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Raramente il cielo fa nascere insieme l’uomo che vuole e l’uomo che può François-René De Chateaubriand
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di Ferdinando Adornato
QUOTIDIANO • GIOVEDÌ 30 GIUGNO 2011
DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK
Oggi il Cdm decide la manovra. E per paura dell’anti-politica, quasi tutti evitano di porsi una domanda importante
Una politica solo per ricchi? È giusto tagliare, ma c’è qualcosa che nessuno ha il coraggio di dire Auto blu, stipendi e spese di rappresentanza: su questo è sacrosanto agire. Ma sui finanziamenti ai partiti bisogna stare attenti: non si può trasformare la democrazia in un esclusivo club di milionari L’INTERVENTO
Un’altra giornata di confusione per il governo
Irresponsabili. Il vero rischio per l’Italia è oggi, non nel 2014
Napolitano: «Sorpreso dal rinvio al 2013». Maggioranza in tilt battuta alla Camera Congelata la comunitaria. Berlusconi striglia gli assenti: «Inaccettabile». E Reviglio il maestro dice al discepolo: «Giulio, stai sbagliando tutto»
di Lorenzo Cesa na manovra balneare fatta da un governo balneare. Non si può definire altrimenti il provvedimento che verrà licenziato nelle prossime ore dal governo, almeno a sentire le prime anticipazioni sui suoi contenuti. Finora infatti, è bene chiarirlo, stiamo ragionando su qualcosa che ancora non c’è. Quel poco che sappiamo di questa manovra ci basta però a capirne con chiarezza l’impostazione, la stessa che ha contraddistinto l’azione di questo governo in tre anni di legislatura: un intervento, cosi si potrebbe semplificare, che ha poco di economico e molto di politico. Una manovra irresponsabile, che contrasta con qualsiasi logica economica, perché fondata su una scelta politica scorretta, egoista e di comodo: rimandare gran parte degli interventi al 2013. a pagina 5
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Parla Savino Pezzotta
«Il pericolo è tornare a un impegno per pochi» «Il censo non è più da almeno due secoli una discriminante per chi vuole dedicarsi al bene comune. Tremonti l’ha riesumato» Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 3
I manifestanti chiedono di cambiare tutto, non solo il presidente
di Francesco Lo Dico
ROMA. Lo stato confusionale di una maggioranza sempre più allo sbando, finita sotto sull’articolo 1 della legge comunitaria, e quindi costretta a ritirare una normativa che doveva recepire le importanti indicazioni dell’Unione europea, la dice lunga sul tipo di clima che spira oggi sul Consiglio dei ministri chiamato ad approvare la manovra economica. Fabrizio Cicchitto minimizza il disastro che ieri ha visto l’opposizione prevalere con 270 voti su una maggioranza che ha registrato molte assenze. a pagina 4
I fondamentalisti si preparano alle elezioni
Circa 1000 feriti negli scontri al Cairo. Tantawi nel mirino
E nel Paese riappare lo spettro dei partiti islamici
di Antonio Picasso
di Amani Maged
L’Egitto torna in piazza a cronaca degli scontri di piazza Tahrir, in Egitto, è la conferma delle previsioni più nere. Centinaia di arrestati e altrettanti feriti. In realtà, il bilancio è approssimativo. Al-Arabyia parla di 600 feriti. Il ministero della sanità del Cairo, inizialmente, riduce la cifra a duecento. Poi, nel tardo pomeriggio, ammette il coinvolgimento di ben un migliaio di persone. Il dato non è confortante. Dal 9 aprile l’Egitto risultava fuori dal quadrante delle sommosse. Le violenze sono scoppiate martedì, dopo la decisione della giunta militare di rinviare le elezioni di tre mesi,
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quando erano in agenda a settembre. Il pretesto ufficiale va cercato nell’operazione di dispersione della piccola folla che, proprio in piazza Tahrir, si è assiepata nuovamente. «Si è tornati indietro di cinque mesi», scrive il quotidiano cairota Masri alHayun. In realtà, sarebbero appena cinquemila i manifestanti scesi in piazza. Un quinto di loro già feriti. Nella giornata di ieri, l’impennata di tensioni. Il cuore della rivoluzione contro Mubarak, a febbraio, si è trasformato nel nucleo di una protesta che vuole e deve andare avanti. a pagina 12
gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00
I QUADERNI)
• ANNO XVI •
NUMERO
125 •
irca 15 anni fa, una fazione dei Fratelli Musulmani si separò dall’organizzazione madre, con l’obiettivo di fondare un partito politico. La loro mossa, e il conflitto di 10 anni e mezzo che ne conseguì per costituire il partito Wasat (Centro), scatenarono un acceso dibattito sulla natura e la linea di una formazione politica inserita in una cornice islamica. Poco dopo la caduta di Hosni Mubarak il partito finalmente è stato legalmente riconosciuto. La notizia si è diffusa in tutto il paese, e non solo perché si trattava del primo partito costituitosi nell’era post-Mubarak. a pagina 13
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• CHIUSO
IN REDAZIONE ALLE ORE
19.30
il fatto Sull’assegno di fine mandato è in arrivo un ordine del giorno del Pd, dopo la proposta annunciata da Tremonti con la manovra
Le forbici della democrazia
Gli eccessi nel tagliare i fondi ai partiti favoriscono una selezione degli eletti fatta sul censo. «Privilegi? Ce n’erano di più negli anni 60», dice Campi di Errico Novi
ROMA. Tornerà? Non è detto. La proposta Tremonti sui vitalizi non è la prima in materia, non sarà l’ultima. E come altre simili, potrebbe limitarsi alla breve esistenza vissuta nello scorso fine settimana, quando il conflitto tra il ministro e il resto della maggioranza sembrava deflagrare. Una cosa però è certa: l’impulso ad assumere provvedimenti punitivi per la politica, per i parlamentari soprattutto, resta, sopravvive eccome. C’è un ordine del giorno in arrivo dal Pd con Bersani primo firmatario che potrebbe essere calendarizzato già lunedì prossimo, quando il presidente della Camera Fini esaminerà con i deputati questori uno studio comparativo sui vitalizi. A quel punto, l’abolizione dell’assegno per i parlamentari cessati dal mandato potrebbe diventare argomento vero di dibattito. Eppure l’abolizione sarebbe una forzatura, giacché nello studio realizzato da Montecitorio emerge che sì, i vitalizi in Italia sono un po’ più alti, ma che ci sono dappertutto. Persino in Germania, dove si maturano senza nemmeno versare contributi. In Italia, invece i contributi si versano eccome. Il che peraltro rende giuridicamente impervio pensare a una cancellazione tout court dell’istituto: bisognerebbe quantomeno restituire i versamenti a onorevoli e senatori, tutti in una volta. Roba da brividi, per le casse del Parlamento.
LE COSE GIUSTE L’adeguamento degli stipendi su base europea
Il tetto ai gettoni per chi ricopre cariche elettive
Limitare l’uso delle auto blu
Stop ai doppi compensi
LE COSE IN DUBBIO Taglio ai rimborsi elettorali
L’abolizione dei vitalizi per i parlamentari
In questo modo si rischia di dare accesso alla politica soltanto a coloro che hanno denaro proprio, eliminando del tutto i partiti in quanto tali. Il meccanismo del rimborso è stato pensato e messo in pratica proprio perché esso è trasparente e sotto gli occhi di tutti: il sistema delle lobby è sì un’alternativa: ma rischia di trasformare i politici in persone impegnate ad aiutare soltanto alcuni e non tutti
Se non si riconosce a un politico in carica un vitalizio, e quindi non lo si mette in grado di percepire una pensione a fine mandato, si discrimina chi sceglie di abbandonare la propria professione per il bene pubblico. Inoltre lo si discrimina perché non gli si riconosce alcuna attività produttiva. Infine si corre il rischio di vedere la sua attività rivolta anche (se non soprattutto) alla ricerca di benefici personali
Comunque l’impulso resta. Difficile domarlo. E i partiti se ne lasciano prontamente sopraffare, convinti che cavalcare l’onda dell’antipolitica sia come il surf per i californiani: se ci sai fare non vieni travolto. Nella frenesia si perdono per strada magari i principi di realtà. «Comparare i privilegi di cui godono i parlamentari oggi con quelli di un tempo susciterebbe qualche sorpresa», fa notare per esempio un politologo come Alessandro Campi. «Negli anni ’50-’60 davvero si poteva parlare di una casta di privilegiati: c’erano i viaggi gratis per tutta la famiglia, per esempio. Il punto è che allora nessuno criticava queste cose perché agli occhi dell’opinione pubblica i politici assolvevano un servizio. Godevano di una legittimazione diffusa. C’era soprattutto una fiducia nel ruolo, nella funzione dei partiti». Così nessuno si sarebbe sognato di dedicare tanta attenzione ai benefit per deputati, compresi quelli riconosciuti a mandato concluso. Il vero nodo da sciogliere è evidentemente un altro. Come dice Campi, riguarda la percezione che si ha della politica. E, si potrebbe aggiungere, il grado di coinvolgimento, di empatia tra i cittadini e chi li rappresenta. Ritorna in primo piano cioè la questione del distacco tra società e politica provocato soprattutto dalla fine dei grandi partiti di massa. «Ma senza inoltrarci in una discussione così impegnativa, che meriterebbe di essere
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30 giugno 2011 • pagina 3
l’intervista
«Nessuno denuncia il rischio plutocrazia» Per Savino Pezzotta «con le proposte del ministro chi ha i soldi può governare. Gli altri no» di Vincenzo Faccioli Pintozzi l pericolo insito nella bozza di manovra finanziaria presentata dal ministero dell’Economia «è un ritorno alla plutocrazia, in cui soltanto i ricchi possono fare politica. E allora chi ci dice che non si tornerà anche a un elettorato diviso per censo, dove soltanto chi ha un determinato reddito può votare?». Quella di Savino Pezzotta - sindacalista di lungo corso, deputato dell’Udc e presidente della Costituente di Centro è ovviamente un’iperbole. Ma la politica e i suoi costi rivisti dalle lenti del ministro Giulio Tremonti offrono uno spunto interessante per parlare, senza demagogie dell’ultima ora, dei costi della politica.
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E domandarsi se una manovra fiscale - soprattutto in una situazione di incertezza dei mercati e dell’economia internazionale come quella in corso - possa essere approvata senza criteri di equità e di giustizia sociale. Interrogato da liberal sulla possibilità di eliminare i vitalizi dei deputati, l’onorevole Pezzotta spiega con sincerità: «Io credo che in una fase in cui tutti sono chiamati a fare dei sacrifici è giusto che vengano chiamati a farli anche i politici. Non posso chiedere alle persone di tirare la cinghia e io far finta di nulla». Questo primo punto, sacrosanto, «deve però essere necessariamente accompagnato da una puntualizzazione. I benefits in Italia non lungamente approfondita, è chiaro che oggi si ragiona di costi della politica in un clima astioso. Qualunque critica sembra sempre condivisibile, ai più, perché è crollata in realtà la fiducia nel sistema politico», dice il professore dell’università di Perugia, «in particolare è venuta meno la fiducia dei partiti. Eppure parliamo delle sole forme tuttora conosciute di fare politica».
Peraltro la spirale dell’antipolitica è una specie di creatura insaziabile. Nel senso che, come ricorda ancora Campi, «negli ultimi anni c’è stata una significativa riduzione dei costi del Parlamento. Se si vanno a guardare le spese sostenute da entrambe le camere si scopre che di tagli ce ne sono stati, molti benefit per gli stessi ex parlamentari sono già stati aboliti. Paradossalmente i politici sono messi sotto tiro proprio ora che i privilegi sono assai diminuiti rispetto al passato». Se non ci fosse un simile pregiudizio, dunque, sarebbe chiaro che «non si tratta di privilegi anacronistici, ma del giusto compenso che la democrazia deve concedere a chi si occupa della cosa pubblica in nome di tutti». Invece adesso «sembrano
li hanno solo i politici ma anche molte altre categorie: e ad essere sincero non ritengo scandaloso che esistano anche in altri campi. Quindi, quando qualcuno dice che bisogna intervenire su certe cose, deve essere prudente: alcune misure, alcuni tagli sono giustificati: altri no. Andrebbe riguardato nel complesso il sistema dei benefici, e non parlo soltanto di cose pratiche, concesso a molte categorie di lavoratori e di li-
«Dobbiamo tornare a parlare dei costi della politica senza demagogia. I tagli sono possibili, ma vanno fatti con equità» beri professionisti, non soltanto ai politici e ai deputati».
Ma rientrando nello specifico, l’onorevole Pezzotta ritiene che «per la politica, se si vuole togliere il vitalizio io personalmente non ho problemi. Ma facciamo l’esempio di un giovane di prima elezione: se gli tolgo il vitalizio gli riconosco una sorta di copertura previdenziale per il periodo in cui svolge questa attività, o no? Perché se questo non avviene, diventa un discriminato rispetto agli altri. E non parlo degli altri deputati, parlo proprio di
troppi 10mila euro, ma non è che se poi passi a 7mila cambia qualcosa: sembreranno troppi anche quelli». La spirale, appunto. «Anche una lira sarà vista come una lira sprecata. Nel dibattito che si diffonde da anni non si discute di quanto valga il servizio svolto dai parlamentari. Non è che si dice “quel servizio vale 10mila euro”oppure che vale meno. Di fatto si sostiene che quel servizio non vale proprio niente».
E in ogni caso quanto è stato fatto non è arrivato all’opinione pubblica. «Che alcuni privilegi possano risultare offensivi rispetto alla condizione delle persone normali, e che quindi debbano essere rivisti, non c’è dubbio. Soprattutto in una fase di crisi. Ma il punto», continua Campi, «è che quanto fatto soprattutto in queste due ultime legislature non è “passato”per nulla. A questo oltretutto corrisponde la scarsa consapevolezza di come l’esplosione degli sprechi sia avvenuta piuttosto in periferia, è lì che sono stati mollati gli ormeggi. Il processo di decentramento dei poteri non è indolore dal punto di vista dei costi. Si è
tutti coloro che lavorano: perché il sistema pensionistico impone giustamente dei contributi annuali da tutti? Perché chi lavora deve avere accesso a una pensione».
renza nella politica senza renderla dipendente dai poteri economici. Che, viste anche le ultime intercettazioni, già operano nell’ombra».
Certo, aggiunge ancora, «esistono Il pericolo, però, colpisce l’intero delle distonie nel sistema che vanno sistema politico: «Se tolgo del tutto le integrazioni, è ancora possibile per coloro che non hanno soldi propri fare politica? È vero che abbiamo uno stipendio buono, che si può ridurre ma non eliminare. Quando ragioneremo su quanto costa fare il politico? Parlo di un insieme di cose che non sono soltanto affitti e collaboratori. Dobbiamo ragionare su come ridurre i costi, senza eliminare del tutto gli indennizzi. Altrimenti andiamo verso una plutocrazia, in cui solo i ricchi possono fare politica e solo chi ha un certo ceto può votare. A tutti deve essere consentito di fare politica, che costa». Discorso simile anche per la questione del rimborso elettorale, un taglio che Tremonti propone armato di scure ma che, per l’onorevole Pezzotta, porta con sé un rischio: «Sul finanziamento pubblico ai partiti, ritengo che il problema sia quello di decidere se vogliamo un sistema trasparente, oppure se preferiamo un mondo in cui le lobby condizionano la politica. Il finanziamento pubblico dei partiti non è stato pensato come una regalia: serviva a consentire il massimo della traspa-
davvero fuori strada se si pensa che il tumore del sistema è il Parlamento».
È curioso che a impegnarsi con più decisione nella campagna per abolire i vitalizi parlamentari sia (Tremonti a parte) il maggiore partito della sinistra, il Pd. È curioso perché la sinistra più di tutti dovrebbe avere a cuore il principio per cui la politica non può diventare un privilegio per ricchi. Cosa che invece avverrebbe con la cancellazione di alcuni istituti, a cominciare dall’assegno per gli ex parlamentari. Si tratta anche di salvaguardare la «garanzia della libertà di
corrette, ma continuo a pensare che bisogna garantire la vita e la sopravvivenza pubblica dei partiti con un sistema di finanziamenti che possa essere sotto l’occhio di tutti. L’articolo 49 della Costituzione è la via da seguire, oppure qualcuno mi spieghi perché, in campagna elettorale, io spendo pochissimi euro e il mio competitore che ne ha di più ne spende di più». Insomma, secondo l’onorevole Pezzotta «le cose che non vanno bene devono essere corrette. I politici, come tutti, devono essere corretti. Ma prima di parlare di queste cose dovremmo far pagare anche i ricchi, tassando le rendite finanziarie. Ridurre l’indebitamento sociale è un impegno giusto, ma va fatto con criteri di equità e di giustizia sociale che non vedo nelle proposte presentate da Tremonti».
ga come i vitalizi debbano essere «semplicemente riportati alla regola che vale per tutti i cittadini, ossia il rapporto tra i contributi versati e la pensione erogata».Va tenuto conto, ricorda il senatore democratico, che «chi decide di assumere un mandato di rappresentanza parlamentare rinuncia almeno in parte a un investimento sulla propria carriera professionale, e questo va compensato». Proprio per tale motivo «le proposte di abolizione tout court rischiano di avere un destino segnato, cioè di essere inevitabilmente respinte. È chiaro però che non si può andare in giro a spiegare ai cittadini
re obiettata: perché chi entra in Parlamento spesso compromette in modo irreparabile la propria attività professionale, e per questo è difficile concepire il vitalizio degli onorevoli alla stregua di un trattamento pensionistico qualsiasi. «Però se il metodo di calcolo non è lo stesso, la politica perde credibilità», controdeduce Morando. Il quale comunque ammette: «È chiaro che la politica non può diventare un privilegio per abbienti. Ma la compensazione alle necessarie rinunce professionali di un parlamentare dev’essere equilibrata. Non può avvenire in modo scriteriato. E un criterio può essere quello di riferirci alla media dell’area euro. Almeno rispetto all’indennità già ci siamo, in ogni caso il meccanismo dev’essere rimodulato in modo da diventare comprensibile per i cittadini, e non prevedere per esempio una rivalutazione dei contributi moltiplicata per sei.Vanno eliminati benefit assurdi, come le prebende per chi è stato presidente di una camera anche una volta sola. Basta quello per avere un ufficio, la macchina, la segreteria. Cose che fanno rabbrividire».
«La polemica sulla casta è una spirale insensata», dice il politologo dell’università di Perugia. Morando: «Va ripagato chi rinuncia alla vita professionale, basta farlo con equilibrio» deliberare», come dice Gerardo Bianco, presidente dell’associazione che riunisce deputati e senatori cessati dal mandato. Non a caso gli esponenti del Pd che hanno maggiore cognizione dei meccanismi previdenziali traducono le iniziative del partito in una forma più articolata: è il caso di Enrico Morando, che spie-
che l’assegno previdenziale dev’essere funzione della contribuzione senza saper applicare il principio ai parlamentari. Se non si fa ordine in casa propria non si può pretendere di fare ordine in casa degli altri».
Persino questa assimilazione d’altronde è suscettibile di esse-
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l’approfondimento
Oggi approda in Consiglio dei ministri il testo, ma oltre il danno c’è la beffa: riappare (nascosto) il processo breve
Manovrare stanca
Napolitano invita l’esecutivo a essere responsabile verso il Paese, ma la maggioranza riesce ad andare sotto anche sulla comunitaria. E Reviglio, mentore di Tremonti, boccia la manovra: «Giulio ha fatto un compromesso politico» di Francesco Lo Dico
ROMA. Lo stato confusionale di una maggioranza sempre più allo sbando, finita sotto sull’articolo 1 della legge comunitaria, e quindi costretta a ritirare una normativa che doveva recepire le importanti indicazioni dell’Unione europea, la dice lunga sul tipo di clima che spira oggi sul Consiglio dei ministri chiamato ad approvare la manovra economica. Fa bene Fabrizio Cicchitto a minimizzare il disastro che ieri ha visto l’opposizione prevalere con 270 voti su una maggioranza che ha registrato moltissime assenze. Più che «un incidente», come lo definisce Cicchitto, un incidente probatorio che certifica l’irresponsabile agonia di una maggioranza destinata allo scacco, ma incapace di lasciare per il bene del Paese. Non è un caso , che alla vigilia del Cdm che dovrà appro-
vare la contestata manovra finanziaria, il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, abbia lanciato l’allarme. «Non c’è dubbio che chi prende delle decisioni oggi sulla situazione economica si prende delle responsabilità anche per domani», ha detto il capo dello Stato, che ha auspicato una «una convergenza nell’interesse del Paese». Un auspicio doveroso, che cela però la grande inquietudine del Quirinale verso la manovra. A parole doveva dimostrare agli italiani che l’esecutivo mira a salvare i conti pubblici del Paese con animo responsabile. Ma di responsabile, nella bozza, c’è solo la logica Scilipoti trasferita alle nostre finanze: tirare a campare perché del doman non v’è certezza. Nessuna certezza tranne quella che lacrime e sangue saranno versati da chi verrà dopo di loro. Il progetto di recuperare me-
no di due miliardi per il 2011, cinque e mezzo l’anno prossimo, e quaranta tra il 2013 e il 2014, divisi in due comode tranche da venti miliardi ciascuna, significa soltanto una cosa. Che in questo compromesso al ribasso, tutti ci guadagnano qualcosa. Bossi incassa la modifica del Patto di stabilità da Tremonti e dà in cambio l’ok per la spazzatura di Napoli al Nord. Silvio ottiene una proroga all’agonia
L’ex ministro delle Finanze: «Otto miliardi non bastano. C’è il rischio Grecia»
del suo governo – e cioè la possibilità di continuare a sfuggire alla giustizia – grazie al processo breve che ricompare con il copia e incolla, in modo incredibile, dentro la manovra. E Tremonti strappa a Berlusconi una tregua sulle tasse: non le abbasserà, e che nessuno gli rompa più le scatole.
Ma ciò che nessuno ci dice è che a causa di questo governo debole, scilipotizzato dal disastro delle regionali e del referendum, ci perde l’intero Paese. Rimandare il rientro di quaranta miliardi al 2013, equivale a dire che per i prossimi due anni i falchi della speculazione finanziaria volteggeranno su di noi, in attesa di sferrare il colpo finale che ci trasformerà nella prossima Grecia. E la preoccupazione del capo dello Stato emerge davanti ai taccuini dei giornalisti: «Il 7
giugno c’è stato un documento molto puntuale della Commissione europea, che riconosceva che lo sforzo fatto rende credibile la vigilanza dei conti fino al 2012, ma che occorrono misure addizionali per il 2013-14». E sulla manovra, ha aggiunto Napolitano, «si vedrà se sarà un provvedimento che già in questa fase entra nel merito del da farsi per raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013-14 o no, ma non c’è dubbio che discutendone oggi, ciascuno si prende le sue responsabilità anche per domani». E se anche Giulio Tremonti ha dovuto cedere ai desiderata di Silvio, il quadro diventa inquietante. «Sono molto preoccupato per Giulio», dice a liberal Franco Reviglio, ex ministro delle Finanze e del Bilancio, che di Giulio Tremonti è stato il mentore riconosciuto. «Ho l’impressione», spiega Reviglio, «che il mini-
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L’Udc ha proposto la ricetta vincente per rilanciare il Paese. Ma l’esecutivo fa orecchie da mercante
Un rinvio irresponsabile, l’Italia rischia oggi. Non nel 2014
Pensano solo a salvarsi la poltrona. Dobbiamo lavorare a un’alternativa credibile a questo governo e a un bipolarismo che ha fallito tutto di Lorenzo Cesa* na manovra balneare fatta da un governo balneare. Non si può definire altrimenti il provvedimento che verrà licenziato nelle prossime ore dal governo, almeno a sentire le prime anticipazioni sui suoi contenuti. Finora infatti, è bene chiarirlo, stiamo ragionando su qualcosa che ancora non c’è. Quel poco che sappiamo di questa manovra ci basta però a capirne con chiarezza l’impostazione, la stessa che ha contraddistinto l’azione di questo governo in tre anni di legislatura: un intervento, cosi si potrebbe semplificare, che ha poco di economico e molto di politico. Una manovra irresponsabile, che contrasta con qualsiasi logica economica, perché fondata su una scelta politica scorretta, egoista e di comodo: rimandare gran parte degli interventi al 2013, mettere la testa sotto la sabbia e scaricare ad altri, probabilmente ad un governo diverso da questo, ogni genere di responsabilità. Una scelta egoista, dicevo, che salverà pure la risicata maggioranza di Berlusconi in Parlamento e darà fiato ai sondaggi della maggioranza, ma che espone il Paese e i suoi cittadini a un rischioso salto del buio. Perché se è vero che gli italiani andranno al voto nel 2013 e solo allora potranno esprimere un giudizio su quanto fatto dall’attuale Esecutivo, è altrettanto vero che i mercati internazionali saranno “i primi elettori”chiamati a giudicare questa manovra. Da domani o al più tardi tra qualche giorno daranno il loro responso, che tutto lascia pensare sarà estremamente negativo, con il rischio di un ulteriore contraccolpo per i nostri conti pubblici e per la situazione economica del Paese.
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Nel merito di questa manovra, il governo conosceva bene quali fossero le richieste dell’Udc. Avevamo chiesto un’assunzione di responsabilità chiara di fronte alla crisi che attraversa i mercati internazionali, che colpisce il nostro tessuto economico-sociale e che dopo aver travolto la Grecia rischia di bussare prepotentemente anche alla nostra porta. Avevamo chiesto al governo, anche di fronte a quanta decisione stiano dimostrando altri Paesi europei davanti alla crisi, tutto il coraggio che non aveva dimostrato in questi tre anni: perché fosse capace di portare all’attenzione del Parlamento norme dure, anche impopolari, che dessero uno shock positivo, con risparmi veri e non tagli lineari, per consentire un colpo di reni alla nostra economia da troppo tempo bloccata e impantanata negli “zero virgola”. Avevamo indicato per tempo le nostre priorità: famiglie, imprese e giovani. Nei confronti delle prime, questo governo sta mostrando non solo un irresponsabile disinteresse, ma anche una profonda ingratitudine. Perché se l’Italia ha retto nei momenti più drammatici della
crisi, questo lo si deve proprio al grande contributo dei nuclei familiari, capaci di dare coraggiosamente fondo ai loro risparmi accumulati in una vita per sopperire alle carenze del governo: ad esempio, mantenendo in casa e sostenendo economicamente un giovane disoccupato, un anziano non autosufficiente o un disabile lasciato senza assistenza. Il “fattore famiglia”, provvedimento già in uso in altre realtà europee che permette a chi ha più figli o situa-
È stato presentato un testo basato su una logica egoista e scorretta: lasciare tutti i danni a chi verrà
zioni di difficoltà in casa di pagare meno tasse, è stato solo annunciato e talvolta strumentalmente rispolverato per ventilare un nostro avvicinamento alla maggioranza che non c’è mai stato. In secondo luogo le imprese: perché il nostro Paese ha in queste realtà, specie piccole e medie, la sua più grande ricchezza produttiva. Non è un mistero che molte di esse abbiano chiuso per non riaprire più, stiano chiudendo ancora oggi o siano costrette a drastici ridimensionamenti e licenziamenti. Infine la questione giovanile, che rappresenta forse il più grande problema dei nostri tempi. Oggi 65mila ragazzi all’anno, quasi tutti laureati, vanno all’estero in cerca di opportunità che in questo Paese non hanno. Come se ogni anno città come Viterbo o Savona sparissero dalla nostra cartina geografica. Quello che dovrebbe essere il nostro vero tesoretto
per il futuro, una forza di idee e voglia di fare da custodire gelosamente, va invece ad arricchire i Paesi nostri concorrenti o resta in Italia solo per lavori precari e senza le possibilità di costruirsi una famiglia, di avere una casa di proprietà e di poter progettare il futuro.
Erano e sono queste le nostre priorità, da accompagnare a una politica di riduzione drastica del debito pubblico, che questo Governo ha fatto aumentare fino al 120% del Pil. E poi avviare subito il risanamento che l’Europa ci chiede avendo il coraggio di chiedere sacrifici, ma mettendo in campo anche una serie di azioni per il rilancio dell’economia. Intervenendo se necessario anche sulla tassazione delle rendite finanziarie per trovare i soldi necessari a dare respiro a famiglie e fasce deboli. E ancora, rilanciare il percorso delle liberalizzazioni, il taglio di enti inutili come le province, la revisione immediata del patto di stabilità per i Comuni virtuosi che potrebbero far ripartire le opere pubbliche ormai bloccate da anni. E naturalmente abbiamo chiesto che anche la classe politica dia il suo buon esempio: ci siamo detti disponibili a discutere di un taglio dei costi della politica, a patto che tutto non si riducesse ad uno spot demagogico da dare in pasto all’opinione pubblica, facendo credere magari che quei tagli siano la panacea di tutti i mali. Su questo, sui contenuti, sui provvedimenti necessari al Paese per ritornare a crescere avevamo dato la nostra disponibilità a discutere e collaborare con questo governo. Abbiamo ricevuto in cambio il solito provvedimento buono a tamponare qualche falla in maggioranza ma non a cambiare le sorti dell’Italia. Anzi, con tutte le carte in regola per peggiorare questa situazione e per consegnare al prossimo governo un Paese economicamente allo sbando. Di fronte a questa irresponsabilità, di fronte a un governo che non decide e che mette in atto la politica del sondaggio e non del coraggio, si fa ancora più decisiva e determinante la battaglia che l’Udc sta portando avanti assieme agli amici del Terzo Polo. È il momento di intensificare i nostri sforzi, di incalzare il governo su quanto non ha fatto e svelare ai cittadini i suoi inganni spiegando le nostre ragioni. Di lavorare a un’alternativa credibile al governo del Paese e a questo modello bipolare che sta crollando miseramente. Questa manovra, come il comportamento tenuto dal governo in questi anni, spiega perché il nostro progetto sia cosi ambizioso e importante: perché quando un Esecutivo resta asserragliato nel fortino di palazzo Chigi e arriva a sacrificare le legittime aspettative dei cittadini per salvare le sue poltrone, appare evidente che in ballo non ci sia solo il prossimo risultato elettorale ma le stesse sorti dell’Italia. * Segretario nazionale Udc
stro dell’Economia abbia dovuto cedere a un compromesso politico. Rimandare i quaranta miliardi di euro da recuperare al 2013 e il 2014, significa scaricare su chi verrà dopo i problemi di questo Paese. Ma la vera domanda da porsi è: “Basteranno i sette miliardi di tagli previsti tra quest’anno e l’anno prossimo per mettere in salvo il Paese dalla speculazione finanziaria?”. Anche se la Grecia ha approvato la manovra, il pericolo per i nostri conti resta alto. Abbiamo soltanto guadagnato un po’ di tempo».
Ma al danno, ieri si è aggiunta la beffa, dicevamo. Nelle ultime venti pagine della bozza della manovra economica è stato abilmente annidato anche il processo breve, che cancella la maggior parte dei processi del presidente del Consiglio, e gli altri 100mila di cui avevano parlato il Csm e Anm dei mesi scorsi. Scorrere la bozza ha dell’incredibile: in capitoli che dovrebbero riguardare la gestione economica della cosa pubblica, compaiono interi paragrafi del disegno di legge più noto come “ammazzaprocessi” Parola per parola, senza neppure il disturbo di confondere le acque. Nell’articolato si legge infatti che «Il processo penale si considera iniziato alla data di assunzione della qualità di imputato. Non rilevano, agli stessi fini, i periodi conseguenti ai rinvii del procedimento richiesti o consentiti dalla parte, nel limite di novanta giorni ciascuno». E sui tempi del processo, si ribadisce che «Non sono considerati irragionevoli, nel computo del periodo di cui al comma 3, lettera a), i periodi che non eccedono la durata di due anni per il primo grado, di due anni per il grado di appello e di ulteriori due anni per il giudizio di legittimità, nonché di un altro anno per ogni successivo grado di giudizio nel caso di giudizio di rinvio. Il giudice, in applicazione dei parametri di cui al comma 2, può aumentare fino alla metà i termini di cui al presente comma». Chiave di volta per capire l’inghippo è la legge Pinto sull’equa riparazione, che prevede un indennizzo se il cittadino si trova ad affrontare un processo di primo grado più lungo di tre anni. La manovra stabilisce invece che il nuovo termine massimo scende a due anni, e che il termine decorre dal momento della richiesta di rinvio a giudizio. E non dall’inizio del processo. Giustappunto una soluzione ad hoc per l’imputato Berlusconi. Lo stesso che lascia al prossimo governo 40 miliardi sul groppone. E un futuro ancora più precario di questo terribile passato prossimo, chiamato berlusconesimo.
diario
pagina 6 • 30 giugno 2011
Delitto Meredith, colpo di scena
Nuovi sbarchi a Lampedusa
PERUGIA. Colpo di scena al processo della Corte d’Appello contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher. Secondo la perizia depositata ieri mattina e firmata dai periti Carla Vecchiotti e Stefano Conti, il lavoro svolto della Scientifica riguardo il gancetto del reggiseno e il coltello, considerato l’arma del delitto, non è attendibile. In poche parole non è certo che il dna trovato sul coltello sia quello di Mez. «Non sussistono elementi scientificamente probanti la natura ematica della traccia B (lama del coltello)». Secondo la polizia scientifica invece, che aveva analizzato i reperti in fase d’indagine, quella traccia era sangue della studentessa inglese.
PALERMO. Dopo una “tregua” durata quasi una settimana, sono ripresi gli sbarchi a Lampedusa. Sono complessivamente 553 i profughi approdati ieri a bordo di due imbarcazioni. La prima, con 225 profughi a bordo, tra cui 30 donne e 12 bambini, è arrivata autonomamente in porto. La seconda, avvistata a 3 miglia dalla costa da un peschereccio, è stata soccorsa da due motovedette della Guardia costiera. A bordo, 328 profughi, tra cui 19 donne e 5 bambini. I migranti stanno bene. L’ultimo sbarco era avvenuto mercoledì con l’arrivo di 870 profughi, il numero più alto di migranti mai arrivato dall’inizio dell’emergenza. I profughi sbarcati ieri mattina sono stati trasferiti al Centro d’accoglienza.
Morto il 21enne preso a calci ROMA. Due ragazzi sono stati fermati dalla polizia per l’aggressione, avvenuta la notte tra sabato e domenica scorsi al quartiere Esquilino della Capitale, a un ragazzo di 21 anni, che è morto ieri mattina al policlinico Umberto I, dove era stato ricoverato in grave condizioni. Al momento dell’aggressione sul posto era immediatamente intervenuta la polizia municipale. Poi il ragazzo è stato ricoverato in coma al policlinico Umberto I e i sanitari hanno inviato la segnalazione agli agenti del commissariato Esquilino, che si sono immediatamente attivati e in meno di 24 ore sono arrivati all’identificazione dei dei due. I giovani sono stati sottoposti a fermo di indiziato di delitto.
Alla vigilia del Consiglio nazionale, continuano a volare gli stracci all’interno del Pdl. Oramai, sempre più frammentato
E il popolo (della libertà) si ruppe Il caso Alfano, il malcontento su Tremonti, il muro di Scajola e... di Osvaldo Baldacci
ll caso Alfano, il malcontento su Tremonti, il muro di Scajola. Sono solo alcuni dei nodi che continuano a frammentare il Popolo della libertà. Un partito ormai allo sbando, che ogni giorno arriva a sconfessare se stesso e che si organizza sempre di più in correnti, sottocorrenti e movimenti. Aspettando il Consiglio nazionale di domani
ROMA. Hanno ritrovato l’unità nel rispetto delle costruttive diversità. Oppure c’è la frammentazione appena velata dietro una sottile patina di concordia di facciata. La seconda che hai detto, se si parla di Pdl. E ieri alla Camera si è visto clamorosamente per l’ennesima volta. L’avevamo scritto più di un anno fa, quando il berlusconismo con le elezioni regionali sembrava essere tornato vincente. Lo scontro con Fini nel 2010 era servito a mascherare quello che in realtà si muoveva nel partito, una pletora di correnti e gruppi di interesse pronto ciascuno a fare la propria corsa, dentro il Pdl finché serve, e persino fuori.
L’Udc lo dice da sempre che questo sistema è in via di sfaldamento e i due grandi partiti-raccoglitori così come sono non hanno prospettive. Oggi questa realtà è sotto gli occhi di tutti. Nella settimana in cui è in corso la definizione della manovra economica che oggi arriva in Consiglio dei ministri, e alla vigilia del Consiglio nazionale Pdl che dovrebbe risolvere i problemi del partito e rilanciarlo, in realtà tutti i nodi vengono al pettine. E i movimenti carsici si accentuano, e in qualche caso vengono a galla. Anche ieri la maggioranza è stata sconfitta in aula, mentre circolavano tra i deputati Pdl sms del tenore: «Votazioni delicate, non allontanarsi dall’aula». Ma ieri la maggioranza, anche le volte che ha retto, lo ha fatto giusto per un numero di voti che si conta sulle dita di una mano. E mentre vengono diffuse a piene mani rassicurazioni sulla concorde condivisione della manovra finanziaria, sotto sotto continuano a partire siluri. I più evidenti sono sparati dalla Lega: è Bossi in persona a dire che probabilmente i nordisti voteranno per l’arresto del deputato Pdl Papa, ed è sempre il senatur ad affermare che spera che il decreto sui rifiuti a Napoli (chiesto con urgenza e insistenza dal Pdl campano) non venga presentato oggi in Consiglio dei ministri. E poi c’è il caso Tremonti. Ma i problemi sono tutti interni al Pdl.
Per lo spazio di un momento si era cercato di far credere che venerdì 1 luglio con il Consiglio nazionale che nominerà Angelino Alfano segretario del Popolo della libertà tutto sarebbe andato a posto. La nomina di Alfano doveva essere il perno del rilancio del partito reso malconcio dalle elezioni amministrative e dai referendum, nonché dal crollo del prestigio del presidente Berlusconi. Ma già da subito era chiaro che la sovrapposizione del ministro della Giustizia alla bizzarra struttura del partito avrebbe probabilmente aumentato la confusione invece di risolverla. Per non parlare comunque del processo di imposizione dall’alto e di nomina ad personam senza alcun processo di scelta democratica. Ora prima ancora che la nomina venga resa effettiva, risulta evidente come i maldipancia nel parti-
to non siano sopiti. Basterebbe leggere le intercettazioni pubblicate (non sempre a ragione) in questi giorni per capire il caos magmatico che si agita nella pancia del Pdl, sotto la facciata. Certo, come è d’abitudine nel Pdl c’è un allineamento formale di molti (ma non di tutti) dietro alle decisioni del capo, ma in realtà si muove molto di più. Si fa persino fatica a individuare e riconoscere le correnti e i loro movimenti.
Qualcuno è venuto fuori in modo piuttosto esplicito. Primo quel Micciché che ha fondato Forza del Sud come partito presente autonomamente alle elezioni e che anche ieri ha ribadito che intende creare una forza capace di condizionare il governo (di cui è sottosegretario) come fa la Lega Nord. Costante poi
il preannuncio ancora inevaso di formare gruppi autonomi, gruppi cui nel corso di questi mesi sembrano essersi avvicinati molti esponenti Pdl, dalla Prestigiacomo (che a dicembre aveva “rotto” col Pdl) alla Carfagna (più volte data per partente) alla Biancofiore, per fare alcuni esempi di berlusconiane di primissimo piano. Le quali ai passi avanti hanno fatto seguire passi indietro, ma intanto… E poi c’è l’aperta opposizione di Scajola, che dopo i passi indietro personali fatti negli ultimi anni è sempre tornato alla carica, come fa appunto adesso con le firme di 42 parlamentari. Anche loro ventilando di fare gruppi autonomi e comunque senza nascondere le perplessità sull’investimento Alfano. Scajola testimonia ha mandato una lettera al segretario politico in pectore, in
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e di cronach
Direttore Editoriale Ferdinando Adornato
Camusso-Marcegaglia, c’è l’intesa sui contratti
Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio
ROMA. Nove punti per riportare la palla al centro e la gestione dei contratti in mano a Confindustria e alle tre principali confederazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil. Con l’accordo firmato ieri sera alla foresteria di Confindustria nella centrale Via Veneto, a Roma, il presidente degli industriali, Emma Marcegaglia e il segretario della Cgil, Susanna Camusso, hanno messo in difficoltà le organizzazioni minori e le posizioni più estreme. Sia in tema di rappresentatività, sia in tema di esigibilità della contrattazione aziendale, l’intesa riporta la palla sui piedi delle grandi organizzazioni sindacali e taglia fuori i sindacati minori e gli estremismi d’ogni tipo: nel nuovo mondo sarà più difficile continuare a fare sindacato per Fismic e Rappresentanze di base, sarà più dura la vita per la Fiom, ma si metterà fuori gioco anche l’estremismo imprenditoriale modello Fiat, che pure è all’origine del tutto. In tema di esigibilità dei contratti azien-
Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)
dali l’accordo Camusso-Marcegaglia dice che i contratti aziendali sono vincolanti per le sigle che hanno sottoscritto l’accordo, ma non per i singoli lavoratori. Inoltre, non sono previste forme di sanzioni in caso di inadempienza. Le intese firmate dalla Fiat invece, oltre a prevedere penalizzazioni per i sindacati, prevedono che anche i lavoratori possano essere chiamati a rispondere dei loro comportamenti in contrasto con gli accordi firmati.
A sinistra, uno scatto del congresso fondativo del Pdl. Sotto: Claudio Scajola, Fabrizio Cicchitto e Angelino Alfano
Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747
cui chiede una svolta e un rinnovamento radicale del partito: «Un cambiamento vero, che incida in modo profondo nella struttura del partito, per rinnovarlo radicalmente: un partito fatto di regole e di luoghi di discussione, con l’elezione di tutti gli organi dalla periferia al centro e con l’indicazione dal basso anche dei candidati», inoltre «una profonda revisione dello Statuto, anche per ripensare radicalmente l’organizzazione del partito sul territorio, coinvolgendo davvero la base e i militanti», e «un congresso costituente, con un nuovo nome e un nuovo simbolo» e «un vero documento di indirizzo politico». Praticamente la sconfessione di tutto quanto è stato fin qui il Pdl. E infatti subito una lettera per stopparlo è partita da alcuni ministri di primo piano Franco Frattini, Mariastella Gelmini, Stefania Prestigiacomo, Paolo Romani, Mara Carfagna e Giancarlo Galan (anche lui più volte malpancista): «La svolta già c’è e si chiama Alfano». Anche il capogruppo Cicchitto si è sentito in dovere di chiedere lo stop delle polemiche e di invocare ampi poteri per Alfano: chiaro segno che unità non c’è e che si pensa a risolvere i problemi investendo un uomo solo che al momento quei poteri non può averli. Certo, è anche possibile che se la strana attuale struttura del Pdl non potrà non essere un limite per Alfano, è anche vero che forse molte delle correnti avrebbero fatto meno obiezioni se
Ormai si fa fatica persino a riconoscere le correnti e i movimenti che si agitano nel partito avessero incassato un vicesegretario per contare di più nel partito. D’altro canto c’è un’altra corrente sotterranea, quella di Denis Verdini, che ha il controllo di una buona parte del partito tramite una sua strutturazione. Certo non avrebbe gradito perdere quel controllo a vantaggio di altre strutture e vicesegretari, mentre sembra disposto ad accettare Alfano a patto che nulla cambi. E ancora non abbiamo parlato di Tremonti. Il superministro superpotente erede designato del Cavaliere e al contempo della Lega, e ora isolato, scavalcato da Alfano, messo all’angolo e - sacrilegio inaudito negli anni passati - criticato duramente da molti esponenti della maggioranza. Il balletto sanguinolento intorno a Tremonti, le sue minacce di dimissioni, gli accordi traballanti sul-
la manovra non possono non lasciare ferite profonde nel Popolo della libertà, altro che rilancio all’insegna della concordia. Certo, Tremonti per natura è un isolato, non ha un grande seguito strutturato (e ha perso anche il consigliere Milanese), ma certo ha visibilità e carisma, e può diventare polo di attrazione per gli scontenti e per chi guarda oltre la situazione attuale.
Curioso (e scivoloso) però che proprio ora che si è allentato il suo cordone ombelicale con la Lega, e che rischia di fare il capro espiatorio delle sconfitte del Pdl, Tremonti venga sostenuto da insospettabili: finora infatti non abbiamo parlato degli ex An, i La Russa, Gasparri e Matteoli. Ecco, ora sembrano tra i pochi a schierarsi con Tremonti. Forse il frutto di una debolezza: emerge chiaramente lo scontento nei loro confronti degli ex forzisti che si vanno riorganizzando e che tra l’altro imputano loro la scelta della linea più oltranzista con Fini e la conseguente instabilità del governo. Rimasti un po’ orfani, allontanati dalle orecchie del capo Berlusconi che avevano frequentato in posizione privilegiata, iniziano a preoccuparsi e guardano “persino” a Tremonti. Movimento che può portare a un riavvicinamento con l’area di Alemanno, anch’essa in cerca di ricollocamento ma da tempo, dopo qualche incomprensione, riavvicinatasi a Tremonti.
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onsumare libri e suole. È il consiglio a chi vuole davvero viaggiare. Esplorare posti dai nomi sconosciuti, fermarsi nei bar fumosi alla fine del mondo o in eremi sospesi nel vuoto. Attraversare mari e deserti sulle orme di Bruce Chatwin e Ryszard Kapuscinki. Ma anche l’antichità ha i suoi viaggiatori-cronisti che ci hanno lasciato testimonianze preziose su luoghi ormai inaccessibili. Come Eusebio di Cesarea che nel libro V della sua Storia Ecclesiastica ci parla della città di Efeso in Turchia - sede di una delle sette chiese dell’Asia citate dall’Apocalisse - e del vescovo greco Policrate, autore di una lettera scritta al Papa Vittore I in cui sosteneva la sua tesi sulla data della Pasqua. In questa circostanza il vescovo di Efeso ricorda i personaggi importanti della propria Chiesa, tra cui l’apostolo Filippo «che si è addormentato a Gerapoli (Hierapolis)», le due figlie di Filippo, Giovanni che «fu sacerdote, ha indossato la lamina e fu testimone e maestro e si addormentò a Efeso», Policarpo di Smirne che «fu vescovo e martire», Melitone «che visse unito nello Spirito Santo e che giace in Sardi».
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Nel passo di Eusebio vengono citate ben tre delle sette Chiese dell’Apocalisse: Efeso, Smirne, Pergamo, Tiatiri, Sardi, Filadelfia e Laodicea descritte, da Giovanni, ognuna una caratteristica precisa. Quella di Efeso è una chiesa che ha perso l’amore; quella di Smirne è perseguitata; Pergamo ha tollerato l’idolatria; Tiatira ha ceduto al compromesso; Sardi è sonnacchiosa; Filadelfia è piccola ma fedele; Laodicea si vanta ma è una chiesa fallita. Le località appaiono in quest’ordine perché si trovano lungo un percorso destrorso, una specie di circuito postale. Così lo definisce l’archeologo scozzese Sir William M. Ramsay primo docente di Archeologia Classica ad Oxford che lavorò anche con Gertrud Bell - che in A Thousand and One Churches scrive: «La strada era chiaramente indicata e il latore avrebbe potuto difficilmente smarrirla. Egli sarebbe andato verso nord lungo la grande strada romana che attraversava Smirne e Pergamo (la strada costruita intorno al 133-130 a.C. non appena l’Asia fu organizzata in provincia). Quindi avrebbe seguito la strada postale regia verso Tiatira, Sardi, Filadelfia e Laodicea». Tutte queste sette comunità e sedi episcopali ricordate dall’apostolo Giovanni nel Nuovo Testamento - si trovano in Asia minore, in Turchia. Ogni Chiesa aveva il suo vescovo e la sua cattedrale. Due di queste sono state anche sedi di concili, famoso quello di Efeso, nel 431, che stabilisce il dogma di Maria madre di Dio e quello di Laodicea nel 350. Guidati da autori prestigiosi come Strabone,Tacito, Pausania, Plinio, Flavio Giuseppe e l’apostolo Paolo - e oggi anche con il sostegno dell’Ente del Turismo turco - ci siamo avventurati gambe in spalla e libri in mano a ripercorre alcune di queste località. Scoprendo una Turchia diversa, protagonista di importanti scambi commerciali, scientifici e religiosi tra popoli e civiltà diverse, ma anche meta d’élite con le sue magnifiche insenature dove fare surf e dove sono ormeggiati lussuosi yachts e i più bei cabinati flybridge del mondo, con boschi verdissimi dove andare a cavallo e rigeneranti Spa alcune scavate nella roccia e antichissime. La Turchia è nota per le sue acque termali di cui beneficiavano anche i citta-
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Alla riscoperta delle sette chiese dell’Apocalisse, attraverso un reportag
Sulle tracce della Turchia perduta Viaggio storico, simbolico e religioso nei luoghi-chiave di un Paese che aspetta di entrare in Europa. Le sue tradizioni possono tenerla ancora fuori? di Rossella Fabiani
dini dei primi secoli dopo Cristo. Famose erano le terme di Scolastica ad Efeso e la visita a questo antico centro commerciale è una tra le più straordinarie che si possa fare in Turchia. Tra le rovine, possiamo ammirare il teatro, il ginnasio, i bagni, l’agorà e la straordinaria biblioteca di Celso che nelle sue forme ricorda molto la facciata del tempio di Petra in Giordania. In epoca romana, la città costruita vicino alla foce del fiume Caystro, rivaleggiava con Alessandria d’Egitto e con Antiochia di Siria per prestigio e potere. Ai tempi del Nuovo Testamento, Efeso era un importante cro-
cevia culturale e commerciale da e per Roma. Facilitata nei commerci perché raggiungibile grazie al corso del fiume navigabile. Per questa ragione era detta «la perla delle vanità dell’Asia». Strabone la descrive come «il maggiore emporio ad ovest del fiume Tauro». Contava circa 250mila abitanti. La strada principale, chiamata l’Arcadiana, lastricata di marmo e abbellita con monumenti, era arricchita di un colonnato e fiancheggiata da negozi. Efeso era anche un’importante città sotto l’aspetto religioso, infatti, veniva chiamata «la custode del tempio», perché era il centro del culto
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ge tra le strade di Efeso, Selçuk, Camlik, Sirince, Kusadasi, Izmir, Laodicea In queste pagine: un’immagine della chiesa di San Policarpo a Smirne e diversi scatti della città di Efeso come la biblioteca, la casa dei ricchi, la casa di Maria e il teatro
alla dea Diana (o Artemide). Il suo grande tempio, l’Artemision, più volte ricostruito, risale al III sec. a. C. ed era considerato come una delle sette meraviglie del mondo antico: era lungo 118 metri, largo 50 metri ed era abbellito da 100 colonne alte circa 20 metri ed era ricco di tesori d’arte. Il tempio era anche una banca e un asilo per i fuggiaschi. La dea Diana-Artemide era la patrona di tutte le prostitute e la sua immagine dai molti seni rappresentava la fecondità e la sessualità. Subito dopo la grande biblioteca di Celso, sulla strada principale lastricata di marmo, sono incisi un cuore e un piede a indicare la direzione per le case delle prostitute. Uno dei pilastri dell’economia efesina era proprio la produzione di statuette d’argento della dea Diana e dei suoi piccoli templi che davano lavoro a molte famiglie e permetteva un prosperoso commercio. I devoti della dea, provenienti da ogni parte del mondo, portavano un grande benessere alla città, tanto che l’arrivo di Paolo, rappresentò per loro un pericolo. In città veniva largamente praticata anche la magia. Paolo ebbe persino uno scontro con alcuni esorcisti ebrei riuscendo alla fine a convertirne qualcuno. Ma Efeso è importante soprattutto per la storia della Chiesa dei primi secoli. Qui, a pochi chilometri dall’area archeologica di epoca classica, è stata ritrovata grazie alle visioni della stigmatizzata monaca agostiniana Anna Khatarina Emmerick (1774-1824) - la casa dove Maria visse nei suoi ultimi anni insieme con l’evangelista Giovanni. È stato accertato che dopo la morte di Gesù, San Giovanni abbia accompagnato Maria ad Efeso, in una modesta casetta presso Bulbul Dagi (sul monte Koressos, il monte dell’usignolo) dove la Vergine ha vissuto. Luogo di pellegrinaggio per cristiani e musulmani, questa casa è stata ufficialmente santificata dal Vaticano. Nel 1967 è stata visitata da Paolo VI, nel 1979 da Giovanni Paolo II e nel 2006 da Papa Benedetto XVI.
Ogni anno, il 15 agosto, i cristiani vi celebrano una cerimonia di commemorazione e lasciano un foglietto bianco con le loro preghiere. La città vicina di Selçuk è dominata da una cittadella bizantina che si trova nei pressi della Basilica di San Giovanni Evangelista, costruita nel VI sec. d.C. vicino alla sua tomba. Accanto alla Basilica, un portone tipicamente selgiuchide dà accesso alla Moschea di Isa Bey del XIV sec. d.C. Un’impressionante collezione di statue e altre opere, riportate alla luce dopo gli scavi di Efeso, si possono vedere nel museo archeologico. Singolare, il museo del bagno turco con miniature e pitture che ne raccontano la storia. A Camlik, vicino Selçuk, si trova il museo della locomoti-
va a vapore, dove sono esposti tre vagoni dell’epoca storica della Repubblica. A una decina di chilometri ad est di Selçuk, Sirince è un villaggio caratteristico per il suo vino locale e per le sue case tradizionali risalenti al 1800, alcune delle quali trasformate in simpatiche pensioni. Non lontano da Efeso è pure Kusadası, l’Isola degli Uccelli, un incantevole porto costruito lungo la costa di una splendida baia. La città a terrazze, domina il più bel paesaggio dell’Egeo e sembra essere stata costruita unicamente per il piacere dei turisti. Una grande marina moderna accoglie coloro che decidono di visitarla in yacht. E in uno dei luoghi più belli in fondo al golfo dell’Egeo, solcato da navi e da barche di lusso, si trova Izmir detta la Bella. Alessandro Magno aveva personalmente progettato la città e a causa della sua bellezza e del suo splendore venne soprannominata «L’ornamento dell’Asia Minore”e“la gloria dell’Asia». Qui il clima è sempre mite. Dietro ai viali di palme che costeggiano il mare, la città si arrampica lentamente lungo i fianchi delle montagne che circondano il golfo. Nota in antico con il nome di Smirne, Izmir è conside-
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Bacco con le relative feste, le Baccanali, contribuiva alla corruzione dei costumi. Inoltre Smirne era il centro del culto dell’imperatore romano e vantava un tempio consacrato a Tiberio, infatti, era centro di provata fedeltà all’imperatore. Nonostante ciò vi si era stabilita una folta colonia giudaica. Ancora oggi è possibile visitare il quartiere ebraico di Kemeralti con le sue vecchie costruzioni e le sinagoghe. In epoca ottomana, poi, vi viveva una ricca e influente comunità levantina composta da commercianti olandesi, inglesi, francesi, maltesi e italiani e da diverse comunità religiose di ortodossi, armeni cristiani e musulmani. Probabilmente la Chiesa di Smirne fu fondata dall’apostolo Paolo in uno dei suoi viaggi missionari ad Efeso, dalla quale dista circa 50 chilometri. E certo non ebbe vita facile. In città è possibile visitare la Chiesa di San Policarpo, una delle sette chiese dell’Apocalisse. Il vescovo, che conobbe San Giovanni, venne martirizzato per la sua opposizione alla religione di Stato dai romani a Kadifekale sulla collina che domina la città.
Ricostruita nel 1620, la chiesa è il più antico luogo di culto di Izmir, è meta di pellegrinaggio, visitata dai cristiani di tutto il mondo ed è il santuario cattolico più visitato in Turchia. Riportata da poco alla luce, la chiesa di Laodicea è stata scoperta dal professore Celal Simsek, capo della missione archeologica turca che ha la concessione di scavo della zona. Datata all’epoca romana e
Crocevia culturale da e per Roma, facilitata nei commerci perché raggiungibile grazie al fiume navigabile, la città di Efeso era detta «la perla delle vanità dell’Asia»
rata la terza grande città della Turchia e il suo porto occupa il secondo posto dopo quello di Istanbul. Cosmopolita e vibrante, Smirne è una delle città che si contendono l’onore dei natali di Omero e di Bione. Di sicuro è stata la città natale del vescovo e santo Ireneo di Lione, dell’armatore greco Aristotele Onassis e del cantante armeno Charles Aznavour che è nato nel quartiere di Asansor dove le comunicazioni tra strade a differenti livelli, sono assicurate da un vecchio ascensore del XIX secolo. Sin dalla sua fondazione, nel III millennio a.C., Smirne sviluppò insieme con Troia, una delle culture più avanzate dell’Anatolia occidentale. Sul suo terreno si sono succeduti hittiti, lidii, persiani, romani, bizantini e arabi. Era il passaggio obbligato di tutto il traffico commerciale fra Oriente e Occidente. Dall’India e dalla Persia si passava a Smirne per andare a Roma. La città aveva un alto benessere economico ed era completamente pagana. Ad un’estremità della strada principale, la “Via dell’oro”, sorgeva un tempio di Zeus e all’altra estremità sorgeva un tempio di Cibele, la “madre degli dei”. Il culto di
costruita su una superficie di circa 2mila metri quadrati, la chiesa è in un buono stato di conservazione. Lo stesso ministro della Cultura, Ertugrul Gunay, ha voluto visitare il sito. Si tratta di una scoperta eccezionale e gli archeologi che vi lavorano non hanno dubbi che tra qualche anno Laodicea verrà fuori dalla terra più bella e importante della vicina Efeso. In questi ultimi tempi l’archeologia in Turchia ha portato alla luce significative scoperte e anche per Laodicea ci sarà - da parte del ministero della Cultura - il sostegno per il completamento dello scavo in modo che i resti dell’intera chiesa possano essere visitabili. Nell’area sacra di Laodicea è riemersa anche la piscina battesimale che secondo il ministro Ertugrul Gunay è anche più bella di quella che si trova a Santa Sofia ad Istanbul. Le ricerche della missione archeologica diretta da Simsek hanno confermato che la città di Laodicea esisteva già intorno al IV secolo a.C. e che divenne uno dei principali centri del cristianesimo primitivo tra il 40 e il 50 d.C. e ben presto anche sede di un vescovo. La chiesa di Laodicea è citata, oltre che nell’Apocalisse di Giovanni, pure nella Lettera ai Colossesi di San Paolo. Gli studiosi hanno ipotizzato che possa essere stata fondata da Epafra, un colossese che si era convertito al cristianesimo dopo avere ascoltato la predicazione degli apostoli di Gesù giunti in Turchia.
mondo
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Ingresso dell’Ucraina nella Ue e sfruttamento dei giacimenti di gas naturale: ecco le mire di Varsavia
Arriva l’euro-Tusk Da domani la Polonia alla guida del semestre di presidenza dell’Unione di Enrico Singer Europa dell’euro che segue, con il fiato sospeso, gli sviluppi della crisi greca. E la nuova Europa, quella dei Paesi dell’Est, che si trasmette il testimone della presidenza di turno della Ue in una staffetta che, per la prima volta, è tutta interna: dall’Ungheria alla Polonia. Da una parte c’è Atene, dove il piano di austerità varato per ottenere i nuovi finanziamenti ed evitare la bancarotta, è finalmente passato ieri tra violente proteste di piazza e grandi tensioni in Parlamento. Dall’altra c’è Varsavia che prepara gli ultimi ritocchi alla festa d’inaugurazione del suo “semestre europeo” che comincerà domani con la tradizionale visita della Commissione di Bruxelles e la presentazione degli obiettivi che il governo polacco spera di realizzare entro la fine dell’anno. È davvero una singolare coinci-
L’
Varsavia ha consolidato il suo ruolo di primo tra i nuovi partner dell’Europa a ventisette. Conquistando anche la poltrona dell’Europarlamento
denza temporale. Quasi un paradosso. Ma sarebbe sin troppo facile contrapporre la fragile Grecia, che ha messo in fibrillazione l’intera eurozona, al più dinamico Paese dell’ex impero sovietico che ormai ha un’economia con un tasso di sviluppo secondo soltanto a quello della Germania. Sia il caso negativo della Grecia che quello positivo della Polonia sono due facce di un’Unione che per sua natura è composta da realtà diverse: il problema è capire come possono coesistere e se possono trovare una direzione comune di sviluppo per superare lo stallo attuale. Donald Tusk, il premier centrista polacco, è ottimista. Non si nasconde le difficoltà dell’euro – al quale Varsavia non ha ancora aderito rimanendo fedele al suo zloty – ma è convinto che saranno alla fine superate, tanto che l’ingresso della Polonia in Eurolandia rimane uno degli impegni per il futuro. La priorità, però, è un’altra e si chiama apertura delle Ue all’Ucraina, combinata con il rafforzamento del de-
licato capitolo della sicurezza europea e dei rapporti con la Russia. I polacchi lo chiamano Partenariato orientale ed è un processo che ha preso il via in sordina il 7 maggio del 2009 con un primo vertice a Praga dove erano stati invitati i rappresentanti di tutti i Paesi della Ue più quelli di sei nuovi possibili partner: tre dell’Europa orientale – Ucraina, Bielorussia e Moldova – e tre del Caucaso meridionale: Armenia, Azerbaigian e Georgia. A Praga erano attesi trentatré capi di Stato e di governo, ma se ne presentarono soltanto ventidue. Disertarono l’appuntamento tutti i grandi Paesi europei occidentali, Italia compresa, con l’eccezione della Germania che era presente al massimo livello con Angela Merkel.Tra i leader dell’Est mancavano i presidenti di Bielorussia, Alexander Lukashenko, e Moldova,Vladimir Voronin, i più sensibili alle pressioni di Mosca che non vedeva, e che continua a non vedere, di buon occhio un’iniziativa che considera un accerchiamento dei suoi confini. Naturalmente Tusk sa bene che non basteranno i sei mesi di presidenza polacca per aprire le porte dell’Unione all’Ucraina che non è nemmeno un Paese candidato all’adesione. Ma quello che interessa Varsavia è porre ufficialmente la questione. Con un corollario preciso: il rilancio del Partenariato orientale deve servire per accompagnare questi Paesi verso la democrazia. Come dire che, fino a quando un dittatore come Lukashenko continuerà a dominare la Bielorussia, ogni dialogo con Minsk sarà impossibile, mentre con l’ucraino Janukovych ci si può mettere attorno a un tavolo. Anche perché Kiev è strategica per l’Europa sia nel quadro della politica di sicurezza che in quello dell’energia e, in particolare, del gas che dalla Russia arriva in Occidente proprio attraverso l’Ucraina in attesa che siano realizzate le nuove pipeline North stream e South stream.
L’autonomia energetica dell’Europa è una fissazione della Polonia che punta anche all’utilizzo dei suoi giacimenti di gas naturale non convenzionale, quello che comunemente è chiamato shale gas e che si estrae in profondità da rocce a base di argilla che si sono formate in centinaia di milioni di anni in alcune aree del pianeta. Negli Usa lo shale gas è già sfruttato e copre il 6 per cento del fabbisogno, ma nel 2030 potrebbe arrivare a quota 45 per cento. In Europa le riserve più importanti di questo tipo di gas si trovano in Polonia, in Germania, in Romania e in Francia, ma finora, anche in mancanza di una normativa comunitaria, non sono riuscite a incidere in modo significativo sugli scenari energetici. La Polonia vorrebbe che lo sfruttamento del gas non convenzionale ottenga lo status di “progetto comune europeo” e questo cercherà di imporre durante la sua presidenza. Non è una sorpresa: l’incidente di Fukushima e l’aumento
Scontri nelle strade e centinaia di feriti ad Atene
Grecia, via libera al piano d’austerity Il Parlamento vota il piano di tagli del governo: 155 sì su 300 di Martha Nunziata iciassette voti: 155 a favore, 138 contrari. Una maggioranza risicata ma sufficiente ad approvare in Parlamento il piano di austerity, che prevede 28,4 miliardi di tagli tra il 2012 e il 2015 e 50 miliardi di privatizzazioni, in tempo per avere accesso alla quinta tranche del prestito dell’Unione Europea e del Fondo Monetario Internazionale per il salvataggio del paese (altri 12 miliardi di Euro). George Papandreou, e la Grecia, hanno tirato un grosso sospiro di sollievo, dopo le oltre cinque ore di dibattito parlamentare, ma alla fine, anche con il contributo decisivo di alcuni rappresentanti dell’opposizione, il progetto “lacrime e sangue”è stato varato. Non poche, comunque, le voci contrarie al piano all’interno dello stesso Pasok, il partito socialista di maggioranza, come quella del deputato Panayotis Kouroublis, che prima del voto ha definito il piano «profondamente ingiusto e impossibile da accettare», rifiutandosi di votarlo. Il voto
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contrario di Kouroublis, però, è stato ammortizzato da quello a favore di un deputato conservatore, convinto dal discorso accorato di Papandreou, al pari di Alexandre Athanassiadis, dissidente pentito del Pasok, autodefinitosi “rinsavito” dopo l’appello del premier. Il primo commento positivo, al di fuori dei confini ellenici, è stato quello di Angela Merkel: «È veramente un’ottima notizia» ha commentato il cancelliere tedesco. «Il voto del Parlamento greco è stato eccezionalmente coraggioso» ha aggiunto subito dopo aver appreso l’epilogo della vicenda.
Il via libera, ha aggiunto Jens Weidmann, presidente della Bundesbank, «è nell’interesse di tutti». Ma quella vissuta ieri dal governo greco di Papandreou, e da tutta Atene, è stata l’ennesima, durissima battaglia politica. La giornata di ieri sarà ricordata come uno dei momenti più difficili e decisivi della storia della Grecia contemporanea. L’atte-
mondo
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dei prezzi del petrolio hanno spinto tutti i Paesi Ue a rivedere i rispettivi piani energetici. Ma Varsavia, in più, è molto sensibile al problema delle forniture di gas dalla Russia: le guerre energetiche tra Mosca e Kiev degli ultimi dieci anni hanno portato la Polonia sull’orlo del disastro, legata com’è alla pesante eredità del vecchio Comecon, quando l’Unione Sovietica costringeva tutti i Paesi satelliti a rifornirsi del suo gas. Con la Russia di Putin e Medvedev, però, la presidenza polacca non propone soltanto fermezza. C’è anche la mano tesa su uno dei problemi che più stanno a cuore al Cremlino: il regime dei visti per gli abitanti dell’enclave russa di Kaliningrad che è stretta tra la Lituania e la stessa Polonia. La cosiddetta “cortina di carta” potrebbe cadere proprio nei prossimi sei mesi e per Varsavia sarebbe un buon successo diplomatico. Da quando, nel maggio del 2004, è entrata nella Ue scatenando la paura dell’invasio-
L’autonomia energetica dell’Europa è una fissazione del governo polacco, che punta anche all’utilizzo dei suoi giacimenti di gas naturale ne dell’idraulico polacco – il timore di un esodo in massa di manodopera a basso costo nei Paesi europei più ricchi – di acqua sotto i ponti ne è passata tanta.
sa del voto era cominciata fin dalle prime luci dell’alba, in piazza Sintagma, ad Atene, dove la protesta dei cittadini della capitale ha assunto presto il sapore della battaglia, quella che è poi durata praticamente tutto il giorno, tra la folla e la polizia, trasferendosi prima nelle strade e successivamente nella piazza del Parlamento. Gli agenti antisommossa hanno respinto con i lacrimogeni circa 400 dimostranti che tentavano di sfondare le protezioni intorno a piazza Syntagma, dove ha sede il governo greco. L’obiettivo dei manifestanti era quello di impedire ai deputati di en-
Il vero confronto per il Governo è oggi con la popolazione che è ormai in rivolta e le misure di ieri non faranno che aumentare i malumori. Un popolo che crede che queste misure siano fatte non per il bene della comunità dei cittadini, ma per le sole istituzioni bancarie e per le istituzioni internazionali. E la gen-
trare e così iniziare a votare il pacchetto di tagli: un piano non riuscito, del quale ha fatto le spese anche un deputato, ferito dal lancio di un vasetto di yogurt. Successivamente, proprio durante le discussioni che hanno preceduto il voto, ci sono stati nuovi scontri di fronte al palazzo del Parlamento, quando i
te non crede nelle privatizzazioni. «Coinvolgere i creditori privati nel rollover del debito greco, siano essi banche, hedge funds o fondi, è un buon principio generale», ha affermato Angel Gurria, segretario generale dell’Ocse, commentando i possibili “danni collaterali” di un eventuale “default” dell’economia
dimostranti sono riusciti a rompere il cordone di protezione istituito dalla polizia, con gli agenti che hanno risposto al lancio di molotov con i lacrimogeni.Ventidue i fermati, 15 gli arrestati. Feriti oltre 300 civili e 37 agenti.
ellenica. Ma è anche vero che «Non c’è un piano B per salvare la Grecia dal default», aveva ripetuto ancora nei giorni scorsi il presidente della Commissione europea José Manuel Barroso. Molti analisti economici accusano il governo greco di aver “ truccato i conti” per poter entrare in Europa, e adesso a causa di controlli inadeguati e per la mancanza di una politica in questi anni di crescita dei paesi europei, oggi alcuni di questi rischiano il fallimento. Il futuro della stessa Europa passerà dalla Grecia, un paese che si dovrà ricostruire e reinventare e sarà il tassello importante per la stabilità economica di tutta l’Europa. Ma come potrebbe la minuscola Grecia da sola fare tanto danno, con un Pil inferiore a quello della città di Los Angeles? Si chiedono molti economisti americani. Gli americani, infatti, secondo le previsioni della triade newyorkese Standard & Poor’s e l’ultima, di Moody’s e Fitch, basandosi anche sul rapporto della scorsa settimana del Fmi, hanno sempre visto un´insolvenza greca come il primo tassello di una macroeconomia che collassa, con l’intera Europa mediterranea, più Irlanda e Portogallo, esposta al contagio. Eppure il fallimento del sistema-paese greco scatenerebbe un effetto domino che potrebbe prima o poi coinvolgere economie ben più grosse – ma egualmente malate – come la Spagna e soprattutto l´Italia. Una crisi quella greca che se non viene arginata può contagiare l´eurozona e questa poi a sua volta potrebbe compromettere la ripresa mondiale. Ma forse da oggi tutti possiamo tirare un sospiro di sollievo.
Se la Germania è considerata ancora la locomotiva d’Europa, con stime di crescita del Pil oltre il 3 per cento, la Polonia di oggi non ha molto da invidiare alla solidità tedesca: anche i campionati europei di calcio del 2012 saranno un traino prezioso per un rilancio economico che, secondo le stime, potrebbe toccare già quest’anno anche il 4,4 per cento. Ma il peso della Polonia non è aumentato soltanto sul fronte economico. Varsavia ha consolidato il suo ruolo di primo tra i nuovi partner dell’Europa a ventisette. Conquistando anche poltrone strategiche e ambite, come quella della presidenza dell’Europarlamento che è andata a Jerzy Buzek che l’ha letteralmente sfilata, nel maggio del 2009, al candidato italiano Mario Mauro. Anzi, più l’immagine del nostro Paese si è appannata a Bruxelles, più è cresciuta quella della Polonia in una specie di gara a colpi di sorpassi tra il primo degli ultimi e l’ultimo dei primi. Con un’accentuazione dell’autorevolezza polacca In alto, marcata dal cambio della guaril presidente dia al vertice politico tra il paruscente: tito conservatore di Jaroslav l’ungherese Kaczynski – fratello gemello di Viktor Orban; Lech, l’ex capo dello Stato che a sinistra, morì nell’incidente aereo di la folla in Smolensk – e quello centrista piazza del premier Donald Tusk e deldavanti l’attuale presidente Bronislaw al Parlamento Komorowski che è stato eletto di Atene. giusto un anno fa. Dall’euroNell’altra scetticismo dei gemelli Kaczynpagina: ski all’europeismo di Tusk e Koil premier morowski, la Polonia ha ricavapolacco to nuovo slancio. Che potrebbe Donald Tusk, servire da esempio per superada domani re anche la crisi greca. O, almealla guida del no, per sperare di superarla. semestre Ue
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grandangolo L’esercito: «Molti i dubbi su chi ha innescato la miccia»
Piazza Tahrir, riesplode la protesta popolare: mille feriti Il Cairo si rinfiamma e dal cuore della rivoluzione contro Mubarak lancia un messaggio forte e chiaro al suo successore: Tantawi. E non sembra voler tornare sui suoi passi. L’opinione pubblica l’ha detto più volte nelle settimane passate: «Non basta la testa del Faraone e quella dei suoi figli. Per un nuovo Egitto vogliamo che tutto cambi» di Antonio Picasso a cronaca degli scontri di piazza Tahrir, in Egitto, è la conferma delle previsioni più nere. Centinaia di arrestati e altrettanti feriti. In realtà, il bilancio è approssimativo. Al-Arabyia parla di 600 feriti. Il ministero della sanità del Cairo, inizialmente, riduce la cifra a duecento. Poi, nel tardo pomeriggio, ammette il coinvolgimento di ben un migliaio di persone. Il dato non è confortante. Dal 9 aprile l’Egitto risultava fuori dal quadrante delle sommosse. Le violenze sono scoppiate martedì, dopo la decisione della giunta militare di rinviare le elezioni di tre mesi, quando erano in agenda a settembre. Il pretesto ufficiale va cercato nell’operazione di dispersione della piccola folla che, proprio in piazza Tahrir, si è assiepata nuovamente. «Si è tornati indietro di cinque mesi», scrive il quotidiano cairota Masri al-Hayun. In realtà, sarebbero appena cinquemila i manifestanti scesi in piazza. Un quinto di loro già feriti. Nella giornata di ieri, l’impennata di tensioni.
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Il cuore della rivoluzione contro Mubarak, a febbraio, si è trasformato nel nucleo di una protesta che vuole e deve andare avanti. L’opinione pubblica l’ha detto più volte nelle settimane passate: «Non basta la testa del faraone e quella dei suoi figli. Per un nuovo Egitto vogliamo che tutto cambi». Non è sufficiente processare l’ex raìs alcuni suoi ministri (Rashid al commercio e Bou-
tros Ghali alle finanze), gli ultimi due peraltro in contumacia. Così come non soddisfa la popolazione l’eventualità che Mubarak venga addirittura condannato a morte per la violenta repressione orchestrata a febbraio. La gente comune, al Cairo, è convinta che non sia cambiato nulla. Anzi. E la scelta del governo provvisorio lo dimostra. Chi era al potere prima, paradossalmente, si è irrobustito, perché ha approfittato del vuoto istituzionale sopraggiunto, per accrescere il proprio controllo personale del Paese. Le diverse anime dell’opposizione, soprattutto, quelle a carattere islami-
Le violenze sono scoppiate martedì, dopo la decisione della giunta militare di rinviare le elezioni di 3 mesi co, illuse di arrivare effettivamente alle urne, hanno scelto la strada dell’attesa. Un cammino che si è tradotto in remissione, nelle mani dell’esercito, di quel processo di cambiamento che, al contrario, avrebbe dovuto essere colto subi-
to. Alla rivoluzione sarebbe dovuta seguire immediatamente una fase di ricostruzione. Invece, il controllo assunto dall’ex pletora presidenziale ha fiaccato le speranze della gente e incrementato le tensioni.
Tutto qui? Possibile che i disordini in corso debbano essere ricondotti unicamente al generale Tantawi? Secondo la logica, dalla giunta militare non ci si sarebbe potuti aspettare un’iniziativa dissimile. Tenendo conto che si tratta di esponenti anziani del passato regime, era naturale che il loro obiettivo fosse quello di restare in sella anche una volta disarcionato il comandante. Tantawi ha 76 anni. La sua nomina a ministro della difesa egiziano risale ancora al 1991. In un certo senso, è la fotocopia di Mubarak. Il fatto inoltre che la comunità internazionale lo abbia riconosciuto alla guida provvisoria del Paese deve far ragionare anche sulla urgente necessità che la rivoluzione in Egitto non provochi tanti scossoni.Visto così, il rinvio delle elezioni è lineare. Ma la realpolitik non è solo di matrice occidentale. E tanto meno si riduce a indossare le uniformi verde oliva delle forze armate. Il contesto socio-politico egiziano teme da anni il post-Mubarak. Anche se questo fosse arrivato in maniera pacifica. I poteri forti locali, responsabili dei quattro settori chiave dell’economia nazionale (energia, Nilo, Suez e turismo) non si possono assolu-
tamente permettere la vittoria del candidato sbagliato. Né come presidente, né come partito di maggioranza all’Assemblea nazionale. «A non volere le elezioni sono molti di più di quelli che possiamo immaginare», diceva ancora mesi fa una nostra fonte, copta e integrata da anni in Italia. Perché dalle urne può uscire vincitore il fautore di un vero cambiamento, in quel caso sì rivoluzionario per il Paese. L’Egitto è a un bivio. O vince la Fratellanza musulmana, con eventualmente annessi soggetti più radicali, di corrente salafita, oppure rallenta il passo della normalizzazione politica. Questo è possibile procrastinando il voto e, nel frattempo, emarginando le frange più radicali.
Interessante, a questo proposito, la posizione assunta dai Fratelli musulmani proprio in merito ai recenti fatti di piazza Tahrir. Sull’Ikhwanweb, sito ufficiale del movimento, si legge l’accusa rivolta a tutti i candidati alle presidenziali di «credere che Mubarak abbia abbandonato il potere». «In realtà non è così – si legge – il sistema che l’ex presidente aveva creato non è stato scalfito. Né sul fronte della sicurezza, né in seno alla società civile». È una nota, questa, indirizzata ai liberali, ai centri di potere finanziario, ma anche ai copti. Tutti pedine di un articolato sistema sociale, oggi chiuso a testuggine nell’evitare che, attraverso la democrazia, si arrivi alla vittoria della Fratellanza musulmana. Di
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Da Wasat a Libertà e Giustizia, si moltiplicano gli schieramenti a sfondo religioso
E intanto i partiti islamici si preparano alle elezioni (sperando di vincere) di Amani Maged irca 15 anni fa, una fazione dei Fratelli Musulmani si separò dall’organizzazione madre, con l’obiettivo di fondare un partito politico. La loro mossa, e il conflitto di 10 anni e mezzo che ne conseguì per costituire il partito Wasat (Centro), scatenarono un acceso dibattito sulla natura e la linea di una formazione politica inserita in una cornice islamica. Poco dopo la caduta di Hosni Mubarak il partito finalmente è stato legalmente riconosciuto. La notizia si è diffusa in tutto il paese, e non solo perché si trattava del primo partito costituitosi nell’era post-Mubarak. È giunto poi il turno degli stessi Fratelli Musulmani, che sono usciti dall’illegalità con il loro partito “Libertà e Giustizia”. Ben presto un gruppo di salafiti ha fatto lo stesso, con Al-Nour (il partito della Luce), che è stato ufficialmente riconosciuto pochi giorni fa. Sicuramente seguiranno altri schieramenti a sfondo religioso. Molti sono attualmente in fase di formazione, per esempio Al-Nahda (Rinascita) i cui fondatori sono rappresentati da Ibrahim El-Zaafarani, e il partito Al-Gama’a al-Islamiyya. La comparsa di così tanti partiti di ispirazione islamica ovviamente è per noi materia di riflessione, generando non poca ansia per quanto concerne il loro potenziale effetto sull’opinione pubblica e una notevole curiosità riguardo al loro futuro politico. Il partito Wasat è la creatura di tre importanti intellettuali egiziani: Mohamed Selim ElAwwa, il consulente Tareq El-Bishri, e il defunto Mohamed El-Mesiri. I tre ritenevano che, in quanto partito politico, le attività del Wasat avrebbero dovuto limitarsi alla sfera politica senza sconfinare nel proselitismo religioso. In altre parole, si figuravano Wasat come un partito di stampo unicamente civile che avrebbe offerto una visione politica d’ispirazione islamista basata su quei fondamenti tradizionali della civiltà islamica che legano musulmani e cristiani. I padri fondatori del Wasat e, dopo la sua legalizzazione, il partito stesso, hanno evitato le trappole e gli errori in cui sono caduti i Fratelli Musulmani, come la loro rigidità, la loro riluttanza al cambiamento e l’incapacità di creare canali di dialogo con le altre forze politiche. Ma non hanno ancora chiarito quale sarà la loro piattaforma elettorale. Il partito “Libertà e Giustizia” è sicuramente più preparato a riguardo, sebbene sotto molti
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conseguenza, è sempre il movimento a parlare, «è inopportuno che l’esercito chiami in causa la Costituzione e le relative modifiche apportare con il referendum del 19 marzo». Sulla carta il teorema ha la sua fondatezza. Chi teme la Fratellanza deve fare i conti con il sostegno di cui essa gode presso l’elettorato. La pratica mette in luce le contraddizioni tra questo fumus persecutionis, percepito dai Fratelli, e la solidità politica dimostrata dal loro candidato presidenziale di punta, Moha-
I poteri forti locali non si possono assolutamente permettere la vittoria del candidato sbagliato med el-Baradei. Ieri, l’ex diplomatico è stato in visita ufficiale ha Mosca, dove ha ricevuto il pieno sostegno del Cremlino. Se il movimento islamista risultasse effettivamente sotto attacco, avremmo ragione di credere che anche le possibilità di vittoria di el-Baradei sarebbero ridotte. Così non è però. D’altro canto, la giustificazione ufficiale del rinvio elettorale appare debole. «I partiti si devono organizzare», ha detto il vice premier Yahya el-Gamal. Per inciso: 85enne, lui sì compromesso con Mubarak! Questo è lo scenario egiziano, se visto in maniera manichea: i buoni (esercito e società civile), contro i cattivi (Fratelli musulmani, integralisti desiderosi di conquistare il Paese mediante il voto). Tuttavia, sapendo che il Medioriente è un’interminabile varietà di colori, soprattutto di grigi, bisogna ricordare anche le rivalità interne a questi due
gruppi. Ammesso che siano solo due. Perché da una parte, i copti ortodossi denunciano la collusione tra le forze armate e i salafiti, affinché la loro chiesa venga ghettizzata. Da qui i casi di conversioni forzate, matrimoni misti, nati a seguito di violenze subite dalla giovani cristiane e, infine, il rischio che l’instabilità in cui versa l’Egitto si traduca in un conflitto istituzionale. Dall’altro lato, il movimento islamista, si sa, è un caleidoscopio di orientamenti.
Se el-Baradei, di cui si conosce il taglio laico della visione politica, ha scelto di avvicinarsi alla Fratellanza, è lecito credere che, in seno a quest’ultima non tutti siano come il dottor al-Zawahiri. E in effetti, Fratelli musulmani e al-Qaeda non sono la stessa cosa. I primi meditano di governare l’Egitto. Eventualmente con un programma di governo simile a quello del premier turco Erdogan. Della seconda si conosce, fin troppo bene, l’ambizione del califfato. Ciò non toglie che la presenza salafita, realtà ambigua, estremista e che non nega di perseguire i propri scopi eventualmente ricorrendo alla violenza, sia nociva per coloro che sognano di far convivere in Egitto un Islam moderato con una struttura politica laico-democratica. In realtà, un’eventuale conferma dell’intreccio governoIslam, che sarebbe già in corso, viene dalla Tunisia. L’associazione Yalla Italia, la cui visione obiettiva dei fatti è fuori di dubbio, ha denunciato la scelta del governo provvisorio di permettere alle donne di essere fotografate con il velo. «La Tunisia non aspettava altro. Prima il velo e poi tutto il resto. Mentre i giovani e i talenti tunisini rischiano la vita per arrivare a Lampedusa, il governo investe tempo per discutere di veli e di fotografie». Tunisi può aver preso questa strada per calmare le derive estremiste. Lo stesso potrebbe avvenire al Cairo. Tuttavia, alzi la mano chi è ciecamente sicuro che, dalle rivoluzioni, si arrivi subito al migliore dei mondi possibili in Nord Africa.
aspetti oggi i Fratelli Musulmani siano il prodotto di anni di repressione, a partire dalla condanna a morte di Sayed Qotb nel 1966, che costrinse l’organizzazione alla clandestinità. Da allora gran parte dell’attività della Fratellanza è stata soprattutto filantropica, focalizzandosi sulle questioni spirituali dei musulmani e assistendo i poveri fornendo loro gratuitamente cure mediche, istruzione e altri servizi. Comunque il movimento è rimasto caratterizzato da un’organizzazione strettamente unitaria e gerarchica. Un altro suo punto di forza è il livello culturale e d’istruzione piuttosto elevato dei suoi membri.
Una delle sfide più importanti che il partito “Libertà e Giustizia” affronta al momento è dimostrare quanto sia sincera la sua promessa di tracciare una netta linea di distinzione fra il partito e l’organizzazione madre, e di tenere la religione fuori dalla politica. Certo è che sono abbastanza forti da poter vincere un numero considerevole di seggi parlamentari. Al-Nour, il primo partito salafita a essere ufficialmente riconosciuto dalla Commissione dei Partiti Politici, incontrerà sicuramente difficoltà organizzative. I salafiti hanno evitato a lungo il coinvolgimento politico. Di fatto molti di loro, per diverso tempo, hanno sostenuto che fare politica costituisse un peccato, che la democrazia e la partecipazione alle elezioni fossero un’eresia, e perfino che ribellarsi a un despota fosse sbagliato. Poi è arrivata la rivoluzione, e improvvisamente abbiamo trovato i salafiti fra le file dei manifestanti, intenti a formare partiti politici e a impegnarsi in attività politiche d’altro tipo, con grande costernazione di liberali e laici. Comunque non si può negare che i salafiti godano di un significativo appoggio popolare e che, per quanto nuovi nel panorama egiziano, abbiano buone possibilità di ottenere non pochi seggi parlamentari. Altri partiti di orientamento religioso stanno emergendo all’orizzonte: oltre al progetto di Al-Gama’a al-Islamiyya e Al-Nahda, ci si aspetta quello di una coalizione di ordini Sufi. Resta però il fatto che nella competizione fra i partiti islamici, Wasat e “Libertà e Giustizia” concorreranno probabilmente testa a testa. Quanti seggi vinceranno e in che direzione andranno, però, è una storia che ancora non si conosce.
cultura
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l titolo è scioccante: Quando lo Stato uccide. Un’indagine senza pregiudizi sul grave problema della violenza delle Forze di Polizia. Gli autori, Della Tommaso Longa e Alessia Lai (Castelfranchi editore) hanno fatto una ricerca seria: se sono discutibili alcuni giudizi, non lo sono certo alcuni dati né alcuni drammatici racconti. Non c’è dubbio che nel nostro Paese non sono mancati né errori né abusi. Mettiamo subito le cose al loro posto: lo Stato è l’unico possibile titolare dell’uso della forza. Nessun altro soggetto è autorizzato a farlo. Quindi, hooligans, black block, e Forze dell’ordine non sono sullo stesso piano. Ciò non vuol dire che a queste ultime sia consentito di non sottostare a precise regole. Anzi, proprio perché sono autorizzate anche ad usare la forza, lo devono fare solo in condizioni di estrema necessità e con l’avvedutezza, la prudenza, il rispetto delle leggi, del buon senso e della pietà. Dentro questo schema il libro in questione può essere di grande utilità proprio perché aiuta anche i tutori dell’ordine, oltreché l’opinione pubblica, a vedere limiti, errori, abusi che pure ci sono stati. Insomma, il saggio di Tommaso Della Longa e Alessia Lai è caratterizzato da luci e ombre. Affermazioni condivisibili insieme ad approcci discutibili. È sicuramente vero, ad esempio, che l’Italia finisce più frequentemente di altri Paesi europei nella black list di Amnesty International per il comportamento delle sue Forze dell’ordine o per la situazione delle sue carceri.
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Ed è vero che dal 1975 (anno della legge Reale) ad oggi in Italia ci sono stati ben 254 morti e 371 feriti. Ma non dovrebbe essere mai dimenticato che quel provvedimento fu di grande importanza per sconfiggere il terrorismo. È vero che dal momento della sua applicazione ad oggi nel nostro Paese ci sono stati più morti causati dalla polizia di quanto sia accaduto in altri Paesi europei, ma è anche vero che in nessuno di questi si è verificata un’insorgenza terroristica e criminale paragonabile alla nostra. E questo farebbero bene a ricordarselo tutti, compresi i giudici francesi e quelli brasiliani che affrontano con insopportabile leggerezza e faziosità la vicenda di Cesare Battisti. È vero - come afferma il libro - che Amnesty International ha più volte denunciato come «a distanza di vent’anni dalla ratifica della Convenzione delle Nazione Unite contro la
Limiti, errori e abusi della Polizia nel libro-inchiesta “Quando lo Stato uccide”
Forze dell’ordine o del disordine? di Gabriella Mecucci tortura, l’Italia resta priva, di uno specifico reato di tortura nel Codice penale», ma è altresì vero che proprio di recente in più di un paese occidentale - nel momento più acuto dell’attacco di al Qaeda - si è discusso proprio su dove fissare i limiti del
glio ricorrere all’attività dell’intelligence e, poi, subito dopo, mettere sotto accusa i servizi segreti. Ma andiamo avanti con le luci e con le ombre del saggio. Il racconto dei fatti della scuola Diaz di Genova in occasione del G8 2001 è molto effi-
Non convince invece l’approccio al caso Giuliani. Al netto di ritardi nei soccorsi e di alcuni errori e isterie - il momento però non induceva certo alla serenità - resta indiscutibile che il gruppo di giovani circondò il defender: fu un asse-
Una ricerca seria, anche se in alcuni passaggi un po’ faziosa, in cui gli autori Della Longa e Lai raccontano luci e ombre delle nostre istituzioni attraverso i fatti della scuola Diaz di Genova o la tragica morte di Sandri, Cucchi e Aldrovandi lecito in un interrogatorio ai terroristi islamici. La denuncia è giusta, ma i contesti storici contano. Non si può, quando si parla di qualche intervento armato in Paesi con feroci dittature, sostenere che sarebbe me-
cace. Ciò che accadde, pur non dimenticando le devastazioni dei black block, è del tutto ingiustificabile. Così come è vero che quegli episodi hanno segnato uno spartiacque nella coscienza dell’opinione pubblica.
In questa pagina: il libro “Quando lo Stato uccide”; uno scatto degli autori Della Longa e Lai durante la presentazione; le foto di Aldrovandi, Sandri, Cucchi e Giuliani; un disegno di Michelangelo Pace
dio con mazze e sassi. Ed altrettanto indiscutibile è che Giuliani - il volto coperto dal passamontagna - sollevò l’estintore con la volontà di scagliarlo contro il mezzo delle Forze dell’ordine. In questa si-
tuazione di reale minaccia, Mario Placanica sparò. Nessuna controinchiesta è riuscita a dimostrare in modo convincete che a premere il grilletto fosse stato un altro. Di recente la sentenza della Corte europea ha assolto in via definitiva lo stato italiano in quanto non ha commesso nessuna violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Quello del 2001 fu un giorno tragico e nessuna decisione della magistratura, anche la più autorevole, può far dimenticare la tragedia di quel ragazzo morto a vent’anni. Ma non si può non ricordare la sentenza europea di piena assoluzione, che stabilisce una verità processuale senza dar spazio a dubbi. Una verità che non sana il dolore e non risponde agli interrogativi sugli errori, che non può però non essere considerata come un punto fermo sull’intera vicenda.
Altro discorso vale per le tragiche storie come quella di Gabriele Sandri. Il libro è particolarmente efficace nel ricostruire il comportamento dei media in quella occasione: oscillò fra l’assurdo e i grottesco. Da quale pistola era partito il colpo fu chiaro sin da subito, ma agenzie e televisioni continuarono a tacere. La conferenza stampa della polizia, ad Arezzo, fu carica di ambiguità, di non detti, ma soprattutto venne chiesto ai giornalisti di non fare domande. E quando ormai la dinamica dei fatti era chiara, i media continuavano a sostenere: «Un morto per i tafferugli scoppiati fra tifoserie». Non fu una bella prova da parte del giornalismo italiano. I primi che cercarono di diradare le nebbie furono Giampiero Mughini e Oliviero Beha. Accanto a questa storia, ce ne sono molte altre - anche più recenti - raccontate con puntigliosità e dovizia di particolari. Ci sono poi numerose interviste a responsabili del sindacato di Polizia, nonché al presidente nazionale dell’Unione Nazionale Arma Carabinieri. Testimonianze interessanti che denunciano le difficoltà delle Forze dell’ordine, lasciate spesso a secco di finanziamenti e non sufficientemente preparate professionalmente per far fronte alle situazioni più difficili. Insomma, un buon libro, appassionato, qualche volta fazioso, ma certamente utile a spiegare le ragioni di alcune morti e a sollevare un problema su cui è sempre giusto interrogarsi, senza nulla togliere al rispetto per le istituzioni preposte a garantire l’ordine pubblico.
cultura
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«La bellezza? Oggi riesco a trovarla solo nei difetti». A tu per tu con il celebre architetto e designer italiano Gaetano Pesce
Quando l’arte sposa l’anima di Rita Pacifici
li oggetti hanno la capacità di evocare, commentare la realtà, essere dei compagni parlanti e non semplicemente delle presenze silenziose e quando un oggetto non è muto e ci parla, ci aiuta». A guardare il paesaggio della quotidianità disegnato da Gaetano Pesce, è evidente la radicalità di un pensiero che sovverte i luoghi comuni e la ricerca appassionata di chi crede in un dialogo possibile tra l’uomo e le cose. Ecco allora le lampade con gli occhi e i piccoli sonagli pensate per chi è solo, i mobili fluidi dotati di volti e mani, le poltrone dalla forma antica che si modificano e ci avvolgono come coperte. Ecco poi il colore declinato sempre nei toni accesi,“portatore di energia positiva”, che caratterizza tutta la produzione del celebre architetto e designer italiano, fatta di oggetti mutevoli, sensuali, restituiti al piacere dello sguardo e del tatto, riabilitati al ruolo di soggetti curiosi e da esplorare.
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Nato a La Spezia nel 1939, Pesce, vive da tempo a New York, dove si è fermato dopo aver lungo viaggiato e dove ha esposto per la prima volta a soli 24 anni. Alla città adottiva ha reso omaggio con alcuni lavori tra cui i divani che esibiscono lo scintillante skyline simbolo della modernità. Quel che lo ispira, commenta l’artista, «è la convinzione che l’espressione nella nostra epoca non ha a che fare più con l’astrazione ma con delle rappresentazioni riconoscibili che consentono una comunicazione più profonda».
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ne psicologico come il piacere, come l’intrattenimento, il divertimento, allora questo è quello che mi sono posto come scopo, perché è importante che il lavoro abbia un senso, non sia solo astratto, dogmatico, pratico, ma che magari faccia sorridere». In tempi dominati dal rigore razionalista e dal non colore, l’intuizione di un design non più appiattito sul criterio della praticità, costituisce un’autentica rivoluzione copernicana, che conduce Gaetano Pesce a focalizzare l’attenzione sull’espressività dei materiali. Cardine di questa nuova poetica degli oggetti è il principio dell’assoluta contemporaneità: «Sono convinto che per una questione
Tutti gli oggetti hanno la capacità di evocare, commentare la realtà, essere dei compagni parlanti. Non sono mai unicamente delle presenze silenziose
E immagini e paesaggi familiari abbondano nelle sue creazioni, espressione di un ingegno multiforme tipicamente italiano, rappresentate ormai nei maggiori musei d’arte contemporanea come, per citarne alcuni, il Museum of Modern Art e il Metropolitan di New York, il Museum of Modern Art di San Francisco, il Victoria & Albert Museum di Londra, il Centro Georges Pompidou di Parigi. L’esordio avviene negli anni Cinquanta, ci racconta Pesce, «nell’ ambito di una tradizione dove si insegnava che l’oggetto doveva esser funzionale, pratico e allora ho cominciato a cercare altre qualità. Se si poteva dare qualche vantaggio d’ordi-
servare anche nella produzione industriale le particolarità proprie di un manufatto. Già nel ‘72 Pesce realizza la sedia Golgotha, primo esempio di una serie industriale dove ogni pezzo possedeva caratteristiche proprie e difendere l’unicità pur nella serialità che continua a essere il segno distintivo della sua lunga attività. Anche l’ultima creazione è un oggetto complesso, uno e multiplo, che unisce l’estro artistico e la celebrazione storica: «Ho pensato di partire dalla mappa della nostro Paese e realizzare sessantuno tavoli che rappresentano i territori, uno diverso dall’altro, numerati secondo l’ordine in cui entrano a far parte del nuovo stato, quindi è una celebrazione dell’Italia unita ma anche delle sue diversità territoriali e culturali». Sessantuna, declinata «come Italia, provincia, regione», è una delle tante invenzioni che rivela come l’universo di Pesce sia connotato da una particolare sensibilità: «Il mio è un mondo al femminile», afferma, «perché penso che la nostra realtà è un tempo liquido. L’uomo è un essere che pensa secondo una linea omogenea e diritta, non organica, rigida molte volte, che ha fatto la sua storia, ma il mondo attuale è un mondo composito, pluridisciplinare e la pluralità è più tipica della mente femminile; quindi penso che la storia si potrà rinnovare attraverso questo modo di pensare che oggi si apre al mondo con dei contribuiti importanti». Proprio Donna, la poltrona dalle curve generose legata a un pouf a for-
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di sincerità dobbiamo esprimerci con i materiali del nostro tempo e il nostro tempo è quello dei materiali plastici. Ma questa è parola molto riduttiva perché si tratta di famiglie immense, varie, con caratteristiche di grande versatilità che i materiali della tradizione non possiedono». Da questa ricerca nascono prodotti originalissimi tra i quali i vasi che replicano in modo sorprendente le sfumature e le trasparenze del vetro, all’apparenza fragili ma che si rivelano morbidi ed elastici, le sedie destrutturate, le poltrone dai drappeggi esuberanti o che simulano prati fioriti. Sapienza tecnica e cultura umanistica si fondono per con-
In questa pagina: uno scatto dell’architetto e designer italiano Gaetano Pesce e le sue creazioni “Donna” (in alto), “Golgotha” e “Sessantuna” (in basso)
ma di palla, a ben visualizzare una condizione storica di subalternità e di prigionia, del resto, è tra le invenzioni che più gli sono care e che meglio rappresentano il suo stile ironico ed espressionistico. Lanciato sul mercato nel ’69, definito «l’oggetto del secolo» da un’importante rivista d’arte, questo pezzo è divenuto una vera icona di un design che è anche personale testimonianza, concepito, ci dice, «non come un lavoro semplicemente formale, ma l’occasione per parlare di qualcosa che evoca punti di vista politici, esistenziali o filosofici». E un commento a tempi di cieco consumismo è anche il risultato della più recente ricerca. Sconfinando nel campo della moda, Pesce ha creato scarpe mutanti che si trasformano in sandali e scarponcini, e che «hanno la pretesa di risvegliare la creatività in chi le acquista e permettono di esprimere il proprio gusto partecipando a questo processo di definizione delle forme». Sollecitare risposte individuali è, secondo il designer, anche la vera finalità di ogni didattica, attività a cui si è dedicato intensamente in prestigiosi istituti in America e in Europa. «A Strasburgo», ricorda, «un giorno mi hanno chiesto cosa insegnavo e io ho risposto di insegnare quel che non so, scatenando le critiche del ministro della Cultura di allora. Ma io volevo invitare i giovani a sperimentare che significa indagare in quel che non si sa e a non apprendere da me, ma dal loro essere».
Spirito libero e antidogmatico, Gaetano Pesce non propone canoni estetici. E la bellezza che ha guidato a lungo il destino delle espressioni artistiche? «La bellezza oggi è esplosa, ogni individuo ha una propria idea e quindi la bellezza per me è una bellezza di difetti, molto umana». Quel che ritiene invece sia davvero importante per un design sempre più vicino all’arte è che «in questo inizio di XXI secolo gli oggetti debbano avere una presenza non solo olfattiva o uditiva ma che siano capaci di parlare a tutti i sensi». Che trionfi, in sostanza, l’idea di un oggetto mai statico, mai univocamente sottoposto allo sguardo degli uomini e che anche le cose inermi possano reclamare nonostante «la potente macchina della standardizzazione» il proprio diritto alla differenza.
ULTIMAPAGINA In Amazzonia 63 comunità di indios vivono senza alcun contatto con la civiltà
Gli uomini che sussurrano a un mondo di Marco Ferrari
ell’Amazzonia ci sono ancora 63 comunità di indios che hanno deliberatamente scelto di evitare il contatto con l’esterno. Sono i popoli più vulnerabili del pianeta. Survival international ha lanciato una campagna mondiale per difendere le loro terre e le loro vite. Ed è ricorsa al metodo più esplicito per dimostrare l’esistenza di queste tribù isolate: un filmato girato nello stato dell’Acre dalla Bbc per la trasmissione Human planet da bordo di un aereo utilizzando potenti zoom capaci di cogliere figure in movimento a un chilometro di distanza. Minacciati dai siringueros, dai madereiros, dai deforestatori e raccoglitori di caucciù, oltre che dalle compagnie petrolifere, questi nuclei in estinzione sono diventati mobili, spostano i loro accampamenti nella selva per garantirsi la sopravvivenza in uno stato come l’Acre dove c’è la più alta concentrazione di popolazioni isolate al mondo.
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In Brasile sono stati censiti circa 460 mila indios distribuiti in 225 società, lo 0,25% della popolazione nazionale, di questi 150 mila vivono fuori dai loro territori naturali. I Guarani del Brasile stanno soffrendo terribilmente per la perdita quasi totale delle loro terre e gli attacchi violenti dei coloni. Per loro la terra è origine di ogni forma di vita. Ma il loro territorio è stato completamente invaso e devastato da allevatori e imprenditori agricoli. I loro leader
per un video meraviglioso, il primo girato su una tribù incontaminata. Così il governo peruviano ha sostenuto che collaborerà con il Dipartimento agli Affari Indigeni del Brasile (Funai) per proteggere tutta la zona in modo più efficace. La sopravvivenza della tribù è messa a rischio dalla penetrazione massiccia e illegale di medereiros nel versante peruviano del confine. Le autorità brasiliane ritengono che l’invasione stia spingendo gli indiani isolati peruviani verso il Brasile per evitare conflitti o essere decimati dalle malattie importate dall’esterno. Meirelles ha già classificato e individuato 69 tribù isolate, a 22 di loro è stato garantito uno spazio autonomo e protetto. I precedenti tentativi di integrare i gruppi isolati alla società sono miseramente falliti: due terzi della popolazione interessata è infatti stata decimata proprio dal contatto. «Si rischia il genocidio, solo loro possono decidere quando e come avere rapporti con noi» ha dichiarato Mei-
Meirelles ha lavorato per anni fianco a fianco con Sidney Possuello, altro sertanista di grande valore, fondatore del dipartimento di protezione degli indios e già presidente del Funai si-
INVIOLATO relles, 61 anni, 37 dei quali impegnati a percorrere in lungo e in largo la foresta amazzonica per creare fasce di rispetto degli indigeni. Per i popoli che sono sconfinati dal Perù al Brasile, Meirelles ha sorvolato per alcuni giorni un’area di 150 chilometri quadrati, ma ogni volta che individuava una capanna non vedeva nessun essere umano. «Quando le donne sentono un rumore nel cielo – spiega – corrono a nascondersi nella vegetazione pensando che sia un grande uccello». Così ha scelto il momento in cui gli uomini rientrano al villaggio dalla battuta di caccia ed è riuscito a intuire che la comunità è in crescita, nonostante gli attacchi.
Minacciati da siringueros, madereiros, deforestatori e raccoglitori di caucciù, questi nuclei in estinzione spostano i loro accampamenti nella selva per garantirsi la sopravvivenza vengono assassinati e i loro bambini muoiono di fame. A centinaia si sono tolti la vita. La Bbc si è fatta accompagnare nel giro di ricognizione aerea dal sertanista José Carlos dos Reis Meirelles, responsabile del Frente de Proteção Etno-Ambiental do Alto Envira, alla frontiera tra Brasile e Perù. Un vero e proprio smacco per il governo peruviano che aveva negato l’esistenza di tali tribù, definendole invenzioni di ambientalisti e antropologi. La star cinematografica Gillian Anderson è scesa in campo per aiutare Survival a difendere queste tribù amazzoniche prestando la voce
Sotto e in basso, immagini di alcune tribù che vivono in Amazzonia senza alcun contatto con la civiltà moderna. Sopra, un fotogramma del film di Mel Gibson “Apocalypto”
«Quando ho notato che avevano il volto dipinto di rosso – dice – ho intuito che sono pronti a difendere il loro spazio vitale. Io ne so qualcosa, sono stato ferito da una freccia degli indios. Il loro isolamento è una scelta che dura da più di 500 anni e va rispettata». Negli ultimi decenni la filosofia di approccio alle tribù irriducibili è cambiata grazie anche alla legge sulla demarcazione dei territori indigeni, attualmente un migliaio per un totale di 9,4 milioni di ettari. Una linea nata su esperienze pilota, avviate già nel 1910, consolidatasi con il lavoro di Teofilo Ottoni o dei fratelli Villas Boas, i primi ad aver creato un parco per gli indios, quello del Rio Xingù e quindi dell’isola di Bananal sul Rio Araguàia. José Carlos dos Reis
no al 1993 quando si staccò in polemica con l’allora Presidente della Repubblica Brasiliana Itamar Augusto Cautiero Franco passando a organizzazioni umanitarie.
La loro prima missione congiunta si svolge nel ’72 nella Serra dos Parecis dove contattarono i Cintas Largas e i Suruì della Rondonia. Da allora il Funai ha aperto canali di riservatezza nei contatti con gi indios: con i Krenakarore del Mato Grosso nel 1973-73, i temibili “indios giganti”; nel 1975 i Maya del Rio Quixito alla frontiera tra Brasile e Perù; nel 1978 i seminomadi Guaia del Maranhao; quindi la pacificazione tra Aràra e Parakana; nel 1989 i Potunudjara di etnia tupì del Rio Cuminaparèma, gli ultimi 142 indios forniti di un cilindro di legno poturù inserito nel labbro inferiore. L’ultima riserva è stata creata l’anno scorso per il gruppo Chiquitano nel Mato Grosso alla frontiera con la Bolivia con un perimetro di 121 chilometri. Il sistema per avere contatti con i popoli irriducibili è quello del tapirì, una capanna vuota in cui si appendono varie cose, in maniera che si comprenda che sono regali. Se i doni vengono raccolti o vengono scambiati è l’inizio del contatto, se invece le capanne vengono distrutte il tentativo finisce lì. La politica radicale del non contatto è comunque migliore di quella dell’integrazione che ha prodotto effetti devastanti come suicidi, uccisione di neonati e donne diventate sterili. Muore così una delle culture più antiche e naturali del pianeta.