto il travestimento di commedia leggera, “Les femmes du 6eme étage”, ambientato negli anni Sessanta, offre una riflessione sulla condizione delle preziose collaboratrici domestiche. E “London Boulevard” evoca “Il viale del tramonto” di Billy Wilder senza raggiungerne la perfezione dark
l’esordio in Sognando Beckham calamita lo sguardo. I dialoghi sono buoni e spesso «da scrittore», come la risposta di Charlotte quando Mitchel le chiede perché non vuole più fare film. «La donna è lì per far parlare l’eroe di sé, delle sue speranze, delle sue paure, e forse anche delle sue indigestioni del cazzo». Sarà consapevole Monahan di aver fatto proprio questo tipo di film? Charlotte esiste quasi unicamente per mettere in risalto il dramma di Mitchel, un delinquente predestinato che combatte contro il suo destino. C’è troppo poco di lei, e la storia d’amore tra i due non prende fuoco; niente a che vedere con il falò divampato tra Knightley e James McAvoy in Espiazione. Il film, però, mantiene l’interesse fino in fondo: si vuol sapere come va a finire. Da vedere.
Le donne del sesto piano di Philippe Le Guay è un’apparente causerie francese, un delizioso intrattenimento; ma sotto il travesti della commedia leggera cova una riflessione sulle persone semi-invisibili che ci aiutano a vivere: le collaboratrici domestiche, oramai quasi esclusivamente straniere. Jean-Louis Joubert (Fabrice Luchini) è un compassato agente di cambio sposato con Suzanne (Sandrine Kimberlain) con due antipatici figli maschi. Ambientato nella Parigi degli anni Sessanta, il film racconta l’epoca in cui le spagnole iniziavano a prendere il posto delle bonnes francesi nelle case della buona borghesia. Si parte con le incomprensioni tra la bretone Germaine (Michéle Gleizer) e la padrona di casa, che finiscono ovviamente con la cacciata della domestica. Così arriva dagli Joubert la graziosa e composta Maria (Natalia Verbeke) che alloggia con altre connazionali nelle chambres des bonnes al sesto piano. Sono una variopinta brigata iberica di donne che si aiutano e si consolano della durezza di vivere tra estranei lontano da casa, dove mandano i soldi in vista di un rientro in età di pensione. Grazie a Maria, Jean-Louis si accorge delle orrende condizioni in cui vivono senza lamenti le immigrate: un solo cesso alla turca sempre otturato e puzzolente, un solo rubinetto di acqua fredda per lavarsi, i sottotetti roventi d’estate, senza riscaldamento nei rigidi inverni continentali. Il signore borghese scopre l’abisso che lo divide da chi accudisce lui e la sua famiglia, facendoli trovare sempre l’uovo alla coque cotto al punto giusto, la biancheria profumata e stirata e la casa luccicante. Suzanne passa il tempo tra couturier, canaste e coiffeur, ma non è un mostro, solo ignara, protetta dal privilegio. Il buon padre di famiglia si scuote dall’agiato torpore di prima, e in tempi brevi provvede alle riparazioni e bonifiche necessarie perché le cameriere abbiano una vita più decente. L’ingessato gentiluomo si scioglie in loro compagnia; quando gli presentano una collega picchiata dal marito alcolista, lui le trova un portierato con alloggio, perché trovi rifugio dal bruto e continui a mantenersi. Con le popolane scopre un solare ottimismo, il dono d’essere felice con poco. Suzanne si convince che il marito ha una tresca con una cliente mangiauomini, mentre lui di nascosto cenava a paella dalle femmes ispaniche. Cacciato di casa, Jean-Louis si trasferisce in silenzio in una chambre al sesto piano: segreti e passioni salgono alla luce. Solo l’unica comunista tra le spagnole è diffidente, specie quando Jean-Louis si fa contagiare dalla loro devozione religiosa. È illuminante l’episodio in cui il padrone di casa si vanta che la vecchia cameriera bretone «era un vero membro della famiglia», senza saper dove si è trasferita. «Ma non era un membro della famiglia?» chiede Maria. È una favola a forma di cuore, ispirata da fatti reali; ma mentre diverte e consola, punzecchia la coscienza del nostro sempre scontento benessere. Da vedere.
Babeliopolis
pagina 22 • 11 giugno 2011
di Gianfranco de Turris
MobyDICK
ai confini della realtà
Il brivido sublime
hissà se i lettori di narrativa gotica, weird, nera, horror eccetera eccetera sanno di far parte di una categoria filosofica, o meglio estetico-filosofica, quando si appassionano delle loro storie predilette e provano un brivido di piacere leggendole. Certamente no, eppure è così, ed è singolare che di ciò non se ne siano resi conto tutti quei critici con la puzzetta sotto il naso che hanno ieri come oggi denigrato questo tipo di leteratura considerandola di «serie B», se non peggio. Oppure quei moralisti che l’hanno denigrata considerandola addirittura come la causa di eventi efferati, quasi avesse influenzato patologici personaggi. Certamente c’è chi dirà che una cosa è Poe e un’altra gli scrittori dozzinali dei pulp magazines, una cosa film d’autore come Nosferatu e un’altra le produzioni della Hammer, e così via. Ma questa distinzione si basa sul modo di esprimere la paura, l’orrore, cioè lo stile narrativo e cinematografico, la sua forma, mentre invece qui ci si basa esclusivamente sulla materia che è comune a tutti questi generi, siano essi «alti» che «bassi», vale a dire la sostanza. Appunto, quella sensazione profonda che storie, immagini, visioni trasmettono al lettore e allo spettatore. Ebbene, è proprio in essa che tro-
C
Leggendo certi libri o vedendo certi film del troppo spesso sottovalutato genere horror, si prova «il piacere della paura». Ebbene sì, come spiegava Burke, l’orrendo affascina, ha un potere catartico e serve a esorcizzare la realtà. A volte peggiore della più spaventosa immaginazione viamo l’elemento estetico-filosofico che di solito si ignora. Ma per individuarlo non è sufficiente un vocabolario della lingua italiana che alla voce «sublime» inteso come sostantivo e non come aggettivo, ci dice ad esempio: «La manifestazione di un fatto estetico o etico al suo massimo grado e il conseguente sentimento che si determina in chi lo contempla». Ma qual è questo «sentimento»?
È di un politico, storico e filosofo britannico di origine irlandese del Settecento, Edmund Burke, noto soprattutto per le sue Riflessioni sulla rivoluzione in Francia (1790), una delle prime opere critiche a riguardo, che ha codificato quanto qui ci interessa nella sua Inchiesta sul Sublime e sul Bello (1757) che, differenziandosi dalle analisi classiche sul tema (ad esempio il Del Sublime dello pseudoLongino), ne va a ricercare le origini e il senso. Mentre il Bello è semplicemente ciò che ci provoca piacere, per Burke «tutto ciò che può destare idee di dolore e di pericolo, ossia tutto ciò che è in certo senso terribile, o che riguarda oggetti terribili, o che agisce in modo analogo al terrore, è una fonte di sublime; ossia è ciò che produce la più forte emozione che l’animo sia capace di sentire». E poi precisa la differenza con il concetto di Bello/piacere approfondendo la
questione: «Se il dolore e il terrore sono modificati in modo da non essere realmente nocivi, se il dolore non giunge alla violenza e il terrore non ha a che fare con il pericolo reale di distruzione della persona, poiché queste emozioni liberano le parti, sia delicate che robuste, da un ingombro pericoloso e dannoso, sono capaci di produrre diletto; non piacere, ma una specie di dilettoso orrore, una specie di tranquillità tinta di terrore; la quale, dal momento che dipende dall’istinto di conservazione, è una delle passioni più forti. Il suo oggetto è il sublime. Il suo più alto grado lo chiamo stupore; i gradi inferiori sono: timore, reverenza e rispetto, che dall’etimologia stessa delle parole mostrano da quale fonte derivino e come siano distinti dall’effettivo piacere»
(Inchiesta sul sublime e sul Bello, Aesthetica, Palermo 1998, p. 71 e p.141). All’epoca queste sensazioni venivano riferite soprattutto alle manifestazioni della Natura: bufere, tormente, terremoti, eruzioni, mari in tempesta, cascate turbinose, ghiacciai, desolazioni polari, ma anche deserti sconfinati così ben rappresentate nei quadri di pittori famosi come l’inglese Turner o il tedesco Friedrich, ma nulla ci impedisce di applicarle anche alle descrizioni della narrativa, cioè all’attività letteraria. Ieri come oggi, leggendo certi scrittori, grandi, medi e piccoli, si prova ancora quel che Burke ha definito «dilettoso orrore» e che oggi definiamo «il piacere della paura», «l’orrendo che affascina». E come allora, filosoficamente parlando, esso deriva proprio dal fatto che c’è una distanza di sicurezza fra chi osserva queste manifestazioni e la manifestazione stessa: siamo abbastanza lontani da esse per venire pervasi da «una tranquillità tinta da terrore». Oggi possiamo dire l’identica cosa: noi sappiamo benissimo che gli orrori descritti in romanzi e film sono «a distan-
za» perché non sono veri, e proprio per questo proviamo un brivido sublime.
Non dimenticherò mai quanto mi raccontò (e poi scrisse) un famoso e purtroppo sottovalutato regista italiano di pellicole horror, Lucio Fulci: all’uscita dalla proiezione di un suo film particolarmente duro, venne ringraziato da un ragazzo in carrozzella perché, gli disse, ho compreso che la realtà è sempre più orribile della finzione e le immagini hanno funzionato in modo catartico. Il terrore, la paura, il brivido hanno dunque questo scopo, servono anche ad esorcizzare la Realtà che spesso è, come diceva quel ragazzo a Fulci, peggiore del più spaventoso film (o racconto) horror. A noi piace perché intimamente sappiamo che non è vero, pur se ci fa sudare freddo, ci fa stringere le mani, ci prende alla gola, ci fa chiudere gli occhi. È come se assistessimo a uno sconvolgente spettacolo della Natura come, appunto nei quadri di Friedrich o Turner, ma a debita distanza: il terrore ci invade la mente e ci impedisce di pensare ad altro ed è il momento in cui si percepisce il Sublime che provoca il suo effetto perché la descrizione o l’immagine sono terribili e angoscianti, ma non per questo immediati e/o reali. Quando l’alta filosofia si cala nella quotidianità di una trama dell’orrore…
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Nel silenzio generale, ecco la tassa sulla tassa: tartassati e scontenti IL REFERENDUM, OLTRE IL NUCLEARE Con il via libera all’unanimità dei giudici della Corte costituzionale al referendum sul nucleare si è ricomposto il quadro dei quesiti a cui tutti noi siamo chiamati a rispondere domani e lunedì. Non sono mancati gli appelli pro e contro da parte degli schieramenti, con una coda più di verifica “politica” che di pura attesa della volontà del popolo sovrano. D’altronde tale verifica si vorrebbe realizzare su un istituto e su dei quesiti che, secondo me, non sono né di destra né di sinistra. Come sempre a ristabilire un certo equilibrio, sempre più difficile da mantenere, è stato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che anche in questa occasione ha ricordato a tutti i diritti e i doveri del buon cittadino. Certamente non mi è sembrata, questa sul referendum, una campagna dai grandi contenuti: in verità anche il mondo scientifico, soprattutto sul nucleare, si è fatto trascinare sul terreno “ideologico” che una gran parte della politica di destra e di sinistra ha voluto imprimere a questo referendum. Insomma si è persa un’altra occasione per far capire nel merito di cosa si stesse veramente parlando, al di fuori della politica urlata, della confusione di tribune elettorali-referendarie orientate ancora una volta a una scelta pro o contro Berlusconi. Ora mi chiedo e vi chiedo: ma se questo “tempo” della politica in Italia si riduce sempre e comunque a questo, se un governo, una classe dirigente, un bipartitismo (Pd-Pdl) fallimentare per il Paese, continua a non tener conto della volontà popolare oramai chiara di andare oltre questo schema, che conseguenze avrà il risultato referendario, qualunque esso sia? Da martedì 14 saremo in “ostaggio”di un risultato che in ogni caso non cancella i problemi strutturali del Paese? L’Italia chiede a gran voce di uscire da un falso bipartitismo senza partiti, da un vicolo cieco in cui qualcuno, invece di uscire, tenta disperatamente di andare avanti immaginando di abbattere il muro che ha di fronte. Lo stesso muro che non consente all’Italia di andare oltre lo scontro ideologico di uomini e categorie superate, oltre un’interpretazione della volontà popolare fatta ad uso e consumo personale, sempre e comunque pro e contro qualcuno e mai per qualcosa. Vincenzo Inverso SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL
Si moltiplicano le avvisaglie dell’imminente introduzione, con la manovra in preparazione, di una “tassa d’ingresso”sulle vertenze tributarie. Il cittadino che intenda ricorrere a una Commissione tributaria per opporsi a un’imposizione fiscale sarà costretto – se la disposizione verrà introdotta – a versare preventivamente un contributo. Per evitare di pagare un tributo ritenuto ingiusto, insomma, dovrà pagare prima un altro tributo. Nel caso in cui l’importo contestato non sia particolarmente elevato il contribuente interessato preferirà in molti casi rassegnarsi e saldare il debito, piuttosto che dover pagare un contributo per dimostrare le proprie ragioni. Ciò che si tradurrebbe in altrettanti casi di denegata giustizia. Speriamo che il governo, in un momento in cui da più parti si sollecita un’azione di riduzione del carico fiscale, voglia ripensare ad una scelta che, se confermata, rappresenterebbe – oltre ad una vera e propria tassa in più a carico dei cittadini – anche un ostacolo al raggiungimento dell’equità fiscale.
Lettera firmata
FATTORE FAMIGLIA: MISURA DI EQUITÀ FISCALE La necessità di ricorrere all’aumento dell’addizionale regionale Irpef da parte della Regione Puglia per rientrare dal deficit delle spese sanitarie è ovviamente una cattiva notizia. Sono almeno due le ragioni per le quali questa notizia non ci piace. Non ci piace perché si tratta di una scelta determinata da un mancato controllo della spesa sanitaria, e questo pretenderebbe un’assunzione di responsabilità da parte di un sistema politicoamministrativo (chi non ha controllato la spesa sanitaria?). E non ci piace perché aumenta la pressione fiscale - già troppo elevata in confronto a quasi tutti i Paesi europei - su cittadini e famiglie. La morale, insomma, è sempre la stessa: alcuni sbagliano, ma a pagare sono sempre i soliti! Ma, di fronte ad una scelta che appare di fatto obbligata, ci rammarichiamo soprattutto che si sia persa l’occasione di dare un segnale di innovazione sulle politiche sociali e familiari, introducendo nei meccanismi di incremento della tassazione il Fattore Famiglia, vale a dire una speciale attenzione alla giustizia fiscale nei confronti delle famiglie con figli. Eppure il Forum pugliese aveva già presentato all’amministrazione regionale il modello del Fattore Famiglia, in occasione delle consultazioni per il secondo piano sanitario regionale, un sistema che garantisce
equità rispetto ai carichi familiari, sostenendo proprio le famiglie più affaticate, quelle con figli. Chiediamo quindi all’amministrazione regionale pugliese di ripensare il meccanismo di aumento dell’addizionale Irpef, scegliendo il Fattore Famiglia come misura di equità fiscale: occorre il coraggio di scegliere a favore delle famiglie con figli, primo e insostituibile serbatoio di progetto, di speranza e di futuro per la Regione Puglia, ma anche per tutto il Paese.
Francesco Belletti, Forum delle associazioni familiari
CALCIOSCOMMESSE, LA PROCURA ARCHIVIA LE TRE GARE DEL NAPOLI Sembra molto strano che nell’attuale vicenda del calcio scommesse tra le poche squadre di serie A di cui si parla vi sia il Napoli, che proprio quest’anno ha guadagnato la partecipazione alla Champions league. Per fortuna, a fugare qualsiasi dubbio è intervenuta la Procura federale della Figc che ha archiviato i procedimenti relativi a 9 gare della stagione sportiva 2009-2010, e tre di esse riguardavano la serie A, tutte e tre il Napoli. Archiviazione perché «allo stato, dalle indagini penali trasmesse e da quelle disciplinari effettuate, non sono emerse condotte di rilievo disciplinare». Il procuratore federale, quindi, valutati gli atti di indagine espletati, ha archiviato il procedimento relativo all’effettua-
L’IMMAGINE
APPUNTAMENTI GIUGNO ROMA - MARTEDÌ 14 ALLE ORE 17 ISTITUTO LUIGI STRURZO - Via delle Coppelle, 35
Presentazione del libro di Gabriella Fanello Marcucci “Attilio Piccioni, la scelta occidentale” (liberal Edizioni) Presiede e modera: Francesco Malgeri Intervengono: Pier Ferdinando Casini, Stefano Folli, Arnaldo Forlani PALERMO - SABATO 18 ALLE ORE 10 VILLA IGIEA HILTON Assemblea Provinciale Circoli Liberal Palermo con Ferdinando Adornato
REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Una Babele di libri Non arriverà a toccare il cielo, ma questa Torre di Babele eretta nella piazza di San Martin, a Buenos Aires, non passa certo inosservata. Oltre alla “statura” è una spirale a 7 strati che raggiunge i 25 metri di altezza - la sua peculiarità è nel materiale costruttivo: i “mattoni” sono 30mila volumi donati da lettori, ambasciate e biblioteche, scritti in tutte le lingue e i dialetti del mondo
LE VERITÀ NASCOSTE
Contro l’asma, basta la cura della sardina HYDERABAD. Ogni anno nel mese di giugno, migliaia di asmatici si radunano a Hyderabad, nel sud dell’India, per praticare a loro modo una cura non convenzionale, per combattere la loro malattia. La cura consiste nell’ingoiare sardine impregnate con una miscela segreta di erbe aromatiche. La “medicina”è stata inventata 170 anni dalla famiglia Gold ed è fornita gratuitamente. I discendenti della famiglia Gold si rifiutano tassativamente di rivelare la loro ricetta segreta, perché temono che perderebbe la sua forza se fosse commercializzata a livello industriale. Il trattamento deve essere fatto secondo un rituale rigoroso. La sardina deve essere inghiottita intera. Poi il paziente per quarantacinque giorni deve sottoporsi a un regime dietetico di assoluto rigore: in particolare, l’ammalato deve seguire una dieta comprensiva di venticinque diversi alimenti, tra i quali pare che siano compresi agnello, zucchero bianco, mango essiccato e spinaci. I pazienti sono severamente diffidati dall’assumere invece cibi congelati, e devono ripetere il trattamento entro due anni. La cura funzionerà di sicuro, per carità. Ma come si fa per gli appuntamenti galanti?
zione di scommesse anomale o di alterazione dei risultati. Speriamo che con ciò si chiuda definitivamente l’annosa vicenda che poteva seriamente compromettere l’immediato futuro del Napoli, forse per volontà di qualcuno che ha mal digerito la magnifica stagione della squadra di Mazzarri.
Sandro Coppola
ANOMALIE SCOLASTICHE Chi può fa e chi non può insegna (George Bernard Shaw). Tutto ciò che non so, l’ho imparato a scuola (Leo Longanesi). La maturità del lavoratore manuale coscienzioso è ben superiore a quella dello studente che non studia (Ida Magli). La scuola rischia di diventare parcheggio, ammortizzatore sociale e dispensatrice di titoli fasulli. Gli esiti del ’68 hanno aggravato la trasgressione, la contestazione dell’autorevolezza, la confusione dei ruoli e la carenza di meritocrazia. Si diffondono: l’appiattimento, l’assemblearismo, la “scuola facile”, l’ideologia, l’utopia e la protesta permanente. Il corpo docente è pletorico, prevalentemente femminile, in parte arruolato senza aver superato concorsi selettivi. Emerge il rivendicazionismo d’alunni e d’insegnanti, spesso strumentalizzato dal partitismo e sindacalismo massimalisti, che sono entrati direttamente nella scuola. Comunque, docenti e alunni valorosi meritano premi adeguati. Troppo è il tempo assorbito da vacanze, assenze, ribellioni politicizzate, gite, viaggi e altre attività “fuori aula”. Si pretendono diritti e diritti, inadeguatamente controbilanciati da doveri e responsabilità. I padri sono stati massacrati nella loro funzione di autorevolezza e guida della struttura familiare. Se non funzione la famiglia, non funziona la scuola.
Gianfranco Nìbale
pagina 24 • 11 giugno 2011
mondo
Da Neda ad Amina, da Nassara a Nora, fino a Rania di Giordania e Shirin Ebadi. Le pasionarie dell’emancipazione in Medioriente
Le donne della libertà
Scrittrici, giornaliste, ma anche giovani imprenditrici e semplici madri di famiglia: ecco il volto rosa della rivoluzione di pari diritto di parola degli uomini. Questo, però, le espone agli stessi rischi di ritorsione da parte delle autorità e dei soggetti più conservatori. Va ricordato, infatti, che le persecuzioni contro le donne possono giungere dalle istituzioni quanto dai fondamentalisti. Sarebbe ingenuo pensare che al-Qaeda nel Maghreb islamico – in quanto anch’essa realtà di opposizione al governo – sia disponibile al dibattito sull’emancipazione sessuale. Tuttavia, l’inserimento dei tanti soggetti – quelli citati sono solo due esempi – in una rete internazionale quale Women’s eNews suggerisce il livello di progresso culturale che caratterizza il mondo femminile algerino. Lo scenario è simile in Marocco. Anzi, in questo caso il riformismo è lubrificato da un contesto politico più aperto. Il re Mohammed VI ha già dimostrato una consistente lungimiranza, dettata dalla sua giovane età (48 anni) e dalla convinzione che, per salvare il regno, la modernità sia inevitabile. Il sito www.reforme.ma promuove un dibattito on line per la revisione di alcuni, neanche tutti, articoli della Costituzione. L’iniziativa propone, in particolare, «il pieno riconoscimento giuridico di uomini e donne».
di Antonio Picasso ulla emarginazione delle donne nel mondo islamico si è detto tanto. Tuttavia, proprio quando l’argomento dovrebbe restare inchiodato sulle prime pagine dei giornali, si assiste a una sorta di offuscamento della questione. Solo la parentesi dell’8 marzo, giornata ovviamente simbolica, ha acceso una luce sull’argomento. Poi però il buio. Adesso, l’arresto di Amina Abdallah Araf, la blogger siriana omosessuale on line con “A gay girl in Damascus”, ha fatto da volano per risvegliare la sensibilità dell’Occidente. L’universo femminile e quello omosessuale si sono mostrati in prima linea nella primavera araba. Le rivolte che, finalmente, stanno mettendo alle strette i più vetusti e anacronistici regimi mediorientali dimostrano un’identità rivoluzionaria oltre che riformatrice. Dirompente, ma che sia anche durevole sul lungo periodo. Siamo testimoni di un tentativo di equiparazione delle società locali con i vicini Paesi che si affacciano sulle sponde nord del Mediterraneo. Le riforme dei gelsomini inneggiano alla libertà, alla democrazia. Come reclamano pure apertura ed emancipazione sessuale. È un punto delicato, questo, sul quale non ci può permettere di fare previsioni. È un’incognita ancora più torbida di qualunque prospettiva delineabile su andrà a finire nelle piazze del Cairo o di Damasco.
S
Osservando l’impegno delle donne come protagoniste in questi mesi di cambiamento, torna evidente la necessità di fare una prima grande distinzione fra i Paesi in cui il ruolo femminile è, a tutti gli effetti, politico e altri in cui risulta ancora concentrato nei difficili tentativi di scardinare gli asset culturali. Al di là dei precetti coranici, fraintesi dagli esponenti più fanatici dell’Islam e male interpretati dagli integralisti anti musulmani, si evince un apporto comunque pesante dell’universo femminile in questa fase di trasformazione. Un primo esempio viene offerto dal contesto nordafricano. Algeria, Egitto e Marocco, ciascuno a proprio modo, si sono dimostrate terreno fertile per la diffusione di un messaggio di uguaglianza tra i sessi. Nella prima a febbraio, il National Advisory Commission for the Protection and Promotion of Human Rights ha fatto sentire la sua voce. L’obiettivo del think tank è denunciare gli escamotage al quale è ricorso il presidente Bouteflika per evitare di cadere nel baratro dei disordini. L’abrogazione repentina della legge di emergenza, in vigore da vent’anni esatti, ha fatto sì da valvola di decompressione. Tuttavia, non ha ri-
solto i problemi del Paese (arretratezza economica sposata con oscurantismo politico). In Algeri, peraltro, echeggiano le istanze di giustizia presentate ancora dalle famiglie delle ragazze uccise o seviziate durante la guerra civile (19922002). L’associazione Collective of Algerian Families of the Disappeared vede in prima linea pasionarie del calibro di Nassara Dutour che, da sempre, si batte per la verità delle violenze perpetrate durante il conflitto degli anni Novanta. Come una sorta di madri di Plaza de Majo in chiave nordafricana, la Dutour e le sue consociate si battono affinché il
ministero dell’interno algerino renda note le cifre reali della guerra. Il milione di morti e i 6.500 dispersi, a giudizio dell’organizzazione, rappresentano dati parziali. I dispersi effettivi variano tra le 8 e 10mila unità. Questo è un punto oscuro che nessun placebo siglato da Bouteflika è riuscito a nascondere. Ancora più attiva, in termini propositivi per il cambiamento del Paese, è Wafa, un’organizzazione che mira al progresso del settore agricolo nazionale. Con Ong simili a quelle citate, il nucleo della cultura berbera si conferma dotata di strutture politiche in cui le donne dispongono
L’Egitto, poi, è ancora più interessante. Per il fatto che qui la rivoluzione è davvero avvenuta. Il satrapo faraonico, Hosni Mubarak, è caduto grazie alla costante pressione di un moto collettivo, in cui – secondo i calcoli – la presenza delle donne è stata del 20%. Scrittrici, giornaliste, ma anche giovani imprenditrici, oppure semplici madri di famiglia. È possibile, e auspicabile, che l’Egitto sia entrato davvero in una fase di cambiamento strutturale. Grazie anche alle donne. È stata Tawakol Karman, attivista di 32 anni, che ha lanciato l’invettiva per tutto il Medioriente: «Guardate l’Egitto, vinceremo!» un invito alla protesta accolto da quasi tutti i Paesi della regione. Mentre la scrittrice Bagat Hussein ha promosso la One Million Women March, il corteo che, l’8 marzo, è partito da piazza Tahrir e ha percorso i principali quartieri del Cairo. Certo, la situazione egiziana resta avvantaggiata. Il laicismo che ha ispirato le presidenze di Nasser, Sadat e Mubarak ha permesso alla donna di crearsi un’identità ben diversa rispetto a quella riscontrabile in altri contesti dell’area. È noto infatti che, tra gli anni Sessanta e Settanta, nelle strade della capitale del Paese, ma ancor di più ad Alessandria e Suez, si potevano incrociare capannelli di studentesse emancipate quanto lo erano le loro coetanee di Roma e Parigi. Questo lo si può ancora osservare nei film di Khamal elSheick e nei romanzi di Naguib
11 giugno 2011 • pagina 25
Mahfouz: testimonianze di una genuina cultura araba di impronta laica. È anche vero che, oggi, il Paese dei faraoni sta vivendo una cadenzata inflessione. La crescita del sentimento religioso, dettata più che altro dal peggioramento del tenore di vita medio, ha imposto una visione più rigida delle convenzioni sociali. Il velo è tornato nelle scuole e sul lavoro. I matrimoni combinati sono all’ordine del giorno. Le ragazze copte denunciano soprusi e violenze. Il tutto di fronte a un’autorità inerme. Solo pochi giorni fa, Doaa Abdelaal, responsabile dell’organizzazione Women living under Muslim law, ha messo in evidenza il delta tra i «tremila scioperi che, dal 1994 a oggi, hanno bloccato il Paese per chiedere una vera politica di privatizzazioni e la riduzione dei soprusi commessi dalla polizia». «Nulla si è fatto invece – protesta la Abdelaal – contro gli abusi sessuali sul posto di lavoro e in ambito domestico». Ma è attraversando il Canale di Suez che la situazione si fa ancora più disomogenea. Da una parte si arriva ad Amman, in Giordania, dove la regina Rania resta l’icona incontrastata della emancipazione possibile e riuscita anche nell’Islam. Dall’altra, la monarchia saudita si conferma l’epicentro del-
È stata l’indomabile Tawakol Karman, attivista di 32 anni, a lanciare l’invettiva per tutto il Medioriente: «Guardate l’Egitto, vinceremo!» l’opposizione a qualsiasi forma di apertura. Con una mossa a sorpresa, il 31 maggio, la magistratura di Geddah ha scarcerato Manal alSharif, una donna di 32 anni, arrestata dieci giorni prima perché si era mostrata alla guida di un’automobile. La legge saudita, che prevede un’interpretazione restrittiva della Shari’a, vieta alle donne la possibilità di avere una patente, oltre che di votare e dormire da sole in un albergo. Il caso al-Sharif non è isolato. Anzi, esempi simili sono riscontrabili anche presso altri regni della Penisola arabica. Qui l’arretratezza è latente e va dalla negazione dei diritti più banali – la patente di guida appunto – alla scarsità di strutture di Welfare state adeguate. Per una donna araba, infatti, è quasi impossibile trovare lavoro, salvo gli impieghi più umili o comunque a carriera bloccata. Il sistema ospedaliero è altrettanto latente. L’unico contrappunto si è avuto nel febbraio 2009, quando re Abdallah ha nominato la signora Nora bint Abdullah al-Fayez vice ministro dell’istruzione. Un’iniziativa che ha innescato accese polemiche presso gli ulema più integralisti. Nella terra delle donne invisibili è il titolo di un libro inchiesta di Qanta Ahmed, scrittrice e medico statunitense che è riuscita a entrare negli ospedali sauditi. Oltreconfine, gli Emirati arabi sem-
brano seguire una velocità solo parzialmente più sostenuta. Fatima al-Jaber è alla guida del colosso edilizio omonimo (50 mila dipendenti, con 4,9 miliardi di dollari di fatturato) e come tale siede nel direttivo della Camera di commercio di Abu Dhabi. Tuttavia, è una mosca bianca. L’emarginazione resta all’ordine del giorno, esteriorizzata dal velo indossato dalla quasi totalità della popolazione femminile e dalla costante sottomissione nelle famiglie, nei matrimoni, nelle moschee. È evidente, allora, che la trasformazione in questi Paesi richieda processi elaborativi più articolati, rispetto alle scosse rivoluzionarie proprie del Nord Africa. Il successo di piazza Tahrir non è mutuabile a Riyadh. Manal al-Sharif deve averlo capito. Il suo gesto ha lo stesso valore delle fiamme che hanno avvolto i ragazzi tunisini, che si sono dati fuoco all’inizio dell’anno per protestare contro il carovita e la corruzione. Il cambiamento nella Penisola arabica può cominciare anche da una semplice patente di guida.
dall’alto in senso orario: Fatima al-Jaberg, prima donna alla guida di un colosso edilizio negli Eau; Amina Abdullah, la blogger rapita in Siria (la foto però non è certa), Manal al-Sharif (arrestata in Arabia Saudita per aver guidato una macchina) Rania di Giordania, la Nobel Shririn Ebadi, l’iraniana Neda Soltani, uccisa nel 2010 a Teheran
La conclusione è riservata ai paradossi più lampanti: l’Iran e la Siria. La presenza di quote rosa nell’establishment di entrambi i regimi nega l’equazione partecipazione politica uguale piena democrazia. Il primo, Paese della più importante produzione letteraria islamica, della poesia e dell’amore, è stretto in una morsa di contraddizioni. Gli Ayatollah seguono una linea di censura simile a quella saudita. Sebbene il mondo sciita pulluli di giornaliste e scrittrici. È sconcertate vedere la polizia di Teheran che, invece di controllare il traffico, detta accorgimenti su come indossare i tanti copricapo imposti alle passanti.Tuttavia, le incoerenze sono confermate dalle figure di Shirin Ebadi e di Neda Soltani. La prima ha vinto il Premio Nobel per la pace nel 2003, appunto per l’impegno speso nel combattere le ristrettezze imposte dal regime. Della seconda restano impresse le immagini della sua morte, durante gli scontri a Teheran nell’estate 2009. La Siria, infine, è combattuta tra una blogger del calibro di Amina – le cui provocazione non è detto che passerebbero inosservate perfino in Europa – e la fedeltà al regime dimostrata dalla moglie del rais, Asma al-Assad, 35 enne sunnita, cresciuta nella City londinese. Di fronte a una rivoluzione che sta mettendo a dura prova la resistenza politica del marito, la first lady siriana è l’incarnazione di quella emarginazione femminile mediorientale che, a nostro giudizio, si crede essere dettata eminentemente da precetti religiosi. Così non è. Il regime di Damasco è tutt’altro che ispirato dall’ortodossia islamica. L’appartenenza della famiglia Assad alla minoranza alawita è un dato di fatto. Il Baath, lo si ricordi, nasce per mano del cristiano Michel Aflaq e ispirato dal sogno del socialismo panarabo. Un mondo ben lontano dalla Shari’a. Eppure altrettanto in opposizione alle richieste di uguaglianza come espresso in maniera così limpida dai riformisti marocchini.
pagina 26 • 11 giugno 2011
grandangolo Domani il Paese della Mezzaluna torna alle urne
Attento Erdogan, Safak Pavey entra in politica Ha deciso di correre contro l’Akp del premier perché il nuovo Parlamento riscriverà la Carta costituzionale e non poteva restare a guardare. Candidata a Istanbul, è stata voluta dal leader del Chp, Kilicdaroglu, il riformatore. Europeista convinta, esperta di politica estera e diritti umani, è il personaggio più interessante di queste elezioni di Luisa Arezzo afak Pavey è scesa in campo. E se il suo nome (ancora) non vi dice nulla, sappiate che per il premier della Turchia, Tayyp Erdogan, il suo ingresso in Parlamento è visto come il fumo negli occhi. Perché la giovane (ha 36 anni) e carismatica Safak, candidata per il Chp (Cumhuriyet Hakl Partisi, il Partito Repubblicano del Popolo fondato da Ataturk) non è soltanto una donna preparata e determinata, con un’esperienza in politica estera di primissimo piano, ma un simbolo per buona parte del paese ed espressione della migliore intellighenzia della Mezzaluna. Candidata a Istanbul 1, lo stesso distretto del premier (Istanbul, 16 milioni di abitanti è divisa in 3 distretti, il primo è quello anatolico, quindi sul versante asiatico della città), numero 5 della lista, dice di aver accettato «senza pensarci su due volte» l’offerta di correre con il Chp di Kemal Kilicdaroglu (alawita, detto il Gandhi della politica turca per il suo modo di fare pacato e la somiglianza con lo statista indiano) consapevole che il Parlamento, nella prossima legislatura, metterà le mani - come ha già più volte annunciato Erdogan - alla riforma della Carta costituzionale. «Non posso permettermi di restare spettatrice, questo paese nei nove anni a guida Erdogan è scivolato sempre più in basso, ha visto esplodere delle contraddizioni sociali fortissime, bisogna lavorare a una forte opposizione e il Chp è l’unico che può farla». La possibilità che - come dicono
S
molti sondaggi - Erdogan possa stravincere e conquistare la maggioranza all’Assemblea nazionale non la spaventa affatto. In primo luogo perché «il Chp è in forte crescita, riceviamo ovunque un forte sostegno dagli elettori, e ad istanbul sia nel primo che nel secondo distretto, da sempre roccaforte dell’Akp.
Perché la gente è scontenta di come è stata trattata dai rappresentati del Partito della Giustizia e Sviluppo. Le tensioni sono sia religiose che sociali. La distribuzione della ricchezza è iniqua, nonostante la forte ripresa economica, e vi è
«Questo paese nei 9 anni a guida Erdogan è scivolato sempre più in basso, ci sono contraddizioni sociali fortissime» una forte segregazione di tipo religioso. La comunità alawita, per esempio, non gode degli stessi diritti dei propri vicini di casa sunniti. Nella stessa via trovi delle case fornite con energia elettrica e acqua e altre private dei servizi essenziali.
Esclusivamente in nome della discriminazione. Per non parlare di tutti coloro che, solo perché non sunniti, vengono licenziati di continuo dai propri posti di lavoro». Il tema del rispetto dei diritti umani per Safak Pavey (che nel suo manifesto elettorale si definisce una “cittadina attiva”) è tutto fuorché secondario. Diciamo piuttosto che fa parte del suo Dna familiare. Sua madre, Ayse Onal, oggi soprattutto scrittrice (ha pubblicato anche in Italia per Einaudi) è stata per anni la principale cronista di politica turca, criminalità organizzata e conflitti in Medioriente. Arrestata e imprigionata in Iraq durante la guerra del Golfo, è stata minacciata dai fondamentalisti islamici e nel 1994 ferita dalla folla per aver raccontato dei collegamenti tra il governo turco e la mafia. Ha vissuto sotto scorta e oggi, per la sua posizione contro Erdogan, ha scelto di vivere a Londra. Nel 1996 ha ricevuto dall’International Women’s Media Foundation (diretto da Hillary Clinton) il premio Courage in Journalism. Suo “mentore”è stato Hrant Dink, il giornalista armeno fondatore di Agos (giornale scritto sia in turco che armeno), processato per aver sollevato pubblicamente la questione del genocidio nel 2004 e condannato l’anno dopo a sei mesi di reclusione per insulto alla identità turca, e infine assassinato nel centro di Istanbul nel 2007. Ovvio che respirare da sempre un’atmosfera così attenta ai diritti delle minoranze l’ha forgiata. Esattamente quanto il vivere
sulla sua pelle una tragedia a metà degli anni Novanta che avrebbe potuto ucciderla e che è stata poi raccontata in un libro, Platform Number 13 risultato essere il titolo più venduto in Turchia nel 1996. Aveva poco più di vent’anni allora, e studiava all’Università di Zurigo, quando (in circostanze mai chiarite del tutto) finì sotto un treno della stazione svizzera, un treno che le ha amputato di netto un braccio e una gamba. Ci ha messo un anno a riprendersi, un anno di interventi e dolore «ma penso che se non fosse successo non sarei mai diventata la donna che sono», senza mai cessare di combattere.
Ha terminato gli studi e poi si è specializzata alla London school of Economics in Relazioni internazionali con una tesi sui diritti di proprietà dei cittadini islamici non musulmani nei paesi islamici, poi pubblicato in moltissime lingue. A Londra, beninteso, ha vissuto da sola, «Ho sempre voluto dimostrare a me stessa e agli altri che una persona disabile può fare tutto e il vivere in prima persona l’handicap mi ha portato a scegliere di combattere a fianco delle minoranze, delle donne, dei disabili, dei rifugiati, dei bambini e delle vittime della tortura». Quasi scontata la sua candidatura (e il suo ingresso) alle Nazioni Unite, ma affatto scontata la maniera in cui ha vissuto e interpretato il suo ruolo. Nel 2003 comincia a lavorare all’Alto Commisariato per i Rifugiati e chiede di esse-
11 giugno 2011 • pagina 27
Tre protagonisti e 24 partiti si giocano l’ingresso all’Assemblea Nazionale
Tayyp mira a stravincere ma il laico Chp potrebbe rovinargli la festa (e il progetto presidenziale) di Laura Giannone omani la Turchia va alle urne per il rinnovo del parlamento. Sono tre i protagonisti politici di questo voto. Recep Tayyip Erdogan (Akp, il Partito per la Giustizia e lo Sviluppo): nato a Istanbul nel 1954 ma originario di Rize, sul Mar Nero. Sindaco di Istanbul negli anni Novanta. Il premier uscente, al suo secondo mandato (alle elezioni del 2002, ha raccolto il 34.3% delle preferenze, aggiudicandosi 352 dei 550 seggi del Parlamento. Nel 2007 ha fatto il pieno, raggiungendo il 46,6% dei voti, ma alla fine ha ottenuto meno seggi (341) perché sono entrati in parlamento 4 partiti al posto di 3), ha un passato da militante nel partito islamico del Refah (Benessere). Padre di 4 figli, è considerato da una parte del Paese l’uomo del cambiamento, dall’altra un pericolo per la tenuta dello stato laico e democratico (versione sposata dall’Economist, che prima della copertina contro Berlsuconi ne ha fatta una contro di lui). Se eletto, il premier islamico moderato sarà al suo terzo mandato consecutivo. E, secondo molti, il suo obiettivo potrebbe essere la presidenza della Repubblica dopo la fine del mandato dell’attuale capo di stato, e suo alleato, Abdullah Gul. Ma è Kemal Kilicdaroglu (Chp, Partito repubblicano del Popolo, fondato da Mustafa Kemal Ataturk) la vera new entry di queste elezioni: nato a Tunceli nel 1948 è parlamentare dal2002.
D
re inviata nei luoghi più disastrati per dimostrare che essere disabile non è un handicap. E così passa mesi sul campo in Algeria, nel Sahara, nello Yemen, in Siria, in Libano e in Iraq. Diventa portavoce dell’Agenzia in Iran e Afghanistan e si trasferisce al quartier generale di Ginevra. Vince moltissimi premi e nel frattempo solleva la questione dei diritti dei disabili alle Nazioni Unite riuscendo a far aprire un dipartimento ad hoc. Nel 2010 diventa capo del Segretariato dei diritti umani per la Commissione dei diritti dei disabili. L’anno prima aveva lavorato con la Harvard Law School alla stesura del Trattato per i di-
«Sono 3 gli ambiti nei quali mi impegnerò in Parlamento: politica estera, diritti umani e ambiente» ritti dei disabili. E sempre nel 2010 viene nominata in Turchia The outstanding young person of the world. Ha girato vari film e documentari. Il suo “Disabled Life Achievement” è stato premiato come miglior film ai festival di Shangai, Beirut e Copenaghen. Ha scritto un libro con l’iraniana Nobel per la pace Shirin Ebadi. Per l’Onu ha organizzato missioni per Angelina Jolie e altri testimonial dello star system. Restando però sempre se stessa. Umile e semplice. Non ama il lusso, vive in maniera spartana, è circondata da un affetto e una stima veramente senza confini. È carismatica, attrae le persone come una calamita con quel suo sguardo azzurro e limpido, è leale. Ades-
A sinistra, Safak Pavey, in lista con il Chp. Sopra, un comizio di Erdogan. Nel tondo sempre il premier e nella pagina a fianco, il manifesto elettorale di Safak so forse cominciate a capire perché Erdogan - che molti anni fa era anche un amico della sua famiglia e che conosce benissimo - la tema.
Safak Pavey non passa mai inosservata e ha le idee chiare. «Sono 3 gli ambiti nei quali mi impegnerò in Parlamento: politica estera, diritti umani e ambiente. In ambito estero soprattutto a come resuscitare i colloqui con l’Unione Europea, di fatto congelati da anni ché ché ne dica Erdogan, che lavora a un altro obiettivo; la questione Cipro e il rapporto con i paesi limitrofi e in particolare con quelli della primavera araba. La Turchia deve essere un modello, ma un modello positivo. E qui mi riallaccio alla tematica dei diritti umani: un paese nel quale ancora esiste il delitto d’onore, dove la stampa è imbavagliata, dove si discrimina la popolazione per le sue convinzioni religiose, dove i giornalisti vengono arrestati, dove le risorse economiche non vengono distribuite, che razza di modello può essere? E infine l’ambiente: Erdogan ha scelto di cementificare questo paese e di svuotare le campagne a favore delle città. Io sono per la tutela ambientale, vissuta come risorsa e non dimentichiamo che la tutela del paesaggio è anche una precisa indicazione della Ue - e per l’arricchimento delle campagne. Erdogan vorrebbe costruire una Istanbul 2, ma non è sradicando la gente che si diventa più forti. È il contrario. Bisogna investire nelle campagne, ridisegnare il futuro del Paese». Il leader del suo partito, Kemal Kilicdaroglu ha bollato la Turchia guidata da Erdogan come «l’impero della paura». E ha chiamato Safak. Perché lei, paura, non ne ha mai avuta di nessuno.
Di formazione economica, ha sostituito il leader uscente, Deniz Baykal, che aveva guidato con esiti deludenti il Partito per vent’anni. Di formazione economica, al momento della sua elezione, ha dato vita a un vero e proprio repulisti nel Partito che si è riflettuto anche sulle candidature. Il nuovo leader dell’opposizione deve cercare di recuperare il non esaltante risultato del 2007 e parte con un programma rinnovato e il più alto numero di candidate donne mai schierato da un partito. Il terzo protagonista è Devlet Bahceli (Mhp, Partito del movimento nazionalista): nato a Osmaniye, inizia la sua carriera come economista, apprezzato negli ambienti accademici, tanto che i media turchi lo chiamano di prassi Professor Bahceli. È a capo del partito nazionalista dal 1997, anno in cui è succeduto allo storico fonda-
tore Alparslan Turkes. Ha dato un profilo al partito più politico e meno eversivo (Si tratta della formazione politica a cui fanno riferimento storicamente anche i Lupi Grigi). È stato vicepremier dal 1999 al 2002. Alle elezioni del 2002 ha raccolto l’8.3%, insufficiente per entrare in Parlamento. L’exploit del 2007, con il 14,2% dei voti e 71 deputati.Travolto da recenti scandali sessuali che hanno visto protagonisti alcuni suoi dirigenti, punta comunque a superare lo sbarramento del 10%.
In totale, però, sono 24 i partiti che si sfideranno per entrare alla Tbmm, la Grande assemblea nazionale turca. Ma sono molti meno quelli che hanno la possibilità concreta di conquistare seggi in Parlamento: la legge elettorale turca infatti prevede una soglia di sbarramento del 10%. Il Partito curdo per la Pace e la Democrazia (Bdp) nato dalle ceneri del Dtp, il Partito per la società democratica, chiuso nel 2009 dalla Corte Costituzionale per attività contro l’unità del Paese,schiererà come di consueto candidati indipendenti (in questo caso 64, soprattutto a Istanbul e nel sud-est del Paese) con l’obiettivo di creare un gruppo parlamentare successivamente sotto il nome del partito. Per fare questo, gli serve un minimo di 20 deputati eletti. La battaglia curda è per una maggiore affermazione dei loro diritti, soprattutto l’autonomia regionale e l’educazione bilingue (curdo e turco). Altro obiettivo è l’amnistia per i membri del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione separatista (con larghe sacche di terrorismo), che da 26 anni lotta per la creazione di uno stato indipendente e che minaccia di mettere il Paese a ferro e fuoco se il governo non fisserà entro tre giorni dal voto una road map sulla questione curda. Il conflitto è poi sempre più esasperato dalla condanna a 20 mesi di prigione di Hatio Dicle, candidato a Diyarbakir come indipendente e che fino a ieri ha svolto la sua campagna elettorale dal carcere, dal quale sarebbe dovuto uscire ieri per assoluzione. L’uomo era stato accusato nel 2007 per aver rilasciato delle dichiarazioni alla stampa ritenute dalla magistratura a favore del Pkk.
quadrante
pagina 28 • 11 giugno 2011
Croazia, dal 2013 28/mo Paese Ue
Khodorkovsky trasferito in Siberia
BRUXELLES. La chiusura degli
MOSCA. Mentre il tribunale mo-
ultimi 4 capitoli dei negoziati di accesso permetterà alla Croazia di diventare il 28/mo paese dell’Unione europea a partire dal primo luglio 2013, previa approvazione del Consiglio europeo sulla data proposta dalla Commissione. «In questo momento - ha commentato Barroso - voglio applaudire alle autorità croate, in particolare all’attuale governo, per il duro lavoro degli ultimi anni. Ma, ancora più importante, mi voglio congratulare con la popolazione della Croazia». Zagabria, ha precisato il commissario all’Allargamento Stefan Fule, soddisfa tutti i criteri per l’ingresso in Ue e i progressi effettuati, anche nel delicato settore della lotta alla corruzione, «sono irreversibili».
scovita di Preobrazhensky annuncia di aver ricevuto la richiesta di libertà condizionale dell’ex patron di Yukos Mikhail Khodorkovsky, condannato a 13 anni per sottrazione indebita e riciclaggio (accusa non credibile), quest’ultimo viene trasferito dal carcere di Mosca a una misteriosa colonia penale dove dovrà scontare la nuova condanna. Il suo avvocato Natalya Terekhova ha detto che «la moglie di Khodorkovsky non ha avuto il permesso per un colloquio con il marito, perchè trasferito» in un luogo sconosciuto. Secondo alcuni osservatori - potrebbe essere il carcere siberiano dove stava scontando una condanna precedente per frode ed evasione fiscale.
Libia, Gates striglia la Nato BRUXELLES. La difesa americana fa autocritica sulla gestione della Libia: «È diventato ormai dolorosamente evidente che le lacune della Nato, materiali e politiche, hanno il potenziale di compromettere la capacità dell’Alleanza di condurre una campagna efficace e duratura in cielo e in mare in Libia», ha affermato il segretario Usa alla Difesa, Robert Gates, parlando davanti a un think thank di Bruxelles. Il futuro della Nato rischia di essere «fosco» se gli alleati non faranno investimenti militari adeguati, mentre sono impegnati su due fronti in Libia e in Afghanistan, ha aggiunto Gates nel suo ultimo dicorso politico prima di ritirarsi dalla scena pubblica e lasciare il posto a Leon Panetta.
L’istituto Robert Koch, che per conto del governo sta affrontando l’emergenza, si dice certo dell’origine dell’epidemia
Risolto il giallo del batterio? Nuova ipotesi sull’organismo killer: sarebbe nei germogli dei legumi di Pierre Chiartano
Sembra finita la rincorsa all’identità del batterio killer: le autorità sanitarie del Nord RenoWestfalia, regione a Ovest della Germania, hanno scoperto tracce del batterio Escherichia Coli tipo 0104:H4 su campioni di germogli di legumi. Si tratta della prima conferma ufficiale della presenza del batterio su tali prodotti
i sono volute 5 settimane di allarme e paura, con trenta morti. Un periodo lunghissimo che ha fatto vacillare le nostre certezze sull’efficienza tedesca. Non eravamo abituati a vedere gli scienziati di Berlino brancolare nel buio. Ora però pare essere certa la causa dell’epidemia di diarrea emorragica da batterio E.Coli – un nome che lo fa assomigliare a un virus digitale di quelli che girano sul web col suffisso «emorragico» che riporta alla memoria flagelli come Ebola, un virus – che terrorizza Germania ed Europa. A dimostrazione di come nel terzo millennio sia importante la narrazione di evento, anche quando si tratta di un infezione batterica. l colmo è che sarebbero state delle aziende specializzate nelle produzioni biologiche gli untori dell’infezione. L’origine reale rimane ancora misteriosa anche circolano voci su una possibile origine sintetica del batterio. Insomma potrebbe, e usiamo il condizionale, essere il prodotto di un lavoro effettuato in laboratorio.
C
Secondo fonti ufficiali tedesche la causa dell’epidemia è da individuarsi nei germogli crudi (di soia e altri legumi) prodotti da un’azienda di Bienenbuettel, nel nord della Germania. Riabilitati quindi cetrioli e pomodori, del tutto estranei alla vicenda. L’annuncio è stato dato da Reinhard Burger, direttore dell’istituto Robert Koch (Rki), che si è riunito venerdì mattina a Berlino con i membri dell’Ufficio federale per la tutela dei consumatori e la sicurezza alimentare e dell’Istituto federale per la valutazione dei rischi. La prima conseguenza è che il governo tedesco ritirerà il «divieto» di consumare cetrioli, pomodori e insalata. «L’allerta dovrà essere levata oggi (ieri). Ma sarà mantenuta contro il consumo di germogli di soia crudi», ha indicato a France Presse una fonte di un’autorità tedesca prima dell’annuncio ufficiale dell’istituto Kock. Burger ha confermato che chi ha mangiato i germogli di soia «è esposto nove
volte più degli altri alla diarrea sanguinolenta. L’epidemia, tuttavia, non è finita». Esami «multipli» nei terreni e sui prodotti dell’azienda Gaertnerhof a Bienenbuettel, nel nord della Germania, hanno confermato la presenza del batterio, ma «la serie di indizi è così forte» che ormai abbiamo identificato l’origine del contagio, hanno spiegato i responsabili sanitari. «Non ci sono altre piste serie al di fuori dei germogli di soia», ha concluso Burger, rispondendo a una domanda di un giornalista che chiedeva se l’origine del batterio killer sia questa al cento per cento. Intanto la Russia revocherà il bando sulle importazioni di verdure dai paesi dell’Ue. Lo ha annunciato il presidente della Commissione eu-
ropea, José Barroso, nella seconda giornata del summit Ue-Russia nella città di Nizhny Novgorod. Evidentemente i russi hanno ottenuto le contropartite che volevano dall’Unione europea.
Il blocco dell’import era stato deciso sull’onda dell’epidemia del batterio-killer ed era stato contestato dall’Ue. In giornata le autorità tedesche annunceranno la revoca dell’allerta sul consumo di cetrioli, pomodori e lattuga per l’emergenza batterio-killer. Lo anticipa il settimanale Der Spiegel, che conferma la tesi sui germogli di soia ed altri vegetali coltivati in un vivaio della Bassa Sassonia. Per questi germogli rimarrebbe inalterato il divieto di consumarli.
Nel nostro Paese si stanno invece attivando diverse iniziative per evitare che la psicosi dia il colpo di grazia a un settore agricolo in perenne crisi. Nasce così l’iniziativa per portare i consumatori italiani direttamente dai produttori agricoli, per acquistare frutta e verdura di qualità a chilometri zero. Il progetto è dei produttori agricoli della Coldiretti che hanno indetto la «giornata della riscossa del cetriolo italiano» nel mercato di Campagna Amica per combattere la psicosi nei consumi determinata dai ritardi, le incertezze e gli errori delle autorità tedesche nella gestione dell’emergenza Escherichia coli. «L’obiettivo – sottolinea la Coldiretti – è quello di far conoscere i primati di qualità e di sicu-
11 giugno 2011 • pagina 29
e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Siria, l’esercito contro i ribelli Emergenza profughi a Damasco DAMASCO. Tredicesimo venerdì di sangue, proteste e di scontri in Siria, dove la Croce Rossa ha chiesto di poter visitare i manifestanti feriti e quelli arrestati. Il regime di Damasco, che aveva preannunciato di voler punire con fermezza la morte di 120 uomini delle forze di sicurezza a Jisr al-Shugur, è passato ai fatti: l’esercito, ha annunciato la tv di Stato, ha sferrato un raid contro le ”bande armate” della città del nord del Paese. A Damasco dopo la preghiera, secondo testimoni citati da al Jazeera, sono scese in piazza 10mila persone. Il bilancio provvisorio degli spari di arma da fuoco esplosi dalle forze di sicurezza contro manifestanti a Qabun, quartiere periferico della città, è di almeno due morti e un numero imprecisato di feriti. Ma la battaglia continua in diverse parti della Siria. Almeno due manifestanti sono morti in una località nell’estremo sud della Siria. Lo riferisce la tv panaraba al Jazeera, che ha
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
parlato di oltre dieci vittime, precisando che la notizia giunge da Bosra al Harir, nella regione a maggioranza drusa di Suwaydà. Feriti sono stati contati anche tra le centinaia di persone che manifestavano contro il presidente Bashar al-Assad. E non si placa l’ondata di persone che cerca di lasciare il paese. Migliaia i rifugiati in Turchia, mentre Erdogan ha definitivamente revocato il suo appoggio ad Assad. Adesso al presidente resta solo Ahmadinejad.
Il ministro Ferruccio Fazio, Putin e Angela Merker. A fronte, i colpevoli: i germogli di soia
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
rezza alimentare dell’ortofrutta italiana a chilometri zero che non e’ toccata in alcun modo dall’emergenza. La riapertura settimanale del mercato degli agricoltori di Campagna Amica è anche l’occasione per verificare se la psicosi nei consumi è stata definitivamente superata e quali sono le garanzie richieste dai consumatori per acquistare con fiducia».
A fine maggio in Germania erano cominciati i sospetti: si stavano verificando troppi casi di pazienti colpiti da Stec, lo Shiga toxin-producing Escherichia coli, un batterio patogeno che in alcuni casi può portare anche alla morte. Secondo un rapporto pubblicato dallo European Centre for Disease Prevention and Control, a partire da aprile in Germania erano stati registrati 276 casi di persone colpite da Sindrome emoliticauremica (Seu), una delle più gravi complicazioni conseguenti all’infezione. Ma non vi erano certezze, e ora che sembra sempre più sicura l’origine dell’infezione batterica, cominciano a circolare voci su di una sua possibile origine artificiale. Un batterio coltivato in laboratorio e sfuggito al controllo di biologi stranamore. Comunque l’Italia avesa incassato giovedì i complimenti di Bruxelles. Il commissario europeo per la Salute John Dalli aveva elogiato l’Istituto superiore di Sanità italiano, il cui laboratorio di riferimento per l’Escherichia Coli
Intanto la Russia si prepara a revocare l’embargo sulle verdure europee, decisione che aveva suscitato velenose polemiche aveva elaborato il metodo di identificazione per il batterio killer tedesco. Sul fronte delle indagini sull’origine del batterio il commissario ha confermato che non ci sono novità: «In Germania ci si sta concentrando su uno stabilimento che produce germogli, e potrebbe essere il luogo da cui è partita l’epidemia, ma non ci sono ancora le analisi definitive, per cui serviranno un paio di giorni – aveva sottolineato – le infezioni stanno diminuendo, ma è presto per dire che è tutto passato».
Per settimane i tedeschi hanno rinunciato al consumo di cetrioli, pomodori e insalata, a causa dei primi risultati dei test epidemiologici dell’istituto sanitario tedesco. Tutti i malati avevano mangiato in modo consistente questo ti-
po di verdure, ma non ricordavano con esattezza che nel piatto c’erano pure gli ”Sprossen”(”germogli”in tedesco). Le ricerche sugli alimenti consumati da quei pazienti che erano stati contagiati nei ristoranti avevano rivelato che queste persone si erano servite al buffet dell’insalata. Per risalire all’azienda biologica incriminata, il Gaertnerhof, che si trova a Bienenbuettel, cittadina a 80 chilometri a sud di Amburgo, nel Land settentrionale della Bassa Sassonia, il filo conduttore è stato l’alto numero di contagiati in alcuni ristoranti riforniti di germogli dalla ditta, secondo quanto riferito dal ministero dell’Agricoltura regionale il 5 maggio.Tra i ristoranti ”contaminati” c’era un Golfhotel a Lueneburg, dove sono stati infettati 30 turisti svedesi e un danese. In un ristorante a Lubecca, che aveva comprato i germogli dal Gaertnerhof, 17 clienti erano stati contagiati, tutte donne, si sa, quelle che mangiano più verdura. E così il germoglio contaminato era finito sulle tavole di molti altri ristoranti e hotel della zona. Ciò che ha messo in subbuglio le ricerche sanitarie è che pochi si ricordavano di avere mangiato i germogli (appena il 28% aveva confermato di averli consumati, nei test fatti dal Robert Koch Institut). Nei successivi studi l’istituto ha circoscritto la ricerca al consumo degli ingredienti delle insalate, concentrandosi infine sui germogli e arrivando a scovare l’untore.
Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc
via della Panetteria 10 • 00187 Roma Tel. 06.69924088 - 06.6990083 Fax. 06.69921938 email: redazione@liberal.it - Web: www.liberal.it Questo numero è stato chiuso in redazione alle ore 19.30
pagina 30 • 11 giugno 2011
il personaggio della settimana Ritratto di uno degli uomini più «odiati» d’Italia (e ormai abbandonato anche da Tremonti)
Il Capo espiatorio Attilio Befera, responsabile di Equitalia, doveva fare la guerra all’evasione, invece ora il governo, non potendo abbassare le tasse, dice che la pressione fiscale dipende da lui di Maurizio Stefanini a non è che per capire davvero Attilio Befera bisogna prima rileggersi Niccolò Machiavelli? Il Principe: Capitolo VII; De principatibus novis qui alienis armis et fortuna acquiruntur, «De’ principati nuovi che s’acquistano con le armi e fortuna di altri»; a proposito di Cesare Borgia. «Preso che ebbe il duca la Romagna, e trovandola suta comandata da signori impotenti, li quali più presto avevano spogliato e’ loro sudditi che corretti, e dato loro materia di disunione, non di unione, tanto che quella provincia era tutta piena di latrocinii, di brighe e di ogni altra ragione di insolenzia, iudicò fussi necessario, a volerla ridurre pacifica e obediente al braccio regio, darli buon governo. Però vi prepose messer Remirro de Orco uomo crudele et espedito, al quale dette pienissima potestà. Costui in poco tempo la ridusse pacifica et unita, con grandissima reputazione. Di poi iudicò el duca non essere necessario sí eccessiva autorità, perché dubitava non divenissi odiosa; e preposevi uno iudicio civile nel mezzo della provincia, con uno presidente eccellentissimo, dove ogni città vi aveva lo avvocato suo. E perché conosceva le rigorosità passate averli generato qualche odio, per purgare li animi di quelli populi e guadagnarseli in tutto, volle monstrare che, se crudeltà alcuna era seguíta, non era nata da lui, ma dalla acerba natura del ministro. E presa sopr’a questo occasione, lo fece mettere una mattina, a Cesena, in dua pezzi in sulla piazza, con uno pezzo di legno e uno coltello sanguinoso a canto. La ferocità del quale
M
spettaculo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi». Ecco: ma se pure Remirro de Orco avesse letto Machiavelli, e avesse a proprio turno cercato di prevenire lo scherzaccio del Valentino?
Appunto: il Paese di Machiavelli, le cose le vede spesso in duplice prospettiva, se non triplice. Tutti siamo arrabbiati perché c’è gente che non paga le tasse. «Anche i ricchi piangano», era stata la truce esortazione di un famoso manifesto elettorale di Rifondazione Comunista. E la stessa Lega, quasi più che essere furibonda per quel che paga il Nord, sbraita per quello che a suo parere non è pagato dal Sud. Ma tanti tra gli arrabbiati, poi, cercano a loro volta di scantonare su tutto lo scantonabile. E quando poi c’è qualcuno che cerca di utilizzare a tappeto i metodi di controllo e esecuzione per far pagare tutti, giornali e associazione di consumatori gettano i loro alti lai sulle prepotenze. Un eccellente Cesare Borgia del fisco è Giulio Tremonti. Che da commercialista di professione era ovviamente specializzato in trucchetti per pagare il meno possibile. Da politico di opposizione scrisse virulenti pamphlet anti-fisco, che solo i titoli suonano a presa della Bastiglia fiscale: Le cento tasse degli italiani; La fiera delle tasse; Il federalismo fiscale. Autonomia municipale e solidarietà sociale; La riforma fiscale. Otto tasse, un unico codice, federalismo (vedo, pago, voto); Il fantasma della povertà. Una nuova politica per difendere il benessere dei cittadini; Lo Stato criminogeno. La fine dello Stato giacobino. Un manifesto liberale; Meno tasse più sviluppo. Un progetto per uscire dalla crisi. E poi da ministro è diventato il custode del rigore fiscale, e quello che si vanta di aver fatto pagare le tasse a tutti, fino al punto di appoggiarsi a Napolitano per dire no alle disperata richiesta di allevio della pressione fiscale che viene da Berlusconi e Bossi in crisi di ossigeno elettorale. Ma anche lui, in stile appunto cesareborgiano, ha a sua volta ostentato l’ideale coltello insanguinato. Quando è intervenuto in Campidoglio per il decennale delle Agenzie fiscali, e ha detto che bisogna porre un limite all’applicazione delle ganasce fiscali
perché c’è un eccesso. «Servono alcune correzioni che non dipendono dall’amministrazione ma dal legislatore. Per le ganasce ci deve essere un limite. L’idea in sè non è in discussione ma c’è un eccesso di applicazione. Oltretutto si guarda al governo anche quando si applicano per i Comuni. Se lo facessero loro....». «C’è una forma di calcolo delle sanzioni fiscali, che ricorda molto da vicino un anatocismo: non si capisce se si tratti di veri interessi o di ulteriori sanzioni. In ogni caso il Parlamento in questi giorni può modificare alcuni di questi aspetti per arrivare poi ad una riforma complessiva alla quale stiamo lavorando e dobbiamo lavorare tutti insieme».
Ma Attilio Befera è, appunto, un Remirro de Orco più machiavellico ancora di Tremonti. «La nostra attività è impostata su un rigoroso rispetto dei contribuenti. La capacità di autocritica ci rafforza anziché indebolirci», aveva risposto a caldo al discorso delle “ganasce fiscali”. Ricordando il «ruolo all’avanguardia dell’agenzia» e i «sensibili incrementi ottenuti: nel 2001 il recupero era di 3,5 miliardi, oggi siamo a 17 miliardi, 11 di maggiori entrate e sei di risparmi. Il nostro sforzo è rivolto alla tax compliance. La nostra forza dipende dalla fiducia della comunità della quale siamo al servizio». Però poi ha reso noto, ora e non allora, la lettera da lui mandata ai direttori centrali e regionali di Equitalia, in cui lodava «gli eccellenti risultati conseguiti dall’Agenzia nell’attività di recupero dell’evasione fiscale». Ma «sottolineando che la nostra attività deve ispirarsi a due principi basilari: correttezza ed efficienza. Principi che considero fra loro inscindibili. Se la nostra missione ha lo scopo fondamentale di accrescere il livello di adempimento spontaneo degli obblighi fiscali, dobbiamo distinguere bene fra i comportamenti che favoriscono il raggiungimento di tale scopo e i comportamenti che finiscono invece per vanificarlo... Continuo però a ricevere segnalazioni nelle quali si denunciano modi di agire che mi spingono adesso a rivolgermi direttamente a tutti voi per richiamare ognuno alle proprie responsabilità e ribadire ancora una volta che la nostra azione di controllo
11 giugno 2011 • pagina 31
può rivelarsi realmente efficace solo se è corretta. E non è tale quando esprime arroganza o sopruso o, comunque, comportamenti non ammissibili nell’ottica di una corretta e civile dialettica tra le parti».
Chi lo conosce sostiene che è quando Befera dice “amore mio” che si sta arrabbiando davvero… Comunque, c’è di che scatenare appunto la baraonda che si è subito scatenata. Con tutti, in
una «maggiore flessibilità alla riscossione coattiva» attraverso un nuovo piano di rateazione: per salvare gli imprenditori che si trovano in temporanea difficoltà a causa della crisi. «Solo l’invio di solleciti in caso di importi entro i duemila euro, evitando le “ganasce” fiscali; la revisione del meccanismo di espropriazione degli immobili, elevando a 20.000 euro la soglia al di sotto della quale non è possibile far scattare l’ipoteca o l’espropriazio-
È stato proprio il ministro (e suo sponsor) Tremonti il primo a chiedere modi più “urbani” da parte dell’azienda per la riscossione Parlamento e fuori, a denunciare soprusi, angherie, umiliazioni, sequestri, ipoteche di ogni genere, anche per inadempienze fiscali irrisorie. La Camera dei Deputati che ha subito approvato una risoluzione a firma del Pdl Maurizio Bernardo, ma con l’accordo dell’opposizione, per garantire
ne». E poi giornali, televisioni, associazioni di consumatori che fanno a gara nel denunciare ogni genere di iniquità previste dalla legislazione tributaria o commesse dagli agenti fisco. E tutti i gruppi parlamentari votano bellicose interrogazioni: in particolare Italia dei Valori, che vuole impegna-
re «il Governo ad adottare ogni iniziativa, anche normativa, tesa ad evitare che la sanzione tributaria irrogata da Equitalia per il ritardo nel pagamento da parte del contribuente, sommata agli interessi ed agli aggi di riscossione, si trasformi in un aggravio di costi ingiustificato rispetto all’entità del debito tributario originario». Mentre la Lega come un mantra ormai vuoto riporta tutto al solito «processo di attuazione del federalismo fiscale» e alla «riorganizzazione del sistema della riscossione coattiva da parte dei comuni»: «verificando in tale contesto l’opportunità di concentrare l’operatività di Equitalia sulla riscossione dei crediti di natura tributaria e contributiva, lasciando al sistema della riscossione degli enti locali la competenza in materia di riscossione delle altre entrate».
Il fatto è che anche Remirro da Orco-Attilio Befera ha a propria disposizione un ulteriore Remirro da Orco che è costituito appunto da Equitalia: servizio nazionale di riscossione dei tributi tornato in mano pubblica con la costituzione di Riscossione S.p.A., che nel 2007 ha appunto cambiato nome in Equitalia S.p.A, e che dal 30 settembre del 2006 ha rilevato il precedente sistema di concessione ai privati, raggruppando i precedenti 40 concessionari n 16 agenti. Un sistema inventato appunto da Befera, che da una parte è direttore dell’Agenzia delle Entrate, ma dall’altra è pure Amministratore Delegato di Equitalia. Come Agenzia, si prende i meriti. In particolare, i recenti nuovi servizi messi a disposizione dei cittadini, in particolare via web: 43 milioni di dichiarazioni trattate nel 2010 e sei milioni di servizi in rete. L’Equitalia prende i soldi, e fa da parafulmine alle critiche. Anche da parte di lui stesso. Italiano quindi machiavellicamente duplice, direbbero i francesi. Qualcu-
Una carriera all’agenzia delle Entrate Attilio Befera è Direttore dell’Agenzia delle Entrate, da giugno 2008. Ha lavorato per circa trent’anni in Efibanca, una banca d’affari la cui attività era principalmente l’assistenza di aziende medie e medio-grandi in attività di credito industriale e strutturato, di Capital Market e Merchant Banking, all’interno della quale ha svolto tutte le funzioni aziendali fino a diventare direttore centrale, responsabile delle strutture che presidiavano le aree amministrative, fiscale, informatica e organizzativa dell’istituto di credito. Viene nominato ispettore tributario del Secit nel 1995 e, due anni più tardi, gli viene affidata la carica di dirigente generale al ministero delle Finanze, con l’incarico di direttore centrale per la riscossione del dipartimento delle entrate. Nel 2001, con la nascita delle Agenzie fiscali, Befera passa all’Entrate, prima con l’incarico di direttore centrale per i rapporti con gli enti esterni e poi come direttore centrale dell’amministrazione. Da ottobre 2006 guida Equitalia, la società pubblica creata nel 2006 per accentrare e riaffilare allo Stato la riscossione dei tributi sino ad allora effettuata attraverso concessioni a istituti di credito.
no sospetta però che l’attitudine al “doppio” e al gioco di rimessa gli verrebbero dalla sua nota passione per il tennis. Origini marsicane, tifoso della Lazio, classe 1946, ascoltatore di Mozart, Befera viene dal mondo delle banche d’affari: impiegato all’Efi da metà degli anni ’60 come neo-diplomato, poi laureato in Economia, arriva a direttore generale, diventando appunto famoso per l’ostinazione con cui continua a sfidare i colleghi più giovani a tennis fino a quando non li batte. O, insinuano i maligni, fino a quando loro non si fanno battere. Nel 1995 passa al pubblico come super ispettore tributario della Secit, e nel 1997 è direttore per la riscossione del dicastero delle Finanze: designazione del “sinistro” e prodiano Vincenzo Visco, che con lui condividerebbe in particolare la passione per il sigaro toscano. Ma è con il “destro” Giulio Tremonti che va alle Entrate: prima direttore per i rapporti con gli enti, poi direttore centrale dell’amministrazione. Torna il “sinistro”Visco, e dall’ottobre 2006 diventa il numero uno dell’Equitalia. La sua creatura, con la quale l’ex-bancario toglie alle banche una gallina dalle uova d’oro: 51% all’Agenzia delle entrate, 49% all’Inps. Torna infine Tremonti, e nel giugno del 2008 va pure direttore dell’Agenzia delle Entrate. È pure Tremonti a fare la miniriforma in base alla quale Agenzia e Inps possono incrociare le loro banche dati con controlli mirati e scientifici in grado di confrontare la capacità di spesa e i redditi dichiarati. Lo chiamano: accertamento sintetico.