ISSN 1827-8817
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Io aborro la demagogia, perché essa è l’onta del popolo e lo scandalo della libertà Lamartine
9 771827 881004
di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MARTEDÌ 28 GIUGNO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
La più grande operazione di polizia dopo il G8 di Genova. I lavori cominciano ma i fondi Ue sono a rischio
Assediati dalla demagogia Val di Susa, guerriglia contro la Tav. E a Napoli è ancora dramma A Nord, boicottaggio. Scontri tutto il giorno, oltre ottanta feriti. I comitati: «La lotta continua». A Sud, l’emergenza rifiuti non si risolve. L’Italia è prigioniera di opposte fazioni di irresponsabili LE CAUSE
Il Tribunale condanna il dittatore libico
Lo “sciopero” della politica genera mostri
L’Aja al mondo: «Arrestate Gheddafi»
di Errico Novi
ROMA. Due blocchi. Non solo in senso fisico. Due no intonati alla demagogia: quello della Lega sul decreto rifiuti e il presidio degli anti Tav in Val di Susa, rimosso a forza in mattinata dalle forze dell’ordine. L’Italia fa i conti con una politica che non decide, da una parte. E vede emergere, dall’altra, un movimento trasversale e irragionevole che ha una sola parola d’ordine: demagogia. Che poi è traducibile con mistificazione, irresponsabilità, menzogna. Avanza nel silenzio, anzi nello “sciopero“ della politica: da tre anni l’esecutivo si limita all’ordinaria gestione di Tremonti. a pagina 2
“Crimini contro l’umanità”. I giudici vogliono portare in aula il Colonnello, suo figlio Seif e il capo dei servizi segreti Tre sole aliquote e un punto in più di Iva: oggi il vertice
Tremonti, pronto il piano fisco. Ma il Pdl lo accusa: populista! Diffuse le bozze: tre fasce sul 20, 30 e 40 per cento. Più l’abolizione dell’Irap (ma dal 2014). E oggi il summit della maggioranza che si prepara a presentare una manovra lacrime e sangue
GLI EFFETTI
Continuando così, il Paese non si salva di Giancristiano Desiderio a una parte, a sinistra, No Tav. Dall’altra parte, a destra, No Decreto Rifiuti. Da una parte la demagogia della sinistra, dall’altra la demagogia della destra. Da una parte gli irrazionalismi di chi si oppone a tutto: treni, tunnel, alta velocità, modernità. Dall’altra le irresponsabilità di chi non governa niente: emergenza, rifiuti, sanità, civiltà. Al centro restano i problemi concreti che da sinistra a destra e ritorno si fa a gara per non affrontare con serietà, ragionevolezza e senso dello Stato. Siamo sotto l’assedio dei demagoghi. Fino a quando? a pagina 4
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Pierre Chiartano • pagina 10
Osvaldo Baldacci • pagina 4
Un ex (già cacciato da Bossi) giudica l’attuale leadership
Pagliarini: «In Padania si gira Totò, Peppino e il ministero»
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
«Umberto Bossi ha tradito la Lega, e non può essere in buona fede. Il federalismo che ha ottenuto dal Cavaliere a suon di strappi è una presa in giro completa. E lui lo sa bene»
Un promemoria filosofico per governare i mutamenti
Occidente, ricorda i tuoi valori. Altrimenti crolli di Michael Novak paesi democratici, con delle economie forti e creative, non ci hanno pensato su più di tanto prima di entrare in guerra. Eppure, più di qualsiasi altro regime, sono vulnerabili e rischiano di implodere dall’interno. Perché le fondamenta di una repubblica sono morali e non ci sono alternative possibili. Le democrazie che a me piace definire “american style”derivano il proprio potere direttamente dai cittadini che rappresentano e testimoniano il link diretto con i valori cardine di un Paese. Al contempo, però, essi rappresentano il carattere morale di una nazione
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Francesco Lo Dico • pagina 5 I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
l’analisi Alle intemperanze degli antagonisti contro l’Alta velocità fa eco il cattivismo antimeridionale della Lega, che avverte: Silvio ci ascolti o va a casa
L’Italia prigioniera
Con la politica in “sciopero”, resta solo la demagogia: nella Val di Susa liberata a fatica e in tutte le promesse vane del governo e del Comune di Napoli il commento di Errico Novi
ROMA. Due blocchi. Non solo in senso fisico. Due no intonati alla demagogia, quello della Lega sul decreto rifiuti e il presidio degli anti Tav in Val di Susa, rimosso a fatica in mattinata dalle forze dell’ordine. L’Italia fa i conti con una politica che non decide, da una parte. E con l’imporsi, dall’altra, di un movimento trasversale e irragionevole, unito da una parola d’ordine: demagogia. Che poi è traducibile con mistificazione, irresponsabilità, menzogna. Avanza nel silenzio, anzi nello “sciopero“ della politica: da tre anni l’esecutivo si limita all’ordinaria amministrazione di Tremonti, per il resto si è autosospeso dal produrre azioni di governo reali. Avvitato attorno alla compulsiva crisi della sua leadership, si autoriduce a una surreale paralisi. Nel deserto si fa avanti a grandi passi l’antipolitica. Ovvero la demagogia insensata e cocciuta dei comitati no Tav, che tentano fino all’ultimo di impedire l’apertura del cantiere di Chiomonte e mandano una quarantina di agenti in ospedale. Ma avanza altrettanto pernicioso anche il cattivismo insulso della Lega di Bossi, incaponitasi nel fermare il decreto per l’emergenza rifiuti. Al momento di mandare in stampa questo giornale, il gotha del Carroccio ha appena concluso la riunione in via Bellerio per l’abituale segreteria politica del lunedì. Presente anche Maroni, oltre al Senatùr e alle vestali del cosiddetto cerchio magico. Inevitabile che nella discussione dei lumbàrd sia prevalso soprattutto il tema dei conflitti interni, dei dissidi esplosi attorno alla sostituzione del capogruppo Reguzzoni, scongiurata dal grande capo. Ancora non è chiaro se la
È il momento di tornare a pensare ai problemi, non alle guerre
Un assedio da spezzare Basta con gli “eserciti” armati a destra e sinistra di Giancristiano Desiderio a una parte, a sinistra, No Tav. Dall’altra parte, a destra, No Decreto Rifiuti. Da una parte la demagogia della sinistra, dall’altra la demagogia della destra. Da una parte gli irrazionalismi di chi si oppone a tutto: treni, tunnel, alta velocità, modernità. Dall’altra le irresponsabilità di chi non governa niente: emergenza, rifiuti, sanità, civiltà. Al centro restano i problemi concreti che da sinistra a destra e ritorno si fa a gara per non affrontare con serietà, ragionevolezza e senso dello Stato. Siamo sotto l’assedio dei demagoghi. Fino a quando? Quel che accade a Chiomonte in val di Susa è surreale. I titoli dei giornali di ieri non raccontavano l’inizio dei lavori per la nuova linea ferroviaria Lione – Torino, ma lo scontro tra due eserciti “l’uno contro l’altro armati”. E i versi del Manzoni sono qui quanto mai utili e giusti perché facevano riferimento a due secoli: il Settecento e l’Ottocento. I due eserciti, quello “regolare”dei poliziotti, e quello “irregolare”dei centri sociali, appartengono anch’essi a un secolo che la Storia ha archiviato da un pezzo nel mon-
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do, ma non in Italia. Tutt’altro che un caso è che Alberto Perino,“arruolato” nella No Tav da ben vent’anni, paragoni la costruzione del tunnel per collegare più velocemente Italia e Francia nientemeno che alla lotta partigiana. Quel che accade a Napoli, ormai dagli stessi anni da quando il “partigiano” Perino si iscrisse alla No Tav, è degno degli ultimi cinque giorni di Napoli e dell’ultimo demagogo arrivato: de Magistris.
Il capo dello Stato, che già nel 2007 disse «sono i giorni peggiori della storia di Napoli», è stato costretto a sollecitare l’intervento del governo visto che, allo stato attuale delle cose, né il comune né la regione, riescono a ripulire la città e il suo gigantesco hinterland. Ma il governo invece di fare ciò che deve, pur sapendo che non è la prima volta e che c’è bisogno di un “ciclo chiuso”per risolvere localmente il problema, rifiuta il decreto per spostare in altre regioni la spazzatura e subisce il veto della Lega. Quel che accade in Italia non accade in nessun’altra parte del mondo. E, purtroppo, non è un modo di dire.
Lega sia intenzionata a rimuovere il suo veto per Napoli. Non paiono ancora smuoverla le proteste che arrivano da Napoli e, a livello nazionale, da tutta l’opposizione, con i Verdi che scaricano davanti alla sede di via Bellerio un po’ di sacchetti a scopo dimostrativo. E nemmeno paiono bastare gli appelli di un Napolitano sempre più preoccupato.
Demagogia e basta. Di natura diversa, per altro: antagonista e protestataria in Piemonte, governativa e dunque ancor più irresponsabile nel caso della Lega. Ci sarebbe poco in comune, senonché l’avanzare di questa propaganda irragionevole trova il suo terreno fertile, appunto, nell’assenza di una politica vera. Quella che dovrebbe assicurare il governo. E che invece pare svanita dall’orizzonte. Se almeno in Valsusa Maroni si decide all’alba a rimuovere il presidio dei comitati (ma pur sempre troppo tardi e troppo sul filo dell’ultima scadenza concessa dall’Ue per i fondi), rispetto al caso Campania c’è l’aggravante di una latitanza ambivalente da parte dell’esecutivo. Perché è vero che finora è stato Bossi a frapporre l’ostacolo maggiore. Ma è anche vero che lo stesso Berlusconi, e il suo partito, non hanno dato l’impressione di mobilitarsi come le circostanze avrebbero richiesto. Ed è dunque inevitabile che si alimenti la leggenda nera di un capo del governo indispettito per la vittoria di de Magistris e intenzionato a farla pagar agli elettori napoletani. Nel capoluogo campano questa è una delle versioni più accreditate, tra le conversazioni allucinate dei cittadini, ancora asfissiati da 1500 tonnellate di spazzatura, soprattutto in periferia.
prima pagina il fatto Condanne bipartisan per le violenze fra manifestanti e polizia
Cronaca di un inferno: ottanta feriti è l’assurda cifra di una battaglia di Massimo Fazzi anifestanti no tav sgomberati, lavori preliminari della Torino-Lione al via. Ma gli scontri di ieri mattina in val di Susa hanno lasciato sul campo un pesante bilancio di contusi (almeno 55 agenti e 24 attivisti) e un inevitabile strascico di polemiche. Il blitz delle forze dell’ordine è scattato poco prima delle 8, ma la “battaglia” per espugnare il presidio della Maddalena di Chiomonte è stata dura: preceduti dalla draga incaricata di rimuovere le barriere costruite con traversine, guard rail e cavi elettrici, i poliziotti hanno risposto con i lacrimogeni a un fitto lancio di pietre, petardi e oggetti contundenti: i militanti no tav hanno alzato anche “barricate di fuoco”, roghi generati da balle di fieno posizionate “sulla strada dell’Avana”, intrise di olio e nafta. Ben presto l’aria è diventata irrespirabile, mentre i mezzi delle aziende incaricate di avviare i lavori del cantiere e gli operai a bordo venivano accolti al grido di “vergogna, vergogna”. «Lo Stato non può assolutamente arrendersi di fronte a dei protestatari: la Tav è considerata una priorità», ha commentato il ministro per le Infrastrutture, Altero Matteoli; sulla stessa lunghezza d’onda il presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, convinta che «un Paese civile e democratico come l’Italia» non possa permettersi «la permanenza di un presidio come quello del villaggio Maddalena, al di fuori della legalità». «Con la Tav bisogna andare avanti», ha ribadito il leader dell’Udc, Pier Ferdinando Casini: «Non si può arrestare un’opera fondamentale per l’economia del Nord». Per Antonio Di Pietro (Idv) «Le infrastrutture e l’intermodalità sono fondamentali per lo sviluppo, ma non si costruiscono con i manganelli. Noi - ha aggiunto - siamo senza se e senza ma per il rispetto dei diritti dell’uomo e delle popolazioni».
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Casini: «Non si può fermare un’opera fondamentale per l’economia del Nord». E Bersani: «Fra i dimostranti anche frange violente»
«Inaccettabile l’idea che al dissenso legittimo delle popolazioni si debba rispondere con la violenza, con la repressione», ha attaccato inoltre il governatore della Puglia, Nichi Vendola (Sel). Amaro il sindaco di Chiomonte, Renzo Pinard: «Pensare che si potesse risolvere questa situazione con il dialogo significava essere eccessivamente ottimisti: i margini di trattativa erano inesistenti». Nel movimento “no Tav”ci sono «anche frange violente e negare che ci siano significa assolverli. E non possiamo accettare l’idea che il processo di decisione venga bloccato da una frangia». Lo dice il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani, commentando i disordini in Val di Susa. Secondo Bersani quello che è accaduto stamattina in Val di Susa è «spiacevolissimo: serve il confronto e il dialogo».Tuttavia, ha continuato, «non si può arrivare al blocco dei cantieri. Noi siamo contrari a che il processo di decisione venga bloccato da frange limitate». E forse anche per queste posizioni, la protesta ieri si è poi spostata fino a Roma. Un nutrito gruppo di manifestanti No Tav ha bloccato per circa venti minuti via IV Novembre, nei pressi di Piazza Venezia, a Roma. Circa un centinaio di persone con le bandiere No Tav, Cobas, di Rifondazione Comunista e del Partito Comunista, si sono fermate al centro della strada, impedendo ai mezzi di raggiungere la piazza. Un fumogeno è stato lanciato dai manifestanti No Tav davanti la sede del Pdl, in via dell’Umiltà, a Roma. Gridando “Berlusconi boia”, i manifestanti si sono poi allontanati.
Ipotesi surreale, certo. Che però è pur sempre il ricordato “sciopero” della politica, ad alimentare. Contro l’inerzia dell’esecutivo si scaglia duramente l’opposizione. «Se un governo non è in grado di rispondere a un’emergenza di questo genere, deve andare a asa, perché non è un governo», dichiara Pier Luigi Bersani, ed è difficile dargli torto. Pier Ferdinando Casini dice quanto sia inconcepibile la spaccatura nella maggioranza persino sui rifiuti di Napoli: «È pura irresponsabilità ritardare ancora il decreto, va fatto subito, andava fatto ieri e non domani, non possiamo lasciare i napoletani esposti al rischio di epidemie gravissime». Tra i non pochi paradossi che contagiano le istituzioni c’è anche quella di un’iscrizione al registro degli indagati per una figura come quella di Stefano Caldoro. Il governatore si presenta puntuale all’interrogatorio in Procura, davanti al pm Francesco Curcio. Ribadisce di aver fatto sempre tutto quanto era nelle sue possibilità, cioè poco considerato il vincolo alla “prossimità provinciale” stabilito dal governo nella gestione dei rifiuti, e considerate le enormi lentezze del Comune di Napoli nel predisporre un piano e articolarlo con gli altri interlocutori istituzionali. Non a caso poco prima che il presidente della Regione incontri il sostituto della sezione “Reati contro la pubblica amministrazione”, il vicesindaco di Napoli Tommaso Sodano viene ascoltato per due ore e mezza da un altro pool della Procura, quello che si occupa di reati ambientali ed è guidato dall’aggiunto Aldo De Chiara. In effetti è al comune che bisognerebbe chiedere conto. I magistrati rivolgono specifiche domande, al vice di de Magistris, sul piano che l’amministrazione cittadina avrebbe dovuto attuare già dallo scorso mese di febbraio, quando era in carica ancora Rosa Russo Iervolino. E forse, per far quadrare davvero i conti dell’inchiesta, i pm avrebbero dovuto indagare innanzitutto l’ex primo cittadino. Cosa che non avviene. E anzi la Iervolino, contattata dall’Ansa, si permette persino di rispondere che è «all’estero», che non ha sentito le critiche rivoltegli da de Magistris e che non ha intenzione di rispondergli. Paradosso stomachevole che chiama in causa la coerenza dei magistrati partenopei, prima di qualunque altra cosa. Si può dire che in questa giornata fallimentare tutti diano il proprio contributo al coro della demagogia. Non perde occasione di farlo nemmeno lo specialista de
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Magistris, che riesce ad essere vanamente teatrale persino quando prova a proporre un profilo più realista: se la prende con la Iervolino, certo, che ha lasciato in eredità «le casse vuote, oltre ai rifiuti», e questo ha senso, oltre a spiegare le risentite considerazioni telefoniche dell’ex sindaco; poi però de Magistris si abbandona nell’ennesima, inopportuna proclamazione di onnipotenza quando dichiara che «Napoli è una grande città, non dovrà dipendere né dal presidente della Regione né dai governi di qualunque colore siano», e ancora che «soprattutto non dovrà dipendere da questo governo: ci siamo presi l’impegno di diventare autonomi nei prossimi mesi». Intonazione sopra le righe a cui almeno il sindaco ha il decoro di intrecciare frasi più misurate sulla vicenda Caldoro, anche ai suoi occhi indicato ingiustamente come colpevole del dramma.
Le demagogie non finiscono mai, insomma. Dominano incontrastate la scena, visto che l’attore principale,la politica, resta ben nascosta dietro le quinte. All’ombra di tali inerzie, la situazione a Napoli migliora troppo lentamente: altre 250 tonnellate vengono raccolte e si passa così dalle quasi 1800 del week end alla cifra comunque folle di 1500 in mattinata; soffrono soprattutto i quartieri popolari, Stella-San Carlo in particolare, e le periferie, da Bagnoli-Fuorigrotta e Soccavo-Pianura fino a Ponticelli-San Giovanni. Preoccupa la diagnosi di uno come l’ex assessore all’Igiene della giunta Iervolino, Paolo Giacomelli – che i pm pure avrebbero potuto scomodare, vista la decisione di inquisire Caldoro – spietato nel dire che «non è cambiato nulla, manca ancora un luogo dove portare i rifiuti». Lui che se ne intende precisa come resti «la carenza di impianti al servizio di Napoli città, i siti di trasferenza, nati come centri di compattamento, non riescono a coprire la produzione giornaliere». Servirebbe dunque il via libera al trasferimento almeno temporaneo in altre regioni: ma qui rientra in gioco la Lega cattivista. Prima che finisca il conclave in via Bellerio, il presidente della commissione Ambiente della Camera, il padano Alessandri, spiega che la linea resta quella dei giorni scorsi: «Noi non siamo egoisti, perché il Nord a Napoli ha dato eccome, abbiamo preso i loro rifiuti e dato un sacco di soldi, a Napoli da 17 anni fanno i furbi e aspettano l’emergenza per farsi dare i soldi». E allora, visto ch «il nuovo sindaco ha fatto delle dichiarazioni, si assuma lui la responsabilità, la soluzione non è chiedere solidarietà a chi ha già fatto la propria parte». Non serve a nulla dunque il pressing di chi nel Pdl si adopera per sbloccare l’impasse, il ministro Prestigiacomo più di tutti. Nella partita, e nel testo del futuro decreto, dovrebbero effettivamente entrare anche soldi, 150 milioni circa per tutta la Campania, utili a finanziare la raccolta differenziata e i siti intermedi. Non si intravedono spiragli nelle barricate della Lega. Anzi, dalla segreteria pomeridiana i dirigenti padani escono con le mascelle serrate e frasi come quelle del maroniano Tosi: «Se Berlusconi non fa quello che gli chiediamo si va a casa». Maroni elogia i suoi agenti: «Si sono comportati molto bene». Hanno preso anche un sacco di botte: feriti almeno in quaranta, quanti se ne contano tra i manifestanti. Il ministro dell’Interno spiega che con Bossi è tutto a posto. Magra consolazione, visto che la stessa cosa non si può certo dire del governo.
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l’approfondimento
Nelle tre pagine di documento, sarebbe stata programmata anche la soppressione dell’Istituto per il commercio estero
Tremonti fa un fisco
Mentre tutti lo aggrediscono accusandolo di populismo, il ministro propone una bozza di riforma. Tre sole aliquote (20, 30 e 40%) e un punto in più di Iva. Prevista anche l’abolizione dell’Irap a partire dal 2014. Oggi il vertice di maggioranza di Osvaldo Baldacci o spread è ciò che indica la differenza tra i tassi dei titoli di Stato tedeschi e quelli degli altri Paesi europei. Ieri quello relativo all’Italia ha toccato il record di 222. Questo vuol dire che la fiducia è ai minimi. Lontani ancora dalla situazione dei Pigs (Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna), ma certo preoccupante. L’economia è chiaramente il problema principale dell’Italia. In questo clima ci sarebbe davvero da rimboccarsi le maniche e lavorare tutti insieme pensando solo a far uscire il Paese dai pasticci. In questo clima non dovrebbe esserci spazio per la demagogia, ma solo per la serietà. Ma siamo in Italia, in un’epoca di fine impero, e di responsabilità se ne vede molto poca mentre al contrario la demagogia è all’apice.
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Per cui, se l’economia è il nodo cruciale della situazione italiana, allora ecco che proprio là, invece di tenerla fuori dai giochetti, proprio là si applica il
massimo della demagogia. Non è un caso che la maggioranza più è in crisi e più si frammenta, invece di compattarsi. È che molti, troppi, vorrebbero usare la leva dei soldi della manovra per recuperare consensi.
E questo ha scatenato l’attacco frontale e concentrico rivolto da più parti al ministro Tremonti, anche da quella Lega che fino a poco fa sembrava considerarlo un suo uomo e la carta da giocare per sostituire o commissariare Berlusconi. Il ministro Tremonti invece si è reso conto che la tenuta del bilancio è la sua unica arma di credibilità che lo può tenere fuori dal crollo del centrodestra berlusconiano e lo può continuare ad accreditare presso le realtà economiche e sociali italiane e presso la comunità internazionale. Ma allo stesso tempo deve stare molto attento a non cadere nella tentazione di iniziare a giocare anche lui una partita di sopravvivenza o di scalata utilizzan-
do come carte da giocare quegli stessi temi economici di cui era stato rigoroso custode. Esempio clamoroso di queste ore è il tema dei tagli alla politica. Ben vengano i tagli agli sprechi, in politica come fuori dalla politica. Ma in una fase così delicata non si può prendere in giro gli italiani sollevando un polverone sugli spiccioli che si possono ricavare dalle spese parlamentari. È chiaro che molti parlamentari borbottano e attaccano Tre-
I provvedimenti si dovrebbero inserire nelle novità relative al federalismo
monti soprattutto per la paura di perdere alcuni privilegi, e poi magari mascherano dietro altri temi questa difesa dei propri interessi che converge col tema politico del mettere in scacco Tremonti per compiacere le istanze propagandistiche di Pdl e Lega.
Allo stesso tempo però viene il giustificato sospetto che l’agitare certe misure serva soprattutto a imbonire i cittadini, cavalcando un po’ di antipoliti-
ca. Se sprechi e privilegi ci sono, e vanno tagliati, è però ad esempio quantomeno controverso andare a incidere su pensioni maturate ed acquisite, e riscuotibili solo dopo i 65 anni. Privilegi su cui fare razionalizzazione ed economia all’interno dei costi della politica ce ne sono, ma fare di tutta l’erba un fascio non è mai una buona idea. Sarebbe forse controproducente persino per lui se il ministro pensasse di utilizzare questo tema per riscuotere un consenso inizialmente facile e usarlo per una sua battaglia politica personale per uscire dall’accerchiamento cui la maggioranza l’ha improvvidamente costretto e giocare le carte per una candidatura personale a più alti obiettivi.
Tagli alla politica ci possono e forse ci devono essere, ma devono essere improntati alla serietà ed essere in linea con i sacrifici chiesti al Paese. Possono forse essere persino esemplari, per guadagnare
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L’ex ministro leghista fotografa un Carroccio allo sbando: «Bossi ha tradito la Padania»
«Povera Lega mia! Ti sei ridotta a Totò, Peppino e i ministeri»
«Il Senatùr non può essere in buona fede: il federalismo che ha ottenuto da Silvio è una presa in giro». L’opinione di Giancarlo Pagliarini di Francesco Lo Dico
ROMA. «È sconsolante vedere il Carroccio ridotto così. Bossi e i suoi si sono lasciati trainare da Berlusconi per anni, nella speranza di ottenere il tanto sospirato federalismo. Il problema è che del progetto originario è rimasto poco e niente e oggi abbiamo soltanto un terribile pasticcio che non fa altro che riconfermare il centralismo romano. Falliti i veri obiettivi, la mia Lega tenta di arrabbattarsi come può e colleziona ormai da tempo compromessi e scivoloni per tentare di arginare il malcontento. La questione dei dicasteri, ad esempio, sembra la parodia di un film: Totò, Peppino e i ministeri». Leghista della prima ora, ex ministro del Bilancio del Berlusconi I, Giancarlo Pagliarini ha lasciato il Carroccio nel 2007, in aperto contrasto alla linea del partito, sin troppo acquiescente nel permettere molto a Silvio, e poco al federalismo da lui immaginato. Di quel progetto, spiega lui, «non è rimasto niente, urlano contro Roma ladrona, ma resta tutto tale e quale». Scatenare una canea per strappare i ministeri a Roma e portarli a Milano: non sarà che andando con la ladrona, la Lega ha scoperto che le piace latrocinare? Questa dei ministeri è una cosa da manicomio. Ci siamo scagliati da sempre contro il centralismo romano, e oggi ci ritroviamo a elemosinare qualche stanza del Palazzo da mettere su un camioncino e trasportare al Nord. Roba da matti. Restiamo in tema. Che ne pensa di Bossi che urla per avere le banche? Una boiata pure questa. Da troppo tempo strilliamo per avere pezzi di potere che abbiamo sempre combattuto in nome di un ideale che si chiama federalismo. Di che si lamenta? In fondo Berlusconi, almeno con voi è stato di parola. Ve l’ha dato. Nemmeno per sogno. Questo federalismo è una presa in giro che serve soltanto a fare meno trasferimenti. Afferma il principio che se una Regione fa la buona viene premiata, e se è discola viene punita. Ma indovini un po’? È sempre lo Stato a fare la pagella, e a decidere sui soldi. E com’è possibile che soltanto Bossi non se ne sia accorto, di quest’imbroglio? C’è una sola spiegazione: è in buona fede perché non ha letto i decreti del federalismo fiscale. E poi Bossi sa bene che Berlusconi non ha tenuto fede alla settima missione.
Settima missione? Urgono approfondimenti. Il premier aveva sottoscritto con Bossi un impegno in sette punti. L’ultimo di questi era portare in Gazzetta ufficiale una legge approvata dalla Regione Lombardia che avrebbe avviato il processo del vero federalismo: l’ottanta per cento dell’Iva da lasciare sul territorio, e la perequazione tra Regione e Regione. E quindi come la vede la spiegazione della cattiva fede di Bossi?
«La linea Maroni è quella dei servitori dello Stato. Una stupidaggine. È lo Stato che deve servire i cittadini» Forse è stanco, perde colpi, si accontenta perché “piuttosto è meglio che niente“. In alternativa bisogna pensare che abbia una strategia il cui senso mi sfugge. Resta il fatto che gli scontenti aumentano ogni giorno di più, nella base. Ce n’è uno abbastanza rinomato come Maroni. Che cosa si nasconde dietro al litigio tra i due? Nella Lega ci sono due anime: una che predica la politica dei piccoli passi, l’alleanza con Berlusconi, il lavoro paziente all’interno del sistema di potere. E un’altra a vocazione solitaria nella quale mi iscrivo. La verità è che sia
con Berlusconi, che con Bersani, non cambierà mai niente: per ottenere qualcosa, la Lega deve fare da sola. Avere le mani libere. La convince una Lega guidata da Maroni? La linea Maroni è quella dei servitori dello Stato. Una stupidaggine, perché i servi non sono liberi, e semmai è lo Stato che deve servire i cittadini. Torniamo a Bossi. Mettersi di traverso sul decreto rifiuti è la mossa demagogica di un leader in difficoltà? Probabilmente c’è il tentativo di rinsaldare i legami con gli elettori scontenti, lo ammetto. Ma resta il fatto che Napoli non può essere aiutata ogni anno. Dare una mano alla città, significa ritrovarsi l’anno prossimo nella stessa situazione. È ora che la Campania impari a fare da sola, senza cercare salvacondotti. De Magistris si inventi qualcosa per fare funzionare la sua città. Beh, anche il vostro Formentini si inventò la solidarietà altrui nel 1995, per liberarsi dai rifuti. Imparagonabile. Napoli si è servita di milioni e milioni di euro di soldi pubblici senza aver mai risolto il problema. Sicuro di aver lasciato la Lega? Vede, io resto leghista perché continuo a credere nel federalismo attuato con successo in Svizzera. Quel federalismo che in premessa, nella Costituzione, dice che ciascun cantone è diverso. Ammettere la diversità è il primo passo per far funzionare davvero le cose anche in Italia. È così che andra? Sono molto scettico, ma siccome ho indovinato su Pisapia sindaco a Milano, faccio un pronostico. Non si arriva a fine legislatura. Tra poco si andrà ad elezioni e vincerà la sinistra. Scusi, e il federalismo? Già. Appunto. E il federalismo?
credibilità in funzione di un risanamento che coinvolga tutti, ma non possono essere un mero esercizio retorico per imbonire la piazza. Quel che davvero interessa ai cittadini è che si governi bene e con efficacia, non che si sforbici per un ritocco estetico. Troppo facile limitarsi prima ai tagli lineari senza assumersi la responsabilità di scegliere, poi puntare il dito contro la politica limitandosi a sollevare un polverone simulando una capacità di scelta che poi invece non si applica negli altri casi. È auspicabile quindi che Tremonti non ceda a tentazioni demagogiche e faccia invece quello che sa fare bene, il ministro dell’Economia, soprattutto adesso che la sua capacità di tenere il bilancio in ordine è tanto necessaria quanto sotto attacco, e allo stesso tempo si profila la possibilità di mettere mano a riforme che potrebbero essere fondamentali per il Paese se ben fatte, ma fatali se invece si cede alle spinte demagogiche che appunto vediamo palesemente emergere nella maggioranza. Esempio su tutte è la riforma fiscale, di cui l’Italia ha veramente bisogno, di cui si parla da lustri senza risultati, e che comunque non può essere realizzata aumentando il debito insostenibile dell’Italia che invece al contrario deve assolutamente essere ridotto. Proprio ieri sono uscite le anticipazioni sulla bozza della riforma del fisco che dovrebbe far quadrare le esigenze di ammodernamento e giustizia con quelle di bilancio. Come atteso, l’impianto si basa sulla riduzione a tre aliquote Irpef - al 20, 30 e 40% - compensata dall’innalzamento dell’Iva di un punto per le aliquote più alte (10 e 20%). Secondo l’Ansa che ha avuto le anticipazioni, il documento sarebbe ridotto a tre pagine per impostare una legge delega, un procedimento che è stato normale per il governo Berlusconi ma che ora è anch’esso oggetto di contestazione dagli esponenti della maggioranza che vogliono intervenire nel merito dei singoli provvedimenti. La bozza prevederebbe tra l’altro l’abolizione dell’Irap a partire dal 2014 e la soppressione dell’Istituto per il commercio estero. L’Irap è una tassa mai piaciuta agli imprenditori e di cui più volte è stata promessa l’eliminazione, ma l’abolizione dell’Imposta regionale sulle attività produttive vale quasi 40 miliardi di euro l’anno che dovranno essere trovati altrove. Inoltre il meccanismo si deve inserire nel contesto del federalismo fiscale. L’aumento dell’Iva, poi, non fa certo felice molte categorie. All’assemblea di Confcommercio il ministro per lo Sviluppo economico, Paolo Romani, aveva dato assicurazioni di non aumento dell’imposta. Un altro conflitto dentro il governo.
diario
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Titoli di Stato, record negativo
Stipendi fermi, l’inflazione sale
Scuola politica Udc con Gotti Tedeschi
ROMA. Un segnale negativo per
ROMA. Sono rimaste ferme le
ROMA. Formazione politica a par-
l’economia italiana. Nuovo record storico per il premio di rendimento pagato dai titoli decennali italiani rispetto al bund tedesco. Lo «spread» ha raggiunto i 222 punti base guadagnando otto punti rispetto a venerdì. Il differenziale tra i titoli di stato italiani a lungo termine e gli equivalenti tedeschi resta il miglior indicatore del grado di rischio del nostro Paese all’interno dell’Eurozona. In teoria infatti avendo tutti i 17 Paesi la stessa moneta non dovrebbero esistere differenze di rendimento dei titoli di Stato di un Paese o di un altro. Come accadeva prima dell’introduzione dell’euro i mercati rilevano comunque differenze significative sull’andamento delle economie dei Paesi.
retribuzioni contrattuali orarie a maggio. La rilevazione arriva dall’Istat, che segnala come l’incremento su base annua sia risultato pari all’1,8%, identico a quello di aprile. Il dato è inferiore a quello dell’inflazione che a maggio è cresciuta del 2,6% su base tendenziale. Nella media del periodo gennaio-maggio 2011 l’indice è cresciuto del 2% rispetto allo stesso periodo del 2010. I settori che a maggio presentano gli incrementi maggiori rispetto a un anno prima sono: tessili, abbigliamento e lavorazione pelli (4,1%), militari-difesa (4,0%), forze dell’ordine (3,7%) e attività dei vigili del fuoco (3,4%). Gli aumenti più contenuti riguardano ministeri, scuola, regioni e autonomie locali, Ssnl.
tire dall’economia: nell’ambito del progetto “Un Ponte sul Futuro”, l’Udc organizza per oggi alle 17, presso la Sala delle conferenze di via del Pozzetto 158 a Roma, la sessione formativa dedicata a“Economia sociale di mercato e competitività”. Protagonista dell’incontro il presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi, autore del libro Denaro e paradiso. Apre i lavori il responsabile economico del partito Gian Luca Galletti, mentre le conclusioni sono affidate al segretario Lorenzo Cesa. Modera monsignor Marco Malizia, preceduto dal saluto di Anna Paola Sabatini, responsabile del progetto“Un Ponte sul Futuro”, e dall’introduzione di Stefano Commini, presidente di Confindustria Giovani del Lazio.
Dopo le aperture di Cgil, Cisl e Uil Confindustria esprime “soddisfazione”. E oggi le parti si ritrovano per gli ultimi particolari
Un contratto lungo vent’anni
I sindacati maggiori cercano la quadra sull’adattabilità dei rinnovi di Gianfranco Polillo
Bisogna far rivivere l’esperienza dei grandi accordi del 1993, che segnarono uno dei momenti più alti della responsabilità e al tempo stesso dell’unità del movimento sindacale. Allora la lotta era contro un’inflazione che rischiava di impedire all’Italia l’ingresso nell’euro. Oggi il problema è la speculazione internazionale
n una situazione politica sempre più confusa, il direttivo di CGIL può rappresentare una svolta positiva. La ripresa di quel dialogo tra le diverse forze sindacali, che cementi nuovamente il mondo del lavoro, finora scisso e contrapposto. Se così fosse - noi lo auguriamo - sarebbe un segnale importante, nella giusta direzione. E che questo sia un appuntamento da non perdere è dimostrato proprio dalla recrudescenza dei mercati finanziari, che proprio ieri hanno penalizzato ulteriormente i titoli italiani, facendo crescere lo spread (222 punti base, un massimo relativo) rispetto a quelli tedeschi. Ciò che preoccupa la grande finanza internazionale non è solo il possibile contagio della Grecia ma dubbi sulla tenuta complessiva del quadro politico, nell’imminenza di una manovra finanziaria tutt’altro che condivisa. Il recupero di una direzione unitaria nel mondo del lavoro garantirebbe quella tenuta sociale che la politica non riesce ad assicurare: nella giusta presunzione che da quella ritrovata unità può nascere lo stimolo per mettere da parte visioni personali e ricercare la giusta strada per risolvere i gravi problemi del Paese.
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Questa, del resto, è stata l’esperienza dei grandi accordi del 1993 che segnarono uno dei momenti più alti della responsabilità e al tempo stesso dell’unità del movimento sindacale. Allora la lotta era contro un’inflazione che rischiava di impedire all’Italia l’ingresso nell’euro. Fu deciso di attestarsi sul cosiddetto “tasso di inflazione programmato” sulla base del quale orientare i futuri accordi contrattuali. Era più basso dell’inflazione reale, salvo possibilità di recupero l’anno successivo. Bastò questo, come del resto era avvenuto nel 1983 con il congelamento dei punti di scala mobile, per gelare le aspettative e favorire il rientro nei parametri previsti dai Trattati europei. Un titolo di credito che i sindacati hanno conservato per lungo tempo e che una parte, per fortuna minorita-
ria, dello stesso sindacato vorrebbe ancora oggi vantare per respingere al mittente ogni proposta di modifica delle future piattaforme contrattuali.
Già la lunghezza di quell’intervallo – quasi vent’anni – dimostra quanto sia difficile, in Italia, essere innovativi. E quanto forte siano gli elementi di conservazione rispetto a una realtà interna e internazionale che cambia con la rapidità che tutti conosciamo. C’è voluta la grande rottura nei confronti della CGIL, il susseguirsi degli accordi separati, le fratture tra la base e il vertice di alcune categorie – vale a dire la Fiom – ma alla fine, per fortuna, le principali ferite sembrano essere in procinto di rimarginarsi. Anche se ci vorrà il tempo necessario per farne completamente
sparire le tracce. Dov’è stato l’intoppo? Soprattutto nella difficoltà da parte della CGIL di Guglielmo Epifani – per fortuna Susanna Camusso sta imponendo una sterzata – nel capire la fase nuova che si era aperta con la nascita dell’euro. Con la moneta unica il principale problema italiano non era più quello di impedire che l’inflazione portasse acqua al mulino della rendita e del capitale. Ossia tagliasse il potere d’acquisto dei lavoratori, per trasferirlo a favore degli altri soggetti economici in grado di dominare i prezzi di vendita.
Era, invece, divenuto quello dei salari – tra i più bassi in Europa – a loro volta conseguenza della bassa produttività di tutto l’apparato produttivo. Un sistema, quello ancora in vigore, che pena-
lizza il merito. Che favorisce chi non lavora o lavora male a danno di chi s’impegna. Il grande ombrello che difende questo sistema è dato dalla rigidità del modello contrattuale. Deciso al centro, non può distinguere. Si traduce in aumenti uguali per tutti: molto per chi non fatica; poco per chi, pur nel suo piccolo, cerca di darsi da fare.
E dall’epicentro delle relazioni industriali un diffondersi a cascata. Ecco allora una dimensione sempre più ipertrofica della pubblica amministrazione. Scuole che non funzionano ed evasione fiscale. Perché, nel bene o nel male, è sempre il grande mondo del lavoro organizzato che segna la cultura di un Paese e condiziona il comportamento prevalente dei suoi cittadini.
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
«Ad Arcore un bordello creato per compiacere il premier» MILANO. Ad Arcore era stato creato «un bordello, un sistema strutturato per fornire ragazze disponibili a prostituirsi all’interno del quale ognuno aveva un ruolo». È l’attacco con cui il procuratore aggiunto Pietro Forno e il pm Antonio Sangermano, nel corso dell’udienza preliminare iniziata stamani, hanno chiesto al gup Maria Grazia Domanico di rinviare a giudizio Lele Mora, Nicole Minetti e Emilio Fede imputati per il caso Ruby. Mentre le due ex miss piemontesi Ambra Battilana e Chiara Danese sono state ammesse come parti civili dal gup Maria Grazia Damanico al processo per il caso Ruby nel quale sono imputati con l’accusa di induzione e favoreggiamento della prostituzione il direttore del Tg4 Emilio Fede, la consigliere regionale Nicole Minetti e l’agente Lele Mora. Chiara era presente nell’aula al settimo piano del palazzo di Giustizia di Milano dove ieri si è svolta l’udienza preliminare. Assenti invece
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
gli imputati. A rappresentare la pubblica accusa il procuratore aggiunto Piero Forno e il pm Antonio Sangermano. «Sono contenta, speriamo vada tutto bene», sono le uniche parole pronunciate dalla 19enne. Chiara si è presentata ieri mattina in aula per seguire l’udienza.Viso da ragazzina, capelli lunghi raccolti in una coda di cavallo, occhiali da vista anni Cinquanta, camicia rosa con rouches. Per i giudici, avrebbe subito un danno d’immagine rilevante.
Da sinistra Susanna Camusso, leader Cgil; Emma Marcegaglia, numero uno di Confindustria e Angeletti (Uil)
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.”
Con questo non vogliamo dire che gli altri fattori non contano. La società italiana soffre di molti mali (dalle infrastrutture, al costo dell’energia e via dicendo) – quello che gli economisti chiamano la scarsa “produttività totale dei fattori” – ma se non c’è la massa critica necessaria per imporre un cambiamento, è illusorio pensare che questo possa avvenire in forma spontanea. Oppure facendo affidamento sul solo impegno della politica, che naturalmente deve fare la sua parte. Ma che sarà più rispondente agli interessi generali se sarà condizionata da un blocco sociale coeso e determinato. Questa, quindi, è la posta in gioco al tavolo della trattativa tra Sindacati e Confindustria, che potrà svilupparsi solo dopo il via libera del direttivo della CGIL, che dovrebbe mettere fine alla lunga guerriglia. Vi è poi un altro aspetto da considerare. L’organizzazione produttiva – ma soprattutto industriale – italiana è profondamente mutata. Nel 1993 esisteva un numero consistente di grandi imprese la cui organizzazione – di tipo fordista – spingeva verso la definizione di regole universali che i contratti aziendali potevano derogare solo in minima parte. Una tutela sia per il lavoro, che per lo stesso imprenditore che aveva di fronte un
L’atteggiamento della Camusso fa ben sperare. E con le modifiche imposte da Epifani può vincere le resistenze interne unico interlocutore. Oggi, invece, il grande tema è quello dell’organizzazione flessibile. Aziende che organizzano la propria produzione nelle forme più varie, per sfruttare appieno la grande segmentazione dei mercati: soprattutto quelli internazionali. Ecco, allora, che regole uniformi non hanno più senso. Sarebbe come adattare una taglia unica a corpi che hanno conformazioni diverse. Nasce da queste trasformazioni, di carattere strutturale, l’esigenza di determinare un diverso rapporto tra il contratto nazionale e quello aziendale. Il primo deve rimanere, ma al tempo stesso dimagrire.
Regolare cioè gli elementi essenziali dei rapporti tra imprenditore e lavoratore, ma senza ingessare realtà che sono tra loro profondamente diverse.
Il punto di sutura tra questi due momenti si chiama “adattabilità”. Trasformare cioè le vecchie “deroghe”, negli accordi respinti nel 2009 dalla CGIL, in una possibile griglia all’interno della quale ciascun’azienda possa scegliere l’abito migliore. E quindi ottenere una maggiore produttività che dovrà tradursi in una maggiore retribuzione del lavoro, approfittando delle deroghe fiscali già predisposte dal Governo. Un gioco a saldo positivo, in definitiva. Che poteva essere tentato prima se la CGIL, fino a poco tempo fa prigioniera delle pregiudiziali della Fiom e della sua ala massimalista, guidata da Giorgio Cremaschi, non si fosse arresa. Saranno vinte quelle resistenze? Con ogni probabilità continueranno, ma Susanna Camusso, grazie alle modifiche statutarie volute da Guglielmo Epifani, prima di lasciare la segreteria generale, è in grado di vincere la partita. La decisione sugli accordi interconfederali spetta, ora, alla CGIL nazionale. E le categorie, pur recalcitrando, dovranno semplicemente adeguarsi.
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paesi democratici, con delle economie forti e creative, non ci hanno pensato su più di tanto prima di entrare in guerra. Eppure, più di qualsiasi altro regime, sono vulnerabili e rischiano di implodere dall’interno. Perché le fondamenta di una repubblica sono morali e non ci sono alternative possibili. Le democrazie che a me piace definire “american style” derivano il proprio potere direttamente dai cittadini che rappresentano e testimoniano il link diretto con i valori cardine di un paese. Al contempo, però, essi rappresentano il carattere morale di una nazione e impongono ai propri governi dei limiti, indicano fin dove gli amministratori si possono spingere e le linee da non oltrepassare. Inutile dire, che tali limiti sono la diretta espressione dei propri: non mentire, non tradire i propri amici, non abbandonare la retta via, non scappare dalle proprie responsabilità. Uno dei principi fondativi necessari alla sopravvivenza dei sistemi democratici è il chiaro riconoscimento che ci sia sufficiente “bene” nell’essere umano da consentire alle democrazie di prosperare e quel tanto di “male”da rendere il sistema democratico necessario. In ultima analisi, la repubblica dipende dalla capacità dei cittadini di credere che chi lo rappresenta terrà la barra sui principi morali stabiliti. Allo stesso tempo, una democrazia non si illuderà di poter essere assolutamente proba (né tantomeno lo imporrà), e consapevole dei limiti dell’essere umano eserciterà un controllo sulle varie forme di potere, distinguendoli fra di loro, attivando un meccanismo virtuoso di verifica e bilanciamento.
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«In God we trust», certo, ma consapevoli che ognuno di noi può scivolare e ha bisogno di aiuto. Ci sono almeno una dozzina di principi fondamentali che i cittadini devono capire e cercare di mettere in pratica quotidianamente per permettere che il proprio paese funzioni. Eppure, per quanto io abbia letto, non c’è nessun titolo che faccia una lista di essi e li spieghi, uno ad uno. È evidente che ogni democrazia dovrebbe invece incentivare la stampa di simili letture. Perché quando si permette a una generazione di dimenticare il lavoro fatto in passato dai propri padri, si rischia di affondare. Questo è il motivo per cui fra tutte le tipologie di regime, il regime della libertà è il più precario e richiede una continua vigilanza. La trasmissione dei valori da una generazione all’altra non è esente da pericoli. Ma non deve essere presa alla leggera, così come è successo - almeno in America - dagli anni Sessanta in poi. Perché non si può insegnare a due generazioni consecutive di doversi vergognare dei propri principi basilari e contemporaneamente pretendere che essi resistano al passare del tempo. I principi non vivono in un astratto empireo, ma nel mondo. Si nutrono di carne e sangue. Non si può avallare che i più giovani usino un linguaggio e un comportamento violento senza porre dei limiti a questa deriva, senza pretendere che la famiglia che li ha generati non si faccia carico di insegnargli - dentro le pareti della propria casa - il valore del rispetto reciproco. La connessione fra parola e azione, genti-
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Un promemoria filosofico utile a governare i mutamenti in corso (e no
Occidente, ricorda i Le democrazie fondate sulla libertà? Sono le più vulnerabili. Perché stanno perdendo il senso della propria identità. E rischiano di sparire di Michael Novak lezza d’animo e verso gli altri, è preziosa. Natan Sharansky ha colto nel segno quando ha detto che le comunità familiari possono dissolversi in un attimo in una serie di atomi individuali, ognuno dei quali potenziale vittima di un sistema totalitario. Una riflessione particolarmente vera per tutti coloro che sono stati tiranneggiati dai propri dittatori, dichiaratisi atei perché hanno voltato le spalle alla propria civiltà (Benito Mussolini, Adolph Hitler, Josef Stalin, Mao Tse-Tung). Questi dittatori hanno rafforzato l’ateismo e formato migliaia di specialisti in grado di mantenere e rafforzare l’atomizzazione degli individui. La differnza fra la folla e la gente è che la prima è composta da una moltitudine di individui atomizzati, mentre la seconda è contraddistinta da persone che interagiscono e che mantengono una serie di connessioni con associazio-
ni, parenti e tutte quelle figure intermedie fra lo stato e l’individuo. La gente è composta da persone che hanno un’identità sociale. E l’uomo che la possiede non si troverà mai solo. Perché può contare su un legame indissolubile con la propria storia, con le figure (più o meno eroiche) che hanno costruito il suo paese; il suo passato lo motiva a costruire un futuro migliore.
Il rovesciamento della paura richiede che i singoli ricordino il proprio passato. Nel 1978 Wojtyla ha cambiato il corso della storia ricordando ai polacchi le loro origini
Ecco perché le parole di Sharansky citate poco sopra sono fra le più importanti della letteratura. Ma le repubbliche non si fondano solo su queste comunioni spirituali di anime, ma anche sulla specifica identità di ogni società. Su quel quid che le rende una diversa dall’altra.
Giovanni Paolo II si è spesso concentrato su queste differenze. Il comunismo ha cercato di isolare tutti gli individui, facendoli vivere in compartimenti stagni. Rendendoli incapaci di potersi fidare anche dei membri della propria famiglia, addirittura dei propri amati figli. Il rovesciamento della paura richiede che i singoli ricordino la propria storia, rintraccino il proprio passato. Nel 1978 Karol Wojtyla in nove giorni ha cambiato la storia, ricordando al popolo polacco chi era e da dove arrivava, e svelando alla maggioranza di essere solo un in-
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on diventarne vittima) del grande intellettuale cristiano Michael Novak
i tuoi valori o crolli granaggio, di essere diventato un semplice apparatchiks. A Cuba, ha sottolineato la storia, le origini del paese. Chiamando la gente a guardare al futuro. Ovunque andasse, per prima cosa si inginocchiava e baciava il suolo. Ma non genericamente. Ogni volta era un bacio a quella specifica terra. Ha ricordato al mondo che dove c’è l’identità c’è la forza, la comunione, la volontà di battersi perché ispirati da un modello. Questa identità impedisce a chiunque di sentirsi isolato e solo. Giovanni Paolo II ha chimato questo fenomeno la soggettività delle società e ne ha fatto il primo principio della pensiero cattolico sociale. Da questo, ne ha fatti derivare molti altri: la responsabilità di ogni persona di riflettere e scegliere, di creare il proprio futuro, di lavorare responsabilmente al proprio destino. Ogni uomo è fatto a immagine di Dio, non solo chiamato a capire, scegliere e agire la storia, ma innanzitutto chiamato a provvedere al proprio futuro. Wojtyla ha definito questo principio la soggettività della persona umana. Ed è il fondamento della repubblicca, la sedia su cui si poggiano i diritti individuali, la dignità e la responsabilità. La soggettività della persona umana e la soggettività delle società vanno di pari passo. Sarebbe carino se l’etica umana fosse confinata in un universo astratto, un po’ come le canzoni di
John Lennon suggeriscono. Ma non è così: l’etica umana è sempre incarnata nella vita vera e vissuta e si nutre di quel che fanno tutti.
I neonati non arrivano da un universo senza storia. No, ogni bambino è il frutto di una vera donna, di una madre che lo guarderà con gli occhi brillanti. Una donna, simbolo di un popolo, simbolo di un linguaggio primario, metafora capa-
La trasmissione dei valori da una generazione all’altra non è esente da pericoli. Ma non deve essere presa alla leggera, come è successo dagli anni ’60 in poi ce di ispirare generazioni dopo generazioni. È una parte essenziale della natura umana, piaccia o meno, e ci ricorda quanto siamo collegati gli uni agli altri. Dimenticare questo rende tutti più deboli, ci leva l’ossigeno, ci fa sentire fragili e indifesi e incapaci di difendere il mondo in cui viviamo. Alexis de Tocqueville, durante il suo
soggiorno americano, notò la grande distanza che divideva gli Usa dall’Europa in termini di religione. In America, scrisse, religione e libertà vanno di pari passo. Non c’era nessun ancien régime da sovvertire, nessun bisogno di abbandonare la religione per ottenere maggiore libertà. Al contrario, Benjamin Franklin, propose come motto nazionale: «ribellarsi contro i tiranni equivale ad obbedire a Dio». Thomas Jefferson sapeva come esprimere pienamente i sentimenti del popolo americano e nella Dichiarazione di Indipendenza li sintetizzà creando una comunione diretta fra diritti inalienabili e il Creatore.
Gli autori della Dichiarazione francese sui diritti umani, tredici anni dopo, abolirono completamente questo legame, definendo i diritti in opposizione alla fede. Come si può vedere, siamo davanti a due specificità soggettive. E non si capiranno mai a sufficienza gli Stati Uniti fintanto che non si coglierà lo stretto legame che il popolo americano ha con il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe. Evidentemente, questo non significa che ogni americano debba professare il suo credo nel Creatore o recarsi in sinagoga tutti i giorni. Uno dei fondamenti del pensiero americano è che ogni essere umano può decidere liberamente se credere o meno, perché que-
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sto è un particolare diritto che il Creatore gli ha dato. L’identità non si coglie nel singolo credere ma nella comprensione del tessuto religioso che unisce il popolo americano. È una realtà storica che anche un non credente sente forte e chiara e che stabilisce il confine dell’identità statunitense. L’autentica identità americana non impone di credere. Tutto quello che chiede è l’onestà intellettuale di riconoscere la propria storia. Qualcuno potrà dire che è un modo bizzarro, forse unico, di spiegare il corso della storia. Ma è così: Eppur, si muove. Dirò di più: questa evidente verità, resa credibile dalla Dichiarazione di Jefferson (e molti altri in tutto il Paese) si lega a una visione coerente dell’essere umano e alla sua relazione con il Creatore e con tutte le altre civiltà, popoli e individui. “Un” Creatore presuppone un’intera famiglia umana, dove ogni persona, senza eccezione alcuna, è da rispettare. La narrativa del Dio degli ebrei offre una coerente visione dei diritti individuali, un’onorevole e plurale soggettività, un intero universo di società libere ma unite fra loro, eppure anche libere di seguire i propri singoli percorsi con la consapevolezza di contribuire alla cultura umana. È una delle virtù della visione ebraica dell’umana natura e del destino, che tiene assieme la soggettività di ogni essere umano e la soggettività delle società. Inoltre, non impone alcuna omogeinizzazione e certamente alcuna coercizione. Al contrario, è un leitmotiv intellettuale (se non addirittura una costante storica) il primato della libertà umana. «Il Dio che ci ha creato, ci ha reso liberi», ha scritto Jefferson. Èd è esattamente così. Questa frase esprime e sintetizza sia la tragedia che la gloria della vita umana e l’incredibile varietà della storia dell’umanità.
Negare il potere creativo e leggere l’uomo al di fuori del contesto del Creatore che ci ha fatti e resi liberi, è un grande errore. Perché il Creatore ha creato un’unica razza umana e allo stesso tempo ha reso diversi gli uni dagli altri (sia come singoli individui che come identità sociali) facendo però tutti partecipare al comune destino della libertà. Sharansky asseriva di avere maggiore fiducia nei nemici consapevoli della propria identità molto più di quelli confusi e disorientati. Trovava maggiori punti in comune con coloro che avevano delle visioni radicalmente divesre dalle sue, ma che però cercavano di vivere secondo i principi del loro modello identitario, con fedeltà e coraggio, piuttosto che con coloro che non sapevano chi fossero e che non avevano nessun fine da raggiungere in nome di qualcosa. Perché quest’ultimo era sempre incredibilmente manipolabile. Il primo, invece, era solido e la distanza poteva anche tradursi nel rispetto reciproco. Senza una solida identità morale, nessuna democrazia, nessuna repubblica, può sopravvivere. Se si perdono le coordinate dei propri valori e della propria identità, si finirà con l’odiare se stessi e i cittadini andranno a pezzi, sia individualmente che collettivamente. Perché senza una moralità condivisa non c’è niente a cui appigliarsi. E il più forte entrerà dentro casa, e abuserà di noi.
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Dopo il presidente sudanese al Bashir, è l’unico capo di Stato inquisito dalla Cpi dell’Aja. Critico il vescovo Martinelli. Ma Bengasi festeggia
Gheddafi most wanted Per la Corte penale internazionale il Colonnello è colpevole di crimini contro l’umanità. E va arrestato di Pierre Chiartano
ROMA.
Muammar Gheddafi deve essere arrestato. Non si capisce bene chi andrà a mettergli manette, se i Carabinieri o gli uomini della Gendarmerie nationale, ma il mandato di cattura è stato spiccato ieri nel primo pomeriggio. Basandosi sulle 1.200 pagine di prove raccolte dal procuratore Luis Moreno Ocampo, i giudici della Corte Penale Internazionale hanno accolto la sua richiesta contro il leader libico, suo figlio Seif al Islam, e il capo dei servizi segreti Abdullah Senussi per crimini contro l’umanità. Lo ha annunciato ufficialmente la Corte a L’Aja. Tra le prove mostrate da Ocampo, foto e registrazioni di testimoni e prigionieri torturati dagli uomini del regime del colonnello. Intanto Franco Frattini è tornato a ribadire che la «Libia non è assolutamente un problema per il governo». Altrimenti sarebbe una bella gatta da pelare, a proposito d’interesse nazionale (italiano) violato dai cugini d’Oltralpe. «È una missione dell’Onu che ha avuto un voto del Parlamento – ha continuato il responsabile della Farnesina – in cui noi cerchiamo una soluzione di pace. Siamo assolutamente convinti che la missione militare è strumentale a proteggere i civili, ma quello che noi vogliamo è una pace in tempi rapidi». Frasi di circostanza per nascondere il fallimento libico. Il ministro degli Esteri, ieri, era intervenuto a Chieti per inaugurare il Forum del Mediterraneo. «Il mandato del Tribunale Internazionale dell’Aja – ha aggiunto il ministro – dimostra come le preoccupazioni di quelli che dicevano di non lasciare sola la popolazione innocente fossero fondate».
Da Tripoli arriva però una voce terza, quella di un prelato cattolico, che, si mormora, sia molto vicino al raìs. Monsignor Martinelli ha infatti immediatamente dichiarato: «Il colonnello non andrà all’Aja. Siamo arrivati a 100 giorni di bombe: siamo stanchi». E come esordio non sembra proprio una pastorale della diplomazia. Magari ha ragione il vescovo di Tripoli, che si dice abbia ospitato per
un certo periodo Gheddafi nel seminterrato della sede vescovile, ma l’approccio è ruvido. «Non è opportuno mettere altra benzina sul fuoco con la richiesta di portare Gheddafi come imputato alla Corte dell’Aja. Il colonnello non ci andrà, penso che rimarrà in Libia» ha continuato Martinelli. «Mi auguro che i negoziati pos-
I giudici hanno accolto le richieste contro il raìs, suo figlio Seif al Islam e il capo dei servizi segreti Abdullah Senussi
nei colloqui tra Unione africana e Bengasi. La sua volontà di dialogo è già una cosa positiva, il resto lo lascerei da parte». Una lezione di real politik da parte di un religioso che sembra sopperire la mancanza d’azione in difesa dei nostri interessi da parte di Roma.
«Se non terminano i bombardamenti, che in questi ultimi tempi hanno fatto tante vittime – ha rimarcato il vicario apostolico di Tripoli – è inutile insistere ad accusare Gheddafi. Stanotte a Tripoli non ci sono state bombe, ma in altre zone della Libia le violenze continuano e la situazione non è chiara. C’è comunque
sano avviarsi presto – ha sottolineato il prelato – ormai siamo arrivati a 100 giorni di bombe: siamo stanchi. Il rais ha accettato di non partecipare ai negoziati, purché si vada avanti
Un ribelle libico. In basso Ocampo, procuratore generale del Tribunale penale internazionale che ha spiccato un mandato di arresto internazionale contro Gheddafi (nella pagina a fianco), il figlio Seif e il capo dei servizi segreti libici. Sono tutti accusati di crimini contro l’umanità. Sotto, il Papa
un desiderio da parte della Nato di frenare i bombardamenti, per ragioni economiche. Le bombe – ha concluso poi il vescovo – non risolvono mai i problemi». E in
questo caso non è il solo a pensare che qualcosa non abbia funzionato nel dispositivo messo in campo dalla Nato. È in buona compagnia con il segretario alla Difesa americano
Le parole del pontefice alle Chiese orientali: «Dignità e uguaglianza per tutti»
Il Papa: «Assurda violenza»
Benedetto XVI guarda con attenzione e molta partecipazione alla primavera araba di Luigi Accattoli ssurda violenza, passione di molti cristiani, stagione di fatiche e di lacrime»: non è mancata la forza delle parole all’appello papale di venerdì scorso perché i cristiani del Medioriente e dell’intero mondo arabo possano godere di “eguale dignità” e di “reale libertà”. Ma il fuoco dell’attenzione del Papa non era tanto sulle violenze e le discriminazioni di oggi, quanto su ciò che sta maturando in quel mondo e che potrebbe essere migliore rispetto alla situazione attuale, ma anche drammaticamente peggiore.
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Il Papa – che parlava alla Riunione delle Opere di aiuto alle Chiese Orientali – non ha espresso un giudizio diretto sulle “prospettive emergenti”, come le ha chiamate, pur avendo usato le parole chiave “ansia” e “segni di novità”. Volendo ricondurre a unità le impressioni che l’osservatore esterno ha potuto cogliere dai parte-
cipanti a quell’assemblea assai qualificata – composta dai rappresentanti delle Comunità cattoliche locali, della Custodia di Terra Santa e degli organismi europei e americani di aiuto a esse – si potrebbe dire che la veduta del futuro immediato è dominata dall’ansia, mentre quella dei tempi lunghi è segnata dalla speranza.
Riassumo questa doppia veduta con le parole con le quali su liberal di giovedì 23 il gesuita egiziano Samir Khalil Samir invitava a guardare alla primavera araba con speranza perché “il nemico del fondamentalismo è la libertà” che ora sta facendo le sue prime apparizioni in quel mondo, ma avvertiva che “per alcuni anni” passeremo “per una crisi”perché in quei paesi non c’è esperienza della libertà e l’educazione a essa “chiederà tempo e fatica”. Questo doppio registro nella percezione della situazione incide anche sugli appelli in favore della pacificazione della regione che Benedetto continua a rivolgere, deplorando – come sempre – l’uso delle armi e auspicando
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Sul fronte dei negoziati, i ministri libici Mohammed Hijazi e Ibrahim Sherif sono arrivati domenica in Tunisia
uscente, Robert Gates, che non ha lesinato critiche agli alleati che avrebbero messo a rischio la credibilità dell’Alleanza in Libia. La Tv panaraba Al Arabiya ha riferito che Ocampo ha
presentato alla Corte dell’Aja anche video e testimonianze di persone che sono state torturate in Libia. Sul fronte dei negoziati, il ministro della Salute libico Mohammed Hijazi e quel-
“ogni possibile mediazione affinché cessino le violenze e, nel rispetto dei diritti dei singoli e delle comunità, siano ristabilite ovunque la concordia sociale e la pacifica convivenza”: così si è espresso giovedì.
Il Vaticano di sicuro non vuole la repressione violenta delle insorgenze popolari e giovanili ma vede con timore – come forieri di nuovi incendi – anche gli interventi armati dall’esterno, sul tipo di quello che la Nato, con una mezza copertura dell’Onu, sta conducendo ormai da cento giorni in Libia senza disporre di un qualsiasi ragionevole progetto che non sia l’uccisione di Gheddafi. Più che i ripetuti appelli perché cessi il confuso bombardamento Nato sulla Libia e si avvii un vero negoziato, l’atteggiamento vaticano fiducioso sui tempi lunghi ma timoroso del prossimo domani è rivelato dalle parole che Benedetto ha dedicato alla Siria il 9 giugno, parlando al nuovo ambasciatore Hussan Edin Aala: «Gli avvenimenti degli ultimi mesi (…) manifestano il desiderio di un avvenire migliore nell’ambito dell’economia, della giustizia, della libertà e della partecipazione alla vita pubblica. Questi avvenimenti segnalano anche l’urgente necessità di vere riforme nella vita politica, economica e sociale. È tuttavia altamente auspicabile che questa evoluzione non si realizzi con metodi intolleranti, discriminanti e conflittuali, ma nel rispetto
lo degli Affari Sociali Ibrahim Sherif sono arrivati domenica in Tunisia, dove da mercoledì si trova il ministro degli Esteri Abdelati al-Obeidi, per condurre «negoziati con rappresen-
assoluto della verità, della coesistenza, dei legittimi diritti delle persone e delle collettività, nonché della riconciliazione. A tali principi devono ispirarsi le autorità, tenendo conto delle aspirazioni della società civile nonché delle istanze internazionali». Una posizione ben lontana dal tono ultimativo della “risoluzione”interventista che Francia e Germania in quegli stessi giorni stavano presentando al Consiglio di Sicurezza dell’Onu, scontrandosi con l’opposizione di Russia e Cina. Il Papa e gli uomini del Vaticano, come anche i loro interlocutori provenienti dall’Africa del Nord, sono prudenti su quello scacchiere in ebollizione anche perché restati spiazzati – alla pari di ogni altro osservatorio nel mondo – dalla “primavera araba”. Lo spiazzamento è stato avvertito da loro con maggiore forza perché proprio a quella regione mondiale si era rivolta lo scorso autunno l’attenzione della Chiesa Cattolica al suo massimo livello con il Sinodo per il Medio Oriente, che si tenne dal 10 al 24 ottobre, preceduto da una consultazione di oltre un anno. Ebbene in quell’assise per tre settimane chi ne sapeva di più, tra i cattolici, su tale materia aveva potuto esprimersi ad abundatiam, e c’erano oltre duecento tra protagonisti e cultori della vita ecclesiale in quell’area e nessuno ebbe la possibilità o il dono di dire: attenzione, qualcosa lì sta per esplodere; attenzione ai giovani, attenzione al nuovo mondo del digitale e di in-
tanti stranieri». È quanto ha riferito ieri l’agenzia di stampa tunisina Tap. Ieri l’Unione Africana aveva reso noto che Gheddafi non avrebbe partecipato ai negoziati dell’Ua. Il colonnello libico ha «accettato di non essere parte del processo negoziale», secondo quanto ha riferito Ramtane Lamamra, commissario dell’Ua per la pa-
ternet. Quella mancata previsione spiega la prudenza interpretativa cui si è deciso di attenersi oggi.
ce e la sicurezza. Intanto, prosegue l’avanzata dei ribelli verso Tripoli, tanto che nella notte si sono registrati scontri tra le milizie degli insorti e le truppe di Muammar Gheddafi a circa 80 chilometri a sud ovest della capitale. Scene di gioia invece si sono verificate a Bengasi, dopo l’annuncio dell’incriminazione del rais. Lo ha reso noto un fotografo della France Presse, presente nella roccaforte degli oppositori libici. La popolazione della seconda città della Libia si è lasciata andare a scene d’esultanza, sparando in aria delle raffiche di arma da fuoco. Il colonnello, che deve fronteggiare un movimento di contestazione del suo regime dopo 42 anni di potere assoluto sulla Libia, è il secondo capo di stato perseguito per crimini contro l’umanità da parte della Cpi, dopo il presidente sudanese Omar al Bashir. Bengasi si trova nell’est del Paese ed è passata sotto il controllo degli oppositori all’inizio della rivolta dello scorso febbraio. È diventata la loro capitale de facto e la sede del Consiglio nazionale di transizione (Cnt) che esercita il ruolo di governo per le parti della nazione che controlla. Le forze fedeli al colonnello Gheddafi erano state sul punto di riprendere il controllo di Bengasi a marzo, ma un intervento aereo sotto mandato Onu le aveva respinte. E sul piano del colore, quello che nelle pagine dei nostri giornali potremmo definire costume, il colonnello produce notizie a livello industriale. È arrivato infatti il momento del certificato da amazzone.
Benedetto giovedì scorso ha ripetuto l’appello perché sia data possibilità ai cristiani di «rimanere in Medioriente non da stranieri ma quali concittadini» e perché vi possano godere di «una eguale dignità e di una reale libertà». Ha ringraziato i convenuti per «avere riflettuto sui mutamenti in atto nei Paesi del Nord Africa e del Vicino Oriente, che mantengono ancora in ansia il mondo». Le parole più vive le ha dette sui profughi e i migranti: «Il Papa vuole farsi vicino, anche attraverso di voi, a quanti sono nella sofferenza e a quanti da essa tentano disperatamente di fuggire incrementando flussi migratori talora senza speranza». Quanto al domani Benedetto confida che «la fervida preghiera e la riflessione ci aiuteranno a leggere le prospettive emergenti dalla presente stagione di fatica e di lacrime». In riferimento ai mesi scorsi ha rievocato “l’assurda violenza”che in più occasioni ha colpito i cristiani“inermi”di quelle terre e ha“consegnato” ai suoi interlocutori «quanto è emerso nel Sinodo e anche il prezioso patrimonio spirituale costituito dal calice della passione di molti cristiani quale riferimento per un servizio intelligente e generoso, che parta dagli ultimi e nessuno escluda». www.luigiaccattoli.it
Sono cinquecento le donne che domenica, a Tripoli, hanno partecipato a una sorta di cerimonia di laurea in cui venivano riconosciute in grado di utilizzare le armi per difendere il leader libico. È questa l’ultima arma di propaganda messa in atto dal regime del colonnnello, che come riferisce l’inviato del Guardian ha portato in piazza cinquecento tra donne e ragazze che urlavano il loro amore per Gheddafi. Ad assistere alla cerimonia una cinquantina di giornalisti internazionali, tutti scortati da funzionari del governo che garantivano la loro sicurezza, che si sono trovati davanti donne che cantavano, ballavano, intonavano slogan con il pugno alzato, sventolando bandiere verdi. In puro stile Ceausescu. Tra loro anziane, bambine e donne di diverse età, con orologi e borse con l’effige del colonnello. Chiunque dovesse andare a mettere le manette a Mummar dovrà vedersela anche con loro?
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grandangolo La road map redatta da uno dei maggiori esperti pakistani
Dieci proposte per portare la pace in Afghanistan Rilasciare i prigionieri talebani, costringere l’Iran a negoziare con l’Occidente, chiedere ai fondamentalisti dei passi verso il disarmo e negoziati diretti, ricucire gli strappi con le etnie separatiste del Belucistan e convincere Delhi e Islamabad a collaborare. Soltanto in questo modo gli Usa potranno chiudere la guerra. E concentrarsi su al Qaeda di Ahmed Rashid isto che nei nove (o poco più) anni passati nessuna strategia di ricostruzione dello stato afgano ha realmente funzionato, che garanzia vi può essere che nuovi tentativi sortiscano effetti positivi entro il 2014? Non neghiamolo, le date e i dibattiti alla Casa Bianca ci raccontano solo una parte della storia, mentre l’Afghanistan sta attraversando una serie di crisi interne fondamentali, che sanciranno se vi sarà o meno uno stato funzionante a partire dal 2014. Nel pieno di questi sempre più critici problemi politici si inserisce la complessa questione della transizione. Dopo anni di trascuratezza, gli Usa e la Nato stanno alla fine tentando di investire più su numeri, equipaggiamento, addestramento e supervisione dell’esercito afgano. Quest’anno i soli Stati Uniti spenderanno 11 miliardi di dollari per le forze di sicurezza afghane – il più ingente capitolo di spesa del bilancio statunitense per la difesa. L’esercito afghano ha raggiunto il suo primo obiettivo di 134.000 effettivi e si espanderà ulteriormente, secondo le stime di ufficiali statunitensi coinvolti nel programma. Le forze di polizia comprendono al momento 109.100 effettivi. Tuttavia queste cifre sono profondamente ingannevoli. Il tasso di perdite nell’esercito afghano si attesta ancora ad un incredibile 24% l’anno. Circa l’86% dei soldati sono analfabeti e l’abuso di sostanze stupefacenti è ancora un problema endemico. La situazione della polizia afghana è
V
addirittura peggiore. Sebbene l’80% delle unità dell’esercito operi con i propri corrispettivi Nato, nessuna singola unità afghana è in grado di assumersi specifiche responsabilità per proprio conto sul campo. Le forze afghane sono al comando solo a Kabul, ma ciò è in buona parte determinato da una considerevole presenza della Nato nella capitale. Inoltre, se la presenza amministrativa afghana nelle province è così limitata, le stesse forze afghane, anche se ben addestrate, possono fare ben poco. È stata ora istituita un’accademia per il
Obama ha offerto incentivi molto più generosi e ha criticato il Pakistan molto più duramente di quanto fece Bush servizio civile che formerà i burocrati, ma ci vorranno anni prima che possa fare la differenza. Altrettanto grave è il mancato consolidamento di un’economia afghana indigena che non sia costantemente dipendente da sussidi. Per i primi anni dopo l’11 settembre, il presi-
dente Bush si rifiutò di ricostruire le infrastrutture afghane, incluso un adeguato sistema stradale e forniture energetiche, e ciò ostacolò la crescita economica. Solo quest’anno Kabul ha ricevuto approvvigionamenti a tempo pieno di energia elettrica. Il comparto industriale non si è sviluppato per via della mancanza di infrastrutture e poiché i vicini come Cina ed Iran hanno venduto a prezzi stracciati prodotti nel mercato afghano, minandone così la produttività. Obama ha avviato un programma per sostenere lo sviluppo dell’economia civile del paese, ma serve tempo.
L’esercito statunitense non acquista ancora i prodotti locali, ma almeno l’esercito afghano viene equipaggiato con stivali ed uniformi prodotti in loco. Un altro grave problema deriva dal fatto che gli ingenti profitti del traffico di stupefacenti vengono riciclati nella speculazione immobiliare piuttosto che nella produzione economica. Pertanto, l’interrogativo fondamentale per il Generale Petraeus e il suo successore John Allen è ora non tanto quanti talebani riescano ad eliminare, quanto se i capisaldi di uno stato afghano – esercito, polizia, burocrazia –trascurati in maniera così negligente negli scorsi nove anni, possano entrare a pieno regime per il 2014. In aggiunta, possono i leader afghani, ivi compreso il Presidente, guadagnarsi la fiducia di un popolo che ha sopportato insicurezza, corruzione
endemica e malgoverno per molti anni? Se i progressi verso l’autogoverno dell’Afghanistan saranno compiuti, emergerà con forza il bisogno di un presidente afghano con le idee chiare. Tuttavia, Karzai è preda di contraddizioni ed enigmi. Durante un’animata conversazione di due ore avuta con lui nel palazzo presidenziale, egli sembrava volersi sforzare di non rompere i legami con Usa e Nato, desiderando al tempo stesso di liberarsi dal loro giogo, che lo fa apparire come una marionetta dell’Occidente. Le ripetute diatribe di Karzai con Petraeus circa la strategia del surge statunitense riguardano principalmente il suo ruolo, la sua sovranità, la sua stessa immagine in Afghanistan – sotto tutti i punti di vista egli percepisce una perdita di potere. E vuole che la guerra sparisca, in un modo o nell’altro.
Molti afghani dissentirebbero con Karzai. Gli Stati confinanti come Pakistan ed Iran hanno un lungo e sanguinoso passato di monumentali ingerenze in Afghanistan, a sostegno dei signori della guerra a loro vicini e per spartirsi interessi. L’Afghanistan non diventerà pacifico a meno che i paesi confinanti non vengano condotti in un accordo di non interferenza monitorato dalla comunità internazionale. Obama lo promise nel corso del suo insediamento, ma poco è sinora stato realizzato. Il problema maggiore è il Pakistan. Tutte e tre le principali fazioni talebane
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Oggi esce il nuovo Risk “Afghanistan, le ombre del ritiro”: un numero esaustivo su tutte le incognite che l’exit strategy Usa da Kabul impone all’Occidente
hanno base in Pakistan dove da nove anni, ricevono supporto ufficiale e non ufficiale, protezione, finanziamenti e reclute; tuttavia, tre amministrazioni statunitensi consecutive non sono state in grado di impedire all’esercito pakistano di continuare tale sostegno.
Il presidente Bush non fece molto, ma Obama ha offerto incentivi molto più generosi ed ha criticato il Pakistan molto più duramente. Petraeus è stato aggressivo, ha chiarito al capo dell’esercito pakistano, il Generale Ashfaq Kiyani, che il sostegno dell’esercito ai Talebani deve cessare. Ma gli Stati Uniti non hanno una strategia generale che conceda all’esercito pakistano un po’ di ciò che desidera o riesca a dissuaderlo dall’ipotesi di controllare l’Afghanistan. L’esercito teme una crescente influenza indiana a Kabul – una questione che nessuno ha affrontato.Vuole utilizzare i negoziati con i talebani come asso nella manica, affinché concessioni massime possano essere pretese dagli Usa, dall’India e dall’Afghanistan in cambio delle concessioni ottenute dai talebani. Anche l’Iran ha imparato ad alzare le pretese. L’Iran sciita non ama i fondamentalisti sunniti che costituiscono il nucleo dei talebani, ma Teheran ha intensificato il proprio sostegno e la protezione per i gruppi talebani che operano nell’Afghanistan occidentale. Come il Pakistan, l’Iran considera i talebani come un’utile carta per la partita finale, quando gli Stati Uniti e la Nato dovranno chiamarlo a discutere della non-ingerenza in Afghanistan. L’Iran si è unito ad India e Russia per assicurarsi che il Pakistan non giunga a dominare l’Afghanistan. Dunque la regione è già nettamente divisa. Da un lato il Pakistan, teoricamente solo con l’appoggio della Cina, ma non del mondo arabo-musulmano che era solito sostenere i talebani. Contro il Pakistan vi sono Iran, Russia, India e gli stati dell’Asia Centrale, estremamente sospettosi del Pakistan e dei talebani ma privi di
una strategia per affrontarli. Essi chiedono una più lunga presenza Usa in Afghanistan, ma si dimostrano altresì scettici nei confronti di un’indefinita permanenza delle truppe Usa.
Per rispondere a tali quesiti e non concedere troppo spazio di manovra ai talebani, Karzai, i paesi confinanti, Stati Uniti e Nato devono operare assieme sulla base di un’agenda comune che riduca le tensioni regionali e generi fiducia tra i talebani e Kabul. Ogni
È una perdita immane che Richard Holbrooke ci abbia lasciato prima che questi passi potessero essere compiuti nuovo approccio che riguardi della pace dovrà includere misure di reciproca fiducia da parte di Pakistan, Iran e India così come di talebani e Occidente. Karzai ha istituito lo High Peace Council, un organismo multietnico composto da 68 membri per negoziare con i talebani, ma egli necessita di fare molto di più per cementare un consenso in tutto il paese. Naturalmente, la questione principale verterà attorno a quando la Casa Bianca ed il Pentagono decideranno che sia giunto il momento di discutere con i talebani. La vittoria sul campo di battaglia non è possibile, ma la pace non può essere raggiunta senza la partecipazione statunitense ai negoziati. Qui di seguito propongo un approccio step-by-step, che coinvolga tutti gli attori, finalizzato a creare un clima di fiducia nella regione affinché i negoziati con i talebani possano in ul-
tima analisi prendere forma. 1. La Nato, il governo afgano ed il Pakistan liberino la maggior parte dei prigionieri talebani sotto la propria autorità e cerchino di alloggiarli in condizioni di sicurezza in Afghanistan, o consentano loro di trovare rifugio in paesi terzi. La Nato garantisca la libertà di movimento per i mediatori talebani aprendo un ufficio in un paese terzo amico. 2. L’Iran si unisca ai negoziati con le Nazioni Unite ed i paesi europei, cessi di essere un rifugio sicuro per i talebani afghani e consenta loro di ritornare in patria o riparare in paesi terzi. Nessuna di tali azioni include l’amnistia o un passaggio sicuro per al Qaeda ed i suoi affiliati. 3. I talebani rispondano con proprie misure volte a ristabilire un clima di distensione, ad esempio dissociandosi pubblicamente da al Qaeda, imponendo la fine delle uccisioni mirate di amministratori e cooperanti afghani, degli attentati suicidi, dei roghi di scuole e di edifici governativi. 4. Gli Stati Uniti, la Nato e l’Onu dichiarino la propria disponibilità a negoziare direttamente con i talebani laddove questi lo richiedano pubblicamente, pur insistendo sul fatto che il dialogo tra Kabul ed i talebani rimane la via maestra per la stipula di un accordo di pace. 5. Una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu richieda negoziati tra il governo afgano ed i talebani per condurre alla fine delle ostilità. La risoluzione Onu dia mandato al suo rappresentante speciale a Kabul di favorire tali negoziati ed iniziare un dialogo tra gli stati confinanti con l’Afghanistan al fine ridurre le ingerenze ed il loro reciproco antagonismo; la risoluzione chieda altresì che i leader talebani afghani che non hanno legami con al Qaeda siano esclusi dalla lista dei sospettati di terrorismo. 6. India e Pakistan avviino colloqui segreti tra le loro agenzie di intelligence allo scopo di rendere la loro presenza
in Afghanistan più trasparente e porre fine alle rivalità. Successivamente, i due governi definiscano accordi che permettano ad entrambi di riconoscere le rispettive ambasciate, consolati, attività di ricostruzione ed interessi commerciali in Afghanistan. Entrambi promettano di non ricercare una presenza militare in Afghanistan o di usare il suolo afghano per indebolire l’altro. 7. Centrale per ogni piano sarebbe un accordo con gli insorti separatisti della provincia pakistana del Belucistan, che fanno uso del territorio afghano per condurre i propri attacchi al Pakistan. Per affrontare il problema, il Pakistan indica un’amnistia generale per tutti i gruppi insurrezionali di separatisti e dissidenti beluci e dichiari la propria intenzione di discutere una nuova formula di pace con tutti i gruppi separatisti beluci per porre fine all’attuale insurrezione. L’esercito e l’Isi liberino tutti i prigionieri beluci trattenuti, incluse le centinaia di prigionieri “scomparsi”. 8. Il governo afghano si impegni a riportare tutti i leader separatisti beluci sul proprio suolo in seguito al raggiungimento dell’accordo su una composizione politica in Belucistan ed un passaggio sicuro per i leader beluci ai fini del ritorno in patria sia garantito dall’esercito pakistano e da un’agenzia internazionale come ad esempio il Comitato Internazionale della Croce Rossa. 9. Il Pakistan delinei una tempistica ed una scadenza tra i sei ed i dodici mesi per tutti i leader talebani afghani e le loro famiglie che vogliano fare altrettanto per lasciare il Pakistan e ritornare in Afghanistan. Il Pakistan, l’Afghanistan e l’Onu aiuterebbero congiuntamente quei talebani che non desiderino ritornare in patria e che non siano nella lista dei terroristi a cercare asilo politico in paesi terzi. Contemporaneamente, il Pakistan intraprenderebbe azioni militari nel Waziristan del Nord nel tentativo di distruggere gli ultimi resti di al Qaeda e dei talebani afghani e pakistani che possono rimanere per cercare di sabotare ogni processo di pace. Anche se tali azioni non avessero pieno successo, lo scopo sarebbe di limitare la loro capacità di fomentare l’insurrezione. 10. Il governo afghano operi per aggregare un consenso nazionale all’interno del paese tra tutti i gruppi etnici, tra la società civile e le tribù prima di intraprendere qualsiasi negoziato formale con i talebani. Consultazioni dovranno inoltre essere avviate tra Usa e talebani. Washington concordi di ridurre drasticamente le uccisioni di leader talebani attraverso droni ed altri mezzi.
Molti interrogativi aleggiano su un tale piano. È una perdita immane che Richard Holbrooke, che sarebbe stato una grande figura in grado di portare avanti tali passi, ci abbia lasciato prima che questi potessero essere compiuti. Gli ex ufficiali talebani con cui ho discusso sembravano disponibili ad un percorso di questo tipo. Che i loro corrispettivi in Pakistan possano essere persuasi a siglare una serie di compromessi e prendere le distanze da al Qaeda è tutto fuorché chiaro. Ma se dopo dieci anni la guerra deve essere conclusa ed uno “stato finale” deve essere raggiunto, una serie di azioni dovrà essere intrapresa.
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cultura Un campo petrolifero. In basso Giancarlo Elia Valori, presidente della “Centrale Finanziaria Spa”. Alla presentazione del suo nuovo libro interverranno oggi Massimo D’Alema, Lamberto Dini, Antonio Maccanico, Paolo Scaroni, Tarak Ben Ammar, Enrico Tomaso Cucchiani e Stefano Folli
Oggi alla Camera la presentazione del nuovo libro di Giancarlo Elia Valori nnanzitutto, va detto che il nuovo libro di Giancarlo Elia Valori è un bel libro. Bello perché accosta a una facilità di lettura non comune, nel campo della saggistica economica, una profondità di analisi e di previsione assolutamente necessaria in un momento di crisi internazionale come quello in corso. Il testo – “Petrolio. La nuova geopolitica del potere”, con prefazione di Antonio Maccanico (ed. excelsior1881, pp. 248), in libreria dal 27 maggio – parte da una constatazione chiara e condivisibile: il petrolio e il gas costituiscono le risorse chiave dell’assetto economico del pianeta.
I
Il libro verrà presentato oggi, alle ore 18, presso la Sala del Mappamondo di Montecitorio. Parteciperanno, oltre all’autore, Massimo D’Alema, Lamberto Dini, Antonio Maccanico, Paolo Scaroni, Tarak Ben Ammar, Enrico Tomaso Cucchiani e Stefano Folli. L’evento sarà trasmesso in diretta dalla webtv della Camera dei deputati. Le pagine che compongono questo nuovo saggio del manager, presidente della Centrale Finanziaria Generale Spa, sono un’analisi-affresco che illustra e analizza in modo accurato, ma accessibile a tutti, la rete di rapporti e strategie che legano Paesi produttori e consumatori.Valori – come spiega lo stesso Maccanico nella sua prefazione passa al setaccio quei megatrends che determinano conflitti, divisioni e alleanze spesso ignote e inaccessibili al grande pubblico. Scrive nella prefazione Antonio Maccanico: «Analizzare la geopolitica dei produttori e dei consumatori di queste risorse e la rete dei rapporti e delle strategie che in questo campo di scontrano e si compongono significa studiare
La mano sul barile governa il mondo Le rotte del petrolio sono lo strumento per capire la geopolitica contemporanea di Vincenzo Faccioli Pintozzi l’architettura, le strutture portanti, gli architravi dell’economia mondiale e delle sue prospettive di sviluppo».
Un esercizio ancora più fondamentale oggi, in una situazione geopolitica che vede grandi sommosse e rovesciamenti di assetti consolidati in alcune delle aree più ricche di petrolio al mondo. Se il Kazakhistan gioca un ruolo importante nel sistema strategico e economico tra lo Hearthland e i consumatori occidentali, l’Uzbekhistan, legato alle ricchezze e alle strategie della russa Gazprom,
spesso dimenticata. Ma Valori va oltre, e invita a riflettere anche sulla presenza di nuovi Paesi produttori di petrolio, destinati a sostituire le fonti mediorientali destinate, se non all’esaurimento, quanto meno a doversi ridisegnare dall’interno. Sempre Valori, che conosce molto bene le realtà di cui parla per un’esperienza diretta lunga di decenni, rimarca che è il petrolio la variabile strategica che orienterà le scelte di chi consuma e di chi produce. Una partita che si gioca sullo scacchiere dell’area mediterranea, anello di congiunzione tra i gasdotti
Il volume si intitola “Petrolio. La nuova geopolitica del potere” ed è una cartina energetica fondamentale per cercare di seguire (e comprendere) gli sviluppi socio politici in atto gioca tutte le sue carte per l’export con la Federazione Russa. Ed ecco che al lettore si aprono scenari che la grande stampa – soprattutto e colpevolmente quella italiana – tende ad ignorare: le grandi pianure dell’Asia centrale, oggi più che mai satrapie più o meno difese dagli imperi ancora in vita, riemergono con la loro importanza geostrategica troppo
russi e gli oleodotti di un’Africa “già saldamente cinese”.
Come sottolinea ancora Maccanico, «la tendenza dei Paesi consumatori a risolvere i propri problemi da soli, senza una strategia comune, completa il quadro esposto che questo studio espone con estrema chiarezza. Laddove, invece, uno sforzo di collaborazione multilaterale, di go-
vernance globale è ineludibile». Riserve reali o presunte, politiche finanziarie, manipolazioni valutarie, rotte dei rifornimenti, pipelines, ruolo di Israele, dell’Iran, dei Paesi emergenti e del terrorismo islamico. Obiettivi e aspettative di Russia e Cina. Un’ulteriore fortuna per il lettore viene da grafici e tabelle che arricchiscono il testo e eliminano la polverosità che invece attanaglia tanti altri testi economici. Analizzare la geopolitica del petrolio e del gas naturale significa comprendere l’architettura e le strutture portanti dell’economia mondiale, con le sue prospettive di sviluppo. Soprattutto oggi, alla luce di avvenimenti epocali, quali le rivoluzioni che hanno investito i Paesi arabi come Tunisia, Egitto, Libia, Siria e Bahrein.
Ovviamente non può mancare, quanto meno nella prefazione, un richiamo importante alla cronaca energetica che ha colpito tutto il mondo nello stesso periodo: la crisi del nucleare, nata nel mondo dal disastro di Fukushima e consolidata (in casa nostra) dal referendum che ha stoppato il nucleare. Scrive Maccanico: «È facile prevedere che le prospettive di rilancio dell’energia atomica come alternativa ai combustibili fossili subisce ora una battuta d’arresto. Secondo la World Nuclear Association vi sono nel mondo 441 reattori, che si dovrebbero raddoppiare entro 15 anni. È chiaro che ciò non avverrà, dopo la drammatica esperienza giapponese. Che significa tutto ciò? Che le tendenze prevalenti così attentamente e minuziosamente analizzate in questo studio non subiscono variazioni di rilievo». A dimostrazione che il petrolio, oggi più che mai, va seguito e analizzato, per capire il mondo.
ULTIMAPAGINA La prima di «Brilliant Corner» ha chiuso l’ottava edizione della Biennale Danza
Emanuel Gat, ovvero l’arte di recitare in punta di Diana Del Monte rfana del suo abituale titolo evocativo, strumento di navigazione degli ultimi ultimi sette anni, l’ottava edizione della Biennale Danza si è chiusa sabato con la prima assoluta di Brilliant Corner, l’ultima fatica del coreografo e danzatore israeliano Emanuel Gat. Particolarmente atteso, il lavoro di uno degli artisti attualmente più corteggiati dalla scena internazionale contemporanea, è arrivato sulle scene veneziane dopo una lunga pausa, inserito nel quadro di una programmazione per lo più focalizzata sulla formazione.
O
L’accento posto sugli esiti dei progetti formativi - Arsenale della Danza, Milano Teatro Scuola Paolo Grassi, Performing Arts Research and Training Studios -trova le sue radici storiche nelle dichiarazioni d’intenti tanto del direttore artistico Ismael Ivo, che tre anni fa avviava il progetto Arsenale della Danza e che con Brilliant Corner chiude con onore il secondo triennio della sua direzione (2005/2007, 2008, 2009/2011), quanto del presidente della Biennale Paolo Baratta, che recentemente ha ricordato: «Ci siamo incamminati lungo un percorso di maggior articolazione dei Festival perché convinti che Venezia e la Biennale debbano essere un palcoscenico del presente e contemporaneo, ma debbano porsi anche con responsabilità il problema del domani». Nonostante ciò, la nostalgia del Festival Internazionale di Danza Contemporanea - di un Capturing Emotions, di un Eros & Body o di un UnderSkin - è forte e il “viziato” pubblico della Biennale Danza lo ha dichiarato apertamente con il rapido sold out delle due repliche del 24 e del 25. Accolto con meritato calore, il lavoro di Gat è ispirato all’omonimo album che Thelonious Monk pubblicò nel 1957 e che divenne una delle pietre miliari della storia del jazz. Tuttavia, i sessanta minuti della performance non prevedono né una nota di Ba-lue Bolivar Ba-lues-are o Pannonica né un cenno sonoro del piano di Monk o del sassofono di Ernie Henry. La
musica, infatti, così come le luci, è curata dallo stesso coreografo e l’associazione tra l’arte del pianista americano e la coreografia è puramente concettuale. «Mi piace quel processo attraverso il quale il solo citare la pièce può essere l’origine di un flusso di pensiero. In questo senso, ritengo che questo titolo sia un bellissimo esempio di un utilizzo materico delle parole. (Il titolo ndr)
Non può essere compreso verbalmente o intellettualmente, eppure genera un chiaro senso del suo significato». Durante la costruzione dello spettacolo, Gat ha scritto Throughts on making of “Brilliant Corner”, una raccolta di riflessioni sulla coreografia in divenire e sulle sue convinzioni in ambito artistico più in generale. Interamente pubblicato sul suo sito, e dunque frutto anche di un meccanismo di diffusione promosso dallo stesso Gat, il testo è una curiosa finestra sul suo modo di intendere l’arte coreografica ed il lavoro presentato alla Biennale. Così, intorno ad uno dei temi più dibattuti dalla filosofia, la bellezza, Gat scrive: «Nonostante una lunga messa in ridicolo da parte sia degli artisti sia degli intellettuali, la bellezza (per quanto ampia e relativa possa es-
Alcune immagini dello spettacolo del coreografo e danzatore israeliano Emanuel Gat “Brilliant corner”, che ha chiuso la Biennale Danza coli frammenti, si ricompone, richiamata da una forma di magnetismo interna, oppure si fissa in tableaux vivants. Dal punto di vista compositivo, con Brilliant Corner ci troviamo in presenza di una struttura prederminata in cui si aprono brevi finestre dedicate all’improvvisazione. Il richiamo tecnico alla struttura del jazz post-bellico abbinato al piacere dell’esplorazione fanno del lavoro di Gat un “gioco”dedicato alla danza pura e, sebbene il tutto sia già stato felicemente battezzato dalla dan-
DI PIEDI
za novecentesca e più volte variamente utilizzato dagli esponenti della coreografia contemporanea, il lavoro di Gat e dei suoi danzatori c’è, si vede e si apprezza. Dal backround molto vario, i membri della compagnia sono, infatti, tecnicamente bravissimi e, in particolare, Rindra Rasoaveloson si distingue, in totale discrezione, pulizia e chiarezza, per una presenza scenica di squisita sensualità. Dal Teatro Piccolo Arsenale si esce, dunque, con la bella senssazione di aver assistito ad un spettacolo davvero di ottimo livello.Tuttavia, il senso del carattere ludico dell’esplorazione, dichiarato dallo stesso Gat nonché cifra distintiva dell’ispiratore della piéce, si perde in un’intimismo un po’ autocompiacente.
L’ultima fatica del coreografo e danzatore israeliano, uno degli artisti più corteggiati dalla scena internazionale contemporanea, è giunta sulle scene veneziane dopo una lunga pausa sere questa definizione) è ancora il modo più semplice ed efficace per identificare la presenza di una significativa essenza artistica. Da un punto di vista quasi scientifico, vorrei sostenere che la bellezza è una delle vie attraverso cui la “verità” si rivela: questo la rende un inestimabile strumento per ogni genere di investigazione». Lo spettacolo si apre con un’onda umana di dieci danzatori che rifluisce su un palcoscenico illuminato da una luce perfettamente bianca. Privo di quinte ed elementi scenografici, lo spazio scenico è regolato dall’il-
luminazione che delimita in terra un’area quadrata netta e che, a tratti, si diverte a giocare sulle possibili variabili - dal chiaroscuro più o meno drammatico al bianco immobile - a tratti si presta invece ai giochi degli interpreti. Il gruppo, coeso e vario al contempo, scorre come una goccia di mercurio che scivola, a volte fluida a volte impazzita, si frantuma, a metà o in mille pic-
Come Tristi Tropici di Virgilio Sieni, CutOuts & Trees di Cristina Caprioli e molti altri prima di lui, Brilliant Corner è stato realizzato nel quadro del progetto quinquennale europeo Enparts-European Network of Performing Arts, la rete dedicata allo spettacolo dal vivo avviata dalla stessa Biennale di Venezia nel 2008. Dopo le date veneziane, Brilliant Corner, realizzato in coproduzione con il Festival Montpellier Danse 2011, il Sadler’s Wells Theatre di Londra e il deSingel di Anversa, sarà in tournée fino a febbraio 2012; oltre ai patnet istituzionali, in calendario c’è la Germania, al Tanz im August di Berlino e al Pact di Essen, la Svezia, al Dansens Hus di Stoccolma, e gli Stati Uniti, all’American Dance Festival di Durham.