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Non si è mai abbastanza attenti nella scelta dei propri nemici Oscar Wilde
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • MERCOLEDÌ 29 GIUGNO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Il governo non sa che pesci pigliare e rimanda tutto al Consiglio dei ministri convocato per giovedì
Tremonti resiste all’assalto Allarme della Corte dei Conti sul fisco. Bossi: il governo rischia I nemici di Giulio non hanno idee alternative e al vertice di maggioranza siglano una finta tregua Ma la Cdc avvisa: troppe tasse, l’Italia non ce la fa. E il federalismo potrebbe anche aumentarle IL FALLIMENTO
LA VIA D’USCITA
Sblocchiamo una nazione a crescita zero
La manovra deve essere europea
di Errico Novi
ROMA. Sorridenti, paciosi, per-
di Savino Pezzotta
di Francesco D’Onofrio
n questi giorni ci si interessa dei rapporti tra Maroni e Bossi, ci si interroga sulla conversione al moderatismo di Di Pietro, si seguono le vicende che vedono protagonista Bisignani e uno stuolo infinito di cortigiani, del matrimonio di un ministro, dell’allenatore dell’Inter e via elencando. Cose interessanti, ma sarebbe bene puntare l’attenzione sul problema di fondo: il debito pubblico da ripianare e la lentezza della crescita che si intrecciano e rendono la situazione economica del nostro Paese molto problematica. Non possiamo dimenticarci che il debito pubblico è stato lo strumento che dalla fine degli anni ‘70 ha consentito alle economie capitalistiche e industriali dell’Occidente di continuare a crescere e di rimandare il problema di fondo del loro modello di sviluppo. a pagina 4
a vicenda della cosiddetta manovra economica di almeno 45 miliardi di euro, da distribuire nei quattro anni che vanno dal 2011 al 2014, è certamente destinata ad impegnare il parlamento per alcune settimane. Si tratta infatti di un insieme di interventi economici di entrata e di uscita concernenti sia gli enti locali; sia tutte le regioni, a statuto ordinario o speciale che siano; sia le diverse categorie economiche a vario titolo considerate produttive di reddito; sia soprattutto un nuovo contratto sociale tra generazioni, come risulta di tutta evidenza allorchè si considerino da un lato le straordinarie difficoltà dei giovani e dall’altro i trattamenti pensionistici, anche se molto differenziati a seconda del tipo di lavoro svolto e dello specifico incarico ricoperto. a pagina 5
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sino in vena di battute: eccoli i ministri che dovevano sbranare il collegha Tremonti. Frattini, La Russa, Romano: escono alla spicciolata da Palazzo Grazioli, dopo il primo round collettivo sulla manovra, e attestano il clima «moltro buono e disteso» che si respira nella maggioranza. Solo Bossi e i suoi appaiono un pochino nervosi. Ma alla fine del vertice sul piano messo a punto dal titolare dell’Economia, c’è un solo vincitore. Lui. a pagina 2
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La norma della comunitaria in discussione alla Camera
Il Csm: «Attaccano la nostra indipendenza» Vietti: «Se non ora, quando dovremmo commentare le modifiche introdotte dal Guardasigilli? È anche un modo per segnalare prima eventuali problemi»
Napolitano incontra Elisabetta II
Il re Giorgio ritorna alla corte d’Inghilterra di Maurizio Stefanini lisabetta II è una regina: una decana non solo dei monarchi, ma dei capi di Stato d’Europa e del mondo in genere. Quando nel 1952 salì sul trono, l’Impero Britannico si estendeva ancora su gran parte del mondo, anche se aveva appena perso il suo grande cuore indiano. E in Italia era presidente del Consiglio Alcide de Gasperi e presidente della Repubblica Luigi Einaudi: quell’Einaudi su cui una famosa vignetta di Giovanni Mosca ricordava che “monarchico, governò da re; e fu il migliore dei presidenti italiani”. Giorgio Napolitano all’epoca era segretario del Pci di Napoli e Caserta.
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Francesco Lo Dico • pagina 6
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Il cardinale Scola nominato arcivescovo di Milano
La ricetta dell’ex ambasciatore Usa all’Onu
L’Angelo che scalò la Madunina
Siria e Iran, ecco cosa dobbiamo fare
di Luigi Accattoli
di John R. Bolton
l cardinale Angelo Scola, personalità forte, audace, di grande cultura, è il nuovo arcivescovo di Milano. Un’ottima scelta che fornisce al più sveglio tra i vescovi italiani quella postazione unica che è la “sede” ambrosiana, dalla quale hanno svolto grandi ruoli, lungo l’ultimo secolo, i cardinali Ferrari e Ratti (poi Pio XI), Schuster e Montini (poi Paolo VI), Colombo, Martini e Tettamanzi. Le dimissioni di Tettamanzi – accettate ieri – erano state date due anni addietro, al compimento dei 75 anni, ma Papa Benedetto gli aveva chiesto di restare ancora per due anni a capo dell’arcidiocesi ambrosiana.
l programma nucleare iraniano, e i suoi potenziali collegamenti con la Siria, rimangono una delle sfide più critiche alla sicurezza nazionale americana, forse anche la minaccia più seria nel breve periodo. Dopo quasi vent’anni di inutili sforzi statunitensi e occidentali tesi ad evitare che l’Iran portasse a termine i suoi obiettivi di produzione di armamenti nucleari, adesso ci troviamo ad un punto critico. L’Iran è prossimo a raggiungere il suo scopo, grazie al suo impegno, alla collaborazione con la Corea del Nord e di altri Stati canaglia, che gli permettono di sfuggire alla pressione internazionale.
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I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
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WWW.LIBERAL.IT
• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il commento
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pagina 2 • 29 giugno 2011
Il titolare dell’Economia tiene in scacco Berlusconi
Un’altra vittoria del vero premier: Giulio Tremonti di Giancristiano Desiderio remonti, per dirla con il sottosegretario Crosetto,“non è un Dio”. Certo, è solo il vero presidente del Consiglio. È lui l’uomo che tiene in piedi tutta la baracca. È lui che, piaccia o no, ha in mano le redini del governo. Il vertice di ieri, anzi, i vertici di ieri a Palazzo Grazioli lo hanno confermato ancora una volta: il superministro dell’Economia ha vinto su tutta la linea e si è anche concesso qualche tattico compromesso. La vittoria di Tremonti significa che la manovra va avanti secondo il suo lavoro e che il taglio delle tasse non ci sarà: ci sarà, invece, una non meglio definita “rimodulazione” fiscale che è altra cosa. Tuttavia, c’è un paradosso da registrare e sottolineare: è proprio la forza di Giulio Tremonti a garantire la tenuta del governo Berlusconi. Oltre Tremonti - sia con le sue dimissioni, sia con il ministro sotto tutela - ci sarebbe solo o il dissolvimento o il declino. E’ con Tremonti, invece, che il governo, sia pure in modo forzoso, sta ancora in piedi. Sotto tutela, in altre parole, è Berlusconi.
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Prima l’uscita del ministro Frattini e poi quella di Bossi hanno dato ieri il senso di quanto accadeva nelle segrete stanze di Palazzo Grazioli. Il ministro degli Esteri, fedele all’arte diplomatica, cercava di diffondere l’idea di un vertice “sereno”. Il capo della Lega, che pur aveva presagito un governo in difficoltà, ha cercato di mostrarsi soddisfatto per aver “strappato” a Tremonti la revisione del patto interno di stabilità e dunque la possibilità per i comuni di spendere e far respirare i creditori. Ma il risultato politico ed economico della giornata è tutt’altro: Tremonti decide ciò che si fa e ciò che non si fa,Tremonti decide che cosa si può fare e che cosa non si può fare. In fondo, l’immagine stessa dei ministri che si recano a colloquio con Tremonti è fin troppo plastica: ci dà esattamente il senso di come stanno le cose nel governo e nella maggioranza. Non sappiamo se il nuovo “divo Giulio” riuscirà nel suo sogno - il pareggio di bilancio - ma ciò che possiamo dire fin da ora è che Tremonti non è un ministro sostituibile e, soprattutto, questa maggioranza non è in grado di sostituirlo né nella persona né nella visione di bilancio dello Stato (ma è chiaro che le due cose si tengono). Questo è l’aspetto più importante di tutta la vicenda che tra polemiche di piccolo cabotaggio e tra scontri politici sostanziali va avanti da quando è nato il governo. Nel suo discorso alle Camere, il presidente Berlusconi parlò - lo si ricorderà - di una riforma fiscale fatta senza basarsi sul deficit. Era un modo per mettere insieme le richieste della Lega (e dello stesso Berlusconi) e il rigore di Tremonti. Oggi sappiamo che la manovra non sarà fatta in deficit ma anche che il nutrito taglio fiscale non ci sarà. In altre parole, non solo Tremonti ha respinto l’assalto maldestro del suo stesso governo, ma ha svelato con la sua stessa opera economica e finanziaria che la maggioranza politica che fa capo al capo del governo non è in grado di esprimere altra linea politico-economica. Chi governa è, piaccia o no, Tremonti. Gli altri devono stare alle sue decisioni. Eppure, le tasse sono alte. Altissime. In questi giorni in cui gli italiani entrano ed escono dagli uffici dei commercialisti, la Corte dei conti ha ancora una volta ribadito che il peso fiscale grava sulla schiena dell’Italia in modo ormai insopportabile. E’ un fatto che la promessa più nota di Silvio Berlusconi - giù le tasse - non sia stata rispettata. Da diciassette anni.
il fatto Bossi manda messaggi chiari: «Andando avanti così, questo esecutivo rischia molto»
Non sanno più cosa fare
Il summit che doveva segnare il redde rationem nella maggioranza si è concluso con una finta tregua. La Lega rimanda tutto a giovedì e il Pdl brancola nel buio di Errico Novi
ROMA. Sorridenti, paciosi, persino in vena di battute: eccoli i ministri che dovevano sbranare il collega Tremonti. Frattini, La Russa, Romano: escono alla spicciolata da Palazzo Grazioli, dopo il primo round collettivo sulla manovra, e attestano il clima «molto buono e disteso» che si respira nella maggioranza. Bossi e i suoi appaiono invece nervosi. Ma alla fine del vertice ”a tappe”sul piano messo a punto dal responsabile dell’Economia, c’è un solo vincitore: ed è appunto Tremonti. Gli altri si adeguano. Al limite apprezzano quel poco che il programma di restrizioni consente: il ministro della Difesa per esempio potrà contare su 700 milioni in più per le missioni all’estero. Maroni si consola con il fatto che si prevede sì il blocco degli stipendi e delle assunzioni nella pubblica amministrazione fino al 2014, ma con un’eccezione per le forze dell’ordine. Digrigna un po’ i denti Bossi: interpellato dai cronisti prima che inizi il vertice sul rischio di una crisi, risponde che «sì», il governo sulla manovra è in pericolo. Dopo il primo round a Palazzo Grazioli fa cenno con la mano che è andata così così. Poi però si compiace vistosamente per la disponibilità mostrata da Giulio sulla revisione del patto di stabilità. I comuni virtuosi dunque potranno spendere. Lo stesso Bossi deve riconoscere con la stessa schiettezza che «non ci sono tagli alle tasse in questa manovra». Era una delle condizioni studiate dal gran consiglio padano nella segreteria di lunedì. Niente da fare. C’è un giallo su un’altra richiesta del Carroccio, cioè sul veto lumbàrd a interventi sulle pensioni. Nella bozza compare un passaggio sul graduale innalzamento dell’età per le
donne. «Per le lavoratrici il requisito dei 60 anni» è incrementato «di un anno» dal 2012. La stessa cosa avverrà in tutti i bienni successivi fino al raggiungimento della soglia dei 65 anni». Sacconi smentisce vigorosamente l’esistenza di questa previsione. Ma bisognerà aspettare domani, giorno del Consiglio dei ministri che varerà ufficialmente la manovra, per capire se cambieranno o no i requisiti delle pensioni per le donne.
Segno che la tregua potrebbe anche saltare. Comunque nessuno si ribella. Non si vedono intemperanze. C’è tensione, ma soprattutto prima della riunione. E Berlusconi? I presenti lo descrivono soddisfatto. «Sono contento del clima che si è respirato oggi, ora dobbiamo trasmettere questo spirito di unità anche all’esterno, per dimostrare che questo governo è davvero forte», sarebbe il ragionamento svolto dal premier al termine dell’incontro. Un Cavaliere pacificatore, dunque, assai lontano dalle rappresentazioni circolate fino a poche opre prima. A un certo punto sembrava assai probabile una rottura. Invece la capacità dialettica della maggioranza (Pdl, Lega e gli stessi responsabili, presenti al summit con Sardelli e Moffa) ne esce addirittura ridicolizzata. Non tanto per la debolezza delle contestazioni alla bozza diTremonti, ma per tutto quello che si era visto prima: per tutte quelle espressioni di insofferenza, culminate con la frase di Crosetto sul taglio «psichiatrico» della manovra e svanite al cospetto del superministro. Cicchitto si era lasciato andare a un interrogativo rivelatore: «C’è per caso un cambiamento di procedure per quanto riguarda i ruoli della presidenza del Consiglio e quello del ministero dell’Econo-
l’allarme
La Corte dei conti bacchetta il governo Giù le tasse e attenzione ai costi del federalismo fiscale. Stop alle «vessazioni» per i contribuenti di Pierre Chiartano
ROMA. La Corte dei conti bacchetta il governo sulla gestione finanziaria. È «improrogabile la necessità di un intervento in materia fiscale» in grado di ridurre in «misura significativa» le aliquote sui redditi di lavoratori dipendenti e pensionati. E anche il federalismo rischia di aumentare la tassazione. La Corte si è voluta soffermare sul «cosiddetto federalismo fiscale», precisando che «presupposto affermato è che l’attuazione del nuovo sistema inpositivo avvenga a pressione fiscale complessiva invariata». È quanto si legge nell’intervento del procuratore generale presso la Corte dei Conti, Maria Teresa Arganelli, nel giudizio sul rendiconto generale dello Stato sull’esercizio 2010. Con le fibrillazioni nella maggioranza sulla manovra finanziaria del ministro Giulio Tremonti, l’Italia torna al centro della scena economica europea. Dopo il vertice del Consiglio d’Europa della scorsa settimana sui debiti sovrani, quello italiano restava sotto osservazione. La Grecia è sullo sfondo, ma rimane il grilletto di un possibile double dip, l’innesco per una seconda grande crisi finanziaria mondiale, vista l’intossicazione del sistema bancario tedesco e americano con i titoli assicurativi sul debito greco, i famosi o famigerati Cds (Credit default swap). Ora gli occhi sono puntati su Roma, data sempre come fuori dal gruppo dei malati gravi come Grecia, Spagna e Portogallo. Dopo l’asta di lunedì sui buoni del Tesoro a breve termine c’era attesa per Bot e Ctz a lunga scadenza, il vero termometro per ciò che pensano gli investitori sull’Italia del futuro. E l’esito dell’asta ha confermato di fatto i timori sui conti pubblici italiani, con lo spread Italia/Germania che dopo l’asta
è salito attorno ai 212 punti base. Collocato un ammontare complessivo di 7,90 miliardi di euro, rispetto agli 8 miliardi preventivati dal Tesoro. I titoli emessi sono stati Btp con scadenza ad aprile 2014 per un valore di 2,644 miliardi di euro e a un rendimento del 3,68%, in rialzo rispetto al 3,43% della precedente asta. Emessi anche Btp con scadenza decennale, per 3 mld e con rendimenti al 4,94%, contro il 4,73% precedente. Una nota dolente sottolineata anche dall’agenzia Bloomberg. Il rigorismo finanziario ora sembra finito nel tritacarne dei sempre più fragili equilibri di governo. Un primo segnale preoccu-
no carta solo di qualità assoluta, come appunto il debito pubblico della Germania, spiegano gli esperti del mercato obbligazionario. Un mercato che aspetta ora i contenuti della manovra 2011-2014 che dovrà riportare i conti in pareggio. E gli operatori vogliono numeri credibili. Dopo le prime indiscrezioni, il ministro Giulio Tremonti è stato sommerso di critiche, non solo quelle canoniche dell’opposizione, ma anche dai colleghi della maggioranza. E anche la Corte dei conti non è stata tenera nel giudicare la gestione econo-
L’asta sui titoli di Stato a lungo termine di ieri ha confermato i timori sui conti pubblici italiani. Btp sempre più cari pante dai mercati era arrivato sempre lunedì, quando i tassi sul debito pubblico italiano a dieci anni avevano superato il 5 per cento. Soprattutto era aumentato il differenziale (spread) di rendimento tra i titoli di Stato decennali (Bund) della Germania e i Btp.
Nei fatti il differenziale tra Germania e Italia è salito al 2,22%, pari a 222 punti, il massimo storico dall’introduzione dell’euro. Niente per cui stare allegri. Si compra Germania e si vendono Italia e Spagna, un tipico copione delle fasi di elevata avversione al rischio, in cui gli investitori adottano strategie di fly to quality, cioé compra-
mia?». Il clima di rottura evapora al sole di mezzogiorno. Poco dopo quell’ora infatti è proprio Tremonti ad arrivare a Palazzo Grazioli sostenuto da loquacità superiore al solito: ha le dimissioni in tasca?, gli chiedono i cronisti. «No, in tasca ho solo una manovra molto seria e responsabile che sarà oggetto di un dibattito molto serio e responsabile. E sarà una manovra nell’interesse dell’Italia e degli italiani». È però all’interno del conclave che il professore di Sondrio pronuncia la battuta più tagliente. Compiaciutosi per l’«accoglienza» dei colleghi, dice che «se il clima del dibattito sui giornali fosse quello che ho trovato qui, sarebbe un’altra cosa». Visto che a Tremonti non sfugge come siano i suoi stessi interlocutori ad ispirare i titoloni, la frase pare più una chiosa impietosa sulla debolezza altrui, tale almeno se paragonata dalla sbruffoneria esibita prima dei summit.
Nel pomeriggio il confronto riprende e si sposta sui dettagli. Tremonti ne discute più approfonditamente con i singoli ministri, con i quali fatalmente qualche malcontento viene fuori. Ma non c’è nulla che faccia pensare al naufragio della manovra. Nel Pdl non c’è una linea uniforme. Ed è lo stesso Berlusconi a stoppare l’ipotesi di un rinvio per il Consiglio dei ministri. La riunione resta fissata per domani. Fino al fischio d’inizio ci sarà eventualmente spazio per «limature», secondo il termine concesso da Tremonti. Spiragli che Bossi proverà ad interpretare come autostrade: con l’obiettivo di strappare almeno una promessa sulla riduzione delle aliquote nella legge delega. Non se ne intravedono ancora i presupposti, per la verità. Uno dei ministri di prima linea, Frattini, lascia la
mica del governo. «Bisogna contenere la spesa» è questo l’appello contenuto nella requisitoria sul Rendiconto dello Stato. «Va superata la politica dei tagli scellerati – ha affermato la Arganelli – e procedere a tagli selettivi su spese meno utili». Il presidente Mazzillo ha invece aggiunto: «la tempestività con cui il governo sta agendo sui conti pubblici è sintomo di consapevolezza della gravità del problema». La spesa, ha continuato la Arganelli, deve essere limitata «sul medio periodo sia ai fini
prima parte del vertice a Palazzo Grazioli spiegando che ci sarà in effetti una delega sul fisco, ma che essa conterrà «rimodulazioni e non riduzioni».
È proprio il responsabile della Farnesina a confermare peraltro la cifra totale dell’aggiustamento (compresa la parte spalmata al 2014): 43 miliardi. Il grosso in realtà arriverà a fine legislatura, nel biennio 2013-2014. Nel restante semestre del 2011 l’intervento sarà di 1,8 miliardi, mentre un risparmio di 5,5 miliardi arriverà l’anno prossimo. Come? Intanto la relativa distensione del clima si
Spiraglio sulla revisione del patto di stabilità. Stipendi bloccati nella pubblica amministrazione fino al 2014. Giallo sullo stop alla doppia indennità per i ministri spiega anche con la disponibilità del responsabile dell’Economia a lasciare ai singoli colleghi la scelta sulla «qualità dei tagli». Si riferisce a questo, Frattini, quando spiega che Tremonti ha accettato il principio della collegialità. Così per esempio Galan esulta per il fatto stesso che non ci saranno tagli lineari alla Cultura. E l’Istruzione, investita come gli altri settori da blocco degli organici e – almeno per il prossimo anno scolastico – del turn over, si compiace di poter accusare tagli sulle sole strutture di viale Trastevere per appena 23 milioni. Si potrebbe dire che, seppur con discrezione, la previdenza è la vera protagonista della manovra: oltre all’innalzamento per le donne
della sostenibilità dei mercati del debito sovrano sia ai fini del rispetto dei vincoli europei». Ma si pone anche l’obiettivo di ridurre il peso del fisco sui salari. «Improrogabile è la necessità di un intervento in materia fiscale che riduca in misura significativa le aliquote sui redditi dei lavoratori dipendenti e dei pensionati», ha sottolineato ancora il procuratore. E chi non potrebbe non essere d’accordo con la magistratura amministrativa, che ha anche ricordato che per lavoratori e pensionati «la ritenuta fiscale e contributiva è operata alla fonte» e mettendo in evidenza che «l’incremento del tasso di inflazione da prevedersi nei prossimi anni potrebbe comportare ulteriori erosioni del potere d’acquisto con conseguente diminuzione del reddito reale delle famiglie e ulteriore contrazione del mercato interno».
Dalla Corte arriva anche un appello a evitare inutili «vessazioni» nelle attività di accertamento e riscossione fiscale, che possono essere controproducenti. Insomma, mette un freno all’attività dei moderni gabellieri che avevano portato ad eccessi assoluti, come vedersi ipotecata la casa per una multa da poche centinaia di euro. E per chi accusava l’ex ministro delle Finanze di Prodi,Vincenzo Visco, di essere una specie di Dracula che succhiava il sangue dei contribuenti, le rilevazioni della Corte dovrebbero “bruciare” non poco.
(che nelle prossime ore rischia di diventare uno dei punti di maggiore tensione) c’è intanto una “norma anti-badanti”che limita e riduce la reversibilità. C’è un colpo alla rivalutazione degli assegni più alti. E soprattutto c’è la messa in calendario del vero intervento, quello che arriverà quando la consistenza del riassetto contabile toccherà il punto massimo: già nel 2014 infatti (quindi con un anno di anticipo) gli aspetti retributivi e anagrafici saranno commisurati all’aspettativa di vita.
C’è una novità sui ticket sanitari, reintrodotti dal 2012: 10 euro per l’assistenza specialistica, 25 per i codici bianchi al pronto soccorso, come nel 2007. Seppure con eccezioni per notai, architetti, avvocati e farmacisti, arriva una liberalizzazione per l’esercizio delle professioni, non più vincolate alla domanda territoriale. Resta tra le nebbie, e comunque fuori dal testo della manovra che uscirà giovedì da Palazzo Chigi, il blocco dello stipendio per i ministri che già prendono l’indennità parlamentare. Stessa incertezza su un aggravio fiscale per le banche. Dall’opposizione ci sono reazioni assai diverse. Il Terzo polo dichiara la propria disponibilità a votare le manovra se essa mostrerà di assicurare un efficace riduzione del deficit, soprattutto se nella maggioranza «perdureranno gli scontri irresponsabili che gettano nel discredito dell’inaffidabilità internazionale le finanze del Paese». Bersani invece annuncia il suo no incondizionato per quella che è a suo giudizio «una farsa drammatica». Scavalcando a sinistra Di Pietro che invece vuole «vedere» prima di pronunciarsi.
pagina 4 • 29 giugno 2011
l’approfondimento
Bisogna puntare l’attenzione sui veri problemi del Paese: il debito pubblico da ripianare e la lentezza del nostro sviluppo
Riformatorio Italia
Lavoro, giustizia, fiscalità dell’impresa, famiglia, ricerca, infrastrutture, burocrazia, innovazione. In Italia tutti parlano di riforme, ma nessuno le fa mai. Invece l’imperativo dovrebbe essere uno solo: accelerare la crescita entro il 2011 di Savino Pezzotta n questi giorni si fanno molti discorsi, ci si interessa dei rapporti tra Roberto Maroni e Umberto Bossi, ci si interroga sulla conversione al moderatismo di Antonio Di Pietro, si seguono le vicende che vedono protagonista Luigi Bisignani e uno stuolo infinito di cortigiani, del matrimonio di un ministro, dell’allenatore dell’Inter e via elencando. Sono tutte cose interessanti, ma credo sarebbe bene si puntasse l’attenzione sul problema di fondo italiano: l’entità del debito pubblico da ripianare e la lentezza della nostra crescita che si intrecciano e rendono la situazione economica del nostro Paese molto problematica.
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Non possiamo dimenticarci che il debito pubblico è stato lo strumento che dalla fine
degli anni Settanta ha consentito alle economie capitalistiche ed industriali dell’Occidente di continuare a crescere e di rimandare il problema di fondo del loro modello di sviluppo. Adesso, dopo la crisi finanziaria del 2007-2008 e la conseguente “grande recessione”, la situazione è arrivata al punto nodale e diventa necessario ridurre l’indebitamento. I Paesi dell’area-euro del sud Europa - tra cui l’Italia e in compagnia di Belgio e Islanda - sono sicuramente quelli più in difficoltà e rischiano molto se non decidono di intervenire con una certa urgenza.
L a s e c o n d a questione riguarda la lentezza della nostra crescita. Il Centro Studi di Confindustria, in uno studio presentato la settimana scorsa, ha rivisto al ribasso
per il 2011 la stima di crescita dall’1,2 per cento allo 0,9 per cento e ha segnalato che, senza un piano strutturale di riforme nel 2012, il Prodotto interno lordo potrebbe portarsi sullo 0,6 per cento. A quel punto servirebbe un’ulteriore manovra dell’1 per cento: 18 miliardi di euro. L’opinione pubblica italiana
Il malessere si concentra su singoli problemi senza una vera visione d’insieme
non mi sembra granché avvertita della gravità della situazione. Certamente il malessere sociale è cresciuto ma sembra concentrarsi su singoli gravi e pesanti problemi senza una visione d’insieme.
La diffusione di una sorta di ottimismo negazionista esercitato per troppo tempo dal
presidente del Consiglio, non ha fatto altro che generare difficoltà e una fuga dalla realtà. Non credo che ci siano vie di fuga e per mantenere l’obiettivo minimale di una crescita dell’1 per cento e il rispetto degli impegni assunti in sede Ue sui conti pubblici, occorre veramente agire in fretta e con determinazione.
Ci sono molte cose da fare su: mercato del lavoro, regolamentazione del rapporto lavorativo, fiscalità dell’impresa, famiglia, costo del lavoro, infrastrutture, burocrazia, ricerca e innovazione, procedure giudiziarie più snelle e via dicendo. Questo elenco è la dimostrazione più evidente dei ritardi che il nostro Paese ha accumulato e delle responsabilità di chi ha governato più a lungo di altri. Tutte cose importanti ma oggi
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Il rapporto tra il governo nazionale e i mercati finanziari esteri
Ma la nostra manovra guardi anche all’Europa Il nuovissimo contesto globale espone il sistema economico del Paese alle tentazioni degli investitori internazionali di Francesco D’Onofrio a vicenda della cosiddetta manovra economica di almeno 45 miliardi di euro, da distribuire nei quattro anni che vanno dal 2011 al 2014, è destinata a impegnare il parlamento per alcune settimane. Si tratta infatti di un insieme di interventi economici di entrata e uscita concernenti sia gli enti locali; sia tutte le regioni, a statuto ordinario o speciale che siano; sia le diverse categorie economiche a vario titolo considerate produttive di reddito; sia soprattutto un nuovo contratto sociale tra generazioni, come risulta di tutta evidenza allorchè si considerino da un lato le straordinarie difficoltà dei giovani e dall’altro i trattamenti pensionistici, anche se molto differenziati a seconda del tipo di lavoro svolto e dello specifico incarico ricoperto. Ma al di sopra di tutte queste questioni complicate, sappiamo che vi è un contesto internazionale, sia europeo sia più in generale globale. La manovra economica ha rappresentato per molti anni un punto decisivo della stessa linea politica complessiva della maggioranza di governo: rapporto tra Stato e mercato da un lato; rapporti tra ceti alti, medi, e bassi dall’altro; rapporti tra le diverse parti del territorio nazionale in fine. Per molti secoli, infatti, la dimensione strettamente nazionale dello Stato ha costituito a un tempo la base sociale, economica e territoriale della stessa linea politica generale che ha caratterizzato appunto le diverse forze politiche che si sono presentate alle elezioni proprio sulla base della combinazione della propria identità specifica e della alleanza di governo alla quale ciascuna di esse intende di far parte. Da qualche tempo la situazione è andata cambiando, in quanto la dimensione nazionale non è riuscita più a contenere al proprio interno la politica economica generale del Paese. Non si può certo dire che anche in passato non vi sia stata dimensione internazionale capace di condizionare la stessa politica economica interna, ma non vi è dubbio che da qualche decennio a questa parte è cambiato l’equilibrio complessivo tra politica economica interna e politica economica sovranazionale. Questa costatazione è del tutto naturale almeno per quel che concerne il contesto europeo: il processo di integrazione dell’Ue ha infatti attraversato molte fasi, ma soltanto negli ultimi anni ha finito con il condizionare in modo crescente la stessa autonomia nazionale economica. Si tratta di una vicenda che ha finito
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pian piano con lo spostare lo stesso punto di equilibrio politico al di fuori del confine nazionale, come stiamo costatando proprio in questi giorni in riferimento alla cosiddetta manovra economica. L’avvento dell’Euro ha costituito una sorta di spartiacque tra la dimensione prevalentemente nazionale della politica economica, e la dimensione prevalentemente europea della politica economica medesima. Si è trattato e si tratta di un lento ma consistente mutamento che sta mettendo in discussione il punto di equilibrio complessivo che anche in Italia si era raggiunto tra economia sociale di mercato e libertà di movimenti finanziari. Alle radici dell’imponente debito pubblico italiano sta infatti proprio il suo trasferimento da una generazione all’altra, con conseguenze negative per quel che concerne gli orizzonti soprattutto umani delle nuove generazioni. Alle sue radici per altro sta anche la ridotta consistenza del debito privato italiano, per tale intendendosi sia quello determinato specificamente dalle famiglie, sia quello concernente le imprese italiane, a seconda della dimensione necessariamente nazionale o meno delle imprese medesime. Il nuovissimo contesto della globalizzazione espone ulteriormente il nostro sistema economico alle tentazioni degli investitori internazionali, che non hanno il ciclo politico a fondamento delle proprie azioni, perché hanno presente soprattutto la dimensione anche metapolitica della situazione economica complessiva del Paese. La manovra economica nazionale deve pertanto tener conto dell’insieme e complessivo sistema sociale e territoriale nazionale, nella consapevolezza che le nostre decisioni sono osservate con grande attenzione sia dal contesto europeo, che risulta in qualche modo una sorta di nostro nuovo potenziale sovrano, sia dal contesto più largo degli investitori internazionali anche extraeuropei, che ragionano in termini quasi esclusivamente di profitto e certamente non anche di conseguenze sociali delle decisioni economiche nazionali. Il recentissimo caso della Grecia sta lì a dimostrare che contesto interno, contesto europeo e contesto mondiale non hanno ancora trovato un punto di equilibrio accettabile tra i sacrifici necessari per il contenimento del debito pubblico, e gli interventi altrettanto necessari per assicurare una complessiva crescita dell’economia nazionale.
Alle radici del debito pubblico sta il suo trasferimento da una generazione a quella successiva
è necessario andare oltre il catalogo e decidere le priorità per i tempi brevi e lunghi. La prima urgenza è accelerare la crescita entro il 2011. Le grandi strategie riformatrici vanno bene se indicano un percorso e obiettivi da perseguire, ma occorre ricordare che, anche quando vengono praticate con rigore e competenza, servono tempi mediamente lunghi per risultati tangibili. Ma urgono azioni sul tempo breve.
Q u e s t a u r g e n z a chiede l’assunzione di responsabilità precise che non riguardano solo la politica troppo spesso sottoposta al pubblico ludibrio. Oggi impegnarsi in politica è considerato poco nobile e visto con un certo sospetto. Sono convinto che occorre agire sui costi della politica cercando di ridurli all’essenziale. Non ci piove: quando si devono fare i sacrifici li devono fare tutti. L ’ u n i c a a v v e r t e n z a è di non ridurre l’impegno politico ai soli ricchi. Ci sono responsabilità che non riguardano solo la politica ma per fare questo occorre che si superino tutti gli atteggiamenti corporativi della politica e della società italiana. La politica è una risorsa per il Paese e tocca certamente ai politici rivalutarla con atti e comportamenti coerenti. Sono convinto che il danno più grande alla politica e all’economia del nostro Paese è stato fatto dal bipolarismo vigente che ha assunto caratteristiche di contrapposizione, di scontro e che ha privilegiato le tensioni centrifughe rispetto a quelle centripete. In pratica si è frantumata la coesione sociale per accentuare la partigianeria. Come ricucire e recuperare la dimensione della coesione sociale e nazionale? Non servono i tatticismi di Silvio Berlusconi, della Lega e il passaggio dal radicalismo giustizialista al moderatismo di Antonio Di Pietro. Serve uno slancio nuovo, una nuova idea della politica. Il nostro Paese ha bisogno di coesione e responsabilità ed è urgente passare dalle forme dell’indignazione etica all’etica della responsabilità. Questo è oggi il compito della politica anche rispetto alla voglia di cambiamento emersa nelle ultime tornate elettorali. In questi anni ho avuto posizioni critiche nei confronti del sindacato che é stata la passione di una vita. Forse non sempre sono stato compreso e ciò che è stato interpretato come acredine altro non era che amicizia sincera, la stessa che oggi mi fa guadare con favore alla possibilità che le parti sociali possa-
no raggiungere un accordo. Una intesa unitaria avrebbe oggi un profondo significato politico e sarebbe di grande aiuto a tutto il Paese.
Il termine “concertazione” sembrava bandito dal lessico sociale e politico e si privilegiano gli scontri e le rotture. I problemi del Paese lo rendono di nuovo attuale e significativo. In questi giorni Giuliano Amato ha ricordato il 1992 quando anche con una forte dialettica - autoconvocati, bulloni che volavano nelle piazze, tormenti politici - si è fatta una manovra che ha fatto bene al Paese e ha rispettato le reciproche autonomie. Capisco che quando si deve competere con paesi dove i diritti e le tutele dei lavoratori sono disattese, c’è la necessità di adattamenti. Ma altra cosa è utilizzare le difficoltà per mutare il quadro delle tutele. Se i capitali finanziari devono essere esenti da imposte, le rendite finanziarie poco tassate e l’evasione fiscale tollerata, allora bisogna dire che non ci siamo e che il disegno non è quello di risanare il Paese ma di cambiare i rapporti tra i diversi ceti. Le responsabilità che gli uomini e le donne del lavoro saranno chiamati ad assumere chiedono che siano compensate da quelle del capitale e una responsabilità comune verso le nuove generazioni. Fino ad oggi abbiamo attraversato la crisi scaricando i maggiori costi su gran parte di coloro che hanno meno di 35-40 anni. Si deve perciò individuare le risorse per affrontare le questioni sollevate. Sarebbe necessario che i paesi europei più a rischio facessero fronte comune individuando proposte simili. C’è poi l’esigenza di tassare le transazioni finanziarie. Secondo Leonardo Becchetti (Università Roma 2 ) con uno 0,05 per cento si otterrebbe un gettito di circa 210 miliardi l’anno che potrebbero essere veramente di aiuto ed eviterebbe che a pagare fossero i soliti. La partita del debito e dalla riorganizzazione della spesa è ormai davanti a noi e diventa ineludibile È una sfida per il governo e per le opposizioni. Dopo i risultati delle elezioni amministrative e dei referendum, la responsabilità delle opposizioni è ora molto più grande. Non si tratta di continuare a ruotare attorno al tema delle alleanze ma di dire con chiarezza come si intendono affrontare i temi del debito e della crescita. Temi sui quali si gioca il futuro dell’Italia.
diario
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Appalti Enac, arrestato Pronzato
Fratelli uccisi, venerdì l’autopsia
P4, Terzo Polo: sì ad arresto Papa
ROMA. La Guardia di Finanza
MILANO. Si terranno venerdì le
ROMA. «Dopo una riunione pre-
ha arrestato Franco Pronzato, membro del cda dell’Enac. L’arresto è avvenuto nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Roma su presunte irregolarità negli appalti del settore aereo. Sono quattro le persone arrestate dalla Gdf per disposizione del pubblico ministero Paolo Ielo. Sono Viscardo e Riccardo Paganelli, che sono direttore e amministratore della Società aerea Rotcopf Aviation Limited, controllata dalla Rotcopf Aviation Italia, e Giuseppe Smeriglio, imprenditore. L’accusa per tutti è quella di corruzione. A firmare i provvedimenti di arresto è stato il gip Elvira Tamburelli. Per quanto riguarda la posizione di Smeriglio, l’ordine di custodia cautelare avrà efficacia per 45 giorni.
autopsie di Ilaria e Gianluca Palummieri, i due fratelli assassinati la settimana scorsa e per i cui omicidi è stato arrestato l’ex fidanzato della ragazza, Riccardo Bianchi, in carcere dopo la confessione. Il medico legale dovrà accertare l’esatta ora della morte dei due ragazzi e verificare se la confessione di Bianchi corrisponde a quanto emerge dall’autopsia. Bianchi ha infatti dichiarato di aver legato e violentato Ilaria per circa 9 ore e di averla uccisa nel pomeriggio di giovedì scorso. Gianluca, secondo il suo racconto sarebbe stato ucciso in strada a Cesano Boscone intorno alle 4 del mattino. Sull’ora gli investigatori hanno a tutt’oggi diversi riscontri.
sieduta dagli esponenti del Terzo Polo, è stato deciso all’unanimità di dire sì all’arresto di Alfonso Papa». Così Consolo, deputato di Fli e vice presidente della giunta per le autorizzazioni di Montecitorio. Pierluigi Mantini, capogruppo Udc in Giunta per le autorizzazioni della Camera, conferma: «L’orientamento comune emerso nel Terzo Polo, dopo l’approfondito esame degli atti, che non si oppone all’esecuzione della misura cautelare nei confronti dell’onorevole Papa. Dalle carte non emerge un fumus persecutionis, il provvedimento del Gip è ben motivato, autonomo e a volte critico nei confronti delle richieste della procura, i fatti sono gravi e gli elementi di prova circostanziati».
Palazzo dei Marescialli boccia l’emendamento Pini in discussione alla Camera: «Inaccettabile intimidire i magistrati»
«Toghe a rischio», l’allarme del Csm Frattini invoca il dialogo per fermare le intercettazioni, ma Udc e Pd chiudono di Francesco Lo Dico
ROMA. Annidato nella legge comunitaria 2010 tra una regola per etichettare la mortadella e una sanzione per le uova avariate, il microscopico batterio inoculato dal leghista Pini aveva rischiato di far andare a male anche gli ultimi brandelli sani della nostra democrazia. Era stata la piddina Donatella Ferranti, a scovare l’ultimo dei simpatici bacilli sperimentati contro le toghe rosse negli indefessi laboratori berlusconiani. Che cosa ci facesse una legge contro i giudici in un disegno di legge che doveva accogliere gli obblighi derivanti dalla partecipazione dell’Italia all’Unione europea, non è dato sapere. Ma certo è che il simpatico bacillo aveva i tipici tratti dell’Escherichia coli. Invisibile a occhio nudo, trasmesso per via oro-fecale direttamente alla penna dell’estensore, e a forma di bastoncello diritto. Puntato contro i giudici cancerogeni, naturalmente. E cioè tutti, tranne quelli che non non siano papabili, o già papati, nel Pdl. E proprio sull’ emendamento Pini, si sono espresse ieri le toghe in un documento. Le nuove norme, scrive il Csm in un parere approvato a larga maggioranza (19 sì contro 4 no), sono un «rischio» per i «principi di autonomia e indipendenza della magistratura». Stabilire infatti che i giudici siano punibili non solo per dolo o colpa grave come allo stato attuale, ma anche per «manifesta violazione del diritto» come vuole il leghista Pini (non proprio un giurista, visto che è un perito industriale che opera nel ramo alimentare), significa pressoché processare i giudici ad libitum, e cioè secondo gli interessi della personam (la solitam) che si ritiene danneggiata, ad esempio. L’emendamento, denuncia il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, introduce «una responsabilità civile dei giudici sostanzialmente senza limiti, in contrasto con l’indipendenza dei giudici e con il diritto dell’Unione europea, che la impone». Le conseguenze di un simile intervento sono presto dette. «È
«La legge», denuncia il primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, introduce «una responsabilità civile dei giudici sostanzialmente senza limiti, in contrasto con l’indipendenza dei tribunali e con il diritto dell’Unione europea che la impone».
evidente», spiega il Csm, «che un rischio eccessivamente elevato di incorrere in responsabilità civile diretta o indiretta avrebbe un effetto distorsivo sull’operato dei magistrati, i quali potrebbero essere indotti, al fine di sottrarsi alla minaccia della responsabilità, ad adottare, tra più decisioni possibili, quella che consente di ridurre o eliminare il rischio di incorrere in responsabilità, piuttosto che quella maggiormente conforme a giustizia».
Il documento approvato dal plenum dei magistrati, precisa poi che al contrario di quanto sostenuto dai berluscones, l’emendamento Pini non ci è stato imposto dalla Corte di giustizia europea al fine di modificare radicalmente la disciplina sulla responsabilità dei magistrati.
Ma che lo siamo imposti da soli, e peraltro siamo gli unici che in Europa ne hanno sentito la necessità. Contrariamente alle quotidiane geremiadi dei pidiellini, i giudici non affatto a legibus soluti, come loro sognerebbero di essere, in un tipico fenomeno di transfert freudiano. Le norme che regolano la responsabilità civile dei magistrati, sono infatti in Italia le stesse che valgono per tutti i dipendenti pubblici. Motivo per cui il Csm bolla l’emendamento Pini come «un inedito nel panorama europeo». Ad eccezione dei membri laici del Pdl, Annibale Marini, Filiberto Palumbo, Bartolomeo Romano e Nicolò Zanon, che non hanno approvato il documento, e hanno accusato invece il Consiglio superiore di comportarsi come una «Terza Camera», in quanto l’opinione espressa
dal Csm è arrivato in coincidenza con l’esame dell’emendamento ieri al vaglio della Camera. Come dire che se il Parlamento discute una legge che obbliga tutti a cantare “Meno male che Silvio c’è” in pausa pranzo, è vietato prendere posizione. Bisogna farlo dopo, quando abbiamo già tutti la bocca impegnata, e nessuno penserà che il fine della protesta è passare per la “Terza Camera”.
E difatti, il vicepresidente del Csm, il centrista Michele Vietti, ha replicato ai membri laici: «Se non ora quando?». «È doveroso esprimersi prima che le norme siano approvate», ha ricordato l’ex deputato udc, anche per «segnalare al ministro eventuali ricadute negative». E che Giorgio Napolitano, che di Palazzo dei Marescialli è il presidente, ha dato il
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Tav, Maroni difende la polizia: «Operazione gestita molto bene»
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio
MILANO. A Chiomonte, dove è stato aperto il cantiere della Tav, «le forze dell’ordine hanno operato in modo eccezionale in un clima ad alto rischio. Senza il loro intervento avremmo perso i finanziamenti europei». Così il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, intervenendo alla cerimonia di chiusura dell’anno accademico della scuola di perfezionamento delle forze di Polizia, ha parlato degli scontri tra forze di polizia e manifestanti che si opponevano alla realizzazione della Tav. Ieri la situazione è sembrata più tranquilla, ma si prevedono nuove forme di protesta nei prossimi giorni. La Ue esorta Italia e Francia a trovare persto un nuovo accordo. Intanto un sms sui cellulari e messaggi via web invitano ad andare a Chiomonte. E ai No-Tav arriva la solidarietà dall’Aquila. «Questa complessa operazione ad alto rischio - ha spiegato Maroni - si è svolta nel modo migliore, non solo per noi, ma anche per chi guarda a
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
queste cose con occhio critico. Oggi infatti - ha sottolineato - i giornali meno sensibili alle nostre posizioni hanno evidenziato la competenza delle forze dell’ordine. È il segno che il sistema di sicurezza italiano è tra i più efficienti che ci siano in Europa». «Io voglio ringraziare - ha proseguito il ministro - tutti quelli che hanno gestito l’operazione, dal capo della polizia al questore di Torino, al prefetto e a tutti gli altri che hanno partecipato».
Da sinistra a destra il vice presidente Michele Vietti, Angelino Alfano e Maurizio Lupi
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato
via libera alla discussione. Ma il documento del Csm ricorda anche che all’articolo 47, la Carta di Nizza «impone come garanzia fondamentale l’indipendenza del giudice mentre l’attuale formulazione della norma prevede la responsabilità diretta del giudice senza limiti». Ragion per cui, argomenta il primo presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, «è anomalo e paradossale che un adattamento a una legge comunitaria sia invece in contrasto con il diritto dell’Unione europea».
E visto che il problema non è chi intercetta i reati di una classe dirigente tra le peggiori mai apparse in Italia, ma chi ne scopre come minimo l’indegnità morale, non si perde tempo neppure sulle legge bavaglio per fermare le intercettazioni che hanno fatto emergere la P4. In prima linea c’è Fabrizio Cicchitto, che essendosi fermato alla P2, probabilmente si sente scavalcato dai tentativi d’imitazione dell’originale. Ma nel pomeriggio, anche il ministro degli Esteri, Franco Frattini, rilancia: «Rinnovare l’offerta di un dialogo all’opposizione sulle intercettazioni è giusto e saggio», nonostante il niet della Lega. «Abbiamo escluso subito si possa parlare di un decreto legge», aggiunge Frattini,«ci sono provvedimenti già in Parlamento ed è possibile già lavorare su quelli». Sarebbe un peccato buttare tre anni di duro lavoro, sempre sulla stessa cosa. E poi perché indagare sulla integrità delle istituzioni, quando si ha
Il segretario centrista, Lorenzo Cesa: «A Berlusconi interessa solo la guerra personale contro i giudici. Non lo seguiremo» la possibilità di fare una bella commissione d’inchiesta su ciò che invece è del tutto legittimo? Frattanto, il segretario dell’Udc, Lorenzo Cesa chiude la porta: «Temiamo che a Berlusconi interessi solo riprendere al più presto la sua
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guerra personale con i giudici. E noi, naturalmente, non lo seguiremo. Non sono le intercettazioni, i processi brevi e lunghi, i provvedimenti punitivi nei confronti dei pm, gli attacchi al Csm, la priorità dell’Italia». Sordo al dialogo, sembra anche il Pd. «Per fare luce sulle trame oscure della P4 e sulla rottura delle regole democratiche secondo noi occorre una commissione di inchiesta del Parlamento», precisa il deputato Roberto Zaccaria. Eppure li ministro Frattini assicura che «ci sono dei principi, come il divieto della pubblicazione di atti non penalmente rilevanti, su cui anche la sinistra è d’accordo».
Le cose, come spesso accade quando il Pdl tenta di descrivere la realtà, stanno esattamente al contrario. Pier Luigi Bersani ha ricordato che «è inutile che il governo citi la proposta Mastella. Se gli va bene la nostra noi ci stiamo. Il problema è che a Berlusconi non va bene questa soluzione». E considerato che anche Massimo D’Alema sostiene che «ora è molto tardi per fare una legge sulle intercettazioni e del tutto inopportuno intervenire per decreto», è abbastanza immaginifico sperare che l’opposizione si presti al nuovo eccitante capitolo della legge bavaglio. Questione di eterogenesi dei fini. O meglio, per dirla con il lessico spiccio di Bisignani, «con le regole normali lo condannano sicuro, finisce la festa per tutti». Frase penalmente non rilevante, forse. Che purtroppo, adesso, gli italiani conoscono.
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Auguri bipartisan. Napolitano: «Sono certo che il suo operato sarà fonte di ispir l cardinale Angelo Scola, personalità forte, audace, di grande cultura, è il nuovo arcivescovo di Milano. Un’ottima scelta che fornisce al più sveglio tra i vescovi italiani quella postazione unica che è la “sede”ambrosiana, dalla quale hanno svolto grandi ruoli, lungo l’ultimo secolo, i cardinali Ferrari e Ratti (poi Pio XI), Schuster e Montini (poi Paolo VI), Colombo, Martini e Tettamanzi. Le dimissioni di Tettamanzi – accettate ieri – erano state date due anni addietro, al compimento dei 75 anni, ma Papa Benedetto gli aveva chiesto di restare ancora per due anni a capo dell’arcidiocesi ambrosiana. Nel profilo di Scola c’è “Comunione e Liberazione”: egli è un figlio di don Giussani che ha saputo muoversi con libertà al di fuori della famiglia ciellina pur restando fedele, nel profondo, a quella formazione. Più forte ancora è stata la formazione teologica: egli è un teologo di professione, come del resto lo erano Tettamanzi e Martini. Ha insegnato teologia morale a Friburgo e cristologia alla Lateranense. È stato poi rettore della Lateranense: e dunque egli è anche un organizzatore culturale, oltre che un professore. In precedenza era stato un collaboratore del cardinale Ratzinger all’ex Sant’Uffizio: e questo spiega più di ogni altro fatto il suo trasferimento – senza precedenti – da Venezia a Milano: mai cioè nella storia era capitato che un Patriarca di Venezia fosse chiamato a fare l’arcivescovo di Milano. A Venezia è stato un Patriarca creativo, capace di guardare lontano senza trascurare il proprio popolo. C’è dunque molto da dire sulla sua nomina e la sua persona. In più io gli sono amico da trent’anni e posso dire che conversando con lui non ho mai avuto l’impressione di perdere tempo. È un uomo intelligente e generoso. Cerca parole nuove e nuove intese per affrontare problemi inediti. Ma è ciellino, obietta subito chi ti ascolta lodarlo: e che ne viene? Schuster era benedettino, Martini è un gesuita.Vorrà dire che ormai CL la dobbiamo vedere come parte del tutto e non più come gruppo a parte.
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Altra obiezione: a Milano un arcivescovo di formazione ciellina può creare tensioni: meglio le tensioni che l’addormentamento, è la mia risposta. Ma doveva arrivare un arcivescovo di destra proprio ora che Milano va a sinistra? Innanzitutto Scola non è di destra: sull’Islam ha detto cose degne di Giorgio La Pira. Ma soprattutto egli non sta fermo dove tu – per idea ricevuta – immagini che debba stare e questo è ciò che importa. La sua nomina comporta il ritorno a casa: infatti Angelo Scola, 70 anni il prossimo 7 novembre, è nato a Malgrate, piccolo comune sulle rive del Lago di Como, appartenente all’arcidiocesi di Milano. Egli dunque, in partenza, è un ambrosiano. È figlio di un camionista e di una casalinga: c’è da rallegrarsi veden-
Il cardinale Scola lascia Venezia e approda a Milano: «Accolgo con umiltà e molta obbedienza la decisione del Papa» Una veduta del Duomo di Milano, nuova sede episcopale del cardinale Angelo Scola. A lato il porporato, fino a ieri mattina Patriarca di Venezia. Nella pagina a fianco, Scola con Benedetto XVI in gondola
L’Angelo d
di Luigi A do che non cessa la capacità della Chiesa Cattolica di portare in alto chi viene dal basso. È stato nell’Azione Cattolica e ha fatto il presidente della Fuci milanese. Anch’io sono stato nella Fuci e quell’imprinting non lo trascurerei. Martini, da biblista, era un ospite abituale delle settimane fucine. Poi Scola prende la laurea in Filosofia all’Università Cattolica di Milano, e proprio ieri sul Corsera il professore Emanuele Severino lo lodava ricordando di averlo promosso con un trenta e loda in filosofia morale. Diventa prete a Teramo nel
tratta di una costola della teologia conciliare che si stacca da “Concilium” e vuole dare una mano a PaoloVI nel contenimento – sul piano dottrinale – delle spinte innovatrici in un momento difficile del dopo-concilio. Divenuto prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede (1981) il cardinale Ratzinger vuole Scola tra i consultori: svolgerà questo ruolo dal 1986 al 1991. Dunque la filiera è chiara: Paolo VI chiama Ratzinger ad arcivescovo di Monaco nel 1977, Papa Wojtyla chiama Ratzinger a Roma nel 1981, Ratzinger
Collabora alla nascita nel 1972 della rivista internazionale “Communio”, che ha tra i suoi fondatori Joseph Ratzinger, de Lubac e von Balthasar. Una costola della teologia conciliare 1970, a 29 anni. A Teramo perché come giovane ciellino – magari anche, allora, poco diplomatico – era stato allontanato dai seminari milanesi, essendo rettore di quei seminari l’attuale Cardinale di Curia Attilio Nicora. Capitò poi che Nicora e Scola diventassero cardinali insieme nel 2003 e che insieme fossero invitati da Tettamanzi a una concelebrazione riconciliatrice. Collabora alla nascita nel 1972 della rivista internazionale“Communio”, che ha tra i suoi fondatori Joseph Ratzinger, Henri de Lubac e Hans Urs von Balthasar. Si
vuole accanto a sé il giovane Scola nel 1986 e oggi lo manda a Milano, in una collocazione principe rispetto all’episcopato non solo italiano ma mondiale.
Nel 1982 Scola è nominato professore di Antropologia teologica al Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli Studi su Matrimonio e Famiglia, presso la Lateranense. L’attuale cardinale di Bologna, Carlo Caffarra, è il suo sponsor in questa chiamata. Diventa vescovo di Grosseto nel 1991: è il primo vescovo ciellino, come più
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irazione per la ricerca del bene comune da parte di tutte le forze civili e sociali»
della Madunina
Accattoli tardi sarà il primo cardinale uscito dalla famiglia di don Giussani. Sceglie come motto episcopale tre parole della Seconda Lettera di Paolo ai Corinzi: “Sufficit gratia tua”,“Mi basta la tua grazia”. Nel 1995 diventa Rettore dell’Università Lateranense, incarico che tiene per sei anni rivelando buone capacità nelle pubbliche relazioni. Proietta la Lateranense nel mondo accademico internazionale, impresa che sarà proseguita con la stessa grinta dal successore Rino Fisichella. Nel 2002 papa Wojtyla lo manda a Venezia come Patriarca, mettendolo al posto di un Patriarca mite e amatissimo, ancora oggi vigile amico di tanti, qual è stato Marco Cè. Una successione difficile, sia per la nomea ciellina, sia per l’indole diversa da quella del riservatissimo predecessore: ma si direbbe che Scola non compia nessun passo falso e riesca benissimo a porsi come il Patriarca di tutti, stabilendo anche un amichevole rapporto con il predecessore. Un precedente che può aiutare a intendere che cosa avverrà a Milano. Cardinale dal 1993, l’anno dopo fonda lo “Studium generale Marcianum” – una specie di Accademia del Patriarcato – e il Centro internazionale di studi e ricerche “Oasis”per l’incontro tra cristiani e musulmani. E’ sempre Papa Wojtyla a nominarlo relatore generale del Sinodo dei Vescovi sull’Eucaristia, che si tiene nell’ottobre del 2005, essendo Papa
Joseph Ratzinger. Quella di relatore ai Sinodi è una funzione chiave nella formazione della leadership episcopale mondiale: l’hanno svolta i cardinali Wojtyla e Ratzinger, poi Papi e – prima di Scola – gli italiani Carlo Maria Martini e Camillo Ruini. I nove anni passati da Scola aVenezia sono piedi di iniziative e di idee lanciate ben oltre il Patriarcato e il Triveneto, come si chiama la regione ecclesiastica di cui il Patriarca è metropolita.Tra le ragioni della destinazione di Scola a Venezia, da parte di Papa Wojtyla, si dice che vi sia stata anche l’intenzione di rifare del Patriarcato lagunare un ponte verso l’Oriente, inteso sia come mondo ortodosso sia come mondo musulmano. Alla rivista Oasis/AlWaha (doppio nome latino e arabo) il Pa-
vista nel gennaio del 2005: invita a «esporsi» e «rischiare», chiunque sia davvero convinto che lo «scontro» possa essere evitato solo favorendo quell’«inedita me-
È il primo vescovo ciellino, come più tardi sarà il primo cardinale uscito dalla famiglia di don Giussani. Sceglie come motto episcopale la II Lettera di Paolo ai Corinzi: “Sufficit gratia tua” triarca aveva assegnato il compito di «sostenere» le minoranze cristiane dei Paesi islamici e «dialogare» con l’Islam in tema di «convivenza». «Uno strumento per l’incontro» è intitolato l’editoriale del Patriarca ad apertura del primo fascicolo della ri-
scolanza tra popoli» e quel «meticciato di civiltà» ai quali Dio «sembra voler chiamare l’umanità».
Ma non è questa – avverte – un’operazione dall’esito garantito e il confronto
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con l’Islam può risultare può risultare più difficile di quanto sperimentato fino a oggi e può portare dove non sappiamo. Ma non ci sono alternative: oltre quel confronto vi sarebbe soltanto lo «scontro». Esso va dunque affrontato, superando «la tentazione di risparmiare alla libertà dei singoli e all’organizzazione dei popoli l’urgenza di esporsi in prima persona». Se uno parla di “meticciato” e dell’Islam con questa ampiezza di sguardo non può non provocare polemiche. Nel giugno del 2005 ebbi l’occasione – come inviato del Corsera – di chiedergli una risposta a chi l’accusava di cedimento e di incauta apertura: «Guardo alla storia come a un intreccio di libertà: la libertà di Dio, la libertà dell’ uomo e anche la libertà del Maligno. Questo intreccio dà vita a circostanze e processi che l’uomo può orientare, ma non può né annullare né produrre. Ora, che ai giorni nostri sia in atto un mescolamento dei popoli mai visto prima è evidente. Se Dio guida la storia, vuol dire che Dio ci sta chiamando a questo mescolamento: non dobbiamo averne paura, ma chiederci come starci dentro e come orientarlo ». Gli chiesi se fosse favorevole all’ingresso della Turchia nell’Unione europea: «Quando diciamo Europa, diciamo sempre Ue? Certo l’Europa non può non porsi con forza il problema del confronto con la Turchia e con ciò che essa rappresenta: questo confronto dovrà portare all’integrazione della Turchia nell’Unione? Non mi sento di escluderlo, ma neanche di darlo per scontato». Scola Patriarca dialoga scioltamente con Cacciari e gli altri amministratori veneziani di sinistra ma non si disorienta quando si trova davanti, come interlocutori, i leghisti dell’entroterra. Non si rifiuta a un commento neanche quando una moschea fa capolino – nel Natale del 2008 – in un presepe di una scuola cattolica veneziana: «È chiaro che se vogliamo rispettare il presepe nella sua genesi, quando è venuto Gesù l’Islam non c’era. Ma da sempre c’è la tendenza ad attualizzare il presepe. E adesso siamo dentro questo processo di meticciato di civiltà». «Ai fedeli e agli abitanti del Patriarcato di Venezia»: aveva questo «indirizzo» di insolita apertura la prima e ultima lettera pastorale che il Patriarca Scola ha pubblicato il novembre scorso con il titolo «Tu conferma la nostra fede», in vista della visita del Papa ad Aquileia e a Venezia, che è poi avvenuta il 7 e 8 del mese scorso. Quell’intento di raggiungere tutti e non solo i cattolici è lo stimolo più interessante che la Venezia di Scola aveva proposto alla cattolicità italiana. «La venuta del Santo Padre ad Aquileia e a Venezia è destinata a tutti gli abitanti di queste nostre terre» insisteva nel suo testo il cardinale, invitando i cattolici a non chiudersi nelle chiese, in questo tempo che a tanti di loro pare essersi fatto difficile. Risuonava in quel richiamo il tono di apertura che Giovanni XXIII – già patriarca di Venezia – aveva voluto dare al suo magistero quando indirizzò l’enciclica Pacem in Terris (1963) «a tutti gli uomini di buona volontà». «Seguire Cristo – affermava ancora Scola – consente di vivere in pienezza» ma questa «possibilità» non libera i cristiani dalle loro «incoerenze», né li fa automaticamente «migliori di coloro che pensano di non credere». «Vuol dire unicamente – argomentava il Patriarca chiamando i cattolici a superare la tentazione integralistica – che per grazia di Dio abbiamo ricevuto questa possibilità che vogliamo condividere con tutti». www.luigiaccattoli.it
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il documento Medioriente: la testimonianza di John R. Bolton davanti alla Commissione Esteri del Congresso Usa
La bomba che il mondo non vede Il filo che lega l’Iran di Ahmadinejad alla Siria di Assad è sempre più solido. E punta tutto sul nucleare. Ma l’Occidente continua a non vederlo di John R. Bolton l programma nucleare iraniano, e i suoi potenziali collegamenti con la Siria, rimangono una delle sfide più critiche alla sicurezza nazionale americana, forse anche la minaccia più seria nel breve periodo. Dopo quasi vent’anni di inutili sforzi statunitensi e occidentali tesi ad evitare che l’Iran portasse a termine i suoi obiettivi di produzione di armamenti nucleari, adesso ci troviamo ad un punto critico. L’Iran è prossimo a raggiungere il suo scopo, grazie al suo impegno, alla collaborazione con la Corea del Nord e di altri stati canaglia - come il Venezuela - che gli permettono di sfuggire alla pressione internazionale, e grazie alla sua egemonia in Siria, dove la portata delle sue attività nucleari è pressoché sconosciuta.
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Anche se l’Iran è vicino al successo, gli Stati Uniti potrebbero ancora evitare l’emergenza di un Iran nucleare. Ma il tempo stringe, e rischiamo sicuramente di perdere se continuiamo a perseguire le attuali politiche. Una volta che l’Iran disporrà di armi nucleari, il
Medioriente e la maggior parte del mondo cambieranno per sempre, e per lo più a scapito degli Usa, dei suoi amici e alleati in tutto il mondo. È bene iniziare con verità nette sul programma nucleare dell’Iran. Nonostante anni di trattative diplomatiche, nonostante molteplici livelli di sanzioni internazionali e tentativi creativi di
disturbo (tra cui il recente virus informatico Stuxnet), sembra che l’Iran stia inesorabilmente raggiungendo l’obiettivo di possedere un arsenale nucleare. I Pasdaran, le Guardie Rivoluzionarie dell’Iran, hanno recentemente pubblicato sul loro sito un articolo sulla reazione mondiale il giorno in cui eseguiranno il loro primo esperimento atomico. Alcune stime basate sulle infor-
mazioni disponibili differiscono, ma il tema alla base di tutte è assolutamente pessimistico, in special modo quello che riguarda il vigoroso programma di arricchimento dell’uranio dell’Iran.
Teheran non solo sta allargando la sua capacità di produzione di uranio arricchito, ma si sta anche muovendo verso disegni ancora più sofisticati che renderanno la sua futura produzione ancora più massiccia di quella attuale. L’arricchimento dell’uranio è l’ostacolo più duro, soprattutto se lo si applica ad armamenti nucleari, e c’è poco o niente da fare per evitare una simile eventualità, eccetto un imminente cambio di regime a Teheran o un intervento militare esterno. Mentre è necessario ovviamente più lavoro una volta che la concentrazione di isotopi U235 è stata arricchita al fine di una produzione “militare” (“Heu” o “uranio altamente arricchito), come la conversione in metallo di uranio o la fabbricazione di questo metallo in una forma utile a costruire armi atomiche, è proprio l’arricchimento dell’uranio il proces-
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Da sinistra: Amano, il nuovo direttore generale dell’Aiea e il presidente iraniano Ahmadinejad. A destra, uno dei missili schierati dagli Usa al confine con la Corea del Nord. Nell’altra pagina: Bashar al Assad (Siria) e John R. Bolton, già ambasciatore Usa all’Onu
so principale che deve essere gestito. Secondo l’ultimo rapporto sull’Iran dell’Agenzia Internazionale di Energia Atomica (Aiea) del 24 maggio 2011 il tasso di produzione dell’Iran di uranio poco arricchito (“Leu”, che contiene approssimativamente il 3,5% del isotopi U235) si aggira sui 105 kilogrammi al mese. Questa cifra indica che la produzione è aumentata del 17 per cento rispetto al precedente rapporto Aiea dello scorso febbraio, e dell’84 per cento rispetto al 2009. E queste cifre, naturalmente, si basano solo sulla capacità di arricchimento dell’Iran che l’Aiea riesce a verificare. Anche scienziati ed esperti indipendenti, di ogni colore politico, possono confermare quanto l’Iran sia vicino a realizzare un suo arsenale. Secondo l’“Osservatorio sull’Iran” del Wisconsin Project on Nuclear Arms Control, fino ad aprile di quest’anno l’Iran disponeva di Leu sufficienti per 4 testate atomiche, supponendo che l’Iran li avrebbe poi convertiti in Heu (solitamente con concentrazioni di U235 superiori al 90 per cento). Utilizzando solo le 8 mila centrifughe osservate dall’Aiea a Natanz, il Wisconsin Project stima che ci vorrebbe un mese e mezzo per convertire i Leu in Heu in quantità sufficiente per fabbricare una bomba, o sei mesi per fabbricarne quattro.
Tutte le valutazioni e i calcoli del Wisconsin Project sono disponibili sul loro sito e si basano su informazioni fruibili a tutti, solitamente fornite dall’Aiea. Se l’Iran dovesse disporre di ulteriori impianti, non conosciuti agli ispettori dell’Agenzia atomica, naturalmente con più centrifughe operative rispetto a quelle individuate a Natanz, la sua capacità di arricchire in Heu sarebbe di molto superiore, mentre il tempo si stringerebbe sempre più. A questo proposito, l’Iran ha recentemente dichiarato che avrebbe triplicato la sua produzione di uranio arricchito del 19,75 per cento, presumibilmente per il suo reattore di ricerca a Teheran, utilizzando l’impianto di Fordow, abilmente nascosto tra le montagne vi-
cino Qom e rivelato dai servizi segreti statunitensi nel 2009. Basandosi sul rapporto dell’Agenzia atomica del 24 maggio 2011, il Centro di Educazione per la Non Proliferazione (Npec) ha pubblicato l’ultimo di una serie di documenti che attestano la prossimità dell’Iran alla produzione di testate nucleari.
Lo studio Npec conclude che «con l’attuale quantitativo di centrifughe operative dell’Iran, i lotti di riciclaggio impiegherebbero circa due mesi una volta che l’Iran decidesse di avviare il processo» per arricchire abbastanza Leu in Heu per un’arma nucleare. Allo stesso modo, la Federazione degli Scienziati Americani aveva concluso ancora lo scorso anno che la produzione di Leu dell’Iran era aumentata notevolmente rispetto agli anni precedenti. Anche altri aspetti del programma nucleare dell’Iran sono andati avanti con lo stesso ritmo e molto probabilmente lo hanno fatto anche dopo il 2003, nonostante le conclusioni della
politici non agiscono più secondo quelle conclusioni. Anzi: nella sostanza (ma non ancora nella forma) la NIE è stata rifiutata nel febbraio 2008 in una deposizione al Congresso da parte di Michael McConnel, l’allora direttore dell’Intelligence Nazionale. Anche le informazioni reperibili ai tempi della stesura della Nie 2007 hanno contraddetto le
comunque in grado di produrre sufficiente plutonio per garantire alla Repubblica islamica dell’Iran di costruire delle armi atomiche. Non sono solo io a dirlo: lo conferma anche il nostro dipartimento dell’Energia. Teheran ha annunciato che in agosto la centrale di Busher sarà collegata alla rete elettrica nazionale, centrando dunque l’obiettivo (ufficialmente sem-
L’asse del male? Si è rafforzato Teheran è pronta a costruire l’atomica, ma si può fermare sue conclusioni. Il 15 settembre 2004 ad esempio Abc News raccontò una storia sugli impianti di Parchin per testare artiglierie e blindati, in cui si documentava una consistente attività di sviluppo di armamenti nucleari. Secondo questo reportage, gli scienziati e i tecnici iraniani stavano testando apparecchi di detonazione per gli alti esplosivi che circondano una “cava”di uranio o plutonio nel physics package di un’arma nucleare. Una detonazione simultanea di simili esplosivi è necessaria per assicurare che il metallo per la fabbricazione di armi imploda in un modo che garantisca che la massa critica del materiale di fissaggio produca la massima forza esplosiva possibile. Nessuno ha mai sottoscritto il servizio di Abc News, che d’altronde documentava le operazioni in corso e non forniva prove storiche certe.
I rischi che stiamo correndo sono di sicuro più alti di quelli denunciati dalla Cia. Ma anche più gravi dei servizi pubblicati dai giornali o esaminati in conferenze ad hoc National Intelligence Estimate (Nie) del 2007, secondo cui quell’anno l’Iran aveva sospeso il suo programma di armamenti nucleari. Gli Stati Uniti non si sono ancora espressi esplicitamente contro la Nie 2007, anche con l’ultimo aggiornamento del 2011, sebbene questo documento altamente politicizzato e miseramente ragionato non abbia superato il test del tempo. I leader della comunità dell’intelligence e ora l’amministrazione Obama, non erano molto favorevoli a rovesciare pubblicamente le loro errate conclusioni, ma in sostanza gli alti funzionari dell’intelligence statunitense e i
ran stia lavorando alacremente al raggiungimento del suo obiettivo finale, e presto potremmo trovarci a doverci fare i conti. L’unico prudente approccio per affermare quello che sappiamo e quello che non sappiamo sull’Iran è che i rischi sono di sicuro superiori rispetto a quelli riportati dalla nostra intelligence o rispetto a quelli discussi sui media o in al-
Purtroppo, è quasi certo che c’è molto altro da dire sul programma nucleare dell’Iran. E dovremmo riconoscere apertamente che la nostra intelligence non sempre ha agito per il meglio. Anzi, emergono continuamente tentativi iraniani di costruire nuovi impianti nucleari, nascosti sia agli apparecchi dell’intelligence occidentale, che agli ispettori internazionali dell’Aiea. E purtroppo quello che non sappiamo è la parte peggiore e più pericolosa dell’intera vicenda. Ci sono pochi dubbi sul fatto che l’I-
tri luoghi pubblici. Una delle poche buone notizie che abbiamo è che l’Aiea sta decisamente riacquistando il suo ruolo sotto la direzione del direttore generale nuovo Yukiya Amano. Dopo anni di sostanziale cecità, l’agenzia sta tornando al top. Amano ha onestamente e apertamente descritto quanto l’Aiea sia stata inadempiente, o meglio, inconcludente, sull’intero affaire iraniano. Concedendo a Teheran la merce più preziosa: anni di tempo. In più, ha chiaramente descritto tutte le informazioni raccolte nel corso delle ispezioni e soprattutto sottolineato tutte le informazioni che Teheran ha negato di dare, facendo così capire dove bisogna andare a cercare e quali sono le sacche di rischio più probabili.
Il cambio di marcia dell’Aiea può solo che ricevere il nostro plauso, anche se purtroppo ciò non cancella il tempo perduto e impone ad Amano uno sforzo sovraumano per recuperare il tempo perduto. Abbiamo così scoperto che oltre al programma di arricchimento dell’uranio, l’Iran sta cercando di avvantaggiarsi nell’approvvigionamento del plutonio a fini esclusivamente militari. Il reattore di Busher sta per entrare in funzione grazie al controllo, supporto e supervisione della Russia e rappresenta una pietra miliare della storia iraniana. È il primo reattore su scala commerciale (mille megawatts) nelle mani del più acerrimo nemico di Israele, e fra poco comincerà la sua produzione. Nonostante alcune lacune, sarà
pre dichiarato) di produrre energia nucleare esclusivamente a scopi civili. Motivo per il quale ha in cantiere l’apertura di altri impianti.
Bisogna dire che nonostante la definizione di “Asse del male” sia caduta un po’ in disuso negli ultimi anni, la connessione fra la Corea del Nord e l’Iran - certa per quanto riguarda la costruzione di missili balistici e quasi sicuramente per le armi atomiche - rimane salda e forte. Senza dimenticare che ci sono poi altri Paesi, come il Venezuela e il Myanmar (ex Birmania), che potrebbero dare una mano ai sogni atomici di Ahmafinejad. I giacimenti di uranio venezuelani, i secondi più grandi al mondo dopo quelli canadesi, è inutile dire che potrebbero fare molto comodo a Teheran. E non è certo un mistero che con Hugo Chavez al potere il leagme tra i due paesi si sia notevolmente rinsaldato. Lo scopo di questa alleanza è chiaro a tutti: grazie a Chavez l’Iran riesce ad aggirare (ovviamente in parte) le sanzioni in corso e ad avere un supporto finanziario; grazie ad Ahmadinejad il Venezuela può coltivare l’ambizione di poter avere, un giorno, il know how necessario a cosrtuirsi un’atomica tutta sua. Il Myanmar, invece, è un fantastico canale di passaggio fra la Corea del Nord e l’Iran e l’isolamento del Paese lo rende ancora più appetibile, perché nessuno può entrare a controllare i traffici in atto. Traffici tesi a facilitare la costruzione delle armi atomiche iraniane. segue a pagina 12
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L’inevitabile conclusione di vent’anni di politiche fallimentari nei confronti delle ambizioni nucleari iraniane è desolante. Tanto per cominciare è stato permesso a Teheran di raggiungere i suoi obiettivi e - più presto che tardi - tutti dovremo fare i conti con questa nuova realtà.Temo che molte personalità di questa Amministrazione siano d’accordo con me e sappiano in cuor loro che quella che un tempo era una minaccia sarà presto una realtà con la quale dovremo abituarci a convivere. Non a caso, gli Stati Uniti si sono detti pronti a proteggere Israele e tutti i paesi della cooperazione del Golfo, convinti che la questione potrà essere tenuta sotto controllo esattamente come venne tenuta sotto controllo durante gli anni della Guerra fredda. Francamente, credo che questa speranza sia davvero flebile. Primo, a prescindere dal fatto che l’Iran usi o meno il suo arsenale militare, il solo fatto che lo possegga stravolgerà gli equilibri regionali (e non solo). Molti dei più acerrimi nemici dell’Occidente (da Hezbollah ad Hamas, dai terroristi iracheni ai talebani afghani) si sentiranno protetti, e l’Iran potrà usare la sua influenza per egemonizzare definitivamente l’Iraq, la Siria, il Libano, il Bahrein e il movimento palestinese. Secondo: gli Stati Uniti oggi non sono in grado di rassicurare come in passato.
Il ritiro dall’Iraq e fra poco anche dall’Afghanistan non giova certo alla sua immagine e lo rende più fiacco agli occhi dei nemici. Terzo: c’è una grande differenza fra la Repubblica islamica dell’Iran e la fu Unione Sovietica. Sotto il profilo piscologico, per esempio, un regime teocratico che considera superiore la vita ultra terrena da quella reale non corrisponde esattamente ai paradigmi utilizzati durante gli anni della deterrenza, tesa a far sì che sulla terra, qui e ora, il nemico non entri dentro casa. Oltretutto, durante la guerra fredda esitevano due superpotenze con le stesse capacità di distruzione, e questo era un innegabile fattore di bilanciamento. L’Iran resterà sempre un attore asimmetrico,
americano presso l’Onu, quando il senatore Joseph Biden, tra gli altri, si dichiarò contrario a quanto testimoniai circa il programma nucleare siriano.
concentrato a mostrare i muscoli solo a fini terroristici e solo allo scopo di rendere più forte quel bacino. In ultima analisi, il suo target non è militare, il suo target sono e sempre sarà la popolazione, i civili.
Quarto, nell’ipotesi che io mi stia sbagliando e che l’Iran possa essere tenuto a bada, la minaccia atomica non si estingue. Perché quando otterrà la bomba, quasi sicuramente la vorranno: Arabia Saudita, Egitto, Turchia e forse anche altri paesi dell’area. Innestando una corsa agli armamenti senza precedenti. Infine, nel breve periodo - diciamo fra i cinque ed i dieci anni - il Medioriente potrebbe contare almeno una mezza dozzina di stati forniti di atomica. Che renderà sempre più incerto e instabile il panorama. Senza contare che se l’arsenale nucleare pakistano dovesse cadere nelle mani sbagliate (ipotesi tutt’altro che peregrina, specie se l’Afghanistan non verrà pacificato) l’intera situazione mediorientale dovrà essere riconsiderata. È pensando a tutto questo, a ogni conseguenza che deriverà dall’atomica iraniana, che bisognereb-
Ahmadinejad (cos’ come quella islamica) sia sempre più stretta ai cittadini del paese. Il punto è che c’è poco tempo. E un cambio di regime lo richiede. Mentre ne serve pochissimo a Teheran per raggiungere il suo scopo. Oltretutto, non bisogna dimenticare che non sempre imporre delle sanzioni è sufficien-
Usa-Ue: vent’anni di fallimenti L’errore? Aver regalato tempo al regime di Ahmadinejad te. Prendiamo la Corea del Nord: è praticamente lo stato più sanzionato del pianeta eppure non è stata fermata nella sua corsa all’atomica. Insomma: non bisogna farsi delle illusioni. Ma se la diplomazia ha fallito, così come le sanzioni, l’unica alternativa che resta nelle nostre mani non è la più felice. Anzi, il contrario. Perché prevede l’uso preventivo della forza per distruggere i siti sensibili.
Ho già scritto moltissimo su questa eventualità, ma vorrei tornare ancora su alcuni punti: 1) qualora Israele decidesse di usare la forza, questo non dovrà essere considerato un gesto sproporzionato, ma solo un atto di legittima difesa. Molti governi arabi sono già giunti alla stessa conclusione e potrebbero accettarlo. È però necessario che il Congresso americano ragioni adesso su questa eventualità, in modo da non essere spiazzato qualora dovesse accadere, ma bensì pronto a sostenere lo sforzo bellico. 2) Benché i paesi arabi siano costretti a tenere una posizione critica, non c’è dubbio che si sentirebbero rassicurati dall’uscita di scena della minaccia iraniana. Certo, non possono permettersi di scendere in campo in prima persona, ma se Israele gli to-
A prescindere dal fatto che l’Iran usi o meno il suo arsenale militare, il solo fatto che lo possegga stravolgerà gli equilibri regionali (e purtroppo non solo quelli) be fare di tutto per fermare Teheran. Le sanzioni economiche certamente possono contrastare e avere un ruolo determinante nel rallentare e ridimensionare le aspettative di Ahmadinejad. Senza contare che potrebbero indurre il crollo del regime. Non ci sono dubbi, infatti, sul fatto che la morsa di
gliesse ”le castagne dal fuoco” loro resterebbero a guardare. L’uso della forza è decisamente una opzione poco attraenete, ma finché l’unica vera e realistica carta nelle nostre mani è quella che presto diventerà un paese con la bomba, noi abbiamo il dovere di prenderla seriamente in considerazione. Per-
Tutto ciò avveniva nel periodo in cui l’amministrazione Bush veniva criticata di “politicizzare” l’intelligence, e di piegare le analisi dell’intelligence a conclusioni favorevoli alle posizioni politiche che erano già state prese. Nel mio caso, mi si criticava di aver ingigantito i rischi di un coinvolgimento siriano nella corsa agli armamenti nucleari,
sonalmente ritengo che l’Amministrazione Obama non userà mai la forza contro gli impianti nucleari della Repubblica islamica dell’Iran. Questo significa che la responsabilità della decisione cadrà tutta sulle spalle di Israele, che potrebbe decidere che la minaccia iraniana sia troppo forte per poterla accettare. Israele non ha mai permesso a nessuno, prima dello start up della centrale di Busher, di minacciare così da vicino la sua sicurezza nazionale. Ma se dovesse scegliere di non intervenire, dobbiamo cominciare a considerare tutte le implicazioni che comporterà un Iran atomico e pensare a come muoverci in un nuclearmente Medioriente, parlando, multipolare.
Infine, non bisogna affatto dimenticare la Siria. È la prima volta che parlo dei programmi di armi di distruzione di massa (Wmd) della Siria di fronte a questo comitato dal 16 settembre 2003, quando ero sottosegretario di Stato per il Controllo delle Armi e la Sicurezza Internazionale, e deposi in sessioni sia a porte chiuse che aperte. Vi ricorderete di quella deposizione perché suscitò un vespaio infernale ai tempi della mia riconferma ad ambasciatore
essenzialmente – secondo loro perché la Siria non aveva nè le risorse finanziare nè le capacità tecnologiche per impegnarsi in un programma atomico ampio o potenzialmente minaccioso. Il senatore Biden e altri chiesero di vedere non solo la mia deposizione, sia nella versione riservata che in quella non, ma anche le prime bozze e le email con reazioni e commenti alle bozze. Come è uso per il ramo esecutivo, l’amministrazione Bush si trattenne dal rovesciare questi documenti, nonostante ci fossero già discussioni su un possibi-
le compromesso quando il presidente decise di accordarmi un appuntamento privato. Ora posso affermare fiduciosamente, col senno di poi, che avrei voluto piuttosto rovesciare tutto il materiale in questione e che le notizie sul programma della Siria su cui avevo deposto avessero potuto essere rese pubbliche già nel 2003. Appena quattro anni più tardi, il 6 settembre 2007, con la di-
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Da sinistra: Obama, la centrale nucleare iraniana di Busher, pronta ad entrare in funzione, il siriano Al Assad, George W. Bush, i Guardiani della rivoluzione a Teheran, i cosiddetti Pasdaran. A sinistra: il fungo atomico di Hiroshima trattato al computer
struzione da parte di Israele del reattore nucleare siriano ad al Kibar costruito dalla Corea del Nord, sostanzialmente un clone del reattore coreano Yongbyon, cambiò drammaticamente il panorama sulla Siria e sugli armamenti nucleari.
Quello che scoprì Israele fu indiscutibilmente un reattore nucleare quasi sicuramente inteso per un unico scopo: produrre plutonio per armi nucleari, proprio come si faceva a Yongbyon. Ovviamente si trattava di una seria minaccia per Israele, che infatti ordinò alla sua difesa di distruggere, esattamente come fece con il reattore Osirak di Saddam Hussein, fuori Baghdad, nel 1981. Quello che non era chiaro nel 2007 – e che ancora oggi rimane non chiaro – è se stanno partendo altre attività nucleari in Siria e quali potrebbero essere i loro collegamenti con l’Iran e la Corea del
Nord. Il predominio dell’Iran su aspetti chiave della sicurezza nazionale della Siria e il rapporto della Siria con il Libano e il procuratore libanese dell’Iran, il gruppo terroristico Hezbollah, mi porta a credere che un giorno arriveremo alla conclusione che il reattore fosse una joint-venture a tre fra Iran, Corea del Nord e Siria. Dopo tutto, in base alle doppie critiche sulle mie preoccupazioni per il potenziale interesse della Siria agli armamenti nucleari – mancanza di tecnologia e mancanza di risorse – la Corea del Nord riuscirebbe sicuramente a sopperire alla prima lacuna e l’Iran alla seconda.
La possibilità che una struttura nucleare capace di sostenere le operazioni del reattore - produzione di carburante di uranio grezzo, impianti di fabbricazione di carburante, e impianti di ritrattamento per l’estrazione di plutonio dal carburante nucleare esausto, è una questione su cui gli Stati Uniti e l’Aiea devono continuare a indagare, con urgenza. Inoltre, sia l’Iran che la Corea del Nord hanno in comune un interesse fondamentale: nascondere le loro illecite attività nucleari
dagli indiscreti sguardi internazionali. Quale posto migliore per occultare queste attività se non un paese che nessuno stava osservando, ovvero la Siria? Nascondendo al Kibar alla Aiea e al resto del mondo (al di
Teheran non esitò a usare la violenza contro la popolazione per rimanere al potere dopo le fraudolente elezioni presidenziali del luglio 2009, adesso numerosissime testimonianze raccontano che le Guardie Rivoluzionarie Iraniane collaboravano con Assad per sopprimere l’insurrezione in Siria. L’Iran ha interessi strategici chiari e importanti per tenere al potere Assad, non ultimo il mantenimento dell’egemonia sulla Siria e dell’accesso senza restrizioni a Hezbollah e in Libano.Tuttavia possono anche esistere altre ragioni per un visibile coinvolgimento dell’Iran nella soppressione del movimento dissidente siriano, che riguardano la salvaguardia del programma nucleare dell’Iran e qualsiasi altra attività che la Siria po-
Spero che un giorno non si debba concludere che questa America, così debole, abbia lavorato per rendere il mondo un posto più sicuro per la proliferazione nucleare fuori dei servizi segreti israeliani), la Siria ha – dopo il bombardamento israeliano del 2007 – sostanzialmente rifiutato qualsiasi cooperazione significativa con l’Agenzia atomica e con qualsiasi altra organizza-
Gheddafi. È inoltre possibile che l’attività nucleare in Siria rappresenti in effetti un programma nucleare autonomo, indipendente dal controllo dell’Iran, per quanto possa essere improbabile. Se così fosse, data l’influenza dell’Iran sulle politiche siriane, qualsiasi capacità nucleare della Siria costituirebbe semplicemente un ulteriore incentivo per altri stati arabi a sviluppare proprie capacità di armamenti nucleari. Considerando poi i confini della Siria con Israele, è evidente che non ci sono buone notizie per Gerusalemme qualsiasi sia la spiegazione per il coinvolgimento nucleare della Siria.
La proliferazione nucleare in Medioriente pone enormi rischi per gli Stati Uniti, i suoi alleati ed i suoi amici. Abbiamo sprecato fin troppo tempo – circa vent’anni – nel tentativo
Obama, appoggia Israele Gerusalemme potrebbe decidere di usare la forza zione internazionale per rispondere a quesiti sul reattore colpito o su altre attività in corso. Allo stesso modo, la Siria recentemente è stata convocata dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu, anche se non credo proprio che il Consiglio affronterà la Siria in maniera più efficace di quanto non abbia fatto con l’Iran quando l’Aiea gli sottopose un simile caso nel 2006.
Come in altri esempi di “Primavera Araba”, il partito del regime autoritario Ba’ath, che ha a lungo controllato la Siria, ha ricevuto una forte opposizione. E come da consuetudine di famiglia, il presidente Bashir al-Assad e il suo governo hanno fatto ricorso alla repressione, ripetutamente, usando la forza contro i manifestanti. Quello che distingue il governo siriano dalle altre forme di repressione in atto, è la quasi certezza che l’Iran stia facendo il possibile per mantenere il regime di Assad al potere. Così come
trebbe avviare. Se così fosse, la posta in gioco per l’Iran in Siria sarebbe molto alta.
Negli Stati Uniti, molti osservatori si sono chiesti perché l’amministrazione Obama sia stata pronta a intervenire in Libia in nome dell’intervento umanitario, ma non in Siria. Secondo alcuni l’amministrazione Obama è ancora aggrappata all’erronea idea che Assad sia davvero un riformatore e possa essere ancora persuaso a moderare il comportamento del suo regime. Questo potrebbe essere parte del ragionamento, ma secondo me l’amministrazione crede anche – giustamente – che usare la forza contro il regime di Assad equivarrebbe ad usare la forza contro l’Iran, il che potrebbe generare un conflitto ancora più ampio. Qualsiasi sia la logica, un intervento militare Usa o Nato in Siria sembra improbabile. Anzi, le nostre politiche incoerenti e inefficaci in Libia hanno prodotto un’insolita coalizione nel Congresso anche contro il rovesciamento di
di “impegnare”l’Iran diplomaticamente, invano. L’unico effetto della nostra diplomazia, e di quella europea, è che abbiamo regalato all’Iran legittimità e tempo, che l’Iran ha sfruttato per compiere forti progressi verso la realizzazione di capacità di produzione di armamenti nucleari. Le nostre attuali opzioni per evitare un rischio simile – un rovesciamento del regime o l’uso della forza contro i siti nucleari dell’Iran – sono poco allettanti, difficili e incerte. Purtroppo, avendo perseguito politiche mal concepite così a lungo, siamo ora responsabili dell’impiccio in cui ci troviamo. Possiamo però ancora evitare che l’Iran – o i suoi surrogati come la Siria – dispongano di armi nucleari, ma il tempo che abbiamo a disposizione è sempre più limitato. Non ci resta che sperare che, fra qualche anno, non dovremo guardarci indietro e concludere che questi sono stati gli anni in cui l’America, con il suo fallimento, ha reso il mondo un posto sicuro per la proliferazione nucleare.
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Prima di lui, la regnante britannica ebbe modo di vedersi con i nostri Gronchi, Pertini, Cossiga, Ciampi e poi anche Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II
Il «re» e la regina Il presidente della Repubblica Napolitano ha incontrato ieri mattina a Buckingham Palace la sovrana Elisabetta di Maurizio Stefanini lisabetta II è una regina: una decana non solo dei monarchi, ma dei capi di Stato d’Europa e del mondo in genere. Quando nel 1952 salì sul trono, l’Impero Britannico si estendeva ancora su gran parte del mondo, anche se aveva appena perso il suo grande cuore indiano. E in Italia era presidente del Consiglio Alcide de Gasperi e presidente della Repubblica Luigi Einaudi: quell’Einaudi su cui una famosa vignetta di Giovanni Mosca ricordava che «monarchico, governò da re; e fu il migliore dei presidenti italiani». Giorgio Napolitano era segretario del Pci di Napoli e Caserta, ma non sarebbe diventato deputato che l’anno dopo. E ora è Presidente della Repubblica: il decimo che si succede al Quirinale da quando Elisabetta viene incoronata. Con metà di questi, ha avuto occasione di incontrarsi.
E
Dopo che nel 1951 era già venuta a Roma da principessa, Elisabetta II da regina fu infatti a Roma nel maggio del 1961, ospite di Giovanni Gronchi e si vide con Giovanni XXIII. Poi nell’ottobre del 1980, accolta da Giovanni Pertini e Giovanni Paolo II. Nel 1990 fu Cossiga a venire a Londra. Con un ritardo, perché la visita a lungo preparata era sta rimandata per via di una crisi di governo dovuta alla tassazione dei bot. Nell’ottobre 2000 Elisabetta tornò a Roma, vedendo Carlo Azeglio Ciampi e di nuovo Giovanni Paolo II. E nel marzo del 2005 Ciampi ricambiò con un viaggio a Londra. Curiosamente, tra i cinque che Elisabetta non ha visto non c’è stato proprio Einaudi: tanto in sintonia con la cultura anglo-sassone, da essere corrispondente dell’Economist. E neanche Giovanni Leone, che a parte le polemiche e gli scandali per i quali peraltro gli avrebbero chiesto
poi scusa e malgrado un certo colore napoletano è stato forrse con lo stesso Einaudi, e col Cossiga della prima parte del suo mandato, il più vicino possibile a quell’immagine del Presidente come “Re co-
appunto secondo quel modello della Monarchia britannica, che faceva già nel ‘700 scrivere a Voltaire che si trattava di una “monarchia repubblicana”: “una repubblica senza averne il nome”.
Al centro del colloquio di ieri, le celebrazioni per il 150esimo dell’Unità d’Italia, il Giubileo del Regno Unito, Kate&Will
In modo allo stesso tempo contrario, speculare e convergente, la Repubblica Italiana fu invece definita da Giovanni Artieri «la Repubblica del Regno d’Italia». Appunto per il modo in cui l’esempio del monarchico Einaudi aveva cercato di smussare la maggio parte dei possibili spigoli nella transizione. Ma si sa che non tutti i presidenti sono stati come Einaudi, e curiosamente Elisabetta ha finito per incontrarsi con alcuni di quelli meno limitatisi a fare da custodi delle istituzioni, e più tentati, magari per necessità del momento, da un ruolo forte di tipo presidenzialista. O da re costituzionale, ma di monarchia costituzionale pura e non parlamentare. L’irrequieto Gronchi, divenuto capo dello stato con i voti dell’opposizione e regista consapevole dei nuovi esperimenti di maggioranza che si tentarono dopo il fallimento della legge maggioritaria del 1953. Il populista, anche simpaticamente, Pertini. Il picconatore Cossiga. Il restauratore della festa del 2 giugno e dell’Inno di Mameli Ciampi. Insomma, curiosamente è con l’ex-comunista Napolitano, che nel corso di questa visita a Londra Elisabetta si incontra con un capo di Stato italiano a sua volta presidente-re costituzionale parlamentare. La regina Elisabetta e re Giorgio: anzi, “re Umberto”, come lo hanno sempre chiamato anche nel Pci. Gianpaolo Pansa in patrticolare si proclamava ai tempi del Pci un fervido sostenitore del migliorismo del
stituzionale” della Repubblica, custode delle istituzioni e simbolo dell’unità nazionale
In queste pagine: un’immagine di Buckingham Palace; uno scatto dell’incontro di ieri tra il nostro presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e la regina Elisabetta; una foto del recente matrimonio tra Kate e il principe William
Re Umberto, proponendolo come leader dopo Berliguer.
Sarebbe stata probabilmente una storia d’Italia migliore, se gli avessero dato retta. Il dato curioso è che a un Liceo Umberto di Napoli Giorgio Napolitano ci ha studiato davvero. Umberto I, ovviaente. Ma quel particolare ovviamente non spiega il siprannome, visto che in quell’istituto ci è passata gran parte della Napoli che conta. E neanche, ovviamente, si poteva prevedere quel ruolo di sussiegoso guardiano delle istituzioni che Napolitano avrebbe poi avuto una volta arrivato al Quirinale, anche se comunque riuscire a gestire da presidente la Camera dei Deputati durante il biennio terribile della fine della prima repubblica tra 1992 e 1994 senza rovinarsi la reputazione ma anzi facendosela, in qualche modo corrisponde al profilo. Potrebbe essere in effetti constestabile l’asserire che Umberto II possa davvero essere considerato un suo modello. Insubbiamente, da Luogotente e poi da brevissimo “Re di Maggio” l’ultimo So-
vrano d’Italia diede una prova di equlibrio tale, da far rimpiangere as molti la sua dipartita per l’esilio come un’occasione perdita. Ma da principe ereditario non è che avesse fatto una gran figura: tra scappatelle varie, malignità su una sua presunta omosessualità, pianti appresso alla cantante Milly e la rinuncia a rimanere l’8 settembre a rimanere a difendere Roma per via dei pianti della mamma Regina Elena, «No Beppo!», così lo chiamava. «Se rimani ti ammazzano! Il tuo divere è di stare vicino alla tua mamma!». E anche dopo la sconfitta al referendum il suo denunciare brogli, non riconoscered la sconfitta e andarsene via stizzito non fu una grande lezione di stile. In qualche modo, Umberto II era una di quelle personalità che hanno bisogno di un’investitura per dare il meglio di sé, cominciò a brillare diventato Luogotenente, e cessò quando gli dissero che non era più il re. Però indubbiamente aveva un gran fisico per il ruolo e anche dei modi assolutamente adeguati. Il soprannome di Re Umberto p venuto a Napolitano proprio
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29 giugno 2011 • pagina 15
pelli che porta spazzolati in alto gli lasciano libera la faccia. [...] Ha un modo di esprimersi rapido e brusco. [...] Ha parlato anche dei cavalli, per i quali nutre una grande passione e dei quali è un grande intenditore. [...] Mi sono subito intesa con il re; così semplice e franco, così perspicace, giudizioso e assennato sulle questioni politiche, ma singolarmente schietto e rude nell’esprimersi».
adottandolo come Savoia a honorem.
Vogliamo anche
per una sorprendente somiglianza e per quei modi. Qualcuno ha parlato di “figlio illegittimo”: ma è uno scherzo, tipo l’altro che voleva la gronta di Craxi provenire dai cromosomi di Mussolini.
Dopo di che, come a Umberto II però anche a “Re Umberto” Giorgio Napolitano le investiture ufficiali devono avere un effetto tonificante. Già segnalatosi da dirigente del Pci al tempo della Rivoluzione Ungherese per qualcghe
battuta che lui stesso ha ritenuto opportuno emendare, tuttavia da Presidente della Camera, Ministro dell’Interno e Presidente della Repubblica ha del tutto fatto dimenticare ogni possibile critica per il suo passato. E soprattutto da Presidente per i 150 anni dell’Unità Nazionale, ha avuto effettivamente un ruolo ed ha pronunciato un certo tipo di discorsi che effettivamente anche il padre della patria Vittorio Emanuele II avrebbe potuto rivendicare alla dinastia,
dire che è più Savoia di un Savoia? Effettivamente, lo stesso Vittorio Emanuele II ancora re di Sardegna e non d’Italia quando a fine del 1855 si recò in visita a Londra per attirare le simpatie della Regina Vittoria sulla causa italiana e forse anche per trovarsi una nuova moglie, non è che ci fece una figura troppo regale. Stralciamo dai diari della stessa Regina Vittoria. «30 novembre 1855, [...] Il re ha un aspetto molto strano: non molto alto, ma corporatura massiccia, con occhi azzurri molto sporgenti, occhi che fa roteare ne modo più incredibile quando è imbarazzato, compiaciuto o colpito da qualcosa. Ha un naso completamente rivolto all’insù e la mascella e il labbro inferiore sporgenti. Ha i baffi che curiosamente si ricongiungono ai favoriti, e i ca-
«1 dicembre. Il re è stato molto piacevole e divertente, dimostra grande decisione, ma parla senza alcuna reticenza. Finora sono riuscita a contenerlo e distoglierlo da argomenti scabrosi. Ha fatto le lodi dell’imperatore [Napoleone III, ndr], ma ritiene pessimo il suo entourage, considerandosi molto fortunato ad avere attorno a sé uomini tanto degni quali i suoi ministri, tutti di specchiata onestà. [..] Il re a cavallo sembra un essere selvaggio, come in tutto il re-
Curiosamente, tra i capi di stato che Elisabetta non ha mai visto né in Italia né in Inghilterra, Luigi Einaudi e Giovanni Leone sto. Mi sono abituata ai suoi modi strani e rozzi e ai suoi occhi che ruotano furiosamente. [...] è un grande appassionato di sport, ha una muta di bracchi neri e cavalca un destriero nero, vestito con una giacca di velluto nero con fascia alla vita e un cappello a punta ornato di pelle di gallo! È proprio un eccentrico, di tipo no canny [non sofisticato, trad.], come direbbero gli Scozzesi. Preferisce cenare da solo e fa delle
cene più importanti solo quando vi è costretto “dans les grandes circonstances”».
«Se non fosse riuscito a fare egli stesso una guerra, si domandava cosa ne sarebbe stato di lui. “C’est le suele chose que j’ai apprise à faire, je n’aime pas le métier de Roi, donc si je ne puis pas faire la guerre, je me ferai moine”. lo disse in tono di disperazione, con quel singolare vocione e con quegli occhi roteanti. Pover’uomo! Penso che sia infelice e molto da compiangere. Più che un re dei giorni nostri assomiglia a un cavaliere medievale che vive della sua spada». «3 dicembre: è molto timido, non è mai uscito dal suo paese, ed è pochissimo abituato alla vita di società. Perciò non sa che dire alla gente e Alberto lo deve aiutare sostenendo la conversazione». E meno male che la regina non seppe delle vanteria di Vittorio al ritorno, che aveva dovuto faticare per sottrarsi alla spietata corte delle principesse! Impagabile anche il racconto che i testimoni fecero di quando a Vittorio Emanuele II diedero l’ordine della giarrettiera, che come spiega lo stesso nome va allacciata attorno a una gamba. Prima sollevò l’una, poi l’altra, poi chiese: «quale delle due?». Mentre Vittoria e il marito a momenti ci rimanevano secchi nello sforzo per trattenere le risate. N é s c h e r z a v a Mussolini. Che quando venne in visita a Londra a i giornalisti assediavano davanti al suo albergo mandò un portavoce a dire. «Il Duce non vuole essere disturbato. È molto stanco, sta a letto, e probabilmente sta facendo l’amore con una bella ragazza». Ogni volta che racconta quella storia Denis Mack Smith freme ancora dall’indignazione. «Ma insomma! Queste cose nell’Inghilterra puritana di allora non si dovevano dire!». Figuriamoci se Elisabetta II si fosse trovata alle prese con Vittorio Emanuele II o con Mussolini! Insomma, alla fine forse davvero Giorgio Napolitano è il più regale di tutti.
ULTIMAPAGINA
L’azienda di Mountain View annuncia il varo dell’“auto che si guida da sola”: presto circolerà in Nevada
Google ce l’ha fatta, è nata di Francesco Lo Dico u a metà degli anni 80 che la Pontiac Firebird Trans Am entrò nelle nostre fantasie di guidatori di triciclo. E fu allora che capimmo quanto la vecchia scassona di papà assomigliasse pochissimo a Kitt. Non veniva a prenderci a scuola dopo aver fatto a botte con qualche bullo, il Turbo Boost la spingeva massimo a 90 chilometri all’ora (di quinta, in discesa, e dopo un’accelerazione di circa un’ora e venti) e soprattutto non ci rivolgeva mai la parola. Semmai provavamo ad avviarci una conversazione, l’unica voce umana che interagiva con la nostra, era sempre la stessa: «Con chi parli? Imbecille!». La voce di papà. Eppure, dopo trent’anni, immaginarsi alla guida di Supercar nei panni del bagnino di Baywatch non è più così adolescenziale. L’auto che si guida da sola è praticamente pronta, e presto la vedremo sfrecciare per le strade del Nevada.
F
In termine tecnico, l’automobile del futuro si chiama driverless-car, ossia “macchina senza guidatore”. Combina la robotica più avanzata alla tecnologia sensoriale ed è finanziata da Google, che l’ha rodata per più di mille miglia percorse sulle strade della California. Appena l’anno scorso, il New York Times riferiva che «più di 1500 km sono stati percorsi senza nessun intervento umano e oltre 220mila con interventi occasionali. Una delle auto è addirittura scesa giù per Lombard Street a San Francisco, una delle strade più ripide e piene di curve dell’intera nazione. Gli ingegneri dicono che l’unico incidente si è verificato quando una delle macchine è stata tamponata mentre era ferma a un semaforo». Risultati molto soddisfacenti, a quanto pare, tant’è che l’azienda di Mountain View è pronta a metterla in pista, e i legislatori del “Silver State” hanno già varato il disegno di legge (Assembly Bill 511) che incarica il dipartimento dei trasporti locale di codificare le norme che regoleranno la circolazione dei nuovi veicoli, e determineranno inoltre gli standard di sicurezza, i requisiti d’assicurazione e i test necessari affinché l’auto magica non faccia venire un coccolone all’agente che dovesse sventolarle la paletta. Ma BigG ha affidato al politico David Goldwater il compito di far approvare una legge, ma anche un emendamento. Non solo l’omologazione e l’uso delle self-driving car in Nevada, dunque ma anche una licenza
particolare per i conducenti: saranno autorizzati a spedire sms liberamente, dal posto di guida, senza che nessun vigile urbano possa mettere becco. Ma come funziona l’arcano semovente? Un po’ come Kitt, in fondo. Grazie a un sistema di intelligenza artificiale. Lo stesso che, in modo assai fantasioso, riusciva a compensare benissimo quella che mancava a Michael Knight. Sensori e gps presiedono al tra-
le auto di crearsi una mappa a tre dimensioni della strada, consentendo di regolare velocità e direzione in funzione dei dati acquisiti in tempo reale. E siccome dietro ogni buon plot di fantascienza, c’è sempre un inventore folle ma carismatico, è venuto il momento di parlare dell’ingegnere responsabile del progetto. Si chiama Sebastian Thrun, ed è professore di robotica a Stanford, dove dirige l’Artificial Intel-
SUPERCAR ligence Laboratory. Ed è anche uno dei maggiori artefici delle mirabilia di Street View, l’applicazione Google che ci permette di percorrere tutte le strade del mondo con un clic del mouse. Del team fanno parte quindici ingegneri di Mountain View, e tra le macchine che sono state usate per le prove techiche figurano sei Toyota Prius e una Audi TT.Thrun si è appassionato alla Supercar perché sogna un mondo dove non esistano più gli incidenti d’auto.
In termine tecnico, l’automobile del futuro si chiama “driverless-car”. Combina la robotica più avanzata alla tecnologia sensoriale ed è finanziata da BigG, che l’ha testata con successo in California gitto da percorrere, interfacciate a laser, radar e telecamere che evitano tamponamenti, dispongono curve omogenee, regolano la velocità, le marce e lo stop and go al semaforo.
In particolare, i vari radar disseminati sul paraurti anteriore e posteriore permettono al-
Il prof sostiene che, statistiche alla mano, quasi tutti gli incidenti sono provocati da errori umani piuttosto che da guasti meccanici. E che dunque, un cervello robotico alla guida sarà in grado di ridurre sensibilmente i mille rischi che corriamo ogni giorno a bordo della nostra auto. In prospettiva, le Supercar permetterebbero di inoltre di limitare i consumi e promuovere il car sharing, con l’effetto più ampio di ridurre il numero di veicoli circolanti sulle strade. I passi da gigante mossi dalle macchine di Mountain View, hanno già scatenato anche l’interesse del Vecchio Continente. Allo studio di Volkswagen e Bmw, sono già al vaglio progetti atti a popolare presto l’Europa di driverless-car. Dopo trent’anni di spasmodica attesa, di fole infantili e tentativi d’imitazione nel segreto del garage, l’ora è dunque scoccata. Stiamo per sfrattare quel bambacione di David Husseldorf dal posto di guida. Che se ne vada a salvare bagnanti. Kitt è cosa nostra.