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ISSN 1827-8817
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he di cronac
ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • SABATO 18 GIUGNO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Non ci possono essere due italiani nel board della Bce. E Berlino e Parigi ci chiedono di risolvere il puzzle
Bruxelles, altro che Pontida L’Italia appesa a Bossi: ma il nostro futuro dipende dall’Europa Il “caso Bini Smaghi” scuote l’Ue. Sarkozy e Merkel: «Roma rispetti i patti». Il vero nodo resta però quello di Atene e del pesante debito di molti Stati. Ma il governo pensa solo al raduno leghista... SVOLTA DI SERIETÀ
di Enrico Singer
Raccogliere l’appello di Napolitano
ianco a fianco, finalmente sorridenti, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno annunciato che il salvataggio della Grecia ci sarà. E che arriverà anche presto perché «non bisogna perdere tempo». Ma hanno anche “ordinato”che due italiani nel board della Bce non sono compatibili con le abitudini europee...
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di Gianfranco Polillo ontida dista da Roma poco più di 600 chilometri. Bruxelles qualche migliaio. Sarà forse per questo che l’attenzione è massima su questa più breve distanza. Ci s’interroga, con un misto di trepidazione e preoccupazione, su quello che succederà, domenica prossima, nella “valle sacra” della Lega. Che dirà Bossi? Sarà ancora in grado di interpretare l’animo profondo delle genti del Nord, con cui identificarsi? E i suoi colonnelli che scalpitano? Quale sarà il ruolo dei due Roberto? Calderoli da un lato, Maroni dall’altro. Chi farà ancora da sponda a Giulio Tremonti? Prevarrà il coraggio o la prudenza. La ragione o il sentimento. Quanto a Bruxelles: può anche aspettare. La città è carina, ma non entusiasma. La sua identità è incerta... a pagina 2
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Dal terremoto P4 ai referendum: riflessioni su un Paese confuso
Fattore Woodcock: amicizie, complicità o veri reati? di Riccardo Paradisi
a pagina 3
Ritratto del «vicepresidente»
Parla Giacomo Vaciago
Le avventure di un banchiere ostinato
«La diplomazia non fa annunci pubblici»
Si è difeso paragonandosi a Tommaso Moro ma è il più giovane dirigente di Francoforte
«I comunicati stampa non aiutano. Ma siamo tutti europei, non italiani o francesi»
Maurizio Stefanini • pagina 4
Franco Insardà • pagina 5
«A Tripoli lo stupro è un’arma» Hillary Clinton denuncia le violenze dei soldati del raìs Il pericolo è una crisi di legittimità
Sul Medioriente l’Onu rischia il futuro
ROMA. La vicenda libica sta diventando sempre più imbarazzante. La nuova accusa rivolta al Colonnello è pesantissima e a dargli voce è un testimone autorevole e degno di rispetto, come il segretario di Stato Usa Hillary Clinton. Gheddafi avrebbe dato ordine ai suoi soldati di violentare in massa le donne di Tripoli per fare pressione sulle popolazioni che vorrebbero ribellarsi al regime. Un attacco che mira a isolare ancora di più il Colonnello. a pagina 26 se1,00 gue a (10,00 pagina 9CON EURO
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Perché dirò sì al referendum sul porcellum di Enrico Cisnetto
Washington: «Abusi sessuali per condizionare chi si oppone al regime»
di Pierre Chiartano
on è ancora chiaro cosa sia questa P4 né cosa vi sia di criminoso in questa che sembra una cordata di persone che si scambiano informazioni e favori. a pagina 10
John R. Bolton
uale che sia il motivo che porrà fine alla legislatura, una cosa è sicura: bisogna evitare di andare a votare con la legge elettorale attuale.
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a pagina 8
Il 12 giugno ha chiuso la Seconda Repubblica
irrealismo può essere una forza distruttiva. In politica estera, questa forma distorsiva è perfettamente visibile nell’uso strumentale che si vuole fare delle Nazioni Unite ad esclusivo beneficio di un Paese. Ecco perché non ci sorprende che il Medioriente, uno dei nostri problemi più “incurabili”, determini tanto attivismo all’Onu. a pagina 27
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
117 •
WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
di Francesco D’Onofrio uella referendaria è stata una vera e propria “eruzione vulcanica”. Occorre partire da questa constatazione per cercare di valutarne il significato. a pagina 9
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19.30
la polemica
prima pagina
pagina 2 • 18 giugno 2011
È fallita un’intera stagione del centrodestra
La politica ridotta a gita domenicale di Giancristiano Desiderio ilvio Berlusconi è attaccato al dito di Bossi e pende dalle labbra di Maroni che dice: «Vedremo a Pontida». Parlare di Cavaliere dimezzato non è più, ormai, una battuta di spirito. Il presidente del Consiglio cerca di esorcizzare il pericolo dicendo che la “maggioranza c’è” ma nella sala delle conferenza stampa di Palazzo Chigi è lo stesso ministro degli Interni a ricordargli che la vera riunione di governo e la vera verifica di maggioranza si terranno domenica a Pontida. E così, tirando le somme e dando un senso alle opere e ai giorni, possiamo dire senza tema di errore che se c’è o non c’è la maggioranza è un problema irrilevante perché tutti sanno che il Pdl, che della maggioranza dovrebbe essere cuore e cervello, non c’è più. Dov’è? A Pontida.
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Berlusconi ha sempre detto: «Tranquilli, con Bossi ci parlo io». Ora non è neanche più in grado di dirlo. Figurarsi di farlo. Il miracolo italiano del berlusconismo si conclude con Pontida capitale d’Italia. Sono giorni e settimane, ormai, che si sente ripetere questa storiella di Pontida. Accade così che quella che è e comunque resta una delle nazioni più avanzate dell’Occidente sia appesa alla messa in scena di Pontida e alle cose che Bossi dirà fingendo di essere un barbaro che con la sua forza distrugge e ricrea la civiltà romana. Lo diceva Luigi Barzini jr. nel suo libro sugli italiani: la messa in scena è la nostra specialità. A dire il vero, però, in questo caso è la specialità della Lega e il povero Berlusconi, che è vittima di se stesso, ne paga le conseguenze. Sarà un caso che la Lega è storicamente l’ultimo partito della Prima repubblica che è ancora in circolazione? Di quella lunga stagione, che pure ha avuto la ragione e il torto di creare la democrazia partitocratica all’italiana, la Lega ha conservato più i vizi che le virtù. E Pontida è inequivocabilmente uno di questi. Pontida, detto in estrema sintesi, l’antitesi dello spirito istituzionale che serve a questo Paese per provare ad essere più decente. È un teatrino e il fatto che colui che disse «basta con il teatrino della politica» sia attaccato mani e piedi a questa corte dei miracoli è il segno inequivocabile del fallimento della politica berlusconiana. Orami anche i berlusconiani dicono apertamente che la lunga stagione berlusconiana è alla fine del suo lungo tramonto. C’è chi sostiene giustamente aggiungiamo noi - che bisogna esprimere un giudizio equilibrato sul berlusconismo. È vero. Tuttavia, bisogna anche affrettarsi a dire che il berlusconismo, purtroppo, cade per mano dello stesso Berlusconi che alle istituzioni e allo Stato ha preferito proprio il “teatrino della politica”. Il ritorno di Pontida, questo luogo domenicale della politica italiana, è il ritorno agli anni Novanta. La recita di Bossi domenica sarà la recita di una recita. Il Senatùr avrà voglia ad agitare il pugno, a sforzare la voce roca, a fare professione di celodurismo: risulterà patetico anche se dovesse avere successo. Anzi, è la sua stessa figura di capo a raccontare la storia anche del suo personale fallimento. Pontida non è il luogo della rinascita: è la pianura dei fantasmi. Un’intera generazione di politici trova qui il cimitero delle sue ambizioni sbagliate e dei suoi astratti furori. Il tempo passa per tutti e venti anni in politica sono sterminati. Avrebbero dovuto condurre Italia e italiani al di là del guado tra Prima e Seconda repubblica e tutto ciò che hanno creato è la domenicale gita fuori porta a Pontida.
il fatto Appello di Napolitano ai partiti: «Non abbiate paura di lavorare uniti»
Ma l’Europa non va a Pontida La Ue non vuole due italiani nel board Bce e ci chiede tempi certi per il rientro dal debito pubblico. Ma il nostro governo ha altro da fare. Aspetta l’oracolo padano di Gianfranco Polillo ontida dista da Roma poco più di 600 chilometri. Bruxelles qualche migliaio. Sarà forse per questo che l’attenzione è massima su questa più breve distanza. Ci s’interroga, con un misto di trepidazione e preoccupazione, su quello che succederà, domenica prossima, nella “valle sacra” della Lega. Che dirà Bossi? Sarà ancora in grado di interpretare l’animo profondo delle genti del Nord, con cui identificarsi? E i suoi colonnelli che scalpitano? Quale sarà il ruolo dei due Roberto? Calderoli da un lato, Maroni dall’altro. Chi farà ancora da sponda a Giulio Tremonti? Prevarrà il coraggio o la prudenza. La ragione o il sentimento. Quanto a Bruxelles: può anche aspettare. La città è carina, ma non entusiasma. La sua identità è incerta: valloni e fiamminghi che contendono il primato di una capitale multietnica, segnata dalla presenza esorbitante delle rappresentanze diplomatiche di ciascuno Stato. Un Governo in crisi da tempo, con un unico riferimento forte nella figura del Re: depositario di quel che resta di un’unità nazionale resa fragile dalle profonde fratture culturali, religiose e linguistiche di una lunga storia.
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Meglio guardare a Pontida e poi seguire Lucio Dalla, ne L’anno che verrà: «vedi caro amico cosa si deve inventare per poterci ridere sopra, per continuare a sperare». L’antidoto a una depressione più profonda, che solo le parole di Giorgio Napolitano – «trovarsi uniti e insieme attorno ai grandi principi e ai grandi obiettivi» – riescono a scongiurare. È stato l’ultimo bollettino della Bce – la Banca centrale europea – a riportarci alla
realtà. Linguaggio asettico: dati e tabelle per fotografare una realtà, come quella internazionale ed europea, che non si presta a facili ottimismi, mentre il caso della Grecia spinge Mario Draghi, a un’intensa opera diplomatica, ancor prima di aver assunto la carica di presidente dell’Eurotower. Rivedrà Angela Merkel, con la quale cercherà di dipanare la complessa questione di una partecipazione dei privati al salvataggio di quel Paese. Argomento spinoso, con tanti pro e tanti contro. Se da un lato è giusto che i costi del moral hazard non si scarichino completamente sui contribuenti – tanto più che le retribuzioni del top management delle banche coinvolte hanno subito solo variazioni marginali – l’opzione opposta implica rischi. Il contagio degli istituti più esposti può determinare una reazione a catena che preoccupa non solo l’Europa, ma gli stessi Stati Uniti. Una mossa sbagliata può alterare il rapporto “dollaro-euro”e rimettere in discussione la complicata politica economica americana. Nel frattempo il nervosismo cresce e i risultati si vedono negli andamenti delle borse e
il vertice
Intanto,Angela e Nicolas salvano Atene Prima il diktat a Roma per far dimettere Bini Smaghi, poi l’accordo per gli «aiuti volontari» di Enrico Singer ianco a fianco, finalmente sorridenti, Angela Merkel e Nicolas Sarkozy hanno annunciato che il salvataggio della Grecia ci sarà. E che arriverà anche presto perché «non bisogna perdere tempo», come hanno detto nella conferenza stampa comune che ha chiuso l’incontro a due nella sede della Cancelleria a Berlino che li ha incoronati come i nuovi, veri padroni dell’euro. Già domenica, nel vertice straordinario dei ministri finanziari in Lussemburgo, saranno sbloccati altri 12 miliardi di euro di aiuti e poi, entro la prima metà di luglio, sarà varato un piano più organico che vedrà scendere in campo anche il settore privato – in pratica le banche che detengono gran parte del debito di Atene – ma soltanto «su base volontaria». Ecco che il compromesso inseguito da oltre un mese è stato trovato. La Germania voleva che l’intervento dei privati fosse sancito dal Consiglio europeo, che si riunirà a Bruxelles venerdì prossimo, come condizione esplicita per concedere un ulteriore prestito che dovrebbe essere di circa 60 miliardi di euro. La Bce, e con lei la Francia, era contraria a una simile imposizione che aveva il sapore di una ristrutturazione del debito appena mascherata e che avrebbe messo ancora più in fibrillazione i mercati. La formula della volontarietà dell’intervento ha sanato il dissenso. A sponsorizzarla era stato Mario Draghi che, appena 24 ore prima, aveva parlato con la Merkel ricordandole che, nel 2009, le banche internazionali rinnovarono volontariamente il credito al sistema bancario delle economie dell’Europa orientale contribuendo, così, al salvataggio di Paesi come la Lettonia e l’Ungheria che erano sull’orlo del default. Quell’operazione è nota come “l’iniziativa di Vienna”, dalla città in
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cui fu decisa, e Draghi l’aveva ipotizzata come una soluzione possibile – e, soprattutto, accettabile anche dalla Banca centrale europea – già nel corso della sua audizione all’Europarlamento di martedì scorso.
Adesso anche Angela Merkel ha detto che Berlino «vuole lavorare in accordo con la Bce» e che gradirebbe
sostanza politica è che la coppia Angela-Nicolas ha saldamente in mano le redini della moneta comune. La giornata di ieri ha dimostrato che in Eurolandia c’è chi decide, chi chiede e chi resta ai margini. Se la Grecia è nella scomoda posizione di chi è costretto a chiedere soccorso, l’Italia è nella situazione di chi è sempre più tagliato fuori dalle stanze delle scelte che contano, al pari di Paesi come la Spagna, il Portogallo o l’Irlanda, che pur si trovano in acque ben più pericolose. Non è la prima volta che gli incontri che
Al vertice di domenica verrà sbloccato un nuovo prestito di 12 miliardi alla Grecia. Ma ognuno deciderà se contribuire o no
«avere la partecipazione dei creditori privati su base volontaria» al piano di salvataggio proprio per non creare «alcun dissenso» con la Banca centrale. I toni, insomma, sono cambiati e l’intesa con Sarkozy è recuperata, tanto che il presidente francese ha dichiarato, con soddisfazione evidente, che «la Francia e la Germania condividono la stessa posizione sulla Grecia e sull’euro». Perché, al di là dei termini tecnici dell’accordo che dovranno essere precisati nei prossimi giorni, la
dei mercati finanziari, nonché nell’ultima copertina dell’Economist: «Economia mondiale, pezza appiccicosa o tracollo?». «Tra la fine di febbraio e l’8 giugno, scrive la Bce - i differenziali di rendimento dei titoli di Stato decennali dei paesi dell’area dell’euro rispetto ai titoli tedeschi corrispondenti si sono notevolmente ampliati per Grecia, Irlanda e Portogallo. Anche le tensioni nei mercati del debito sovrano di Belgio, Italia e Spagna si sono riflesse in questo periodo nelle oscillazioni relativamente ampie dei differenziali con i titoli tedeschi». C’è ancora un piccolo diaframma tra queste differenti realtà. Ma la barriera mostra qualche crepa. Giovedì scorso lo spread tra Btp e bund aveva raggiunto i 204 punti base – massimo dell’anno – per poi scendere ieri a 184. Ed ecco allora le esortazioni a fare in fretta, a scoprire le carte, rinunciando agli annunci che si susseguono nel tritacarne della politica italiana. Sempre in vista di Pontida, riferisce la stampa italiana,Tremonti è disposto a premiare i comuni virtuosi del Nord. Correggerà il Patto di stabilità interno annullando il vincolo sui tetti di spesa, ponendo come condizione esclusiva il pareggio di bilancio. L’attuale disciplina non distingue tra buoni e cattivi. Pone un vincolo uniforme. Più di tanto non si può spendere, anche se si hanno risorse a disposizione, che andranno, semplicemente, sterilizzate. A distanza di anni si ritorna, pertanto, alla vecchia regola scritta da Piero Giarda, il sottosegretario al Tesoro di vari Governi di centro-sinistra e fortemente voluta dalla Lega Nord. Come
sbloccano i problemi di fondo avvengono soltanto a Parigi o a Berlino. O a Londra quando non riguardano l’euro dal quale la Gran Bretagna, per sua scelta, è rimasta fuori. E se a suggerire l’idea di ricorrere alla soluzione della “iniziativa di Vienna” è stato un italiano, non si possono confondere i ruoli: Mario Draghi ha fatto pesare la sua personale competenza, aumentata dal futuro incarico di presidente della Bce, e non ha, certo, parlato con la Merkel in nome del governo che in questa delicata fase della crisi dell’euro sembra assorbito da tutt’altre faccende.
Dal vertice a due di Berlino, anzi, è arrivato un “invito” che suona come l’ennesimo dicktat. Nella conferenza stampa, Sarkozy ha affrontato la delicata questione dei cambiamenti nel
non essere d’accordo? Ma se i buoni possono spendere più degli altri e i cattivi, invece, non ripiano i loro deficit, comprimendo ulteriormente le spese; c’è qualcosa che non funziona. E le assicurazioni, che i saldi complessivi di finanza pubblica non saranno alterati, appaiono poco credibili.
Sarà anche per questo – piccola fibrillazione in una più generale incertezza – che la Bce ha deciso di accelerare. «Il programma - ha scritto ancora l’Istituto di Francoforte - indica che, al fine di conseguire l’obietti-
so temporale realistico punteggiato da report inoppugnabili, mettendo in piedi quelle soluzioni organizzative e gestionali che la rendano credibile. E su queste linee si avvii un confronto serrato con la stessa Bce. Siamo sicuri che vi saranno orecchie pronte a cogliere il vento del cambiamento. Sempre che le resistenze di Bini Smaghi – attualmente nel board della Bce in quota italiana, ma deciso a resistere alle richieste di cedere il posto ad un rappresentante francese, nonostante l’invito di Silvio Berlusconi e il secco intervento di Sarkozy – non determinino situazioni insostenibili per il buon nome dell’Italia.
Giovedì scorso lo spread tra Buoni del tesoro italiani e tedeschi aveva raggiunto i 204 punti base, il massimo dell’anno: ecco la ragione delle esortazioni a fare in fretta, a scoprire le carte, rinunciando alle incertezze della politica vo di un pareggio di bilancio entro il 2014, vanno ancora specificati per il periodo 2013-2014 ulteriori interventi per un importo cumulato pari circa al 2,3 per cento del Pil». Se non è una richiesta ultimativa, poco ci manca. Ma è possibile, in questo quadro politico così incerto, definire un programma destinato a produrre i suoi effetti a distanza di due e tre anni? Il dubbio è più che legittimo, anche se contiamo sulle grandi capacità di Giulio Tremonti. Se così non fosse, tuttavia, una via d’uscita ci sarebbe. Si annunci fin da ora l’impegno a portare avanti la spending review, individuando i possibili obiettivi. Si scadenzi il tutto in un percor-
board della Bce. «La Francia continua ad appoggiare la candidatura di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea ed è fiduciosa che l’Italia manterrà la parola data», ha detto il presidente francese che non ha pronunciato il nome di Lorenzo Bini Smaghi, ma ha aggiunto che «avere due membri italiani nel board non sarebbe una soluzione europea». In pratica, anche Sarkozy ha chiesto le dimissioni dell’attuale componente italiano del direttorio della Banca centrale europea. E’ vero che una regola non scritta, ma finora sempre rispettata, vuole che in questo comitato ristretto di sei membri (cinque più il presidente) vi sia un rappresentante delle quattro maggiori economie di Eurolandia e, da novembre, con l’uscita di Trichet, la Francia si ritroverebbe fuori. Tuttavia lo stesso Jean-Claude Trichet, pochi giorni fa, aveva dichiarato che i componenti del board sono in carica per otto anni e che nessuno può dimissionarli. L’autonomia della Bce è – o almeno dovrebbe essere – sacra. Ma dopo che era stato stesso Berlusconi ad annunciare, mercoledì, di voler chiedere le dimissioni a Lorenzo Bini Smaghi, forse Sarkozy si è sentito autorizzato a uscire allo scoperto proprio come ha fatto al fianco di Angela Merkel, quasi a chiederle il consenso. Il capo dell’Eliseo ha cercato di motivare il suo intervento con argomentazioni generali. Ha detto che in simili vicende «deve prevalere l’interesse nazionale su quello individuale» e che non ha «alcun motivo di dubitare della parola dell’Italia», anche se così non ha fatto altro che confermare che il governo Berlusconi si era effettivamente impegnato a fare posto a un francese nel board della Banca centrale europea. Con il risultato di aumentare l’imbarazzo.
Era stato Mario Draghi, nella sua ultima relazione come Governatore della Banca d’Italia, a suggerire, tra gli altri, questa soluzione. “Occorre – aveva detto - un’accorta articolazione della manovra, basata su un esame di fondo del bilancio degli enti pubblici, voce per voce, commisurando gli stanziamenti agli obiettivi di oggi, indipendentemente dalla spesa del passato; affinando gli indicatori di efficienza dei diversi centri di servizio pubblico (uffici, scuole, ospedali, tribunali) al fine di conseguire miglioramenti capillari nell’organizzazione e nel funzionamento delle strutture; proseguendo negli sforzi già avviati per rendere più efficienti le amministrazioni pubbliche; impiegando una parte dei risparmi così ottenuti in investimenti infrastrutturali.” Un lavoro, indubbiamente, di lunga lena. Ma il tempo, che ancora ci separa dal 2013 e dal 2014, è sufficiente.
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l’approfondimento Chi è l’uomo cui Berlusconi ha chiesto un passo indietro per fare spazio a Draghi alla Bce
L’aceto di Lorenzo È fiorentino e da sempre un mecenate dell’arte. Si è difeso paragonandosi a Tommaso Moro ma è il più giovane dirigente di Francoforte. Storia di Bini Smaghi, un banchiere ostinato di Maurizio Stefanini el colloquio, in previsione della prossima nomina di Mario Draghi a presidente della Banca centrale europea, il presidente Berlusconi ha chiesto al dottor Bini Smaghi di compiere spontaneamente e responsabilmente un passo indie-
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tro, dando le proprie dimissioni, nel pieno rispetto dell’autonomia della Banca centrale europea». Proprio così. Silvio Berlusconi è un personaggio che ogni volta che gli chiedono a lui di fare “un passo indietro”, risponde picche. Ma stavolta è lui che spiega a qualcun altro i meriti patriottici del sapersi ritirare. «Una regola non scritta della Banca centrale europea suggerisce l’opportunità di assicurare la presenza nel proprio Board di un solo rappresentante di ciascuno dei principali Paesi dell’area euro. In nome, quindi, della solidarietà europea, ovvero del principio che ha guidato tutto il percorso professionale del dottor Bini Smaghi, il presidente Berlusconi ha chiesto un preciso atto di responsabilità nei confronti delle istituzioni europee e del suo Paese».
«Io e Letta abbiamo un appuntamento con Bini Smaghi», aveva spiegato
Per i maligni, in cambio del posto nel board europeo ha chiesto la poltrona di Governatore di Bankitalia Berlusconi. «Per ottenere l’assenso della Francia alla candidatura di Draghi, nel Board della Bce ci deve essere un francese. Per questo motivo da parte del governo c’è la richiesta ufficiale di dimissioni di Bini Smaghi». Ma, richiesto di fare il martire, Lorenzo Bini Smaghi prima di andare a Palazzo Chigi ha appunto evocato un martire: San Tommaso Moro, patrono dei banchieri centrali europei. Che «con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell’interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del re Enrico VIII», fino al punto di «essere costretto alle dimissioni, incarcerato e poi condannato a morte». Esagerato paragonare un ministro che si fece tagliare la te-
sta per non sottoscrivere uno scisma voluto dal suo re per poter cambiare moglie, con il muro che la Bce vorrebbe fare nel nome dell’indipendenza da pressioni politiche garantita dai Trattati e dallo statuto? «Può sembrare ardito associare una Banca centrale alla Chiesa», riconosce Bini Smaghi. Ma aggiunge: «Eppure è proprio ciò che ha fatto monsignor Heinrich Mussinghoff, vescovo di Aquisgrana, esattamente due settimane fa nella sua omelia in occasione della consegna del premio Carlo Magno a Jean Claude Trichet». L’indipendenza delle Banche centrali è istituzionale ma anche personale: quest’ultima garantita, ha sottolineato lo stesso Bini Smaghi nel suo intervento, da un mandato che, nel caso della Bce, dura otto anni. «I membri del Board restano in carica per otto anni. C’è un contratto e sopra il contratto c’è un Trattato», aveva detto il presidente uscente della Bce Jean-Claude Trichet circa la permanenza dell’italiano a Francoforte fino al 2013, fine naturale del mandato. Lo stesso statuto della Bce prevede la revoca solo per “condotta indegna”. È vero che due banchieri della stesso Paese in un Board composto da sei membri non si erano mai visti. Ma neanche si era visto uno dei membri del Board licenziato da un governo. Il problema si era già presentato in occasione della nomina di Trichet alla presidenza della Bce, ed era stato risolto con la scelta dell’altro francese Philippe Noyer di scambiare il suo posto con la carica di governatore della Banca di Francia, lasciata appunto libera dallo stesso Trichet. Ma era stato un gioco delle due carte preparato con discrezione. Berlusconi invece ha sottoposto Bini Smaghi a una pressione plateale, per ottemperare alla promessa fatta a Sarkozy in cambio dell’assenso a Draghi: un pacchetto in cui sarebbero entrati anche Parmalat e la partecipazione italiana ai bombardamenti in Libia. È vero che da una parte Sarkozy non avrebbe comunque potuto riproporre un francese alla presidenza della Bce; dall’altra, era anche interesse dell’Italia smarcarsi da Gheddafi prima che fosse troppo tardi.
Resta però di mezzo l’ostinazione di Bini Smaghi, nel momento in cui dopo tutto alla fine del suo mandato mancano meno di due anni. Qualcuno la spiega con il fatto che Bini Smaghi sarebbe un pasdaran dell’euro e della Banca Centrale Europea che vi veglia sopra. Di re-
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Il caso-Bce secondo Giacomo Vaciago
«È un fallimento della diplomazia»
«Le dichiarazioni pubbliche non aiutano, ma siamo europei, non italiani o francesi» di Franco Insardà
ROMA. «Basterebbe togliere la cittadinanza italiana a Mario Draghi. Magari facendolo passare come cugino di Mubarak o di qualche altro leader africano». Non è del solito umore l’economista Giacomo Vaciago, professore di Politica economica ed Economia monetaria all’università Cattolica di Milano, anche se non perde la sua solita ironia. Professor Vaciago, nella vicenda Bini-Smaghi non ci facciamo una bella figura. Questi accordi nei Paesi civili non si fanno in pubblico. Non è possibile che le sbagliamo tutte. Il presidente Nicolas Sarkozy è stato molto chiaro. Capisco l’argomento francese, ma la diplomazia che cosa ci sta a fare, se non riesce a trovare una via d’uscita. Adesso? Ovviamente bisognava muoversi prima. Non è possibile mettere sempre le mutande in pubblico. È molto sgradevole. Professore, stiamo facendo una figuraccia? La fanno tutti. A questo punto sarebbe opportuno che Draghi decidesse di rimanere a casa. Non si possono commettere simili errori. Non abbiamo sbagliato soltanto noi, siamo in buona compagnia. Qual è stato più l’errore grossolano che è stato commesso? È una bella lotta, ma invitare con un comunicato Lorenzo Bini Smaghi a fare un passo indietro mi sembra il massimo. Mi chiedo: il buon senso che fine ha fatto? Insomma come bisognava gestire la vicenda? Bisognava usare la diplomazia, se la questione diventa pubblica non c’è soluzione, perché la legge ti dà torto. Non penso che sia proibito gestire questioni delicate con diplomazia, per poter superare anche problemi personali. La diplomazia è stata inventata molti secoli fa e ha dato ottimi risultati, garantendo rapporti civili. Non posso credere che siamo diventati degli ignoranti.
Occorrerebbero dei politici e degli statisti nei posti giusti. Non se ne può più. Prima il direttore generale del Mercato interno Alexander Schaub fa un comunicato per annunciare che la Grecia sta per fallire. Non sono cose che vanno dette in pubblico da chi ricopre certi ruoli. E poi? Arriva il presidente Sarkozy e dichiara: Bini Smaghi se ne deve andare. È roba da matti. Ma quello che sostiene il presidente francese non è scritto da nessuna parte. Quindi? È semplice i trattati e gli accordi non hanno mai guardato al passaporto dei membri del board della Banca centrale europea. Però si è sempre ragionato così: Jean Claude Trichet all’epoca fu indicato dalla Francia. Non è così, anche questo è un errore. Trichet era stato nominato alla presidenza della Banca centrale europea perché è bravo. Lo stesso discorso vale oggi per Mario Draghi. Ragionando con la logica spartitoria invece? Non si diventerà mai cittadini europei se ogni volta bisogna esibire il certificato di nascita. Siamo o non siamo tutti cittadini europei. È o non è un Unione di Paesi che condividono la stessa moneta? Questa dovrebbe essere la logica. È l’unico metodo applicabile, altrimenti in Italia non dovremmo spendere gli euro prodotti in Francia e negli altri Paesi. Quando circola la moneta nessuno di noi guarda da dove proveniene l’euro che ha in tasca, lo spende perché giustamente la ritiene la moneta unica. Eppure dovremmo essere impegnati tutti per migliorare l’Unione europea. Quando accadono vicende come questa di Bini Smaghi ho la sensazione che si faccia di tutto per disfarla. Se l’intenzione è questa mi avvertano... Perché? Così comprerò dei franchi svizzeri, come hanno fatto tanti. Come dare loro torto?
«Trichet fu nominato perché è bravo. Lo stesso discorso vale per Draghi»
cente, ha preso fortemente posizione per il rigore dei conti dei Paesi europei e contro la finanza speculativa, e all’Euro ha dedicato tre dei cinque titoli risultanti dalla sua bibliografia. Il primo, L’Euro, è stato pubblicato dal Mulino nel 1998, ed è arrivato a una terza edizione nel 2001. Il secondo, Il paradosso dell’euro. Luci e ombre dieci anni dopo, è stato invece pubblicato da Rizzoli nel 2008, e sembra presentare un approccio più problematico. Ma poi ci pensa il terzo titolo del 2009, L’euro un’idea vincente a cura del Mulino, a chiarire come per Bini Smaghi sia quasi un articolo di fede che le luci siano state molto più intense delle ombre. «Se non ci fosse stato l’ombrello protettivo dell’euro», spiega, «avremmo avuto tensioni valutarie pesanti che avrebbero potuto comportare politiche molto dure, come quelle del ’92». Secondo lui, anche l’erosione del potere d’acquisto che c’è stata in Italia, e che riconosce essere stato «un problema reale», non è stato dovuto all’euro, ma «a un sistema distributivo poco concorrenziale che è un’inefficienza del sistema italiano».
Qualcun altro, però, ritiene che Bini Smaghi stia facendo il difficile, proprio per ottenere in cambio del suo sacrificio un compenso adeguato, e tale da costituire un ulteriore scatto in una carriera già di per sé napoleonica. Nato a Firenze il 29 novembre 1956, diplomato nel 1974 al Liceo francese di Bruxelles e laureato in Economia nel 1978 all’Università Cattolica di Lovanio, nel 1980 vi ha aggiunto un master in economia presso la University of Southern California. Dal 1983 al 1988 è stato economista nel Settore internazionale del Servizio studi della Banca d’Italia. Nel 1988 ha conseguito un PhD presso la University of Chicago. Dal 1988 al 1994 è stato capo dell’Ufficio cambi e commercio internazionale presso il medesimo Servizio studi della Banca d’Italia. Tra 1994 e 1998 è diventato capo della Divisione analisi e pianificazione dell’Istituto monetario europeo. Dal 1998 al 2005 ha ricoperto l’incarico di dirigente generale della Direzione rapporti finanziari internazionali del Ministero dell’Economia e delle Finanze: chiamato dall’allora ministro Ciampi, e confermato da Visco,Tremonti e Siniscalco. Un incarico che ne ha fatto il sostituto del ministro dell’Economia nel G7, il vicepresidente del Comitato economico e finanziario dell’Unione, il presidente dello stesso Comitato per i rapporti con il Fondo monetario internazionale, il presidente del Comitato mercati dell’Ocse, e un consigliere di amministrazione della Bei. Senza contare che in Italia era presidente della Sace: l’assicurazione per il commercio con l’estero, dove era stato insediato personalmente da Tremonti. E consigliere di amministrazione della Finmeccanica. Dal giugno del 2005, infine, è stato designato membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea. Proprio il precedente di Moyer e Trichet potrebbe indicare per lui la soluzione dello scambio con la poltrona di governatore della Banca di Italia lasciata libera da Draghi. Il problema è che ci sono un bel po’ di altri pretendenti: sia interni alla stessa Banca d’Italia, come Fabrizio Saccomanni e Anna Maria Tarantola. Sia esterni come il direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli, che è sponsorizzato peronalmente da Tremonti. Per cui, si parla in alternativa anche dell’approdo sullo scranno più alto dell’Antitrust.
D’altra parte, Bini Smaghi è un banchiere fiorentino. Proprio come i Medici. Anzi, è di antica famiglia nobiliare umbro-toscana, che il mento forte e lo sguardo sembrano far risalire a precisi cromosomi etruschi. Oltretutto, di nuovo come i Medici, è un intenditore e un mecenate d’arte. Oltre che banchiere è presidente della Fondazione Palazzo Strozzi, e in quella vesta ha ad esempio sponsorizzato un’esposizione fiorentina intitolata Ritratti del potere: con la serie dedicata alla regina Elisabetta II di Annie Leibovitz; il ciclo Blair at War di Nick Danziger, con la vita quotidiana di Tony Blair durante i giorni precedenti lo scoppio della guerra in Iraq; il ritratto di Margaret Thatcher di Helmut Newton; le fotografie di tre amministratori delegati della Deutsche Bank di Clegg & Guttman; la provocatoria serie Ricas y Famosas di Daniela Rossell, dedicata al gusto per l’eccesso dei ricchissimi messicani. Di lui assicurano che non perde una mostra, soprattutto se riguarda il Minimalismo o la cosiddetta Arte povera, di cui è anche collezionista. Però è un fiorentino abbondantemente francofonizzato, cui l’essere figlio di un importante eurocrate ha propiziato i già citati studi a Bruxelles e Lovanio. Inoltre parla anche inglese e tedesco: in modo perfetto, a parte un lieve accento toscano. In Italia, oggi è di moda definire questi personaggi come glocal. Malgrado gli impegni europei lui ha sempre trovato il tempo per andare a trovare i genitori in campagna. E per ricevere gli amici nella casa romana dei Parioli assieme alla moglie: che si chiama Veronica de Romanis, e che è a sua volta un’economista di vaglia, nel consiglio degli esperti del Tesoro. E per passare le vacanze a Punta Ala. E per sciare o andare in barca a vela. E per fare almeno la prima colazione o la cena con i figli, che hanno i nomi inequivocabilmente toscani di Corso e Laudomia. E per passare i week end in famiglia. E per produrre olio in una tenuta di San Casciano. E per tifare la Fiorentina. E per andare a caccia con un cane di nome Lomé: come la capitale del Togo, sede della convenzione tra l’Europa e i paesi in via di sviluppo. Altro hobby: colleziona le penne usate nei summit ai quali partecipa. Dicono che riesce a conciliare tutto grazie a un senso dell’organizzazione dei tempi eccezionale. Ma per un francese, parlare di un banchiere fiorentino mecenate e francesizzato chi può evocare, se non le due regine Caterina e Maria de’ Medici? Ovvero, il massimo del machiavellismo… Per arrivare al vertice della Bce a 48 anni, d’altra parte, Bini Smaghi ha dovuto mostrare per forza doti di politico, diplomatico e stratega di prim’ordine. L’uomo che ora dice no a Berlusconi, o fa finta di dire no, nel 2005 era visto infatti come un personaggio bipartisan, gradito sia all’allora presidente Ciampi che a Tremonti, a Visco, a Trichet e allo stesso Tommaso Padoa Schioppa, che era venuto a sostituire. E grazie a queste entrature aveva allora bruciato la concorrenza proprio di Mario Draghi. D’altra parte, già per poco non era entrato anche nel Consiglio superiore della Banca d’Italia: dove avrebbe voluto metterlo lo stesso Tremonti nel periodo in cui i rapporti tra il Tesoro e il governatore Antonio Fazio erano più tesi. Ed era stato candidato anche alla direzione generale del Tesoro, occupata da Siniscalco.
diario
pagina 6 • 18 giugno 2011
Primarie del Pdl, non per il premier
Scontri No Tav: 65 nuovi indagati
ROMA. Porta la firma di Fabrizio Cicchitto e Gaetano Quagliariello, la proposta di legge del Pdl sulle primarie, che è stata già inoltrata ai due rami del Parlamento. Il ddl non prevede che le primarie si svolgano per la scelta del candidato premier, ma che vi si ricorra solo per scegliere i candidati alle cariche per le quali è prevista l’elezione diretta: sindaco, presidente della Provincia e presidente della Regione. Il ddl prevede inoltre che per poter partecipare alle primarie, è necessario essere iscritti al partito che le indice o essere sostenitori del partito iscritti in un registro ad hoc. Le primarie, per i partiti o le coalizioni che intendano avvalersene, devono aver luogo entro due mesi prima delle elezioni.
L’Uefa: squalifica a vita ai corrotti
TORINO. Cinque nuovi avvisi di garanzia che si aggiungono agli altri 60 circa emessi negli ultimi giorni e che hanno raggiunto tutti esponenti del No Tav. È questo l’ultimo capitolo della vicenda che riguarda la linea ad alta velocità Torino-Lione e le relative proteste. Il leader storico del movimento Alberto Perino e altri quattro militanti del movimento sono stati raggiunti da un’informazione di garanzia inviata dalla Procura del capoluogo piemontese. I reati ipotizzati negli avvisi di garanzia sono istigazione a commettere reati, resistenza aggravata, interruzione di pubblico servizio e violenza privata, relativamente alla sassaiola della notte dello scorso 24 maggio al presidio della Maddalena di Chiomonte (Torino).
NYON. Maggior collaborazione con le autorità politiche e obbligo per calciatori, allenatori e dirigenti di denunciare qualsiasi tentativo di corruzione: in caso contrario, le pene possono arrivare fino alla squalifica a vita. L’esecutivo Uefa, riunito a Nyon, ha modificato i propri regolamenti per intensificare la lotta contro le gare truccate. «I nostri organi disciplinari potranno cooperare più strettamente con la polizia in caso di sospetti», ha detto il segretario generale dell’Uefa Gianni Infantino. «Abbiamo anche inserito l’obbligo per i giocatori e tutti i membri di club di denunciare qualsiasi tentativo di corruzione». Chi non lo farà, potrà essere squalificato a vita, come auspicato dal presidente dell’Uefa Michel Platini.
Il sindaco di Napoli contro i diktat della Lega si ritrova alleati il governatore e i presidenti delle province di centrodestra
Il fronte bipartisan dei rifiuti Mentre Calderoli scrive a Caldoro: «Quel decreto l’ho bloccato io» di Franco Insardà
ROMA. Luigi De Magistris temeva di essere lasciato solo da Governo, Regione e Provincia a fronteggiare l’emergenza rifiuti a Napoli. In effetti il vento di Pontida sta soffiando sui rifiuti napoletani, ma il sindaco deve registrare una ribellione contro il governo dei vertici del Pdl regionale e dalle istituzioni. Il governatore Stefano Caldoro va giù duro: «Se quella della Lega è una posizione politica, è inaccettabile. Il decreto rifiuti ha già 15 giorni di ritardo, ogni giorno in più è un problema. Dobbiamo guardare alla realizzazione del ciclo completo e farlo in velocità, prima o poi usciremo da questo dramma con una piena intesa istituzionale». Il primo cittadino si è detto molto soddisfatto «del metodo di lavoro e dei ritmi che abbiamo impresso sulla questione rifiuti, abbiamo fatto in 4 giorni quello che non si è fatto in 10 anni di amministrazione Iervolino. Il Governo si è lavato le mani come Ponzio Pilato. Ci auguriamo che Berlusconi, superata Pontida, possa considerare che Napoli è la terza città d’Italia».
Dal fronte padano arriva la replica del ministro Roberto Calderoli: «Caro governatore Caldoro sul decreto legge sui rifiuti l’unico ad essere colpevole sono io. E sono onorato di aver fermato quel decreto legge». In perfetto stile pre-Pontida Calderoli aggiunge: «Inaccettabile, pertanto non è la posizione politica assunta dalla Lega», ma secondo il ministro «inaccettabile, viceversa, è che in tutto il resto del mondo e in tutto il resto del Paese ciascuno si debba fare carico dei rifiuti che produce e solo Napoli non lo faccia...».
Il governatore, Stefano Caldoro e il sindaco De Magistris, nelle prossime settimane andranno insieme a Bruxelles per chiedere lo sblocco dei 150 milioni di euro fermi per la procedura di infrazione avviata nei confronti dell’Italia per l’emergenza rifiuti a Napoli
Intanto, secondo le stime dei tecnici dell’Asia, sono circa duemila le tonnellate di spazzatura nelle strade di Napoli e il nuovo presidente, Raphael Rossi, 37 anni, piemontese, esperto impegnato da anni sul versante dei rifiuti e della differenziata, ribadisce: «La situazione è grave a causa del mancato decreto del governo». Nel vertice in prefettura con Comune, Provincia e Regione, con il prefetto Andrea De Martino, il vicesindaco di Napoli e titolare della delega all’Ambiente, Tommaso Sodano, l’assessore regionale all’Ambiente Giovanni Romano, il presidente della Provincia Luigi Cesaro con l’assessore all’Ambiente Caliendo, si cerca-
no situazioni temporanee per affrontare l’emergenza. «Tra martedì e mercoledì parte dei rifiuti partenopei potrebbe essere spedita nelle Marche», ha detto l’assessore regionale all’Ambiente Romano al termine del vertice.
Insomma per il sindaco Luigi De Magistris e la sua giunta, formata da 12 assessori dei quali quattro donne e insediatasi giovedì, la grana rifiuti è lì, grande come una montagna che dovrà essere rimossa. De Magistris va avanti per la sua strada, quella annunciata in campagna elettorale, e punta sulla raccolta differenziata porta a porta che, ha dichiarato, partirà in altri tre quartieri entro 90 giorni. La prima
delibera di giunta, preparata dal vicesindaco Tommaso Sodano, in sostanza, oltre a una serie di provvedimenti per incrementare la differenziata, ha stabilito che a Napoli non sarà costruito un termovalorizzatore. Secondo Sodano l’inceneritore «è inutile e col piano lo dimostreremo».
Intanto, come aveva detto durante i ballottaggi De Magistris, è stato eletto presidente del Consiglio comunale il professor Raimondo Pasquino, rettore dell’Università di Salerno e candidato a sindaco del Terzo Polo. Una scelta che, come dice a liberal lo stesso Pasquino, «va in una direzione nuova della politica, perché dal ’93 a oggi la presi-
denza del Consiglio è stata appannaggio della maggioranza. E le critiche dei quattro gruppi del Pdl che chiedevano una vicepresidenza, preoccupati solo di occupare cariche, sono un modo vecchio di fare politica che non ci appartiene. Abbiamo colto il segnale positivo del sindaco e della maggioranza». Lo stesso leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, augurando «buon lavoro a Raimondo Pasquino per il ruolo istituzionale di grande importanza che è stato chiamato a ricoprire da un’ampia maggioranza di consiglieri comunali di Napoli», ha sottolineato come l’aver «scelto un esponente dell’opposizione, già candidato del Terzo Polo è un
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ragioni&torti di Giancristiano Desiderio
Ex agente Sismi: «Emanuela Orlandi è viva ed è a Londra»
Il prete che voleva Cavour in Vaticano
ROMA. «Emanuela Orlandi è viva e si trova sedata in un manicomio nel centro di Londra. Con lei ci sono due medici e quattro infermiere». La rivelazione è arrivata con una telefonata durante la trasmissione Metropolis, condotta da Valentina Renzopaoli su RomaUno, andata in onda in diretta giovedì sera. L’uomo, che si è presentato come un ex agente dei servizi segreti del Sismi con il nome “in gergo”di Lupo Solitario, ha raccontato che la donna sarebbe stata prelevata da una Bmw nera, auto che sarebbe stata lasciata nel sotterraneo del parcheggio dove poi è stata ritrovata; sarebbe stata trasferita su una Mini verde e a bordo ci sarebbero stati anche un agente inglese e un’altra donna. L’uomo ha rotto il silenzio solo dopo 28 anni dalla scomparsa perché «tirato in ballo con delle falsità». Alla richiesta di spiegazioni
sul movente del sequestro da parte di Pietro Orlandi; “Lupo solitario”ha così risposto: «Devi scovare in fondo a cosa faceva tuo papà, mi dispiace Pietro, scoprirai cose che non ti piaceranno». Infine ha spiegato che Ercole Orlandi era venuto a conoscenza di giri consistenti di denaro da “pulire”; giri legati all’’Istituto Antonveneta. Secondo il presunto testimone il rapimento di Emanuela Orlandi sarebbe legato a Roberto Calvi.
in Campania e non darà risposte al territorio. Il governo aveva preso un impegno preciso e non può, per colpa dei ricatti della Lega, penalizzare anche la provincia di Salerno che negli anni ha accolto i rifiuti napoletani dando la disponibilità ad aprire ben tre discariche, ha rinunciato a versare i rifiuti, così come d’accordo, ad Avellino e Benevento, sopportandone gli oneri economici, oltre ad aver accettato la costruzione di un termovalorizzatore. Il governo non può, contrariamente a quanto ha sempre affermato, punire una provincia virtuosa, come Salerno, quarta in Italia per raccolta differenziata, accomunandola alla città di Napoli».
primo significativo segnale di quella distensione tra le parti politiche che si rende necessaria per affrontare seriamente gli enormi problemi di Napoli e dei napoletani».
Su tutto i rifiuti, con l’sos lanciato anche le altre quattro province della regione. Impianti in tilt per il sovraccarico, cumuli di immondizia maleodoranti un po’ ovunque, roghi dolosi e proteste degli abitanti. Caldoro ha confermato: «Tre Province hanno confermato la loro non autosufficienza, le altre due hanno annunciato che tra due settimane avranno gli stessi problemi. È il tema dell’incontro tra le istituzioni in Prefettura. L’importante è che ci sia un tavolo comune e si lavori tutti insieme. Anche il professor Pasquino sottolinea quanto «sia positivo un tavolo permanente, formato da Regione, Provincia e Comune, per affrontare e risolvere i nodi legati alla raccolta della spazzatura». Il governatore Stefano Caldoro ha, comunque, sollecitato un intervento rapido da parte governo, non escludendo la possibilità che siano «le stesse Province e i Comuni a chiedere alla Regione di comunicare al governo la richiesta di stato di emergenza». In agitazione anche i vertici campani del Pdl, convocati dal coordinatore regionale e dal vicevicario, Nicola Cosentino e Mario Landolfi, alla presenza del governatore Stefano Caldoro e dei presidenti delle Province di Napoli, Salerno e Avellino, Luigi Cesaro, Edmondo Cirielli e Cosimo Sibilia. La linea emersa è molto chiara; «Chiediamo un immediato incontro con i capigruppo del Pdl di Camera e Senato e con lo stesso presidente del Consiglio, cui rappresenteremo tutta la nostra delusione per le mancate risposte del governo e del Parlamento alle richieste della Campania». Va oltre Edmondo Cirielli, deputato del Pdl e presidente della provincia di Salerno: «Sono pronto a lasciare il Pdl e a iscrivermi al gruppo misto alla Camera, se il Consiglio dei ministri non emanerà il decreto per fronteggiare l’emergenza rifiuti
18 giugno 2011 • pagina 7
L’amministrazione guidata
Raimondo Pasquino: «Per la mia nomina abbiamo colto il segnale positivo della maggioranza»
Nelle foto: dall’alto Rosa Russo Iervolino, Stefano Caldoro e Raimondo Pasquino; nella pagina precedente Luigi De Magistris
da Luigi De Magistris si trova ad affrontare anche la questione dell’approvazione del bilancio di previsione entro la fine di giugno. Secondo il presidente del Consiglio comunale ci sono «tutti i presupposti per lavorare bene innanzitutto per approvare il bilancio entro il 30 giugno». De Magistris ha anche annunciato la riduzione delle aziende partecipate comunali e i Consigli d’amministrazione, la chiusura al traffico di importanti aree della città e il rafforzamento dei fondi per la cultura. Ha avviato la diretta web di tutti i Consigli comunali, l’eliminazione delle auto blu per gli assessori e i dirigente, che saranno dotati di bici elettriche e l’utilizzo dell’acqua del rubinetto con l’apertura di fontanelle pubbliche. «Non si tratta di demagogia - commenta Pasquino - all’Università di Salerno si beve acqua dalle fontanelle. Rettore in testa». E se da una parte la città si trova ad affrontare problemi così grandi il Pdl in Consiglio comunale pensa bene di diversi in quattro gruppi: Pdl Napoli, Pdl, “Liberi per il Sud” e “Iniziativa responsabile”. Su tutto anche sui rifiuti regna l’ironia e il sarcarsmo partenopeo interpretato da un cittadino che su una montagna di rifiuti non raccolti ha piantato un tricolore con la scritta “Viva l’Italia”. Con buona pace dei padani riuniti a Pontida.
cusate, ma inizio con una citazione non brevissima: «Vi sono almeno tre ragioni per cui questo piccolo libro è oggi particolarmente interessante. È uno dei migliori profili biografici di Cavour. È opera di un uomo che fu molto noto e discusso tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento, ma è oggi ignorato da quasi tutti i suoi connazionali. Contiene considerazioni ancora attuali sui rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica». L’autore di queste righe è Sergio Romano e sono tratte dalla sua prefazione a davvero «uno dei migliori profili biografici di Cavour» intitolato semplicemente Camillo di Cavour, pubblicato da Aragno. Ma chi è l’autore del profilo, «uomo molto noto e discusso tra la fine dell’Ottocento e i primi del Novecento» ma oggi «ignorato da quasi tutti i suoi connazionali»? Romolo Murri. E chi è Romolo Murri?
S
Nella data di nascita di questo prete inquieto c’era già tutto il suo destino: venne al mondo nel 1870, l’anno della “presa di Roma” e del compimento dell’Unità d’Italia (eccezione fatta per le “terre irredente”). Nel 1893 era sacerdote, ma negli anni seguenti seguì alla Sapienza le lezioni “rivoluzionarie” di Antonio Labriola (come fece il giovane Croce). Animò la Federazione universitaria dei cattolici e non mise in discussione lo Stato nato dal Risorgimento, semmai ne criticò la politica conservatrice e si oppose al non expedit di Pio IX che prescriveva ai cattolici di non essere “né eletti né elettori”. Il contrario di Murri che con Filippo Meda, Luigi Sturzo, Giuseppe Toniolo voleva partecipare alla vita politica e pubblica della “nuova Italia”. Fondò la Lega democratica nazionale, quasi un partito, e il papa proibì ai preti di farne parte. Un anno dopo, nel 1907, fu sospeso a divinis e nel 1909, per le simpatie mostrate per il movimento modernista, fu scomunicato e fu eletto alla Camera con l’appoggio del Partito radicale. A chiedergli di scrivere un profilo del Conte fu l’editore Formiggini verso la metà degli anni Venti. L’ammirazione di Murri per Cavour nasceva per come Cavour interpretò i rapporti tra Stato e Chiesa e per l’ “idea italiana” che vedeva rappresentata e condensata in lui. Per Murri la politica dello Stato liberale non seppe essere all’altezza del liberalismo di Cavour e non accettò mai che la religione potesse diventare uno strumento politico «convertendo le chiese in tribune, la divinità in agente elettorale». La sua opposizione al Concordato fu totale. Della italianità di Cavour scrive: «I grandi attori della storia sono quasi condensatori inconsci di energie spirituali, sono un’idea fatta forza e volontà concreta, nel cervello e nei nervi di uno, ma per le innumerevoli». Cavour, che voleva fare lo Stato italiano e vi riuscì, fu troppo geniale e sopravanzò l’opera di Mazzini che lavorava alla formazione della coscienza nazionale degli italiani. In questa sfasatura, colta alla perfezione dal fondatore della “democrazia cristiana”, c’è la nostra storia e di uno “Stato senza coscienza”.
politica
pagina 8 • 18 giugno 2011
IL PROSSIMO APPUNTAMENTO
Via il premio di maggioranza prima di tornare al voto di Enrico Cisnetto rima le amministrative e i referendum, adesso Pontida e (more solito) le inchieste giudiziarie. Senza dimenticare le vicende internazionali, con in testa la Grecia e i possibili contagi di crisi finanziaria. Sono tante le gocce che possono far traboccare il vaso, già stracolmo, di Berlusconi e del suo governo. Ma quale che sia il motivo che porrà fine alla legislatura, prima o meno della sua scadenza naturale, una cosa è sicura: bisogna evitare di andare a votare con la legge elettorale attuale. Di questo hanno cominciato a rendersi conto anche maggioranza e opposizioni, inducendo alcuni a tirare fuori dai cassetti vecchie idee e proposte. Ma è logico ipotizzare che in questo caos il Parlamento sappia imboccare la strada di una riforma, e per di più condivisa come è giusto che sia? Meglio non farsi illusioni. Per questo l’unico modo per cancellare l’orrido “porcellum”è mobilitare la società civile attraverso il solo strumento che ha a disposizione: il referendum abrogativo. Il quale può produrre o un effetto diretto – si raccolgono le firme, si vota e si vince – o un risultato indiretto, e cioè che il Parlamento legiferi sotto la spinta della mobilitazione. E siccome la consultazione può solo essere abrogativa, si tratta di cancellare della legge che porta la firma di Calderoli tutti gli aspetti peggiori, facendo in modo che ciò che residua sia una legge magari imperfetta ma di sicuro molto meno peggio dell’attuale versione.
P
Per questo ho deciso di partecipare come promotore – non solo a titolo personale ma anche nella mia veste di presidente di Società Aperta – all’iniziativa referendaria “Io Firmo – riprendiamoci il voto”, che fa capo ad un movimento presieduto da Stefano Passigli (docente di Scienza della Politica all’Università di Firenze, editore, già parlamentare) cui hanno aderito una quarantina di grandi personalità del mondo della cultura, dell’economia e delle professioni (vedi tutti i nomi nel riquadro). Ma in cosa consiste la proposta? Raggruppata sotto tre diversi quesiti referendari,
cancella le quattro aberrazioni della legge elettorale approvata in fretta e furia poco prima delle elezioni del 2006. Semplificando: le liste bloccate; un premio di maggioranza spropositato; una soglia di sbarramento troppo bassa; l’obbligo di indicazione del candidato premier.Vediamole nel dettaglio.
Prima di tutto il porcellum riduce fortemente il potere decisionale elettori attraverso il clientelare sistema delle liste. Non solo chi vota non può decidere chi vuole mandare in parlamento, ma, anzi, contribuendo suo malgrado ad affollare Camera e Senato di “nominati”, altera l’equilibrio dei poteri perchè rende le camere impotenti al cospetto di governo e presidente del Consiglio. Una situazione che stiamo già vivendo – vedi la vicenda dei cosiddetti Responsabili – e che va cancellata ad ogni costo. In secondo luogo, il premio di maggioranza. Per cancellarlo basterebbe il fatto che non esiste in nessun altro Paese, almeno in questi termini. Attribuendo il 55% dei seggi alla lista che ottiene anche un solo voto in più degli altri, si
Ecco tutti i firmatari Claudio Abbado, Salvatore Accardo, Umberto Ambrosoli, Rosellina Archinto, Alberto Asor Rosa, Corrado Augias, Gae Aulenti, Luigi Brioschi, Andrea Carandini, Enrico Cisnetto, Tullio De Mauro, Umberto Eco, Carlo Feltrinelli, Inge Feltrinelli, Ernesto Ferrero, Vittorio Gregotti, Carlo Federico Grosso, Rosetta Loy, Dacia Maraini, Renzo Piano, Mario Pirani, Maurizio Pollini, Giovanni Sartori, Corrado Stajano, Massimo Teodori, Giovanni Valentini, Gustavo Visentini, Federico Enriques, Innocenzo Cipolletta, Domenico Fisichella, Stefano Mauri, Benedetta Tobagi, Gian Carlo Caselli, Pasquale Pistorio, Margherita Hack, Franco Cardini, Maurizio Viroli, Luciano Canfora, Irene Bignardi, Giovanni Verusio.
PRESCRIZIONE BREVE
S ul l a g i u s ti zi a i l go ve rno ( bo cci at o) non h a c api to la vera lezi one di Achille Serra
costringono i partiti maggiori a una deprimente questua alla ricerca di un pugno di consensi. Cosa che ha come diretta conseguenza la nascita di coalizioni monstre, e dunque inevitabilmente farraginose, con l’estrema conseguenza di bloccare ogni attività di governo. È accaduto nel 2006 con il governo Prodi, è successo a più riprese nei governi Berlusconi.
Terzo punto. L’attuale soglia di sbarramento al 2% per le liste collegate in coalizione non fa altro che rendere ancora più confusa e instabile la situazione, contribuendo alla frammentazione. Sarebbe invece auspicabile – ed è quanto proponiamo – una Camera eletta con sistema proporzionale, senza alcun premio di maggioranza e con una soglia di sbarramento al 4%. Il Senato, invece, verrebbe eletto su base regionale con metodo proporzionale, senza premio di maggioranza in collegi uninominali, con una soglia di sbarramento determinata dall’ampiezza delle Circoscrizioni. Senza contare che gli eletti non verrebbero più scelti tra i nominati dei segretari di partito ma tra i candidati attraverso la preferenza unica. Infine, l’indicazione del candidato premier è una forzatura che propone almeno due gravi problematiche: una diminutio del ruolo del Presidente della Repubblica, tra le cui prerogative c’è la scelta del premier senza condizionamenti di sorta; e una velata e implicita trasformazione del nostro sistema da parlamentare a semipresidenziale, senza però i contrappesi che esistono in un sistema presidenziale. L’indicazione del candidato premier è quindi un ulteriore sassata agli equilibri dei poteri sanciti dalla Costituzione. Il referendum abrogativo, lo sappiamo, è per sua natura imperfetto, ma in questo caso è l’unica arma che gli italiani hanno in mano per evitare che anche la prossima legislatura appartenga alla funesta Seconda Repubblica. Per questo io ci ho messo la faccia e la firma. E voi? (www.enricocisnetto.it)
mparare dai propri errori: è una massima che da sempre ha poco a che vedere con la politica, eppure stavolta il governo ha scelto di ignorarla del tutto. Ha pensato piuttosto di allontanare ogni insegnamento frutto degli errori passati e perseverare nei suoi sbagli, mai così palesi. Palesi, in particolare, agli occhi di tutti quei cittadini che di quella maggioranza hanno più volte bocciato l’operato, dapprima con il voto delle amministrative, quindi con quello del referendum; gli stessi italiani che in massa si sono recati alle urne per votare sì all’abrogazione di quel legittimo impedimento così caro al premier. ”Sberle” - come le ha definite qualcuno - che non hanno però cambiato di una virgola l’agire politico di un esecutivo cieco e sordo ad ogni richiamo. Di fronte a tutto questo, infatti, sarebbe
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A una settimana dai referendum
Tre idee per un Paese confuso
stata d’obbligo una riflessione eppure quella strada avrebbe significato apprendere, dialogare con i cittadini, affrontare seriamente le questioni poste dalla volontà popolare.
Niente di tutto questo ha sfiorato però le menti dell’acuta maggioranza. «Processo breve» è stato il monito risuonato da lontano, ed è stato dunque questo il primo provvedimento sottoposto all’esame delle commissioni, da inserire quanto prima nel calendario dei lavori parlamentari. Un provvedimento che, a discapito del suo nome, tutto è fuorché un breve processo, configurandosi piuttosto come una prescrizione breve, ancor più breve rispetto al precedente illustre della legge Cirielli. Un testo, di qui l’estrema urgenza, che ci si affretta ad approvare prima
politica
18 giugno 2011 • pagina 9
UN VOTO POLITICO
Il 12 giugno è finita la Seconda Repubblica di Francesco D’Onofrio uella referendaria è stata una vera e propria “eruzione vulcanica”. Occorre pertanto partire proprio da questa constatazione per cercare di valutare il significato complessivo dei referendum, sia in riferimento all’equilibrio politico che ha dato vita alla cosiddetta Seconda Repubblica, sia in riferimento ad un nuovo equilibrio politico che deve essere ancora costruito. Si è trattato infatti di un insieme di questioni sociali, politiche ed istituzionali non sempre tenute contestualmente presenti.
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Vi è stata innanzitutto una grande vittoria di quanti hanno votato, respingendo la tentazione spesso subdola di chi affermava o che i referendum erano inutili o che non si sarebbe andati a votare.Vittoria dunque dei fronti referendari e sconfitta senza alcuna attenuante per quanti hanno deliberatamente deciso di non votare: è quindi del tutto comprensibile che hanno gioito coloro che hanno votato, e che soffrono di conseguenza tutti coloro che hanno deciso di non votare. Questo appare pertanto il significato socio-politico-istituzionale complessivo di questa clamorosa “eruzione” referendaria. Il panorama comincia ad essere molto più articolato allorché si passa ad esaminare il complesso fronte del“Sì”.Vi sono stati innanzitutto coloro che hanno raccolto le firme per i referendum. In seguito vi è stato chi ha svolto una più decisa azione di mobilitazione all’indomani del voto amministrativo che si era giocato quasi esclusivamente alla luce degli schieramenti politico-parlamentari noti. Non sempre si è rilevata la sostanziale differenza tra quanti hanno svolto una decisa campagna referendaria su specifici temi, e quanti si sono impegnati prevalentemente sul fronte del rapporto tra maggioranza e opposizione. È in questo caso che hanno assunto particolare rilievo le iniziative sociali prevalentemente cattoliche - sul tema dell’acqua, anche a prescindere dalle specifiche tecnicalità delle questioni coinvolte: l’iniziativa cattolica ha posto in evidenza non tanto la questione della sentenza di primo grado del processo Mills, a carico, sarà un caso, del nostro presidente del Consiglio. Inutile dire che la brevità dei processi è voluta e caldeggiata da tutti in Italia e in Europa, ma l’auspicio vorrebbe che questi fossero più brevi arrivando a una definizione e non certo che la brevità sia determinata dalla loro morte «prematura».
Una reale brevità si potrà ottenere solo con una riforma globale vera, senza sotterfugi né scorciatoie: una riforma che preveda novità concrete e finalmente utili al cittadino, come l’informatizzazione e l’accorpamento dei palazzi di giustizia, l’assunzione mediante concorso pubblico di nuovi cancellieri e segretari, la redistribuzione funzionale sul territorio dei magistrati, oltre alla depenalizzazione di ta-
del rapporto tra pubblico e privato, quanto la questione del bene complessivo dell’acqua in quanto tale in un mondo nel quale si registra una straordinaria carenza di acqua in tante parti del globo. Questa iniziativa cattolica interpella i politici di ispirazione cristiana perché concerne l’idea stessa del principio di eguaglianza nell’era della globalizzazione. Nel fronte referendario concernente l’acqua vi è stato invece chi ritiene che vi sia stato uno stop alla scelta sostanzialmente liberistica che ha ispirato l’azione dei governi europei all’indomani della caduta del muro di Berlino: è come se, partendo dalla questione dell’acqua, si fosse posta una sorta di questione nuova del rapporto tra liberismo e socialismo.
Si tratta – in questo caso – di capire se si intende fare dell’acqua medesima una questione di fondo concernente il modello di sviluppo economico considerato nel suo insieme.Considerazioni simili vanno svolte per quel che concerne il fronte cosiddetto “antinucleare”. Non vi è dubbio che l’effetto del dramma di Fukushima abbia svolto un ruolo determinante per la mobilitazione conclusiva del fronte antinucleare. Ma non vi è dubbio che occorre interrogarsi sino in fondo sul significato europeo complessivo di una scelta italiana antinuclearista, al pari di quel che sembra avvenire in Germania ed a differenza di quel che risulta in Francia. Si tratta – in questo caso – di porsi la questione di fondo di una politica energetica capace di essere allo stesso tempo ecologicamente accettabile, ed idonea a sostenere una consistente iniziativa industriale nel mondo contemporaneo. Un trascinamento complessivamente minore sembra aver avuto proprio il quesito referendario potenzialmente di più alto valore politico: quello con-
luni reati. Eppure la strada scelta ancora una volta non è questa: si sceglie di non risolvere nulla. Altro problema ma stessa scorciatoia per l’anticorruzione, un provvedimento tirato fuori dai polverosi cassetti di Palazzo Madama in cui giaceva ignorato da anni e portato in Aula solo grazie alla sollecitazione di opinione pubblica e opposizione. Ma anche stavolta si tratta di un bluff, di nuovo a partire dal nome, che poco o niente ha a che vedere con il reale contenuto: l’anticorruzione, infatti, non si occupa di certo di affrontare una reale lotta al fenomeno corruzione, semplicemente aggira il problema. Ecco quindi che dopo i numerosi tentativi da parte dell’opposizione di mettere fine al «gioco della dissimulazione», il tutto è terminato in una bolla di sapone. Così come nel nulla è finita la proposta di costi-
cernente il legittimo impedimento. Non vi è dubbio che la decisione della Corte Costituzionale che aveva già sostanzialmente compresso il significato incostituzionale della legge istitutiva del legittimo impedimento, abbia finito con il giocare un ruolo rilevante nel far ritenere sostanzialmente superata la questione medesima.
Ma non vi è dubbio che i risultati complessivi di questo referendum devono seriamente indurre a riflessioni molto approfondite proprio sul rapporto tra principio costituzionale di eguaglianza di fronte alla legge e deroghe specifiche previste in costituzione per alcune specifiche cariche istituzionali. Molto si è infine discusso sul ruolo che internet abbia svolto proprio in riferimento alla mobilitazione referendaria, trattandosi di un mezzo di comunicazione capace di saltare direttamente tutti gli schermi di partito, e persino quelli concernenti personalità carismatiche. Qualora pertanto si volesse trarre una qualche considerazione conclusiva concernente l’“eruzione” referendaria, occorre aver presente che l’esito dei referendum faccia sostanzialmente ritenere vecchio e superato l’equilibrio politico sul quale è nata la cosiddetta Seconda Repubblica.Per quel che concerne il nuovo equilibrio politico in qualche modo sollecitato anche se non determinato dai referendum medesimi, occorre aver presente che vi sono stati e vi sono spinte che vengono dalla società, capaci di avere conseguenze politiche non appartenenti al modello istituzionale della cosiddetta Prima Repubblica, anche perché da un lato siamo entrati in un complesso processo di integrazione europea, e dall’altro siamo divenuti partecipi di questo ancora in parte indefinito processo di globalizzazione mondiale.
Moltii equilibri sono cambiati: è comprensibile che abbia gioito chi ha votato
tuire un’autorità totalmente indipendente dal potere politico che affrontasse in modo tangibile il problema, come stabilito dalla convenzione Onu in merito e messo in pratica dal mondo intero.
Al suo posto si è preferito mettere insieme e approvare uno strano pasticcio, i cui deleteri effetti saranno visibili da qui a qualche tempo. Stesso copione, ennesimo bluff, che segue quello dell’annunciata riforma fiscale, dell’abbassamento delle tasse mai realizzato, o infine quello della riforma della scuola cui è seguito un taglio indiscriminato dei fondi, solo per citarne alcuni. Il governo non impara e la farsa continua. Eppure l’Italia ha smesso di stare a guardare. L’augurio è che di qui a breve dal Paese giunga sonante la terza sberla, sperando sia quella definitiva.
politica
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L’arresto e gli interrogatori di Luigi Bisignani scuotono il potere politico on è ancora chiaro cosa sia questa P4 né cosa vi sia di criminoso in questa che sembra una vasta cordata di persone che si scambiano informazioni e favori. Non è chiaro in altri termini dove si annidi il reato nelle frequentazioni dei presunti affiliati a questa presunta nuova loggia, quale sia la pistola fumante, in che consista l’attività criminosa.
N
In attesa di scoprirlo, ammesso che in questo senso vi sia qualcosa da scoprire, si deve registrare che a capo di questa inchiesta c’è il sostituto procuratore Henry John Woodcock, uomo che ha dimostrato nelle sue frequenti apparizioni mediatiche un certo gusto nel vestire ma come magistrato ha dei precedenti che inducono, di fronte alle inchieste che estrae dal suo cilindro, a non scomporsi più di tanto. Uno scetticismo che diventa ancora più forte e fondato di fronte all’autorevole testimonianza di Luigi De Magistris, un altro magistrato dal curriculum problematico (diciamo così). «Nel 2007 l’inchiesta Why not è entrata nel vivo – racconta il neosindaco di Napoli – Viene fuori di tutto: associazioni segrete, pubblici funzionari infedeli, pezzi di Stato deviati. Facciamo visita, con la polizia giudiziaria, a Luigi Bisigignani. Faccio la perquisizione e da quel momento è un cataclisma». Al tempo dei fatti raccontati De Magistris era pubblico ministero a Catanzaro.«Quel sopralluogo - ricorda ancora l’ex Pm - imprime un’accelerazione folle, assolutamente inaspettata, alla vicenda che mi porterà nel giro di pochissimo tempo a perdere le funzioni di Pubblico ministero. Le stesse persone che ritrovo nella P4 mi levarono il fascicolo e mi cacciarono. Ora i miei ex colleghi Greco, Woodcock e Curcio hanno riscontrato quasi le stesse cose che stavo riscontrando io: un governo occulto della cosa pubblica, parallelo a quello legale e interagente con esso, che orienta il comportamento di organi costituzionali en-
Amicizie, complicità oppure veri reati? Tra amanti, pressioni e vecchi segreti, sull’inchiesta pesa il «fattore Woodcock» di Riccardo Paradisi
Sopra il deputato Pdl Alfonso Papa, sotto Luigi Bisignani. I due sarebbero inseriti in «un’organizzazione che ricerca notizie per favorire o ricattare, tra cui membri delle istituzioni». d’un braccio operativo del doppio stato: «I loro scopi sono eversivi. Tecnicamente siamo di fronte ad un tentativo di eversione dell’ordine costituzionale». Per carità tutto è possibile ( del resto chi l’avrebbe mai detto che De Magistris sarebbe diventato sindaco di Napoli) ma per ora, accantonata l’ipotesi di associazione a delinquere, restano in piedi quelle di concussione, favoreggiamento e rivelazione del segre-
C’è anche chi, con sprezzo del ridicolo paragona il faccendiere a Rasputin, ma assomiglia più a Carboni, il personaggio della P2 e della P3 trando nei processi di approvazione delle leggi e di adozione di provvedimenti amministrativi che incidono pesantemente sulla collettivita». Apprendiamo così che anche De Magistris è una vittima della P4, che il procedimento disciplinare da lui subìto sia dipeso dall’interessamento
to istruttorio. Tutti reati labili sempre difficili da dimostrare anche se è possibile che nelle maglie delle indagini qualcosa resti di penalmente perseguibile. D’altro canto, se non altro in termini comparativi, appare bizzarra l’imputazione di Bisignani accusato di illecita ac-
quisizione di notizie e informazioni coperte da segreto. Curioso che Woodkock non abbia trovato motivo di indagare in questo senso, a trecentosessanta gradi, lungo tutti questi anni in cui dalle procure sono uscite tonnellate di documenti riservati riprodotti in carta copiativa oltre a infor-
mazioni coperte da segreto istruttorio. L’altra contestazione che si fa a Bisignani e ad Alfonso Papa, deputato Pdl ed ex magistrato, è quella di essere inseriti in «un’organizzazione che ricerca notizie segrete per favorire o ricattare persone, tra cui anche membri delle istituzioni». In attesa che la magistratura faccia come si dice il suo lavoro si può sicuramente dire come fa l’esponente di Fli Italo Bocchino che Bisignani è almeno «quello che in America verrebbe definito un lobbista». Si vuole con ciò minimizzare? Niente affatto. Se infatti dovesse accadere che dalle indagini – come è accaduto molte volte in questi anni – non emergessero reati penali già quanto è emerso è sufficiente per ricordarci l’esistenza d’un sottosuolo politico affaristico inquietante e squallido.“L’italia dei dossier” come la chiama Pierluigi Mantini, capogruppo Udc alla Camera, «l’Italia dei faccendieri, dei ricatti, quella della
P4. Un’Italia che non ci piace, mentre è tempo di trasparenza, di concorrenza, rispetto del merito professionale e dell’autonomia delle istituzioni». Quello che si vuol dire però è che se il panorama avvilisce certo non sorprende. Del resto dov’è la sorpresa? Non è questo l’eterno Paese delle camarille e delle cordate? Dove contano le amicizie e le conoscenze giuste, dove ci sono gli amici e gli amici degli amici. Dove chi denuncia questo costume è guardato come una delle vecchie zie di Leo Longanesi, che continuavano a dire signora mia dove andremo a finire? È che questa roba qui – le P2, le P3, le P4 ma anche tante altre cordate che magari godono di migliore letteratura e minore attenzione da parte delle procure – costituisce il core business, purtroppo della storia italiana, che è quella che è. La storia cioè d’una nazione divenuta tale tardi, che ha sempre sentito lo Stato come un corpo estraneo, in cui il potere, abituato al protettorato per secoli, ha sempre percepito la trasparenza come nudità, dove il senso civico è sempre stato un’eccezione negli individui come nei gruppi, dove l’unica socialità accettata e riconosciuta è quella della famiglia e del clan come sua prosecuzione.
S i c c h è c ’ è u n e c c e ss o i drammatizzazione e di investimento retorico, anch’esso spagnolesco e manzoniano, in arringhe come quelle del capogruppo dell’Italia dei Valori in commissione Finanze, Elio Lannutti. «La magistratura – dice il sempre tonitruante Lannutti – sta aprendo il vaso di Pandora del malaffare e delle logge politiche. Bisignani è molto più di un faccendiere, perché dalle indagini emerge la figura di un vero e proprio Rasputin in grado di tessere le fila del potere economico e politico». Rasputin… addirittura. Meglio il minimalismo di Bocchino che parla di lobbismo. Una componente fisiologica ad ogni società aperta e complessa ma che da noi ha connotazioni patologiche e anche miserabili. Perché qui non si ha che fare con attività di lobbing che pensano in grande, come nei club anglosassoini dove si concepiscono e immaginano addirittura orditi geopolitici, questo è un lobbismo per sistemare gli affari d’un amico, d’una amante, per avvertire il compare che è sotto indagine, per avere più soldi, più entrature. Tutto sommato roba da mezzani e da papponi. Malgrado i miliardi roba da sfigati, come il Cavaliere aveva definito quelli della P3.
mobydick
INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO
di Nicola Fano
L
LO STIVALE BUCATO Identikit dell’Italia per immagini
o stivale di Garibaldi è bucato. Perché Garibaldi fu ferito al malleolo, non «a una gamba» come si dice di solito. Anzi, fu ferito anche a una gamba, e alla coscia, al fianco e al collo; ma la ferita importante, quella che doveva passare alla storia, era alla caviglia. Come è noto, lo colpì sull’Aspromonte un fratello italiano savoiardo, comandato dal generale Enrico Cialdini; ma meno noto è che se Garibaldi per quel colpo al malleolo ebbe onori e gloria nel mondo, Cialdini dal regno d’Italia ebbe una medaglia al valore. Ditemi voi come poteva essere lineare e univoca la storia di questo nostro povero Paese che in origine ha innalzato monumenti sia a chi sparò sia a chi fu sparato? Che ne so: è come se oggi mettessero in un’istituzione un ex terrorista! Tempo fa, si pensò di sanare la frattura con la formuletta «una guerra civile», ma evidentemente la spaccatura qui tra noi è più profonda di quanto non si creda. Viceversa, non è proprio spaccato, ma solo bucato lo stivale sparato di Garibaldi. Peggio stava il piede: una foto subito successiva all’Aspromonte ritrae il Generale vecchio, quasi irriconoscibile (avrebbe vissuto altri vent’anni e avrebbe vinto altre avventurose battaglie) con gli abiti tipici (mantello, berretto all’ungherese, sciabolona e medaglie) ma con un piede nudo. E ferito e purulento. Non è un bel vedere, per un eroe, ma la foto doveva avere un valore di denuncia contro quel miserabile governo che aveva spedito un miserabile generale a dar ordine a un povero soldato di sparare addosso al Dalla grande padre-fratello. Nelle sue Memorie ferita Garibaldi ribadial malleolo sce con ogni forza Garibaldi a quella
di di un Paese ancora in cerca di pacificazione. La verità sulla nostra identità che di italiani nelle fotografie lì sull’Adel Risorgimento spromonte ora raccolte diede ai suoi l’ordine ferreo di non sparare in un libro
sugli italiani, e molte testimonianze d’epoca, d’entrambe le parti, lo confermano. Non altrettanto fecero gli ufficiali di Cialdini.
Parola chiave Mercato di Sergio Belardinelli Manzanera & Co. trentasei anni dopo di Stefano Bianchi
NELLA PAGINA DI POESIA
Le madeleines del quasi crepuscolare Sinisgalli di Francesco Napoli
Il Duca e l’architetto: l’epica degli Uffizi di Claudia Conforti L’antro dei misteri fra tragedia e commedia di Anselma Dell’Olio
Ritorno a Cartagine di Rossella Fabiani
lo stivale
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on c’è monumento che somigli al suo modello: diciamolo sinceramente. Ci sono da mettere in conto l’occhio dell’artista, la mano dell’artigiano e la fantasia di chi guarda; ma la differenza tra monumento e modello è ciò che fa di un individuo un eroe, un mito. Per dire: il busto funebre di Shakespeare è molto diverso dal suo presunto ritratto sul frontespizio dell’InFolio; la scapigliatura dell’Ugo Foscolo di marmo bianco che troneggia in Santa Croce è diversa da quella seriosa dei suoi ritratti inglesi. Oppure: guardate la statua equestre di Garibaldi al Gianicolo, a Roma. Troppo lontana dall’occhio per valutarne la somiglianza con l’originale in carne e ossa (ne esiste un’attendibile foto Alinari), eppure sembra un altro. Per non dire dell’amazzone Anita, qualche centinaio di metri più giù: chissà com’era davvero, Anita! Ebbene, questa differenza, questo scarto eroico è ciò che Massimo Onofri studia nel saggio L’epopea infinita - Retorica e antiretorica di Garibaldi (edizioni Medusa, 137 pagine, 15,50 euro). E almeno all’inizio è facile studiare l’immagine che il mondo riverbera di Garibaldi. Perché il generale, come ogni incolto attratto dalla cultura, prediligeva portarsi appresso nelle sue avventure poeti, scrittori, fotografi e pittori. Guardate i dipinti di Gerolamo Induno della difesa di Roma nel 1949 e confrontateli con le foto di Stefano Lecchi e capirete quale circolazione di idee c’era all’epoca: roba da esserne tremendamente invidiosi. Massimo Onofri non sta lì a denunciare la pochezza d’oggi (ché sta già sotto gli occhi di tutti), ma punta la sua lente sulle bugie. Le bugie d’artista che sono epopea, sono mitologia eroica: quanto più l’occhio del pittore o del romanziere inventa, tanto più egli è inconsapevole dello scarto e in cuor suo celebra la grandezza del suo modello. E Garibaldi, anche se oggi non piace più a qualche mezza dozzina di leghisti, è stato il più grande. Nel sen-
N
Questo per dire che la pacificazione non può prescindere dalla verità: c’è chi spara e chi subisce, chi tortura e chi è torturato, chi fa il delatore e chi cerca di salvarsi dalle delazioni. Ma questo è un altro discorso. Le due foto (lo stivale e il piede ferito del Generale) sono recuperate ora in un libro che ciascun italiano dovrebbe tenere sul comodino e sfogliare alla sera prima di dormire e alla mattina prima di andare al lavoro. Si chiama, ovviamente, Lo stivale di Garibaldi (di Marco Pizzo, Mondadori, 180 pagine, 35,00 euro): viene presentato come una storia fotografica del Risorgimento ma è qualcosa di più. È la carta d’identità di ciò che siamo. Non a caso, si apre col Casino dei Quattro Venti a Roma, sul Gianicolo, crivellato di bombarde dai francesi che si opponevano alla rivoluzione repubblicana italiana nel giugno del 1849. Il conflitto interno italiano nasce da lì, da quella rivoluzione mancata; anzi affogata nel sangue da un esercito straniero, chiamato in Italia da un potere morente. I ventun anni persi dal 1849 al 1870 danno sostanza e costanza alla nostra propensione alla procrastinazione: meglio fare domani quello che oggi non è indispensabile fare.
Particolare interessante: mentre il vile assedio di Oudinot a Roma nel giugno 1849 è testimoniato da diverse, bellissime foto di Stefano Lecchi, della presa di Porta Pia abbiamo solo un fotomontaggio un po’ ridicolo, con la Porta brulicante di improbabili bersaglieri immobili come soldatini di piombo. La differenza sta nel fatto che Garibaldi - sonoramente ma responsabilmente ignorante - si portava appresso sempre qualche intellettuale, qualche artista in grado di raccontare e storicizzare (Abba, Bandi, Dumas…); quegli altri no. Ai numerosi Cialdini d’Italia la cultura non è mai piaciuta troppo. A meno che non si potesse manipolarla con un fotomontaggio… Per dire: fanno impressione i palazzi sfondati dalle bombe delle navi borboniche a Palermo nel 1860, come colpisce l’immagianno IV - numero 23 - pagina II
bucato
so che resta l’italiano più conosciuto al mondo (dopo di lui viene Paolo Rossi, il calciatore del Mundial del 1982). L’analisi di Massimo Onofri è appassionante perché quando chiama in causa i pittori studia la «verità» oggettiva dei fatti dipinti (come fossero reportage televisivi, da Fattori a Guttuso), mentre quando scivola sulla letteratura gode a rivelare le menzogne. Si va dalle rabbie di Abba alle urgenze di Borgese, dalla suadente inutilità di D’Annunzio (inutile alla storia voglio dire, come uno Sgarbi qualunque) alle smanie di Bianciardi. L’«epopea infranta» del titolo è lo scarto della memoria, ciò che fa di un mito universale l’oggetto di una speculazione personale: pietose bugie utili a sé più che al contesto. Come quando Veltroni annunciò urbi et orbi che non era mai stato comunista: antiretorica di cui nessuno sentiva il bisogno. Salvo lui. Proprio come nel corso del tempo per Garibaldi, uomo incolto ma rigido nei suoi pochi principi (Italia e Vittorio Emanuele) tanto da prestarsi a ogni speculazione. Per dire: al tempo della guerra civile americana, Lincoln chiese a Garibaldi di trasferirsi in America a dare man forte all’esercito nordista.Vengo a due condizioni, disse Garibaldi: che mettete fuori legge lo schiavismo e che mi fate comandare tutto l’esercito (in realtà non voleva allontanarsi dall’Italia, sperando presto di rimettersi in guerra). Non se ne fece nulla ma poi, anni dopo, si fronteggiarono negli Stati Uniti due «Battaglione Garibaldi» d’americani (gente sostanzialmente ignara che però diceva d’ispirarsi a lui): uno nordista e uno sudista. Nessuno dei due s’imbarazzò della circostanza, ma erano americani e in quanto tali accettabilmente ignoranti. Mentre qui da noi l’ignoranza e l’assenza di imbarazzo ha un altro senso. Culturale e politico. Quel senso che Massimo Onofri scava fino a scoprire che di Garibaldi «il mito non c’è più e l’epopea è definitivamente infranta». (n.fa.)
Il mito non abita più qui
nario quel sontuoso, borioso dispiegamento di vascelli da guerra austriaci nel Bacino di San Marco, a Venezia, nel 1862. Il senso - e il valore sociale e politico - della fotografia in origine fu la sua capacità di restituire la verità senza apparente mediazione: il quadro, il racconto, il resoconto, per intenderci, riflettono anche il punto di vista dell’autore, le foto no perché sono la verità. Ora sappiamo che non è così (che non è più così) ma centocinquant’anni fa le cose stavano diversamente. Il libro di Marco Pizzo prosegue con i ritratti: decine di Garibaldi, ancora una volta e in tutte le salLa contessa se; poi un presuntuoso Bixio di Castiglione (esempio topico di saltatorefotografata da della-quaglia: da rivoluzionaPierre-Louis Pierson. rio repubblicano a estremista In alto, Garibaldi in della destra monarchica); un Aspromonte nel 1862 Vittorio Emanuele II eccessivamente in carne; un La Marmora a cavallo che sembrava già il monumento di se stesso; vari Mazzini pensosi; Cavour serio serio; molti garibaldini scapigliati (da Ciceruacchio a fra’ Pantaleo) e tanti altri. La storia è fatta di facce: questa la lezione magnifica della fotografia delle origini, la lezione di uno strumento di riproduzione tecnica della realtà che ebbe il merito di offrire alla massa le immagini dei singoli. E proprio nelle facce di questi «padri della patria» è bello riconoscere il destino di ciascuno e di tutti noi intrecciati insieme. Mettiamo il giovane Crispi, fresco di epopea dei Mille (la foto è del 1863) che non sembra destinato a reggere per decenni i destini del Paese. Anzi: la contraddizione tra la sua aria dimessa, da figura marginale e la realtà futura del suo ruolo politico nella storia italiana è il cuore della foto. Come colpisce l’eleganza della posa e dell’abito (camicia bianca e pantaloni a righe, raffinatissimi) di Angelo Brunetti, quel Ciceruacchio oste romano e leader politico dei «miserabili» del popolo capitolino che fecero grande la rivoluzione del
1849. Guarda nel vuoto, Ciceruacchio, non nel futuro come Crispi: d’altra parte pochi mesi dopo fu trucidato, senza processo né pietà, dagli austriaci.
Ma nei ritratti, un altro capitolo importante è quello delle donne. Molli e lascive alcune (prendete una foto strana e inconsueta della Contessa di Castiglione, polpaccioni scoperti e testa fuori dall’inquadratura), severe altre (la mamma dei fratelli Cairoli, risolutamente inchiodata ai ritratti dei figli morti). Meno definibile la galleria di reali e dintorni. Con donne piene soprattutto di bambini (come se di quello davvero s’occupassero) e sguardi morbidi, mai sostenuti come quegli degli uomini. C’è poi una foto che non dovete perdere: è del 1870 e ritrae Amedeo di SavoiaAosta, re di Spagna, eVittoria dal Pozzo della Cisterna, regina di Spagna, in costumi medievali. Ora, mentre lei percepisce (nello sguardo) il ridicolo della situazione, lui ha una chiara posa da cretino. Il potere è tutto, pensa. Salvo che la forza della fotografia è anche in questo: rivelare il ridicolo dell’arroganza. Lo donne lo capiscono prima. Infine, resta da parlare di altre visi, altri sguardi: quelli degli italiani. Il libro infatti si chiude con una sorta di ricostruzione antropologica dell’Italia neonata: luoghi, volti e mestieri. Venditori ambulanti, contadini, frati di strada, briganti (tanti briganti!) e brigantesse, pastori, artigiani… Occhieggia da queste pagine tutta un’Italia che cercava riscatto e che forse non l’ha avuto. Facce deluse, fin da allora (andatele a guardare): rappresentano quel popolo escluso che la storia ha sempre dimenticato e che invece la fotografia, per la prima volta, si prese la libertà di mettere in scena. Mettere in scena è la definizione più appropriata: perché queste figurine ricordano da vicino i ritratti del teatro popolare a cavallo tra Ottocento e Novecento, quella galleria di tipi che attori grandissimi come Tommaso Salvini o Nicola Maldacea o Raffaele Viviani interpretavano dando corpo per la prima volta a una realtà che non era più quella degli eroi, ma finalmente diventava quella della gente comune. Ecco, il buco nello stivale di Garibaldi è questo: il tentativo disperato di un mondo in disfacimento di fermare l’avanzata delle «masse». Ciò che avrebbe caratterizzato il Novecento - la «massa» prima di sparire nel gaio ritorno all’individualismo (e alla furbizia individuale) alla vigilia del Terzo Millennio. Ma qui, noi, ormai siamo tutto un profluvio di ritocchi, fotomontaggi e silicone: nulla più di vero, ormai.
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MERCATO i solito la parola mercato viene associata ai commerci, alle imprese, alla società civile, allo Stato, alla democrazia liberale, alla globalizzazione e ad altro ancora. In me suscita invece un evento comunitario, un luogo e un giorno preciso della settimana. A Sassoferrato, dove sono nato e ho trascorso la mia infanzia, il mercato era ed è rimasto ancora oggi di venerdì; a Pergola, dove vivo dai tempi dell’adolescenza, era ed è rimasto di sabato. Da bambino lo aspettavo con trepidazione; era per me una sorta di prodigio che incominciava al mattino presto, allorché i contadini e le contadine provenienti dalla campagna entravano con le loro mercanzie nella grande bottega di mio nonno per cambiarsi le scarpe. Ogni settimana era lo stesso via vai di persone con le stesse facce, gli stessi vestiti, gli stessi odori. Mio nonno, che costruiva birocci e quindi li conosceva tutti, si metteva spesso ad aspettarli sulla porta, li salutava, ascoltava i loro racconti frettolosi, scherzava soprattutto con le donne, in uno starnazzare assordante di papere, polli e tacchini, pronti anche loro per andare alla festa. I conigli ovviamente stavano zitti. Osservavo questi animali, sapendo che più tardi, quando sarei andato al mercato con mia zia, li avrei rivisti agitarsi, legati per le zampe, nella piazza antistante la chiesa degli Scalzi, a fare da contorno, insieme alle bancarelle sparse qua e là per la piazza, a quello che per me era il vero miracolo del mercato: le girandole. Erano loro, sempre disposte a grappoli, che davano il colore a quei giorni. Il vento dello spirito di cui sentivo parlare la domenica, in un’altra chiesa, quella di Santa Maria, era per me lo stesso che le faceva girare. Ricordo che le immaginavo persino al posto delle candele intorno all’altare e mi sembrava che ci stessero bene. Per non dire della tristezza che sopraggiunse quando, anziché andare al mercato, mi accorsi che di venerdì bisognava andare a scuola.
D
Non c’è momento significativo della vita civile o religiosa della mia infanzia che non richiami in qualche modo il mercato o la sua versione più solenne: la fiera. La fiera del Santo patrono, la fiera di settembre, la fiera dei morti erano allora tante occasioni in cui la comunità, sindaco e parroco in testa, si predisponeva alla festa facendo festa. Segni di un mondo che certo non esiste più, e che forse spiegano perché ancora oggi la parola mercato evochi in me reazioni emotive decisamente favorevoli, ma che soprattutto mostrano una ricchezza semantica della parola mercato che va ben oltre gli scambi, gli affari e cose del genere. La piazza del mercato non è soltanto un luogo dove alcuni uomini vendono e altri comprano qualcosa, ma è luogo d’incontro, di voci, di colori, di geometrie
La sua realtà non è riducibile alle parti che lo compongono: soldi, merci, profitto. Come nelle fiere di paese, c’è in ballo qualcosa di più. Una virtù al servizio dell’altro e del bene comune
Ricominciare dalla provincia di Sergio Belardinelli
La crisi economica nella quale ci dibattiamo appare più come una crisi culturale e di civiltà che della cosiddetta economia di mercato. Per uscirne ci vuole una consapevolezza diversa, un sussulto di umanità, di libertà, di sussidiarietà e di responsabilità. Altro che finanza e speculazione, egoismo e brama di denaro... fantasiose formate dalla disposizione delle bancarelle, che fanno magari risaltare ancora di più quelle perfette della chiesa, della torre civica o del palazzo comunale di fronte. Aristotele diceva che il numero sei è altra cosa dalla somma di tre più tre. Ebbene al mercato questo è evidente. La sua realtà non è riducibile a quella delle diverse parti che lo compongono; le supera tutte e insieme le unisce. Le stesse girandole, lo stesso incanto di chi le guarda, proiettandole dappertutto, come una sorta di ornamento ideale del mondo intero, forse non sarebbero nulla se tirate fuori, astratte, dal giorno del mercato. Se è vero che ciò che chiamiamo bene comune ha a che fare col patrimonio culturale, istituzionale, civile, religioso, diciamo pure, con la ricchezza materiale e spirituale di una comunità e con la capa-
cità che essa ha di riversarsi sulla vita dei singoli individui, facendoli crescere in libertà, dignità e - perché no? - allegria, io vedo la più concreta articolazione di questo concetto in un luogo e in un giorno preciso della settimana: il giorno del mercato, appunto. Con buona pace di Ambrogio Lorenzetti, è come un giorno di mercato che mi figuro la sua stupenda Allegoria del buon governo. Proprio come nel celebre affresco da lui dipinto dentro il Palazzo pubblico di Siena, è al mercato che vedo principi e contadini, sacerdoti e mercanti, chiesa e municipio che, almeno per un giorno, vivono e trafficano in armonia, esercitando ognuno la propria «virtù» al servizio dell’altro e del bene comune. Ma, si dirà, questo mondo idilliaco, posto che sia mai veramente esistito, di certo oggi non esiste più. Le caratteristiche
strutturali e culturali della società globale nella quale viviamo sono ben lontane da quelle che contraddistinguevano e magari contraddistinguono ancora qualche mercato di provincia. Lo stesso dicasi per il «buon governo», il quale non solo sta diventando concetto sempre più controverso, ma, ironia della sorte, deve guardarsi principalmente proprio dai pericoli che gli vengono da un mercato divenuto per lo più finanza e speculazione. Eppure, senza voler affatto negare l’importanza di queste obiezioni, credo che la nostra società ipercomplessa possa ancora imparare qualcosa dalla comunità che traspare da un mercato di provincia. Pur nella sua povertà materiale, credo che sia proprio questo mercato a ricordarci di che pasta è fatto il mercato del quale oggi principalmente parliamo, come se si trattasse soltanto di soldi, di merci, di profitto, di anarchismo degli interessi individuali e cose del genere. Tutte cose sacrosante, sia ben chiaro. Senza di esse non esisterebbero le imprese, le borse, i grandi scambi di capitali e nemmeno il più piccolo mercato di provincia. Ma proprio dal mercato di provincia possiamo imparare quanto è importante che non si perda di vista il loro legame con le ragioni dell’ordine sociale e della civitas humana.
Parlare di mercato significa in fondo parlare della rivoluzione sociale più rivoluzionaria che la storia abbia mai avuto: quella di chi si industria a creare prodotti che possano arricchire sia chi li compra che chi li vende; quella di chi guarda la vita come un dono e ringrazia Dio per averglielo concesso, sentendosi per questo quasi obbligato a scoprire e a sfruttare le innumerevoli meraviglie del creato; quella di chi accumulando ricchezza sente il bisogno di costruire palazzi, chiese, monumenti, ponti che abbelliscano certo il nome della propria famiglia, ma anche la città che tutti abitiamo; quella infine di chi ama la libertà più di ogni altra cosa e guarda con diffidenza le forme politiche che la insidiano. Altro che finanza e speculazione, egoismo e brama di denaro a tutti i costi. Da questo punto di vista la crisi economica nella quale ci dibattiamo appare più come una crisi culturale e di civiltà, più come una crisi delle virtù mercantili più elementari e delle virtù civiche in generale, che come una crisi della cosiddetta economia di mercato in senso stretto. Non ne usciremo quindi con qualche chiacchiera sulla perversione del mercato in quanto tale, rilanciando magari il ruolo del grande pianificatore, cioè lo Stato. Sarebbe infatti una risposta troppo meccanica, la reazione più scontata da parte di chi continua a pensare Stato e mercato come due poli antitetici. Ci vuole invece una consapevolezza diversa, un sussulto di umanità, di libertà, di sussidiarietà e di responsabilità nei confronti del bene comune. Esattamente ciò che si trova ancora in alcuni mercati di provincia.
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musica
Gli ZZTop, spaziali COI PIEDI PER TERRA di Bruno Giurato
di Stefano Bianchi ono finalmente riuscito a mettere le mani su questo disco, che mi dà l’opportunità di (ri)parlarvi del mio chitarrista preferito: Philip Geoffrey Targett-Adams, in arte Phil Manzanera, classe 1951, londinese di madre colombiana e padre inglese. Inimitabile toreador della Telecaster, ha fatto e fa parte (dal momento che sono in tournée, stilosi come sempre e tutt’altro che patetici) dei Roxy Music. Per farvi un’idea della sua funambolica tecnica, ascoltate perlomeno cinque pezzi dal nutrito repertorio della band: Ladytron, The Bogus Man, Serenade, Mother Of Pearl e Prairie Rose. Fatta la doverosa premessa, mi tocca indietreggiare al ‘67 per potervi raccontare Mainstream. In quell’anno, al Dulwich College di Londra, un imberbe Manzanera forma con Bill MacCormick (basso) e Charles Hayward (batteria) The Pooh and the Ostrich Feather. Se la cavano talmente bene, dal vivo, rivisitando famosi brani beat e psichedelici, da meritarsi l’appellativo di «Grateful Dead di Dulwich». Nel ’70 si aggiunge al gruppo il tastierista Dave Jarrett, il nome cambia in Quiet Sun e si suona progressive rock, genere all’epoca molto in voga, rifacendosi soprattutto ai Soft Machine. Dopo un fugace giro di concerti e nessun contratto discografico all’orizzonte, MacCormick viene ingaggiato dai Matching Mole, Hayward se ne va nei This Heat, Jarrett si dà all’insegnamento della matematica e Manzanera entra nei Roxy Music. Il «sole», fatalmente, tramonta. 1975: Phil Manzanera si concede una temporanea vacanza dai Roxy per giocarsi la carta solista. Affitta per ventisei giorni uno studio e oltre a registrare Diamond Head si toglie lo sfizio d’inci-
l tipico esempio di barbonata che però ci piace. Flyin’ high, una delle composizioni che figureranno nel prossimo album degli ZZ Top, disco peraltro in lavorazione da tre anni, è stata ascoltata nello spazio. L’astronauta Michael Fossum della Nasa è infatti amico di Billy Gibbons, Dusty Hill e Frank Beard e ha avuto una copia del brano da ascoltare con calma al lavoro. Solo che il posto di lavoro di Fossum è il cosmodromo Bailonur in Kazakistan, ex repubblica dell’Unione Sovietica, e il pezzo è stato sentito a bordo della Soyuz TMA-02M. La canzone sicuramente si è adattata all’ambiente, visto che in un passaggio i barbudos cantano Flyin’ high, I’m gonna touch the sky. Il lettore smaliziato storcerà il naso, alzerà il sopracciglio, inarcherà il setto nasale (?), insomma attuerà tutti quei gesti che denotano disinteresse, se non senso di menefoutisme. Quale canzone rock non parla di «andare in alto»? A cominciare da I want to hold your hand dei Beatles molte, moltissime. Be’ considerazione e sentimento sbagliati, diciamola chiara. Gli ZZTop sono bensì degni di andare nello spazio. Nonostante la strategia comunicativa appiattisca tutto, ci sono i buoni e i cattivi, c’è Lady Gaga, musicalmente sterile quanto nessuno a memoria d’uomo, e ci sono gli ZZTop. Che per quanto spaziali hanno i piedi per terra: il blues del reverendo Gibbons porta davvero dentro i sentori di fango del Mississippi, come le sberle sonore che riesce a tirare fuori dalle sue chitarre. Se poi aggiungiamo a ciò il fatto che il leader degli ZZTop tenga in uno stivale una bottiglia di Tabasco con la quale condisce tutto ciò che mangia, e che una volta una donna togliendoli l’altro stivale gli procurò una ferita d’arma da fuoco con la colt che il reverendo tiene nascosta, lì abbiamo il quadro completo. Per quanto spaziale quella degli ZZTop è carne, morte e blues.
I
S
Mainstream, 36 anni ma non li dimostra
Jazz
zapping
dere Mainstream, primo e unico ellepì dei Quiet Sun. La line-up del ’70 (Manzanera, MacCormick, Hayward, Jarrett) viene arricchita dallo «stratega obliquo» Brian Eno al sintetizzatore; i sette brani sono quelli che il quartetto aveva composto prima di sciogliersi e i resuscitati compagni d’avventura, soddisfazione doppia, si ritagliano spazi anche nella stesura di Diamond Head. Confezionato a mo’ di libro con fotografie inedite, curiosità, informazioni dettagliate e l’aggiunta in scaletta di due versioni preparatorie di R.F.D., una di Trot e dell’inedita Years Of The Quiet Sun focalizzata sull’avvincente duello di chitarra elettrica, sax e organo Hammond, il rimasterizzato Mainstream è all’avanguardia come i primi due album dei Velvet Underground, audace come Atom Heart Mother dei Pink Floyd e vulcanico, sperimentale, fuori dagli schemi come il Manzanera che non t’aspetti. Sol Caliente, spigolosa fusion sull’orlo dell’hard rock,
preannuncia di tutto e di più: l’apocalisse elettrica di Trumpets With Motherhood; il bislacco bolero, qua e là fuori sincrono, di Bargain Classics; la calma travestita da ninnananna che accompagna R.F.D.; la martellante ma poi morbida Mummy Was An Asteroid, Daddy Was A Small Non-Stick Kitchen Utensil, che troverà spazio anche in Diamond Head riveduta, corretta e reintitolata East Of Echo; la barocca Trot, inframmezzata da un pianoforte jazz e da improvvise svisate rock; la labirintica e poi sfuggente Rongwrong, che si trasforma in un’ubriacante canzonetta (intonata da Ian MacCormick) e che ritroveremo nel ’76 cantata da Eno nel Live degli 801, l’altra band-meteora di Phil Manzanera. Vecchio di trentasei anni, ma ancora e incredibilmente innovativo, Mainstream è un disco bello come il sole. Quiet Sun, Mainstream, Expression Records, 28,99 euro
Alberti, il promoter che fece grande Bologna
o conosciuto Alberto Alberti (scomparso nel 2006 a settantaquattro anni), durante uno dei tanti convegni dei jazz club italiani che si svolgevano fra la fine degli anni Cinquanta e i primi Sessanta. Lui era la personalità più importante del jazz bolognese, io presidente di un piccolo jazz club, quello di Perugia, che avevo fondato, con il mio carissimo amico Sandro Poccioli, che nel ’55 e nel ’56 presentò, per la prima volta nella città umbra, concerti con musicisti come Louis Armstrong e Chet Baker. Il primo in un affollatissimo Teatro Morlacchi, il secondo alla Sala dei Notari che, per la prima volta, aprì le porte al jazz, non senza grande fatica da parte nostra per convincere l’Amministrazione cittadina. Poi
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quanta, il Festival. Dopo si è visto cosa è sucdi Adriano Mazzoletti le prime edizioni al Pacesso. Alberto, più anziano di me, mi piaceva, mi piacevano il lazzo dello Sport, Alberti convinse Carlo suo entusiasmo, la sua competenza, la Maria Badini, uno dei più intelligenti e sua capacità di aggregazione, ma anche anticonformisti sovrintendenti del mondo accademico italiano, ad aprire le porla sua sincerità e generosità. Lasciata Perugia per Roma, andavo te del Comunale. Per anni il Festival di spesso a Bologna, dove abitava una mia Bologna, fu con quello di Sanremo, un zia che aveva un piccolo atelier di moda appuntamento imperdibile per ogni apdove lavorava la mamma di Lucio Dalla. passionato. Poi anche quel Festival finì. A Bologna il jazz era di casa. Alberto Alberto, che aveva intensificato la sua ataveva la capacità rara di tività di promoter, divenne il rappresenconvincere i musicisti tante per l’Italia di uno dei grandi manaamericani a stabilirsi per ger americani, George Wein, che aveva brevi o lunghi periodi in fondato il celebre festival di Newport. città. Scopritore di talenti, Da quel momento divenne l’eminenza era in grado di individua- grigia di molti direttori artistici dei più re subito i migliori. Senza importanti festival italiani, Pescara, Pomdi lui il jazz a Bologna e pei, Lagomaggiore e soprattutto Umbria successivamente in Italia, Jazz, cui suggeriva i musicisti americani non avrebbe avuto la sto- da invitare. ria che conosciamo. E già Senza la sua fattiva collaborazione quelalla fine degli anni Cin- le manifestazioni non avrebbero avuto il
grande successo che li ha caratterizzati per molti anni. La storia di Alberto Alberti, è raccontata nel dvd My Man Man. Appunti per un film sul Jazz a Bologna diretto da Germano Maccioni, su soggetto di Francesco Tosi. A Bologna, negli anni Cinquanta e Sessanta, iniziarono la loro attività, grazie ad Alberti, musicisti, come Amedeo Tommasi, Franco D’Andrea, Lucio Dalla, Giovanni Tommaso, ma anche Pupi Avati, e a Bologna suonarono a lungo molti grandi del jazz: Chet Baker, René Thomas, Bobby Jaspar, Gato Barbieri, Cedar Walton. Quella capitale del jazz che fu Bologna è descritta in uno straordinario affresco. Un dvd questo, primo, con un altro recentissimo sul Jazz a Milano (Al Capolinea. Quando a Milano c’era il jazz), sulla storia del jazz in Italia. A quando uno sul jazz romano?
My Man Man, D Cult, Cinema Documentario
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arti Mostre
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di Rossella Fabiani hartago delenda est. La distruzione della città fenicia era necessaria per via dei corrotti costumi dei suoi cittadini, così secondo la propaganda dell’epoca. In realtà Marco Porcio Catone, passato alla storia come il censore, uomo politico romano lungimirante, sapeva quale potente concorrente economico aveva davanti. E in gioco c’era il dominio del Mediterraneo. Catone era convinto che non fosse possibile né conveniente per i Romani venire a patti con il secolare nemico, e di questo argomento aveva fatto il leitmotiv della propria azione politica, tanto che ogni suo discorso al Senato, di qualsiasi argomento trattasse, finiva sempre con l’esortazione: Ceterum censeo Carthaginem esse delendam (Inoltre ritengo che Cartagine debba essere distrutta). Nel 157 avanti Cristo, Catone fu uno dei delegati mandati a Cartagine per arbitrare tra i cartaginesi e Massinissa, re di Numidia. La missione fu fallimentare, ma in quella occasione Porcio Catone fu colpito dalle prove della prosperità dei cartaginesi a tal punto da convincersi che la sicurezza di Roma dipendesse dalla distruzione totale di Cartagine. Durante l’intero periodo repubblicano di Roma, le due città si sono fronteggiate come acerrime nemiche combattendo guerre disastrose per un primato commerciale del mare Mediterrano che ebbe invece come risultato quello di perdite enormi di vite umane e di casse vuote del tesoro pubblico. Ma il filo che lega Roma e Cartagine è d’acciaio e non si è mai interrotto. La città punica non è soltanto la storia di Didone ed Enea, o di Annibale e delle guerre puniche. C’è anche, e forse soprattutto, la Tunisi imperiale, granaio dell’impero romano e non solo. Un legame antico che ora i Musei Capitolini di Roma e il Museo del Bardo di Tunisi - che riaprirà a fine anno dopo lavori sostanziosi - si pre-
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Moda
Ritorno
a Cartagine parano a celebrare con una mostra su Cartagine e scambi di opere. Un viaggio all’indietro per rivedere la storia. E di revisioni storiche la Tunisia ne ha fatte di molte più importanti in questi ultimi tempi. Da quando la «rivoluzione del gelsomino», come la chiamiamo noi, o della dignità, come la chiama chi l’ha fatta, ha cancellato il vecchio regime, il governo provvisorio tunisino, in primis il ministero del Turismo, ha stanziato quasi 30 milioni di euro per una campagna sui mercati europei, Italia compresa, per sottolineare che la Tunisia è tranquilla, democratica e l’ospite è sacro. Tunisi rimane la città cosmopolita di sempre, con i monumenti, la natura e il Sahara ma anche con Spa di lusso, diversificando tra cultura, archeologia e città sante, thalasso-terapia, golf e natura.
Diverse iniziative poi, dedicate alla cultura tunisina e al nuovo corso politico del Paese, si terranno anche a Roma, come annunciato da Mehdi Houas - il nuovo ministro del Commercio e Turismo del governo di transizione, in attesa delle elezioni del 24 luglio - che nei giorni scorsi ha incontrato il vicesindaco Marco Cutrufo. Tra queste, il festival del Cinema all’Isola Tiberina avrà una sezione dedicata ai film tunisini e il quartiere universitario di San Lorenzo ospiterà una settimana di musica, cultura e sapori del Paese maghrebino. Ma è soprattutto la mostra dedicata a Cartagine l’evento più atteso. Anche per rivedere al Bardo di Tunisi i più bei mosaici di tutti i siti romani della Tunisia imperiale: gran mercato di fiere feroci per il Colosseo e altri anfiteatri nostrani, ma anche per quelli costruiti nella colonia stes-
sa tunisina, chiamata - per distinguerla da altri territori di conquista africani - Africa proconsolare, e dove gli insediamenti di militari, civili e uomini di religione non potevano fare a meno di quelle delizie della vita che allora i romani godevano in patria, nella capitale soprattutto. Dunque ville riccamente decorate e Fori dove vendere la mercanzia, e templi dove pregare dèi antichi e nuovi, e poi ancora teatri dove godere recite e forse esibirsi in pubblico coi pepli più eleganti, e anfiteatri dove scaricare l’adrenalina e gli istinti più sanguinari negli spettacoli cruentissimi di lotte tra uomini e animali (e dove gli uomini avevano di regola la peggio) e terme grandiose da far invidia alle nostre Spa addirittura stabilimenti invernali ed estivi, con mosaici che non lasciavano un centimetro libero né sui pavimenti delle palestre, né sui rivestimenti delle piscine. Un vivere «alla romana» insomma in terra di Tunisia che era allora - e lo è ancora - una specie di Eden, soprattutto nella sua parte nord, verde e rigogliosa di ulivi, di grano, di mandorli e, incredibile ma vero, ricca di acqua.
Lo chic? Basta decontestualizzare. Parola di Inès... na giacca da uomo, un trench, un pullover blu, una canottiera, un tubino nero, un paio di jeans e un blouson di pelle dall’aria vissuta. «La giornata inizia meglio quando si apre un armadio con dentro poche cose, ma bene organizzate. Sette capi sono l’ideale». Ma come fa Inès de la Fressange, a essere così minimal e così sicura, quando gli armadi di tutti traboccano (eppure non abbiamo mai niente da metterci)? Ha dei segreti. E li rivela in un indispensabile vademecum, La Parigina - Guida allo chic (Edizioni Ippocampo), da poco tradotto in italiano e già in classifica: 240 pagine, 350 fotografie, una lezione di stile. Certo, lei parte avvantaggiata. È cresciuta con una nonna che portava i guanti bianchi e doveva fare la riverenza alle signore, cose da Marcel Proust. Non aveva le T-shirt, ma i tweed, i kilt e le scarpe di cuoio. Aveva un cappotto di ermellino come i bambini degli anni Venti. (Non è che fosse poi così male, a conti fatti). Figlia del marchese André de
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di Roselina Salemi Seignard de la Fressange e della modella argentina Cecilia Sànchez Cirez, a diciott’anni (ne compie cinquantaquattro in agosto) è diventata modella e ha incontrato Karl Lagerfeld. È stato un colpo di fulmine. Lui l’ha scelta come musa, ed è stata l’incarnazione dello stile Chanel dall’1980 all’1989. Poi ha posato per la statua di Marianna, simbolo della Francia continuamente aggiornato, ha creato un suo marchio, ha sposato l’avvocato italiano Luigi D’Urso e ha avuto due figlie, Nine e Violette. Ha sofferto: ha perso l’azienda, è rimasta vedova, ha ricominciato daccapo (oggi è ambasciatrice di Roger Vivier, ma la incontri ovunque ci sia qualcosa di chic). Ha resistito agli sgambetti della vita passando con disinvoltura da Chanel a Zara. Giura che essere eleganti non implica spendere una fortuna. Consiglia di copiare Audrey Hepburn o Ingrid Bergman. Di evitare gli eccessi: il tanga con i jeans a vita bassa, il bikini in lurex e gli stivali bianchi con le frange, i troppi bijoux, bracciali collane, anelli, il trucco pesante («negli anni Settanta le ragazze portavano l’ombretto blu
perché dava l’illusione di avere gli occhi azzurri: niente di più sbagliato»), le finte Kelly, le finte Gucci. Dice che l’era dei red carpet è finita (per l’inaugurazione di Roger Vivier ha messo un tappeto zebrato, rosa e nero) ed è cominciata quella del buonsenso. Niente gonne corte dopo i cinquanta. Due borse, una grande e una piccola, una per il telefono, il portafoglio e il lucidalabbra, una per tutto il resto, dal biberon del bambino al giornale. Un diktat: mai sciatteria, neanche per andare a comprare i croissant. Lei esce da casa con i pantaloni della tuta colorati di Zara, abbinati a una giacca blu e a un paio di occhiali tenuti sui capelli «perché la pettinatura sarebbe comunque una catastrofe». In aggiunta, un pizzico di creatività. Un invito: decontestualizzare. Ovvero, i jeans con i sandali gioiello, l’abito da sera con la borsa di paglia. E se lo fa lei che è amica di Carolina di Monaco e Carla Bruni…
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Per gentile concessione dell’editore Giunti di Firenze pubblichiamo l’Introduzione al catalogo della mostra Vasari gli Uffizi e il Duca, aperta dal 14 giugno al 30 ottobre 2011 nella Galleria intermedia degli Uffizi. Promossa dal Polo Museale della città di Firenze e dalla Galleria degli Uffizi di Firenze, la mostra è curata da Claudia Conforti (autrice del testo che pubblichiamo e collaboratrice di liberal), Francesca Funis, Antonio Godoli e Francesca de Luca.
differenza della Pittura e della Scultura, le arti sorelle figlie del Disegno, l’Architettura non è solo utile e dilettevole: essa è assolutamente necessaria alla vita dell’uomo e della società organizzata. È lo stesso Vasari ad anteporre questa premessa nel Proemio alle Vite degli artisti: «Comincerommi dunque dall’Architettura, come dalla più universale e più necessaria ed utile agli uomini, ed al servizio e ornamento della quale sono l’altre due». L’architettura è pesante, inamovibile e astratta. È aniconica e totalmente artificiosa: non ha riscontri in natura, però sa evocare, senza mimetismi e con straordinaria efficacia, la massività incombente delle montagne come la rarefatta trasparenza delle fronde che filtrano il cielo. L’architettura è vorace e generosa; nasce dall’imperio dell’uomo e cresce sospinta dal Tempo, in forza di un’alchimia quasi miracolosa di componenti diversi (politici, economici, sociali, culturali, estetici, geografici, tecnici e costruttivi). L’architettura è antropomorfica e antropometrica, perfettamente conforme all’uomo, che da solo l’ha creata e sviluppata. Si rifletta alle parole di Francesco Averlino, il Filarete (1400-1469), scultore e
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tettura non è impresa che si esaurisca nell’esporre in sequenza cronologica gli schizzi (quando sopravvivono) che ne hanno prefigurato l’immagine, né illustrarne le geometrie spaziali con piante, sezioni, prospetti, modelli tridimensionali, materici e virtuali. Tutti questi materiali, che traducono in termini convenzionali e astratti le profondità prospettiche, le complessità distributive e le giunture plastiche dell’edificio, sono utilissimi per dominarne visivamente (ma non spazialmente!) l’assetto fisico e la facies geometrica.Tuttavia essi sono inerti rispetto alle emozioni fisiche e psicologiche che gli spazi reali sanno trasmettere. Ugualmente essi sono muti riguardo ai processi costitutivi, agli intrecci fatali di eventi e di uomini che orientarono e disciplinarono il tumulto di idee, volontà, sentimenti, risorse, materie, tecniche, sacrifici e sogni, in un manufatto capace di custodirne e irradiarne misteriosa memoria.
il paginone
In basso, in senso antiorario: la “Deposizione” di Giorgio Vasari, due immagini degli Uffizi, l’“Autoritratto” dell’autore delle “Vite”, ritratto di Giovan Battista Naldini del Granduca Cosimo I con gli Uffizi sullo sfondo, interno degli Uffizi, scorcio delle Galleria fiorentina by night
Fu il più grande cantiere che vide la luce nel Cinquecento a Firenze. Capimastri, legnaioli, scalpellini, lapicidi, muratori, carradori e contadini contribuirono all’opera che fu edificata in vent’anni. La storia del celebre (e poco conosciuto) capolavoro, nato dal connubio tra il genio architettonico del Vasari e il potere imperioso di Cosimo I de’ Medici, è raccontata ora in una mostra
Mettere in mostra un’architettura significa, secondo coloro che hanno ideato e organizzato questa esposizione - oltre a chi scrive, Francesca De Luca, Francesca Funis e Antonio Godoli - dare corpo visivo e corso narrativo alla folgorante defi-
In mancanza del modello in legno e dei disegni del progetto, i curatori sono riusciti a illustrare efficacemente la genesi dell’edificio con una serie di opere reali e virtuali architetto fiorentino, nel Trattato di Architettura (c.1460-1465): «Io ti mostrerò l’edificio essere proprio un uomo vivo, e vedrai che così bisogna a lui mangiare per vivere, come fa proprio l’uomo: e così s’amala e muore, e così anche nello amalare guarisce molte volte per lo buono medico».
Proprio come l’uomo, che l’ha creata a propria immagine, l’architettura è generata dall’incontro di un padre e con una madre: padre è il committente e madre è l’architetto. Ancora Filarete rammenta «… che sì come niuno per sé solo non può generare sanza la donna un altro… così colui che vuole edificare bisogna che abbia l’architetto e insieme collui ingenerarlo, e poi l’architetto partorirlo e poi, partorito che l’ha, l’architetto viene ad essere la madre d’esso edificio». Per tutte queste ragioni mettere in mostra un capolavoro di architettura tra i più celebri e meno conosciuti, come gli Uffizi, significa ricostruire il processo che ha condotto alla fabbrica e ne ha sovrinteso l’edificazione, narrandone visivamente le circostanze del concepimento e le dolorose fatiche del parto. Dunque porre al centro di una mostra un monumento di archianno IV - numero 23 - pagina VIII
nizione di Honoré de Balzac negli scritti Sur Catherine de Médicis: «Cette grande représentation des moeurs et de la vie des Nations qui s’appelle l’Architecture». Scartando i più consueti percorsi accademici, rivolti specialmente ai conoscitori, in questa mostra si è voluto suscitare un racconto ordito da tante storie, sfaccettato da figure, immagini, simulacri, percorsi e parole, in grado di parlare anche a quanti, non specialisti, amano la bella architettura e sono curiosi delle storie che essa può narrare. I manufatti esposti figurano come tasselli di un intarsio: ognuno di essi rammemora uomini, eventi, congiunture fatali, sforzi economici e fatiche muscolari, urgenze ideologiche e slanci sentimentali, entusiasmi e imboscate, dispositivi di cantiere e tecniche costruttive che, complice il Tempo, hanno materializzato la «graziata bellezza» degli Uffizi. Tessere policrome e polimateriche che dispiegano diversi sembianti: manufatti magnifici e sontuosi come gli arazzi; austeri e preziosi come le cinquecentine delle Vite vasariane; lucenti e marmati come i ritratti di Bronzino; tattili e sensuali come i bronzetti dall’antico; sfacciati e immodesti come le medaglie di Giovio e di Pietro Aretino; imponenti e solenni, come
di Claudia Conforti
L’epica
le porte intagliate delle Magistrature e lo stupefacente ciborio ligneo vasariano di Santa Croce, qui esposto per la prima volta dopo il restauro. I quadri, le sculture, i disegni, gli arazzi, i bassorilievi e i codici miniati esposti in mostra operano a due livelli, quello narrativo e quello formale: proprio come nella poesia, amata e praticata da Vasari e dai letterati e artisti del suo tempo, ogni pezzo qui esposto fa leva su un duplice effetto: il significato letterale e il valore figurale ed evocativo. La formidabile impresa edilizia, che deve riunire gli uffici (o uffizi) di tredici Magistrature fiorentine, impone vertiginosi esborsi economici; alti costi sociali e umani; risorse organizzative e tecniche fuori del comune e una convergenza simultanea di personalità artistiche, di talenti intellettuali e di concordanze politiche davvero eccezionali. A questo caleidoscopio di eventi e di uomini che soprintese la concezione, la nascita e la costruzione degli Uffizi; al carattere precipuo e singolare della loro configurazione architettonica,
distributiva e spaziale; alle matrici figurative flagranti e remote; alla temperie artistica e religiosa del ventennio di edificazione (1559-1581); alla fortuna iconografica e urbanistica di questo pervasivo sistema architettonico, sono dedicate le quindici sezioni della mostra. La cerimonia di iniziazione è celebrata dai tre protagonisti che danno il titolo alla mostra, le cui immagini introducono il visitatore: l’artista, in un autoritratto di di-
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scussa autografia, a cui il recentissimo restauro ha restituito gentile e malinconica venustà; il duca, nel grifagno e splendente busto bronzeo di Benvenuto Cellini, artista tra i più tempestosi avversari diVasari a corte; la fabbrica, nella serica traduzione dell’arazzo mediceo di Cosimo Ulivelli e di Giovanni Pollastri. Poiché del progetto di Vasari non rimangono né il modello in legno, che pure sappiamo fu eseguito (e nei secoli custodito nel sottotetto del Salone dei Cinquecento), né i disegni di ideazione e di cantiere, si è fatto ricorso a manufatti diversi e alternativi, materici e virtuali, per illustrare l’edificio, le istanze formali, le soluzioni tecniche e le modalità costruttive delle quali è ancor oggi munifico testimone. Ugualmente dipinti, sculture, bozzetti,
degli Uffizi
è intonato dalle suppliche, dalle proteste e dai lamenti di quanti, poveri operai, misere vedove e modesti artigiani, vennero privati dell’abitazione, della bottega e del quartiere, in forza degli espropri delle case demolite per fare posto al nuovo edificio. Espropri che, preliminari all’apertura del cantiere, furono eseguiti in un baleno, non disdegnando talvolta il ricorso alla forza militare.
Per una felicissima congiuntura, alla quale non è estranea la tenacia di chi guida il Polo Museale Fiorentino, l’esposizione gode della sede più congruente e privilegiata a cui potesse aspirare, snodandosi all’interno dell’edificio al quale è votata. Il percorso espositivo infatti si dispiega in una quindicina di sale del piano «nobile» degli Uffizi, quello che in antico allogò le celebri e pregiate manifatture ducali, che più tardi cedettero alle scaffalature dell’Archivio di Stato, per essere, ai giorni nostri, inglobate nel museo. A richiamare la memoria della precedente funzione di archivio, svolta dagli Uffizi, alcune scaffalature sono state recuperate e riallestite nella sala Attraverso l’Archivio: carte e volumi, che espone documenti e esemplari
Mettere in mostra un’architettura significa dare corpo alla definizione di Balzac: «Cette grande représentation des moeurs et de la vie des Nations qui s’appelle l’Architecture» arazzi, disegni, libri, incisioni, medaglie, provenienti da musei fiorentini e stranieri, modelli plastici e simulazioni tridimensionali, sono chiamati a evocare gli uomini che hanno concepito e generato l’impresa: il duca e l’architetto. Alla loro azione fa corona il gagliardo coro di artisti, letterati, religiosi, ingegneri e cortigiani che hanno avversato o favorito Vasari e il suo progetto artistico integrale. Sullo sfondo si muovono i capimastri, i legnaioli, gli scalpellini, i lapicidi, i muratori, i carradori e i contadini delle comandate, che furono periodicamente prelevati dalle Podesterie del contado, per scavare le trincee di fondazione e asportare la terra del più grande cantiere che vide la luce nel Cinquecento a Firenze. Il triste controcanto all’epica costruzione
delle Vite degli artisti che, pubblicate in due edizioni (1550 e 1568), diffusero nel mondo la fama dell’aretino in quanto scrittore, oscurandone, per beffardo paradosso, il talento pittorico e il genio architettonico. Questo, in rapida sintesi, è il metodo che gli organizzatori della mostra, con il costante consiglio di Cristina Acidini e di Antonio Natali, hanno voluto sperimentare per dare conto di una delle possibili letture storiche degli Uffizi, un capolavoro la cui nascita è indissolubilmente legata al rapporto complice e solidale di due uomini, un principe imperioso e potente e un artista ambizioso, dai brillanti talenti e dai modesti natali: Cosimo I de’ Medici (1519-1574) e Giorgio Vasari d’Arezzo (1511-1574).
Narrativa
MobyDICK
pagina 18 • 18 giugno 2011
libri
Mario Desiati TERNITTI Mondadori, 257 pagine, 18,50 euro
a conosciuta densità espressiva di Mario Desiati si coagula nell’ultimo romanzo candidato (e tra i favoriti) al Premio Strega, dedicato ancora una volta al tema del lavoro e del Sud. Una densità espressiva nel corpo del linguaggio, forte fino a essere scabroso, e della storia, storia di amore e di morte al cui centro vive uno spaccato di storia femminile del nostro Paese. Che le donne siano importanti si deduce oltre che per l’esplicita dedica che lo scrittore fa alle «donne di via Pio XII», dalla forza con cui emerge e si costruisce l’immagine (e il corpo) della protagonista, Mimì. Domenica Orlando, figlia della povertà del contado del Salento, nata negli anni Sessanta, protagonista inconsapevole, e poi consapevole seppure senza gli strumenti culturali, di quella rivoluzione femminile degli anni Sessanta e Settanta che cambiando le donne ha cambiato un’intera società. E mutandola l’ha trasformata da povera e incolta, a ricca e colta. Ma quella che per molti è stata una rivoluzione sociale di un Paese a prevalenza agricola trasformatosi in trent’anni in un’importante potenza industriale, una rivoluzione sociale ed economica che ha travolto costumi e tradizioni, nasconde un gravoso, lungo e drammatico confronto delle donne con il mondo arretrato dei padri e delle madri. Processo faticoso e duro passato prima di tutto attraverso il lavoro e poi con l’acquisizione di cultura e formazione. Da questi che sono scenari di macrosistema riscendiamo alle storie e alle narrazioni, e torniamo al microcosmo della quindicenne Mimì, prima figlia di contadini del Salento, terra fantastica per la sua natura, arida per la sua povertà. È il 1975, Mimi è una ragazza inquieta, non ama la scuola, ha giovani genitori che si spaccano la schiena nei campi cavando appena il necessario per sfamare i due figli, una ragazza singolare, stramba: «Quella ragazzina tene nu saccu de fantasia… o è matta o la tene demonio». Comincia l’autunno, è appena cominciato l’autunno, quando suo padre «con faccia grave annunciò: Doma-
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ni è l’ultimo giorno di scuola, partiamo per la Svizzera». E comincia così «il tempo della casa di vetro», il tempo in cui il singolare e chiuso carattere di Mimì s’incontra con il tema dello sradicamento dal paese e dalla casa, dal tessuto del luogo di nascita, con quello del viaggio e dell’emigrazione. Mimì, insieme alla famiglia, diviene un’emigrante. La casa di vetro è quel luogo di mezzo, una terra d’attraversamento gelida incolore violenta, una casa comune dove gli emigranti del Sud d’Italia, che arrivano alla grande fabbrica svizzera, passano prima di approdare, se viene superata la prova, alla stabilità, al sogno di una casa propria. Strappata dalla terra originaria, impastata di terra e salsedine, comincia una vita fatta in prevalenza di noia e di attesa mentre il padre, e tutti gli uomini della comunità che abita la casa di vetro, esce nelle mattinate gelide per andare in fabbrica e torna nel gelo della sera. Mimì certo accentua la sua introversione eppure animalescamente cerca prima d’ogni cosa il calore, benché essa stessa si senta oppressa da tutta quella folla di uomini e donne che sopravvive in uno spazio coatto, in una rozza quotidianità. L’amore e la ricerca di calore la spingono al primo rapporto amoroso, la notte si infila nel letto con un suo quasi coetaneo, si riscalda, si fa amare, cresce e per la prima volta comunica da ragazza normale. Tutte le notti fino a quando la comunità si accorge del fattaccio e lei resta incinta. Questa è Mimì che prenderà le sberle dagli uomini e dalla vita, mentre suo padre e il padre di sua figlia, respirano in fabbrica l’eternit (cemento amianto), la promessa del futuro in una nuova materia che, quando arriva a temperatura di fusione, si infiltra nei polmoni e si trasforma in malattie mortali dai nomi difficili, asbestosi e mesotelioma. Mentre gli uomini muoiono Mimì è come destinata invece a incarnare la modernità, a diventare una donna forte e anticonformista, diversa e combattiva. Cambiare se stessa per cambiare il mondo.
Anche grazie a Mimì è cambiato il mondo
Thriller
Storie di emigrazione e di riscatto femminile nel nuovo romanzo di Mario Desiati “Ternitti” di Maria Pia Ammirati
Sopravvivere al nazismo senza sensi di colpa
no strepitoso successo in Spagna. In Italia subito in testa alle classifiche dei libri più venduti. In letteratura di segreti, o di ricette, non ne esistono. Ci si può solo avvicinare a una spiegazione. Il romanzo di Clara Sànchez (nata a Guadalajara nel 1955) - Il profumo delle foglie di limone (Garzanti, 355 pagine, 18,60) - euro si dipana minuziosamente, s’incentra su un’indagine ad alto rischio e intimamente condivisibile, pone in rilievo una verità tanto vera quanto banale, ossia che dietro le apparenze si possono celare le tragedie più turpi. Siamo in Costa Blanca (Spagna) e qui, in un settembre molto tiepido, si muovono quattro personaggi principali. L’ottantenne Juliàn giunto qui dal Sudamerica perché avvisato da un amico (da poco scomparso) sulla presenza di due massacratori nazisti, ex ufficiali nel campo di Mathausen, nella tranquillità vacanziera iberica. Juliàn e il coetaneo Salva, con alterne fortune, hanno sempre dato la caccia ai nazisti che sono riusciti a sottrarsi ai tribunali internazionali. Frederick e Karin Chrinstensen, norvegesi che ai tempi di Hitler vestirono la divisa con la croce uncinata, paiono due amabili pensionati, del tutto inoffensivi.
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di Pier Mario Fasanotti C’è poi Sandra, trentenne incinta in modo problematico, che frequenta i nordici e con essi stabilisce rapporti di cordialità. Juliàn, vedovo, si piazza in un piccolo albergo e passa il tempo a collezionare conferme, a pedinare, a sbirciare nel presente di quei vacanzieri, macchiato da un passato, anzi da un inferno dove essi erano diavoli padroni. Il «cacciatore» fa parte della schiera delle persone «condannate a sopravvivere». L’amico Salva era riuscito, con l’aiuto non sempre decisivo di Juliàn, ad acciuffare ben 92 alti ufficiali nazisti, per sottoporli a un processo sommario e giustiziarli. Juliàn accoglie una missione ma anche «un’eredità avvelenata». E fa i conti anche con la propria stagione: «La cosa peggiore dell’essere vecchio è che rimani solo e finisci per trasformarti in uno straniero su un pianeta in cui tutti gli altri sono giovani». Però agisce, in nome della giustizia e nel ricordo del «dispiacere» di essere stato felice.
A caccia di ex ufficiali del campo di Mathausen. Un’indagine ad alto rischio
Mentre i due norvegesi, così tutti i traditori dell’essenza umana, hanno sempre vissuto «senza sensi di colpa»: è qui, dice l’autrice, il meccanismo misterioso del torturatore che con un piccolo saltello passa dall’inferno al paradiso. Sarà perchè «il male finge sempre di fare del bene»? Il male dura, non c’è resurrezione. Sandra viene avvicinata da Juliàn e a poco a poco persuasa del pericolo di quella frequentazione. Il lettore scoprirà che i due nazi non sono soli. C’è anche Aribert, «il macellaio», c’è Otto che vive con Ilse, la guardiana del campo, «famosa per la sua collezione di pezzi di pelle umana tatuata». Le belve invecchiate organizzano feste segrete, con le divise e le bandiere del terzo Reich. Sandra se ne accorgerà perché Juliàn la induce a indagare: «Sicuramente quelli, nell’intimità, continuano ad alimentare le loro fantasie di superiorità». Il romanzo della Sànchez è una caccia ai colpevoli da parte di un uomo anziano e tormentato, ma anche una vicenda dai mille risvolti psicologici che riguarda un presente figlio di un atroce ieri.
MobyDICK
poesia
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Le madeleines di Sinisgalli di Francesco Napoli rmai son passati trent’anni dalla scomparsa di Leonardo Sinisgalli e la sensazione è che la sua opera, avviatasi dall’esordio in volume del 1942 con Vidi le Muse, - ma i primi versi datano almeno al 1936 - stia finendo nel «dimenticatoio», titolo quasi profetico della sua ultima raccolta pubblicata in vita nel 1978. Infatti, Leonardo Sinisgalli, nato a Montemurro nella profonda Lucania nel 1908 e vissuto in prevalenza tra Roma e Milano, forse ha avuto la sfortuna di essere etichettato come poeta-ingegnere, con grave danno della prima componente del binomio. Come ingegnere certo ha avuto un percorso brillante, anche lui cresciuto tra i ragazzi di via Panisperna, mettendo sempre a frutto la sua passione letteraria ha lavorato con Pirelli, Finmeccanica, Eni e Alitalia, occupandosi di comunicazione (suo il famoso slogan «Camminate Pirelli»), fondando e dirigendo una delle più importanti riviste letterarie italiane anni Cinquanta quale è stata Civiltà delle macchine (1953-’59).
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Padrino, e che padrino, poetico di Sinisgalli è stato Giuseppe Ungaretti, scoprendolo nel 1936 nella plaquette 18 poesie sulla quale perfino De Robertis ebbe un giudizio più che lusinghiero. La prima poesia sinisgalliana, quella dai migliori esiti, si pone tra l’essenzialità analogica dell’Ermetismo, Ungaretti maestro e l’amico fraterno Alfonso Gatto già in attività altro polo d’attrazione, e un retroterra culturale, magnogreco si potrebbe dire, con un ricco repertorio di memorie infantili e adolescenziali, come quella del gioco rammentato nei versi qui riportati, incorniciate su uno sfondo atemporale. C’è quasi un’immobilità mitica che va a contrapporsi alle mutevoli vicende dell’uomo adulto: «cercar scampo e riposo/ Nella mia storia più remota» scriverà in un altro componimento sempre di Vidi le Muse. Sinisgalli, ma ancor più Gatto e Quasimodo, con De Libero e Vittorio Bodini potrebbero essere iscritti in una corrente «meridionale» della poesia ermetica anni Trenta-Quaranta, in forza di una più connotata koinè linguistica e culturale. Un gruppetto di poeti che peraltro incisero non poco nella formazione del linguaggio e della grammatica dell’Ermetismo. Il poeta lucano parte dal convincimento che, come nel
il club di calliope
I FANCIULLI BATTONO LE MONETE ROSSE I fanciulli battono le monete rosse Contro il muro. (Cadono distanti Per terra con dolce rumore.) Gridano A squarciagola in un fuoco di guerra. Si scambiano motti superbi E dolcissime ingiurie. La sera Incendia le fronti, infuria i capelli. Sulle selci calda è come sangue. Il piazzale torna calmo. Una moneta battuta si posa Vicino all’altra alla misura di un palmo. Il fanciullo preme sulla terra La sua mano vittoriosa.
pensiero matematico moderno, la geometria euclidea abbia ormai fatto il suo tempo, perché non è più in grado di cogliere l’essere vero delle cose e dell’universo. La geometria euclidea, così razionale, così definita e così chiusa nelle sue linee e leggi, nulla sa dire dell’infinite sfaccettature dell’universo, della realtà in movimento, delle numerose figure che esistono al di fuori di quelle razionali e che figure, in senso proprio, nemmeno sono. Ai triangoli, ai quadrati, ai cubi, ai parallelepipedi e alle sfere Sinisgalli affianca e contrappone le eliche, le viti, le parabole, cioè una geometria «barocca» che vive nel suo dettato poetico. Né può dimenticarsi che dietro e dentro ogni oggetto c’è una vita, un movimento, ovvero, come dice, una vera e propria «animazione». Di fronte a tanto, il matematico, perduto il suo solido piedistallo, e affacciatosi anch’egli in bilico sull’orlo del mondo, è preso dalla stessa vertigine da cui è preso il poeta. Il matematico Caccioppoli, morto suicida, è per Sinisgalli in tutto simile a Mallarmé. Il furor poeticus, in altre parole, non è diverso dal furor mathematicus, perché sia il poeta che il matematico s’interrogano intorno al mistero delle cose. In questa ricerca, alcuni oggetti possono contare, nel senso che «significano» ed esprimono più di altri. Hanno, cioè, una «animazione» più intensa e sono, per ciascuno di noi, più espressivi che altri. I crepuscolari insegnano in qualche misura e, forse non a caso, nella preistoria poetica di Sinisgalli si annovera una raccolta, Cuore, dove spicca una fortissima memoria corazziniana. Gli oggetti dell’infanzia, per esempio, dicono della vita e del suo essere profondo più di quelli venuti dopo. Questo spiega perché Sinisgalli, strappato al suo paese in età infantile, costretto, da adulto, a guadagnarsi la vita nel mondo dell’industria, ha avuto sempre un atteggiamento retrospettivo, quasi prou-
Leonardo Sinigalli da Vidi le Muse
stiano. La sua migliore poesia, perciò, è pressoché tutta rivolta al recupero della memoria, cioè al recupero dell’infanzia, della casa, del paese, del padre, ma soprattutto della madre, memoria fondata su oggetti per lo più umili: non sarà difficile incontrare nei suoi versi (sempre di trovarli in qualche scaffale di biblioteca, visto che mancano dai cataloghi editoriali da fin troppo tempo) una padella o dei peperoni appesi a essiccare, focolari o vigne nel quale intravedere il padre al lavoro o fichi freschi o rape o patate e cenere, insistentemente riportati in una cornice di forte tensione epigrammatica.
Nella sua poesia motivi e temi differenti si affinano a vicenda a partire da esperienze culturali anche distanti: si trova la lezione dei simbolisti francesi (in modo particolare Mallarmé), unita al gusto per i particolari dell’esperienza quotidiana, che ricordano la poesia crepuscolare (la mosca o la cicale, per esempio, come soggetti lirici); il sentimento dello stupore non è disgiunto da un’impassibile registrazione del reale; la grazia e l’eleganza del verso possono corrispondere alla forza dell’istinto; la rassegnazione si lega alla speranza. Ma ancor di più spicca la certezza che sotto ogni pietra della Lucania si nasconda «l’ombelico dell’inferno» che per Sinisgalli diventa il pozzo da cui attingere il mistero della vita stessa, una fonte poetica inesauribile nel silenzio sterminato della sua terra dell’Agri e del Basento.
QUANDO LA PAROLA REDIME LA VITA in libreria
VERSI DI VIAGGIO
di Loretto Rafanelli
Alberi luminosi dell’inverno. E la montagna tace dove azzurra spazia, e deserta, un ultimo paese. Bianco d’arabe logge un davanzale passa lungo le donne e la domenica.
Alfonso Gatto
ristanziano Serricchio è poeta dalla lunga militanza (è del ’22) e dalla inconfondibile, delicata, potente voce. Una scrittura la sua di certa derivazione classica e attraversata da uno slancio mistico di grande suggestione. Il dito di Dio, il titolo di una poesia, «che tocca il tuo dito», è la speranza che il poeta ci vuole indicare, la misura indispensabile perché «la Parola redime la vita», una visione che esprime, ancora una volta, nella recente raccolta L’orologio di Dalí (Passigli Poesia, 130 pagine, 14,50 euro). Accanto a questo, come normale corollario, c’è una emozionante dichiarazione d’amore: verso la donna amata, verso la propria figlia, verso il mondo; un amore che si snoda con infinita passione e che rappresenta, senza limiti o titubanze, buona parte del suo vocabolario poetico. Serricchio, in fondo, di fronte agli affanni dell’uomo, non vede che queste semplici gemme: Dio e l’amore. Esse non fermeranno il tempo e la nostra dipartita, ma solleveranno i cuori inerti di questi anni. È necessario «poter superare il disagio del vivere,/ la paura dei sentimenti, e tornare/ alla luce, alla casa, all’amore…/ e dire ecco dov’è il mio cuore». Egli, quasi costruisce un gesto fisico, per salvarci dalle difficoltà, attraverso il dono delle sue mani («mani tremanti, mani sofferte e di paura»), come fece Cristo, e in preghiera: «invocare/ incenso e silenzio, caduta la notte,/ sui campi di pianto e di reliquie,/ memorie e parole seminate al vento».
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di Diana Del Monte
Danza L’incomprensibile sulle note di Monk
n ricambio generazionale che sembrava non arrivare mai e che invece è davanti ai nostri occhi, animato da una squadra di coreografi sempre più nutrita. Il panorama della scena multiculturale, per usare un termine un po’ logorato dall’eccessiva popolarità, è stimolante e spesso originato da lunghi pellegrinaggi artistici dalle radici e dagli esiti imprevedibili. Così, accanto agli ormai noti George Momboye, ivoriano istallato a Parigi, Sidi Larbi Cherkaoui, belga di origine marocchina, e Shen Wei, newyorkese d’adozione ma cinese di nascita, si è recentemente fatto avanti anche Emanuel Gat, coreografo israeliano che dal 2007 ha stabilito la sua base in Francia. Una scena forte, quella israeliana, che si sta rivelando un’interessante sorgente di talenti, come Ohad Naharin e Hofesh Shechter, e che nel 2004 ha visto nascere la Emanuel Gat Dance sotto il cielo di Tel Aviv. Trasferitasi alla Maison de la Danse di Istre nel 2007, da tre anni la compagnia di Gat ha trovato la sua nuova casa a San Ouest Provence, nel sud della Francia. Invitato come coreografo ospite dalla sempre vigile compagnia del Ballet de l’Opera National de Paris nel 2009, l’autore di Winter Voyage (2004) e Winter variations (2009 - in coproduzione con RomaEuropa Festival), sta tornando nel nostro Paese con una prima mondiale, Brilliant Corners. Il 24 e 25 giugno al Teatro Piccolo Arse-
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Televisione
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nale di Venezia Emanuel Gat proporrà una performance ispirata all’omonimo album che Thelonious Monk pubblicò nel 1957 e che divenne una delle pietre miliari della storia del jazz. Come dichiarato dallo stesso coreografo, l’associazione fra la musica del pianista americano e la coreografia è puramente concettuale;
spettacoli biente circostante per prodursi come una continua ricerca sulla sostanza dell’arte coreografica, movimento, spazio e tempo. I precedenti lavori dell’artista israeliano ci hanno insegnato come la scena di Gat si distingua per una serena fluidità. Ricchi di sottili dettagli, le performance di Gat sono caratterizzate da un profumo di malinconia e introversione che le rende solitamente molto intime, una qualità frequente in una parte della scuola contemporanea figlia della scena post-moderna diYvonne Rainer e Dana Reitz - con un pensiero che corre immediatamente a Set and Reset, il capolavoro di Trisha Brown. E se in passato la critica ha talvolta richiesto una mappa per la comprensione della sua scena, laddove il caos è da sempre l’origine principale della creazione e la confusione che si provoca nello spettatore una peculiarità della vera opera d’arte, con Brilliant Corners Gat si prefigge un interessante e stimolante obiettivo: «permettere allo spettatore di sentirsi talmente a proprio agio di fronte a qualcosa, non pienamente compresibile, da accettarne avidamente l’offerta nella sua infinita inintelligibilità».
Gat, infatti, prende in prestito il processo creativo del jazz di Monk per riproporlo sul corpo danzante e sulla struttura coreografica. Una performance per dieci danzatori che prende avvio dalla rielaborazione dell’am-
Non solo Rai e Mediaset: le molte vie della satira osì come le notizie date in forma non faziosa e non mascherata (quando sono fornite, ovviamente), la satira se viene schiacciata o subdolamente cancellata si sposta su un altro palcoscenico. Esce dalla porta e rientra dalla finestra. Sky ci ha fornito l’anticipazione del programma satirico di Corrado Guzzanti (Anie-ne), che si snoderà a partire da settembre. Su Sky, appunto. Bypassando sia Rai che Mediaset (se c’era bisogno di aggiungere le reti berlusconiane). È l’effetto della moltiplicazione dei podi (o poli) mediatici, sottovalutata dai nostri politici ma argutamente colta da certi sociologi (per esempio da Chiara Saraceno). Se la Rai e Mediaset si illudono di poter governare o influenzare il pensiero, o il quasi pensiero, di moltissimi italiani, ecco, è uno sbaglio. Anche chi ha scarsa familiarità con la rete, riesce, per divertimento o pura informazione, ad avvicinarsi sia all’informazione sia alla satira. Le battute di Guzzanti, anticipatorie di
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di Pier Mario Fasanotti una serie autunnale, le si possono ascoltare e vedere su youTube e su altri siti. I tanti muri di Berlino eretti ai danni della società che si vuole informare si stanno sgretolando. Gli esperti
puntano il dito proprio sulla molteplicità delle fonti, alla quale vanno attribuite, sia pure in parte, certe «sorprese» politiche (vedi le ultime elezioni dei sindaci, a Milano e a Napoli ma non solo lì). Il web corre, si diffonde. Molti giovani ormai se-
guono programmi di intrattenimento sulla rete, senza aspettare che diventino serial nel senso canonico della televisione. Questo in genere è un bene, visto che la democrazia è vivace quando dà segni di non soffocante controllabilità. È forse un caso che il presidente americano Barack Obama stia studianto una sorta di «internet ombra» in grado di portare non la guerra ma l’informazione in quei (tanti) Paesi dove i regimi, assoluti e anacronistici, vorrebbero oscurare tutto. Tornando al fantasista Guzzanti, fortemente schierato su posizioni antigovernative, comincio col dire che la grafica è gradevolmente nuova, i testi (scritti da Andrea Purgatori, ex inviato del Corriere della Sera) raffinati a volte, un po’ triti altre volte, in ogni caso pungenti sia pure nella loro - almeno iniziale - lungaggine scenica. Molte battute e gag sono esilaranti. Compresa quella sulla compulsione alla barzelletta volgare del premier,
sulla massoneria deviata (P-2) e sul Pd come «oggetto volante non identificato» ma ancorato alla formula del «mago di Arcella» che ha imposto per quasi due decenni il ritornello «Berlusconi dimettiti». Guzzanti interpreta anche un capo mafioso, cui «zu’ Silvio» offre un posto nel governo. Il boss sta celebrando i suoi 150 italiani: della mafia, ovviamente. Concede al premier alcune lodi, per esempio plaude allo sforzo di aver tenuto molto stabile l’economia: «nel senso che non si muove più». Il Guzzanti travestito da capo massone borbotta sul fatto che «stiamo ancora assistendo al colpo di Stato più lungo del mondo: 17 anni e non abbiamo ancora finito». E aggiunge, con desolata malinconia e con riferimento alle feste di Arcore: «Volevamo colpire il cuore dello Stato e abbiamo sbagliato organo». Divertentissimo Max Paiella nei panni del ministro Frattini che, in un consesso internazionale, risponde «yes» a tutte le domande, anche quelle più imbarazzanti. Punte satiriche. Tuttavia impastoiate a volte in contesti dal passo troppo lungo.
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Cinema
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ra, con tutti gli onori di un capo di Stato e con le scuse della Francia, culla dell’Illuminismo egualitario. L’attrice debuttante Yahima Torrés è formidabile. Da non perdere.
di Anselma Dell’Olio
enere nera di Abdellatif Kechiche, lo straordinario, lungo, duro sguardo sulla struggente traiettoria di Saartjie Baartrman, finalmente esce da noi a fine stagione, quando pochi lo vedranno. Il nuovo film del regista francotunisino era molto atteso dopo il Leone d’oro per Cous cous, l’epico ritratto di una famiglia magrebina, decisa ad aprire a ogni costo un ristorante etnico su una vecchia nave nel porto di Marsiglia. È sempre una storia d’immigrazione, ma l’ottica è ben diversa. Racconta la travagliata vita della donna detta «la Venere ottentotta», esibita a pagamento come un freak da circo in Europa, dove si trasferisce dal Sud Africa in cerca di fortuna. Si sposa e fa due figli, ma a Kechiche interessa quello che le succede in seguito. Sarah, cantante e musicista, è sfruttata da diversi uomini, con il suo consenso, per l’esotismo delle sue forme classiche di femmina boscimana: un metro e 35 d’altezza, con sedere molto alto e sporgente a scaffale, e le piccole labbra che scendono 8-10 centimetri sotto la vulva, dette «il grembiule ottentotta». Ricordava le piccole icone della mitica fecondatrice Gaia, trovate negli scavi archeologici: era un’antica scultura vivente. La sua parabola è di particolare interesse dopo il clamore per l’arresto di Dominique Strauss-Kahn e la sua tesi difensiva contro la governante africana che lo accusa di violenza sessuale. Il socialista Dsk, ex capo del Fondo monetario internazionale, sostiene che Nafissatou Diallo, la cameriera guineana del lussuoso hotel dove alloggiava e che avrebbe costretto ad avere rapporti orali, era consenziente. Sarah acconsente al suo sfruttamento. Nel processo a uno dei suoi «manager» lei lo scagiona dall’accusa di mantenerla in schiavitù: difende il suo status di artista.
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È importante vedere questo film, prima perché è magnifico, e poi perché sviscera il significato di «consenso» quando c’è un abisso di potere incolmabile tra le parti in gioco. Sarah era stata portata in Occidente dal fratello dei suoi padroni olandesi, con la promessa di ricevere metà dei guadagni dalle esibizioni. Dopo alcuni anni a Londra finisce in mano a un addestratore d’animali a Parigi. Lo show consiste in lei in catene mentre cammina a quattro zampe, nuda ma con la vagina coperta. Il «domatore» fa schioccare la frusta intorno a lei, per poi rinchiuderla trionfalmente in una gabbia, come una belva pericolosa. Inizia così il fim, e si pensa che dopo la lunga disamina dell’agghiaciante spettacolo - ed è chiaro che l’infamia è nel padrone con la frusta e nelle facce gongolanti della folla pagante - partirà una biografia tradizionale. Segue invece la discesa della Vénus noire, dal mondo dello spettacolo «alto» (si esibisce persino in dorati salotti libertini francesi nei primi anni dell’800, dove le dame agghindate e con le poppe di fuori la cavalcano, come se fosse un pony), fino a misere tende e infimi locali. Arriva alla prostituzione vera e propria, in case chiuse prima di finire sul marciapiede, buttata fuori per la malattia (probabilmente venerea più una polmonite) che invade il suo fisico provato e la porta alla morte solitaria nel 1815. La data di nascita è sconosciuta. L’ultimo «padrone» vende il cadavere a un istituto scientifico parigino che seziona il corpo per studiarlo, e ne fa un calco da esibire, conservando la vulva nella formalina. Soltanto nel 2002 i suoi resti tornano in Sud Africa per una degna sepoltu-
L’antro dei misteri Quella che Courbet definiva “l’origine del mondo”, cioè l’organo sessuale femminile, è al centro dell’imperdibile film di Kechiche che sviscera il significato di “consenso” nello sfruttamento delle donne. E della meno riuscita commedia dei fratelli Farrelly. Poi c’è Matt Damon in salsa teologica
I guardiani del destino (The Adjustment Bureau) è tratto da un racconto dello scrittore di culto Phillip K. Dick, fonte continua d’ispirazione per il cinema grazie alle geniali idee e per il suo stile succinto e scarno, che lascia molto spazio alla fantasia visiva. È la storia d’amore contrastato tra il politico David Norris (Matt Damon) e la ballerina Elise Sellas (Emily Blunt). È un film filosofico-teologico travestito da thriller fantascientifico. George Nolfi (Ocean’s 12, The Bourne Ultimatum) nel suo debutto d’autore, prova a portare il grande pubblico a volare, ma non fino in fondo. David sta per vincere l’elezione a senatore di New York, quando una foto goliardico-triviale dell’epoca universitaria lo costringe a ritirarsi. S’imbatte in Elise nel ritiro maschile (il classico «incontro sfizioso» hollywoodiano) dove lei si nasconde dalla sicurezza dell’hotel che la vuole buttare fuori come imbucata a una festa; sbuca fuori mentre lui sta provando il discorso di resa. È colpo di fulmine: lei, spirito libero, ispira il politico in disgrazia a dire la verità, cosa che rimette in pista la sua carriera. Un certo Potere Superiore decide che lei (un’impulsiva che risveglia in lui l’antica natura ribelle) è un impedimento al suo manifesto destino di uomo di Stato. Tre Esseri senza ali intervengono per bloccare il rapporto con ogni mezzo, fisico e metafisico. Richardson (John Slattery) e Mitchell (Anthony Mackie) sono «inviati dal Capo» in abiti fumo di Londra e cappelli alla Mad Men, con il compito d’eseguire «aggiustamenti» che rimettono in carreggiata il percorso ideale di David (e, sottointeso, di ognuno di noi; ma l’Altissimo del film se ne frega del destino della protagonista femminile). I temi sollevati e lasciati a mezz’aria sono il libero arbitrio, la predestinazione e il ruolo del Caso in un eventuale Disegno Intelligente. Il finale è risolto con una teologia agostiniana un po’ sbrigativa. Da vedere. Libera uscita dei fratelli Farrelly non raggiunge le vette mirabili di Tutti pazzi per Mary, ma tratta con la stessa disinvoltura l’eterna satiriasi di mariti eterni adolescenti. Owen Wilson e Jason Sudeikis sono bravi padri di famiglia regolari, con lavoro, moglie e prole, incapaci di non svestire con lo sguardo qualunque femmina appetibile. Le consorti, arcistufe delle loro figuracce, decidono di concedere ai Casanova virtuali una settimana di libertà dal vincolo di fedeltà, un’idea che giustamente è di due sceneggiatori maschi. È terreno fertile la stanchezza di coppia, il desiderio sessuale femminile che si volatilizza dopo le nozze, i mariti tanto assatanati quanto sbrigativi, e altri spinosi problemi della vita matrimoniale. Ci sono alcune risate di pancia per scene che riescono a superare la barriera del doppiaggio; come si elimina il dialetto dall’italiano, la comicità tende a sparire. Ma si poteva fare di più con la sapida, accattivante cantilena di Wilson, qui sostituita da una competente, anonima voce di doppiatore. Neppure i Farrelly, però, sembrano capaci d’immaginare una comicità femminile autentica; la gag fallita più disgustosa riguarda una femmina, mentre sanno rendere esilarante la vera ossessione maschile: la misura relativa del pene. L’ultima Terra Ignota per maschi altrimenti scafati si trova, come scrive Manohla Dargis sul New York Times, «in quell’autentico antro dei misteri, la vulva». Per loro è come se ci fosse scritto, come sulle antiche mappe medievali per le zone oltre il confine del mondo conosciuto: Hic sunt leones.
Cristalli sognanti
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MobyDICK
ai confini della realtà
a battaglia della piana di Maratona non è stato solo uno degli episodi bellici più importanti della storia antica ma anche quello che, probabilmente assieme davvero a pochi altri, ha determinato il futuro geopolitico e culturale dell’Occidente. Se i diecimila opliti ellenici agli ordini di Milziade non avessero arginato l’avanzata di Dario I di Persia, oggi parleremmo di un’altra Europa e di un altro mondo. Alla battaglia è legato un altro episodio ammantato di leggenda: la corsa degli araldi verso Atene con il compito di annunciare la sconfitta degli invasori e impedire ai sostenitori dei persiani di spalancare le porte ai soldati di Dario. Secondo la storia ufficiale fu Filippide il messaggero greco a cui venne affidato il compito di portare la grande notizia. Una marcia forzata di oltre 42 chilometri dalla città di Maratona fino all’Acropoli che regalò al protagonista la fama imperitura ma anche la morte per l’immane fatica sostenuta. Filippide ebbe infatti appena il tempo di sussurrare alle sentinelle alle porte della città «abbiamo vinto» prima di stramazzare al suolo. Questo ci dice la storia. Ma, si sa, la storia è fatta spesso di episodi tramandati oralmente o tramite documenti scritti e riscritti più volte, spesso adattati alle esigenze politiche del tempo e qualche volta piena di lacune, buchi neri o situazioni suscettibili di numerose e controverse interpretazioni. La conclu-
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Sulle orme di Filippide di Roberto Genovesi
sione degli eventi in questo caso non è in discussione ma come si svolsero realmente i fatti? In una cornice data e inconfutabile come quella della vittoria di Atene è possibile che il risultato finale sia stato influenzato dalle scelte e dai destini di molte più persone di quante la cronaca del tempo ci dica. Ed è perfino possibile che il destino di queste persone, diviso in centinaia di rivoli comunicanti, abbia costituito una trama più complessa e meno scontata di quanto non si racconti nei libri di scuola. Il compito di uno storico è quello di provare a muoversi all’interno di questi rivoli. Ma quando uno storico è anche un grande scrittore di romanzi allora può succedere qualcosa di sorprendente e inaspettato.
Ed è ciò che è accaduto quando Andrea Frediani, dopo il grande successo della trilogia Dictator che lo ha portato al Premio Selezione Bancarella 2011, ha deciso di affrontare la corsa contro il tempo dei messaggeri di Atene. Il risultato è Marathon, un romanzo di oltre trecento pagine, la cronaca in tempo reale di quelle ore concitate. Ma non parliamo di un romanzo storico come gli altri. Frediani, prima di cominciare a scrivere, si è posto una domanda: e se il compito di annunciare la vittoria non fosse stato affidato a un solo uomo? Se fossero stati molti di più i messaggeri in marcia verso l’Acropoli? Marathon, proprio da pochi giorni in libreria per le edizioni Newton Compton, si apre alla vigilia dell’esito dello scontro delle Termopili. Sono passati dieci lunghi anni dalla battaglia di Maratona e la flot-
E se non fosse stato solo lui ad affrontare una marcia di 42 chilometri per portare ad Atene la notizia della vittoria sui Persiani? È quello che immagina in “Marathon” Andrea Frediani, capace di indagare con maestria nel buio della Storia ta greca, ancora una volta sul piede di guerra, attende con ansia di capire se i trecento eroi persiani guidati da Leonida siano riusciti a fermare ancora una volta l’onda d’urto dei persiani incitati da Serse. Siamo a bordo della flotta greca e una donna misteriosa racconta a Eschilo, in servizio come oplita, la sua personale versione della famosa battaglia di tanto tempo prima squarciando la cortina di nebbia che gli anni avevano inevitabilmente steso sui ricordi. Una versione dei fatti che parla non di uno ma di ben tre eroi, Filippide,Tersippo e Eucle, disposti a mettere in gioco la vita non solo per la loro patria ma anche per disputarsi l’amore di
una donna. Una sfida che, come molti eventi che hanno determinato i destini del mondo, fa in modo che le scelte individuali diventino determinanti per le sorti di intere comunità.
Lo stile di Andrea Frediani lo conosciamo bene. È un po’ la cifra del suo successo prima come divulgatore e poi come narratore. Stile asciutto, privo di fronzoli, mai appesantito da descrizioni inutili e barocche. Comunica con il lettore con il piglio del cronista, come se fosse per magia sul posto, pronto a raccontare ciò che altri occhi riescono a vedere per lui. Se possibile, con il passare del tempo, ha imparato anche a destreggiarsi bene nei labirinti della psicologia dei personaggi femminili che non è mai cosa facile tanto nella vita quanto nella attività autorale. Non ci sono documenti storici che possano attestare la veridicità dei fatti
narrati da Frediani ma l’autore, con la consueta maestria con la quale è in grado di destreggiarsi tra storia e leggenda, li rende al lettore particolarmente attendibili. Una volta, intervenendo alla presentazione di un suo romanzo, disse che uno dei compiti più difficili di uno scrittore di romanzi storici è quello di infilarsi negli spazi di manovra che la storia lascia privi di luce. Quei luoghi non fisici in cui il dipanarsi degli eventi solo apparentemente decide di andare irrevocabilmente da una parte piuttosto che dall’altra. Ma dall’inizio del percorso alla sua fine nulla è dato, nulla è mai certo. Sappiamo come iniziò e sappiamo come andò a finire. Ma ci sono molti modi attraverso i quali percorrere una strada, molte scelte da compiere. È la linea sottilissima di confine tra la cronaca documentaristica e la forza visionaria che fa la differenza tra un romanzo storico qualunque e un capolavoro. Ebbene Frediani ha un vantaggio non indifferente rispetto a molti suoi colleghi perché riesce a destreggiarsi magnificamente nei meandri della storia e nel buio tra le pagine del tempo. Del resto Omero ci insegna che c’è differenza tra il guardare e il vedere. Frediani sceglie gli occhi di Eschilo per vedere questa storia ed è la stessa protagonista femminile del romanzo che ci convince della bontà della scelta poiché è proprio lei che, rivolta a Eschilo (ma forse proprio all’autore), ammette a un tratto: «Desidero che tu racconti la verità su quei tre ragazzi che forse mi hanno amata. Solo tu puoi farlo: sei stato loro amico e sai scrivere drammi».
o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g
Il condono fiscale? Probabilmente è soltanto il minore dei mali IN RICORDO DI GIOVANNI PAOLO II Era il 12 settembre 1979 e per la prima volta nella storia della Chiesa si usò il termine «teologia del corpo»: a pronunciarlo era Giovanni Paolo II. Mentre la teologia tenta di capire il mistero di Dio, la teologia del corpo va alla ricerca della spiegazione dell’elevazione del rapporto sessuale tra uomo e donna e della intrinseca divinità che ci avvicina a Dio. Giovanni Paolo II svela alle genti un significato sconosciuto della castità enunciando che la castità è“un’arte”; arte degli innamorati che svela che c’è un disegno di Dio lasciato impresso nella corporeità, ovvero, ascoltare la voce del corpo attraverso i sentimenti ci permette di capire le esperienze originarie, il senso del corpo stesso e ciò che manifesta solitudine, pudore, comunione, gioia, piacere. Giovanni Paolo II spiega che il corpo è chiamato a vivere la pienezza“ultima”: la pienezza della divinizzazione. Nel nostro corpo ci incontreremo con Cristo nel suo corpo quando lo Spirito Santo avrà penetrato tutti i dinamismi corporali da arrivare in sintonia con Dio: il dono dello Spirito che redime (nel senso di purezza) il corpo e lo fa capace di amare alla maniera di Cristo, di trasmettere un dono divino, di santificare l’altro (nel matrimonio). Giovanni Paolo II ha, con queste espressioni, ha spalancato alle genti le porte del cuore divino, come servo di Cristo, dando la percezioni che la “Luce”che immaginiamo non è lontana da noi ma in noi. La teologia del corpo non è altro che un avvicinamento del rapporto con Dio meno astratto illustrato con parole mai usate nella storia dell’umanità dando, anche, una sublime spiegazione della castità sia come massima espressione dell’amore che della meditazione che la stessa assume (o può assumere) nell’elevazione del concetto nella vita concreta (prima e/o durante il matrimonio) e svela come l’amore sia possibile viverlo come Sua massima espressione. La castità può far parte del percorso terreno matrimoniale vivendolo - come esperienza a tempo determinato: una prova prima dell’Eternità dove le due anime si ritrovano in assenza del rapporto fisico. Il 13 maggio 1981 - il giorno dell’attentato - Giovanni Paolo II avrebbe proprio annunciato la nascita della Fondazione“Istituto Internazionale di Studi sul matrimonio e Famiglia” col preciso compito di approfondire «la conoscenza della verità sul matrimonio e sulla Famiglia, alla luce della Fede, con l’aiuto delle varie Scienze Umane»: che coincidenza (!). Forse “il Male”aveva provato a fermare la visione intuitiva che Giovanni Paolo II stava iniziando a rappresentare all’umanità. Ma non è riuscito. Risuoni sempre nelle nostre menti ogni qualvolta tentiamo di avvicinarci con la nostra anima a ciò che non vediamo. La Sua voce: «Non abbiate paura!». Mimmo Sieni REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)
Pensare di far fronte alla crisi economica e finanziaria che attanaglia il nostro Paese con le risorse provenienti dalla pur inasprita lotta all’evasione penso sia piuttosto utopistico. Leggo su “Italia Oggi” dello scorso 7 giugno un articolo dal titolo: “Fisco, c’è chi spinge per il condono”. Mi viene da pensare che un tale provvedimento potrebbe essere veramente più realistico e proficuo. D’altra parte in questa ridda di notizie che rivelano scandali, malcostume, abusivi arricchimenti e non si finirebbe mai di elencare, la riduzione dell’evasione risulta ancora più difficile per cui un condono fiscale potrebbe forse fare emergere più facilmente tante sacche di evasione senza addivenire a provvedimenti intimidatori, discutibili e vessatori e di conseguenza consentire di impinguare le tanto precarie casse dello Stato con opzioni spontanee: ciò evidentemente Europa permettendo. Non si può non tenere conto che oggi il cittadino, alla luce delle quasi quotidiane sconcertanti rivelazioni fornite dalla stampa, non assolve volentieri il suo dovere di contribuente. Da ultimo va evidenziato che l’accertamento esecutivo che decorrerà dal prossimo primo luglio reintroduce praticamente l’istituto del “solve et repete”che come tutti sanno è stato dichiarato incostituzionale nel secolo scorso.
Giuseppe Filipponi
ANCHE PADRE ALEX ZANOTELLI HA VINTO IL REFERENDUM SULL’ACQUA Il vincitore del referendum sull’acqua è anche lui, Padre Alex Zanotelli, che già si scontrò con le autorità del Sudan, per il ruolo attivo contro la povertà, e ricevendo una certa opposizione dalla curia romana dopo il Concilio Vaticano II , a causa del decreto “Ad Gentes”ove i missionari erano invitati a tramandare solo la tradizione del Vangelo nelle culture autoctone: egli invece celebrava riti secondo gli usi e i costumi africani, e quindi venne accusato di “sincretismo”. Nel 1978 diventa direttore di Nigrizia, giornale della Verona comboniana, ove infonde la nuova tematica dell’informazione come denuncia socio-politica. Il suo impegno fu accusato di deviazione dai principi missionari del suo operato: il suo movimento “Beati i costruttori di Pace” mirava a costruire la pace partendo dalla giustizia. Così lasciò il giornalino e divenne direttore di “Mosaico di Pace”per volere di don Tonino Bello presidente di “Pax Christi”, e fece ritorno nel 1989 in Kenia nelle baraccopoli intorno a Nairobi, ove tra droga e criminalità varie, fonda “Udada”, comunità di ex prostitute. Fu per tale visione di sofferenza che formulò la frase famosa : “Forse Dio è malato”, portandola in calce nel titolo del libro sull’Africa di Walter Veltroni. Oggi vive a Napoli nel quartiere storico Sanità e lavo-
ra nella comuntà “Crescere insieme”per le tossicodipendenze più difficili. Nel 2004, gli è stato assegnato il Premio Nazionale Cultura della Pace 2004.
Bruno Russo
ATTENZIONE ALL’INGANNO DELLA “PILLOLA DEI 5 GIORNI DOPO” «Cambiare il nome delle cose per non potersi capire è un effetto della Torre di Babele. Ma cambiare il nome della realtà per poter più facilmente uccidere è qualcosa di diabolico». Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita, così è intervenuto nel dibattito sull’uso della cosiddetta “Pillola dei 5 giorni dopo”. «In ogni vocabolario è scritto che la gravidanza è lo stato della donna nel cui corpo si trova il frutto della fecondazione, ma adesso cercano di cambiare il significato della parola: nostra madre, secondo loro, non sarebbe stata incinta da quando noi siamo stati concepiti, ma 6 o 7 giorni dopo, quando ci siamo “impiantati”, cioè abbiamo trovato una casa fissa nella mucosa uterina. «In base a questa logica ben poco logica, già la pillola del giorno dopo, nel caso in cui impedisca l’impianto e faccia così morire l’embrione, non provocherebbe un aborto perché non interromperebbe una gravidanza. La nuova “pillola del quinto giorno”dopo aggrava la situazione perché il suo effetto even-
L’IMMAGINE
LE VERITÀ NASCOSTE
In palestra nudi, per far fronte alla crisi La crisi colpisce un po’ tutti i settori, ed è necessario trovare idee nuove per cercare di sopravvivere. Una palestra spagnola (anzi, per la precisione una palestra basca) ha trovato un’idea che non sappiamo se riuscirà a risolvere i suoi problemi economici, ma una cosa è certa: le ha fatto guadagnare moltissima notorietà internazionale. Infatti, la “Easy Gym” di Arrigorriaga è una delle prime palestre dedicate ai nudisti, dove gli esercizi si svolgono, appunto, completamente senza indumenti. Il proprietario ha avuto l’idea dopo aver letto un’intervista all’associazione dei naturisti baschi, nella quale emergeva chiaramente che il 90 per cento degli intervistati avrebbe desiderato poter fare esercizio fisico in costume adamitico. Non tutti, però, hanno apprezzato l’idea della palestra: c’è chi sostiene che la pratica è anti-igienica (per quanto gli iscritti debbano essere dotati di un asciugamano, come in tutte le altre normalissime palestre), e che aumenti il rischio di traumi, soprattutto nelle donne, che secondo alcuni esperti di fitness dovrebbero invece rigorosamente indossare un reggiseno sportivo che protegga il loro seno da eventuali urti e traumi.
tualmente abortivo è più esteso e più efficace. Certo: se la fecondazione non è avvenuta non c’è un embrione da sopprimere e si può avere un effetto semplicemente contraccettivo, ma se fecondazione vi è stata c’è un soggetto appena concepito ma essere umano a tutti gli effetti, che viene ucciso. «Il Movimento per la vita si opporrà con tutti i mezzi legittimi alla commercializzazione del prodotto e all’ennesima bugia di chi sosterrà che gli aborti sono diminuiti per effetto della legge 194» ha fatto sapere Casini. «La verità è, invece, che aumentano a dismisura gli aborti tanto clandestini da essere non conoscibili, provocati da prodotti chimici che soffocano la vita appena sbocciata».
Daniele Nardi Movimento per la vita
SCOMMESSE CALCISTICHE E INTERCETTAZIONI: IL VERO SCANDALO
Mi è sembrato di vedere Dumbo Rutto in questa foto farebbe pensare di trovarsi di fronte a Dumbo, se non fosse che il pachiderma in questione è uno scoglio lungo una spiaggia dell’isola russa di Sakhalin, nel Pacifico settentrionale. L’isola stessa ha una forma particolare: lunga 948 chilometri e larga solo qualche decina, per una superficie complessiva di 76.400 chilometri quadrati che la rende l’isola più estesa di tutta la Russia e la 23esima al mondo
Considero davvero assurdo il fatto che le indagini sulle scommesse calcistiche abbiano avuto inizio solamente dopo la fine del campionato, oltre tutto senza che nessuno strumento si possa adoperare prima per evitare che i risultati e le relative classifiche perdano di significato. Come mai le intercettazioni non vengono utilizzate nel momento preciso in cui possa realmente nascere un accordo segreto, in vista di una partita di calcio determinante? Probabilmente siamo in presenza dell’ulteriore riprova che esistono molti strumenti di indagine scientifica, ma che ormai non sempre si possono o si vogliono davvero usare, considerato anche che il fatto che i provvedimenti disciplinari che si prenderanno in futuro, nel penalizzare giustamente le casse della società, determineranno anche il declassamento o la retrocessione, quando in verità il valore sportivo non dovrebbe essere toccato.
Lettera firmata
mondo
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Uno studio della Chiesa che soffre analizza la persecuzione nel mondo islamico. Mentre la politica fatica sempre di più ad arginare l’estremismo e la discriminazione
Allarme cristianofobia Iraq, Pakistan, Egitto e Libano. Sono questi i focolai dell’intolleranza religiosa. Asia Bibi? È la punta di un iceberg di Laura Giannone cristiani del Maghreb, dell’Africa subsahariana, del Medio e dell’Estremo Oriente sono perseguitati, muoiono o scompaiono in una lenta emorragia, vittime del crescente anticristianesimo. La cristianofobia è multiforme e si nutre di motivazioni tra loro assai diverse: tuttavia ogni anno fa parecchie centinaia o addirittura migliaia di morti. E in alcuni casi è frutto dell’adozione di una politica ispirata a idee di “pulizia” etnica e religiosa. «Ogni cinque minuti un cristiano è ucciso per la sua fede»: ha denunciato Massimo Introvigne, rappresentante dell’Osce (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) per la lotta all’intolleranza e alla discriminazione contro i cristiani. Introvigne, uno dei maggiori esperti in Italia di religioni, (il cui centro studi ha sede a Torino) ha detto che «105mila cristiani all’anno sono uccisi a causa della loro fede. E la cifra non comprende le vittime di guerre civili o tra nazioni ma solo i veri e propri martiri, messi a morte perché cristiani».
I
Sono gli stessi dati a testimoniare la volontà degli estremisti di “ripulire” i paesi islamici dalla presenza cristiana; tale obiettivo non è lontano dalla realizzazione per lo meno in Iraq dove la consistenza della
105mila cristiani all’anno sono uccisi a causa della loro fede. E la cifra non comprende le vittime di guerre, ma solo i martiri comunità cristiana, pari a 1,4 milioni di persone all’epoca dell’ultimo censimento (1987) è scesa a 800mila nel 2003 ed a inizio 2011 a 500mila (ma secondo fonti vicine ad Acs il valore reale sarebbe 150mila, molti dei quali costretti a sfollare in attesa di espatriare). Più in generale, in diversi paesi del Medioriente si osserva un graduale declino della cristianità into obscurity sia a seguito di massicci esodi di fedeli, sia a causa di una più elevata natalità nelle comunità non cristiane. Con riferimento ai paesi non musulmani Persecuted and Forgotten?, il report pubblicato da Acs (Aiuto alla Chiesa che soffre) rileva che alla crescente radicalizzazione dei gruppi religiosi corrisponde un’aumentata antipatia per i cristiani; tale fenomeno è particolarmente evidente tra gli estremi-
sti Hindu nello stato indiano dell’Orissa, dove l’attacco ai cristiani viene considerato alla stregua di un atto di patriottismo. Il paese dove però i cristiani subiscono maggiori persecuzioni rimane in ogni caso la Corea del Nord. Rispetto invece ai numeri complessivi dei cristiani sottoposti a persecuzione, il report richiama i dati diffusi nell’autunno 2010 dalla Commission of the Bishops’ Conferences of the European Community (Comece) secondo i quali almeno il 75% del totale delle violenze a sfondo religioso è diretta contro i cristiani, mentre il totale delle persone discriminate o perseguitate ammonta a 100 milioni. Quattro sono poi, per l’Acs, i Paesi da monitorare con attenzione per la loro attiva cristianofobia: Iraq, Pakistan, Egitto e Libano.
L’Iraq ha una popolazione di 30 milioni. Di questi, il 60 per cento sono musulmani, il 37 per cento sciiti. I cristiani sono lo 0,67 per cento del totale, più o meno 200mila persone. Secondo i dati dell’Unhcr aggiornati al 2010 e citati dall’agenzia Fides, l’organo di informazione delle Pontificie Opere Missionarie, il 40% dei rifugiati iracheni all’estero - ossia circa 640mila dei complessivi 1,6 milioni - sarebbe di fede cristiana; la consistenza di tale emorragia evidenzia come sia appesa a un filo la stessa sopravvivenza di una delle più antiche comunità cristiane del mondo. Secondo Fides le vittime irachene di persecuzioni anticristiane nel periodo 2003-2010 ammontano a circa 2 mila. L’ultimo decennio, riferiscono i vescovi iracheni, ha visto la comunità cristiana decrescere da 900 a 200 mila persone. Nella capitale Baghdad, che ancora all’inizio del 2003 contava, da sola, 200mila cristiani, l’attentato del 31 ottobre 2010 alla Cattedrale siriana cattolica (52 vittime) ha ulteriormente intensificato il massiccio esodo di cristiani sempre più spaventati di fronte all’evidenza dell’obiettivo estremista di cacciarli dal paese. Gli attacchi anticristiani si verificano, seppure con gradi di intensità differente, in
A fianco: Asia Bibi, accusata di blasfemia in Pakistan. Sotto: dei musulmani protestano a Islamabad contro l’intervento del Vaticano a favore della donna. A sinistra, una cristiana iraniana e a destra, una manifestazione a Roma contro l’intolleranza religiosa in Egitto
tutto il paese concentrandosi, in particolare, nella città di Mosul: da qui la situazione di pericolo spinge i cristiani a cercare rifugio a nord, nel vicino Kurdistan iracheno dal quale, tuttavia, le condizioni di insicurezza e povertà spesso inducono a trasferirsi nei paesi confinanti (Siria, Giordania e Turchia), o nei paesi occidentali.
C’è poi il Pakistan, con 175 milioni di abitanti di cui il 95 per cento sono musulmani mentre i cristiani l’1,5 per cento (2,5 milioni). La situazione dei cristiani nel paese è legata alla vigenza della legge antiblasfemia. Introdotta nel 1986 dal dittatore Zia-ul-Haq la legge punisce con l’ergastolo chi offende il Corano e prevede la condanna a morte per chi insulta il Profeta. Secondo la Catholic Church’s National Commission for Justice and Peace pakistana, delle 993 persone incriminate ai sensi di tali norme nel periodo 1986-2010,
120 (12 per cento) sono cristiani. Sebbene non vi siano state sino ad oggi esecuzioni capitali in applicazione della legge antiblasfemia, dall’interpretazione discriminatoria di tale normativa derivano abusi e violenze connessi all’utilizzo pretestuoso ed extragiudiziale delle norme, spesso invocate strumentalmente per perseguire obiettivi di vendetta nei confronti di gruppi o individui. La legge antiblasfemia è salita agli onori della cronaca internazionale con la vicenda (iniziata al 19 giugno 2009) di Asia Bibi, cittadina pakistana di religione cristiana della provincia del Punjab (Pakistan orientale), denunciata per blasfemia e condannata alla pena capitale dal Tribunale distrettuale di Nankana. La condanna a morte ha suscitato la reazione immediata della comunità internazionale e della Santa Sede. Ma questo non ha impedito che lo scorso 2 marzo i talibani pakistani assassinassero, a
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tra cristiani e musulmani in Egitto, che pure si erano trovati fianco a fianco nelle manifestazioni antiregime di febbraio, hanno determinato una nuova fase di crisi a partire dai primi giorni di marzo 2011, quando episodi di intolleranza interconfessionale hanno avuto esito nell’incendio di una chiesa copta ubicata ad Afih, cittadina a sud del Cairo. All’episodio hanno fatto seguito, l’8 marzo, violenti scontri fra cristiani e musulmani al Cairo, nel quartiere povero di Moqattam, a maggioranza cristiana. Il risultato: 13 morti e 140 feriti. Gravi incidenti (12 morti e oltre duecento feriti) si sono successivamente verificati al Cairo (8 maggio) nel quartiere periferico di Embaba attorno alla chiesa di Saint Mina, a seguito di violenti scontri tra gruppi di salafiti e di copti. Le violenze, condannate anche dai vertici islamici, hanno provocato l’energica reazione delle autorità egiziane, intervenute con arresti e deferimenti alle corti militari per circa duecento persone; il ministro della Giustizia Abdel Aziz Ghindy, ha annunciato l’immediata e ferma applicazione delle norme che puniscono gli attacchi contro i luoghi di culto e la libertà religiosa e di quelle che proibiscono manifestazioni nei pressi di chiese e moschee. Ciononostante gli
Islamabad, Shahbaz Bhatti, ministro cristiano per le minoranze, a causa della sua campagna contro la legge. Si tratta di norme di diritto penale composte da quattro parti e destinate a regolare i temi della proprietà, dell’adulterio e delle proibizioni religiose, e prevedono flagellazione e lapidazione per i comportamenti incompatibili con la legge islamica (adulterio, gioco d’azzardo, consumo di alcool).
Anche l’Egitto, nel pieno della sua primavera, ha avuto un sussulto anticristiano, peraltro da sempre molto più che latente nella terra delle piramidi. Su 84,5 milioni di persone, l’87 per cento sono di fede islamica, mentre il 12 per cento (circa 10 milioni) sono cristiani. La consistenza di questa comunità, che supera quella di qualsiasi altro paese mediorientale, spiega l’ostilità che tale minoranza incontra in un paese orgoglioso della propria forte eredità islamica. L’elevato ritmo delle conversioni al cristianesimo, nonostante ciò comporti rischi personali e patrimoniali, alimenta il clima di opposizione ai fedeli di tutte le tradizioni cristiane, ortodossa, cattolica e protestante, la cui prossimità con le culture occidentali è tradizionalmente demonizzata nella cultura popolare egiziana. Gli attriti, tradizionalmente causati da unioni miste e conversioni,
scontri sono proseguiti nelle settimane successive trasferendosi al centro della capitale egiziana, davanti alla sede della televisione pubblica, dove si erano concentrati i copti e dove ripetutamente esponenti dei due gruppi hanno dato luogo a scontri. Solo il 21 maggio i copti hanno deciso di interrompere il sit in, dopo l’impegno del governo a liberare 8 cristiani che erano stati arrestati qualche giorno prima nel corso di ulteriori scontri.
Infine, in questo breve excursus di cristianofobia, c’è da ricordare il piccolo Libano (4 milioni di abitanti), dove i cri-
L’Occidente, sempre più laicista, fatica a concepire che l’uomo possa essere braccato per il proprio credo stiani rappresentano il 43 per cento della popolazione (il resto è sostanzialmente musulmana). In questo paese, che ha una forte e ricca cultura cristiana, la prospettiva per la Chiesa è incerta . La progressiva islamizzazione sta infatti portando i cristiani ad emigrare e, secondo dati del Centre for Arab Christian Research, nel 2009 la percentuale dei cristiani è scesa sotto il 50% della popolazione totale. Anche la violenza è un problema e l’attentato esplosivo del giugno 2010 nella valle della Bekaa avrebbe avuto per bersaglio il patriarca maronita, il cardinale Nasrallah Sfeir, che vi si recava a consacrare una nuova chiesa. Le autorità hanno adottato dei provvedimenti per allentare uno stato di tensione, che tuttavia rimane elevato, quali la rimozione (2009) dai documenti di identità della professione religiosa. Ma non è bastato. Il Libano rimane tuttavia un paese leader in Medio Oriente in materia di rispetto della libertà religiosa; la Costituzione stabilisce che lo Stato rispetti tutte le religioni e garantisca autonomia per questioni quali il matrimonio e la famiglia. La verità è che il sempre più scristianizzato Occidente fatica a concepire che i cristiani possano essere perseguitati in quanto cristiani, perché essere tali, secondo uno slogan semplicistico che si sente ripetere spesso, significa stare dalla parte del potere. Occorre combattere la gravissima disinformazione che affligge l’opinione pubblica occidentale a proposito della situazione dei cristiani nel mondo e in particolare nelle regioni dove essi sono minoritari, come nel Maghreb, nell’Africa sunsahariana, in Medioriente e in Estremo Oriente.
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grandangolo «Forte turbamento e condanna» da parte degli Stati Uniti
Hillary-choc: «Gheddafi usa lo stupro come arma di guerra» Ieri, durissima nota ufficiale del segretario di Stato americano Clinton, che denuncia: «Il regime libico del Colonnello cerca di creare divisioni fra gli abitanti ricorrendo alla violenza contro le donne, per intimidire e punire i manifestanti che in Medioriente e Nord Africa stanno chiedendo riforme democratiche» di Pierre Chiartano li Stati Uniti d’America sono «profondamente preoccupati» dai rapporti che riferiscono di «stupri su vasta scala in Libia». Ieri, in una nota ufficiale, il segretario di Stato Hillary Clinton è intervenuto sulla questione delle violenze sessuali che sarebbero state messe in atto dalle truppe del regime libico e afferma che «le forze di sicurezza di Gheddafi e altri gruppi nella regione stanno tentando di creare divisioni tra la gente usando la violenza contro le donne come uno strumento di guerra e gli Stati Uniti condannano tutto questo nella maniera più forte». La Clinton, allargando il discorso alla regione mediorientale, ha affermato che gli Stati Uniti sono «turbati» dai rapporti che riferiscono come alcuni governi dell’area abbiano usato la violenza sessuale nei confronti delle donne «per intimidire e punire i manifestanti che in Medio oriente e Nord Africa chiedono riforme democratiche». Rapporti che riferiscono di «stupri, intimidazioni fisiche, molestie sessuali e persino “test di verginità”».
G
Ma la vicenda libica sta diventando sempre più complessa e imbarazzante anche per altre questioni. Per la scarsa efficacia del dispositivo Nato, certo, come evidenziato anche dal segretario uscente alla Difesa Usa, Robert Gates. Ma anche per il cartello di Paesi che Francia in testa - ha investito molta della propria credibilità sulla buona riusci-
ta del “licenziamento” di Gheddafi. Per la composizione e la preparazione delle forze ribelli, non in grado d’ingaggiare militarmente i lealisti e con una leadership le cui qualità democratiche sarebbero tutte da verificare. E che fosse una vicenda strana, quella nel deserto libico, si era capito fin dall’inizio. Ma ormai la frittata è fatta.
Gheddafi deve rinunciare al potere e lasciare la Libia, così come vuole «una vastissima maggioranza della comunità internazionale», anche se ciò non rientra tra gli obiettivi della risoluzione nu-
È stata Imam al-Obeidi a denunciare ai giornalisti stranieri di essere stata violentata dai miliziani del rais mero 1973 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Lo ha affermato anche il ministro degli Esteri francese, Alain Juppé – anche lui una vittima dei piani dell’Eliseo per la Libia – sottolineando, con un eccesso d’ottimismo,
che si deve puntare alla cacciata del leader libico attraverso le operazioni militari guidate dalla Nato. Juppé fa il suo dovere di membro del governo, ma se potesse parlare della «farsa» libica, sentiremmo cose interessanti. Non bastano insomma la gestione della no-fly zone e i bombardamenti mirati, secondo Parigi. Dall’Eliseo, attraverso Juppè, arriva chiaro il messaggio: Gheddafi va eliminato dal contesto politico-internazionale, a prescindere, pare, da ciò che ritiene l’Onu attraverso la sua risoluzione, peraltro chiara ed esplicita nella sua definizione di ciò che è lecito fare e di cosa non lo è da parte della comunità internazionale. E appare in trasparenza una certa intesa tra Francia e Washington, visto anche che all’orizzonte c’è un altro dittatore die hard, cioé Bashar al Assad. E con Damasco Parigi ha ancora qualche carta da giocare.
Il segretario di Stato Usa ha accusato le truppe del leader libico di aver trasformato gli stupri e le «violenze contro le donne» in «strumenti di guerra». «Gli Stati Uniti -ha aggiunto - condannano (tali azioni) nel modo più fermo». Ma vediamo perché lo stupro è una dei macabri strumenti con cui si combatte una guerra. L’obiettivo e fiaccare la determinazione dell’avversario, ucciderne lo spirito. In genere si colpiscono le donne per indebolire chi combatte al fronte quando ne esiste uno - oppure per velocizzare un’operazione di pulizia etnica.
È triste dirlo, ma uno dei primi obiettivi di un conflitto, non è uccidere l’avversario, ma mandare il tilt il suo sistema logisto con una massa di feriti gravi. Armi preferite sono quelle che provocano ferite devastanti, ma non mortali. Lo stesso vale per le ferite della mente. Il mutilato è un monito per chi combatte, una donna stuprata è un motivo in meno per tornare a casa e continuare a combattere. Ci sono stati molti esempi recenti di questa barbara tecnica di vincere le guerre. Durante l’aggressione alla Bosnia-Erzegovina dal ’92 al ’95, tra le categorie più esposte agli orrori della guerra c’erano le donne, che hanno subito enormi ferite materiali e psicologiche. Su di loro è stato attuato un crimine di guerra con la violenza sessuale e la tortura fisica di tale gravità che lo stesso rimane al di fuori della capacità di comprensione umana. Il crimine compiuto sulle donne bosniache è stato un attacco alla dignità di quella nazione. I pianificatori della violenza di massa in Bosnia-Erzegovina sapevano bene che – per mezzo di brutali stupri di massa e torture sulle donne – avrebbero realizzato un’azione diretta contro la piramide etnica di quel popolo. Costringendolo all’esodo, soprattutto da quei territori dove quella gente costituiva la maggioranza degli abitanti. E l’esodo di massa, la pulizia etnica è un altro degli obiettivi che si prefigge questa barbara ”procedura”. Non di rado le bambine tra i 12-14 anni venivano forzatamente se-
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Sale la tensione in vista dell’Assemblea generale sulla questione palestinese
Sul Medioriente l’Onu si gioca il futuro (e la legittimità) di John R. Bolton irrealismo può essere una forza molto distruttiva. In politica estera, questa forma distorsiva è perfettamente visibile nell’uso strumentale che si vuole fare delle Nazioni Unite ad esclusivo beneficio di un Paese. Ecco perché non ci sorprende che il Medioriente, uno dei nostri problemi più “incurabili”, determini tanto attivismo all’Onu, seppur con limitate conseguenze per il mondo reale. La prossima occasione per riaffermare tale verità si vedrà all’Assemblea Generale del prossimo autunno, quando si voterà per il riconoscimento dello stato palestinese, dichiarando che i confini con Israele sono quelli tracciati nel 1967. Su questo punto Washington è assente e forse 150 o più membri dell’Onu (sui 192 totali, tra cui molti alleati degli Stati Uniti), voteranno a favore. Una simile risoluzione farà la differenza? Si tratta di un teatrino politico o di qualcosa da prendere seriamente? Come risponderà Israele? Come risponderanno gli Stati Uniti? Tanto per cominciare, nè il Consiglio di Sicurezza nè l’Assemblea Generale hanno l’autorità legale per dichiarare la statualità. Il sito dell’Ue afferma candidamente che il corpo mondiale «non possiede alcuna autorità per riconoscere nè uno stato nè un governo». Cercare dunque di far passare una simile risoluzione non solo è inadeguato, ma anche distruttivo per la stessa Onu. Secondo alcuni c’è un precedente: la Risoluzione dell’Assemblea Generale del 1947, che approvò un piano per ripartire il precedente mandato della Lega Britannica delle Nazioni in stati ebrei e stati arabi, e uno “speciale regime internazionale” per Gerusalemme. Dovrebbero leggere quanto è scritto nella risoluzione. Come tutte le risoluzioni d’assemblea, non è legalmente vincolante. Semplicemente “raccomanda”il piano di ripartizione in questione e «richiede che il Consiglio di Sicurezza prenda i provvedimenti necessari» per realizzarlo. Il Consiglio non ha mai adottato il piano. Sebbene la leadership ebraica lo abbia accettato, gli arabi no e ne seguì un assalto arabo da più fronti. Fine del precedente. Forse l’idea più controcorrente di tutte è credere che le azioni della Lega delle Nazioni o dell’Onu degli ultimi 50 anni possano risolvere la situazione odierna. Risolvere la disputa ara-
L’
parate dalle loro famiglie e condotte in luoghi speciali dove venivano sottoposte, da parte dell’aggressore, a orribili sevizie, stupri ed altre forme di tortura, compresa la mutilazione fisica e l’assassinio. Suona quasi irreale che ciò sia accaduto nel XX secolo, in Europa. Ma anche l’Africa non è da meno. Nel Darfur, devastato dalla guerra, nel 2005, era altissima l’incidenza di stupri e violenze sessuali ai danni di donne e adolescenti. Ad affermarlo era stato per primo un rapporto pubblicato da Medici senza
Intanto, nella notte di ieri, sono ripresi i bombardamenti su Tripoli: otto le esplosioni a sud est e a sud ovest della città frontiere (Msf). Le storie delle donne vittime degli stupri, raccolte da Msf, davano un quadro spaventoso delle violenze quotidiane, che determinarono quasi due milioni di profughi. Appunto un altro perverso obiettivo raggiunto senza troppa fatica. Da ottobre 2004 a metà febbraio 2005, i medici della ong francese avevano curato quasi 500 donne e adolescenti violentate in numerose località del Darfur meridionale e occidentale. Dati che rispecchiavano solo in parte il numero reale delle vittime. Molte vittime erano terrorizzate e temevano di denunciare l’accaduto o di chiedere di essere curate. Quasi un terzo delle donne stuprate, curate da Msf, aveva riferito di essere stata stuprata più di una volta, da uno o più assalitori. In oltre metà dei casi, la violenza era stato accompagnato da ulteriori abusi fisici. Percosse con bastoni, fruste o asce pri-
ma, durante e dopo lo stupro. Una congerie gotica di vessazioni. Molte delle vittime, al momento dell’aggressione, si trovavano in evidente stato di gravidanza, dal quinto all’ottavo mese. Anche in Rwnda la violenza aveva raggiunto livelli assurdi, con più di 200mila casi accertati. Pauline Aweto, autrice di un libro-denuncia su quei terribili eventi ne descriveva così la natura a Radio Vaticana: «In tutte le culture c’è stato sempre lo stupro come arma di guerra. Quello africano diventa molto più pensante, perché ci sono degli elementi che rendono ancora più difficile l’esperienza delle donne stuprate durante la guerra: il livello della brutalità. Le donne vengono violentate in pubblico. Poi c’è anche l’aspetto delle donne incinta, il voler trasmettere l’Hiv attraverso i soldati già contagiati. Il modo di fare africano è molto diverso rispetto a quello degli altri». Ecco che torna l’obiettivo di fiaccare psicologicamente il “nemico”. Ma torniamo alla vicenda libica e come sarebbe cominciata.
Tutto ha avuto inizio lo scorso 26 marzo, quando una giovane ricercatrice, Imam al-Obeidi, arrivò a sorpresa nella hall di un hotel di Tripoli molto frequentato da giornalisti stranieri. E decise di parlare con loro della sua storia. Disse di essere stata sequestrata, picchiata e stuprata quotidianamente da soldati governativi. Ma la portata dei fatti raccontata non è stata considerata a livello di cronaca. C’era dell’altro, secondo le analisi poi fatte dai giornalisti che hanno raccolto queste prime testimonianze. Parliamo di una persona che volontariamente ha sfidato svariati pericoli per raccontarle. Le supposizioni vogliono che la storia della ragazza sia in realtà quello che avviene di regola sotto il regime di Muammar Gheddafi, il quale avrebbe fatto, secondo le accuse internazionali, delle violenze sessuali «strumenti di guerra». E la frase d’Ovidio vis grata puellae suona come non mai con un tono sinistro.
bo-israeliana è in definitiva una questione di potere e di determinazione politica, non di precedenti ambigui e di risoluzioni obsolete. Se i polverosi testi del passato possono determinare l’esito del presente, secondo quale logica noi dovremmo andare indietro di qualche decennio? Perché non andiamo indietro di millenni per ottenere un’autorità ancor più trainante? In secondo luogo, qualsiasi lavoro politico serio venga realizzato all’Onu, è opera del Consiglio di Sicurezza, dove il veto dei cinque membri permanenti – gli Stati Uniti, la Francia, la Cina, la Gran Bretagna e la Russia – dà loro un ruolo predominante.
Per decenni, questo è andato a discapito dei paesi del Terzo Mondo, la maggior parte dei quali si alterna tra il sostegno all’abolizione del veto e il loro riconoscimento come membri permanenti. Se l’Onu dovesse mai svolgere un ruolo costruttivo nella disputa arabo-israeliana, lo farà attraverso il Consiglio di Sicurezza, non l’Assemblea Generale. Il Consiglio e l’Assemblea decidono congiuntamente sull’ammissione di nuovi membri all’Onu. Perché lo statuto dell’Onu prevede che solo gli “stati” possano essere membri, un’eventuale decisione di ammettere la Palestina significherebbe che chi sostiene il suo riconoscimento considera che la Palestina soddisfi i necessari requisiti di statualità. Lo scorso anno, molti credevano che l’amministrazione Obama non avrebbe votato a favore della membership palestinese. La protesta degli oppositori politici di Obama, e anche di alcuni esponenti democratici, ha sgonfiato quell’idea, suggerendo quindi che i sostenitori della statualità diventassero la maggioranza dell’Assemblea Generale, quasi tutta anti-israeliana e anti-americana. Infine, se il presidente sceglierà di lasciare che la risoluzione passi, la giusta risposta degli Stati Uniti dovrebbe essere di ignorare qualsiasi cosa succeda, invece di intraprendere drammatiche azioni diplomatiche come minacciare di tagliare i contributi americani all’Onu. La verità è che l’esito di questo voto sarà frustrante e amaro, soprattutto per il futuro del Palazzo di Vetro e dobbiamo prestargli molta attenzione.
quadrante
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Il capo incapace? È fonte di stress
Grecia, il rimpasto di Papandreou
LONDRA. Quattro lavoratori su
ATENE. L’atteso rimpasto di go-
dieci pensano che la condotta del loro superiore influisca sul loro livello di stress, con oltre un terzo che attribuisce al dirigente la sua negligenza sul lavoro. Uno su dieci arriva ad accusare il capo del peggioramento delle sue condizioni di salute. È quanto emerge da un sondaggio condotto dal Cmi, un’associazione britannica di dirigenti d’azienda Più della metà degli intervistati (sul totale di 2mila lavoratori) ritiene il suo capo incapace o insicuro, mentre quasi due terzi lo giudica inavvicinabile. Questo porta nella maggioranza dei casi a una situazione in cui lo staff si trova a prendere decisioni che non si sente abbastanza qualificato per prendere. Soffrendo così di stress.
verno in Grecia ci sarà. George Papandreou resta il primo ministro alla guida di un esecutivo monocolore socialista ma - nel tentativo di placare la rabbia dei cittadini per le misure di austerity (e di portarle a compimento) - cambia la poltrona chiave delle Finanze. Il nuovo ministro sarà Evangelos Venizelos, che sostituisce l’alfiere del rigore George Papaconstantinu, spostato all’Ambiente. Papandreou dovrebbe chiedere il voto di fiducia per il nuovo governo in Parlamento, probabilmente domani. Cambia anche il ministro degli Esteri, che va a Stavros Lambrinidis, parlamentare europeo e membro del partito di governo Pasok. Con il rimpasto, Papandreou mira a sedare le proteste.
Ancora sangue e morte in Siria DAMASCO. Almeno 14 persone sarebbero state uccise oggi in Siria dalle forze di sicurezza e dall’esercito siriano in varie localita’ del Paese. Lo riferiscono i Comitati di coordinamento locale della mobilitazione (Lccs), principale piattaforma, anche mediatica, dei manifestanti anti-regime. In particolare, un agente delle forze di sicurezza siriane sarebbe stato ucciso a Homs, citta’ siriana a nord di Damasco, dove anche oggi si sono registrate proteste antigovernative. Lo riferisce l’agenzia di stampa ufficiale siriana Sana. Stando alla ricostruzione dell’agenzia, un ’gruppo armato’ ha aperto il fuoco contro le forze di sicurezza, uccidendo un agente e ferendone altri 20.
Parla Kreshnik Spahiu, vicepresidente dell’Alto Consiglio superiore di Giustizia albanese «gemellato» con il nostro Csm
Il sogno europeo dell’Albania «Tirana ha dichiarato guerra alla corruzione per arrivare a Bruxelles» di Martha Nunziata
«In Albania la battaglia politica si combatte su due fronti: i deputati della sinistra proteggono l’opposizione (il partito socialista guidato da Edi Rama) e quelli di destra appoggiano la maggioranza (partito democratico di Sali Berisha). E si crea una situazione di caos perché in non c’è intesa tra i due schieramenti», dice Kreshnik Spahiu
ROMA. Nell’ambito del progetto di gemellaggio tra l´Alto Consiglio superiore di Giustizia albanese (Kld) e il Consiglio superiore della Magistratura italiano, il Vice Presidente del Kld, l’avvocato Kreshnik Spahiu, in visita in Italia (un viaggio che anticipa quello ufficiale di metà luglio durante il quale incontrerà il suo omologo vice-presidente del CSM italiano e altri politici italiani), prima dei suoi diversi impegni istituzionali, ha parlato a liberal dei rapporti con l’Italia, di quanto sia stato importante il nostro paese per il processo di ricostituzione dell’Albania. E della recente bocciatura, da parte del’Unione Europea, della richiesta del suo paese di entrare a far parte dell’Ue. A causa della crisi politica interna e della rivolta popolare per le elezioni amministrative di maggio, Bruxelles ha respinto per la terza volta la candidatura dell’Albania all’ingresso nell’Ue: qual è il motivo secondo lei? Erano 12 i criteri, le priorità identificate dalla Commissione Ue, individuate lo scorso novembre che l’Albania doveva rispettare per candidarsi come paese dell’Ue. Oltre alle rivolte, sul rifiuto ha pesato anche alla carenza di indipendenza e di trasparenza nel sistema giudiziario. A seguito della grave crisi politica che esiste in Albania, c’è una vera e propria barriera per l’approvazione delle riforme. Abbiamo molte leggi a carattere costituzionale in discussione che necessitano dei 3/5 delle votazioni in Parlamento che è impossibile raggiungere per l’evidente dissenso politico che esiste tra i due schieramenti. Negli ultimi due anni non c’è stato mai un consenso politico e non sono mai state emanate legge in favore della giustizia. E questo ha portato ad una vera crisi politica. È intervenuta anche Catherine Ashton, che ha espresso preoccupazione per le vittime degli ultimi mesi, sottolineando come“gli scontri tra i sostenitori dell’opposizione
e la polizia «dimostrano tutta la fragilità della situazione politica» in Albania. E chiede una soluzione rapida e pacifica. È possibile? In Albania la battaglia politica si combatte su due fronti: gli eurodeputati della sinistra proteggono l’opposizione (il partito socialista guidato da Edi Rama) e quelli di destra appoggiano la maggioranza (partito democratico guidato da Sali Berisha). E si crea una situazione di caos perché in Parlamento non c’è intesa tra i due schieramenti. Io sono molto scettico per questo aspetto, perché credo che molti nostri delegati a Bruxelles invece di fare gli interessi del paese e quindi lavorare per raggiungere gli standard richiesti dall’Ue, si adoperano
al contrario in direzione opposta per seguire gli interessi del loro partito. L’Ue e anche la società civile albanese chiedono una riforma elettorale: secondo lei è realizzabile in breve tempo? Una riforma del sistema elettorale albanese sarebbe in effetti molto importante, ma al momento non ho fiducia che venga realizzata, per due ragioni. Intanto non c’è un consenso politico in Parlamento per approvare le leggi, perché per questa materia bisognerebbe cambiare anche la Costituzione e poi perché le raccomandazioni di Bruxelles in questa materia non sono molto chiare. Sicuramente nella riforma elettorale sarebbe necessario inserire la votazione
elettronica, perché in Parlamento non c’è una volontà oggi di fare i conteggi dei voti in modo corretto e nei tempi giusti. Abbiamo rilevato che negli ultimi 20 anni tutte le decisioni sono state eccepite e ci sono stati ricorsi in Tribunale: è per questo che si rende necessario l’intervento del supporto elettronico che può garantire trasparenza ed efficienza. Il computer è sicuramente più difficile da manipolare. A proposito di democrazia, arrivano notizie in merito ad un possibile tentativo di colpo di stato (lo ha affermato il Premier Berisha): che cosa sta succedendo? Questa è una inchiesta aperta, esiste una commissione composta anche da
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Arabia Saudita, infranto il divieto le donne si mettono al volante RIAD. Rispondendo al tam tam lanciato sui social network da “Women2drive”, si sono messe alla guida dell’auto per andare al supermercato o accompagnare i figli a scuola, dando vita alla prima manifestazione ufficiale dal 1991. Ieri, all’alba, la prima donna a salire in macchina e a guidare è stata una cittadina di Riad, capitale del Regno. Ha messo su YouTube il filmato che la ritrae mentre, in una città semivuota, si dirige al supermercato. Indossava un niqab, un velo nero che lascia scoperti solo i suoi occhi. Il nome indicato è 2Nassaf. Per il venerdì della guida, teso a rivendicare la possibilità di usare l’auto da parte delle donne, ognuna ha svolto la propria vita quotidiana, usando la macchina. Molti uomini, tra cui scrittori e intellettuali, si sono schierati al fianco della battaglia femminile. Altri però hanno organizzato siti e blog in cui invitano, in nome di un
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
Islam ultraortodosso, a bloccare la protesta delle donne, anche ricorrendo alla violenza fisica. La battaglia, che per ora non sembra essere scoppiata per le strade, infuria invece sui social network. Gli integralisti sembrano privilegiare twitter, dove non mettono i loro volti, ma si nascondono dietro l’icona a forma di uovo. Per questo sono stati chiamati per scherno dagli avversari i «saudieggs», le uova saudite.
Il leader dell’opposione albanese, Edi Rama e quello della maggioranza, Sali Berisha
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
stranieri che sta indagando e la Procura non si è ancora pronunciata al riguardo, per cui per motivi di segretezza dobbiamo mantenere il riserbo. Ma questo scontento della popolazione, ampiamente dimostrato in questi mesi, a cosa è dovuto? La prima cosa che chiede la società civile è l’integrazione europea. E il mondo della politica, invece, va in direzione opposta e questo e un male per il Paese. Il popolo vorrebbe la depurazione della politica dalle istituzioni albanesi, anche perché i politici entrano nelle case tutto il giorno tramite la televisione e i giornali. I media invadono letteralmente le nostre case: siamo 4 milioni di abitanti e abbiamo 85 canali televisivi. E più di 30 quotidiani, che dedicano il 95% degli spazi alla politica. Anche i magistrati a volte hanno paura di fare inchieste sui politici, perché la classe politica è appoggiata dai mass media, che da noi costituiscono un vero e proprio potere. Una parte della società civile, in particolare i giovani, che ha più consapevolezza dei valori europei, che comunica attraverso blog e social network, si sta uniformando al processo di globalizzazione che sta contagiando tutto il mondo. È condivisibile quest’analisi? In Albania il numero degli studenti che studia nel proprio paese è uguale al numero di quelli che studiano all’estero. La mentalità è cambiata moltissimo, in
«Il popolo vorrebbe togliere i partiti dalle istituzioni, anche perché la televisione e i giornali sono pieni solo di politici» questi ultimi dieci anni, molti dei giovani e anche moltissimi magistrati e molti loro assistenti hanno studiato all’estero. Ormai il 100% parla l’inglese e con l’uso di internet e lo scambio di notizie, l’interculturalità e la globalizzazione sono ormai arrivate anche da noi. E questo aspetto è presente anche nel mondo della giustizia, che ha accorciato le distanze con gli altri paesi. Crede che il vento della primavera araba possa arrivare anche da voi? Credo che il fermento rivoluzionario in questi paesi, oltre alla spinta popolare interna sia stata sostenuto anche da un appoggio esterno, che ha reso possibile la rivolta popolare. Io dubito fortemente che in Albania ci siano tutti e due gli elementi. Credo che, oggi, Bruxelles sia più interessata alla stabilità politica interna
di questo paese che al raggiungimento reale della democrazia. Lei è stato uno degli artefici della strategia contro la corruzione e per la sicurezza interna del paese: quali progressi ci sono stati in questi ultimi anni? In Albania esistono due problemi: il primo è la forte corruzione in tutto il paese e il secondo è quello nell’ambito della magistratura. In ambito nazionale questo fenomeno sembra oggi essersi ridotto, mentre è nettamente aumentato nei finanziamenti dei partiti politici, nella Procura e nei settori a regime privato. Questo è particolarmente grave da noi perché i magistrati godono dell’immunità, come i parlamentari, e quindi non possono essere indagati. La Procura non può intervenire, se non viene abolita l’immunità. Noi, il Consiglio superiore di Giustizia albanese (Kld), però, quando la Procura ci chiede l’assenso a procedere diamo sempre il nulla osta. Quanto sono importanti i rapporti tra l’Italia e l’Albania per il processo di ricostruzione del suo paese? Tra Albania e Italia ci sono stati dei rapporti bilaterali, sia interscambi politici sia commerciali, ma quello che interessa di più i nostri magistrati, in questo momento, è il collegamento istituzionale tra i nostri due paesi. Il nostro Consiglio superiore di Giustizia albanese (Kld) è stato per cinque anni gemellato con il CSM italiano. C’è stata una collaborazione diretta dei magistrati italiani.
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il personaggio della settimana Nato a Roma nel 1965, il suo exploit arrivò nel 1991 grazie alla trasmissione «Avanzi»
Il mattatore libero Dopo oltre vent’anni di brillante carriera, Corrado Guzzanti è ancora capace di stupire, innovare, divertire e, prima ancora, divertirsi. Ben alla larga dal cliché del comico alla Grillo di Marco Scotti entronato Corrado Guzzanti! La sua rentrée in televisione, seppur su un canale satellitare e, di conseguenza, con un bacino d’utenza più ridotto, va salutato con entusiasmo. E il fatto che Aniene (questo il nome della nuova trasmissione di Guzzanti) abbia riscosso un grandissimo successo sia in termini di audience sia su internet, è un risultato che ci rende un po’ più felici. Diciamolo subito, senza possibilità alcuna di essere fraintesi: a nostro modesto giudizio, Corrado Guzzanti è un genio. Di quelli come ne esistono pochi, capace di dare un’impronta completamente diversa alla satira italiana come non succedeva dai tempi di Alighiero Noschese. Dopo oltre vent’anni di attività comica - prima come autore di testi per la sorella Sabina, poi in prima persona con il suo caravanserraglio di personaggi italianissimi e per questo ancora più riusciti - Guzzanti è ancora capace di stupire, di innovare, di divertire e, prima ancora, di divertirsi. Tenendo le distanze dal cliché del comico alla Grillo che impiega la propria popolarità come vettore di populismo e di propaganda un po’ becera.
B
Corrado è un genio anche per questo, perché ha sempre saputo ritagliarsi un ruolo di alterità anche rispetto alla sorella Sabina - con la quale, forse non per caso, intrattiene rapporti molto formali - tenendosi lontano da tessere e partiti e continuando a fare, con una libertà difficile da trovare in televisione, ciò che gli riesce meglio: far ridere. Ha scelto scientemente di non aderire al cosiddetto “partito dei comici” che hanno scambiato la propria notorietà per possibilità di influenzare la vita politica italiana. Non abbiamo mai visto Guzzanti, a differenza della sorella, rivolgere insulti triviali a personaggi politici. Eppure è chiaro a tutti come la possa pensare, soprattutto su certi temi. Ciononostante, ha preferito ritagliarsi un osservatorio privilegiato piuttosto che scendere nell’arena, dove, ine-
vitabilmente, bisogna sacrificare la propria comicità sull’altare del populismo. I suoi personaggi, mai banali o volgari, hanno sempre rappresentato uno spaccato d’Italia, sia quando erano inventati direttamente da Guzzanti, sia, a maggior ragione, quando erano imitazioni di personaggi famosi. Il talento del comico romano nell’impersonare politici e altri personaggi di spicco appare lampante fin dal 1991, con la prima edizione di Avanzi, un gioiellino di cui si sente una nostalgia crescente, soprattutto ora che i cosiddetti talk show hanno invaso i palinsesti insieme ai reality. Ed è francamente un autentico delitto che un’inventiva così fine sia stata allontanata da ormai quasi un decennio dalla tv pubblica. Perché uno come Guzzanti, con la sua immaginifica abilità di rappresentare la realtà, è un patrimonio che il tubo catodico (chiamiamolo ancora, con un pizzico di nostalgia, così) non può permettersi di perdere.
Per capire il gusto genuino per la satira e la sua capacità di tratteggiare la realtà con un pizzico di pungente sarcasmo, possiamo andare a rileggere il rap con cui Guzzanti, interpretando Giovanni Minoli al timone della fortunatissima trasmissione Mixer, si presentava ai microfoni di Avanzi. Uno spaccato non soltanto del modo di fare televisione di allora ma anche di ciò che sarebbe diventata di lì a poco l’offerta dei canali, propensi a proporre sciacallaggi e nudità piuttosto che reale approfondimento. Una sorta di profezia di quanto stava per accadere, con i delitti di Cogne, di Avetrana e tanti altri divenuti momento di spettacolo e di intrattenimento, anche a costo di addentrarsi senza pudore nella sofferenza dei familiari. «Dolore fisico, dolore fisico, dolore fisico. Il caso Moby Prince, o come si pronuncia, i marinai che ardono aspettando una lancia. Ecco un’altra Ustica di cui nessuno parla, io voglio un’altra Ustica per intervistarla. C’è molto più dolore in quegli uomini lessi di quanto Lio Beghin abbia insegnato a quei fessi. Le scelte sono tante, ognuno fa le sue, il mostro di Milwaukee e il mostro di Rai Due. Essere o non essere, questo è il problema, badate di non esser mai a cena con D’Alema; c’è una ragion per vivere e una per morire, ma nel secondo caso mi dovete avvertire.Tutto quello che non vi hanno detto, tutto quello che non vi
hanno fatto, noi ve lo diciamo, noi ve lo facciamo, che splendidi dettagli dentro al corpo umano. Poi l’unico superstite che sia sopravvissuto, la madre è paralitica, il padre sordomuto. Pozzanghere di sangue sul letto e sulle mura, pezzi di cervello in mezzo alla verdura. E poi ancora i cani e i gatti spiaccicati, scollati dall’asfalto saranno intervistati. La tv di servizio vi toglie lo sfizio, la tv del dolore fa bene all’amore. Ma che ne so? Cosa mi prende? È un’euforia! No non togliete quelle bende. Vogliamo vedere, vogliamo sapere qualche cosa di più. Signore dacci sempre sangue in tv». In un’altra occasione il Minoli che non si fermava di fronte a nulla era pronto a intervistare un orecchio, unico organo superstite di un uomo fatto a pezzi. E allora, ripercorriamo insieme la carriera di questo gigante della comicità. Nato a Roma nel 1965, Corrado Guzzanti esordisce come autore di testi prima per la sorella Sabina e poi, dal 1988, per alcuni programmi di culto come L’araba fenice di Antonio Ricci e La tv delle ragazze. Nel 1989 viene chiamato da Serena Dandini nella trasmissione Scusate l’interruzione dove fa il suo esordio uno dei personaggi più famosi di Guzzanti: Rokko Smithersons, regista di film horror e critico cinematografico a tempo perduto. Nel febbraio del 1991 va in onda la prima puntata di Avanzi e Guzzanti passa in breve tempo dal ruolo di comparsa a quello di protagonista: rimangono memorabili le interviste della Dandini a Smithersons sul divano muccato, con la conduttrice che non riusciva a trattenere le risate. La trasmissione funziona bene e, anche grazie alla travagliata situazione politica (siamo i piena Tangentopoli) continua a permettere a Guzzanti di aguzzare il proprio ingegno: qui infatti vedremo per la prima volta interpretare Sgarbi e Minoli, cui seguirà anche l’ignorantissimo Lorenzo, lo studente svogliato che a pochi giorni dalla maturità viene interrogato dalla Dandini.
A mano a mano che il tempo passa e le trasmissioni si alternano, la vena creativa di Guzzanti si fa sempre più fervida, portandolo a creare, tra Tunnel, il Pippo Kennedy Show e L’ottavo nano la parodia di Antonello Venditti, Francesco Rutelli («Silvio, ricordati degli amici, ricordati di chi ti ha voluto bene»), Romano Prodi, Umberto Bossi, Antonio Di Pietro, Emilio Fede, Fausto Bertinotti - di cui rimane celeberrimo «abbiamo volu-
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A sinistra, Corrado Guzzanti. A fianco, il comico romano duetta simpaticamente insieme con l’artista Antonello Venditti. In basso, uno scatto di Guzzanti durante il suo programma “Aniene”, attualmente in onda su Sky
to fare uno scherzo» riferito alle continue spallate che Rifondazione assestò al primo governo Prodi fino a provocarne la caduta -, Gabriele La Porta, Gianfranco Funari («Damme ‘a due» o «La mortadella fina fina che se squaja»), Giulio Tremonti e molti altri. Ma sono tantissimi anche i personaggi che Guzzanti inventa di sana pianta: il poeta Brunello Robertetti («Ora dic un poesia»), l’improbabile televenditore di quadri Dottor Armà, il massone - che è stato riproposto nell’ultima trasmissione,
zanti, complice anche il crescente ostracismo che la tv di stato riserva alla satira di qualità, reinventa la propria creatività, portando alla ribalta, nella trasmissione ingiustamente sottovalutata Il caso Scafroglia, il gerarca fascista Barbagli, che insieme ai suoi scherani, si lancia alla conquista di Marte, il “pianeta rosso”.
Il caso Scafroglia chiude i battenti nel 2003 e Guzzanti non riesce più a trovare una sua sistemazione all’inter-
no sullo schermo, su Sky, con la trasmissione Aniene in cui vengono riproposti alcuni dei suoi cavalli di battaglia. Il successo di pubblico è incredibile, tanto che alcuni suoi sketch divengono immediatamente i più visti sul sito Youtube. L’idea però che un comico straordinario, libero da qualsiasi tipo di condizionamento ideologico, che applica la par condicio nel senso più sano del termine, cioè assestando fendenti a destra e a sinistra senza preoccuparsi di essere
Si è sempre tenuto lontano da tessere e partiti, continuando a fare solo ciò che gli riesce meglio: far ridere Aniene, quasi come una profezia di quanto stava per avvenire con l’arresto di Bisignani e la nuova inchiesta della magistratura sulla loggia massonica P4 -, Quelo, padre di famiglia foggiano che cercava di spacciarsi per profeta («La seconda che hai detto») e il telepredicatore Snack, in compagnia di Marina Massironi.
Senza dimenticare il meraviglioso personaggio di Vulvia, annunciatrice dell’improbabile canale Rieducational Channel. Negli anni 2000 Corrado Guz-
no dei palinsesti, limitandosi a ospitate in alcune trasmissioni come Parla con me, condotto da Serena Dandini. Nel frattempo Fascisti su Marte diventa un film che ottiene anche un discreto riscontro di pubblico e di critica. Celeberrima rimane la sua apparizione a Parla con me con l’imitazione dell’ex direttore generale della Rai Mauro Masi, sulla falsa riga della telefonata che lo stesso Masi - quello vero - aveva fatto durante la trasmissione di Santoro Annozero. Nel 2011 un nuovo ritor-
scomodo, sia confinato su un canale satellitare, lascia un po’ di amaro in bocca. Perché Sky è una piattaforma importantissima, ma è al tempo stesso elitaria per definizione: non tutti vi hanno accesso e non tutti sono, di conseguenza, possibili fruitori dei prodotti - che, come nel caso di Guzzanti, sono spesso di alto livello - offerti dalla tv privata.
Ecco, la Rai che non ci piace è quella che preferisce dare spazio ai reality show più volgari e scontati piuttosto
Da «L’araba fenice» ad «Aniene» Nato a Roma nel 1965, Corrado Guzzanti esordisce come autore di testi prima per la sorella Sabina e poi, dal 1988, per alcuni programmi di culto come L’araba fenice di Antonio Ricci e La tv delle ragazze. Nel 1989 viene chiamato da Serena Dandini nella trasmissione Scusate l’interruzione dove fa il suo esordio uno dei personaggi più famosi di Guzzanti: Rokko Smithersons, regista di film horror e critico cinematografico a tempo perduto. Nel febbraio del 1991 va in onda la prima puntata di Avanzi e Guzzanti passa in breve tempo dal ruolo di comparsa a quello di protagonista. A mano a mano che il tempo passa e le trasmissioni si alternano, la vena creativa di Guzzanti si fa sempre più fervida, portandolo a creare, tra Tunnel, il Pippo Kennedy Show e L’ottavo nano la parodia di diversi protagonisti della politica. Negli anni 2000 è in tv con Il caso Scafroglia che chiude i battenti nel 2003, e Guzzanti non riesce più a trovare una sua sistemazione all’interno dei palinsesti. Oggi un nuovo ritorno sullo schermo, su Sky, con la trasmissione Aniene in cui vengono riproposti alcuni dei suoi cavalli di battaglia.
che trovare una collocazione a un Guzzanti; è la televisione che, figlia della lottizzazione, non è capace di produrre contenuti di qualità ma sa soltanto perdersi dietro alle famigerate nomine. Corrado Guzzanti, che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è servo solo di se stesso, farebbe gran comodo alla tv pubblica e avrebbe anche una funzione catartica: permetterebbe agli italiani, ridendo, di focalizzarsi sulle brutture della propria classe dirigente, acquisendo la consapevolezza che un cambiamento è non solo auspicabile ma anche necessario.
L’idea che uno come Guzzanti sia fuori dalla tv generalista ci permette anche di capire quanto ampio sia il solco che ci separa dalla cultura di altri paesi, soprattutto quelli anglosassoni, che hanno una tradizione di satira in prime time ormai più che decennale. E il fatto che personaggi dissacranti come David Letterman o Jay Leno compaiano da anni sulle principali reti statunitensi non fa degli Stati Uniti un paese più schierato politicamente o che tutela meno la propria classe dirigente; anzi, al contrario, rende la tv americana più concorrenziale, perché dà voce a chiunque lo meriti, con il conseguente e inevitabile innalzamento della qualità. Una speranza per questa estate che sta per iniziare è che porti consiglio a tutti i capistruttura e li convinca che una tv senza la satira di qualità, o senza l’intrattenimento di qualità, sarà forse anche più “facile” da controllare. Impedendo che si verifichino incidenti diplomatici con questa o quella parte politica, ma è senz’altro una televisione più povera, più grigia e meno interessante. Indipendentemente da come uno la pensi.