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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 25 GIUGNO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

Lo spettacolo offerto dalla nostra classe dirigente ha raggiunto un livello di mediocrità impensabile

La rivincita di Alberto Sordi Berlusconi, Di Pietro, Bisignani: l’arte di arrangiarsi è ormai al potere Anche Bossi con la commedia dei ministeri. Anche Bini Smaghi che vuole “in cambio” Bankitalia. Anche ministri e affini in cerca di favori. L’Italietta dei “cummenda” di Albertone ora ci governa I TAGLI DI VIA XX SETTEMBRE

Gli auguri di Napolitano al Governatore

Ma la risposta, caro Tremonti, non può essere l’antipolitica

Draghi alla Bce. Banche e borse tremano per Moody’s

di Giancristiano Desiderio

di Enrico Singer iulio Tremonti è il contrario dell’antipolitica, ma con il suo provvedimento sui tagli dei costi della politica ha deciso di scendere sul piano dell’antipolitica. Ci sono delle cose in questi 7 articoli della “scure”che sono sacrosante. a pagina 4

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Il sociologo Ugo Volli: c’è anche un po’ di reality

Ancora caos a Napoli: ieri l’ennesima rivolta

«Borghesi piccoli piccoli, La nostra nuova metafora? privi di senso del ridicolo» È la monnezza permanente di Gualtiero Lami

di Errico Novi

iamo fermi lì, a Sordi: «Alla commedia all’italiana, potremmo dire persino alla commedia dell’arte. Balanzone e Arlecchino sono fra noi». Ugo Volli approva in pieno il richiamo che abbiamo voluto fare all’albertone nazionale.

ediamo se esce un buco a Macchia Soprana. Ma no, riproviamoci a Caivano, dove saranno pure asfissiati da decenni di discariche, ma una più o una meno. E così via. Da anni. Da almeno qualche anno prima del 2008, certo.

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Cortocircuito tra Costituzione formale e materiale

Su tutte l’idea di aver già vinto: un tragico errore

La Seconda Repubblica è rimasta senza “popolo”

Attento Pd, anche tu sei pieno di “complessi”

di Francesco D’Onofrio

di Enrico Cisnetto

l recentissimo dibattito parlamentare sollecitato dal Capo dello Stato ha posto in evidenza una sorta di “strabismo costituzionale”: da un lato, infatti, il governo appare sostanzialmente confermato nella sua legittimità costituzionale

ta’ a vedere che ci tocca dare ragione a Di Pietro. No, non è l’effetto della calura, ma è un dato di fatto che l’atteggiamento del leader dell’Idv, soprattutto dopo i referendum, sia diventato più maturo e responsabile.

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

i potrebbe dire che tutto è bene quello che finisce bene. Perché dal vertice della Ue, dopo tante, troppe tensioni, è arrivata la nomina all’unanimità di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea e perché anche la Grecia – se il suo Parlamento approverà il piano di austerità del governo Papandreou – riceverà tra pochi giorni i 12 miliardi di euro che le servono nell’immediato per scongiurare la bancarotta e che sono l’antipasto di un nuovo maxiprestito da definire entro l’estate. Ma, in realtà, c’è poco da rallegrarsi. Nonostante l’happy end, i due giorni di trattative nel palazzo del Consiglio a Bruxelles, con le Via libera parentesi più o agli aiuti meno segrete negli alberghi dei economici leader e nell’uffi- per la Grecia: cio privato del 12 miliardi presidente Herentro poche man Van Rompuy, hanno rivelato per settimane l’ennesima volta la fragilità di un’Unione che è minata dai personalismi e dalla difesa a oltranza dei propri interessi. Nazionali e, addirittura, di partito. Certo, l’investitura di Draghi alla guida della Bce dal primo novembre – quando scadrà il mandato dell’attuale presidente, Jean-Claude Trichet – è un evento di straordinaria importanza che supera qualsiasi polemica e premia le qualità di un banchiere che tutta l’Europa ci invidia e che prenderà il timone dell’Eurotower di Francoforte in un momento difficile e con un compito molto gravoso.

I QUADERNI)

• ANNO XVI •

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NUMERO

122 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

a pagina 8 IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


la rivincita di sordi

pagina 2 • 25 giugno 2011

Il Paese sembra ormai in mano a una compagnia di giro che sembra uscita dalla sceneggiatura di una farsa tutta italiana

La commedia al potere

Ecco come una galleria di personaggi che ha fatto dell’arrangiarsi la propria unica cultura politica è diventata classe dirigente di Riccardo Paradisi a che siamo in un film d’Alberto Sordi?!» urlava Nanni Moretti all’avventore d’un bar dopo aver ascoltato una serie di sciatti luoghi comuni sull’Italia e gli italiani. Be’ insomma, al netto d’un certo snobismo indignato da azionismo all’amatriciana viene effettivamente da chiederselo assistendo ai galleggiamenti di Silvio Berlusconi ridotto a fare il Mangiafoco d’una maggioranza in decomposizio-

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ne; contemplando attoniti le metamorfosi di Antonio Di Pietro, divenuto qualche ora fa un cattolico moderato; leggendo le conversazioni di Luigi Bisignani con un mondo politico a confronto del quale il borghese piccolo piccolo di Alberto Sordi assume la statura d’un gigante; ascoltando i tremendismi stanchi di Bossi che per il nord chiede ormai ministeri; osservando l’ostinata resistenza di Bini Smaghi che sarebbe anche disposto ad andarsene dalla Bce però, fa sapere, in cambio d’un posto alla Banca d’Italia; per non parlare naturalmente dei responsabili: il realismo alle vongole del tengo famiglia. Insomma l’Italia che s’arrangia, che si fa prima di tutto gli affari suoi, che le regole le aggira perchè sono

per i fessi, perché poi tanto c’è lo stellone che pensa per tutti e perché noi italiani siamo i più furbi e alla fine ce la siamo sempre cavata.

Berlusconi, galleggiare necesse Era sceso in campo in nome della rivoluzione liberale dichiarando guerra al teatrino della politica, promettendo un nuovo miracolo economico, tempi rapidi nella decisione, rescissione da lacci e lacciuoli…Una storia italiana s’intitolava il libro spedito a milioni di italiani in una delle sue prima campagne elettorali. Un titolo che somiglia molto a quello con cui Alberto Sordi ha voluto titolare la sua saga: Storia di un italiano. L’esito del berlusconismo in italia è in effetti una declinazione brianzola del sordismo nazionale. Un decisionismo di cui è rimasta solo la scorza, una politica divenuta compromesso continuo, estenuata ricomposizione di alleanze che si frantumano, di rapporti personali che si guastano, e intanto e però continuando a recitar barzellette e intrattenendo magari il premier israeliano sul bunga bunga che sarebbe dipinto in una riproduzione del quadro di Andrea Appiani che raffigura il Parnaso: «Quello al centro, il suonatore seminudo è Apicella». Una mentalità guascona trasversale che ritrovi anche nell’assessore al turismo d’un centro balneare della rossa Romagna e che ha generato napoleonismi borghesi anche in quell’opposizione che non sfuggendo al carattere nazionale del sordismoberlusconiano ha introiettato per contrapposizione i suoi tic e le sue pose.

Di Pietro, Da toga toga alla Coldiretti Si diceva dell’ovidiana metamorfosi improvvisa di Antonio Di Pietro. E del resto cosa potrebbe fare nella vita senza Silvio Berlusconi l’ex poliziotto ed ex Pm Antonio Di Pietro? È

tempo di cambiar maschera per l’ex pm che sobriamente, nella sua precedente vita da populista, aveva paragonato il presidente del consiglio a Videla e ad Adolf Hitler. Per lui ora è il Pd ad essere un partito velleitario ed estremista: «Lascio volentieri a loro la piazza, per noi è ora di crescere». Follini, che è un uomo razionale, si domanda se Di Pietro non abbia per caso perduto l’equilibrio, non sia scivolato da un eccesso all’altro. Si rassicuri Follini: si tratta solo di inversione a U. E del resto se fino a ieri il leader dell’Idv escludeva di candidarsi alle primarie e si diceva anzi disponibile a sostenere Bersani, oggi annuncia il contrario: «Visto che non succede nulla, sai qual è la novità? Mi candido pure io alle primarie così dovremo parlare dei programmi dell’Idv». Infine, siccome tutti salmi finiscono in gloria, l’impennata retorica. Perché la commedia all’italiana alterna il comico e il drammatico con la naturalezza della vita: «Mio padre aveva in tasca due tessere: quella della Coldiretti e quella della Dc. Io vengo da lì, dai cattolici, dai moderati. Non sono un uomo di sinistra. Ho studiato in seminario».

Bisignani, piange il telefono Mai stato massone garantisce Luigi Bisignani, il grande orecchio della politica italiana. E sarà anche vero. Al limite uno come Bisignani te lo immagini in una parainiziazione col Fernet Branca come nella loggia del borghese piccolo piccolo di Sordi. Riti fittizi utili a far sentire una compagnia di compari un’elite d’iniziati. E d’altra parte dal confronto con i suoi interlocutori politici Bisignani sembra il conte Cagliostro per educazione e diplomazia a parte quella scivolata su un ministro in carica: «Una mignotta come pochi». Del resto questo raffinato lobbista, come è stato chiamato, arrivano telefonate da esponenti di governo, figure di spicco delle istituzioni del ti-


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Tutti a scuola dal professor Tersilli Dal medico della mutua al Marchese del Grillo, tutte le analogie con l’Italia di oggi ROMA. Lui è lui. Ma non è vero che noi non siamo niente. Prima siamo stati lo specchio in cui ha imparato a mimarci. Durante, lungo una carriera cinematografica irripetibile, ci ha presi a braccetto e ci ha fatto diventare macchiette. Ma oggi, famosi nel mondo, compiaciuti da tanta nomea, noi ne siamo la caricatura. Raffinata, parodica, o a volte soltanto ridicola. Noi italiani siamo figli degeneri di Alberto Sordi, insomma. Ostaggi felici, talvolta inconsapevoli, dei suoi personaggi.

Simile a Onofrio del Grillo, è ad esempio Luigi Bisignani. Soffre mortalmente il sistema di vincoli, di convenzioni, di dogmi arcaici e di libertà limitate del Paese. Ma come il nobile papalino non lo combatte perché ansioso di un mutamento: lo aggira da reazionario. Fa lobby per comodo, proprio ed altrui, ma a differenza del Marchese si riserva certe spavalderie («nà stronza, nà mignotta come poche») per le chiacchiere telefoniche. Come del Grillo, ama ordire scherzetti ai suoi nemici (dossier, intervistone, delazioni), ma non disdegna i poveri carbonari, ai quali spesso intesta le schede telefoniche che usa. Rispetto al mentore talia se l’aspetterebbe in cambio di questo gesto. po: «a quell’imbecille lo facciamo fuori in tre minuti», oppure «Quello è solo uno stronzo», o anche miserie del tipo: «Hai parlato bene di me con lui?» (da un generale!)...e Bisignani lì a cucire, ricomporre, secondare. Una vita difficile la sua. E in fondo è la quintessenza dell’Italia che s’arrangia con gli espedienti. Il suo il telefono azzurro d’un ceto politico impiegatizio che sembra chiamare dal tinello di casa. Almeno Giulio Andreotti che di Alberto Sordi era amico e quest’italia ordinaria incarnava e rappresentava, non faceva l’americano a Roma e tutto ingentiliva con l’autoironia e la cultura.

Bini Smaghi, ’ca nisciuno è fesso Uno che proviene dai magnanimi lombi dell’aristocrazia venale toscana te lo immagini duro e sprezzante quasi come un signore del Rinascimento. E t’aspetti che così s’esprima con chi di dovere: «Non mi volete più alla Bce perché deve sostituirmi un francese per favorire la composizione del gioco a incastro sulla nomina di Draghi? Mi fate capire che me ne devo andare? Me ne vado con le mie gambe e senza una parola». Noblesse oblige. Macchè. Bini Smaghi a chi gli chiedeva la cortesia di togliersi dai piedi, di fare un passo indietro ha risposto con un silenzio più esplicito d’un manico, e inchiodandosi alla poltrona. Poi ha mandato a dire che lui dalla Bce potrebbe pure andarsene ma insomma il governatorato della Banca d’I-

Bossi, Padania ministeriale Come Nanni Moretti anche loro, i leghisti, non l’hanno mai potuto vedere nemmeno in televisione Alberto Sordi, tanto meno lì, a romanizzare l’Italia e pubblicizzare il prototipo del generone capitolino, che come l’erba cattiva non muore mai. Chi l’avrebbe mai detto che sbarcati a Roma - la grande Babilonia — i leghisti sarebbero diventati anche loro romani. Di più, che un giorno avrebbero chiesto di trasferire Roma al nord, portando su i ministeri che dell’urbe sono la cifra più netta. Eppure da Pontida, dalla sacra spianata dei padani, da cui doveva levarsi l’urlo della rivolta, son proprio i ministeri che Bossi ha chiesto al governo.

Ma l’Italia di Albertone era migliore Ma è giusto dire che questa è l’Italia di Alberto Sordi? Che, come diceva Moretti, alla fine ce lo meritavamo così tanto Alberto Sordi da risvegliarci in un Italia plasmata ad immagine e somiglianza delle sue maschere? O non è fare un torto ad Albertone? Per certa cultura giudicante “quest’Italia che non ci piace” Alberto Sordi sarebbe stato solo la plastica incarnazione del qualunquismo nazionale, del suo moderatismo beffardo e compromissorio, il sim-

sordiano, non getta monete arroventate dal Palazzo. I soldi che scottano, lui preferisce non sprecarli. Sor Luigi è l’Onofrio del Grillo che si sente finalmente libero grazie al falso pudore della privacy. Le intercettazioni hanno dunque dato voce a quello che era il più conosciuto degli sconosciuti. Bisignani è il Marchese del Trillo. Molto illuminante anche un altro personaggio di Sordi: il professor dottor Guido Tersilli. Che ha una storia

Rispetto al marchese, Bisignani non getta monete roventi dal Palazzo. I soldi che scottano, preferisce non sprecarli molto simile a quella del nostro premier. Invece di inseguire i mutuati, neolaureato, comincia a inseguire i dindini, e grazie ad alcuni stratagemmi inizia l’attività quasi come un benefattore. Lavora per gli altri con animo prodigo, e presto si ingrazia un importante primario. Socialista, ma pur sempre potente. Grazie a lui, cominciano ad arrivargli parecchi mutuati, e autorizzazioni per mantenere quelli che ha già grazie ad apposite leggi. Ricorre ad ogni maneggio pur di strappare i legittimi mutuati ai loro medici. Ne ha moltissimi anche off-shore. E siccome

bolo vivente e la maschera eterna dell’italiano medio. E d’altronde dagli eroi per caso de La grande guerra al tenente Innocenzi di Tutti a casa – “Signor colonnello accade una cosa incredibile: i tedeschi si sono alleati con gli americani”- dalla Vita difficile del dopoguerra all’esistenzialismo elementare de I vitelloni; dagli spregiudicati di Finchè c’è guerra c’è speranza e di In viaggio con papà al provincialismo di Riusciranno i nostri eroi… sono effettivamente le maschere dell’Italia nazionalpopolare ad avvicendarsi sulla scena come in un caleidoscopio tricolore. Ma l’Italia di Sordi era anche cosciente dei suoi difetti, di essi quasi compiaciuta ma anche cinicamente consapevole, assieme a un pubblico che s’è sempre specchiato nei suoi film, che è proprio questa aurea mediocritas, questo mix di temperanza cattolica e di moderatismo politico, questo combinato disposto di buon senso e di vocazione al compromesso a fare del nostro Paese quello che in fondo è sempre stato e non l’astrazione di quello che avrebbe potuto diventare grazie a qualche ortopedia dell’anima che qui da noi non ha mai avuto patria. Sicché non avremo una grande etica pubblica e ci mancherà anche il rigorismo morale e il puritanesimo sessuale ma insomma ci siamo anche risparmiati il terrore giacobino e il nazismo hitlerita per limitarsi a due esem-

l’Italia è il Paese che ama, decide di diventare primario dei primari, e di curarla a modo suo. Oggi gestisce un immenso ospedale, ma sotto di lui sono proliferati tanti piccoli Tersilli meno scaltri. Il finale del film è grottesco: il nostro Guido, stremato da lunghe notti di lavoro, non è più il luminare di una volta. I pazienti li visita a casa. Ispezioni veloci, mentre sorseggia un drink nella sua terrazza. Non paga più lo Stato, come ai bei tempi. Paga lui, in regime di libera concorrenza. Effetti della rivoluzione liberale.

Di Nando Mericoni, poi se ne potrebbero citare tanti. Ma Flavio Briatore è il nostro americano a Roma. Ad honorem. Nonostante un forte accento cuneese, e un diploma da geometra strappato da privatista, ci tiene a far sapere che è un uomo di mondo. Anche se lui a Cuneo non ci ha fatto nemmeno il militare. Perché è diVerzuolo, un posto che da inquieto cosmopolita ha ribattezzato “Congo”. Ha chiamato suo figlio Nathan Falco, infarcisce il piemotese fluente di continui“business”, e veste come Poncharello. A furia di dire «All right, all right», all’estero ci è stato qualche tempo. Ma i maccheroni più gustosi se li è gustati qui in Italia.Anche se qualcuno gli è andato di traverso. Non ci sono Sordi peggiori, di chi è Sor(f.l.d.) di veramente.

pi sufficienti comunque e malgrado tutto a farci tirare un sospiro di sollievo. Quando Giulio Andreotti disse che Alberto Sordi prima di morire gli aveva rivelato d’essere stato un suo elettore sapeva in realtà di non rivelare niente. Sordi non piaceva alla sinistra ma nemmeno la destra l’ha mai amato. Carlo Verdone raccontò del dispiacere di Albertone per un articolo di Marcello Veneziani il quale aveva scritto che Alberto Sordi era stato “il peggior educatore degli italiani”. La sua reazione fu di sconcerto. “Ma chi è ‘sto comunistaccio?”. “E quando gli spiegai - ricordava Verdone che veniva dal Msi, lui che in fondo era un conservatore, ci rimase malissimo...”.

Un italiano medio sicuramente. Senonchè a questo italiano medio non tutti se la son sentita di fare il processo, anzi. «L’italiano medio è quello che è e i suoi difetti cominciano a piacermi - scriveva Ennio Flaiano che pure era di casa in quel aeropago severo che era il Mondo di Pannunzio - Mi piace che sia generalmente bugiardo. Non credo che avrebbe potuto vivere in questo paese per tremila anni senza adattare la cruda verità a una ragionevole menzogna». Appunto: è un po’ difficile non essere in fondo il prodotto della propria storia. E poi è tutto da dimostrare che quella rappresentazione dell’Italia non sia stata anche catarti-

ca: «Inconsapevolmente conservatore - ha detto di lui il regista Ettore Scola - ha fatto un’opera tutt’altro che conservatrice proponendo una critica feroce a tutto quello che è perbenismo, ”sepolcrismo imbiancato” o falsa onestà”. In un recente libro intervista, pure amaro sui destini d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi ha scritto dei personaggi di Sordi che “hanno dato voce ai valori di umanità che emergono anche nelle prove più difficili. [...] come nel film La Grande Guerra dove Alberto Sordi e Vittorio Gassman diventano eroi loro malgrado, ma in modo naturalmente coraggioso, quanto basta a dare il senso di riscatto per un intero popolo”. Il problema è che questa provvidenza e questa risorsa nascosta della nazione, che sempre alla fina riscattava gli italiani, grazie a quel misto di genio e buon senso che è la loro cifra, sembra evaporata e comunque sembra non funzionare più. Gli italiani hanno cominciato a prendersi sul serio. E così oggi quest’Italia assomiglia al Paese che ha descritto con amarezza Geminello Alvi: «Un Paese che, dopo l’8 settembre e cinquant’anni di Alberto Sordi si ritrova Berlusconi. Che serve agli uni perché il loro gregge possa seguitare a odiare qualcuno. Agli altri per un voto di ripicca». E, su tutto, «un’aria greve», «un’aria densa di dispetti vanifica ogni sentire». Dove si ride amaro.


la rivincita di sordi

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Come si è creato il contesto favorevole alle maschere grottesche della nostra politica: lo spiega uno dei maggiori semiologi del Paese

Italia reality show

«Siamo sempre quelli dei film di Albertone», dice Volli, «con un tocco di Isola dei famosi che ci impedisce di distinguere tra realtà e finzione» di Gualtiero Lami

Alcune sue proposte sui costi della politica sanno di populismo

Tremonti, la risposta non è l’antipolitica di Giancristiano Desiderio iulio Tremonti è il contrario dell’antipolitica, ma con il suo provvedimento sui tagli dei costi della politica ha deciso di scendere sul piano dell’antipolitica. Intendiamoci da subito: vi sono delle cose in questi sette articoli della “scure di Tremonti” - diciamo anche i tre quarti del documento - che sono sacrosante. Il primo articolo, ad esempio, quello che riguarda il “livellamento remunerativo Italia – Europa”, vale a dire gli stipendi dei politici dai consigli comunali al Parlamento che saranno equiparati ai corrispondenti titoli europei, è giusto, sensato, rigoroso. La stessa cosa vale per gli articoli 2 e 3 su auto blu e aerei blu: ci permettiamo solo di dire che bisogna vigilare sul futuro colore delle auto e degli aerei perché a volte in Italia le cose basta colorarle diversamente per ritenerle diverse. L’articolo 4, invece, stabilisce un principio sbagliato: va bene cancellare i benefici come telefoni, auto, locali e varie ed eventuali ma perché negare anche la pensione? Chi ha svolto il suo onesto lavoro di parlamentare deve poter contare giustamente, senza arrossire, ad un vitalizio maturato nel tempo. Certo, l’entità della pensione va rivista ma con altrettanta certezza possiamo dire che non va negata. L’articolo 5 taglia i finanziamenti dal Senato della Repubblica a scendere, ma non dice a quanto am-

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monti il taglio. L’articolo 6 tocca il finanziamento pubblico ai partiti: anche in questo caso il taglio non è calcolato ma è stabilito il principio che il rimborso sarà in proporzione alla durata della legislatura. L’articolo 7 riguarda il cosiddetto “election day”: ossia quando ci sono più consultazioni elettorali in un breve lasso di tempo vanno accorpate in un solo giorno. Praticamente, è l’esatto contrario di quanto ha fatto il governo con le ultime amministrative e i referendum. Qual è il senso della legge di Tremonti? Non possiamo ritenere che la sua utilità sia nel recupero dei soldi in vista della prossima manovra finanziaria da lacrime e sangue e, ancor meno, in vista dell’ipotetica riforma fiscale. I soldi recuperati, infatti, non sarebbero tanti e non influirebbero significativamente sul risanamento dei contipubblici. Ma questo non significa che i tagli non siano giusti. Tremonti, infatti, con questa legge si presenta al Parlamento come il ministro senza macchia e senza peccato che lotta contro gli sprechi e i privilegi della casta di cui pure egli fa parte. Insomma, una sorta di smarcamento facendo il primo della classe, additando chi gli si opporrà in Parlamento come un “cattivo”. Un giochino troppo facile e fatto apposta per eccitare quell’antipolitica che non può essere la risposta ai problemi del Paese.

Tagliare senza dire quanto è troppo facile, quasi un giochino

ROMA. Siamo fermi lì. A Sordi. «Alla commedia all’italiana. Ma potremmo dire persino alla commedia dell’arte. Balanzone e Arlecchino sono fra noi». Ugo Volli, semiologo abituato a notare la sovrapposizione fra teatro e realtà, approva in pieno il richiamo all’Albertone nazionale. E ammette che sì, «siamo sempre a quel tipo di rappresentazione, alla prevalenza continua del grottesco». Ma questo da una parte «viene dalla forte complicità della stampa, mi riferisco anche ai giornali seri, che preferisce soffermarsi sul pettegolezzo e sul cotè più teatrale della politica piuttosto che sui problemi reali». Dall’altra, dice il professore di Semiotica e Filosofia della comunicazione dell’università di Torino, «è venuta meno una caratteristica che in passato almeno consentiva di distinguere i diversi registri: si nota adesso una mancanza totale di senso del ridicolo e di autoironia». Ed è questo a determinare la distorsione patologica più grave, perché appunto «non c’è più capacità di discernimento: tutti, politici e opinione pubblica, siamo così immersi in questa commedia da non essere più consapevoli del gioco. Cioè siamo davvero in un reality show permanente. In cui il personaggio alla Sordi non passa più per quello che è, cioè una figura grottesca appunto, ma è paradigma di una realtà credibile».

Ed è chiaro che in questo si legge una «responsabilità collettiva», perché «chi ancora ha la tenacia di seguire il dibattito politico, di lasciarsi coinvolgere dalle competizioni elettorali, è calato pienamente nella scenografia generale. Si comporta cioè da tifoso e non da osservatore critico». In questo naturalmente, ricorda il semiologo, «pesa la nostra vecchissima abitudine a dividerci e a fare il tifo. Ha gioco facile il personale politico a rappresentarsi gli elettori in termini caricaturali, e dunque ad assecondarne le aspettative. Che sono appunto quelle tipiche di chi guarda un reality, piuttosto che le attese di cittadini ansiosi di soluzioni ragionevoli. Chi segue lo show vuole colpi a effetto, telenovele,

aneddoti, litigi plateali. E gli vengono offerti. Anzi i leader si sentono pienamente legittimati a stare nel canovaccio della commedia dell’arte».

Perché l’altro riferimento inevitabile è alla tradizione popolare, alle maschere carnevalesche, appunto. Tutti calati in una parte, tutti impudenti nell’indossare un costume grottesco. Convinti che la civiltà mediatica imponga esattamente quel tipo di distorsione. Ecco perché l’immersione nei personaggi alla Sordi, dal dottor Terzilli al borghese piccolo piccolo, non produce alcun tipo di disagio. Perché appunto c’è un presupposto iniziale che favorisce tale degrado, ed è proprio la confusione tra Parlamento e palcoscenico. Una volta accettata l’idea che di messinscena si tratta, e che le regole a cui attenersi sono quelle dello spettacolo popolare, della risata da strappare al pubblico, della battutaccia da osteria che si sostituisce al linguaggio politico, una volta accettato questo, il resto viene da sé. Volli però è studioso, come si diceva, abituatissimo a riconoscere i tratti del ridicolo dietro i comportamenti ordinari, e tiene dunque a mettere l’attuale degenerazione in continuità con la Prima Repubblica: «Non da oggi la commedia all’italiana è un’ottima chiave per interpretare il nostro sistema politico. È così da decenni, da Saragat ad Andreotti a Craxi. A guardare indietro lo si vede con chiarezza».

un contesto che genera confusione oggettiva tra fiction e verità. «Ci vorrebbe la penna di un Fortebraccio, per smascherare le recite a soggetto». E invece anche la stampa è complice, sostiene Volli, perché si compiace di indugiare nel bozzetto, nella rappresentazione macchiettistica. O peggio ancora nel dare massimo risalto al gossip, al retroscena impregnato di debolezze umane e miserie politiche. Fino a far scomparire il dibattito sui problemi reali. Anzi, ad autorizzare, incoraggiare quasi questa rimozione.

La colpa? Verrebbe da dire che tutto nasce dalla svolta leaderistica. È l’idea che a prevalere sia sempre il carisma, l’affermazione della personalità, è quest’idea qui ad aver accelerato la trasformazione della politica in teatrino? Non è forse l’emergere delle leadership carismatiche a incoraggiare il registro teatrale e a creare quindi quella cornice in cui la cialtroneria alla Sordi diventa normale? Per il semiologo l’analisi regge fino a un certo punto. «Capisco che nella discussione politologica ci sia sia soffermati molto sul dato della personalizzazione. Elemento accolto peraltro con iniziale favore e consenso tra gli stessi studiosi, perché, si diceva, la svolta leaderistica ci metteva al passo con le altre grandi democrazie occidentali. Ma anche qui sarebbe il caso di allargare lo sguardo, in modo da accorgersi che prima non era tanto diverso. C’è sempre stata una centralità di figure come Fanfani, Togliatti, celebrati come “il capo”,“il migliore”. Adesso però è come se il circuito, la scena della politica si fosse organizzata come contesto separato dal Paese reale. Cioè abbiamo ormai un villaggetto in cui si muovono queste millecinque-

C’è sempre stata confusione tra commedia e politica, ma oggi la perdita di senso del ridicolo accentua il distacco dalla realtà

Però appunto le difficoltà attuali sono legate a una particolare forma, che è la «perdita del senso del ridicolo e dell’autoironia. Prima c’erano. Adesso questi antidoti sono clamorosamente venuti meno». Ed eccoci precipitati nel reality show. In


Dall’allarme sanitario alle rivolte di quartiere, un dramma esemplare

Ma è tra i rifiuti di Napoli il festival degli espedienti Rimedi approssimativi, emergenze infinite che diventano palestre per taumaturghi: ecco la città metafora del Paese di Errico Novi ediamo se esce un buco a Macchia Soprana. Ma no, riproviamoci a Caivano, dove saranno pure asfissiati da decenni di discariche, ma una più o una meno. E così via. Da anni. Da prima del 2008, certo. Comunque sia l’emergenza rifiuti è ormai il campo in cui la politica si cimenta più generosamente nell’arte di arrangiarsi.Tutta la politica. E Giorgio Napolitano, che giovedì sera ha rivolto un severissimo richiamo al governo perché non ignori il disastro, si vede di fatto costretto a dire: se siete capaci solo di arrangiarvi, almeno fatelo con profitto.

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Nella pagina a fianco, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e il semiologo dell’università di Torino Ugo Volli

cento persone che è una dimensione molto autoreferenziale.

E gli abitanti del villaggio, cioè i parlamentari, «non hanno molta conoscenza di quello che avviene in questo Paese», spiega Volli. Un distacco tra opinione pubblica e politici c’è, dunque? Sì, eppure una parte dell’opinione pubblica, dei cittadini, «si lascia trascinare nel gioco delle tifoserie, e quindi diventa parte organica del villaggetto». Interessante diagnosi sociologica. Utile a spiegare perché nel girone impazzito della politica teatrale e delle sue maschere grottesche «l’importante sia far parlare di sé». Ed ecco come appare chiarissima l’immagine di una stampa complice della degenerazione, «Di analisi sulla politica e sull’economia se ne vede poca, in genere soffocata dal frastuono del gossip. Riducibile alla seguente formula: chi litica con chi. Sappiamo per esempio che ieri Bossi ha litigato con Maroni. Ma sappiamo pochissimo in realtà di quello che oggi è la Lega rispetto a vent’anni fa». Ecco perché si tentati di dar ragione al professore dell’università di Torino nel sentenziare che «è anche colpa nostra». Nostra nel senso dell’opinione pubblica. «Il Paese avrebbe urgente bisogno di essere amministrato, di vedere affrontati i problemi più seri. Quelli economici innanzitutto. Ma chi se ne occupa davvero, quei pochi che lo fanno, sono molto meno visi-

bili. Figure come Tremonti e Draghi si muovono molto più silenziosamente rispetto agli altri. D’altronde sulle questioni economiche, quelle decisive, è molto più difficile parlare con il registro farsesco solitamente in uso. Su cose simili la comunicazione è molto più difficile». Più comodo alimentare la relazione tra l’istrionismo del leader e l’elettore tifoso. Quello è il palcoscenico in cui «viene fuori il registro comico alla Sordi, o alla Totò e Peppino». Napoli, a proposito. «Vi sarete accorti che nelle settimane precedenti alle elezioni nessun candidato si è davvero soffermato sulla ricetta che aveva in mente per l’emergenza dei rifiuti. E se qualcuno magari lo ha fatto, sicuramente non è a lui che è andato il favore degli elettori». Stesso discorso si potrebbe fare sui referendum, aggiunge il semiologo «Lì era chiarissmo quali fossero gli obiettivi prevalenti: dare un bel calcio nel sedere al governo, da una parte, ed evitare di prenderlo, dall’altra. I richiami a stare sul merito delle questioni in gioco è stato ignorato praticamente da tutti». La responsabilità collettiva dunque è visibile. «Siamo pur sempre il Paese che si è entusiasmato per Mussolini, per le quadrate legioni, per la potenza di cartapesta. È difficile uscirne. Confiderei di una stampa capace di ignorare il registro comico, ma c’è poco da sperare. E Alberto Sordi, ammettiamolo, ci aveva dipinto alla perfezione. E siamo rimasti quelli delle sue macchiette».

Perché qui poi c’è una delle verità acquisite in questi anni di mediocrità “sordiana”: prima almeno gli italiani s’arrangiavano bene, ora s’arrangiano e producono fallimenti. Anomalia (visti i nostri trascorsi) non da poco. Certo a Napoli le provano tutte. Costringono i soldati a trasformarsi in spazzini, per esempio. E ogni volta ci si esercita in rimedi emergenziali, di quelli che si vorrebbe vendere come frutto di un ingegno improvviso e irripetibile. È questo il Berlusconi di inizio legislatura, no? I siti di stoccaggio dichiarati aree strategiche e dunque presidiati dall’esercito. Il piano discariche imperniato sul riempimento all’inverosimile di invasi già colmi da anni. L’avvio di un termovalorizzatore che, pensateci bene, s’arrangia pure lui. Dovrebbe smaltire infatti solo ecoballe, in altre parole “combustibile da rifiuti”, immondizia secca e selezionata. Dovrebbe. S’arrangia invece a bruciare tutto. A intossicarsi – persino lui – di spazzatura umida, di quella che non andrebbe messa in fornace, perché produce diossina. Però esperti, commissari straordinari, Bertolaso e protettori civili vari assicurano: guardate che questo benedetto impianto di Acerra s’arrangia benissimo e riesce a fare cose che voi umani…

lo si vuol vedere, il neosindaco non rischia la fine di Bassolino. Forse.

Perchè? Be’, semplice: perché è costretto ad arrangiarsi. Pensate invece a come il caso viziò il Bassolino degli inizi. Appena reduce dal trionfale ballottaggio con la Mussolini, Antonio ’o sindaco si trovò apparecchiato un regalo non da ridere: un bravo e onesto prefetto, Umberto Improta, s’era fatto un mazzo così e gli aveva rimesso a nuovo il centro di Napoli. Strade rifatte, marciapiedi ripavimentati, piazza Plebiscito liberata dalle macchine che l’avevano ridotta a parcheggio abusivo. Bassolino si prese i meriti, si vestì da cerimoniere del G7 con Clinton, passò per l’artefice di un miracolo. Non aveva fatto nulla, eppure lì nacque la leggenda alimentata dal New York Times che subito provvide a incoronarlo miglior sindaco del pianeta. S’è visto come è finita. S’è visto quale impazzimento è venuto da quella mistificazione. Il violento distacco dalla realtà di una metropoli in cui c’erano quasi 200 morti di camorra l’anno (caso unico in Occidente) ha ridotto Bassolino a despota rabbioso e fallimentare. Ecco, magari quest’esordio così diverso da quello, così pieno di stenti, potrebbe persino insegnare qualcosa a de Magistris e irrobustirne il senso di responsabilità Chissà. Può darsi davvero che dalla rovina venga qualcosa di buono. Eppure i napoletani, questo, non osano nemmeno più chiederlo. Sì dirà che loro sono i maestri dell’arte di arrangiarsi. E che dunque quest’Italia degli espedienti dovrebbe trarre ispirazione proprio dall’indole partenopea. Però guardate bene dove sono finiti, a Napoli, a furia di arrangiarsi. A furia di restringersi, di ridurre aspettative e spazio vitale. A parte intemperanze vane come la rivolta di ieri ad Agnano, si sono arrangiati al punto tale da rassegnarsi a tutto. Persino alla Iervolino. La quale era stata disastrosa già nel suo primo quinquennio, quello in cui oltretutto la crisi della spazzatura era esplosa col massimo fragore. Eppure nel 2006 i napoletani si arrangiarono a tal punto da rivotarla. E si sono condannati a una specie di calvario. Non che sia tutta colpa dell’ex sindaco, ma lei ha brillato per totale incapacità. Rannicchiati, ripiegati, arrangiati, i napoletani sono in realtà diventati soprattutto tristi. E non c’è snaturamento peggiore, per loro. Bisognerebbe rifletterci. Dovrebbero farlo tutti i leader – da Berlusconi a Di Pietro – che in questi giorni confondono il cavarsela con il vivere. Guardino a Napoli, che passava per miracoloso esempio di miseria sublimata in virtù.Vedano un po’come si è ridotta, come le si è chiuso l’orizzonte. E ci pensino bene prima di pretendere che tutta l’Italia debba arrangiarsi a sopportare una classe dirigente così.

Un popolo maestro nell’adattarsi è diventato in realtà solo triste e rassegnato a tutto. Dalla spacconeria di de Magistris alla cinica indifferenza di Bossi

Spostiamo l’immondizia. Di continuo. Sui treni per la Germania, sulle navi per la Sardegna. Almeno così è stato finché la Lega non si è impuntata. Così in queste ore Napolitano pressa l’esecutivo proprio perché Bossi se ne faccia una ragione e accetti di ripristinare per decreto l’esportazione della spazzatura partenopea. La Lega resiste e sbraita, poi però cede. Perché sa che Berlusconi ha il cilindro vuoto. E se è vuoto il suo, figuratevi in che condizioni dev’essere il copricapo di de Magistris. Ecco uno costretto ad arrangiarsi affannosamente, dopo inizi baldanzosi. Va a Roma per incontrare Stefania Prestigiacomo, ministro dell’Ambiente e attuale plenipotenziaria per l’emergenza. Cerca un po’ d’ossigeno. Qualcosa per tirare a campare e dare respiro a elettori soffocati dal lerciume. Altro che sogni di gloria, rivoluzioni in cinque giorni. Altro che nuova primavera, o nuovo rinascimento. Almeno però, se proprio un segno positivo


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la rivincita di sordi

Il Paese ha bisogno di una fase, neanche breve, di grande coalizione per uscire dall’immobilismo e affrontare il declino

Il convitato Di Pietro

Apparentemente più maturo e responsabile, in realtà il leader dell’Idv sta solo cercando di arrangiarsi. Ma il vero problema è di Bersani, certo che il suo partito abbia già vinto mentre invece è pieno di complessi di Enrico Cisnetto ta’ a vedere che ci tocca dare ragione a Di Pietro. No, non è l’effetto della calura, ma è un dato di fatto che l’atteggiamento del leader dell’Idv, soprattutto dopo i referendum, sia diventato più maturo e responsabile. Quasi da politico, verrebbe da dire. Certo, si potrà obiettare che il “nuovo Di Pietro” è frutto di un preoccupante - per lui e per noi - spostamento a sinistra degli equilibri in seno all’opposizione. E in effetti, il motivo principale è senz’altro questo. Ma gli va anche dato atto di aver posto la domanda“delle cento pistole” che nessuno, né nel Pd né nella sinistra più radicale, si è ancora sognato di fare e di farsi, ovvero quali possano essere le convergenze di programma, al di là del solito collante anti-berlusconiano, per affrontare la prossima campagna elettorale e quali le linee guida in caso di eventuale vittoria. Perché l’euforia che si respira nella sinistra ha in sé un problema di

S

fondo: dare per scontata la vittoria alle prossime elezioni. Partiamo dai Democratici.

La schiacciante sconfitta incassata nelle elezioni del 2008 aveva avuto un unico, significativo risvolto positivo: non avere più nessuno alla propria sinistra. Il tema era dunque quello di approfittare dell’uscita forzata dal Parlamento della cosiddetta“sinistra arcobaleno”per rafforzare la leadership riformista del Pd, nel solco degli altri grandi partiti progressisti europei (Spd, Labour e Ps francese). Da allora, però, invece che stringersi attorno a un progetto di governo alternativo al “non governo” del centro-destra, dentro al partito di Bersani c’è stata solo una cosa: la resa dei conti, in un gran desiderio di farsi del male da soli. Prima le dimissioni di Veltroni da segretario e poi il suo costituirsi come (semi)opposizione interna; quindi i dissidi intorno a Bersani e la conseguente uscita di alcuni“big” (Rutelli su tutti) verso coalizioni

più centriste; infine, la deriva verso la sinistra più massimalista, anche per via di primarie che sembravano fatte apposta per favorire le posizioni più antagoniste. L’esempio più eclatante è quello dell’acqua e del suo referendum: il Bersani liberalizzatore delle famose “lenzuolate” si è improvvisamente riscoperto a tutti gli effetti statalista, salendo di corsa sul carro referendario che era stato lanciato da Di Pietro. Accontentare le ali più estre-

Il Pd riprenda a fare politica e abbandoni l’opzione del bipolarismo

me, che non per niente secondo gli ultimi sondaggi sono tornate ben oltre la soglia necessaria per accedere al Parlamento (si parla del 7,5%), significa però scontentare non solo l’elettorato riformista ma anche quel grande bacino di moderati che ha votato Berlusconi e che ora vorrebbe tanto avere un’alternativa praticabile. Va inoltre notato come i protagonisti della gauche neo-comunista e giustizialista siano di caratura decisamente inferiore a quelli

che furono estromessi dal Parlamento nel 2008: basti pensare all’assenza pesante di un uomo come Bertinotti. Ma dicevamo di Di Pietro. Che la deriva populista intrapresa dalla politica sia anche responsabilità sua è un dato di fatto. Il suo antiberlusconismo militante e la sua chiassosa modalità di interpretare la res publica sono stati per troppo tempo la cifra stilistica di un partito che ha saputo indurre una fetta di elettorato a percepirlo come soggetto alla sinistra del Pd. Sua, d’altronde, è la responsabilità di aver portato in Parlamento personaggi come Scilipoti, che hanno tenuto in vita Berlusconi proprio nel momento in cui sembrava che staccare la spina fosse l’unica soluzione. Eppure Di Pietro ha saputo portare avanti - con tenacia, gli va riconosciuto - le sue battaglie: prova ne sia l’ultimo referendum, soprattutto relativamente ai quesiti sull’acqua, che ha visto una vittoria quasi unanime. Senza contare le amministrative, dove l’affermazione di


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Ormai siamo di fronte a un evidente cortocircuito tra Costituzione formale e materiale

La Seconda Repubblica è rimasta senza “popolo”

O si cambia la Carta in senso populistico, oppure si smette di affermare che esiste una doppia legittimazione all’esercizio della funzione di governo di Francesco D’Onofrio l recentissimo dibattito parlamentare sollecitato dal Capo dello Stato ha posto in evidenza una sorta di “strabismo costituzionale”: da un lato, infatti, il governo appare sostanzialmente confermato nella sua legittimità costituzionale per il fatto che esso gode del sostegno della maggioranza parlamentare, sebbene le ultime vicende elettorali – locali e referendarie – avessero finito con il dimostrare che il governo in quanto tale e le sue specifiche politiche energetiche non hanno più consenso popolare; dall’altro, a sua volta, il governo conferma di godere di una sufficiente maggioranza parlamentare, pur all’indomani di votazioni popolari che lo hanno sconfitto.

I

Questo “strabismo costituzionale”, pertanto, si fonda da un lato sulla costituzione scritta (in base alla quale è il parlamento a dare la fiducia al governo), e dall’altra, sull’affermazione ripetutamente svolta soprattutto dal Pdl, secondo la quale è il consenso popolare a dare in-

vestitura anche costituzionale al governo medesimo. Siamo dunque in presenza di una sorta di contraddizione tra la costituzione scritta e una sedicente costituzione materiale che dovrà ancora una volta trovare uno sbocco definitivo. O si cambia la costituzione scritta in senso larvatamente populistico, o si smette di affermare che esiste una sorta di doppia legittimazione all’esercizio della funzione di governo: parlamentare da un lato e popolare dall’altro.

maggioranza anche numerica degli italiani; con sistemi maggioritari soprattutto se caratterizzati persino da un premio di maggioranza (gustosamente definito “premio di transumanza” da Bersani), non vi è più questa ragionevole previsione.

Questa distinzione ha finito con l’assumere un rilievo particolarmente significativo proprio laddove si consideri

Quel che è avvenuto nell’ultima settimana in parlamento è dunque potenzialmente interpretabile sia nel senso di una conclusiva affermazione della necessità del consenso maggioritario in parlamento perché un governo possa essere del tutto legittimato a governare, sia nel senso di una anche se indiretta riaffermazione di un bipolarismo con venature populistiche. Si tratta dunque di una soluzione transitoria, più che balneare come pure si è detto.

Si tratterebbe in tal caso di un sistema elettorale tutto fondato sulla investitura elettorale diretta del governo, abbia esso o meno la fiducia della maggioranza degli italiani.

È riduttivo pensare che il voto parlamentare si basa sulle parole, e quello popolare si basa sui fatti che il venir meno del consenso popolare al governo e alle sue componenti politiche trova fondamento in particolare proprio nei fatti dei quali gli elettori hanno tenuto conto. La fiducia parlamentare, invece, si è basata ancora una volta quasi esclusivamente sulle parole. È come se parole e fatti abbiano finito con il fare da sfondo da un lato alla fiducia parlamentare per il governo, e dall’altro lato al dissenso popolare locale e referendario.

Viene pertanto in tutta evidenza proprio il valore costituzionale sostanziale della legge elettorale nazionale. Con un sistema elettorale proporzionale vi è infatti la ragionevole previsione che il consenso parlamentare necessario perché un governo nasca o rimanga in carica coincide con l’orientamento politico della

Questa transitorietà non può peraltro durare all’infinito: o si procede nel senso di una costruzione anche nuova di primato parlamentare nel sistema di governo italiano, o si procede nel senso di una radicale revisione costituzionale, che fa dell’investitura popolare la principale, se non addirittura la sola, fonte di legittimazione dell’attività di governo. Sarebbe pertanto riduttivo dire che il voto parlamentare si baserebbe soltanto sulle parole, mentre quello popolare si baserebbe sui fatti.

Ma è di particolare rilevanza il fatto che proprio sulla contrapposizione tra parole e fatti si è finito con il dare un giudizio sostanzialmente provvisorio dello stesso risultato parlamentare di fiducia al governo. Saranno dunque i fatti che avranno luogo in queste settimane e nei prossimi mesi a dire compiutamente se il voto parlamentare finirà con l’assorbire anche la realtà dei fatti nuovi che sono stati indicati e promessi; o se invece saranno proprio questi – o la loro mancanza – a dimostrare che non vi può essere con questo sistema elettorale una distinzione definitiva tra parole e fatti. La crisi che si è svolta in parlamento negli ultimi giorni resta pertanto in qualche modo sospesa tra parole e fatti, e quindi tra costituzione formale, fondata sulla presunzione di un consenso popolare maggioritario, e sedicente costituzione in senso materiale, nella quale un premio di maggioranza è necessario anche per sopperire proprio alla mancanza di consenso popolare.

un uomo come De Magistris - in rotta con Di Pietro ma comunque personaggio di spicco dell’Idv ha portato acqua alla causa. Eppure, paradossalmente, l’Idv ha perso voti alle amministrative, scivolando dietro a Vendola, e non ha capitalizzato più di tanto il referendum, tanto da spingersi a dire che «un governo non cade per gli esiti delle consultazioni referendarie». Inoltre il partito, già fragile, rischia di esplodergli in mano: per questo Di Pietro ha dovuto cambiare linea. E così si spiega il moderatismo nei toni, l’incontro con il premier sotto gli occhi di tutti, i messaggi a Bersani di disponibilità a portare l’Idv dentro il Pd. Insomma, se a sinistra tutti i fronti sono occupati, perché non provare a mettersi alla destra del Pd? Il tentativo può persino essere quello di parlare all’elettorato del Terzo Polo, nella speranza di guadagnare spazi di negoziazione politica in vista del dopo-Berlusconi e persino del dopo-Napolitano.

Ma il vero tema, a sinistra, non sono le giravolte di Di Pietro, bensì la tenuta rispetto a tutte le spinte di anti-politica che, non diversamente dalla stagione ’92’94, stanno manifestandosi nella società. Grillo da un lato e Santoro dall’altro stanno tagliando l’erba sotto ai piedi non solo di Bersani ma di tutti i diversi leader piddini, e non solo quelli più stagionati. Se poi ci fosse la saldatura con la componente più oltranzista del sindacato, come la manifestazione Fiom-Santoro di Bologna sembra indicare, allora i neo-leader potrebbero avere dalla loro anche quelle strutture organizzative che la loro origine televisiva gli nega. Ma più l’antagonismo si fa forte a sinistra a scapito dei riformisti, più si rafforzano due eventualità opposte ma con eguale conseguenza: che le prossime elezioni politiche le rivince il centro-destra - almeno in una delle due camere - oppure che le vince la coalizione di “sinistra-centro” ma poi, come e più che nelle due esperienze Prodi del passato, non riesce a governare. Per il primo caso, il consiglio è di andarsi a rileggere la storia della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto del ’94 - accreditata di una larga maggioranza, ma poi uscita sconfitta dall’esordiente Berlusconi - per il secondo, vale il ricordo più fresco della disastrosa esperienza del 2006 che ha portato alle elezioni anticipate e al ritorno alla vittoria del Cavaliere. L’unico modo per uscire da questa micidiale stretta è che il Pd la finisca di far finta di aver vinto le amministrative, riprenda a fare politica e scelga la strada del definitivo abbandono dell’opzione bipolare.Anche perché il Paese ha assolutamente bisogno di una fase, neppure breve, di grande coalizione per uscire dall’immobilismo e affrontare il declino. Altrimenti? Per la risposta, citofonare ad Atene. (www.enricocisnetto.it)


quadrante

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Orrore a Milano, duplice delitto

La Gioconda non si muove da Parigi

Benzina, arriva il terzo ribasso

MILANO. Duplice omicidio nel

PARIGI. Il Louvre di Parigi non

MILANO. Per la terza volta in

milanese. Vittime un fratello e una sorella, Ilaria, 21 anni, uccisa nel suo appartamento in via Gozzoli a Milano, e Gianluca Palummeri il cui corpo, avvolto in un lenzuolo e con 20 coltellate all’addome, è stato ritrovato dietro a un cassonetto dei rifiuti in via Salvo d’Acquisto a Rho da un dipendente della nettezza urbana. Il fidanzato di lei, Riccardo B. di 21 anni, avrebbe confessato il delitto. Il presunto assassino, in stato di fermo, dopo le prime parziali ammissioni ha confessato davanti al pm Cacilia Vassena negli uffici della Questura. Secondo quanto ha dichiarato alla polizia, il giovane la notte scorsa si trovava nell’abitazione della fidanzata.

presterà la Gioconda all’Italia per esporla alla Galleria degli Uffizi di Firenze nel 2013. Il capolavoro di Leonardo da Vinci, ha spiegato il museo parigino in un comunicato, è «estremamente fragile» e quindi il suo trasporto è «assolutamente inimmaginabile». Il Louvre risponde così alla richiesta del Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni culturali, ambientali e storici, presieduto da Vinceti, che ha lanciato una petizione con l’obiettivo di raccogliere 100mila firmeper ottenere il prestito. Nel 2013 cadrà infatti il centenario del ritrovamento nel capoluogo toscano del dipinto rubato nel 1911 dal Louvre dal decoratore italiano Vincenzo Peruggia.

meno di una settimana Eni ha tagliato i prezzi raccomandati della verde di 1 cent e del gasolio di 1,5 cent. Giù di 0,5 centesimi su entrambi i prodotti anche TotalErg, mentre Tamoil ha limato sempre di 0,5 centesimi la sola benzina. Sul territorio la scia ribassista coinvolge tutte le compagnie e anche le no-logo, con la benzina che, in alcuni impianti, torna dopo lungo tempo ad avvicinarsi a quota 1,5 euro/litro (nelle punte minime) e il diesel che flette al di sotto di 1,4 euro/litro (sempre nei valori minimi). È quanto emerge dal monitoraggio di quotidianoenergia.it in un campione di stazioni di servizio rappresentativo della situazione nazionale per Check-Up Prezzi QE.

Il Consiglio dei capi di Stato e di governo incorona l’ex numero 1 di Bankitalia. E Bini Smaghi cede: «Dimissioni entro l’anno»

Draghi, il nuovo re d’Europa

Bruxelles approva anche gli aiuti alla Grecia: 12 miliardi entro il 6 luglio di Enrico Singer i potrebbe dire che tutto è bene quello che finisce bene. Perché dal vertice della Ue, dopo tante, troppe tensioni, è arrivata la nomina all’unanimità di Mario Draghi alla presidenza della Banca centrale europea e perché anche la Grecia – se il suo Parlamento approverà il piano di austerità del governo Papandreou – riceverà tra pochi giorni i 12 miliardi di euro che le servono nell’immediato per scongiurare la bancarotta e che sono l’antipasto di un nuovo maxi-prestito da definire entro l’estate. Ma, in realtà, c’è poco da rallegrarsi. Nonostante l’happy end, i due giorni di trattative nel palazzo del Consiglio a Bruxelles, con le parentesi più o meno segrete negli alberghi dei leader e nell’ufficio privato del presidente Herman Van Rompuy, hanno rivelato per l’ennesima volta la fragilità di un’Unione che è minata dai personalismi e dalla difesa a oltranza dei propri interessi. Nazionali e, addirittura, di partito. Certo, l’investitura di Draghi alla guida della Bce dal primo novembre – quando scadrà il mandato dell’attuale presidente, Jean-Claude Trichet – è un evento di straordinaria importanza che supera qualsiasi polemica e premia le qualità di un banchiere che tutta l’Europa ci invidia e che prenderà il timone dell’Eurotower di Francoforte in un momento difficile e con un compito molto gravoso: quello di portare l’euro fuori da una crisi che non si risolverà soltanto con altre iniezioni di miliardi nelle disastrate casse di Atene. Ma proprio per questo la nomina di Mario Draghi non meritava di dover affrontare, proprio all’ultima tappa, un imbarazzante percorso a ostacoli. Concluso soltanto quando Lorenzo Bini Smaghi ha personalmente assicurato, telefonando a Nicolas Sarkozy e allo stesso Van Rompuy, che lascerà il suo posto nel board della Bce entro la fine dell’anno. Così come il salvataggio della Grecia non meritava – anche per risultare credibile alla lente spietata delle agenzie di rating – di essere sottoposto

Giornata di passione, ieri, per la Borsa italiana. Milano ha iniziato a tremare dopo che l’agenzia di rating internazionale Moody’s ha annunciato di aver messo sotto osservazione sedici banche e istituti di credito italiani. Le azioni sono crollate per poi risalire in maniera schizofrenica, facendo temere una speculazione estera

S

al ricatto dell’opposizione interna che spera di sbarazzarsi di Georges Papandreou bocciando quel piano di tagli che la Ue stessa ha posto come condizione e ha già valutato positivamente.

Il compromesso, alla fine, è stato raggiunto. Ma anche questa non è una sorpresa: l’Unione europea marcia da tempo a colpi di aggiustamenti forzati perché l’alternativa sarebbe un’implosione generale che nessuno vuole, né può permettersi. Nel caso della nomina di Draghi alla Bce, il compromesso andava trovato per placare Nicolas Sarkozy che vuole mantenere una presenza francese nel ristretto direttorio della Banca centrale – i membri del board sono sei,

compreso il presidente – anche quando Trichet lascerà il suo posto e che, per questo, ha preteso le dimissioni di Lorenzo Bini Smaghi. «Avere due membri italiani nel board non sarebbe una soluzione europea», aveva detto senza troppe perifrasi il capo dell’Eliseo appena una settimana fa a Berlino al termine dell’incontro con Angela Merkel con la quale – altro affronto alla solidarietà europea – aveva concordato la strategia per il vertice di Bruxelles. La richiesta delle dimissioni di Bini Smaghi era stata già presentata anche a Silvio Berlusconi che l’aveva accolta per rimuovere ogni possibile riserva di Parigi all’investitura di Draghi. In fondo Sarkozy non pretendeva la luna. Un accordo non

scritto vuole che nel direttorio della Bce siano rappresentati almeno i quattro Paesi più importanti di Eurolandia e nessuno può mettere in dubbio che la Francia sia uno di questi. Del resto, anche quando Jean-Claude Trichet prese il posto di Wim Duisenberg, il primo novembre del 2003, l’allora componente francese del board della Banca centrale, Christian Noyer, lasciò il suo posto. Noyer, però, fu nominato governatore della Banca di Francia. Del futuro, e delle aspettative di Lorenzo Bini Smaghi, naturalmente, Sarkozy non s’interessa. Ma il patto con Berlusconi ha innescato una girandola di grossolani errori diplomatici e di sostanza perché ha messo in dubbio l’indipendenza del vertice della


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

L’ultimatum della Ue sulla Tav: «Se non parte, leviamo i fondi» BRUXELLES. «Se i lavori della Tav non partono entro il 30 giugno l’Europa toglierà i soldi che ha destinato all’opera». L’ha scritto mercoledì il Commissario europeo ai Trasporti Siim Kallas in una lettera spedita al ministro delle Infrastrutture, Altero Matteoli, e anticipata dal Sole-24 ore. Non è più tempo di rinviii e quel famoso “buco”alla Maddalena di Chiomonte in Val di Susa deve iniziare.Tre le condizioni da soddisfare entro meno di una settimana: i lavori alla Maddalena, dove i No Tav da un mese hanno allestito un presidio di opposizione, l’approvazione del progetto preliminare e la firma dell’accordo fra Italia e Francia. Altrimenti «vi è un rischio evidente che una parte sostanziale del finanziamento globale Ue di 672 milioni di euro andrà persa». Non solo: anche i fondi futuri (il totale è di 2 miliardi) potrebbero essere in forse se il Governo non dovesse rispettare questa scadenza, con il rischio che la Torino-Lio-

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

ne venga cancellata dal piano di infrastrutture strategiche dell’Europa. «I progressi che saranno effettuati in questo senso - si legge - saranno cruciali per la possibilità di inserire la Torino-Lione nella futura proposta della commissione del ”core network”. La commissione mantiene il suo impegno a realizzare questo grande progetto di infrastruttura, ma è giunto il momento per i due beneficiari di impegnarsi a iniziare quanto concordato e da tanto atteso».

Nella pagina a fianco, Mario Draghi e Angela Merkel. Sotto da sinistra: Bini Smaghi, Sarkozy e Papandreou

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Jacopo Pellegrini, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato

Bce i cui membri non possono essere sfiduciati dagli Stati dal momento che, in totale autonomia, devono svolgere il loro ruolo di guardiani della moneta.

Se i patti vanno rispettati, c’è anche un modo per farlo. La convocazione di Lorenzo Bini Smaghi da parte di Berlusconi e il comunicato in cui si diceva apertamente che il governo italiano aveva chiesto le sue dimissioni, le dichiarazioni del ministro degli Esteri, Franco Frattini, e poi quelle di Sarkozy alla presenza della Merkel hanno trasformato questa vicenda in una brutta pagina di storia europea. Che ricorda per molti versi quanto avvenne in occasione della nomina di Wim Duisenberg nel 1998. Allora la Francia impose al banchiere centrale olandese, ritenuto né più né meno un prestanome dei tedeschi, un mandato accorciato pur di mettere al suo posto Trichet in anticipo sulla scadenza prevista di otto anni. Esattamente come poi avvenne. Ieri mattina Lorenzo Bini Smaghi, almeno a quanto riferiscono fonti molto bene informate, ha telefonato personalmente al presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, per anticipargli la sua decisione di lasciare entro la fine dell’anno il direttorio della Bce e altrettanto ha fatto con Sarkozy che in quel momento si trovava – evidentemente non a caso – nello studio di Van Rompuy. Così, almeno formalmente, l’indipendenza dei membri del board della Banca centrale europea è salva perché Bini Smaghi ha manifestato direttamente le sue intenzioni. Ma resta il fatto che la Francia e la stessa Italia si sono comportate come se

Nonostante l’happy end, i due giorni di trattative serrate hanno rivelato per l’ennesima volta la fragilità dell’Unione fosse un loro ovvio diritto attendersele e questo non fa che confermare quanto gli Stati si sentano padroni delle istituzioni comuni. Ieri da Bruxelles Silvio Berlusconi ha cercato di recuperare gli errori dichiarando soddisfatto che la nomina di Mario Draghi «è un grande successo dell’Italia e del governo» e rimettendo in corsa per la carica di governatore di Bankitalia anche Lorenzo Bini Smaghi – «non mi sembra che vi possano essere dubbi al riguardo visto il particolare incarico che ha svolto fino a oggi» – accanto ai candidati più quotati finora: Antonio Saccomanni, attuale direttore generale della Banca d’Italia, e Vittorio Grilli, direttore del Tesoro, sponsorizzato da Giulio Tremonti. Ma di questo si parlerà a Roma forse già nel prossimo consiglio dei ministri.

Ricucire lo strappo tra i governi nazionali e la Bce e ribadire nella sostanza l’indipendenza della Banca centrale

europea sarà, invece, un compito in più per Mario Draghi al quale ha fatto i suoi auguri anche il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che si è detto «certo che saprà pienamente corrispondere alla fiducia manifestatagli guidando con mano sicura, in una fase difficile, l’istituzione che opera a Francoforte». Nel caso della Grecia, invece, lo strappo che più preoccupa adesso si è prodotto sul fronte interno del mondo politico di Atene. I partner europei hanno ricordato nel loro documento comune che «l’unità nazionale è un prerequisito per il successo del piano di salvataggio», ma il leader di Nea Demokratia, il maggiore partito di opposizione al governo socialista di Geroges Papandreou, ha già detto che si opporrà al programma di austerità che prevede tagli per circa 30 miliardi di euro dal bilancio statale. Antonis Samaras era a Bruxelles dove ha partecipato al vertice dei leader del Partito popolare europeo che ha, come d’abitudine, preceduto il Consiglio della Ue ed è stato sottoposto a un fuoco incrociato di inviti alla moderazione – il più pressante quello di Angela Merkel – in nome dell’interesse comune della stabilità dell’euro. Ma non ha ceduto. La tentazione di far cadere l’esecutivo è troppo forte. Quest’anno anche il governo Cowen in Irlanda e quello di Socrates in Portogallo sono stati costretti alle dimissioni dopo avere varato i piani di austerità richiesti dalla Ue e il copione potrebbe ripetersi in Grecia. Anche se il risultato potrebbe essere un fossato ancora più profondo tra gli interessi nazionali e quelli europei.

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politica

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Il ringraziamento al Colle e gli auguri dei cambogiani: «Un amico di tutti noi» arco Pannella ha annunciato ieri ai microfoni di Radio Radicale di aver sospeso - sottolineando che «si tratta di una sospensione» - lo sciopero della sete in corso da domenica 19 giugno. La decisione del leader radicale è stata presa «per corrispondere in modo particolare all’attenzione manifesta del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha onorato in modo ufficiale le ragioni della nostra lotta e dei nostri obiettivi». Proprio l’inquilino del Quirinale, con una lunga lettera di due cartelle, aveva chiesto pubblicamente due giorni fa a Pannella di sospendere lo sciopero della sete e della fame, condividendo e facendo propria la richiesta di un «intervento urgente e non più rinviabile per porre fine alla drammatica e inaccettabile» situazione del sovraffollamento delle carceri italiani.

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Pannella ferma “l’ultimo sciopero” Il leader radicale “interrompe” la protesta e rilancia l’amnistia per svuotare le carceri di Vincenzo Faccioli Pintozzi

A Pannella e a sostegno della sua iniziativa si sono rivolti dalla Camera tutti i gruppi parlamentari di opposizione, chiedendo al Governo l’immediata attuazione delle mozioni sulle carceri approvate dal Parlamentio ma rimaste finora lettera morta. Il Presidente del Senato Renato Schifani ha telefonato a Pannella assicurando un ampio dibattito prossimamente in aula a palazzo Madama sulle carceri e sulla stessa possibilità di amnistia. Il Sottosegretario alla Presidenza Gianni Letta ha

L’affluenza bipartisan nella clinica romana dove si è fatto monitorare ha rilanciato con forza la sua candidatura a senatore a vita, una soluzione che coronerebbe la sua carriera fatto visita a Pannella, portandogli gli auguri del Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a Bruxelles. E, prima di Letta, a far visita era stato il ministro della Giustizia Angelino Alfano, segretario in pectore del Pdl. Come lui, in clinica, sono arrivati nei giorni scorsi anche - fra gli altri- la Presidente del Pd Rosy Bindi, il segretario della Cisl Raffaele Bonanni, il Presidente dei Verdi Angelo Bonelli.

Ma, nonostante la grande affluenza di visitatori e l’alta speranza che questa ha portato con sé, ieri ci ha pensato il capogruppo del Popolo della libertà alla Camera, Fabrizio Cicchitto, a smorzare l’entusiasmo. «Un’amnistia è imposssibile, ma una riflessione sullo stato delle carceri ed interventi sulla questione sono praticabili. Del resto il ministro della giustizia Alfano è andato a trovare Pannella per

testimoniare questo tipo di attenzione». In ogni caso, la solidarietà e la mobilitazione istituzionale e bipartisan per Pannella e la sua nuova lotta, insieme alle parole della lettera di Napolitano che ha voluto sottolineare gratitudine e riconoscimento di tutto il Paese per la sua storia di passione e impegno civile, hanno fatto prendere ancora maggiore quota alla possibilità, da tempo paventata, di una possibile imminente nomina di Pannella a senatore a vita da parte del Capo dello Stato.

Ma le migliori dichiarazioni di solidarietà sono giunte da varie parti del mondo. Un gruppo di 26 deputati cambogiani iscritti al Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale e Transpartito, ha inviato a Pannella il seguente testo: «Cari amici del Partito Radicale Nonviolento, tutti i 26 parlamentari cambogiani

iscritti anche al Partito Radicale Nonviolento, sono molto preoccupati per lo stato di salute del nostro caro amico e leader Marco Pannella, che è stato in sciopero della fame negli ultimi due mesi e ora ha proclamato lo sciopero della fame e della sete richiedendo l’Amnistia, affinché la Repubblica Italiana ritorni a essere una matura democrazia».

«Sin da quando noi iniziammo la nostra battaglia in Cambogia, al fine di costituire un sistema democratico, Marco Pannella e gli amici del Nonviolent Radical Party sono stati di grande supporto. Negli anni passati, Marco Pannella stesso è stato con noi tante volte in Cambogia, per promuovere elezioni libere e corrette, per proteggere i diritti democratici dei partiti d’opposizione, così come i diritti dei rifugiati e delle donne. Noi siamo tutti con Marco Pannella in questa lotta ed è necessario che il Governo italiano e tutte le istituzioni connesse affrontino immediatamente il problema, senza ritardi, in

Il leader radicale Marco Pannella, per molti prossimo senatore a vita. In basso Giorgio Napolitano

modo che il nostro amico possa porre termine al suo sciopero». Questa dichiarazione è stata firmata da Son Chhay, deputato al Parlamento cambogiano, anche a nome di altri 25 parlamentari. Analoghe dichiarazione di sostegno giungono a Pannella in queste ore da parte di Tolekan Ismailova, della “Civil Society Against Corruption” del Kyrghizistan; e da Mourissanda Kouyatè, Direttore esecutivo del Comitato Inter-Africano (IAC).

Il Prntt ha intanto reso noto che il prossimo Consiglio generale del partito si terrà a Tunisi dal 22 al 24 luglio e, proprio per questo, ieri Pannella ha lasciato la clinica romana dove era ricoverato per tenerlo sotto controllo per volare in Tunisia. Qui ha in agenda un incontro con i responsabili del governo provvisorio locale per organizzare l’appuntamento. È accompagnato da Marco Perduca, senatore radicale eletto nelle liste del Pd, e da Matteo Angioli, del Comitato nazionale di Radicali Italiani. Un impegno insomma senza tregua per il leader radicale che, con le sue battaglie, ha certamente cambiato il panorama della politica e della società italiana. Ecco perché questa ultima battaglia, ultima ovviamente in senso cronologico e non assoluto, rende ancora una volta importante l’idea di dare a Pannella la carica di senatore a vita. Perché nel bene e nel male, nell’ideologia estrema e nella passione, ha comunque dimostrato oltre ragionevole dubbio di essere forse l’ultimo grande politico della nostra vituperata Repubblica. Uno Stato in cui un uomo sceglie di sacrificarsi per una battaglia che, come ha spiegato lui stesso in una video-intervista pubblicata ieri dal sito internet di Repubblica, «non chiede nulla di male allo Stato. La non violenza è un’arma che va usata quando si chiede al governo cose che ha promessoi e può dare». Provatissimo dallo sciopero, alla telecamera Pannella ha spiegato: «I medici mi dicono che il mio corpo ha oggi più resistenza di quanta ne avesse decenni fa. Il mio non è un sacrificio, perché uno sciopero così si compie quando hai la volontà e l’impegno per farlo. Io non chiedo al governo nulla che non possa concedere. L’amnistia, che da decenni indichiamo come la soluzione a un problema che sembra insolvibile».


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

di Pier Mario Fasanotti

iceva il poeta Stéphane Mallarmé: «Tutto il mondo esiste per finire in un libro». Frase suggestiva, ma sostanzialmente vera per gli scrittori e per quel ristretto pubblico che dà molta importanza, esistenziale oltreché culturale, a una serie di pagine rilegate e messe in vendita. Sovente il libro è fonte di gioia, occasione di viaggio tra scenari e persone a noi ignote, spunto per meditare. I personaggi si tramutano sovente in amici, quasi vicini di casa con cui colloquiare. Ma può essere anche ossessione. Oppure un grimaldello intellettuale che alcuni credono capace di aprire porte enigmatiche e risolvere problemi. Scorrendo la letteratura mondiale è facile accorgersi che il libro è sempre stato fonte di altri libri, perno di situazioni, storiche, misteriche o poliziesche o addirittura psicoNonostante patologiche. Il libro come soggetto letterario è un tema web e sms, resta che va e che viene nel il prescelto da chi apprezza tempo. Umberto Eco, nel Nopiaceri da degustare con lentezza. E me delregna indiscusso come protagonista di storie la rosa, che si moltiplicano. Come quella l’ha riportato alla ribalta: la cateimmaginata da Dominguez o na di strane morti verrà come in una raccolta ricondotta, dall’autore, al podi racconti tere avvelenato di un manoscritto (La poetica di Aristotedoc le). Per una sorta di cortesia sfioro senza accanirmi una fondatissima ipotesi, ossia che Eco abbia preso spunto da Le mille e una notte laddove un libro, appunto, costituisce la punizione inflitta a un visir. In quest’ultimo periodo, comunque, il libro come protagonista assoluto sta diventando presenza costante e ripetuta. Addirittura di moda. Pensiamo a un best seller mondiale come La biblioteca dei morti di Glenn Cooper (edizioni Nord), cui sono seguiti testi abbastanza simili in quanto ispirazione (rintracciabili nelle collane della Nord, del Corbaccio e in genere del gruppo Longanesi).

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SUA MAESTÀ LO SLOW BOOK Libri sui libri

Parola chiave Internet di Gennaro Malgieri Bon Iver, la voce che crea l’atmosfera di Stefano Bianchi

RILETTURE

“Uccidi Garibaldi” egregiamente trent’anni dopo di Leone Piccioni

Oscar Wilde l’uomo dello scandalo di Mario Bernardi Guardi Redford punta il dito Con una metafora di Anselma Dell’Olio

Inni all’Italia su bronzo e marmo di Marco Vallora


sua maestà lo slow

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Se il killer è il libro

rima domanda: si può uccidere per un libro? Seconda domanda: un libro può uccidere? Questi i quesiti che si pone Mario Baudino, giornalista della Stampa, saggista e ottimo conoscitore di vita e opere di centinaia di scrittori. Parte appunto dalle domande in un libro (Ne uccide più la penna, Rizzoli, 15,90 euro) che racconta il rapporto, passionale, perverso o semplicemente intellettuale, tra autori, prevalentemente giallisti, e biblioteca. Una sorpresa: a interessarsi di libri è anche Philip Marlowe nel Grande sonno (capolavoro di Raymond Chandler). Il detective americano è intelligente ma alquanto ignorante. Tuttavia si trova in una libreria antiquaria e chiede un’opera, un’edizione inesistente. Nella sua vita da «duro», e da moralista, quell’episodio è una parentesi. In ogni caso, scrive Baudino, «intorno a lui, prima e dopo di lui, c’è una serie non irrilevante di eroi di libri, detective molto particolari, gente che in un certo qual modo risolve i misteri del mondo partendo da una biblioteca, reale o immaginaria». Baudino nota che in molte opere ricorre la figura, sempre ambigua e inquietante, del bibliofilo accanito che «incarna la convinzione in base alla quale se uno sa decrittare i libri è in grado di risolvere qualsiasi imbroglio, cioè decrittare il mondo». Il bibliofilo non è certo un Indiana Jones, semmai è uno che rimane rintanato tra pareti di carta. Ma è poi così vero? Baudino ci avverte: «Il diavolo dell’avventura si annida tra le copertine: e il detective bibliofilo, nella sua eccezionalità, è forse il personaggio letterario che meglio incarna il mistero e la sacralità di cui ogni libro è intriso». Uno degli investigatori che hanno più avuto fortuna letteraria è senza dubbio Nero Wolfe (magistralmente interpretato in tv da Tino Buazzelli). Venne creato da Rex Stout nel 1934, e non è mai «invecchiato» fino agli anni Ottanta. Wolfe lo troviamo in 33 libri d’avventura poliziesca. Quella «montagna di ciccia», secondo la

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L’ultimo prodotto, ma stavolta di notevole spessore letterario, s’intitola La casa di carta (Sellerio, 85 pagine, 10,00 euro). L’autore è il sudamericano Carlos María Dominguez, scrittore che non nega la sua parentela narrativa con Borges, Buzzati e Calvino. Il suo racconto è terrificante e splendido. È la storia di un certo Carlos, uomo rintanato in una villa e dedito interamente alla lettura, dalla quale trae infine ore di godimento. A poco a poco la passione per i libri - che si contano a migliaia sugli scaffali e non solo lì - si trasforma in ansia, per poi sboccare in un’autentica ossessione come se il vorace lettore fosse consapevole che il tesoro che ha intorno è sempre in pericolo (basta una candela spenta male) o comunque difficilmente catalogabile. È convinto che «un libro che non si trova è come un libro che non esiste. Anzi è ancora peggio». Per questa ragione s’affanna a comporre un interminabile elenco delle opere che hanno ormai invaso decine di stanze, atterrito all’idea di non saper trovare qualcuno dei suoi amici di carta.

Per una serie di vicende, Carlos deve lasciare la villa. Si reca allora in una spiaggia oceanica e lì costruisce una casa i cui muri sono formati da libri. Un discretissimo operaio compie l’operazione senza porre domande e, ovviamente, cementifica tutto. Le pareti contengono secoli di letteratura. Carlos si ricorda però di dover restituire a una professoressa londinese un libro (La linea d’ombra di Conrad). Ma dov’è? Preso da furia demolisce i muri, sfasciando la sua casa di carta, trova il volume e lo spedisce alla proprietaria. L’autore di questo raffinatissimo racconto inanella considerazioni sulla vita in rapporto alla scrittura. Per esempio fa dire a un personaggio che «il lettore è un viaggiatore che si muove in un paesaggio già scritto». Oppure: «Non basta una vita. Rubo a Borges la metà di una frase: la biblioteca è una porta nel tempo». Recentissima è anche una raccolta di racconti edita da Einaudi: Storie di libri (333 pagine, anno IV - numero 24 - pagina II

book

definizione del suo collaboratore Archie Goodwin, è immensamente pigro, si muove di rado dalla sua casa costruita in pietra arenaria (a New York), coltiva orchidee, legge moltissimo e si fa pagare parecchio per le sue consulenze. Il bulimico può apparire antipatico e arrogante, ma indubbiamente bisogna riconoscergli un cervello finissimo. Quando legge inaugura un suo personalissimo rituale. Da maniaco. «Talvolta - annota Baudino - il libro è di qualche aiuto, diciamo indiziario». In un’occasione smaschera un’apparente timida scrittrice, plagiaria e assassina. Mister Wolfe è lettore onnivoro quando si siede per rilassarsi o quando è troppo nervoso. Pur misogino, ammette che Jane Austen è un vertice letterario insuperabile. Ma ci sono molte opere (oltre 120 citate da Rex Stout) sui suoi scaffali: sei versioni in sei lingue diverse della Bibbia, l’Enciclopedia Britannica, Koestler, Kipling, Solzhenitsyn, Camus, Casanova, Montaigne. E anche Hugo del quale dice: «Lui ha scritto un intero libro per dimostrare che la menzogna può essere sublime». Poniamo a Wolfe la domanda «un libro può uccidere?». La risposta è nel romanzo (1951) il cui titolo originario è Murder by the Book. Negli stessi anni Trenta nasce in Italia il commissario De Vincenzi, creatura di Augusto de Angelis (i cui libri sono stati meritoriamente riproposti dalla Sellerio), un giornalista molto attento a non infastidire il regime fascista: ci riuscirà con alcuni accorgimenti, per esempio timbrando con nome straniero l’assassino. De Vincenzi legge Freud (e se ne serve), opere filosofiche e tante altre pagine nelle notti insonni passate alla Questura di Milano. Può capitare che muoia anche l’autore delle crime stories: è il caso dello stesso De Angelis, assassinato a Bellagio (lago di Como) da un fascista fanatico. In un romanzo di De Angelis la domanda cruciale spunta fuori. Chiedono al commissario: «Voi credete che abbia ucciso proprio per quel libro?». Risposta: «Sento che è così. Che deve essere così. Ma non chiedermene le ragioni, perché le ignoro». (p.m.f.)

16,50 euro). Il sottotitolo è «Amati, misteriosi, maledetti». Comprende scritti di autori famosi, da Gustave Flaubert ad Anatole France, da Gabriele D’Annunzio a Isaac Asimov, da Howard P. Lovercraft a Luigi Pirandello, da Hermann Hesse ad Alphonse Daudet. Nella prefazione, Giovanni Casalegno prende atto che nell’ultimo trentennio si sono moltiplicati «i libri che parlano di libri». E precisa: «Ci sono libri che contengono segreti che possono cambiare i destini dell’umanità, libri pericolosi per la cultura dominante, libri che nascondono arcani e misteri, libri di occultismo e di fantastoria che innescano sgangherati complotti». Casalegno riflette sul potere quasi taumaturgico del libro che, soprattutto in quest’epoca di web e messaggini telefonici, «resta ancora il più solido depositario del sapere… ed è ancora un piacere, lento, rispetto a quelli veloci ma superficiali offerti dalla tecnologia». Il libro non è solo un contenitore di storie, ma anche una sorta di placet dell’affinità intima tra chi legge e chi scrive: «Ha un’anima - sostiene Casalegno che aspetta di incontrare quella gemella del lettore». I volumi possono essere causa di disturbi mentali. Lo sappiamo bene, e da secoli. Il Don Chisciotte di Cervantes inizia il suo visionario viaggio a cavallo di un ronzino dopo essersi «ubriacato» con romanzi cavallereschi, a tal punto da non saper più distinguere realtà da immaginazione, salvo che in questa operazione si eleva a uomo in apparenza ridicolo ma profondamente saggio, avvinghiato a ciò che i suoi contemporanei - e i suoi posteri, aggiungerei - non sono in grado di vedere perché schiavi della prima crosta dell’essere, credendosi magari felici, di un presente il più delle volte squallido e volgare.

Pirandello, nel racconto Mondo di carta ambientato a Roma (attorno a via Nazionale), narra di Valeriano, un uomo fortemente miope che si deve dolorosamente rassegnare a un destino di progressiva cecità. Il medico gli vieta naturalmente la lettura, ma lui non desiste. A tal punto che, scrive Pirandello, «a poco a poco era divenuto quasi di carta: nella faccia, nelle mani, nel colore della barba e dei capelli». Alla fine si arrende al fatto di non poter più decifrare le parole che incolla agli occhi. Incarica quindi una ragazzotta di leggergli alcune delle sue amate raccolte di viaggi. Lei esegue, svogliatamente. Lui allora, scontento del ritmo della sua voce e non sentendosi più in prima fila, la prega di leggere da sola e in silenzio: «Provo piacere che qualcuno legga qua, in vece mia. Lei forse non riesce a intenderlo, questo piacere. Ma gliel’ho già detto: questo è il mio mondo; mi conforta il sapere che non è deserto, che qualcuno ci vive dentro, ecco». Ma l’estremo rimedio non funziona. Sarà soltanto lui,Valeriano, a ricostruire i paesaggi letti, pensati e lungamente ricordati. Come? Accostando le mani ai volumi posti sullo scaffale della biblioteca.

Quanto piacere nell’immaginare che in un paese nordico, descritto in un libro, la neve continui a cadere, che il freddo non smetta, che la cattedrale di marmo sia ancora lì, proprio nel punto che lui, soltanto lui, conosce. Conturbante il racconto di Asimov (Chissà come si divertivano) ambientato nel maggio del 2157. Un bambino scopre d’avere in casa un libro vecchissimo. È fatto di carta. In quegli anni le parole viaggiano solo sullo schermo. Il volume parla di una scuola, di un maestro in carne e ossa: il bambino si stupisce perché i suoi insegnanti sono congegni di verifica elettronica, anonimi e invisibili. E alla fine, sforzandosi di immaginare com’era il passato, pensa malinconicamente: «Chissà come si divertivano!». Già, un tempo c’era la carta, ma anche un posto dove i bambini s’incontravano, giocavano e vociavano. Già, un tempo.


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parola chiave

25 giugno 2011 • pagina 13

INTERNET uando nell’ottobre 1969, lo psicologo e scienziato informatico Joseph Licklider, professore al Mit di Boston, venne incaricato da un’agenzia del Dipartimento della Difesa di creare il primo collegamento telefonico da computer a computer fra l’Università della California di Los Angeles e lo Stanford Research Institute, probabilmente non era consapevole che da quella sperimentale impresa sarebbe nato Internet. Forse ne ebbe la percezione quando, poco dopo, si aggiunsero alla connessione le università di Santa Barbara e dello Utah. Poi fu la volta di una società di ingegneristica acustica di Boston, convertita all’informatica applicata, che nel 1970 aveva implementato i primissimi protocolli di Arpanet, vale a di-

Ha modificato i comportamenti umani, l’accesso alla conoscenza, è diventato il motore di nuove forme di partecipazione. Di cui, paradossalmente, si sono serviti i Paesi meno sviluppati più che l’Occidente

re il progetto «un mondo in rete». Licklider comprese, evidentemente, il potenziale del sistema a cui si stava dedicando, ma, al pari di lui, neppure le più fervide e brillanti fantasie che operavano nel settore potevano prevedere che quarant’anni dopo sarebbero stati un miliardo di contatti in tutto il mondo. Praticamente il Globo in rete.

I rivolgimenti che ci sono stati in Nord Africa, la mobilitazione in Spagna, la vittoria dei referendari in Italia sono ascrivibili all’uso disinvolto e intelligente del Web. Si sta creando un’estesa comunità diversamente ideologica, che si ritrova sui contenuti superando le connotazioni etniche e religiose

Q

Fu chiaro allo scienziato americano, come al Dipartimento della Difesa, che il progetto Arpanet si sarebbe presto trasformato da strumento per contrastare i piani di penetrazione informativa sovietica nel mondo occidentale a tecnologia di comunicazione globale senza mediazione: il più stupefacente, straordinario mezzo di conoscenza e di collegamento di idee, parole, passioni, emozioni. Licklinder, ormai dimenticato, tutto poteva prevedere, tranne che con il dispiegamento delle potenzialità di Internet, frutto dello sviluppo del Web, si sarebbe creato un sistema per la condivisione di informazione che avrebbe modificato i comportamenti umani, l’accesso alla conoscenza, e so-

La democrazia elettronica di Gennaro Malgieri

prattutto sarebbe stato il motore di nuove forme - assolutamente inedite di democrazia partecipativa e decidente, che più diretta non si sarebbe potuta compiere fino a creare le condizioni per rivoluzioni virtuali nella loro gestazione e politiche nelle conseguenze pratiche. Sorprende che quest’ultimo aspetto, il più significativo forse della capacità riproduttiva di idee in grado di trascinare masse alla rivolta o determinare rivolgimenti nella sfera del potere, sia stato maggiormente e con più tempestività sviluppato in Paesi erroneamente ritenuti marginali, dove l’affermarsi della cultura informatica era stata sottovalutata così come la costruzione di una rete di movimenti che non avevano bisogno di luoghi fisici per

istituire confronti, bastando appunto quelli virtuali offerti dal Web, per creare le condizioni dello scatenamento di indignazione da offrire anche agli ignari, trascinati a manifestare contro governi ed élites. I rivolgimenti che ci sono stati in Nord Africa, la mobilitazione degli Indignados in Spagna, perfino la vittoria dei referendari in Italia sono ascrivibili, senza ombra di dubbio, all’uso di Internet, disinvolto e intelligente, che ha mutato le modalità dell’intervento politico-culturale inducendo chiunque abbia un minimo di dimestichezza con lo strumento informatico a partecipare le proprie idee, progetti, intendimenti, al di là dei confini. Insomma, si sta creando una comunità diversamente ideologica (pur negando

l’essenza del termine) estesa, composita, eterogenea che si ritrova sui contenuti più disparati indipendentemente dalle connotazioni etniche e religiose.

Insomma, Internet sta aprendo la strada alla cosiddetta democrazia elettronica che cambierà i costumi politici e i ritualismi connessi alle appartenenze. Se addirittura l’ultimo prodotto della strepitosa mente di Steve Jobs, la cosiddetta «nuvola», dovesse assommare gli elementi della comunicazione creando un universo di conoscenze assolutamente inedito, certamente la nostra vita ne verrebbe trasfigurata. Mentre si discute di tutto questo e dei risultati concreti, palpabili che sono alla nostra attenzione, risulta quanto meno deprimente il modo di pensare la

politica e la cultura, dunque i movimenti di pensiero, nella maniera sclerotica che vediamo riflessa negli atteggiamenti di chi pratica il potere o soltanto rappresenta la comunità nazionale nelle istituzioni. Non si ha, in questi ambiti, la percezione di un mutamento radicale che ci comprende pur senza accorgercene. Ed è tanto più singolare che il mondo del Web si sia situato al centro della politica in società che reputiamo, per tanti versi, meno avanzate. Probabilmente dipenderà dalla mancanza di sovrastrutture culturali e dall’assenza di pregiudizi sulla modernità anche quando si tratta di veicolare antiche idee come la libertà. Insomma, abbiamo da imparare in Occidente da quanto accade altrove. E fa specie vedere nelle nostre progredite contrade esercitare il voto nei modi che sappiamo, come se dal 1969 nulla fosse accaduto. Licklider si chiederebbe, se fosse tra noi, come mai non comprendiamo i «nodi» che lui legò senza sospettare che altri popoli li avrebbero utilizzati meglio di quanto fosse lecito immaginare.


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Pop

pagina 14 • 25 giugno 2011

musica

IRRESPONSABILE ARETHA franata dalle Jimmy Choo di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi i sono voci, in circolazione, fatte apposta per creare atmosfere.Voci maschili giostrate in falsetto, filtrate dall’elettronica, che sussurrano e s’impennano chiedendo alla musica di assecondare e sublimare ogni stato d’animo possibile. Penso all’efebica voce di Antony Hegarty, a quella duttile e malleabile di James Blake e alla visionaria e seducente voce dell’americano Justin Vernon, che s’è scelto Bon Iver come pseudonimo giocando sull’espressione francese bon hiver (buon inverno) e ha voluto chiamare così anche la sua band che comprende il chitarrista Michael Noyce, il bassista Matthew McCaughan e il batterista e pianista Sean Carey. Quattro anni fa, Justin si è isolato in un capanno nel Wisconsin per esorcizzare una malattia e la fine di una storia d’amore. Ne è uscito con un pugno di canzoni catartiche, minimali e un po’ folk che sono confluite nell’album For Emma, Forever Ago trasformando il suo disgelo esistenziale in un sorprendente successo. Da quel momento, oltre a essersi messa al servizio della colonna sonora del film Twilight: New Moon con la canzone Rosyln in coabitazione con Annie Erin Clark (in arte St. Vincent), la sua purissima voce ha collaborato con Kanye West, il Volcano Choir e i Gayngs. E Peter Gabriel? Innamorato pazzo di un suo brano, Flume, ha voluto interpretarlo nell’ultimo disco di covers intitolato Scratch My Back. E lui, il Bon Iver già di culto, ha ricambiato il favore misurandosi con uno dei brani più possenti dell’ex Genesis: Come Talk To Me. Il nuovo album, semplicemente intitolato Bon Iver, Justin l’ha registrato a Fall Creek in un’ex clinica veterinaria che ha trasformato in April Base Studios, a pochi chilometri dalla casa dov’è cresciuto e dal bar dove i suoi genitori s’incontrarono per la prima volta. «Da Perth a Lisbon, passando per Michicant e Holocene, ho scelto per ogni brano del disco nomi di luoghi reali, metaforici o ibridi.

zapping

gni tanto le star dovrebbero ricordare che non hanno bisogno di seguire la moda, perché qualsiasi cosa fanno diventa comunque moda. Valga per tutti l’esempio di Louis Armstrong. Goffo, sfigato, e abbastanza brutto (non ce ne voglia Sachmo dall’alto dei cieli, era davvero così), appena divenne meritatamente il re del jazz tutti cominciarono a parlare, camminare, vestirsi come lui. La tossicomania di Charlie Parker creò una legione di fattoni tra i boppers, Jimi Hendrix creò il successo di una chitarra fino ad allora fallita come la Fender Stratocaster e via novellando. Quindi, quando veniamo a sapere che Aretha Franklin si è azzoppata per colpa delle scarpe Jimmy Choo, cioè che la sua fashion addiction le ha procurato una frattura al dito del piede sinistro, il commento comme il faut è un lapidario «ben le sta». Una regina non ha bisogno di accessori (tranne Lady Gaga, che non è una regina ma un gadget dei gadget che indossa, e mai fu altro). La regina del soul sarebbe ugualmente lei stessa con un paio di espadrillas o con le padule valdostane, e se indossasse calzature siffatte chissà quante dita dei piedi salverebbe in giro per il mondo. In merito Aretha ha detto: «Sono contenta che non si tratti del piede destro! Quel piede mi serve per suonare il piano al concerto del 27 luglio al Jones Beach Theatre di New York! Ma il vero problema ora è come faccio ad abbinare il mio nuovo vestito Marc Jacobs con questa scarpa blu da ingessatura?». Il richiamo tecnico al piede che serve per il piano riempie di gioia, ma la dichiarazione sul vestito ci conferma un fatto. Amiamo Aretha, ma del suo ruolo non capisce niente, ed è probabilmente un’irresponsabile. Pensasse alle dita delle giovani seguaci, pensasse.

O

C

Bon Iver, la voce

che crea l’atmosfera

Jazz

Ognuno di essi, raccontando una storia o una sensazione particolare, mi ha aiutato a “colorare” musicalmente le altre canzoni. Le prime cinque ruotano attorno alla chitarra elettrica e acustica, le altre al pianoforte e alle tastiere. La mia voce non ha fatto altro che legarle assieme, delineando di volta in volta un’atmosfera». Viaggio spirituale alla costante ricerca di sé, Bon Iver prende le mosse da «una canzone heavy metal con un suono da Guerra Civile», puntualizza Vernon. Si tratta di Perth: fraseggio ripetitivo della chitarra elettrica, incedere da marcia militare. Con Minnesota, WI, il reggae prova invece a infiltrarsi in una densa trama di percussioni mentre la nudità melodica di Holocene preannuncia il clima folk e la pudica allegria di Towers. E se il valzer di Michi-

cant, dagli imprevedibili fraseggi jazz, defluisce nel riverbero delle tastiere e nelle stratificazioni vocali di Hinnom, TX, le gocce ritmiche di Wash svelate dal pianoforte cedono all’improvviso il passo a sinfonie e accenni di soul music. Questo romantico e mutevole pellegrinaggio slow-core, si conclude con l’atmosfera evanescente di Calgary che poi prende sostanza con l’elettronica e il technopop; il fugace soffio sperimentale di Lisbon, OH; l’eclettismo di Beth/Rest: piano elettrico a scandire un soft-rock da mandar giù a memoria, svisate di chitarra elettrica, rapide toccate e fughe di sax. Buon inverno, dunque. Anche in piena estate. Per vedere l’effetto che fa. Bon Iver, Bon Iver, 4AD, 17,99 euro

The Driver, un nuovo punto di partenza

n Italia esistono diversi eccellenti musicisti che per ragioni spesso difficili da decifrare, non usufruiscono della grande visibilità che invece hanno altri altrettanto validi. Uno dei casi è quello del pianista Andrea Beneventano, il cui nome non figura neppure nell’ultima edizione, che dovrebbe essere la più completa, del Dizionario del jazz edito da Mondadori. Attivo da oltre vent’anni, dopo aver conseguito un diploma al Conservatorio di Santa Cecilia ha suonato con tutti i più importanti musicisti italiani e con molti americani distinguendosi per le sue capacità interpretative e di compositore. Apprezzato da musicisti, critici e appassionati, raramente lo si vede, con propri complessi, nei cartelloni dei maggiori festival. Le ragioni sono forse da individuare nel suo carattere, riservato a volte timido, ma anche, e soprattutto, nella sua musica che

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di Adriano Mazzoletti non indugia mai in quei facili cliché così graditi al grande pubblico. Musicista jazz di grande livello come è riscontrabile nel suo ultimo lavoro diThe scografico Driver, pubblicato da Alpha Music, con Francesco Puglisi al contrabbasso e Nicola Angelucci batteria. «Il mio approccio nel realizzare questo disco - dice Beneventano - è stato semplicemente di proporre la mia musica pensando molto al lavoro di gruppo e cercando di offrire qualcosa che potesse suscitare emozioni». Beneventano oltre a suscitare indub-

bie emozioni, dimostra, nella sua musica modernissima, la capacità di non dimenticare le radici della grande tradizione. Brani come My Gospel o Midget Steps denotano la capacità di interpretare una musica che oggi, sempre più spesso, dimentica quali sono state le caratteristiche che hanno fatto del jazz una delle musiche, se non la musica, più importante del secolo appena trascorso. «L’elemento che accomuna i brani continua Beneventano - è la ricerca della cantabilità e l’utilizzo del fattore

ritmico, sia in senso melodico che armonico. Gestire bene lo “spazio musicale” è il risultato del grande interplay che si è creato con gli straordinari musicisti con cui ho condiviso questo progetto». Oltre ai brani citati, assai interessanti sono le rivisitazioni in stile bop di Donna Quee e I Got You Rhythm, scherzose derivazioni di Donna Lee di Charlie Parker e I Got Rhythm di George Gerswhin, ma anche il melodico Cool River e il «bizzarro» The Driver, tema che dà il titolo all’album, sono di notevole interesse. Beneventano riversa, in quest’ultimo, tutte le sue idee musicali «per un nuovo punto di partenza», asserisce egli stesso. Disco importante, forse il migliore fra quelli incisi da questo eccellente pianista. Andrea Beneventano Trio, The Driver, Alfa Music Distribuzione Egea


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arti Mostre

roviamo a immaginare, in una città molto dechirichiana, una situazione visionaria, da film di Zavattini. Una sera imprecisata, tutti i monumenti, risorgimentali e non, piccati per la disattenzione cui sono quotidianamente sottoposti, lasciati troppo soli e impolverati dal tempo, si mettono d’accordo biascicando tra loro e ascendono insieme, coralmente e propulsiavamente, al cielo vuoto del dio laico, perdendosi nel nulla, come dei palloncini sfuggiti a bambini distratti. Peggio per i distratti, che magari fanno km per andare ad adorare un to date musei all’aperto, costellati di mammozzoni inqualificabili. Ma questo è il triste destino della nostra scultura monumentale e celebrativa, come bene ricorda in catalogo Silvana il curatore (insieme a Cristina Beltrami) Giovanni Villa, imprestato dalle sue competenze di pittura veneto-rinascimentale (ha appena conchiuso la fastosa mostra su Lotto alle Scuderie) a una passione ancor più familiare e adolescenziale, essendo figlio dello storico Renzo Villa, che condensa altra competenza in catalogo. E che non solo ci ricorda come «siamo così abituati alla loro presenza che non li degniamo più di uno sguardo» (come colui che abita vicino alle rive, secondo Leibnitz, che non ode più il rumore delle onde) e ci rendiamo conto di loro quando qualche turista straniero li fotografa o quando li usiamo come vili riferimenti toponomastici, per segnalare un’uscita di metrò (ma mai sapremmo definire di che personalità si tratta), ma giustamente deride e protesta le mode assessoriali, che fanno di tutto museo, dal vino al tartufo ai gabinetti scientifici, dimenticando grottescamente il «più grande museo diffuso sul territorio» che è quello dei monumenti. I motivi, a volerli cercare, ci sono, a partire dalla resistenza delle avanguardie contro la retorica e l’abilità accademica, e che cosa più del monumento cele-

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Architettura

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Inni all’Italia su bronzo e marmo

di Marco Vallora brativo e trionfalistico (lo sapevano i sulfurei futuristi) può rappresentare il deleterio tripudio del vecchio patinato, del patriottico stantio, delle buone intenzioni e maniere sentimentali, insomma della retorica di Stato? Anche se poi sappiamo che un grande rappresentante di questa rivolta, come Arturo Martini, che parlò esplicitamente e polemicamente di «lingua morta della scultura», non disdesgnò alla fine di progettare arditi monumenti. Né si può trascurare il fatto significativo

che per celebrare la Resistenza si scegliesse un linguaggio più moderno e di rottura (di quello risorgimentale), per esempio ricorrendo alle forme astratte d’un Mastroianni o di Consagra. Ma certo il monumento, inno politico versato nel bronzo o nel marmo, testimonianza simbolica evidente d’una certa disposizione patriottica, proprio perché così lontano dalle poetiche di liberazione dalle necessità illustrative e di autonomia dell’arte moderna, non poteva che cadere sotto la mannaia del rigorismo e

del puritanesimo modernista. Ma quanti occhiali da studio, borse di lavoro, orpelli da scrivanie, penne da calamaio, inforcati come spadini d’una guerra diplomatica, accompagnano l’accomodarsi borghese, al massimo tribunizio (via cavalli, cannoni, spade ed elmi) di questi eroi della tenzone parlamentare, che hanno combattuto spesso a parole, proprio per ottenere l’unione contrastata dell’Italia. La mostra, ospitata in una «piazza» coperta, straordinaria, come il Salone del Palazzo della Ragione di Padova, oltre che didatticamente preziosa per «ripassare» la Storia, accanto a quella degli stili, è magnifica proprio perché limita questa saturazione stucchevole da apparato celebrativo (nel marmo polito o nel bronzo specchiato) ricorrendo all’agnizione di preziosissimi e sensibilissimi bozzetti. Che ci trasmettono l’elettricità del «primo pensiero» e del sentimento vivo, poi effettivamente piallati e irregimentati nel risultato pubblico e ultimativo della committenza ufficiale. Ma guardando le opere, qui straordinariamente raccolte dopo una ricerca capillare in archivi, snobbati dagli abituali storici dell’arte, transitando dai più noti e accreditati Calandra, Canonica, Bistolfi, Vela, Ximenex (con il suo delicato e patetico Cuore di Re, con il Re Galantuomo, accompagnato dal suo fido cane da caccia, che su un cadreghino da giardino accarezza un docile orfano) e il cosmopolita Troubetzkoy, ma anche i minori, ma non meno affascinanti, Butti, Tortona, Barzaghi, Balzico, Rosa, Ceccon e Borro (sfido qualsiasi a dire di conoscerli, come si conoscono i coevi pittori scapigliati o veristi) è difficile non sorprendersi, e scoprire per esempio un artista notevole, come il Tabacchi, con il suo romantico Foscolo. Partendo dal neoclassicismo idealizzante di Canova e Tenerani, sino alla forza littoria (preoccupantemente bella) di Morbiducci e Baroni, attraverso legioni di Danti, Petrarchi, Alfieri, Garibaldi e Lagrange, s’intuisce meglio che cosa significhi ricorso al vero storico e verismo scultoreo.

Ritorno a San Paolo dopo il restyling

n’improvvisa e preoccupante inclinazione dei caseggiati prospicienti via Giustiniano Imperatore a Roma suonò agli inizi del 2000 l’allarme sullo stato di sicurezza di un gruppo di immobili nel quartiere San Paolo, al confine con la Garbatella. La grave emergenza è stata colta dall’amministrazione comunale che ne ha fatto un’opportunità di riqualificazione dell’intero quartiere, bandendo un concorso a inviti dall’ingegnosa procedura. Nel giugno 2006 la gara è aggiudicata a un’Ati di sei imprese, la Società Consortile Giustiniano Imperatore, associata per il progetto architettonico allo studio ABDR Architetti Associati di Roma, noto internazionalmente per avere vinto il concorso per la Nuova Stazione Tiburtina e per la Città della Musica di Firenze. Distribuiti su due corpi di fabbrica vigorosamente articolati i nuovi © Moreno Maggi appartamenti replicano in parte la distribuzione e la dimensione di quelli demoliti, in modo che gli antichi abitanti una volta reinsediati possano ritrovare la familiarità del

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di Marzia Marandola precedente alloggio. Dei nuovi appartamenti 104 sono destinati alle famiglie sgomberate, una decina passa in proprietà del Comune e 46 all’impresa costruttrice di cui costituiscono il profitto. Gli edifici, perfettamente integrati con nuovi e adeguati spazi a destinazione commerciale e terziaria, ordinano un sistema di servizi a scala di quartiere particolarmente funzionale. La piazza sopraelevata che rilega i due blocchi di alloggi costituisce infatti la copertura dei garages pubblici e privati e di una moderna e luminosa piscina pubblica, aperta su un parco a scala di quartiere, dotato di percorsi ciclabili e di sentieri pedonali. Uno dei blocchi, disposto lungo la strada principale, ha un impianto curvilineo che ricalca il profilo del precedente piano particolareggiato, mentre il secondo ha un impianto più tradizionale a corte aperta, che sbocca nella piazza pensile. Sollevati in parte dal piano stradale, i corpi edilizi sono permeabili agli spazi comuni e sovrastano quelli pubblici,

dove i giardini e i percorsi, accuratamente progettati, segnano il graduale passaggio dallo strada ai luoghi più interni attrezzati e protetti. I volumi si sviluppano per un’altezza di circa 35 metri fuori terra, con 7 piani residenziali, occupati ognuno da un minimo di 7 appartamenti a un massimo di 14, e con 2 piani interrati adibiti a parcheggi e cantine. L’immagine degli edifici suggerisce con elegante dissimulazione, la varia metratura e distribuzione interna degli appartamenti che è all’origine di prospetti a maglia flessibile, rivestiti da riquadrature murarie in laterizio di coloriture diverse, dall’ocra al violaceo, scavati da ombrose logge, schermate da pannelli metallici scorrevoli, che fungono anche da brise soleil. Le facciate configurano impaginati compositi e vibranti, simili a grandi pannelli colorati ispirati all’astrattismo geometrico. Articolate e armoniose, le facciate del residenziale sono issate su altissimi pilastri circolari di sezione variabile, che in parte hanno funzione strutturale, in parte alloggiano gli impianti. Tutta l’elegante configurazione architettonica dà prova della ancora potente vitalità espressiva del tema architettonico dell’abitare, animato da un controllato e ben armonizzato repertorio di elementi piani e spaziali, composti da pareti in blocchi di calcestruzzo e rivestimento in mattoni in laterizio faccia vista.


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n uomo maturo (ha superato i quaranta) scrive a un giovane di venticinque anni: «Mio carissimo ragazzo, ti scrivo per rassicurarti sul mio eterno, immortale amore per te. Domani sarà tutto finito. Se la prigione e il disonore saranno il mio destino, pensa che il mio amore per te e l’idea, ancor più sublime, che tu mi ami a tua volta, mi sosterranno nell’infelicità e mi renderanno capace, spero, di sopportare il mio dolore con maggiore pazienza. Poiché la speranza, o meglio la certezza, che ti incontrerò di nuovo in qualche mondo, è la meta e lo sprone della mia vita presente. Ah! Devo continuare a vivere in questo mondo per questa ragione». È la sera del 30 aprile 1895. Oscar Wilde, sotto processo con l’accusa di sodomia e di oltraggio al pudore, è rinchiuso nel carcere di Holloway. Il giovane cui si rivolge con tanta dolente tenerezza è Alfred Douglas, figlio di John Sholto Douglas, ottavo marchese di Queensberry. Come ricorda Paolo Orlandelli, in un volume che raccoglie gli atti dei due processi intentati a Oscar Wilde e che porteranno lo scrittore alla condanna a due anni di carcere e infine alla rovina (Imputato Oscar Wilde, a cura di Paolo Orlandelli e Paolo Iorio, prefazione di Nitto Francesco Palma, Stampa Alternati-

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va, 275 pagine, 15,00 euro), i rapporti tra padre e figlio «erano funestati da violenti rancori». E con un sedimento di tristi vicende familiari. Infatti, il «marchese scarlatto», così chiamato per la facilità con cui le sue guance si imporporavano a causa del temperamento iracondo, aveva divorziato dalla moglie, dopo averla tormentata per anni, con l’accusa di aver generato figli indegni. La riprovazione del nobiluomo non cadeva solo sul solo Alfred, visto che, come scrive Orlandelli, «il primogenito, Lord Drumnlarig, si era probabilmente suicidato per una presunta relazione con il ministro degli esteri Rosbery, di cui era segretario particolare». Ciliegina sulla sconcia torta, «Lord Alfred, che non era riuscito a laurearsi a Oxford, frequentava assiduamente il poeta dandy più chiacchierato della City, di sedici anni più grande di lui». Insomma, la buona società vittoriana, tra aristocratici di rango e poeti aureolati dalla gloria, spettegolava a più non posso, e l’infiammabile marchese, no, non ci poteva stare. A dire il vero, prima ci provò con le buone, nel senso che cercò di convincere Lord Alfred (meglio noto col vezzeggiativo di Bosie) e Wilde a troncare la loro scandalosa amicizia. Visto, però, che non aveva ottenuto nulla, lasciò presso il circolo frequentato dall’Eletto

Paragonò il suo affetto per il giovane Bosie a quello tra Davide e Gionata. E per assolversi citò Michelangelo e Shakespeare. Leone XIII non gli rifiutò la sua benedizione

il paginone

Sodomita lussurioso o alfiere della Bellezza? Spirito eletto al di sopra del bene e del male, o anima protesa alla purezza e, più tardi, alla purificazione? Oscar Wilde è ancora un mistero da decifrare, e gli atti appena pubblicati del processo che subì per la sua relazione con Alfred Douglas (e per cui fu condannato a due anni di prigionia e di lavori forzati), lasciano aperti gli interrogativi… di Mario Bernardi Guardi

L’uomo dell

Sopra Oscar Wilde visto da Toulouse Lautrec; in alto, due immagini dell’autore del ”Ritratto di Dorian Gray” in anni diversi; nella pagina a fianco, una vignetta satirica a lui dedicata, lo scrittore con Alfred Douglas e la sua tomba a Parigi

anno IV - numero 24 - pagina VIII

Esteta una sorta di «cartello di sfida». Sgrammaticato ma eloquente. «A O.W. che posa a somdomita» (sic!). Oscar doveva far finta di nulla, considerando che si sarebbe impelagato in una faccenda da cui era impossibile uscire a testa alta? Nel senso che di «testimoni d’accusa» se ne potevano trovare a iosa, perché il suo «vizietto» era noto e ben documentabile? Probabilmente sì, ma il bel Bosie, per vendicarsi di papà (ma con quali prospettive?), incitò lo scrittore a querelarlo. E il marchese venne arrestato e rinviato a giudizio per calunnia. Una mossa avventata seguita da un errore, perché bastò la «memoria difensiva» del marchese a far incriminare Wilde per sodomia e oltraggio al pudore. «In due processi consecutivi (il primo venne ripetuto perché la giuria non era perve-

nuta a un verdetto unanime) Oscar Wilde e Alfred Taylor (amico di Wilde e procuratore di giovani prostituti) vennero condannati al massimo della pena prevista per questo reato: due anni di reclusione con l’aggiunta dei lavori forzati».

Come è noto, Wilde, uscito di prigione nel 1897, morirà a Parigi tre anni dopo, al termine di una via Crucis di miserie e malanni, in un tetro scialo di sensi di colpa, ossessioni, funebri narcisismi, contraddittorie voglie di purificazione, impennate di orgoglio, convulsi appelli alla comprensione/misericordia. Per noi posteri, non coinvolti ma curiosi, l’interrogativo rimane questo: Oscar continuò a sentirsi un individuo di eccezione, un alfiere della Bellezza che in quanto tale sdegna codici morali e censure, un spirito eletto che la volga-


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rato in quanto tale e, in quanto tale, diventa automaticamente «buono». Fino a un processo di spiritualizzazione del corpo- e dell’attrazione esercitata dal corpo - che diventa una sorta di «santificazione».Tanto estrema da apparire ingenua. O, se vogliamo, imbarazzante, spiazzante. In ogni caso, c’è da riflettere. Perché è difficile vedere in Wilde «solo» un patetico ed esecrabile cercatore di prostituti; una «vecchia checca», che se la faceva con i ragazzini, andandoli a pescare magari tra proletari e sottoproletari, grazie all’opera di «mediatore» di Alfred Taylor; un «immoralista» vanesio e sputasentenze (come il suo amico André Gide), che ogni tanto prendeva una cotta così forte da restarne tramortito e incapace di intendere e volere. In particolare di fronte alla sfrontatezza seduttiva di giovanetti di rango più elevato, e magari colti e sensibili, ma all’occorrenza ancor più perversi dei loro «colleghi» ruspanti.

Nel caso di Bosie, la «cotta» di Wilde pare andare al di là di una incontenibile, devastante attrazione fisica. Dalle oscure profondità del carcere di Holloway vien fuori una testimonianza che, pur con tutta l’enfasi di cui gronda, quanto meno ci chiede attenzione e compassione. Leggiamo: «Bambino mio (…), mia

te (…). Ciò che la saggezza è per il filosofo, ciò che Dio è per il santo, tu sei per me. Custodirti nella mia anima è la mèta di questa pena che gli uomini chiamano vita. Amore mio, te che adoro più di ogni cosa, bianco narciso in un prato selvaggio, pensa al fardello che porti sulle tue spalle, un fardello che solo l’amore può rendere lieve. Ma non rattristarti per questo, sii felice di aver riempito di un amore immortale l’anima di un uomo che ora piange all’inferno, ma conserva il paradiso nel suo cuore». Bosie come incarnazione della bellezza ideale, come idea platonica? Certo, il «ritratto» dipinto da Oscar è questo. Ma una simile opera di trasfigurazione non reggerà alle umiliazioni, alla condanna, alle sofferenze patite in carcere (il lavoro forzato, la fame, l’insonnia, le malattie), allo scandalo che sconvolgerà la sua famiglia (non dimentichiamo che l’omosessuale Wilde era marito e padre. Tutt’altro che esemplare? D’accordo, ma nel 1888 aveva pubblicato Il principe felice ed altri racconti, dedicandoli ai figli Cyril e Vyvyan: e si tratta di fiabe bellissime, che rivelano un cuore poeticamente «infantile»), alla riprovazione della buona società, alla degradazione dell’«immagine», alla vita errabonda che sarà costretto a condurre, spesso e (mal)volentieri nelle condizioni di un querulo postulante, sempre a corto di soldi, e che batte alla porta degli ultimi amici che gli restano (quelli che Lord Queensbery malignamente chiamava gli «Oscar Wilders»). Il grande amore di Oscar e Bosie finirà in pezzi, tra accuse, contro-accuse e ri-

Uscito dal carcere nel 1897, morirà a Parigi tre anni dopo, in miseria. Ma nel “De profundis” racconta di una diversa “felicità” prodotta dall’incontro col Cristo Redentore sì, il mondo non vuole capirlo. Il mondo lo irride e a volte mette qualcuno alla gogna per causa sua».

L’autore del Ritratto di Dorian Gray

lo scandalo rità e la mediocrità del mondo possono schiacciare ma in nessun modo contaminare; oppure la sanzione morale, sociale, giuridica che lo colpì così duramente lo convinse che l’insegna del «bello e dannato», al di là del bene e del male, è solo presunzione luciferina contro cui umano e divino debbono procedere di conserva, a tutela del vero, del buono e del giusto? Diciamolo subito: una risposta convincente non c’è. Wilde contro i suoi dèmoni indubbiamente combatte e in lui c’è, «cristianamente», il senso del peccato, come c’è, confusa e diffusa in buona parte della sua produzione letteraria, l’aspirazione alla purezza. Solo che, come ai dèmoni ci si arrende allorché hanno sembianze di angeli, così la «purezza» finisce col coincidere con la sublimazione del «bello» che è ado-

dolce rosa, mio fiore delicato, mio giglio fra i gigli, forse sarà in prigione che metterò alla prova la forza dell’amore.Vedrò se sarò in grado di tramutare l’amaro in dolce, grazie all’intensità dell’amore che provo per te. Ci sono stati momenti nei quali ho pensato che sarebbe stato meglio separarsi. Ah! Momenti di debolezza e di pazzia! Ora comprendo che una cosa simile avrebbe mutilato la mia vita, rovinato la mia arte, infranto quell’accordo musicale che rende l’anima perfetta. Anche se fossi coperto di fango, continuerei a lodarti, dagli abissi più profondi continuerei a invocarti.Tu sarai con me nella mia solitudine. Sono determinato a non ribellarmi, ad accettare qualunque oltraggio grazie alla devozione dell’amore, a lasciare che il mio corpo venga umiliato purché la mia anima possa sempre conservare l’immagine di

sofia e quale si trova nei sonetti di Michelangelo e di Shakespeare. È un affetto profondo, spirituale, che non è meno puro di quanto sia perfetto. Che ispira e pervade grandi opere d’arte come quelle di Michelangelo e di Shakespeare. In questo secolo è incompreso, talmente incompreso che può essere descritto come “L’Amore che non osa pronunciare il suo nome”, e causa sua io mi trovo dove sono ora. È bellissimo, è elevato, è la più nobile forma d’affetto. Non vi è nulla di innaturale in esso. È intellettuale e si verifica sempre tra un uomo più grande e uno più giovane quando il più grande possiede l’intelletto e il più giovane ha tutta la gioia, la speranza e il fascino della vita davanti a sé. Che debba essere co-

sentimenti sparsi. E patetica suonerà una celebre rivendicazione di Wilde, volta a dare legittimazione etico/estetica nonché «quarti di nobiltà» alla sua scelta omosessuale: «“L’Amore che non osa pronunciare il suo nome”, in questo secolo, è un grandissimo affetto di un uomo più maturo verso un uomo più giovane, quale vi fu tra Davide e Gionata, quale Platone mise alla base della sua filo-

cercherà poi di esorcizzare i suoi residui (e resistenti?) dèmoni recandosi a Roma, dove riceverà la benedizione di papa Leone XIII. E, tornato nella sua terra «d’esilio», a Parigi, spirerà il 30 novembre 1900, alla presenza degli amici Robert Ross e Reginald Turner, dopo aver ricevuto il battesimo e l’estrema unzione della religione cattolica. Lasciandoci una Epistula in carcere et vinculis come il De profundis, pubblicata cinque anni dopo la sua morte, in cui la sofferenza, la rassegnazione e l’espiazione diventano la porta che si apre su una nuova, paradossale «felicità», e il grande, vero, libero poeta non è più lui, l’Esteta, signore della trasgressione, ma il Cristo, «Poeta del dolore» e «Redentore». Un uomo sinceramente pentito quello che, nei trionfi della sua irriverente giovinezza, aveva graffiato i ben pensanti a colpi di aforismi come «La moralità è l’atteggiamento che usiamo con le persone che non ci piacciono» e «L’unica cosa a cui non so resistere sono le tentazioni»? Anche qui la risposta è ardua e ripropone l’interrogativo sul «vero» Wilde. Chi era? Chi voleva essere? Qual era l’Oscar Wilde più sincero? Dorian Gray o il suo ritratto?


Narrativa

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libri

Ricardo Piglia BERSAGLIO NOTTURNO Feltrinelli, 249 pagine, 16,00 euro

è un’indagine di polizia, c’è un commissario, e ovviamente c’è un morto. Ma sono solo spunti dai quali spiccare il volo con un romanzo bellissimo e raffinato, che erroneamente potrebbe chiamarsi «giallo» a meno che questo genere narrativo sia, come è giusto in alcuni casi, da classificare come narrazione e basta. L’argentino Ricardo Piglia (nato nel 1941), docente di Letteratura sudamericana alla Princeton University, è uno dei più grandi scrittori di Buenos Aires. Parto dalla superficie: Tony Duràn, mulatto di Portorico cresciuto nel New Jersey, arriva in un paesino della «pampa umida» a sud della capitale con una borsa piena di dollari e una missione che nessuno riesce a decifrare. Poi viene trovato senza vita nella sua camera d’albergo. Pare che nella pianura argentina dalla «vastità giallognola», terra di gauchos, di immigrati baschi e piemontesi, sia arrivato perché ad Atlantic City aveva conosciuto Ada e Sofìa Belladona (con una «enne» e non due come si legge nel risvolto di copertina: un po’ di attenzione, redattori della Feltrinelli!), splendide e ambigue gemelle figlie di Cayetano, e nipoti del «colonnello» Bruno che aveva combattuto nell’esercito italiano nella prima guerra mondiale. Una relazione amorosa con entrambe (addirittura ménage a trois), con quelle argute e pigre creature dai capelli rosso-irlandese (come la madre) che, se possono, mai si fanno vedere insieme? Possibile. Dopo la morte violenta di Tony, «avventuriero» colto, la cittadina della pampa è come inondata dalle dicerie «che scorrevano come acqua sotto le porte chiuse durante un’alluvione». Storia sempre in bilico tra verità e fantasia, ma a tutti gli effetti cronaca pura, tanto è vero che la titolare della biblioteca locale conserva gelosamente un archivio composto da lettere anonime. Indaga il commissario Croce, sul limitare della pensione, così geniale da riconoscere, e rispettare, la differenza tra un romanzo giallo e la realtà: quest’ultima non può inglobare l’obiettivo consolatorio del primo perché «non è vero che si possa ristabilire l’ordine, non è vero che i crimini si risolvono sempre… non c’è nessuna logica, lottiamo per ristabilire le cause e dedurre gli effetti, ma non riusciamo mai a conoscere la rete completa degli intrighi». Una rete inquietante, visto che il procuratore Cueto, arrogante e corrotto, si sbarazza di Croce, che ha dubitato della soluzione troppo facile, a tal punto che il poliziot-

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Riletture

Al gran ballo della Verità

Ricardo Piglia mette al lavoro un commissario e un reporter in un’indagine sui “Buddenbrook della pampa” di Pier Mario Fasanotti

to non rinuncia a elucubrare teorie e a scandagliare connessioni, ma all’interno di un manicomio. Croce non è un intellettuale dandy, è un campagnolo dalla mente affilata. Il romanzo di Piglia scaraventa sulla scena che, dice, potrebbe benissimo essere simile a quella siciliana, il giornalista Renzi, inviato di un foglio della capitale per il fatto che la vittima è uno yankee, anzi uno janqui, come si dice «nel paesaggio vacuo della pianura», nella pampa allucinata dove galoppano i gauchos, dove si cita «il principio di individuazione» di Carl Gustav Jung, dove si accenna a Democrito e si vagabonda con affilato piacere sull’orlo di romanzi europei. In galera ci va il piccolo giapponese Yashio, impiegato d’albergo, più narciso che omosessuale, un nikkei (così li chiamano quelli d’origine nipponica, non pochi) che mai perderà delicatezza, tormento interiore, vizi e senso dell’umiliazione. Renzi parla a lungo con una delle sorelle Belladona, eredi femmine di un ex impero industriale, creato dal colonnello piemontese. Si trova nel mezzo di una saga argentina che è il corrispettivo sudamericano dei Buddenbrook (di Thomas Mann), principale indiziata d’una morte feroce ma anche di tanti lutti, calamita di torbidi interessi commerciali alla vigilia (1972) del ritorno del generale Perón alla guida dell’Argentina. Nella fabbrica ormai vuota insegue un’illusione smisurata l’erede Luca, dopo la morte del fratello Lucio. Si barrica lì dentro, interpreta i propri sogni e progetta mostri meccanici, tra il futurismo e forse geniali intuizioni. Luca potrebbe essere collegato con la morte dell’ispanico-americano Duràn. Il commissario Croce, sbattuto via come si fa con un ostacolo scomodo ai disegni di commercio famelico e devastante, conduce il reporter di Buenos Aires, che è poi un letterato, nel labirinto di quella logica che però fatica sempre a indossare l’abito da gala nel gran ballo della verità (cerimonia quasi sempre rinviata). Con il malinconico orgoglio dell’intelligenza, l’ex commissario Croce dice al giornalista: «C’è una soluzione apparente, poi una soluzione falsa e infine una terza soluzione». Il reporter torna a casa, dopo aver salutato alla stazione una delle gemelle Belladona. La quale, come la maggior parte dei fantasmi della pampa, vorrebbe partire e alla fine decide di restare. È «la filatura e la tessitura ineluttabile del destino»: così paiono fatte le coperte dei gauchos.

“Uccidi Garibaldi” egregiamente trent’anni dopo on il suo primo libro, Amore mio, uccidi Garibaldi (Longanesi), nel 1980 Isabella Bossi Fedrigotti iniziò una carriera letteraria luminosa. Nel ‘91 con Di buona famiglia (Longanesi) vinse con facilità il Premio Campiello, tanto piacque ai più insieme l’eleganza, l’ironia della scrittura, la felicità nella descrizione dei personaggi, anche quando possono nascere conflitti fra di loro. Molti altri libri sono seguiti ma io voglio riferirmi anche alla prova più recente, Se la casa è vuota, dedicata a interni di famiglia, bambini, genitori in vicende di grande attualità e di grande drammaticità andando a toccare corde violente che, più o meno, riguardano tutti noi. Ora Amore mio, uccidi Garibaldi è stato ristampato e si offre a una eccellente rilettura: non solo ritroviamo la freschezza dell’opera prima ma si aggiungono, a ripensarci ora, tanti squarci narrativi di guerra e di pace. Isabella Bossi Fedrigotti, di famiglia aristocratica di origine austriaca, ha ritrovato nell’archivio della casa antica tante lettere che i due protagonisti del romanzo si scambiavano da innamora-

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di Leone Piccioni ti, da sposi, in pace e in guerra. Leopoldina è il personaggio che fa da padrona nel libro, dolce, acuta, intelligente, sensibile, innamorata sempre del suo sposo e tremendamente in ansia quando Fedrigo, l’altro protagonista, andrà in guerra pur non correndo grandi pericoli. La scrittrice ha molto lavorato per ritoccare e trascrivere da pronipote quelle belle lettere, e in tante parti dell’epistolario e in tante sfumature si sente la sua mano. Se le lettere fossero rimaste quelle autentiche si potrebbe parlare di Leopoldina e di Fedrigo come veri scrittori dai quali la Bossi Fedrigotti potrebbe discendere. Molti altri spunti offre questo romanzo epistolare, tante pagine. Non solo mi fermerei sulle minuzie relative all’andamento di una casa aristocratica ma non tanto ricca, ma anche alle patetiche pagine in cui Fedrigo si ritrova in mezzo a un gruppo di garibaldini, che combattevano contro gli austriaci nella terza guerra d’indipendenza italiana del 1866, fatti prigionieri: per questa cattura non c’è alcun trionfalismo, in quei visi dei prigionie-

L’esordio narrativo di Isabella Bossi Fedrigotti resiste bene alla prova del tempo

ri c’è la tristezza, una cupa visione della vita, l’orrore - non paia strano - della guerra. In quella guerra l’esercito di re Vittorio Emanuele alleato con i francesi di Napoleone III combatteva in prima linea, mettendo nel libro nero della sua storia la pesante sconfitta di Custoza in una battaglia di terra e di Lissa una battaglia di mare (il ricordo sfumato della sconfitta di Lissa compare in pagine molto taccanti anche nei Malavoglia di Verga). Se l’esercito italiano combatteva in prima linea, una formazione di volontari simili ai Mille comandati da Garibaldi, combattevano all’interno del territorio nemico in una sorta di guerriglia ante litteram. Garibaldi è odiato dagli austriaci che vogliono ricordare anche come lui combattè da pirata nei mari del Sud America. Ma non c’è dubbio che fu Garibaldi con la spedizione dei Mille a decretare l’unità d’Italia. Ed ecco perché dalla esile voce di Leopoldina parte un grido, insieme d’amore e di guerra, per dire a Fedrigo che sta combattendo: «Uccidi Garibaldi, amore mio, e torna presto tra le mie braccia». Si sa che molte cose invecchiando migliorano; il vino, per esempio; questa opera prima di Isabella Bossi Fedrigotti a trent’anni di distanza è certamente invecchiata benissimo.


Bestseller

MobyDICK

ames Redfield, sessant’anni, americano, scrittore, sceneggiatore e produttore cinematografico è tornato. L’autore della Profezia di Celestino, bestseller da oltre dodici milioni di copie vendute in tutto il mondo (due milioni solo in Italia), tradotto in 34 lingue, è di nuovo nelle librerie con La dodicesima illuminazione - L’ora del risveglio. Edito da Corbaccio (309 pagine, 18,60 euro), è un romanzo che riporta alla luce la consapevolezza della nascita di una nuova era spirituale per l’umanità. Redfield, dopo il successo della Profezia di Celestino, ha pubblicato La decima illuminazione, la Guida alla profezia di Celestino, la Guida alla decima illuminazione e, successivamente, La visione di Celestino e Il segreto di Shambhala. Libri suggestivi, che hanno appassionato milioni di persone e che per molti costituiscono la definizione stessa del New Age. Anche La dodicesima illuminazione riprende i fili di quella ricerca interiore già elaborata nel primo romanzo, ma la conduce a livelli superiori, trasmettendo un messaggio di speranza a tutta l’umanità, troppo presa dal vortice del materialismo, dall’estremismo ideologico e religioso per accorgersi di una dimensione spirituale più alta. Il suo raggiungimento, secondo Redfield, è assolutamente necessario per l’uomo e per l’esistenza stessa dell’umanità. Gli elementi fondamentali per un secondo successo ci sono tutti: l’avventura, il mistero, gli eroi, la lotta tra il bene e il male, ma questo romanzo che cattura subito la lettura riserva anche un messaggio più profondo che può cambiare la vita di ognuno di noi.

J

Tutto ruota intorno agli uomini illuminati dalla verità, l’anonimo già protagonista della Profezia di Celestino (Redfield scrive in prima persona, come sempre, per sottolineare la centralità del percorso di illuminazione più che per dare risalto a un personaggio) e il suo amico di avventure Will; e poi il resto della compagnia, uomini e donne comuni di diversa religione ed etnia, tutti eroi, forse gli ultimi, che hanno trovato dei brani di un antico manoscritto che dovranno ricomporre e interpretare. Il gruppo dovrà compiere un viaggio interiore profondo e allo stesso tempo meraviglioso, durante il quale dovrà affrontare e sconfiggere un’antica setta, gli Apocalittici, che stavolta hanno la fattezze di terroristi dogmatici che mirano molto più in alto, direttamente alla distruzione del mondo. I personaggi del romanzo si mettono sulle tracce dell’antica profezia, cercando di interpretare i frammenti di questo misterioso e antico documento, e intraprendono una corsa contro il tempo per neutralizzare un complotto internazionale che affonda le sue radici nel male. E per sventare l’Armageddon, il grande pericolo nucleare per l’umanità, che può scatenare un conflitto planetario, i protagonisti dovranno elevarsi a una dimensione spirituale superiore per comprendere il messaggio di salvezza; e per questo dovranno credere. In questa avventura sono tanti i pericoli da affrontare e anche i colpi di scena, ma con la guida dell’antico manoscritto della Profezia di Celestino ritrovato in Perù e la

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ALTRE LETTURE di Riccardo Paradisi

L’ODIO ANTICRISTIANO? È POLITICALLY CORRECT a persecuzione contro i cristiani non è un tema a cui la cultura e i media europei e italiani ritengono di dover dedicare troppa attenzione. Antonio Socci nel suo Guerra contro Gesù (Rizzoli, 250 pagine, 19,90 euro) attribuisce questo comportamento a uno spaventoso odio anticristiano che sarebbe ritenuto intollerabile verso qualunque altro gruppo religioso, etnico o sociale. Un attacco che aggredisce anche le radici negando la storicità di Gesù Cristo. Peccato si tratti di un’operazione mistificatrice considerando, come dimostra Socci, che tutte le più aggiornate acquisizioni storiche, archeologiche, filologiche, scientifiche risultano essere conferme piene in favore dei Vangeli di Gesù.

L

I calcoli sbagliati dei Maya Redfield, autore della “Profezia di Celestino” nel proseguire la sua saga new age, nega nel nuovo romanzo che il mondo sia destinato a finire nel 2012. Ma immagina il rischio di un Armageddon nucleare se gli uomini non si risveglieranno per ricominciare a parlare con Dio di Martha Nunziata giusta interpretazione del calendario Maya, che secondo l’autore prevede erroneamente la fine del mondo nel 2012, i protagonisti dovranno svelare il messaggio della dodicesima illuminazione per poterlo salvare. Redfield analizza il risveglio dell’uomo che deve ritornare a una dimensione vicina a Dio, e non si riferisce solo al cristianesimo, ma a tutte le religioni, compresi gli agnostici, che devono ricercare una realtà spirituale che si raggiunge solo con un cambiamento radicale, profondo e interiore di vita che non significa solo un percorso di fede ma anche una conoscenza «trascendente». Il libro esplora con intensità l’esperienza premorte e l’aldilà, e il viaggio dell’uomo alla ricerca della verità della vita che si raggiunge solo dopo un percorso difficile. Questa è una esperienza spirituale possibile solo se «si entra in un flusso sincronicistico... e solo allora otteniamo la lucidità» per vedere. Nulla accade per caso, ma tutto ha un suo scopo e un motivo: questa è la prima illuminazione, la più importante, quella che apre il cammino verso i passi successivi. E in questo modo potremo avvertire e polarizzare «la sincronicità», ovvero visualizzare in anticipo gli avvenimenti e le coincidenze che la

nostra mente può avvertire naturalmente, ma che noi non siamo in grado di percepire perché troppo presi, offuscati da estremismi ideologici, dal materialismo che ci circonda, dallo scetticismo scientifico e storico, e troppo ossessionati dalla nostra condizione terrena.

James Redfield con questo romanzo a tratti avventuroso, spirituale e drammatico ha riportato al centro del cosmo l’uomo che vuole trovare un ordine al caos, per ritrovare Dio: per farlo deve raggiungere la consapevolezza, la sincronicità che si ottiene solo dicendo la verità, unica via che ci permetterà di innalzarci a un livello superiore, che ci permetterà di vedere le premonizioni, e raggiungere, con la guida delle intuizioni, la dodicesima illuminazione. Se l’uomo non si accorgerà di questa dodicesima illuminazione, il mondo potrebbe essere spazzato via da qualunque esercizio di potere di qualsiasi fazione politica, religiosa o anche da fanatismi individuali o da estremismi ideologici. Tutto quello che ci circonda ha un significato esoterico e spirituale, dal volo degli uccelli ai corvi, che sono un segnale positivo della natura, che bisogna solo saper leggere, in una ricerca continua del Karma: ma per poterli percepire questi segnali devono essere visti con occhi credenti, col desiderio di comunicare con Dio.

PERCHÉ LA SPAGNA APPOGGIÒ IL CAUDILLO *****

i certo quella che Franco impose alla Spagna è stata una lunga dittatura di tipo fascista. Ma questo è potuto avvenire perché Franco ha potuto contare sull’attivo sostegno di un’ampia parte della cittadinanza. A portare moltissimi spagnoli nel campo franchista come spiega Gabriele Ranzato nel saggio La grande paura del 1936 (Laterza, 321 pagine, 24,00 euro) furono le inaudite violenze a sfondo antireligioso e anticlericale dei repubblicani. Allo scoppio della guerra civile erano ben 239 i luoghi di culto dati alle fiamme, cadaveri di parroci e vescovi disseppelliti, l’impedimento dei funerali cattolici, l‘impedimento delle prime comunioni dei bambini. «Non occorre essere credenti per sentire quanto dolore e risentimento provocassero queste ferite alle coscienze religiose».

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ANCHE DE GAULLE ERA UN VIDEOCRATE *****

rotagonista della storia europea del Novecento, Charles de Gaulle è stato anche un pioniere nel ricorso ai mass media. Dopo essersi servito della radio durante la seconda guerra mondiale una volta tornato al potere nel 1958 avvia un sodalizio intenso e fruttuoso con la televisione denunciato dai suoi oppositori come telecrazia. Il saggio di Riccardo Brizzi L’uomo dello schermo (Il Mulino, 356 pagine, 28,00 euro) ricostruisce le modalità di utilizzo e di controllo del mezzo televisivo adottate da de Gaulle nel decennio che va dal 1958 al 1969 mettendo in luce il ruolo che l’associazione tra potere carismatico e televisione ha svolto nel legittimare la leadership gollista e nel determinare l’evoluzione presidenzialista della V repubblica.

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di Francesco Arturo Saponaro maggio a Gian Carlo Menotti nel centenario della nascita, per l’apertura del 54° Festival dei Due Mondi. Amelia al ballo, opera buffa in un atto, mai rappresentata a Spoleto. Musica e libretto dello stesso Menotti, che nel 1937 esordiva nel teatro musicale con questo lavoro, l’unica tra le sue opere originalmente creata in lingua italiana. Consolidato dalla positiva riuscita dei suoi quattro anni di direzione artistica, Giorgio Ferrara (che si è assunto la regia di questo titolo inaugurale) ha voluto onorare il mitico fondatore e riconciliarsi con la sua memoria, dopo le traversie giudiziarie con gli eredi negli ultimi anni. Fin dal debutto newyorkese (tradotta in Amelia Goes to the Ball), Amelia al ballo incontrò un netto, immediato successo, replicatosi anche nella prima italiana di un anno dopo, al Teatro Municipale di Sanremo. Incisivo talento lirico. Istinto drammaturgico infallibile, da autentico animale teatrale. Libretto e ritmo spediti, ben concatenati in idee musicali di sicura presa. Scrittura musicale che riesce abilmente a coniugare suggestioni del linguaggio americano e di musica moderna dell’epoca. Sono le ragioni di una fortuna che, confermata da altri lavori successivi, guadagnerà sovente a Menotti il favore del pubblico e il feroce ostracismo delle fazioni avanguardistiche della musica italiana del secondo Novecento. L’azione si sviluppa nel primo Novecento, coeva al giovane autore, in una metropoli europea indefinita. La regia di Giorgio Ferrara ha scelto Milano. Perché a Milano sono le radici di Menotti, nato nel 1911 in provincia di Varese, e poi allievo del Conservatorio meneghino dal 1923 al ’27, quando Toscanini, già insofferente della dittatura fascista, lo esortò a trasferirsi negli Usa. Giovane donna amante del lusso, Amelia desidera sopra ogni cosa partecipare al primo ballo della stagione. Febbrilmente si prepara con l’aiuto di due cameriere, alla presenza di un’amica impaziente. Sopraggiunge il marito, furibondo. Ha appe-

O

Televisione

Classica

MobyDICK

spettacoli DVD

Con Amelia Spoleto ritrova Menotti

uando fui eletta per la prima volta, dissero: “Una donna ha usurpato il posto di un uomo! Dovrebbe essere uccisa, dovrebbe essere assassinata, ha commesso un’eresia!”». Parole profetiche, quelle di Benazir Bhutto, prima donna a essere eletta primo ministro in un Paese musulmano, che fu poi assassinata in un attentato nel dicembre del 2007. E proprio alla parabola politica e umana della leader pakistana, è dedicato Bhutto, bel documentario di Duane Baughman e Johnny O’Hara. Lavoro preciso e puntuale, che ci conduce dritti al cuore di un Paese dilaniato.

«Q

PERSONAGGI

© Ivano Trabalza Studio na intercettato una lettera compromettente: Amelia ha un amante. La donna nega debolmente e quasi distrattamente, presa com’è dai preparativi. A condizione che il marito l’accompagni al ballo, rivela che l’uomo è l’inquilino del piano di sopra. Armato di revolver, il consorte esce, deciso a farsi giustizia. Nel frattempo l’amante, avvisato da Amelia, dal balcone si cala con una corda nella camera. Al rientro del marito, la pistola fa cilecca, e si avvia una paradossale discussione tra i due uomini, che via via evolve in un divertente scambio di spiegazioni e amichevoli confidenze. Amelia freme d’impazienza per la perdita di tempo, finché afferra un vaso e lo spacca in testa al marito. Svenimento. Arrivo della polizia.Versione di Amelia: l’aggressore è l’amante, uno sconosciuto introdottosi per rubare e poi scoperto. Il ferito in ospedale. L’amante in arresto. Finalmente libera di recarsi al ballo, Amelia accetta la galante compagnia del lusingatis-

IN FONDO AL CUORE DI BENAZIR BHUTTO

simo commissario di polizia. «Ho chiesto a Gianni Quaranta una scenografia monumentale. Mi sono ispirato alle case milanesi di Corso Venezia - spiega Ferrara - e, in luogo del sipario, c’è un’immensa facciata che poi si aprirà sulla camera da letto. La vetrata sul fondo fa intravedere un Duomo tridimensionale, che quasi entra nella stanza. E Amelia non è un personaggio frivolo, ma appartiene a una società di signore eleganti e raffinate: si piace e si veste come una dea; non ha smania di apparire, o di esibirsi, ma piuttosto è determinata a realizzarsi.» Interpreti sono Adriana Kucerova, Alfonso Antoniozzi, Sébastien Guèze, Alessandro Spina. Johannes Debus dirige l’Orchestra Verdi di Milano, e il Nuovo Coro Lirico Sinfonico Romano.

Amelia al ballo, Teatro Nuovo Gian Carlo Menotti, Spoleto, Festival dei Due Mondi, da oggi fino al 2 luglio

JIM MORRISON, THIS IS NOT THE END quarant’anni dalla sua scomparsa, il mondo dello spettacolo celebra Jim Morrison con due importanti iniziative: la prima è When you’re strange, film documentario scritto e diretto da Tom Di Cillo (nelle sale dal 3 luglio) che contiene preziosi filmati inediti dei Doors e una colonna sonora preziosa, che include anche rare performance e poesie scritte da Morrison (voce narrante della versione italiana: Morgan). La seconda è invece A collection di The Doors, l’immancabile cofanetto che raccoglie l’intera discografia della band, tragicamente interrotta nel 1971 dopo quattro anni intensi come pochi.

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di Francesco Lo Dico

Veronica & Co. e i benemeriti fratelli d’Italia

erto, ci vuole una bella faccia tosta nel bollare come sconclusionato o eversivo o in qualche modo gratuitamente cattivo un programma che spicca il volo dalla realtà italiana di oggi con l’intento di indicare le cose che si sarebbero potute fare e invece non sono state fatte. È il caso di Fratelli (e sorelle) d’Italia, La 7 in prima serata. Conduttrice la bravissima Veronica Pivetti, in compagnia di Massimo Ghini, Ascanio Celestini, Paolo Hendel, Caterina Guzzanti,Vinicio Capossela e Carlo Lucarelli. Quest’ultimo, scrittore e saggista, è stata la sorpresa del programma. Senza rinunciare al suo tono di narratore pacato e documentatissimo, ha rivestito i panni di Roberto Saviano in Vieni via con me (Rai 3). La televisione a volte è anche contagio scontato ma buono. Come è entrato nelle viscere di un problema antichissimo? Illustrando una pagina di storia, altamente emblematica. Nel 1897 diventa questore di Palermo il forlivese Ermanno Sangiorgi, con fama di «ottimo poliziotto». Si accorge

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subito, in quella terra splendida che è la Sicilia, che ci sono cose ingarbugliate. Manda i suoi a indagare su quattro contadini ammazzati, viene poi a sapere che quelli non erano contadini ma uomini incaricati di fare pagare il pizzo, per contro di una «banda», ad alcuni proprietari terrieri. Scopre la concorrenza tra «bande». Scopre, e fa parlare, anche uno dei primi «pentiti», e viene a sapere che la «banda» non è un gruppetto di teppisti o di tagliaborse, ma un’accolita organizzata, con

tanto di giuramento su una missione di sangue. È, per usare il gergo di quel tempo, «un tenebroso sodalizio». In altre parole scopre la mafia. Anche sulla scia di quanto avevano scritto due seri ricercatori-sociologi vent’anni prima (di fatto inascoltati). Sangiorgi indaga a fondo. Nel 1900 ci sono decine e decine di retate e arresti, e dagli interrogatori emergono le connessioni tra le bande mafiose e i politici in Parlamento o in altri Palazzi. L’anno successivo c’è il processo. Tutti assolti. Poco dopo il questore Sangiorgi, proprio come un personaggio di Leonardo Sciascia (il capitano Bellodi, parmigiano, vero uomo tra tanti «quaquaraquà»), è richiamato nella Capitale, elogiato, promosso, decorato e trasferito in altra località, dove aspetterà la pensione.

Fratelli (e sorelle) d’Italia non è un documentario, ma uno show satirico. Chi sale sul palco prende le mosse dai caratteri salienti di chi ci sta attorno o di chi ha responsabilità politiche. Ovvio che Hendel faccia ridere quando scherza, con fascia tricolore, sull’affarismo, sui capitali all’estero, sulle barzellette con tanto di rutto e culi e tette, sulla orgogliosa ignoranza degli ambiziosi con le tasche piene. È ovvio che Celestini, col suo romanesco che pare un ciottolo che rotola sulla strada, indulga, anche con storielle metaforiche, su espressioni come «scendere in campo». È ovvio che la Guzzanti, ridacchiando sgangheratamente, impersoni una candidata miss Italia sotto la raffica delle domande dei giornalisti: banalità sul come vivere all’insegna dell’ottimismo, frasi popolar-triviali che le scappano di continuo, immenso sforzo di apparire come sintesi tra estetica e fama, dimostrazione in carne e ossa che il bello non è sempre il buono. (p.m.f.)


MobyDICK

Cinema

di Anselma Dell’Olio

he Conspirator, l’ultimo film di Robert Redford, diretto nel suo stile classico e compunto, è un guardabile film a tesi: i cittadini civili non devono essere processati da tribunali militari. Avete presente Guantanamo, il carcere speciale per la detenzione di terroristi islamici free-lance? I filmakers desiderano per combattenti stranieri le garanzie costituzionali americane, con buona pace dell’anomala guerra assimetrica e diffusa, senza un Paese aggressore dichiarato. Questo film serve da metafora, con un dito alzato visibile, a dispetto del chiaroscuro atmosferico di un film ambientato nell’Ottocento. Leoni per agnelli, la precedente opera del regista, che al film ha preferito girare una conferenza propagandistica contro l’invasione americana dell’Iraq, è stata abbondantemente disertata dal pubblico, nonostante la presenza di divi come Tom Cruise e Meryl Streep. The Conspirator, sul processo a una sospetta cospiratrice nell’assassinio di Abramo Lincoln, ha il vantaggio di raccontare un capitolo di storia americana poco conosciuto. Mary Surratt (Robin Wright), una cattolica convertita, è la padrona della pensione in cui l’esecutore materiale John Wilkes Booth e gli altri congiurati hanno a lungo pianificato e organizzato l’attentato, portati in casa dal figlio della proprietaria. John Surratt fugge al Sud prima della serata al Ford Theatre, e in seguito ripara in Canada; le autorità arrestano la madre perché «non poteva non sapere» quello che accadeva sotto il suo naso, e con la partecipazione di un suo stretto e giovanissimo congiunto. L’America del Nord, detta l’Unione, con la guerra di Secessione contro gli Stati pro-schiavitù del Sud ancora in corso, è sotto choc per la violenta morte del presidente e condottiero; urgono colpevoli sicuri e una risoluzione rapida perché la nazione si riprenda dal trauma. (Esprime bene lo smarrimento e il lutto nazionale la celebre, struggente poesia di Walt Whitman O Capitano, mio Capitano!, immortalata nel film di Peter Weir L’attimo fuggente).

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Redford punta il dito Con una metafora

Per sostenere i diritti civili contro Guantanamo, il regista-attore americano si serve del processo per cospirazione nell’assassinio di Lincoln a Mary Surratt. Il pregio è che racconta una pagina poco conosciuta di storia americana. Poi Michel Petrucciani documentato da Michael Radford e i “13 assassini” di Takeshi Miike Il film ha il merito di ammettere i seri dubbi sull’innocenza della Surratt, la prima donna giustiziata negli Stati Uniti, ma la sua vera disgrazia è di essere stato concepito nella certezza che l’elezione del presidente democratico avrebbe portato alla chiusura di Guantanamo e all’abolizione del Patriot Act; per sua sfortuna, è uscito con Barack Obama fedele continuatore della politica estera di Bush, carcere extraterritoriale incluso. N.B. I cappucci indossati dagli accusati perché ricordino quelli dei reclusi di Abu Graib: nell’Ottocento erano imbottiti e servivano a impedire tentativi di suicidio.

Le giustificazioni per negare un processo civile con tutte le garanzie costituzionali agli imputati (erano otto in tutto, Surratt l’unica donna) erano: 1) l’aggressione contro le alte cariche dello Stato (bersaglio mancato della congiura era William H. Steward, Segretario di Stato); e 2) il fatto che era avvenuta in zona di guerra. La prima mezz’ora rimette in scena la tragica serata, con il presidente in abito da sera mentre arriva a teatro e prende posto nel palco. Lincoln (Gerald Bestrom) è ripreso sempre nell’ombra e di sguincio, per evitare paragoni impossibili con un volto molto conosciuto. Segue il dramma processuale, nella forma classica di dibattito in aula. Gli attori non sono star, ma di tale livello da mitigare i fervorini ideologici. James McAvoy è uno scricciolo scozzese talmente bravo (Espiazione, The Last Station) da diventare irresistibile. Qui è Frederick Aiken, reduce di guerra e avvocato. Reverdy Johnson (Tom Wilkinson, perfetto), ex ministro di Giustizia Usa e senatore del Maryland, democratico conservatore e abolizionista, aveva impedito che lo Stato più cattolico degli Usa passasse ai ribelli, ma non poteva mettere a rischio il seggio, assumendo la difesa in prima persona di una sudista. Sceglie Aiken, al suo debutto in tribunale. Nel film è dipinto come un’anima nobile, adamantina; peccato, perché il vero Aiken aveva molte ombre, ed era più interessante. L’accusa è diretta da Edwin Stanton, ministro della Guerra, un Kevin Kline così divertito a fare il cattivo («Metà della giuria non vuole condannarla? Le facciamo cambiare idea, allora!») che si sorride invece di rabbrividire.

Michel Petrucciani - Body and soul è un affascinante documentario sul jazzista francese afflitto da osteogenesi imperfetta. È una sindrome che produce nanismo e ossa di cristallo; soltanto per lo sforzo di nascere, a Michel bambino si rompono tutte le ossa del corpo; più tardi si rompe una clavicola o la spalla semplicemente suonando il pianoforte. Deve studiare a casa, e ha tutto il tempo per dedicarsi alla musica che sentiva grazie al padre Tony, musicista jazz. Era alto un metro circa, con mani grandi e una dedizione agli studi musicali e al pianoforte sin dall’infanzia. Grazie all’insistenza della madre riceve una formazione classica; è già un prodigio a 9 anni. Sboccia come fenomeno internazionale in California, dove si trasferisce a 18 anni. S’innamora dell’America e impara perfettamente l’inglese in sei mesi, con una pronuncia perfetta, rara nei francofoni. Si fidanza per la prima volta con una ragazza di Big Sur. Secondo le sue molte donne, è un amante assai dotato in tutti i sensi, ma appena parte da solo in tournée, molla la titolare, devastata, per un’altra trovata sul campo. Il film di Michael Radford (Il postino) è un omaggio classico, senza guizzi d’autore; ma forse non servivano, visto l’originalità sbalorditiva del soggetto. Radford rende ono-

re alla stravolgente passione e vitalità del ragazzo che rifiuta di lasciarsi condizionare dall’handicap, che sfida il suo corpo senza pietà, forse nella consapevolezza che non avrebbe avuto una vita molto lunga. Secondo gli amici, il suo genio, conclamato dai più bravi jazzisti internazionali, era pari alle sregolatezze del suo privato. Si gettava senza risparmio negli impegni di lavoro, facendo anche 220 concerti l’anno, uno sproposito. L’invecchiamento precoce, che si segue nel film grazie a fotografie e materiale di repertorio, lo porta alla morte dopo un’accelerazione di stravizi e cattive compagnie. Aveva l’aspetto di un anziano, ma aveva solo 36 anni. Da vedere.

13 assassini di Takeshi Miike è il remake di un film giapponese in bianco e nero del 1963, di Eiiichi Kudo. Un’epica basata su un incidente vero ha gli stilemi classici che imparentano il genere samurai con il western: la divisione netta tra buoni e cattivi, la lotta impari tra una piccola banda d’eroi e una truppa nemica infinitamente più numerosa, moltissima azione, battaglie, imboscate, duelli, lotte di uno-contro-tanti e un villaggio-trappola. Naritsugo, fratello dello shogun, è un sadico, sanguinario stupratore e mutilatore, impunito perché sopra la legge. L’alto ufficiale Doi, esasperato dagli eccessi del giovane aristocratico, teme l’influenza nefasta se il guerrafondaio entra come previsto nel Consiglio di Stato dello shogun. Il coraggioso samurai Shinzaemo condivide la necessità di eliminarlo e recluta un gruppo di tredici intrepidi guerriglieri, ognuno con una specialità letale per lanciarsi nell’impresa improba. La prima scena, con una vittima di Naritsugo che commette seppuku (un harakiri più solenne), vale da sola il biglietto.Valori tecnici e cast d’ottimo livello; anche per i non tifosi del genere, mantiene l’interesse fino alla fine.


Camera con vista

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on è detto che un grande successo sia sempre una benedizione. Prendiamo Vercors, lo scrittore francese autore di un racconto leggendario, Il silenzio del mare, ambientato durante la Resistenza e divenuto per gli oltre settanta Paesi in cui è stato tradotto il simbolo dell’intransigenza come virtù, del silenzio come arma contro il collaborazionismo. Aveva quarant’anni nel ‘42 quando in clandestinità fondò les Editions de Minuit e pubblicò quelle 96 pagine, che de Gaulle avrebbe fatto paracadutare, in francese e in inglese, sopra l’Inghilterra, per stimolare le truppe all’eroismo. Vercors era il nome di una montagna dove si nascondeva da partigiano, ma il suo vero nome suonava Jean Bruller e fin lì si era distinto come seduttore, elegantone e illustratore. Per conquistare una ragazza, che non ne voleva sapere di lui, pubblicò da giovane il suo primo libro umoristico, 21 Ricette pratiche di morte violenta, con divertenti disegni a corredo, in cui si descrivono svariati e fantasiosi suicidi. L’ha riproposto adesso in italiano, e l’anno scorso in francese, la valorosa piccola casa editrice bilingue Portaparole, nota ai proustologi perché si dedica, fra l’altro, a pubblicare testi su Proust e che ha in catalogo diversi titoli di Vercors. Non il suo libro leggendario, però, solidamente presente nel catalogo Einaudi nella bella traduzione che ne fece Natalia Ginzburg. È il solo titolo einaudiano di questo autore nonostante la lunga carriera, dopo la guerra. Vercors, infatti, pubblicò ancora molto, soprattutto narrativa e libri storici, ma rimanendo intrappolato in quell’unico racconto che gli aveva dato la celebrità. E tutta la vita soffrì del sentirsi emarginato dalla società letteraria parigina.

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Così mi trovo a sfogliare con curiosità e sorpresa Le mariage de Monsieur Lakonik e Frisemouche fait de l’auto, pubblicati anche questi da Portaparole e creati da Vercors, anzi da Bruller, precedentemente al Silenzio del mare, in un’altra vita si potrebbe dire, lontana dall’impegno e dalla politica, anzi totalmente disimpegnata. Sono avventure lievi e divertenti, vagamente surreali, dove tutto finisce sempre per il meglio. Il segno grafico ricorda certi personaggi del Corrierino dei Piccoli. Se non fosse scoppiata la guerra e avesse continuato a chiamarsi col suo vero nome, forse Vercors non sarebbe mai nato, l’umanità avrebbe un capolavoro di meno e lui sarebbe stato più felice. Perché, vivendo fino a novant’anni, ha avuto tempo di macerarsi nei rimpianti e nel rincrescimento. Intanto arrivò Jérôme Lindon con i suoi soldi a scippargli nel dopoguerra la casa editrice dove avrebbero pubblicato i nouveaux romanciers e Samuel Beckett e Marguerite Duras... Poi ci fu la sua rottura con i comunisti nel ‘56,

MobyDICK

ai confini della realtà

La lezione di

Monsieur Vercors

di Sandra Petrignani e fu fra i firmatari nel ‘60 del Manifesto dei 121 contro la guerra d’Algeria. Non contento, ad aggravare il suoi rapporti col Pcf, pubblicò un durissimo pamphlet, P.P.C. (vale a dire: Pour Prendre Congé) in cui faceva una spietata autocritica e si congedava non solo dal Parti-

cinquant’anni dopo le 21 Ricette pratiche di morte violenta, avendo ormai uno stabile e felice rapporto coniugale, decideva di dare alle stampe 101 Ricette di morte lenta, in cui suggerisce i modi di prolungare il più possibile la vita, godendosela prima di tutto a tavola.

vora all’interno o come collaboratore, la promozione e il settore commerciale, la correzione dei testi e la creazione di eventi... Ma non ci s’illuda che tanto tecnicismo possa mettere al riparo da fiaschi clamorosi o garantire qualche fantastico successo. Tutto cambia e og-

Autore del leggendario “Il silenzio del mare”, l’autore francese, al secolo Jean Bruller, fu “bruciato” da quel racconto, nonostante altre sue apprezzabili opere disimpegnate, ora riproposte in italiano. Una vicenda editoriale la sua che un “manuale sui generis” aiuta a spiegare to, ma dalla politica nel suo insieme. Del resto, dopo aver visto con i suoi occhi l’azzeramento delle libertà individuali in Unione Sovietica durante un viaggio che, proprio nel ‘56, aveva fatto conYves Montand, Simone Signoret e Gérard Philippe, uno spirito anarchico e sorridente come il suo non avrebbe potuto continuare a definirsi comunista. Ma il Partito francese, come quello italiano o forse peggio, non era tenero con i dissidenti e lo condannò all’emarginazione culturale. Vercors (non riuscì più a liberarsi dello pseudonimo) continuò a scrivere romanzi e biografie, saggi, testi teatrali, racconti, ma non fu più capace di coagulare intorno a sé l’interesse e il sostegno dell’intellighenzia cui apparteneva di diritto. Ne soffrì parecchio, dicono i biografi, ma fino a un certo punto se,

Non potrebbe esserci vicenda editoriale più istruttiva di quella che ha rappresentato Il silenzio del mare: un libro nato in fretta e a caldo, per inaugurare le clandestine Editions de Minuit in attesa dei testi di autori più famosi, pubblicato inizialmente in 350 copie, che si trasforma in un long-seller letto e apprezzato da generazioni anche molto lontane sentimentalmente dai fatti narrati. Anzi si può dire che nella distanza si coglie meglio la complessità dei comportamenti dei personaggi, appiattiti inizialmente su una lettura favorevole solo all’intransigenza verso il nemico. Ma, come recita il titolo di un recente «manuale» stampato dalla Giulio Perrone editore e composto dallo stesso Perrone con lo scrittore Paolo Di Paolo: I libri sono figli ribelli. Sottotitolo: «Tappe e segreti dell’avventura editoriale». Disamina interessante, e ricca di aneddoti, di un lavoro in cui la sorpresa ha una parte importante e che fa entrare in quel sommerso retrobottega di «noie, paure, arrabbiature, soddisfazioni», grandi produttrici di adrenalina, pane quotidiano di ogni editore. Com’è strutturata una casa editrice, i criteri con cui si scelgono i libri, i vari ruoli di chi vi la-

gi lo strapotere delle grandi concentrazioni, la loro indubbia possibilità di condizionare il mercato con potenti meccanismi pubblicitari e di distribuzione rende sempre più dura la vita dei piccoli editori. Eppure questo I libri sono figli ribelli riesce a spiegare la follia e la determinazione di chi continua imperterrito, con la forza delle idee, a opporre all’industria un artigianato oggi molto più smaliziato e ricco di nuove risorse. E il bello è che, per quanto un grosso editore abbia più facile gioco a imporre un autore con un forte battage pubblicitario, oggi come ieri il caso di un imponderabile Silenzio del mare che conquisti tutti con la sola forza del suo esistere, sia pure in poche copie e presso un editore di nicchia, è un piccolo grande miracolo possibile. E uno dei motivi, come ci spiega il «manuale sui generis» uscito da Perrone, per cui la professione editoriale resta tanto elettrizzante.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Energia e “mercato libero”: boom di pratiche commerciali scorrette NON PUÒ ESSERE LA FINANZA A DETTARE I TEMPI DELLA POLITICA Siamo passati dalla dittatura dei sondaggi alla dittatura della finanza. Questo mi sembra oramai il dato certo di un governo e di una politica che rinunciano al proprio ruolo. Non è un gioco di parole, ma l’amara constatazione di ciò che oggi avviene in Italia e non solo. Tra patto di stabilità, pareggio di bilancio, deficit pubblico, Pil, direttive e “ordini” imposti da società e da pochi uomini della finanza nazionale, europea e mondiale, anche il governo italiano ha finito per mettere al centro della propria agenda nazionale, non le vere esigenze e le reali necessità del Paese, ma quelle della finanza. Ora è anche vero che “senza soldi non si cantano messe”, ma la politica non può e non deve necessariamente rispondere sempre e comunque alle esigenze economiche di un sistema finanziario che, in alcuni casi, fa pagare alla gente comune i fallimenti di uomini o istituzioni votati al profitto ad ogni costo. La vera politica persegue altri obiettivi: l’utile sociale e non quello economico; il bene comune e non quello di pochi; la capacità di dare e aiutare chi è più in difficoltà e non le grandi banche o le istituzioni finanziarie; il coraggio anche di fare scelte difficili, chiedendo maggiori sacrifici a chi più ha, e non a chi ha meno. Fare politica non è matematica, non può essere finanza “allegra” né “creativa”. Fare politica vuol dire risolvere e, se si è capaci, anticipare la risoluzione dei problemi reali della comunità che si amministra. Fare il politico non è servire qualcuno, ma qualcosa. Un uomo politico, e soprattutto un uomo politico al governo, deve avere il compito di prendere delle decisioni, anche in nome degli altri, e deve assumersi la responsabilità davanti al popolo e al tribunale della storia e non davanti alle istituzioni finanziarie. La finanza può e deve seguire ed aiutare in questo la politica. In un momento così difficile per l’economia politica e sociale nazionale ed europea, immaginare di continuare a chiedere solo ulteriori sacrifici alla gente comune non porta da nessuna parte. Quanto può durare? E con quale costo sociale, etico e morale per tutti? Ricordiamoci allora, nella nostra azione quotidiana di uomini e donne a vario titolo impegnati in questa moderna società, ciò che sosteneva Kant: «Non è dalla quantità di ricchezza che si misura il progresso morale e civile di una società, ma dall’importanza che diamo alla dignità umana». Vincenzo Inverso SEGRETARIO NAZIONALE CIRCOLI LIBERAL REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

LE VERITÀ NASCOSTE

Secondo una normativa dell’Ue, ogni consumatore domestico può decidere da quale venditore e a quali condizioni acquistare energia elettrica e gas. Tutti i clienti che scelgono di non passare al così detto “mercato libero”o che rimangono senza venditore restano in quello che viene definito “mercato tutelato”, ovvero le condizioni economiche e contrattuali per la fornitura dell’energia elettrica sono stabilite dall’Autorità per l’energia. Ma nel mercato libero ci sono aziende fornitrici che effettuano pratiche commerciali scorrette. Risultato: i cittadini firmano un contratto di cui non hanno alcuna informazione. I disagi iniziano, quando, dopo non aver ricevuto bollette per mesi, arrivano conteggi stratosferici. Ciò accade perché alla firma del contratto gli operatori delle società omettono delle informazioni. Sarebbe opportuno che l’Antitrust e l’Autorità per l’energia elettrica ed il gas avviassero i dovuti controlli, così come sarebbe opportuno che i cittadini si documentassero prima di firmare qualsiasi contratto, e in caso di raggiro scrivessero un reclamo, seguendo le procedure descritte sul sito dell’Autorità.

Luigi Gabriele, responsabile rapporti istituzionali Codici

MINISTERI: NO AL TRASFERIMENTO Che senso ha trasferire le sedi dei ministeri al Nord? Se è vero, come è vero perché sancito dalla Costituzione, che Roma è la capitale d’Italia, bisogna lasciare nella sua ubicazione territoriale l’attuale struttura organizzativa dell’amministrazione centrale.

Quirino Rodolfi

che tra quelli umili, malgrado lauree e diplomi. Perché non provvede a tagliare la metà dei parlamentari e dei consiglieri regionali? Perché non abolisce il vitalizio ai consiglieri regionali? Perché non elimina le Province e le Comunità montane? Perché non taglia le auto blu e tutte le prebende? Perché non lascia tutti sulle poltrone per due legislature, al massimo?

G. R.

PONTIDA: PIÙ FATTI E MENO CHIACCHIERE Nell’agenda di Pontida non si è parlato della disoccupazione, dei problemi delle famiglie e delle aziende alle prese con la crisi economica, dei giovani precari e delle misure del welfare a favore di anziani, disabili e categorie deboli. Si è deciso, invece, del contratto con i padani, della Libia, dei ministeri al Nord. Solo tante chiacchiere che, di certo, non interessano alla gente.

ACCOGLIENZA IMMIGRATI Accogliere non vuol dire lasciare le porte aperte a chiunque, ma fornire ai profughi in arrivo regole e istruzioni per una buona integrazione e soprattutto per garantire la sicurezza nelle nostre città. Alimentare la rivolta della gente è sbagliato.

LA PILLOLA DEI 5 GIORNI DOPO Se il premier Berlusconi vuole essere ancora popolare, perché non chiede scusa al suo elettorato per aver perso tempo dietro ai suoi problemi personali, che nulla hanno a che vedere con i problemi di chi non arriva alla fine del mese, di chi non può pagarsi l’affitto, di chi lavora con la piccola industria, artigianato, commercio e agricoltura, di chi ha perso il lavoro, di chi teme di perderlo, di chi non lo trova, nean-

LONDRA. Se passeggiando per le strade di Londra vi dovesse capitare di imbattervi in una piccola macchia colorata, non calpestatela: vi rimarrebbe appiccicata alle scarpe una piccola e originale opera di street art contemporanea. Ben Wilson, 48 anni, è riuscito trasformare un’antipatica forma di maleducazione e inquinamento urbano in una forma espressiva: Ben, infatti, si cimenta nella colorazione e decorazione dei chewing gum gettati a terra dopo l’uso e spiaccicati sui marciapiedi dalle scarpe dei passanti. Wilson ha iniziato il suo “esperimento” con occasionali chewing-gum dipinti nel 1998, e nell’ottobre 2004 ha iniziato a lavorare su di loro a tempo pieno. Ha creato più di diecimila opere sui marciapiedi in tutto il Regno Unito e l’Europa. L’artista riscalda prima la gomma con una piccola fiamma ossidrica, poi la riveste con tre strati di smalto acrilico. Utilizza infine speciali colori acrilici per dipingere i suoi quadri, finendo ciascuno con un sigillo di lacca trasparente.

Fabiana Dallari

Lettera firmata

LA RICETTA PER LA POPOLARITÀ

L’arte della cicca masticata

Il Consiglio superiore di sanità ha espresso parere favorevole sull’introduzione della pillola dei cinque giorni dopo, ponendo un paletto senz’altro interessante ma secondo me non sufficiente. Infatti si specifica che la pillola non può essere presa senza che venga prescritto prima un test di gravidanza. Se fosse positivo non si può procedere. Ricordiamoci però che 5 giorni sono comunque tanti, che EllaOne (questo il nome commerciale del farmaco) fa par-

L’IMMAGINE

te di quei composti che si legano ai recettori del progesterone, progesterone fondamentale per preparare l’utero ad accogliere l’embrione. Se la pillola dei 5 giorni viene presa dopo la fecondazione, impedisce l’annidamento e diventa un farmaco intercettivo/abortivo. Credo che si pongano molti problemi etici. Io come ginecologo sono già contrario alla pillola del giorno dopo. In questo caso la situazione si aggrava. Insegniamo e diamo la possibilità alle donne di vivere il rapporto con una superficialità massima… Tanto dopo ci sono 5 giorni per pensarci!

Alessandro Bovicelli

I MERITI DI ANTONIO DI PIETRO

Le belle statuine Testa di Drago, Scarpa di Fata, Candele Marine… non sono gli ingredienti di una pozione magica, ma i nomi di queste rocce ispirati dalle loro strane forme. Una galleria di “statue” naturali scolpite dal mare e dal vento che si trovano sulla costa di Taiwan, a Yehliu

Antonio Di Pietro ha molti difetti. Parla male l’italiano, ha regalato Scilipoti e Razzi a Berlusconi, ha fondato un partito non ben strutturato nel quale egli ha un ruolo troppo centrale e nel quale militano altri personaggi equivoci, talvolta ha posizioni politiche di destra. Ma non si può negare che egli stia ricoprendo un ruolo centrale sulla scena politica e giudiziaria degli ultimi decenni. È stato il principale animatore di Mani Pulite, l’azione giudiziaria che ha scompaginato i partiti corrotti della Prima Repubblica; ha dato prova di grande correttezza rifiutando la nomina a ministro offertagli alcuni anni fa da Berlusconi; si è dimesso da ministro del primo governo Prodi quando era indagato; ha fondato un partito dal nulla, un partito che ha dato prova di grande combattività in Parlamento e fuori da esso; è stato uno dei principali animatori del dibattito politico televisivo degli ultimi anni; ha fatto entrare in politica (e poi ne ha sostenuto la candidatura a sindaco di Napoli) un uomo di grande valore come Luigi De Magistris; ha promosso il referendum contro il legittimo impedimento e si è attivato con molto impegno per la raccolta delle firme per tutti i referendum. Spero che in futuro tutti questi meriti gli vengano maggiormente riconosciuti.

Franco Pelella - Pagani (SA)


il caso

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Bomba, missile, attacco aereo da parte dei servizi segreti francesi. Tutte le teorie riviste da Giampiero Marrazzo e Giovanni Fasanella

Ustica aspetta il crollo del raìs

Lunedì sarà il 31esimo anniversario di uno dei misteri più fitti dell’Italia. Che, con la caduta del Colonnello Gheddafi, potrebbe essere finalmente risolto di Martha Nunziata rentuno anni.Tanto è passato dalla tragedia del Dc-9 Itavia, precipitato in mare al largo di Ustica. Era il 27 giugno 1980, ore 20.59. Il volo IH870, in servizio da Bologna a Palermo, scompare, con a bordo ottantuno persone: 77 passeggeri, di cui 15 bambini e 2 neonati, e 4 membri dell’equipaggio. E per tutti loro ancora nessuna giustizia e nessuna verità. In trentuno anni si sono rincorse ipotesi, tesi, inchieste giudiziarie e giornalistiche, perizie scientifiche e sentenze. Ma nessuno è stato giudicato colpevole di quella strage. E, forse, nessuno lo sarà mai.

Il “partito del missile” non si rassegna alle sentenze della Cassazione

T

Le ipotesi, quelle note, furono subito ridotte a quattro, prima tra tutte il cedimento strutturale; tesi, questa, avallata dai servizi segreti della marina, il SIOS, nel tentativo di ricondurre il disastro alla vetustà dell’apparecchio, alla sua inadeguata manutenzione, argomentazione supportata anche e soprattutto dall’Alitalia, che in quegli anni aveva gran-

Quello che sta succedendo adesso in Libia «è esattamente quello che sarebbe dovuto succedere trentuno anni fa, quando era pronto il blitz per rimuovere il raìs che poi finì in tragedia» di interessi in gioco nella vicenda di Ustica. Questo aspetto, forse il meno conosciuto dell’intera vicenda, della lotta segreta tra le due compagnie è descritta nel libro “Itavia”, di Nicola Pedde, analista di politica internazionale, secondo il quale la storia dell’Itavia è «degna della migliore tradizione dei film di spionaggio, e comunque è una delle più importanti pagine della storia del trasporto aereo commerciale in Italia». La teoria del cedimento fu definitivamente accantonata dalla commissione di inchiesta Luttazzi, che determinò le perfette condizioni del velivolo ed era pilotato da un comandante di comprovata esperienza.

Si parlò, anche, di collisione con un altro aereo in volo, un errore durante un’esercitazione militare, elemento tenuto nascosto perché in relazione ad un traffico non autorizzato di aerei militari, e, infine, di una bomba, tesi rilanciata ultimamente anche da Carlo Giovanardi. Ma l’ipotesi apparsa immediatamente più plausibile, allora come oggi, fu quella del missile: ma era, ed è, una “verità indicibile”, perché avrebbe scatenato un incidente internazionale. Come dice a liberal Giovanni Fasanella, autore

Ma le indagini sul DC9 sono state fatte. E bene di Mario Arpino l papavero è anche un fiore, come Ustica è anche un’isola. Invece, no. Ogni anno, quando il 27 giugno si avvicina, riemergono dal mare gli spettri del DC.9 I-TIGI dell’ Itavia, volo IH 870, e delle sue inconsapevoli vittime. Oggi aleggiano a Bologna, in un apposito museo, ma non trovano pace. Infatti, è proprio da qui che si alimenta un duello ideologico senza fine, che dura ormai da trentuno anni. Perché Ustica, oggi, non è più un’isola da restituire all’incantesimo di cui la natura un tempo l’aveva privilegiata. Rappresenta solo, oltre al commosso ricordo dei famigliari delle 81 vittime – in parte rappresentati da un’associazione presieduta dalla senatrice Bonfietti – una spinosa questione ideologica a partiti contrapposti. Ma a quale titolo è stata scelta proprio Bologna come sede di questo spettrale museo? Solo perché l’aereo era decollato da quell’aeroporto? Apparteneva ad una Compagnia privata – la prima in Italia – di un impresario calabrese e i passeggeri, diretti a Palermo, non erano tutti bolognesi. Si può pensare allora ad una maggiore disponibilità di quel Comune rispetto ad altri, cui si potrebbero aggiungere comprensibili motivi logistici legati ai principali animatori del dibattito.

I

Non è certo da scartare il fatto che questa città sulle questioni ideologiche ha un’esperienza lunga e riconosciuta. In barba a giudizi, ordinanze, sentenze e procedimenti, si continuano da anni a ripetere sempre le stesse cose, ciechi di fronte ad ogni evidenza, sordi a qualsiasi ragionamento che non porti nella direzione voluta, indifferenti al risultato di qualche decina di processi – non si tratta solo di quelli ai personaggi più noti, i quattro generali dell’ Aeronautica - che hanno tutti, indistintamente, portato dopo vari gradi di giudizio all’assoluzione di ogni singolo imputato risultato dall’inchiesta dell’infaticabile giudice Priore. D’altro canto, questa è l’unica Bibbia sulla quale il partito del missile continua a giurare. Il quale, non

rassegnandosi alla realtà dell’ultima sentenza della Cassazione, che ha spazzato via ogni dubbio sia sulla lealtà dei generali, sia sulla mitizzata quanto inesistente battaglia aerea, spinge per riaprire un nuovo processo. Sembra che il ruolo di inquisitore debba venire assegnato a un magistrato che, assieme a un avvocato di parte civile, avvalendosi delle carte del procedimento, dopo il giudizio di primo grado si era affrettato a pubblicare un libro sull’evento.

Nel quale, con rispetto del livello di deontologia professionale che evidentemente lo caratterizza, si permette di ridicolizzare le affermazioni di alcuni testi. Se avesse avuto la pazienza di attendere anche la sentenza della Cassazione, probabilmente questo libro non l’avrebbe mai scritto. Mi vengono in mente due episodi. Una confidenza del compianto senatore Gualtieri, primo presidente della Commissione Stragi, fatta di fronte a un caffè al bar del Senato. «Qui, generale, ci sono stati almeno due errori. Uno dell’Aeronautica, la sottovalutazione iniziale. L’altro, però, lo ha fatto lo Stato. Mi creda, se si fosse subito concordato un adeguato compenso per tutti, Itavia e famigliari, a questo punto il caso sarebbe già chiuso da un pezzo». L’altro, è un’osservazione del Presidente Scalfaro, quando gli avevo fatto presente la difficoltà di guidare una forza armata oggetto di un continuo crucifige mediatico. «Caro generale, questo rumore di fondo è la colonna sonora del suo film. Non c’è niente da fare, ci si abitui…». Ustica sembra il tipico caso di sentenza prima del processo e di processo dove ci si aspettava solo quella sentenza. Ma questa volta ai sinistri ideologi è andata male. Una nota teoria del complotto, che si basa sulla metodologia della ripetizione, spiega che più una tesi viene ripetuta, più nell’immaginazione collettiva si consolida come base reale su cui costruire l’accusa. Infatti, ci stanno riprovando.

di “Intrigo Internazionale”edito da Chiarelettere, un libro-intervista scritto con il giudice Rosario Priore. Fasanella e Priore, nell’intervista, ricostruiscono i fatti di quella notte. «Quella sera il colonnello Gheddafi - dice Fasanella - era in volo da Tripoli a Varsavia, scortato da due Mig libici, che utilizzavano, per i trasferimenti aerei, corridoi italiani privi di copertura radar Nato (i famosi buchi del sistema Nadge, ndr), e gli italiani intercettarono un’azione ostile nei suoi confronti, di matrice franco-britannica. Gli aerei libici, durante il volo, all’altezza di Grosseto, erano andati a nascondersi sotto il Dc-9: i servizi segreti italiani deviati, avvertirono Gheddafi del pericolo e lui invertì la rotta.Tutto questo risulta dagli atti dell’inchiesta del giudice Priore, che ottenne dalla Nato i documenti che testimoniavano la presenza di 21 aerei da guerra quella notte nei cieli italiani. Il piano di volo dei caccia francesi, decollati dalla portaerei “Clemenceau” di stanza in Corsica, prevedeva di intercettare prima la scorta di Gheddafi e poi il raìs stesso. Ma il missile partito da uno dei caccia francesi colpì per sbaglio il Dc-9, sotto la pancia del quale volavano, proprio per non essere intercettati, i due Mig libici della scorta di Gheddafi. Nei tracciati radar si vede chiaramente la nuvola dei detriti del Dc-9 esploso, e le due scie dei Mig che si allontanano, uno dei quali, come sappiamo, precipita sulla Sila». Ma cosa sarebbe dovuto accadere, dopo quella notte, se il tentativo di eliminare Muhammar Gheddafi avesse avuto successo?

«Era pronto un golpe per destituirlo continua Fasanella - esattamente quello che dovrebbe accadere adesso: l’esercito egiziano sarebbe dovuto entrare in Cirenaica, dove le frange dell’esercito regolare libico disobbedienti a Gheddafi avrebbero messo in atto il colpo di Stato. Doveva essere un’operazione appoggiata anche da Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, soprattutto, ma poi gli americani si tirarono indietro, perché si stava creando il rischio di un conflitto mondiale, con USA e URSS contrapposti, nel bacino del Mediterraneo. Quello che sta succedendo adesso in Libia è esattamente quello che sarebbe dovuto succedere trentuno anni fa». Una delle voci più alte che si sono levate in favore della teoria del missile francese fu quella del Presidente Cossiga, che parlò di “missile a risonanza”. Le parole di Cossiga sono l’architrave su cui si fonda anche una delle migliori inchieste giornalistiche degli ultimi tempi su Ustica, quella di Giampiero Marrazzo e Gianluca Cerasola, che hanno scritto un libro-film,“Sopra e sotto il tavolo”edito da Tullio Pironti, distribuiti in 35 paesi del mondo, nel quale i due giornalisti hanno raccolto l’ultima testimonianza sull’argomento da parte dell’allora Pre-


il caso

sidente del Consiglio: «Su Ustica - dice a liberal Marrazzo - abbiamo più prove che indizi, parafrasando il gergo giuridico. Quella notte non c’erano in volo né aerei italiani, né americani, perché la portaerei Saratoga era alla fonda nel porto di Napoli, e quindi per esclusione gli unici aerei in volo erano i francesi. Se ci fosse davvero anche Gheddafi non lo so, lo dice Cossiga, ma sicuramente furono i francesi a buttare giù l’aereo».

Perché non si è mai riusciti ad arrivare ad un colpevole, alla verità? “ «Perché spesso, quasi sempre - dice ancora Fasanella - in Italia, le ragioni giuridiche di una sentenza si sono scontrate con la ragione di Stato, uno Stato determinato a coprire con i propri appara-

Nel nostro Paese «le ragioni giuridiche di una sentenza si sono scontrate con la ragione di Stato, uno Stato determinato a coprire con i propri apparati determinate realtà» ti determinate realtà. Il vero problema dell’Italia rispetto alle altre democrazie è la durata del segreto: in Inghilterra e negli Stati Uniti, tanto per fare un esempio di due delle democrazie più vicine a noi, i segreti di stato durano venti, massimo trent’anni, a seconda della classificazione. Da noi, invece, i documenti vengono secretati per sempre. È questa la grande differenza».

«L’assurdo - chiosa Marrazzo - è che su Ustica il segreto di Stato non è mai stato apposto: all’inizio perché i vertici militari dell’epoca pensavano di poter gestire la vicenda, e successivamente,

quando la vicenda sfuggì loro di mano, apporlo sarebbe suonato come una ammissione di colpa».

I relitti del DC9 dell’Itavia inabbisatosi 31 anni fa al largo dell’isola di Ustica. Oggi i pezzi si trovano in un museo a Bologna. In basso, Muammar Gheddafi

La strage di Ustica, uno dei grandi misteri del nostro dopoguerra, ha radici in un ambito internazionale, in un contesto geopolitico più ampio, dove l’Italia nella politica estera ricopriva una posizione strategica rilevante negli equilibri del Mediterraneo, ma una posizione di estrema debolezza con i Paesi del Patto Atlantico. Nella politica interna, invece, per il nostro Paese quegli anni erano di grande fermento. Erano gli anni a cavallo tra il ‘70 e l’80, nei quali l’Italia era alle prese con il terrorismo rosso e nero, strumentalizzato da interessi internazionali, con un progetto delle Brigate Rosse di destabilizzare il Paese: anni nei quali il partito comunista era in grande crescita, e soggetti diversi, politici e non, volevano la guerra armata. Anni segnati da omicidi di grandi personalità, come, Aldo Moro, Walter Tobagi e Vittorio Bachelet, anni di bombe alle stazioni e sui treni, e poi l’attentato a Papa Giovanni Paolo II, i servizi segreti deviati, il controspionaggio, l’intelligence italiana legata alla fedeltà alla Costituzione e all’Alleanza Atlantica, ma, contemporaneamente, capace di stringere accordi segreti con dittatori e terroristi. Anni nei quali organizzazioni segrete, come la P2 e Gladio, decidevano le sorti del nostro Paese. Erano gli “anni di piombo”. La geopolitica dell’Italia era legata, in quegli anni, alla politica mediterranea,

25 giugno 2011 • pagina 25

e soprattutto a quella del Nord Africa: una strategia che, a volte, non disdegnava gli accordi con l’allora nemico numero uno dell’occidente, il colonnello libico Muhammar Gheddafi.

Un legame doppio, e pericoloso, figlio della necessità di garantirsi le risorse energetiche libiche: giacimenti di petrolio, gas naturali, ma anche uranio. Una posizione ambigua e ambivalente che non piaceva a molti, in primis al governo francese, che vantava interessi energetici nei confronti della Libia. Italia, Francia e Libia: un triangolo attuale, ora come allora: «L’Italia - dice Marrazzo - si è fatta scippare dai francesi, ma anche dagli inglesi, con questa guerra in Libia, l’unico contratto stipulato con un Paese europeo, valido 50 anni, per lo sfruttamento delle risorse energetiche libiche. Ma Gheddafi non verrà spazzato via facilmente, perché è riuscito a stringere rapporti e alleanze molto forti che gli permettono tuttora di sopravvivere e ha tanti amici che gli permettono di rimanere al suo posto. Gheddafi uscirà dalla scena solo quando lo vorrà. Io chiude Marrazzo - sono convinto che siano stati i francesi ad attaccare Gheddafi per motivi economici e forse un giorno Gheddafi gli restituirà il favore. Raccontando la verità su Ustica». E quel giorno, forse, la verità storica coinciderà con quella giuridica.


mondo

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Nuovo arco di crisi Ankara-Damasco-Teheran, con la Turchia “elemento forte” nel triangolo mediorientale. Davutoglu e Miallin mediano al telefono

Guerra sconfinata L’America avvisa la Siria: fermi le truppe sui valichi. E in Iran continua la faida tra Ahmadinejad e Khamenei di Pierre Chiartano urchia-Siria-Iran è un asse che sta diventando un nuovo arco di crisi, con Ankara elemento forte del triangolo. E dove la Siria è il buco nero che si sta formando tra Turchia e Persia. Ma non tutto potrebbe venire per nuocere. Gli Stati Uniti sono preoccupati per le notizie secondo cui la Siria sta concentrando i suoi soldati vicino al confine con la Turchia – mossa che potrebbe far degenerare la crisi nella zona – e ne stanno parlando con funzionari turchi. Ma Ankara si è già mossa a livello governativo. È stato il segretario di Stato Usa Hillary Clinton a porre il problema ieri, forse enfatizzando la situazione a fini politici. Washington sta riagganciando i turchi su più fronti: quello libico e quello israeliano. E vorrebbe tenerlo attaccato al tavolo negoziale per sfruttarne l’influenza regionale. Ma ora è la Siria in cima all’agenda di Foggy Bottom. Le truppe siriane si sono radunate vicino al confine turco, secondo quanto riferito, sempre ieri, da testimoni, acuendo le tensioni con Ankara. Mentre il presidente Bashar al-Assad sta facendo sempre più spesso ricorso all’esercito per sedare la rivolta popolare in corso da tre mesi. È chiaro che ci sono stati riscontri diretti tramite i sistemi di rilevamento satellitare Usa che avrebbero confermato la presenza di unità militari di Damasco lungo il confine. La Turchia ha fatto sapere che i due ministri degli Esteri si sono consultati al telefono e che l’ambasciatore siriano ad Ankara è stato in seguito convocato al Ministero degli Esteri.

T

in Siria», ha affermato la Clinton. «Se le forze siriane non cesseranno subito i loro attacchi e le loro provocazioni assisteremo a un’escalation del conflitto nella zona».Testimoni hanno riferito di centinaia di rifugiati terrorizzati che hanno attraversato il confine entrando in Turchia per evitare l’attacco dell’esercito.

E sono ormai poco meno di dodicimila i profughi siriani riparati in Turchia per sottrarsi alla repressione da parte del regime di Bashar al-Assad, che nell’intento di stroncare l’esodo oltre ad ammassare truppe al confine, sta inviando reparti corazzati: lo ha reso noto l’agenzia di stampa turca Anadolou, citando fonti del governa-

Hillary Clinton: «Se le forze siriane non cessano i loro attacchi e le loro provocazioni assisteremo a un’escalation del conflitto»

La Clinton ha precisato che la decisione della Siria di circondare e prendere di mira la città di Khirbat al-Joz, a soli 500 metri dal confine con la Turchia, segna una nuova preoccupante fase nei tentativi di Damasco di sedare le proteste anti-governative. «Se fosse vero, quest’azione così aggressiva potrebbe solo esacerbare la già difficile situazione dei rifugiati

torato per la provincia frontaliera di Hatay, all’estremità sud-orientale dell’Anatolia, tra l’altro rivendicata da Damasco. Comunque il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu e il suo collega siriano Walid Muallin si sono parlati ieri. La spiegazione di Damasco è stata che le truppe sono state impegnate nella lotta ai terroristi e in manovre militari già previste da tempo, come riportato dal quotidiano turco Hurryet. Vicino al villaggio frontaliero di Guvecci circa 600 profughi avrebbero attraversato la recinzione in filospinato sul confine, incamminandosi poi su di una carrabile, di solito usata dalle pattuglie dell’esercito turco. Nei campi di accoglienza provvisoria allestiti dalla Mezzaluna Rossa per ricevere gli sfollati nella mattinata di ieri risultavano registrate complessivamente 11.739 persone, oltre 1.500 delle quali arrivate nelle ultime 24 ore; mercoledì infatti il totale era di 10.244 unità. La maggior parte dei nuovo arrivi provenivano dalle tendopoli improvvisate situate appena al

di là della frontiera, sul limitare del territorio siriano. Giornalisti presenti sul posto hanno riferito che ieri gli accampamenti in questione apparivano infatti completamente deserti, tanto che da ultimo non sono più stati segnalati sconfinamenti di civili. L’apprensione e anche l’irritazione di Ankara per gli sviluppi della situazione nel Paese vicino, e per le potenziali ripercussioni che gliene deriverebbero, appare confermata dal fatto che, come reso noto dalle autorità turche, giovedì sono intercorse consultazioni telefoniche tra i rispettivi ministri degli Esteri, e che quello di Ankara ha poi convocato al dicastero l’ambasciatore di Siria per chiedergli spiegazioni. Nel frattempo testimoni oculari hanno denunciato un’incursione delle forze di Damasco nel villaggio di Managh, situato a soli 15 chilometri a sud del confine e poco più a nord rispetto ad Aleppo, che ricordiamo è un centro non ancora toccato dalla rivolta: nel piccolo centro sono penetrati blindati, che avrebbero cominciato a «sparare a casaccio» sulla popolazione, scatenando il panico e una fuga di massa «in tutte le direzioni». Altrettanto era avvenuto all’alba di giovedì in una localita’ vicina, Khirbet alJoz.Intanto nell’altro vicino ingombrante della Siria continua la faida di potere tra Mahmoud Ahmadinejad e la guida suprema Ali Khamenei.

Mohammad Sharif Malekzadeh, uno degli alleati più stretti del presidente iraniano Ahmadinejad, è stato arrestato in Iran con l’accusa di corruzione. Lo riportava ieri il sito web della Bbc, sottolineando che si trattava di un ulteriore esempio di come la guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, stia usando i suoi vasti poteri per contenere il presidente Ahmadinejad, che spesso ha sfidato la sua autorità. L’Iran dei mullah sta aiutando il regime siriano con aiuti sostanziali: soldi e armi. Ma si guarda bene da dare un appoggio morale per non apparire ancora più liberticida di quanto non

Una folla di manifestanti a Damasco sostiene il presidente Assad, nel mirino della comunità internazionale per l’invio di carriarmati al confine con la Turchia e per la repressione violenta dei dissidenti. In basso il premier israeliano Netanyahu e Peres

Ramallah e Tel Aviv sempre più lontane dalla pace

Israele è stato comprato, non rubato Bisogna combattere la propaganda palestinese sul “furto” delle terre di Daniel Pipes sionisti hanno rubato la terra dei palestinesi». È questo il mantra che l’Autorità palestinese e Hamas insegnano ai loro bambini e diffondono nei media. Quest’asserzione riveste un’enorme importanza, come spiega Palestinian Media Watch: «Presentare la creazione dello Stato [israeliano] come un atto di ladrocinio e la sua esistenza come un’ingiustizia storica funge da base per il non-riconoscimento da parte dell’Ap del diritto d’Israele ad esistere». L’accusa di furto mina altresì la posizione dello Stato ebraico a livello internazionale. Ma quest’accusa è vera? No, non lo è. Paradossalmente, la costruzione di Israe-

«I

le rappresenta grossomodo l’immigrazione interna e la creazione dello Stato più tranquille della storia. Per comprenderne il motivo, occorre vedere il sionismo nel contesto. In poche parole, la conquista è la norma storica. Ovunque i governi siano stati istituiti con l’invasione, quasi tutti gli Stati sono stati fondati a spese di qualcun altro. Nessuno comanda a tempo indeterminato, le radici di tutti riconducono altrove.

Le tribù germaniche, le orde dell’Asia Centrale, gli zar russi e i conquistatori spagnoli e portoghesi hanno ridisegnato le carte geografiche. I greci moderni hanno un debole collegamento con i greci


mondo

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sia agli occhi dei propri cittadini. Malekzadeh ha rapporti stretti con il capo dello staff del presidente iraniano, Esfandiar Rahim Mashaie, accusato dai circoli vicini a Khamenei di essere esponente di una «corrente deviata» che si oppone all’ala religiosa del regime. Corrente deviata in cui alcuni analisti vedrebbero un braccio della massoneria che in Persia ha un’antica tradizione e di legami con la finanza internazionale. Si spiegherebbe così la contrapposizione aperta del presidente iraniano alla guida suprema. Altrimenti paragonabile a un vero suicidio politico. Khamenei non gode solo di un potere istituzionale e dell’appoggio del clero, ma anche dei

Negli Usa c’è chi vede nell’Iran, ripulito dall’anti-sionismo, il nuovo protagonista degli equilibri regionali

dell’antichità. Chi può contare il numero di volte in cui il Belgio è stato invaso? Gli Stati Uniti sono nati sconfiggendo i Nativi americani. I re hanno razziato l’Africa, gli Ariani hanno invaso l’India. In Giappone, coloro che parlavano Yamato hanno eliminato tutti i piccoli gruppi come gli Ainu.

Il Medioriente, grazie alla sua centralità e alla geografia, ha subito un eccessivo numero di invasioni, tra cui quella greca, romana, araba, dei Crociati, selgiuchide, timuride, mongola e degli europei moderni. In seno alla regione, le bave dinastiche hanno costretto lo stesso territorio ad essere conquistato e riconquistato, come nel caso dell’Egitto, ad esempio. La terra su cui ora sorge Israele non ha fatto eccezione. In Jerusalem Besieged: From Ancient Canaan to Modern Israel, Eric H. Cline scrive così di Gerusalemme: «Nessun’altra città è stata più ferocemente contesa nel corso della sua storia». E avvalora quest’affermazione contando “almeno 118 distinti conflitti per e dentro Gerusalemme negli ultimi quattro millenni”. Cline calcola che Gerusalemme è stata completamente distrutta almeno due volte, 23 volte assediata, 44 conquistata e 52 attaccata. L’Ap fantastica che i palestinesi di oggi discendono da un’antica tribù cananea, i Gebusiti; ma di fatto sono nella stragrande maggioranza una

progenie di invasori e di immigrati in cerca di opportunità economiche. In questo quadro di conquiste incessanti, di violenze e di sconfitte, gli sforzi sionisti di stabilire una presenza in Terra Santa fino al 1948 spiccano come sorprendentemente miti, essendo stati i sionisti più mercanti che militari. Due grandi imperi, quello ottomano e britannico, hanno governato Eretz Israel. Al contrario, i sionisti non avevano una forza militare. Non potevano diventare uno Stato a tutti gli effetti attraverso la conquista.

Piuttosto, hanno acquistato terreni. L’obiettivo dell’impresa sionista fino al 1948 era quello di acquisire proprietà dunam dopo dunam, e così per le aziende agricole e le case. Il Fondo nazionale ebraico, istituito nel 1901 per acquistare terreni in Palestina onde “contribuire alla creazione di una nuova comunità di ebrei liberi impegnati nell’industria attiva e tranquilla” era l’istituzione chiave – e non l’Haganà, l’organizzazione clandestina di difesa ebraica fondata nel 1920. I sionisti hanno focalizzato altresì l’attenzione sul risanamento di ciò che era arido e considerato inutilizzabile. Non solo hanno fatto fiorire il deserto, ma hanno bonificato le paludi

e le terre incolte, depurato i canali d’acqua, imboschito le colline spoglie, e rimosso il sale dal suolo. La bonifica ebraica e le misure igieniche hanno all’improvviso ridotto il numero di decessi per malattie.

Fu solo quando la potenza mandataria britannica rinunciò alla Palestina nel 1948, cui fece subito seguito un ostinato tentativo da parte dei Paesi arabi di annientare ed espellere i sionisti, che questi ultimi impugnarono la spada per au-

todifesa e andarono a procurarsi la terra con la conquista militare. E anche allora, come dimostra lo storico Efraim Karsh in Palestine Betrayed , la maggior parte degli arabi abbandonò le loro terre e solo pochissimi furono costretti ad andarsene.

Questa storia contraddice il racconto palestinese che “le bande sioniste rubarono la Palestina ed espulsero il suo popolo” che ha portato a una catastrofe “senza precedenti nella storia” (secondo un libro di testo dell’Ap) o che i sionisti “depredarono la terra palestinese e gli interessi nazionali, fondando il loro stato sulle rovine del popolo arabo palestinese” (scrive un editorialista nel foglio dell’Ap). Le organizzazioni internazionali, gli editoriali dei quotidiani e le petizioni che circolano negli atenei reiterano questa menzogna in tutto il mondo. Gli israeliani dovrebbero tenere la testa alta e far rilevare che la costruzione del loro Paese fu basata sul movimento più civilizzato e meno violento che abbia mai avuto qualunque popolo nella storia. Le bande non hanno rubato la Palestina: i mercanti hanno acquistato Israele.

generali dei pasdaran e ahimé anche di una parte dei leader cosiddetti moderati e riformisti, tutti legati allo sciismo conservatore. Dall’altra parte Ahmadinejad ha capito da tempo la necessità di riposizionare il Paese internazionalmente, per non farsi mettere in ombra dalla Turchia di Erdogan, moderata, islamica e sviluppata economicamente. Negli Usa si è sviluppata una corrente che vedrebbe nell’Iran – ripulito dalla retorica radicale antisionista – il nuovo protagonista degli equilibri regionali. Insomma un possibile sostituito per gli ormai impresentabili principi di casa Saud. Diverse persone legate al presidente Ahmadinejad sono state rimosse o arrestate negli ultimi mesi in ossequio a questa faida interna. Recentemente il rappresentante di Khamenei presso i guardiani della rivoluzione Ali Saidi aveva denunciato l’esistenza di «elementi corrotti» nell’entourage del presidente, sollecitando Ahmadinejad a «tornare sulla retta via».

«Sfortunatamente, il governo attuale (...) è afflitto da un grande flagello che è la presenza di elementi infiltrati corrotti», aveva detto alla fine di maggio Saidi. E così per una strana nemesi storica sarebbe la corrente di Ahmadinejad quella che vedrebbe con favore un nuovo rapporto con l’Occidente e quella conservatrice di Quom a guardare alla Cina come una possibile alternativa. Il redde rationem potrebbe arrivare entro marzo dell’anno prossimo, quando gli iraniani dovrebbero tornare alle urne. Se Khamenei dovesse optare per un impeachment dell’attuale presidente allora Ahmadinejad potrebbe tentare la carta del colpo di Stato.


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grandangolo Hu Jintao uccide il diritto in nome della “società armoniosa”

Il rilascio di Ai Weiwei, uno specchio per le allodole occidentali Uno dei maggiori sinologi al mondo attacca: «Una truffa orchestrata a favore della stampa». La Cina ha infatti da tempo deciso di eliminare il valore legale della giurisprudenza in nome della calma sociale. Ma persino alcuni leader comunisti capiscono che in questo modo il Paese rischia il crollo, economico e politico. La spaccatura fra i dirigenti è sempre più forte di Willy Wo-lap Lam a richiesta del capo della giustizia cinese Wang Shengjun di usare le mediazioni extra-giudiziarie come metodo preferito di risoluzione delle dispute civili e di “miglioramento dell’armonia sociale” ha creato molta preoccupazione di un ulteriore peggioramento dello stato di diritto e dell’indipendenza del sistema giudiziario in Cina. A un recente seminario cui hanno partecipato i giudici più alti in grado del Paese Wang, che è presidente della Corte Suprema del popolo sin dai primi mesi del 2008, ha lodato la “tiaojie” (concetto che include “mediazione” e “riconciliazione”) come “una strada efficace per affrontare i conflitti sociali e promuovere l’armonia”. Inoltre ha chiesto ai giudici di “cercare una sintesi fra la mediazione e la risoluzione giudiziaria, dando priorità alla prima”. “Sostenere la priorità della mediazione significa rispondere in pieno allo spirito originario che anima il sistema di creazioni delle leggi in Cina. È anche uno sviluppo delle tradizioni legali e culturali come ‘valorizzare l’armonia’ e diminuire i contenziosi per risolvere i conflitti”. La spinta dell’amministrazione guidata dal Par-

L

tito comunista cinese a favore della mediazione è comprensibile, dati i circa 180mila casi di rivolte sociali, proteste e manifestazioni che si sono verificati in Cina lo scorso anno. Dalla primavera, la nazione è stata testimone di avvenimenti terribili fra cui attentati suicidi in diverse città e prolungati confronti armati fra manifestanti e la Polizia armata del popolo nelle province del Guangdong e della Mongolia interna.

L’Assemblea nazionale del Popolo, l’organismo legislativo della Cina, ha approvato lo scorso agosto una legge “sulla mediazione nella Repubblica popolare” con lo scopo di costituire nuove branche nelle istituzioni con lo scopo precipuo di costruire una “società armoniosa”. Un portavoce dell’Anp disse in quel periodo che “la mediazione e la riconciliazione sono la prima linea di difesa contro le contraddizioni della società”. Mentre la polizia, gli uffici dei procuratori e i tribunali – così come i dipartimenti del governo e del Partito – sono impegnati nel miglioramento della “tiaojie”, le corti sono divenute la prima linea della riconciliazione “in stile cinese”. Dal 2009,

il capo della giustizia Wang ha chiesto ai giudici regionali e a quelli di medio e basso livello di convincere le parti dei contenziosi civili a tenerli fuori dai tribunali. Per la verità, Wang ha notato inoltre che sin dall’inizio del 2009 le corti cinesi “hanno la missione primaria di sostenere la crescita economica, lo stile di vita della popolazione e la stabilità socio-politica”. Secondo il capo della giustizia cinese “mentre i giudici dovrebbero sapere come usare il diritto per

La denuncia delle Madri di Tiananmen: «Cercano di comprare tutto, anche il nostro silenzio» gestire i contenziosi, dovrebbero ancora di più conoscere metodi e vie per evitare sul nascere le contraddizioni sociali”. Sostituire però il giusto e dovuto processo con la mediazione è

una scelta criticata dagli esperti, che sottolineano come in questo modo si eroda lo stato di diritto e si privino i cittadini dei loro diritti costituzionali, fra cui quello di essere protetti dalle istituzioni legali e giudiziarie. Ong Yew-kim, professore aggiunto presso l’Università di Legge e di Scienze politiche cinese di Pechino, ha notato come la “tiaojie” sia, nei fatti, la prova di un ritorno indietro nel campo della riforma legale e giudiziaria. Secondo Ong,“lo status professionale dei tribunali è stato compromesso sin dal momento in cui ai giudici è stato chiesto di assumersi il compito politico di mettere in pratica l’armonia sociale”. I cinesi ordinari, inoltre, “che intendono invece ottenere giustizia dalla legge rischiano invece di essere cacciati dai tribunali con il pretesto di massimizzare l’armonia”.

Wang Liming, vice presidente dell’Università Renmin della capitale e deputato presso l’Anp, avverte: “I professionisti del diritto dovrebbero guardarsi dalla tendenza giudiziaria a dare un’enfasi eccessiva alla mediazione. Le corti di giustizia non sono organizzazioni per mediare.

Mettere la mediazione sopra le sentenze è una variante che tocca lo status sociale e la funzione che la legge ha nei nostri tribunali”.

Due casi recenti di “tiaojie”, che sono stati gestiti dalla polizia insieme ad alcuni organi giudiziari, hanno sottolineato i pericoli insiti nel mettere l’armonia sopra lo stato di diritto. Nei giorni precedenti al 22esimo anniversario del massacro del 4 giugno 1989 le Madri di Tiananmen – una Organizzazione non governativa nota in tutto il mondo, che lotta per ottenere giustizia per le vittime della repressione – hanno rivelato che le autorità di Pechino hanno cercato di “mediare” con i genitori di una delle vittime della piazza offrendo loro una somma di denaro. Collegata a questo tentativo di “tiaojie” c’era una condizione molto chiara: i parenti avrebbero dovuto smetterla di chiedere giustizia e di ritenere colpevoli del massacro il Partito e il governo. In una lettera aperta pubblicata il primo giugno, le Madri hanno definito questo tentativo da parte del potere di cercare un “accordo privato” tramite il pagamento di denaro “un modo


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L’artista che ha disegnato il Nido di Rondine sotto controllo stretto

Libero? No, chiuso nella sua stessa casa e guardato a vista di Massimo Fazzi i Weiwei è stato rilasciato ma non è libero. Dopo mesi di misteriosa reclusione, l’artista cinese è tornato nella sua casa di Pechino, da dove però non potrà muoversi. «Sto bene - ha detto lui stesso – molto felice di aver ritrovato la libertà». Una libertà molto limitata, dato che non potrà parlare alla stampa o uscire di casa per un anno. Il suo rilascio è avvenuto dietro cauzione e ha rappresentato una sorpresa: l’artista, che ha disegnato il famoso stadio “Nido di rondine” per le Olimpiadi di Pechino, è noto per le sue critiche al governo. Dopo oltre due mesi di detenzione in una località segreta, è tornato a casa. «Sono libero su cauzione, non posso dunque fornire alcuna informazione. Non posso concedere interviste», ha precisato. Secondo il portavoce del ministero cinese degli Esteri Hong Lei, «la cauzione vale per un anno e durante questo periodo, Ai Weiwei sarà oggetto di indagini. Non può uscire dalla sua casa senza permesso nè potrà lasciare Pechino». Secondo l’agenzia Nuova Cina, il dissidente è stato liberato in virtù della sua “buona condotta”e del fatto che ha “confessato i suoi reati”di evasione fiscale, ma anche a causa di un diabete cronico. Una fonte di AsiaNews, che lo conosce personalmente, ha ricevuto un messaggio dall’artista via internet: «La polizia staziona non soltanto fuori, ma anche dentro la sua casa. Non può neanche andare al bagno da solo. Il rilascio è una farsa, orchestrata per tenere buona l’opinione pubblica internazionale». In effetti, l’atteggiamento cinese nei confronti della dissidenza peggiora di giorno in giorno. Xu Zhiyong, avvocato noto per le sue battaglie a favore dei diritti umani, è stato prima arrestato – proprio il giorno del rilascio di Ai, lo scorso 22 giugno, e poi rilasciato nella notte. Non ha parlato con nessuno ed è stato chiuso nella sua casa, controllato anche lui dalla polizia.

A

per insultare lo spirito delle vittime del 4 giugno, che nel contempo ferisce la dignità personale dei parenti di quei defunti”. Il secondo caso coinvolge invece le centinaia di migliaia di genitori che hanno visto i propri figli ammalarsi nel 2008 e nel 2009 dopo aver bevuto del latte avvelenato dalla melanina. Da allora gli sforzi di queste persone – tra cui quelli di Zhao Lianhai, rispettato leader della Ong che rappresenta le parti in causa – per portare in tribunale i responsabili di quanto avvenuto sono risultati vani. Anche il tentativo di ottenere un rimborso – strada tentata da quattro genitori presso un tribunale di Hong Kong – si è rivelato vano. Lo stesso Zhao è stato condannato lo scorso novembre a due anni e mezzo di detenzione per “aver incitato il disordine sociale”. Dal 2010, i rappresentanti dell’Associazione cinese dei prodotti caseari, così come diversi Dipartimenti importanti della polizia e della sanità, hanno iniziato a mettere pressione sui parenti perché considerino la “tiaojie”, non i tribunali.

le manifestazioni della degenerazione in corso degli standard giuridici. Il fatto che i giudici – insieme agli agenti della pubblica sicurezza – siano divenuto una parte integrante dell’apparato del Partito teso a imporre “la dittatura democratica del proletariato” contro i suoi presunti nemici è evidenziato anche dalle pesantissime sentenze con cui i tribunali hanno schiaffeggiato centinaia di dissidenti e attivisti per i diritti umani sin dalla fine degli anni Duemila. Mentre Wang promuove la mediazione e la riconciliazione per promuovere

Lo scorso mese, l’Associazione ha annunciato che 270mila famiglie hanno accettato un totale di 910 milioni di yuan (91 milioni di euro) come risarcimento. I media cinesi e di Hong Kong hanno riportato che, accettando la ricompensa “una tantum”, i genitori hanno rinunciato al diritto di azioni legali anche future. Zhao, rilasciato su cauzione per motivi medici all’inizio del 2011, ha detto: “Molte famiglie non hanno avuto alcuna scelta se non quella di accettare un magro contributo. Non avevano alcuna possibilità di ottenere un giusto processo nei nostri tribunali”. Sostituire il giusto e dovuto processo legale con la mediazione è soltanto una del-

l’armonia come “principio basilare”, i tribunali lavorano a stretto contatto con la polizia per imporre pesantissime condanne ai dissidenti, nonostante l’assenza di prove sufficienti. Un esempio viene da Liu Xiaobo: l’intellettuale e docente è stato condannato alla fine del 2009 a undici anni di galera per “aver incitato la sovversione contro il potere dello Stato”. Un anno dopo, l’attivista pacifista – noto per aver dichiarato “io non ho nemici” – è stato premiato per la gioia mondiale con il Nobel per la pace. Dall’inizio del 2010 in poi, un buon numero di dissidenti e attivisti che sfidano le autorità sono semplicemente spariti nel nulla. Uno dei più noti fra questi è l’avvocato per i

L’attivista cieco Chen, l’avvocato Gao Zhisheng, vescovi e lama: il Pcc non si ferma più

diritti umani Gao Zhisheng, noto in tutto il mondo per la sua attività gratuita a favore di gruppi che vanno dai lavoratori licenziati ai fedeli delle chiese non ufficiali.

Inoltre, un enorme numero di intellettuali e organizzatori di Ong è rimasto confinato agli arresti domiciliari persino dopo aver concluso il loro periodo formale di galera. Il caso più famoso è quello dell’avvocato “a piedi nudi” Chen Guangcheng, rilasciato lo scorso settembre dopo essere stato in prigione quattro anni per “aver disturbato l’ordine sociale”. La situazione è poi peggiorata in maniera considerevole dopo le “rivoluzioni colorate” che si sono verificate all’inizio di quest’anno in Medioriente e Africa settentrionale. In un discorso pronunciato lo scorso mese all’Università di Pechino, il docente di Legge e riformista Jiang Ping ha espresso la preoccupazione che “l’enfasi sul principio ‘la stabilità prima di tutto’ potrebbe mettere in pericolo anche il ruolo dell’uomo, non soltanto lo stato di diritto. Ho detto spesso che fin da quando esiste lo stato di diritto, nella storia recente si sono verificati degli alti e bassi. Molto spesso si fa un passo indietro e due avanti”. L’81enne professore di legge, tuttavia, ha concluso: “Negli ultimi anni abbiamo compiuto un passo avanti e due indietro. Stiamo retrocedendo sulla strada principale, e questo è un fenomeno terribile”. Per dei compagni come il capo Wang – un ex dirigente di polizia e burocrate del Partito che non ha mai frequentato una scuola di diritto – evidentemente lo stato di diritto e le questioni legali non sono nulla, davanti all’imperativo di colpire ogni agente che possa destabilizzare la situazione interna.

L’arresto di Ai fa parte della peggior repressione attuata almeno dal 1998, con centinaia di arresti, detenzioni e sparizioni di attivisti per i diritti umani, anche se gran parte do loro non sono noti come l’artista. La repressione è iniziata a metà febbraio, quando sono esplose le proteste in Nord Africa. La Cina ha una situazione sociale simile (scarso rispetto dei diritti, controllo di polizia sulla società, diffusa povertà, corruzione, dittatura) e ha visto con timore l’insistito invito anonimo alla popolazione, su internet, a scendere in piazza per proteste pacifiche. Per essere interrogati dalla polizia e messi sotto accusa per “sovversione” o “istigazione alla sovversione”, reati che prevedono pure l’ergastolo, basta avere scritto su internet della Rivoluzione dei gelsomini o avere criticato il governo. Il gruppo per la tutela dei diritti Chinese Human Rights Defenders denuncia che il 24 marzo sono stati arrestati per “disturbo sociale” gli artisti Huang Xiang, Zhui Hun e Cheng Li, che in una mostra a Pechino il 20 marzo avevano esposte opere richiamanti la Rivoluzione dei gelsomini e l’attuale ondata di arresti. È stato pure arrestato Guo Gai che aveva preso fotografie alla mostra. Il 3 aprile è invece tornato a casa Liu Anjun, che ha raccontato di essere stato rapito il 18 febbraio dalla polizia, che lo ha malmenato e lasciato per giorni in una zona rurale sorvegliato dai residenti. Sempre il 3 aprile l’autore di petizioni Jiang Jiawen è stato condannato a un anno di lavori forzati presso un campo di rieducazione-tramitelavoro (Rtl). È la sua quarta condanna. Anche l’attivista Hua Chunhui è stato mandato a un campo di Rtl.


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il personaggio della settimana L’ex velina più famosa e paparazzata d’Italia ha lasciato Como per rifugiarsi dai suoi genitori

Dolce&Gabbata

Era a un passo dal matrimonio del secolo. Eppure, dopo due anni d’amore, la Canalis si ritrova sedotta e abbandonata. Tornerà Cenerentola a essere la più bella del reame? di Antonella Giuli e l’aveva quasi fatta. Dopo due anni di amore, passione, sorrisi da prime pagine, défilé sui tappeti rossi più paparazzati al mondo e sfrenate corse in moto attorno al lago di Como, la più bella del reame era arrivata a tanto così dall’acchiappo del secolo. Niente da fare. Elisabetta Canalis, l’ex velina più famosa d’Italia, una delle trentatreenni più invidiate del pianeta, straordinario mélange di bellezza e freschezza-finta-scema, se l’è lasciato scappare e da giovedì scorso si ritrova nell’ordinaria condizione di una sfigata qualunque, mollata dal principe grigiazzurro a causa della sua smania da abito bianco. È finita così la liaison da “Se mi lasci non vale” che ha tenuto col fiato sospeso rotocalchi e lettori, che ha visto la soubrette appiccicata cheek to cheek a George Clooney per quasi ventiquattro mesi. Un legame che l’aveva spedita sul piccolo schermo in qualche fiction statunitense e lanciata dritta sulla vetta della celebrità hollywoodiana. Un’unione nata in privato, vissuta tra l’Italia e gli Stati Uniti, naufragata a Londra attraverso due righe di epitaffio pubblico («Non stiamo più insieme. È molto difficile e molto personale, per questo speriamo che venga rispettata la nostra privacy»). Una storia, poi, che fino alla sua conclusione aveva anche avuto l’incidentale effetto di far sospirare plotoni interi di moderne adolescenti cresciute sui tacchi-dodici di Sex and the City e d’improvviso convinte che forse, tutto sommato, le favole a lieto fine esistono davvero. Sì e no.

C

Stando alla prima banale lezione che viene insegnata da psicologi sociologi e massmediologi, non si dovrebbe mai abboccare a occhi chiusi di fronte a una coppia felicemente abituata a recitare e amoreggiare con le telecamere. In molti, già all’inizio del tourbillon tra i due, si erano azionati dilungandosi su come e quanto fosse stata decisa a tavolino e la storia d’amore e la sua esplosione pubblica. Roba da “si sono messi d’accordo, lo fanno solo per farsi pubblicità”. Gli stessi oggi si stanno scatenando secondo il medesimo copione, sicuri come sono di assistere a una

formidabile operazione mediatica “che certo frutterà a entrambi altra preziosa notorietà”. Di nuovo sì e no.

Stando alla seconda banale lezione che altri tuttologi dell’anima propinano, non bisognerebbe mai dare per ovvio che una coppia felicemente abituata a recitare e amoreggiare con le telecamere non possa provare sentimenti genuini e che a causa di questi non soffrirà almeno un po’. In quale delle due condizioni galleggia oggi Elisabetta Canalis? La diagnosi più accreditata dalle cronache rosa quotidiane dà la nostra soubrette esattamente a metà tra un dispiacere intimo e un

dolore interpretato. Come che sia, nonostante abbia tirato fuori già in diverse occasioni il carattere granitico e distintivo tipico dei sardi, non se la deve passare un granché. Quando nel 2005 finì l’amore con Christian Vieri, hanno raccontato ai giornali e televisioni le persone a lei più care, si chiuse in un insolito silenzio preferendo alla scena pubblica un più dignitoso vivere casalingo. E anche quando il calciatore fu fotografato a Formentera e sbattuto in copertina insieme al nuovo amore del momento (l’ex velina di Striscia la notizia Melissa Satta), Elisabetta non fece alcuna plateale scenata ma sparì dai riflettori in punta di piedi per qualche settimana. Giusto il tempo di ricevere il ceffone, parare i colpi dei fotografi e ricomporsi dentro e fuori per tornare sulla scena più tonica e smagliante di prima. Tutto insomma lascia immaginare che anche in questo caso, a un ritiro momentaneo possa comunque seguire una rentrée in grande stile. Del resto, che avesse la fortuna di contare su qualità che vanno oltre la bellezza lo aveva dimostrato subito, quando poco più che ventenne (era il 1999), dopo aver sfilato come valletta ai Telegatti e aver realizzato uno spot per i cioccolatini M&M’s,

puntò i suoi tacchi a spillo sulla scrivania del telegiornale più irriverente d’Italia diventandone presto la regina indiscussa e mollandolo soltanto quattro anni dopo. Ecco i fatti. Sculettando su décolleté vertiginose e in abiti che più succinti non si poteva, grazie ad Antonio Ricci e a Striscia la notizia conquistò milioni di italiani e italiane a colpi di sorrisi e risatine, occhiolini e stacchetti musicali coreografati assieme alla un po’ meno scintillante Maddalena Corvaglia. Da allora non si è più fermata. Elisabetta ha voluto dimostrare di saper anche pensare, parlare, condurre, recitare e divertire («Non sono un’oca: ho preso la maturità classica al Liceo “Azuni” di Sassari e frequentato Lingue e Letterature straniere all’Università Statale di Milano»). Quindi, eccola comparire in spot televisivi, interviste, talk show “in rosa”, copertine di periodici, particine e ruoli più importanti in fiction,“cinecocomeri” e “cinepanettoni”. Fino ad arrivare nel marzo scorso all’Ariston, il palco della musica italiana per eccellenza, affiancando, sia pur con qualche perdonabile scivolone, Gianni Morandi e l’altra presenzialista Belen Rodriguez nella conduzione del Festival di Sanremo. Ma Elisabetta Canalis non ha sfoggiato cocciutaggine e ambizione esclusivamente in ambito professionale.

Dopo la tormentata relazione con Bobo Vieri e qualche successivo flirt (per la verità niente di che), a fine luglio del 2009 ha lasciato tutti a bocca spalancata acciuffando lo scapolo d’oro più bello, famoso e corteggiato del grande schermo. I titoli dei nostri giornali allora recitavano più o meno così: “Elisabetta Canalis con George Clooney, è fuga romantica?”; oppure: “Canalis-Clooney, la coppia dell’estate 2009”; “Clooney e Canalis, a cena coi genitori di lui!; “Natale 2009, Elisabetta Canalis e George Clooney sposi?”. Oggi, gli stessi giornali raccontano il naufragio della loro storia titolando: “George è tornato single”, “Eli è un’altra ex”, “È finita”, “Gli amici lo avevano detto”. Ma soprattutto: “Elisabetta Canalis e George Clooney, cronaca di una rottura annunciata”. Che tra i due ci fosse maretta lo si era capito già da qualche tempo. Che il motivo fosse la di lui allergia alla seconda fede nuziale era ancora più chiaro. La prospettiva aveva letteralmente terrorizzato l’attore che, con un matrimonio


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fallito alle spalle, aveva sempre ripetuto le parole: «Mai più». E a ribadirlo pochi giorni fa era stato anche il quotidiano britannico Mail, ricordando un’intervista al periodico italiano Chi in cui la Canalis aveva detto chiaro e tondo che non sarebbe mai e poi mai potuta stare con un uomo che non avesse avuto in testa i fiori d’arancio. Parole risuonate forse come un sinistro ultimatum nelle orecchie del cinquantenne, che non aveva perso tempo a replicare: «Mi spiace ma ho già dato» (il primo matrimonio

In queste pagine, alcuni scatti di Elisabetta Canalis: durante uno stacchetto a “Striscia la notizia”, insieme a Gianni Morandi mentre conduce “Sanremo”; a fianco all’ormai ex fidanzato, l’attore George Clooney

pendance. Messaggio davvero poco equivocabile.

Soltanto il giorno prima la coppia aveva cenato al “Gatto Nero” di Cernobbio, «come al solito, tranquilli e carini, hanno mangiato in armonia», ave-

Previsione choc di Signorini: «Ora sta male, ma scommetto che tornerà insieme a Vieri. Lui ne è ancora innamorato» di George Clooney fu con l’attrice Talia Balsam, di recente nel cast della serie televisiva Mad Men, durò dal 1989 al 1993 e andò tanto male da convincerlo, appunto, a non riprovarci).

Ad aggravare le cose, stando infine a quanto riferito pochi giorni fa da Novella 2000, una furibonda lite che Elisabetta e George avrebbero avuto venerdì scorso nel buen retiro di Villa Oleandra a Como: lei sarebbe rientrata a casa dopo una lunga assenza e lui, anziché darle il benvenuto, l’avrebbe invece accolta chiudendosi in una de-

va detto alla Stampa il proprietario del locale Fausto Fontana. Il giorno dopo, lo scontro che ha segnato l’ultimo atto della loro storia d’amore, culminata (pare) con Elisabetta che si allontanava dalla residenza sul lago visibilmente arrabbiata e con le valigie in mano (di nuovo, Se mi lasci non vale...). Certamente le voci che da una settimana continuano a circolare su un presunto avvicinamento tra Clooney e la 46enne Sandra Bullock, insieme sul set londinese del film Gravity, non avranno stemperato il clima già piuttosto arroventato.

Né i graffi riportati potranno essere disinfettati dalle diverse smentite apparse ieri su magazine americani e tabloid britannici, secondo i quali l’attrice di Arlington avrebbe innocentemente deciso di aiutare George nell’affrontare la rottura con Elisabetta, cercando di essergli vicina come confidente e amica (una fonte anonima ha rivelato al Mirror: «Sono diventati molto amici e Sandra non sopporta di vedere George soffrire. Tutti e due hanno dovuto affrontare relazioni importanti finite al macero. Si stanno esclusivamente sostenendo a vicenda»). Sarà. Intanto, mentre Elisabetta si tiene lontana dai microfoni e cerca riparo a casa dei suoi genitori, a fare previsioni sul futuro ci sta già pensando il direttore di Chi e di Tv Sorrisi e Canzoni Alfonso Signorini, che dopo essersi detto ammutolito dalla rottura («Sono esterrefatto, figuriamoci che il 5 luglio ero stato invitato a Villa Oleandra per una gran festa d’estate»), verso l’ora di pranzo ieri ha confermato: «È stato George a lasciarla. Lei ora sta soffrendo molto, ha definitivamente lasciato la villa sul lago e spento il cellulare dopo aver letto il comunicato stampa attraverso il quale Clooney annunciava la fine della loro relazione. Per Elisabetta essere abbandonata purtroppo è un destino: anche con Christian Vieri si lasciò in questo modo. Però scommetto che se non tornerà con George, si rimetterà con Bobo. Lui è ancora molto innamorato di lei».

Lieto fine o non, che cosa rimarrà adesso a quella schiera di moderne adolescenti che fino alla fine avevano fatto il tifo per lei? La terza banale lezione che gli esperti del cuore potrebbero suggerire, porta dritto a quello che è passato alla storia televisiva come il più realistico monologo dell’imitatissima single newyorchese Carrie Bradshow, ossia una corsa veloce veloce verso l’amaro convincimento che “la favola delle belle favole” sia ormai precipitata di nuovo nell’èra dell’anti-innocenza: un tempo e un luogo

Dai “Telegatti” a “Sanremo” Elisabetta Canalis nasce a Sassari 12 settembre 1978. Dopo la maturità classica, si trasferisce a Milano per frequentare Lingue e Letterature Straniere. In quel periodo partecipa a diversi casting, tra cui quello per Il pesce innamorato di Pieraccioni. Nel ’99, oltre a presenziare come valletta ai Telegatti e realizzare uno spot M&M’s, viene scelta come velina mora di Striscia la notizia. Dopo il successo, è valletta fissa in due edizioni di Controcampo. Nel 2003, in coppia con la Fontana, conduce il programma Ciro presenta Visitors e un anno dopo il sequel Super Ciro. Nel 2004 ha una parte nel videoclip della canzone di Antonacci, Convivendo. Nel 2005 conduce per una settimana Striscia la Notizia insieme all’ex collega Corvaglia. Nel 2006, in sostituzione della Hunziker, è protagonista con De Luigi della seconda stagione di Love Bugs e partecipa al cinepanettone Natale a New York. Intanto, affianca De Sica in alcuni spot della Tim. Torna al fianco di Piccinini in Controcampo Ultimo Minuto all’inizio della stagione 2006/2007. Nel 2007 è ospite fissa del programma della Gialappa’s Mai dire Martedì. Nel 2009 lavora per la rete Mtv Italia, e insieme al vj Carlo Pastore conduce Total Request Live. Nel 2010 è scritturata per la serie tv statunitense Leverage. Nel 2011 affiancata Morandi nella conduzione di Sanremo. A maggio si spoglia per Peta, l’associazione che difende i diritti degli animali.

«dove nessuno fa colazione da Tiffany e nessuno ha più voglia di raccontare storie. Dove le donne fanno colazione alle 7 e hanno storie che cercano di dimenticare il prima possibile. L’autoconservazione e concludere affari hanno priorità assoluta. Sono a migliaia le donne così in città, forse decine di migliaia, le conosciamo tutte e tutti pensiamo che siano fantastiche: viaggiano, pagano le tasse, spendono 400 dollari per un paio di sandali all’ultimo grido e sono sole. La domanda è: perché ci sono tante fantastiche donne non sposate e nessun uomo senza la fede al dito?». Ciononostante, come sempre non tutto è da buttare e l’esperienza suggerisce che, ancora una volta, la spunterà la furba, dolce, brava Elisabetta.

Lei, che è alta un 1 metro e 70 centimetri, che pesa 50 chili, che ha 38 di piede, occhi marroni e capelli castani; che nel 2002, insieme a Maddalena Corvaglia, fece letteralmente impazzire gli italiani di ogni età con un indimenticabile calendario allegato alla rivista GQ (per l’occasione venne spedito e venduto nelle edicole al prezzo di 12.000 lire con una tiratura di 700.000 copie); lei, che prenderà il ceffone, parerà i colpi dei paparazzi, se ne starà un po’ per conto suo, tornerà a travestirsi da Cenerentola, dopo aver magari solo finto di voler sposare il principe azzurro che l’aveva trasportata in vetta. Si ricomporrà dentro e fuori apparendo più forte e smagliante di prima. Un formidabile capolavoro di genere.


ULTIMAPAGINA I due maggiori esponenti del Karnataka si sfidano davanti al tempio di Shiva per vedere chi mente

In India i politici scelgono di Antonio Picasso er l’India la lotta alla corruzione è diventata un fatto ossessivo. Dopodomani, il governatore dello Stato del Karnataka, BS Yeddyurappa, si presenterà in un tempio indù, insieme al leader dell’opposizione locale, HD Kumaraswamy, per risolvere l’ennesima tenzone nata dalle reciproche accuse di tangenti e calunnie.Yeddyurappa è additato dai suoi avversari per aver tentato di comprare il loro silenzio in merito agli scandali finanziari in cui è coinvolto. Dallo scorso anno, la magistratura sta indagando sui sospetti favoritismi concessi dal governatore a suo figlio circa alcune lottizzazioni nella capitale dello Stato, Bangalore. Dall’avvio dell’inchiesta, il Bharatiya Janata Party (Bjp), il partito di riferimento di Yeddyurappa, ha elevato un fortino intorno a questo. Mentre l’Indian National Congress Party (Inc) – che detiene la maggioranza presso le istituzioni federali di Delhi – ha mosso la sua artiglieria pesante, con Sonia Gandhi e il primo ministro Singh in testa, per spodestarlo. Il Karnataka è un bacino elettorale appetitoso per entrambe le coalizioni.

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La sua economia vanta un tasso di crescita superiore alla media nazionale. Le ricerche nel campo delle biotecnologie e le attività finanziarie ne fanno, inoltre, uno dei pochi Stati in cui l’economia non è dominata dal mondo rurale. Conquistare, oppure mantenere il potere a Bangalore significa pensare con l’ottica di governare a New Delhi. Tuttavia, sia l’Inc sia il Bjp sono invischiati in varie inchieste di corruzione che, nei messi passati, hanno minacciato anche la sopravvivenza dell’esecutivo federale. L’aspetto curioso di questa ultima vicenda è cheYeddyurappa e Kumaraswamy abbiano deciso di rivolgersi a Dio. Il primo per dimostrare la propria purezza. Il secondo per confermare le accuse che la magistratura di “questo mondo”avanza. Lunedì, quindi, i due si presenteranno di fronte a Shiva – Manjunatha, secondo la tradizione del Karnataka. «Credo in Dio e spero anche tu», ha scritto il governatore in una lettera aperta a Kamaraswamy. «Per questo ti invito a ripetere le accuse che mi rivolgi

di fronte all’Altissimo. In questo caso, apprezzerò il tuo coraggio». In un certo senso, siamo ai limiti dell’ordalia. La pratica di tradizione barbarica per cui la ragione non veniva decisa dalle leggi sociali, bensì dalla giustizia divina. Per intenderci: camminare sui carboni ardenti e uscirne sulle proprie gambe sta a significare che gli Dei sono dalla parte dell’accusato, il quale, di conseguenza, non può essere colpevole. Il tutto è evocativo, ma senza dubbio sorprendente. Il fatto, però, che l’India sia ancora legata a queste tradizioni – anche a livello di alta classe dirigente – induce a riflettere sui contrasti e sul rigido conservatorismo che ani-

preoccupazioni per il Paese. La corruzione in India ha assunto l’aspetto di un fenomeno senza alcun controllo. Sono diecimila i dossier avviati dal Central Bureau of Investigation (Cbi, praticamente l’Fbi indiano). Di questi, almeno un quarto è costituito da pendenze aperto da prima del 2001. La giustizia federale lamenta inoltre la mancanza di fonti e risorse umane necessarie per portare a compimento le proprie operazioni. La direzione del Cbi ha calcolato un sottorganico del 30% rispetto alla domanda effettiva di agenti che dovrebbero essere a sua disposizione. In aprile, Singh ha inaugurato la nuova sede operativa dell’agenzia: 41

L’ORDALIA Yeddyurappa, leader dello Stato e “uomo forte” di Bangalore, è additato dai suoi avversari per aver tentato di comprare il loro silenzio in merito agli scandali finanziari in cui è coinvolto. Una piaga che però affligge tutta l’Unione ma il subcontinente. E per quanto pittoresco sia, l’argomento non può essere sottovalutato. Il ricorso alle sfere celesti dimostra l’ostinazione da parte di chi è sotto i riflettori di non voler mollare il potere. L’accettazione alla sfida, d’altro canto, suggerisce che pure gli accusatori si sentano mossi da ragioni valide. Per quanto riguarda l’Inc, sempre nel 2010, la coalizione di maggioranza è stata investita del più grosso scandalo di tangenti nella storia dell’India post-coloniale. L’inchiesta si è concentrata sulla svendita di concessioni federali per l’installazione di una rete wireless di seconda generazione (Second generation – 2g). Il dossier, noto come “2g spectrum scam” ha chiamato in causa le più importanti compagnie telefoniche nazionali: Swam Telecom, Unitech Wireless e Reliance Telecom. A conti fatti, si è giunti a far luce su una perdita per New Delhi di 39 miliardi di dollari. Il ministro delle telecomunicazioni, Andimuthu Raja, si è dimesso e poi è stato arrestato. Nel dicembre scorso, la magistratura ha cercato di coinvolgere lo stesso premier Singh. Quest’ultimo si è presentato di fronte alla giustizia sfoggiando una determinazione che difficilmente apparterrebbe a un sospetto.

I fatti di Bangalore sono forse di minore portata. Tuttavia, restano un’ulteriore fonte di

miliardi di spesa, per un complesso di 11 edifici e 450 veicoli in sevizio. I tempi, però, sono ancora troppo brevi per raccogliere i benefici di questa iniezione di ossigeno. Nel frattempo, l’opinione pubblica manifesta la propria esasperazione. La giustizia di Shiva, per cui è stata invocata l’intercessione a Bangalore, va affiancata al digiuno della fame intrapreso dal guru yogin Baba Ramdev, peraltro egli stesso accusato di attività illecite. La sua iniziativa è stata bloccata con la forza dalla polizia, la quale si è vista costretta a disperdere una manifestazione promossa dai suoi sostenitori estremisti indù. Ramdev si stima che abbia un patrimonio di circa 240 milioni di dollari. Ben più sincera appare la posizione assunta da,Thomas Menamparampil, arcivescovo cattolico di Buwahati, città della Assam, nell’est del Paese. La spiritualità e l’impegno sociale del prelato, in corsa per il Nobel per la pace, sono riconosciute in maniera traversale a livello religioso. Menamparampil ha creato un canale di dialogo tra cristiani, indù e musulmani. Cosa non da poco per l’India. Il suo caso, però, è ben lontano dalle tradizioni di Bangalore. Per quanto nobili esse siano.


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