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he di cronac

Abbiate fiducia nel progresso, che ha sempre ragione anche quando ha torto

Filippo Tommaso Marinetti

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • VENERDÌ 1 LUGLIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La riunione viene interrotta per mettersi d’accordo sui costi della politica, con Letta che ha cercato la mediazione

La truffa delle tre manovre

Da quella del 2008 a quella di oggi, 220 miliardi. Senza crescita Nessuno lo dice: le misure degli ultimi 3 anni toccano cifre record. Ma strategie di sviluppo zero Teso Consiglio dei Ministri, la scure soprattutto sugli enti locali. L’Anci: «Così il federalismo muore» Un’ennesima prova di inaffidabilità

di Errico Novi

Governospaccato Bossivota contro il decretorifiuti

ROMA. Un mare. Un oceano. L’entità degli interventi sui conti pubblici fa impressione. Soprattutto se si recupera un attimo il calcolo complessivo, quello che viene fuori dall’accorpamento delle altre manovre già approvate negli ultimi anni. Prima ancora che il Consiglio dei ministri esamini il nuovo “Documento di stabilizzazione finanziaria”, sul Paese già grava un carico tremendo.

Dopo la débacle Berlusconi ammette : «Non sono il socio di maggioranza di questo esecutivo, sono costretto ad ascoltare gli altri» di Gualtiero Lami

La successione a Bankitalia

Grilli perde posizioni, Il leader Udc: «Sì al dl rifiuti» Tre economisti commentano avanza Casini: «Norme «Ci voleva molto Saccomanni stupide e sleali. più coraggio Andiamo al voto» su tasse e tagli» a pagina 2

di Alessandro D’Amato

ROMA. Un Cavaliere di minoranza. Inedito. In genere Berlusconi si vanta di poter risolvere tutto, in special modo quanto si tratta dell’emergenza rifiuti. Ma nella riunione con gli enti locali - Conferenza delle Regioni, Upi e Anci - confessa i limiti della sua condizione: «Non posso fare più di quanto previsto da questo decreto», dice nell’illustrare il provvedimento che di lì a poco porterà in Consiglio dei ministri, «non posso perché non ho il 51 per cento. Devo tenere conto anche degli altri». a pagina 3

ROMA. Grilli, Saccomanni o Bini Smaghi? Mentre Mario Draghi prende cappello per trasferirsi a Francoforte su una poltrona che sicuramente sarà adatta alle sue capacità, impazza il totonomine per la Banca d’Italia, il fortino più autorevole. a pagina 6

«Il testo di Tremonti «Questa legislatura è una sconfitta in fieri, ha mollato del tutto che scarica su chi verrà il Paese». Parlano Onida, tutti gli oneri» Dell’Aringa e Vaciago Vincenzo Faccioli Pintozzi • pagina 5

Francesco Lo Dico • pagina 4

Dopo l’Africa, l’Impero vuole mettere un piede nell’Eurozona

Ancora scontri fra manifestanti e polizia

Pechino si compra la Grecia

L’austerity passa in Parlamento, ma la piazza esplode

La crisi del debito spinge la Cina a investire nel Mediterraneo di Gilda Lighounis a Grecia prova ad uscire dalla crisi economica. E se l’Ue non firma più “assegni in bianco”per il suo salvataggio, molti ellenici iniziano a guardare alla Cina come possibile salvagente. Nel frattempo le relazioni economiche Atene - Pechino crescono in fretta, anche se non mancano punti d’attrito. «L’unica via di salvezza per la Grecia? Farci prestare soldi non dall’Unione Europea e dal Fondo monetario internazionale (Fmi), ma dalla Cina o dalla Russia, ovviamente a tassi d’interesse sostenibili». A parlare così all’immensa folla degli “indignados”, riuniti per la dodicesima giornata di seguito da-

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gue a (10,00 pagina 9CON EUROse1,00

di Pierre Chiartano

ROMA. Ancora occhi puntati sul Parlamento greco, chiamato ieri a votare la legge d’attuazione del piano di austerità approvato mercoledì. Borse europee in rialzo per la quarta seduta consecutiva, spinte dal settore bancario sulle speranze che la Grecia approvasse, definitivamente – come è poi avvenuto – il piano di austerità che le permetterà di evitare il default di un debito in scadenza. Dopo un primo voto, il parlamento greco ha dato ieri l’ultimo via libera alla manovra. Ora la situazione del Paese potrebbe essere sintetizzata così: il sì di Papandreou e il no della piazza. a pagina 11

vanti al Parlamento di Atene, in una domenica di giugno, non è stato né un economista né un politico di professione. È stato il grande musicista Mikis Theodorakis, conosciuto in Italia per le colonne sonore dei film Zorba il greco (1964) e L’orgia del potere (1969) e per il fatto di essere stato più volte imprigionato e relegato in esilio coatto in isolette dell’Egeo come Ai Stratis (a sud di Lemnos) durante la dittatura dei colonnelli fra il 1967 e il 1974. Theodorakis non ha mai smesso né di comporre musica né di occuparsi dei problemi sociali del suo Paese. a pagina 10 I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

126 •

WWW.LIBERAL.IT

• CHIUSO

IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


il fatto Sul Paese si abbatte un intervento con duri sacrifici e nessuna concessione alla crescita. Presentata la bozza di riforma fiscale

Tutta la verità sui conti

Con la manovra di ieri si arriva a 200 miliardi di tagli in quattro anni. È questo il dato reale se si aggiungono le correzioni di 2008 e 2010 i numeri di Errico Novi

ROMA. Un mare. Un oceano. L’entità degli interventi sui conti pubblici fa impressione. Soprattutto se si recupera un attimo il calcolo complessivo, quello che viene fuori dall’accorpamento delle altre manovre già approvate negli ultimi anni. Prima ancora che il Consiglio dei ministri esamini il nuovo “Documento di stabilizzazione finanziaria”, sul Paese già grava un carico tremendo. Basta un rapido riassunto delle puntate precedenti per comprendere dunque il senso dell’allarme lanciato appena due giorni prima dalla Corte dei Conti: i nuovi interventi sulla finanza pubblica rischiano di creare una situazione ai limiti della sostenibilità. Certo che è così. «Un percorso così impervio, con tagli che in termini reali raggiungono l’8 per cento del bilancio, richiederebbe strumenti per recuperare condizioni di crescita più sostenuta», aveva ammonito il presidente di Sezione della Corte, Luigi Mazzillo. Nella nuova manovra varata dal Consiglio dei ministri c’è solo qualche salvagente. Come quello per gli agricoltori indebitati o per gli splafonatori delle quote latte. Forse l’unico vero elemento di incentivo allo sviluppo concesso da Tremonti è il rinnovo del bonus di produttività sul lavoro. Il resto è sacrificio. E il punto è che il sacrificio previsto da questi altri 47 miliardi di aggiustamento si somma a quel-

E il Cdm si ferma per discutere sui costi della politica

Nel mirino pensioni e Iva Per l’Anci «le misure uccidono il federalismo» Iva e dipendenti pubblici - La bozza finale contiene un giro di vite sulle assenze dei dipendenti pubblici: la visita fiscale per assenza per malattia, si legge, arriverà «sin dal primo giorno, quando l’assenza si verifica nelle giornate precedenti o successive a quelle non lavorative». In precedenza, il controllo poteva essere disposto «nel caso di assenza di un solo giorno, tenuto conto delle esigenze funzionali e organizzative» dell’amministrazione. La bozza del ddl delega per la riforma del fisco all’esame del Consiglio dei ministri non prevede poi nessun aumento dell’Iva ma soltanto la «revisione graduale delle attuali aliquote, tenendo conto degli effetti inflazionistici prodotti da un aumento». «Con l’esclusione dei titoli pubblici ed equivalenti» è prevista, inoltre, l’«introduzione di un’unica aliquota per le ritenute e le imposte sostitutive applicabili sui redditi di capitale e sui redditi diversi di natura finanziaria non superiore al 20 per cento, facendo salva l’applicazione delle minori aliquote introdotte in adempimento di obblighi derivanti dall’ordinamento dell’Ue». Pensioni e bonus - Sale l’età pensionistica delle donne nel settore privato. A partire dal 2020, si legge nella bozza finale del provvedimento, ci vorrà un mese di più, cioè 60 anni e un mese, per andare in pensione. I requisiti anagrafici verranno poi aumentati di due mesi a partire dal primo gennaio 2021, per poi proseguire in modo progressivo fino all’ultimo scaglione, fissato al primo gennaio 2032. È confermata per

l’anno 2012 «una tassazione agevolata del reddito dei lavoratori» collegato «a incrementi di produttività, qualità, redditività, innovazione, efficienza organizzativa». Nella bozza si specifica infatti che il «governo, sentite le parti sociali, provvede entro il 31 dicembre 2011 alla determinazione del sostegno fiscale e contributivo» in questione, «nei limiti delle risorse stanziate con la legge di stabilità». Da fonti ministeriali, poi, si apprende anche che il dicastero dei Beni culturali è escluso sia dal taglio dei residui passivi sia da qualsiasi ipotesi di rimodulazione futura delle risorse. Nessun taglio quindi né allo spettacolo né alle istituzioni culturali. Con la manovra, anzi, arriva la possibilità di destinare il 5 X mille alla cultura. Federalismo - L’Anci fa sapere che nel caso in cui corrispondesse al vero il taglio del fondo di riequilibrio, aggiuntivo rispetto a quello prodotto con la manovra del 2010, «si decreterebbe la chiusura dei servizi comunali e il federalismo arriverebbe al capolinea». Frequenze all’asta - La bozza prevede ancora che per evitare la disattivazione coattiva degli impianti, le tv locali dovranno liberare le frequenze messe all’asta entro e non oltre il 31 dicembre 2012. «Alla scadenza del predetto termine (31 dicembre 2012) - si legge nel testo - in caso di mancata liberazione delle frequenze l’amministrazione competente procede senza ulteriore preavviso alla disattivazione coattiva degli impianti avvalendosi degli organi della polizia delle comunicazioni».

li già richiesti con le due precedenti manovre pluriennali varate nella legislatura. Ovvero, il piano triennale approvato a giugno 2008 e l’aggiustamento dell’anno scorso. Se si cumulano gli effetti di queste due precedenti correzioni, si arriva alla seguente sequenza di tagli: 17,2 milioni per il 2010, 43,6 per quest’anno, 57,5 per l’anno prossimo e 57,7 per il 2013. Fanno 176 miliardi di risparmi tra maggiori entrate e minori spese, con un’inevitabile prevalenza di queste ultime. Ora, se a tale già astronomica cifra sommiamo gli altri 47 miliardi di euro previsti dalla manovra appena varata, arriviamo a cifre che fanno tremare le vene ai polsi: 223 miliardi di euro totali. Con un’incidenza impressionante soprattutto sul 2013, anno in cui si dovrebbe chiudere la legislatura. Se infatti l’aggravio per l’anno in corso è più contenuto, giacché ai 43,6 miliardi già impegnati dalle due manovre precedenti se ne dovrebbero aggiungere solo un paio, già l’anno prossimo la somma dei tre interventi sulla finanza pubblica toccherebbe la cifra di 63 miliardi; e l’anno dopo ancora, il 2013 appunto, dovremmo aggiungere ai 57,7 miliardi tagliati tra 2008 e 2010 i 20 miliardi aggiuntivi imposti con il documento approvato ieri, e fanno 77,7 miliardi in una volta sola.

È appunto così vasto il mare dei sacrifici che i ministri ci si perdono, vi annaspano. Prima della riunione di Palazzo Chigi, Berlusconi e Tremonti si appartano per un lungo colloquio pre-


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1 luglio 2011 • pagina 3

la spaccatura

Vergogna lumbàrd: no al decreto rifiuti Il dl passa ma senza i padani. Il Cavaliere: «Non posso fare di più, non ho la maggioranza» di Gualtiero Lami

ROMA. Un Cavaliere di minoranza. Inedito. In genere Berlusconi si vanta di poter risolvere tutto, in special modo quando si tratta dell’emergenza rifiuti. Ma nel corso della riunione con gli enti locali – Conferenza delle Regioni, Upi e Anci – confessa i limiti della sua condizione: «Non posso fare più di quanto previsto da questo decreto», dice nell’illustrare il provvedimento che di lì a poco porterà in Consiglio dei ministri, «non posso perché non ho il 51 per cento. Devo tenere conto anche della posizione di altre forze politiche». Cioè della Lega, il plurale è superfluo. È il Carroccio a non volere i rifiuti al Nord. E Bossi lo ribadisce più o meno negli stessi minuti. La conseguenza è che quando il premier arriva al tavolo dei ministri, prima ancora di esaminare la manovra, si mette ai voti il benedetto decreto sui rifiuti: passa, ma con il no dei ministri del Carroccio. Esito clamoroso, perché smentisce le voci di un accomodamento – garantito da Tremonti – che avrebbe dato il via libera alle deroghe sul Patto di stabilità interno. In cambio dell’apertura di Tremonti, sussurravano voci della maggioranza, Bossi avrebbe concesso il nulla osta al piano salvanapoli. Macché. Le minacce – sue e dei vari Zaia, Cota e Borghezio – erano più che attendibili.

Esito clamoroso, si diceva. A tal punto che Berlusconi rischia di sottovalutarne gli effetti. Il decreto approvato, che peraltro autorizza semplicemente accordi singoli tra liminare. Il premier è appena reduce dal parziale insuccesso sul decreto rifiuti e vorrebbe cavare dal cilindro del superministro qualche lampo per riequilibrare la giornata. Di lì a poco peraltro la batosta sull’emergenza campana si aggraverà con il no dei ministri padani al decreto. Fatto sta è che i lavori del Consiglio partono con un’ora di ritardo rispetto al timing previsto. Superata la questione spazzatura, ci si tuffa a capofitto nel mare immenso dei tagli e degli aggiustamenti. E tra le cose che subito vengono a galla c’è l’impietosa botta per gli enti locali: la manovra prevede riduzioni per 3,2 miliardi nel 2013 e 6,5 nel 2014. Soprattutto il secondo dato fa molta impressione, visto che inciderebbe esattamente per un terzo sull’importo complessivo previsto per quell’anno.

Non a caso dall’Associazione dei comuni, la stessa che poco prima ha dato il suo contributo al negoziato sui rifiuti, trapela un vero e proprio stato di shock:

la Campania e le regioni“disponibili”, dovrà pur sempre essere convertito. Impresa impossibile senza i voti della Lega. Così il governo rischia di andare sotto su una questione che gli stessi governatori definiscono «di allarme nazionale». Quali conseguenze potrebbero venirne per la sopravvivenza dell’esecutivo è difficile dirlo: se non altro perché, di fronte al rischio di una crisi, il governo potrebbe persino persuadersi a lasciar decadere il provvedimento. Nella speranza che le intese nel frattempo raggiunte

E il taumaturgico Borghezio risolve il problema a modo suo: «Napoletani, buttate i vostri rifiuti nel Vesuvio» tra Napoli e i governatori più generosi possano restare in piedi, pur se prive a quel punto della relativa copertura legislativa.

Brutta batosta per la credibilità di Palazzo Chigi. E anche per quei ministri che si erano impegnati di più nel tentativo di risolvere il problema: Stefania Prestigiacomo e Raffaele Fitto. Ci sono anche loro nel summit con gli enti locali tenuto a Palazzo Chigi verso ora di pranzo. C’è però anche quel Roberto Calderoli che sta lì apposta a sorvegliare la linea di confine. Cioè ad assicurarsi che non venga presa alcuna decisione in grado di impe-

«Nel caso in cui corrispondesse al vero il taglio del fondo di riequilibrio, aggiuntivo rispetto a quello prodotto con la manovra 2010, si decreterebbe la chiusura dei servizi comunali e il federalismo arriverebbe al capolinea»,è la chiosa fatta filtrare dall’Anci. Si tratterebbe, commenta ancora l’ente che riunisce i comuni, del «rinvio» se non della «fine», per «l’applicazione del federalismo fiscale, che già risulta ormai totalmente compromesso». Di fatto è una riproposizione dell’allarme lanciato due giorni prima dalla Corte dei Conti a proposito di sostenibilità. Ma l’allarme si diffonde anche nella Lega? Difficile avere chiara percezione dei rischi in una situazione tanto complessa. Così dopo un paio d’ore di riunione il Consiglio dei ministri viene sospeso per approfondire il dossier della manovra riguardante i costi della politica. Nel frattempo Bossi

gnare anche le regioni renitenti, in particolare il Veneto di Zaia e il Piemonte di Cota. Dall’altra parte del tavolo, il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, il presidente della Provincia di Salerno, Edmondo Cirielli, in rappresentanza dell’Uopi e l’ultraberlusconiano Osvaldo Napoli per l’Anci. Al loro cospetto, appunto il premier esibisce il suo profilo più fragile: «Non posso fare di più, ma mi impegno ad adottare un piano che nel giro di un mese e mezzo ripulisca Napoli con l’apertura di nuovi siti. E nel giro di un anno riusciremo ad aprire quegli impianti necessari per impedire definitivamente il ripetersi delle emergenze». Parole pronunciate con intonazione più o meno identica diverse altre volte, dal 2008 in poi. D’altronde il Cavaliere mostra di volerci mettere la faccia, quando promette di volersi recare personalmente, e più volte, nel capoluogo campano per seguire da vicino l’evolversi della crisi. A dire il vero, già il varo del decreto, secondo precedenti assicurazioni, avrebbe dovuto avvenire in un Consiglio dei ministri straordinario riunito proprio all’ombra del Vesuvio. Ma figurarsi cosa sarebbe successo, sia in termini di credibilità che di incolumità personale, se una simile riunione si fosse conclusa a Napoli con lo stesse esito di ieri, cioè con un via libera inquinato dal no leghista. Il Senatùr come detto non aveva lasciato spazio a illusioni. Persino alla sollecitazione dei cronisti sulle preoccupazioni di Napolitano, Bossi aveva replicato che

deve accontentarsi del già previsto blocco delle riscossioni, da parte di Equitalia, per le quote latte; e, sempre a proposito di enti locali, di un’eccezione prevista sui tagli per quelle amministrazioni virtuose capaci di stare dentro un’impegnativa serie di parametri.

Eccezione che partirà dal 2013 e che sarà vincolata a diverse

«Il problema lo abbiamo già risolto una volta», riferendosi al decreto di inizio 2009. E a chi gli ricordava che «i rifiuti sono ancora per strada», lui aveva risposto: «Vuol dire che i napoletani non hanno imparato la lezione», e che in ogni caso, stavolta, le regioni del Nord non avrebbero concesso le loro discariche.

In attesa di capire come si comporterà per esempio Formigoni, Zaia già irride la Campania dicendo che «mettiamo a disposizione il nostro know-how, andremo a spiegare al comune di Napoli come organizzare un sistema efficace». Borghezio come al solito fa uno sforzo in più e dice che al problema dell’inceneritore si potrà ovviare «portando i rifiuti nel cratere del Vesuvio». E mentre Caldoro e lo stesso Cirielli si trovano d’accordo con Errani nel resenza clamare, successo, maggiori poteri per i sindaci da inserire nel decreto per l’apertura delle discariche, un assessore del comune di Albenga, governato dalla Lega, spedisce al povero De Magistris uno scatolone con rifiuti prodotti in Liguria. Come se non bastassero le 14mila tonnellate che ancora appestano Napoli e provincia.

sangue e anche peggio.Tra i più traumatizzati ci sono gli statali, ma il loro ministro prova a sdramatizzare nell’intervento tenuto in mattinata: è in corso la presentazione del piano triennale del Formez, elaborato dall’istituto per assistere le pubbliche amministrazioni, e Brunetta ne approfitta per dire che «gli statali non perderanno il loro potere d’acquisto». Considerate le due

Allarme degli enti locali sulle riduzioni di fondi: «Così si distruggono i servizi ai cittadini». Tre aliquote Irpef (20-30-40) e imposte sulle rendite fino al 20 per cento. Resta lo spettro di interventi sull’Iva. Statali, stretta sull’assenteismo variabili: dal rispetto del patto di stabilità interno nel triennio precedente alla partecipazione alla lotta contro l’evasione fiscale fino alle spese oper auto blu e sedi di rappresentanza. Non è chiaro se oltre a questa previsione si potrà aggiungere quella sulla deroga al patto di stabilità per i virtuosi, richiesta più volte dal Carroccio. Il resto è lacrime,

notizie di giornata, ovvero l’’impennata record dell’inflazione e il blocco degli stipendi, parrebbe una promessa azzardata. Di certo per i travet arriva la non gradevole novità della visita fiscale possibile anche per un solo giorno di malattia, qualora questo coincida con la vigilia di un festivo. Ma è poco rispetto a quanto sta

per abbattersi sulle famiglie a proposito di tariffe: +1,9 per cento sulla luce e più +4,2 sul gas. Non è materia per la manovra, dove invece si prevede di alleggerire almeno la bolletta elettrica dagli incentivi per le rinnovabili. Oltre a qualche semplificazione come la fattura stampabile alla stregua dei normali scontrini, la parte fiscale ha un suo posto nella sessione di Palazzo Chigi, dal momento che il Consiglio esamina anche la bozza del ddl delega sulla riforma: ci saranno tre sole aliquote Irpef (20-30-40) compensate dal taglio delle esenzioni e dal riordino della tassazione sulle attività finanziarie (imposte sulle rendite fino al 20 per cento). Ma non si dissolve uno dei fantasmi più temuti dall’elettorato di centrodestra: le aliquote Iva potranno essere riviste «tenuto conto degli effetti inflazionistici». Bersani a caldo, parla di manovra depressiva. Casini la definisce «sleale e stupida» perché alzerà le tasse e non ingannerà i mercati.


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l’approfondimento

Liberalizzazioni mancate, p.a. in ginocchio, scuola e sanità falcidiate. Gli economisti: «Misure che lasciano l’Italia al palo»

La manovra che vorrei Carlo Dell’Aringa, Fabrizio Onida e Giacomo Vaciago spiegano che cosa avrebbero fatto al posto di Tremonti: «Ci voleva più coraggio: meno tasse per rilanciare i consumi e tagli selettivi per migliorare l’efficienza». di Francesco Lo Dico

ROMA. La manovra economica che approderà in aula a fine luglio, potrà presentare qualche lieve correzione. Ma la spina dorsale che la costituisce non muterà. La bozza indica che la crescita è rimandata ancora. E che per il momento, bisogna lasciarla al libro dei sogni. Sarebbe stato così folle immaginare il rilancio, insieme al rigore? Lo abbiamo chiesto a tre economisti di vaglia.

«La manovra è la conferma di una peculiarità tutta italiana: non è il governo che si occupa del Paese, ma è il Paese che è costretto ad occuparsi tutti i giorni del governo. Siamo costretti ad occuparcene anche stavolta, perché da quindici anni cresciamo sempre meno e non riusciamo a contenere il debito pubblico. E la manovra di Tremonti è l’ulteriore dimostrazione di quella che è la vera tragicommedia nazionale: tutte le volte che proviamo a ridurre il debito non facciamo altro che peggiorare le cose. Sembra ci sia dietro una scienza diabolica:

si individuano sempre, con calcolo aritmetico infallibile, soltanto soluzioni che fanno male all’economia». Professore di Politica economica all’università Cattolica di Milano, Giacomo Vaciago stempera il rammarico per quella che sembra l’ennesima occasione perduta, con l’amabile ironia di chi ne ha viste tante. «Il risultato di questa manovra è che bisognerà fare un’altra manovra per rimediare ai danni di questa», dice il professore. «La privatizzazione della Croce Rossa è una splendida metafora dello spirito della manovra: non si spara sulla Croce Rossa!», prosegue Vaciago, «E poi che cosa dire degli immobili di Stato? Se si chiamano immobili ci sarà pure una ragione, e tentare di sbarazzarsene non è affatto cosa semplice». Ma da ex sindaco di Piacenza, Vaciago spiega che cosa sarebbe servito davvero per risollevare il sistema nazionale: «Era il momento di fare qualche riforma liberale, anche piccola e a costo zero, come la liberalizzazione delle professioni. E poi

era il caso di intervenire sulla ingiustizia civile. Ma si può pensare di accorciare i processi, soltanto perché chi legifera scrive con la penna quanto devono durare? Dopo tutto il chiacchiericcio sulla riforma della giustizia, bisognava affrontare il problema con l’innovazione tecnologica. Senza contare che i tempi dei nostri processi terranno alla larga per sempre gli investitori stranieri». Ma il professore della Cattolica aggiunge anche che «sì, è necessario dimagrire il pachiderma pubblico, ma tagliare

indiscriminatamente significa peggiorare il settore, altro che aumentare l’efficienza». «Un altro capitolo della manovra l’avrei voluto dedicato alla semplificazione. Possibile che per sostituire quattro tegole del tetto di casa mia, devo fare avanti e indietro dal comune per almeno tre mesi? Calderoli ci aveva promesso un bel falò di leggi e cavilli, ma poi non ha fatto nulla. Non è che dovremmo semplificare invece il nostro ministro della Semplificazione?». «Continuare a mutilare la cosa pub-

Fabrizio Onida: «I tempi lasciano basiti, è mancato il senso di responsabilità»

blica a colpi di machete», riflette Vaciago,«significa soltanto una cosa: moltiplicare la corruzione, far crescere esponenzialmente il numero di Luigi Bisignani cui bisogna rivolgersi per vedersi riconosciuti anche diritti elementari. Se l’offerta economica non cresce, la domanda di corruzione aumenta». Ma uno dei desideri più forti di Giacomo Vaciago sarebbe stato vedere in manovra «il recupero del lavoro di spending review che aveva avviato Padoa Schioppa. Tremonti l’ha abolito in corso d’opera. Se non l’avesse fatto adesso avremmo lunghi capitolati di spesa che gli avrebbero permesso di fare tagli selettivi. Bisogna capire a che cosa servono i soldi che tagli, non a chi li dai».

Molte perplessità sono nutrite anche da Fabrizio Onida, professore di Economia internazionale all’università Bocconi di Milano. «La modulazione temporale della manovra lascia basiti. Scaricare sul biennio 2013-2014 quaranta miliardi di euro è scorretto e molto pericoloso, perché una


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Per il segretario del Pd «siamo davanti a una bomba a orologeria pronta a esplodere nel 2014»

Casini: «Governo stupido e sleale, ora andiamo a votare»

Durante un dibattito con Bersani e la Camusso, il leader dell’Udc conferma: «Sui rifiuti voteremo il decreto legge. La Lega è irresponsabile, noi no» di Vincenzo Faccioli Pintozzi a manovra varata dal governo «è sleale e un segno di sfiducia verso l’attuale coalizione, che non ha i voti per fare approvare alcun provvedimento». Non usa mezzi termini, come suo solito, il leader dell’Unione di Centro con chi gli chiede di commentare il provvedimento vagliato ieri dal Consiglio dei Ministri. Parlando con i giornalisti a margine di un incontro a Serravalle Pistoiese organizzato dalla Cgil, dove si è confrontato con Pierluigi Bersani e Susanna Camuso, Pier Ferdinando Casini ha sottolineato che «questa manovra si fa per rassicurare i mercati, e quindi è sleale scaricare l’onere del provvedimento sul futuro».

L

Tra l’altro, ha poi affermato Casini, «nella manovra non c’è niente per la crescita. In realtà il provvedimento guarda già alle prossime elezioni ma si tratta di una sconfitta annunciata». Confermando poi un atteggiamento serio e moderato, Casini ha aggiunto che il decreto legge sui rifiuti «conferma l’irresponsabilità della Lega (e vedremo come voterà in Aula). Però l’opposizione non può giocare allo sfascio e dunque noi lo voteremo». Però, ha aggiunto, «come questa coalizione possa andare avanti è un mistero che non possiamo sciogliere». A chi gli chiede quindi come sia possibile uscire dall’impasse, il lea-

der dell’Udc ribadisce la sua proposta di un governo di responsabilità nazionale. Ma se questo non può avvenire è meglio andare a elezioni». Il riferimento è a Bersani, che nei giorni scorsi ha definito “molto difficile” un governo di unità nazionale e che ieri, sempre nella cornice di Serravalle, ha attaccato Tremonti: « La manovra dà un colpo micidiale al sociale e lascia tra il 2013 e il 2014 un punto interrogativo, un buco, che è una bomba ad orologeria». Nella manovra,

nunciamento dei lavoratori o almeno degli iscritti», sull’intesa raggiunta la Cgil che «arretra le sue posizioni, cede su dei punti non cedibili». È un «accordo liberticida» rincara la dose il presidente del comitato centrale della Fiom, Giorgio Cremaschi, che ha chiesto addirittura le dimissioni della Camusso. Mentre l’ex leader dei metalmeccanici, Gianni Rinaldini, portavoce dell’area di minoranza «La Cgil che vogliamo», avverte che il sì all’accordo «apre un problema enorme per la vita interna della Cgil» e ha messo in gioco «l’identità della Confederazione.

L’omaggio alla sindacalista Cgil: «Sui contratti ha pronunciato un ‘sì’ importante e coraggioso»

Costretta a giocare in difesa, il segretario generale della Cgil ha presentato l’accordo in una riunione dei segretari generali delle diverse categorie e del territorio. Poi ha risposto agli attacchi della Fiom, cercando di far chiarezza, dice, tra »dichiarazioni false e alcune imprecisioni«. L’accusa che pesa di più è quella di aver fatto un accordo schiacciato sulle posizioni della Fiat nonostante il duro scontro tra il Lingotto e la Fiom. Non è così, replica Susanna Camusso: «A chi dice che Fiat ne trarrebbe benefici, rispondo che siamo esattamente all’opposto. La Fiat non è coperta da questo accordo». In ogni caso, Casini le riconosce l’onore delle armi e, prima di iniziare il dibattito, chiarisce: «L’accordo tra i sindacati è un elemento importante. In certe occasioni dire di sì è faticoso ma importante. Apprezzo la Camusso perché ha fatto questa scelta difficile».

ha aggiunto «ci sono un sacco di tagli e nessuna riforma. In tre anni il governo non ha fatto nessuna riforma. Senza un po’ di crescita i conti pubblici non si rimettono a posto».

La posizione del segretario sindacale è quella più sorprendente, che rivela la sua mutazione moderata: «Troppi tagli – dice Camusso – non ringrazio Tremonti». Dopo un primo inizio molto duro, infatti, la Camusso ha intrapreso un percorso di moderazione e dialogo con le parti culminato con le durissime polemiche ancora in corso con la “sinistra” della Cgil. Il sì della Cgil all’accordo con Confindustria su contratti e rappresentanza sindacale, infatti, ha immediatamente provocato una serie di attacchi al suo segretario generale Susanna Camusso. Attacchi che arrivano dalla Fiom, quindi dall’interno, ma anche dal mondo della politica. Il leader della Fiom Maurizio Landini, ha chiesto «un pro-

simile dilazione proietterà conseguenze mortifere sui nostri mercati». «Avrei voluto maggiore coraggio sotto il profilo fiscale», osserva Onida, «perché cercare di dare ossigeno ai consumi con l’aumento dell’Iva è un argomento debole. È una misura una tantum, che funziona nell’immediato ma presto sarà irrilevante con il procedere dell’inflazione». «Occorreva piuttosto», riflette il professore, «agire sulle imposte dirette e rimpolpare le buste paga, avere il coraggio politico di reintrodurre l’Ici per dare fiato ai comuni in dissesto per una misura sbagliata che è costata care agli amministratori delle città, e poi naturalmente, sul fronte della spesa, il ripristino della spending review, che avrebbe consentito di fare tagli mirati. Ma Fabrizio Onida sintetizza il ragionamento sin qui esposto in un concetto chiave: «Senza rilancio dei consumi non c’è rilancio dell’economia. Il governo non ha avuto la forza di alleggerire il prelievo fiscale, né quello di fiscalizzare gli oneri sociali che avrebbero incoraggiato le assunzioni grazie a incentivi di questo genere. Chi sta male, continuerà a farlo. E di conseguenza a spendere poco, facendo male di riflesso all’economia stagnante del Paese». L’ultimo appunto, il professore Onida, lo riserva al mantra di Tremonti: «Benissimo volere spostare la tassazione dalle persone alle cose. Ma invece che aumentare l’Iva, si poteva avere il coraggio di tassare le rendite finanziarie».

Tutt’altra manovra, avrebbe voluto anche Carlo Dell’Aringa, professore di Economia politica all’università Cattolica di Milano. «Avrei alzato la soglia pensionistica delle donne in maniera molto più rapida, perché si sarebbe trattato di una misura certa dall’effetto immediato sui mercati che ci marcano stretti», spiega l’economista, «E i risparmi ottenuti li avrei reinvestiti nel migliorare la stessa condizione lavorativa femminile, che a oggi patisce numerose discriminazioni». «E inoltre avrei fatto subito lo scambio tra Iva e tasse», prosegue Dell’Aringa, «senza rimandarlo alle calende greche. La manovra era inoltre una buona occasione per affrontare i costi standard della Sanità, e sciogliere i nodi tra Stato e Regioni che sono all’origine della politica dei tagli lineari». «Detto che era necessario tassare le rendite finanziarie, si sarebbe dovuto intervenire sul pubblico impiego con tagli selettivi invece che bloccare le assunzioni alla cieca rischiando di portare la paralisi in settori chiave del nostro sistema». «Sarebbero servite insomma», conclude il professore della Cattolica, «misure impopolari, perché pensare di raggranellare 40 miliardi entro il 2014 senza interventi mirati su sanità, pubblico impiego e pensioni, è pura utopia».


diario

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Omicidio Barnett, ergastolo a Restivo

Inflazione: a giugno +2,7%, record dal 2008

LONDRA. Ergastolo. Il massimo

ROMA. Accelera la corsa dei prezzi a giugno, con l’inflazione che raggiunge il livello massimo dal 2008. In questo mese - comunica l’Istat nelle stime preliminari - i prezzi sono aumentati del 2,7% rispetto a giugno dell’anno scorso, dopo il 2,6% di maggio, arrivando allo stesso valore segnato nel novembre 2008. Nel confronto con maggio, invece, c’è stato un incremento dello 0,1%. L’inflazione acquisita per il 2011 - aggiunge l’istituto di statistica è pari al 2,3%. Sull’accelerazione pesano, sopratutto, i rialzi dei prezzi per i servizi relativi ai trasporti. Un impatto significativo all’aumento dell’indice generale, aggiunge l’Istat, deriva anche dai rialzi congiunturali dei prezzi dei beni alimentari lavorati (+0,4%) e dei prezzi dei servizi ricreativi, culturali e per la cura della persona (+0,3%, in parte lega-

della pena per Danilo Restivo, accusato in Italia dell’omicidio di Elisa Claps e condannato in Inghilterra per l’assassinio di Heather Barnett, uccisa il 12 novembre 2002 a Bournemouth, nel Dorset. «Lei non uscirà mai di prigione», ha detto il giudice Michael Bowes nel pronunciare la sentenza nell’aula di Winchester. Per il magistrato inglese le prove dimostrano senza ombra di dubbio che Restivo ha ucciso anche Elisa Claps: «Lei è recidivo. È un assassino freddo, depravato e calcolatore che ha ucciso Heather come ha fatto con Elisa». Per questo, ha aggiunto, «merita di stare in prigione per tutta la vita». Bowes ha giudicato “inappropriata” una pena di 30 anni.

to a fattori stagionali). In compenso, effetti di contenimento si devono al calo congiunturale dei prezzi dei beni energetici non regolamentati (-1,4%), degli alimentari non lavorati (-0,4%) e dei beni durevoli (-0,2%). A giugno volano i prezzi anche dei biglietti per aerei, traghetti e treni. L’Istat, infatti, registra aumenti congiunturali ”consistenti” per i prezzi del trasporto aereo passeggeri (+6,9%).

Riparte la gara per la successione a Draghi, in procinto di lasciare Roma per Francoforte. E la maggioranza si spacca di nuovo

Una poltrona per tre

Grilli, Saccomanni o Bini Smaghi? A palazzo Koch ancora nessuna certezza di Alessandro D’Amato rilli, Saccomanni o Bini Smaghi? Mentre Mario Draghi prende cappello per trasferirsi a Francoforte su una poltrona che sicuramente sarà adatta alle sue capacità e alla sua ambizione, impazza il toto-nomine per la Banca d’Italia, il fortino più autorevole del Belpaese nell’epoca della crisi e dopo aver archiviato i disastri finanziari degli anni precedenti, da Cirio a Parmalat fino ad Antonveneta e Unipol. Ma non sarà impresa facile, quella di districarsi tra i papabili a una nomina strategica come quella di governatore di Bankitalia. Anche perché le variabili tra cui decidere sono davvero tante. Specialmente in un periodo dove l’attenzione politica europea, su questi temi, è altissima.

G

E allora, come salvare il merito e l’indipendenza insieme, come ha fatto capire anche Draghi nelle sue considerazioni finali? I nomi sono tanti, e gli identikit corrispondono di volta in volta a candidati ideali di una o più parti politiche. La soluzione interna vede in pole position Fabrizio Saccomanni, caldeggiato anche dall’attuale governatore. Da sempre in Via Nazionale, 68 anni, conosce a fondo i meccanismi interni alla Banca d’Italia, così come gli equilibri del sistema bancario italiano. Caldeggiato da Draghi ma anche da Napolitano, che non ha alcuna intenzione di rinunciare a nessuna delle sue prerogative di moral suasion. Quella esterna invece risponde al nome di Lorenzo Bini Smaghi, 54enne che ancora si trova nel direttorio della Banca Centrale Europea e non ha alcuna intenzione di andarsene, ma di sicuro dovrà farlo quando gli altri paesi chiederanno il riequilibrio in base all’approdo a Francoforte di Draghi (troppi italiani alla Bce non sta bene). Quella governativa invece vede in pole position Vittorio Grilli, bocconiano anche lui 54enne e oggi vicino, vicinissimo a Tremonti dopo qualche difficoltà nei rapporti tra i due un paio di legislature fa. L’incontro dell’altroieri tra Draghi e

L’incontro tra Draghi e Berlusconi è servito a fare chiarezza su un punto: che l’accordo è ancora in alto mare. Il candidato in pectore alla presidenza della Banca centrale europea ha indicato ufficialmente il nome che tutti conoscevano, per la sua successione: Saccomanni

Berlusconi è servito a fare chiarezza su un punto: che l’accordo è ancora in alto mare. Il candidato in pectore alla presidenza della Banca centrale europea ha indicato ufficialmente il nome che tutti conoscevano, per la sua successione: quello dell’attuale direttore generale di Palazzo Koch, Saccomanni.

Tonia Mastrobuoni sulla Stampa ha raccontato che «il Governatore ha ribadito al presidente del Consiglio quello che aveva già detto a chiare lettere nelle ultime Considerazioni finali, il 31 maggio scorso. Lì, nella tradizionale “messa cantata” che accompagna l’assemblea annuale di Palazzo Koch, Draghi aveva sottolineato l’importanza di preservare il merito e l’indipendenza dell’istituzione. Via Nazionale è stata

non soltanto una fucina di risorse per le istituzioni e di leggendari grand commis. Ma ha garantito anche una vigilanza stretta del sistema bancario italiano che continua ad essere ad oggi tra i più riparati dallo tsunami finanziario degli ultimi tre anni». Per questo il candidato ideale rimane Saccomanni: ha vissuto dall’interno l’ultimo duro decennio del risparmio italiano e le sue crisi periodiche, è rimasto fuori dalla bufera Fazio, che aveva portato alla scelta di discontinuità con la nomina di Draghi.

Ha saputo conquistarsi la fiducia dell’ex Goldman Sachs in questi anni. E ha appoggiato, anzi esplicitamente portato avanti la linea degli ultimi tempi, con le pesanti polemiche sotterranee contro un settore creditizio come quello

italiano, il quale ha pensato di poter passare indenne la crisi senza cambiare niente. E oggi ne sta pagando le prime conseguenze.

Draghi si dimetterà il primo novembre, e quindi in teoria non c’è fretta per scegliere un successore. Tecnicamente, spiega ancora la Mastrobuoni, «un passaggio importante della procedura di nomina sarà il Quirinale. Il nome che Berlusconi presenterà al presidente della Repubblica per il decreto di nomina sarà fatto una volta sentito il Consiglio superiore della Banca d’Italia e il Consiglio dei ministri e da mesi dal Colle piu’ alto fanno trapelare il messaggio che non sarà un momento formale. Napolitano farà una scelta ponderata e improntata all’importanza


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e di cronach

Direttore Editoriale Ferdinando Adornato

Libano, il Tribunale Onu spicca quattro mandati contro Hezbollah

Direttore da Washington Michael Novak Consulente editoriale Francesco D’Onofrio

BEIRUT. La magistratura libanese ha emesso mandati d’arresto nei confronti di quattro esponenti di Hezbollah per l’omicidio dell’ex premier Rafik Hariri, avvenuto nel 2005. Lo hanno riferito fonti giudiziarie libanesi citate dall’emittente Lbc. La decisione è stata presa dopo che una delegazione del Tribunale speciale dell’Onu per il Libano (Tsl) ha consegnato gli atti d’accusa al Procuratore generale Saeed Mirza. I quattro sono Abdel Majid Ghamlush, Salm Ayyash, Mustafa Badreddin e Hassan Issa. Il figlio di Haririri, Saad, anche lui un ex premier, dalla Francia ha parlato di «momento storico nella vita del Libano». Saad Hariri guida la coalizione anti-siriana 14 marzo che si contrappone a Hezbollah nell’agone politico del Paese dei cedri. La fase finale dell’inchiesta sull’omicidio Hariri si intreccia con un momento cruciale della politica libanese, che cerca di uscire dallo stallo dopo che Hezbollah ha conquistato la maggioranza par-

Ufficio centrale Gloria Piccioni (direttore responsabile) Nicola Fano, Errico Novi (vicedirettori) Vincenzo Faccioli Pintozzi (caporedattore) Antonella Giuli (vicecaporedattore) Franco Insardà, Luisa Arezzo Stefano Zaccagnini (grafica)

lamentare nelle ultime elezioni. Il movimento sciita - presente con 19 ministri nella squadra del nuovo premier, il miliardario sunnita Najib Mikati - ha chiesto a quest’ultimo di troncare la cooperazione con il Tribunale, che nell’atto di accusa chiederebbe l’emissione di quattro mandati di cattura per altrettanti membri di Hezbollah. La procura ha 30 giorni di tempo per eseguire gli arresti, un arco temporale che si interseca con la scadenza del 13 luglio.

Da sinistra a destra Mario Draghi, nuovo presidente della Bce; Fabrizio Saccomanni e Vittorio Grilli

Redazione Mario Accongiagioco, Massimo Colonna, Francesco Lo Dico, Francesco Pacifico, Riccardo Paradisi, Clara Pezzullo (segreteria) Inserto MOBYDICK (Gloria Piccioni) Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato

di preservare l’autonomia di via Nazionale». Intanto, il Consiglio superiore della Banca ha saggiamente deciso di non replicare alla lettera del premier arrivata la settimana scorsa, proprio perché non conteneva l’indicazione del nome su cui l’ente dovrà dare il parere.

E a via Nazionale sanno benissimo che Giulio Tremonti ha un altro candidato: quel Grilli che oggi scalpita per trasferirsi da via XX Settembre, forte dell’appoggio del ministro ma anche della simpatia che riscuote in molti settori dell’opposizione (e del Terzo Polo). A suo favore gioca anche la “discontinuità” presso gli azionisti e i vigilati, ovvero le banche italiane. Non è difficile comprendere che l’opera di Saccomanni, negli ultimi tempi, ha alquanto irritato alcuni banchieri, sia piccoli che grandi, per la puntigliosa – secondo loro – attenzione al problema della liquidità. I richiami, soprattutto quelli sotto forma di moral suasion, non sono piaciuti ad alcuni di essi, tra quelli che oggi hanno comunque anche qualche problema con le autorità di vigilanza. Meglio archiviare Saccomanni, pensando che chiunque sia migliore dell’attuale reggenza a Palazzo Koch? Forse per qualcuno è proprio così. Infine c’è Lorenzo Bini Smaghi. Che anche durante la telefonata avuta con Nicholas Sarkozy ha ribadito che si aspetta una risoluzione del “problema” entro ottobre. Tradotto dal diplomatico, vuol dire che intende sì lasciare il posto nel

Prima delle Amministrative la gara sembrava tra i candidati di Tremonti e Letta. Le urne hanno riaperto tutto board della Bce a un francese, come si aspetta l’Eliseo, ma lo farà soltanto quando il governo italiano avrà trovato per lui una collocazione adeguata. Non è un mistero che Bini Smaghi sia anche il candidato di Gianni Letta, e che ab-

Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza

bia anche molti estimatori nella maggioranza. Tanto che qualche giornale, nei giorni scorsi, aveva persino ipotizzato una clamorosa sostituzione di Tremonti proprio con l’attuale consigliere della Bce. Ma ad oggi sembra difficile che possa superare gli altri due.

Chi vincerà? Prima del terremoto delle Amministrative la gara sembrava tra i candidati di Tremonti e Gianni Letta (Bini Smaghi), e il nome sarebbe uscito, a quanto pare, dalla necessaria mediazione tra le due anime forti del governo. Ora però lo tsunami dei ballottaggi ha cambiato le carte in tavola: ha ringalluzzito Napolitano – a molti non è sfuggita la telefonata di congratulazioni ai futuri sindaci di Milano e Napoli arrivata dal Quirinale, oltre che dalla presidenza della Camera – e convinto il presidente dell’assoluta necessità di giocarsi ogni sua prerogativa dal punto di vista istituzionale, in tutte le partite decisive. Anche quelle delle nomine. E, considerata anche la grande ammirazione che Napolitano nutre nei confronti di Draghi, questo ha fatto salire le quotazioni di Saccomanni, ad oggi più che mai considerato il nome più caldeggiato dall’attuale governatore. In seconda battuta ci sarebbe Grilli, con Bini Smaghi come outsider. Bankitalia insomma potrebbe trovarsi con una scelta “interna” ed “europea” insieme. Esattamente quella più sgradita a Tremonti. Ma le urne contano. Anche dalle parti di via Nazionale.

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il paginone

Da “Fare gli italiani” alle Grandi Officine Riparazioni fino a “La bella Italia” alla Venaria reale, la citt orino è tornata capitale e per l’occasione si è vestita a festa: il tricolore sventola un po’ovunque, nei palazzi pubblici, ma anche alle finestre della case private. La città più sobria d’Italia per il 150° è stata tirata a lucido come non s’era mai vista. Gli splendidi bar: da Fiorio a Baratti servono squisite mignonnette e bicerin di Cavour a tutto spiano. Nei ristoranti, impazzano i menù d’epoca. Con le Olimpiadi invernali, la città aveva fatto un bagno di modernità, ora ne fa una nella sua grande storia. E persino i tanto vituperati Savoia vengono recuperati: non c’è luogo dove non venga ricordato che sono una delle dinastie più antiche d’Europa: tengono testa agli Asburgo e stracciano i Romanov.

T

In realtà Torino fu capitale per soli tre anni: dal 1861 al 1864, poi toccò a Firenze sino al ’71. E dopo ci fu Roma. Dunque è stato un periodo breve, ma nella città lo spirito antico si è risvegliato: è cosciente che il Risorgimento italiano è passato soprattutto per i suoi palazzi e per le sue piazze. Ricorda d’essere stata la capitale di quel Regno di Sardegna che unificò l’Italia, e s’inorgoglisce. Nel marzo del 1861 il grande balzo e, tre anni dopo, la cocente delusione: i torinesi si ribellarono al trasferimento del Parlamento a Firenze: in piazza San Carlo la polizia, per tenere a bada la rivolta, caricò e uccise. Oggi c’è la riappropriazione, anche se solo nella memoria. Alle Grandi Officine Riparazioni, una gigantesca architettura industriale ottocentesca tre grandi mostre, di cui una imperdibile: Fare gli italiani. Nel 1861 il Paese non aveva un’identità unitaria, la dominazione straniera aveva creato tante realtà, ogni grande città aveva una sua cultura, una sua civiltà: l’Italia era dunque un’accozzaglia di mondi diversi, una pluralità di voci fra loro spesso dissonanti. Gli storici che hanno curato la mostra, Giovanni De Luna e Andrea Barberis hanno voluto rappresentare il difficile cammino che ha portato questa “molteplicità di anime” a diventare un paese unico: dal Po alla piana dei Templi. L’operazione è riuscita, con buona pace della Lega, ma è costata lacrime e sangue. E vediamo il faticoso commino che porta da una pluralità di stati all’identità italiana. Si parte da bellissimi filmati che scorrono su uno schermo di plexiglas dove ci sono i luoghi più significativi delle sette più importanti città: gli attori rappresentano come si viveva da Milano a Torino, da Genova a Venezia, da Roma a Napoli sino a Palermo. Scene di vita quotidiana mescolati a importanti eventi storici. C’è poi una stanza dove ci sono i busti dei personaggi che hanno avuto un ruolo importante nel 1861 e che raccontano la vicenda risorgimentale col loro dialetto, a partire dal loro punto di vista. Perché se è vero che la lingua italiana è un elemento unificante ben prima che si arrivi all’unità politico-statuale, è altrettanto vero che a parlarla erano molto pochi: intorno al 5 per cento dell’intera popolazione. Tutti gli altri si esprimevano in dialetto. La mostra si snoda in 13 isole tematiche che rappresentano un

Alla fine della festa Passeggiando per Torino, ecco le ultimissime celebrazioni per il 150° anniversario dell’Italia. Tra mostre, rassegne, restauri e incontri di Gabriella Mecucci come eravamo e come siamo diventati. Nella costruzione dell’identità nazionale hanno avuto un ruolo importante la scuola, la Chiesa, i movimenti migratori, la prima guerra mondiale, la seconda, i partiti di massa, l’industria, i consumi, i trasporti, i mezzi di comunicazione. Dentro queste aree ci sono poi storie personali o di pezzi di società. La mostra è anche interattiva: il visitatore può

scegliere di vedere quale pezzo di storia lo interessa di più: si può decidere così di guardare come vivevano le famiglie attraverso alcune splendide foto proiettati in uno schermo gigante: scorrono le immagini di come ci si sposava, di come si mangiava, di come si lavorava. O si può decidere di fermarsi ad ascoltare i canti delle processioni, guardando le statue, i carri, gli uomini e donne che le animavano. O si possono guardare con

In splendidi bar come da Fiorio e Baratti vengono serviti squisite mignonnette e bicerin di Cavour a tutto spiano. Mentre nei ristoranti impazzano i menu d’epoca

compiaciuta nostalgia quei beni di consumo che hanno rivoluzionato la vita: la radio, e poi la Seicento, la lavatrice.

La forza descrittiva del cinema consente di attraversare soprattutto le fasi novecentesche dell’avventura unitaria, fornendoci un quadro particolarmente vivo della società italiana così come questa appariva in momenti centrali quali il secondo dopoguerra e gli anni del boom economico. Questo grazie alla creatività di De Sica, Rossellini, Zavattini, Fellini, Visconti, Flaiano, Monicelli. Ma anche il teatro ci restituisce l’immagine del percorso unitario: quello musicale, che nell’800, grazie al genio di Verdi, ha contribuito alla diffusione degli ideali del Risorgimento. E quello di prosa - Pirandello De Filippo - che ha saputo indagare la profondità psicologica, il modo di sentire di un popolo. C’è un’area che ricostruisce come combattevano


il paginone

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tà si veste a festa celebrando i miti risorgimentali che hanno unificato e fatto grande il nostro Paese faro” che illumina il grande impero romano - di straordinaria bellezza i pezzi d’arte esposti - sia come centro della cristianità. C’è Firenze, luogo d’origine della nostra lingua con Dante e Boccaccio e insieme fucina dell’arte rinascimentale e della scienza con Galilei. E poi c’è la capitale della finanza e dei commerci marittimi, Genova, e quella del Mezzogiorno Napoli. Milano è il crocevia internazionale per eccellenza, la città che più di ogni altra ha saputo dialogare con l’Europa e non a caso fra le opere della sua sezione c’è il celebre Bacio di Hayez, diventato particolarmente popolare da quando ha iniziato a decorare - correvano gli anni Cinquanta - la scatola dei “baci Perugina”.

i soldati nella prima guerra mondiale: mentre si entra dentro le trincee, una voce legge le lettere che i giovani - fanti contadini o ufficiali che fossero - scrivevano alle loro madri o alle fidanzate. L’enorme spazio delle Grandi Officine è tutto animato: le luci, le ombre, gli archi, i soffitti altissimi, dentro i quali si muove il “farsi”degli italiani, offrono una sorta di gigantesco palcoscenico di forte suggestione. La mostra è tutta circondata di pannelli di plexiglas dove sono riportati tutti i fatti storici più rilevanti, ed è ricca di postazioni audio che commentano e informano sulle diverse isole tematiche. È un lavoro pensato non solo per ricostruire la storia del “fare gli italiani”, ma anche per creare arte. Il mix è perfettamente riuscito. Potrebbe forse costituire un primo nucleo di quel museo del Risorgimento proposto da Ernesto Galli della Loggia. Se quella delle Grandi Officine è l’impegno più forte e meglio riuscito per celebrare il 150°, Torino sfoggia per l’anniversario almeno altri due eventi di grandissimo interesse.

Il primo è quello che riguarda la Venaria reale che ospita La bella Italia. Arte e identità delle città capitali con ben 350 capolavori dei nostri più grandi pittori: da Leonardo a Botticelli, da Michelangelo a Correggio, da Bronzino a Tiziano, da Veronese a Caravaggio, da Tiepolo a Canova, a Bernini. Non mancano

però anche artisti stranieri quali Hayez a Rubens che lavorano nelle nostre città. Una carrellata di splendori dentro quella meraviglia rappresentata dal palazzo i caccia dei Savoia. Prima di tutto c’è da ammirare i restauri - non ancora terminati - ma a buon punto.Tantoché si può passeggiare per la magnifica Galleria Grande (detta di Diana), uno spazio davvero regale: tutta luce e stucchi settecenteschi. E poi c’è lo stupendo parco: fontane, giochi d’acqua, pergole, fiori e

all’interno di una grande reggia nel SeiSettecento. Ma passiamo alla Bella Italia. Questa mostra - ospitata nelle scuderie Juvarriane (il nome deriva dal grande architetto, Juvarra che ha progettato ed edificato le parti più belle della Venaria) - ha in comune con quella delle Grandi Officine, l’idea di un’Italia plurale, con tante capitali. C’è prima di tutto Roma che, nella sezione curata da Paolucci, viene presentata sia come “il

Persino i vituperati Savoia sono recuperati. Non c’è luogo dove non venga ricordato che sono una delle dinastie più antiche d’Europa: tengono testa agli Asburgo e battono i Romanov persino un grande orto: di quest’ultimo il restauro non è stato ancora terminato. E quindi non è visitabile la potagerie delle loro Altezze. Oltre allo spazio fisico il visitatore attraverso filmati, interpretati da grandi attori e proiettati su enormi schermi di plexiglas possono vedere uno spaccato di storia materiale: come si viveva, si lavorava, si mangiava

Alcune immagini di Torino. Quella che fu la prima capitale d’Italia celebra i 150 anni di Unità attraverso mostre, rassegne, importanti restauri e incontri davvero da non perdere

Non manca Bologna, capitale degli studi universitari, seconda città della stato pontificio e luogo del Correggio, così come Venezia con Tiepolo,Tiziano e i suoi tanti splendori. E poi la Palermo di Federico II, punto d’incontro di culture tanto differenti. E Modena e Parma. Infine la prima capitale dello stato unitario italiano, Torino. Una mostra, quella della Venaria, con una sezione per ciascuna città e con i quadri dei suoi artisti più famosi o di quanti, provenienti anche dall’estero, vi hanno lavorato. Dulcis in fundo, fra le altre iniziative, merita almeno di essere segnalato il restauro di Palazzo Carignano, sede del Parlamento subalbino la cui sala risultò troppo piccola per quello italiano, tantoché venne ospitato in una costruzione realizzata in quattro e quattr’otto nel cortile della dimora che fu dei cugini dei Savoia. Palazzo Carignano, progettato a metà del Seicento da Guarino Guarini, è giustamente considerato un capolavoro del barocco. Dopo il restauro si possono visitare gli ambienti che ospitavano Cavour quando, a causa del lavoro urgente, non poteva tornare a casa: c’è lo studio dello statista con il letto dove riposava esausto. Dalla finestra si vede il ristorante preferito della statista piemontese: “Il Cambio” che ancora offre sontuosi menù cavouriani. Assolutamente imperdibile “l’appartamento dei principi”, con le splendide boiseries, più antiche e più raffinate di quelle di Versailles. Sino a qualche giorno fa, Palazzo Carignano è stata sede di una bella mostra dedicata a Stefano Maria Legnani, detto il Legnanino, pittore settecentesco di gran qualità e che operò a lungo a Torino. C’è molto altro in quello che oggi è solo il capoluogo piemontese, ma basterebbero questi appuntamenti per giustificare una visita alla nostra vecchia e gloriosa prima capitale. Il maquillage della città negli ultimi anni è stato assiduo ed è sceso in profondità: dal Lingotto restaurato, alle risistemazioni olimpiche sino a quelle per il 150°. Torino ha cambiato volto. Ha avuto molti soldi ed è riuscita a spenderli bene. Risultato: ha riconquistato tutto il suo splendore barocco e ha rispolverato la sua riconosciuta efficienza. È ridiventata una vera capitale, e non solo italiana, ma europea.


mondo

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Pechino punta su Atene e investe nell’Ellade. Vero cavallo di Troia per contare sempre di più nell’eurozona. Con la benedizione di Theodorakis

Pireo made in China Il debito greco sprona la Cina a investire nella terra di Omero. Che dopo l’euro, guarda allo yuan (e spera...) di Gilda Lighounis a Grecia prova ad uscire dalla crisi economica. E se l’Ue non firma più “assegni in bianco”per il suo salvataggio, molti ellenici iniziano a guardare alla Cina come possibile salvagente. Nel frattempo le relazioni economiche Atene - Pechino crescono in fretta, anche se non mancano punti d’attrito. «L’unica via di salvezza per la Grecia? Farci prestare soldi non dall’Unione Europea e dal Fondo monetario internazionale (Fmi), ma dalla Cina o dalla Russia, ovviamente a tassi d’interesse sostenibili». A parlare così all’immensa folla degli “indignados”, riuniti per la do-

L

Air China ha appena inaugurato il primo volo di linea diretto Pechino-Atene, e i due governi hanno siglato un patto per facilitare il rilascio dei visti ai cittadini dei rispettivi i Paesi dicesima giornata di seguito davanti al Parlamento di Atene, in una domenica di giugno, non è stato né un economista né un politico di professione. È stato il grande musicista Mikis Theodorakis, conosciuto in Italia per le colonne sonore dei film Zorba il greco (1964) e L’orgia del potere (1969) e per il fatto di essere stato più volte imprigionato e relegato in esilio coatto in isolette dell’Egeo come Ai Stratis (a sud di Lemnos) durante la dittatura dei colonnelli fra il 1967 e il 1974.

dei settori dell’Energia, del Turismo, della valorizzazione di Immobili. Fra i cinesi, pezzi grossi dell’impresa nazionale per il petrolio, il consigliere presidente del consorzio “Shanghai Baolu-

tong Elecrtic Equipment”, che si occupa di impianti casalinghi, di componenti elettronici ed altro, il presidente del consorzio “Henan Province Dengfeng Songji” specializzato negli investimenti sugli immobili, e il presidente dell’azienda “Hubei Wenhua Technology Education Development”. Un padre della patria, che a 86 anni è definito da tutti“un capitale nazionale”. I capitali liquidi, però, lui li vorrebbe in yen, o in rubli. Sogni di un vecchio visionario? Non tanto. Perché Pechino, a intervenire nell’economia greca in crisi, ci pensa davvero. Coi fatti, non solo a parole. Tanto per cominciare, dal 22 maggio Air China ha inaugurato il primo volo di linea diretto da Pechino-Atene (con scalo a Monaco), durante la visita nella capitale cinese del ministro degli Esteri ellenico Spyros Kouvelis, che ha poi stretto con il governo cinese un patto per facilitare il rilascio dei visti ai cittadini dei rispettivi i Paesi. «Nel 2010 solo 10mila turisti cinesi hanno visitato la Grecia», ha detto Kouvelis. «Vogliamo aumentare in

A lato, scontri fra manifestanti e polizia davanti alla sede del Parlamento. Un’indagine sul comportamento delle forze dell’ordine è stata aperta ieri ad Atene. A sinistra, Papandreou. In basso, un vettore dell’Air China, che ha appena inaugurato il volo diretto Atene Pechino quattro volte a settimana

modo significativo questo numero». Tanto più che il turismo in Grecia costituisce il 15% del Pil, e in un Paese che ora sfiora i 16 disoccupati su cento, e 36 senza lavoro su cento fra i giovani, un boom del settore vacanziero, aiutato anche dalla situazione politica instabile di Paesi come Egitto e Tunisia, tradizionali rivali dell’Ellade nel

settore “mare-spiagge-sole”, sarebbe il benvenuto.

Il nuovo feeling sino-ellenico è cominciato dai 13 contratti bilaterali che lo scorso ottobre il premier cinese Wen Jiabao, volato ad Atene per l’occasione, ha firmato con il governo greco per approfondire la partnership riguardo settori strategici come la

Passa il decreto attuativo del piano d’austerity del governo per ottenere gli aiuti europei

Secondo sì per Papandreou, no della piazza Le borse europee reagiscono bene, ma parte un’inchiesta sull’operato della polizia di Pierre Chiartano

Theodorakis non ha mai smesso né di comporre musica né di occuparsi dei problemi sociali del suo Paese, non rinunciando mai a dire la sua e a prendere posizioni che gli sono valse spesso gli strali sia della sinistra (dove ha militato nel partito comunista Kke fino al 1981) che della destra (dalla quale, durante il governo di Nuova democrazia di Kostas Mitsotakis nel 1990, ha accettato la nomina a ministro della Cultura, per poi tagliare di nuovo i ponti con i conservatori). Lo scorso 6 giugno si è tenuto ad Atene il simposio “Collaborazione imprenditoriale greco-cinese 2011: nuove prospettive”. Hanno partecipato 62 alti funzionari di 80 imprese cinesi, ma anche rappresentanti di aziende elleniche

ROMA. Ancora occhi puntati sul Parlamento greco, chiamato ieri a votare la legge d’attuazione del piano di austerità approvato mercoledì. Borse europee in rialzo per la quarta seduta consecutiva, spinte dal settore bancario sulle speranze che la Grecia approvasse, definitivamente – come è poi avvenuto – il piano di austerità che le permetterà di evitare il default di un debito in scadenza. Dopo un primo voto mercoledì, il parlamento greco doveva ieri dare l’ultimo via libera alla manovra. E infatti nel tardo pomeriggi è arrivata anche la seconda luce verde. Ora la situazione del Paese potrebbe essere sintetizzata così: il sì di Papandreou e il no della piazza. Il governo, con il secondo sì del parlamento, è impegnato nel rispettare i vincoli europei per il megaprestito che dovrebbe evitare al Paese il deafult. Ma la gente in piazza non capisce perché dovrebbe

pagare, con una manovra che colpisce tutti, i debiti fatti da pochi. I deputati erano stati coinvolti per esprimere nel primo pomeriggio di ieri il dettaglio delle misure decise dal governo: aumenti fiscali, tagli della spesa, privatizzazioni e tagli nel settore pubblico. Complessivamente, la legge prevede 28,4 miliardi di tagli in quattro anni e 50 miliardi di privatizzazioni. E se a Berlino più che Bruxelles la preoccupazione è più legata al fatto che i soldi del pacchetto d’aiuti serva a risollevare il malato ellenico più che a riempire le tasche delle banche d’affari che, giocando sulle scarse virtù degli uomini di governo di Atene, gli hanno fatto sottoscrivere piani di finanziamento assai dispendiosi, a Wall Street c’è ansia da “grilletto”. Che la pur piccola crisi greca possa innescare una seconda grande recessione mondiale a causa dell’intossicazione del sistema ban-

cario Usa (e tedesco) con i Credit default swap del debito di Atene. Anche se i segnali dalla Borsa Usa di ieri non erano del tutto negativi.

E da Berlino sono arrivate buone notizie per Atene. Il ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schaeuble, infatti ha dichiarato che le principali banche tedesche hanno dato il loro ok al roll over del debito greco. Questo significa di fatto che gli istituti rinnoveranno almeno i titoli greci che detengono in portafoglio per un valore di 2,9 miliardi e a scadenza nel 2014. Il mercato americano intanto è entrato nell’ultimo giorno di giugno con una perdita mensile di quasi il 3 per cento. Ieri gli acquisti nei listini sono stati spinti dall’approvazione delle misure di austerity. Quindi si può essere moderatamente ottimisti. Con l’approvazione della legge d’at-


mondo

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Cina, riguardanti rispettivamente il settore agricolo e industriale. Per siglare gli accordi è volato ad Atene il ministro cinese per l’Ispezione generale sulla qualità, per la Gestione del controllo e della quarantena doganale Zhi Shuping. A loro volta i greci hanno sottolineato, all’interno della collaborazione bilaterale, l’obiettivo che anche le

traffico di container. Nel novembre 2009 (quindi quando era già al potere il governo del socialista Papandreu) due delle tre maxi-banchine sono state date in concessione per 35 anni ai cinesi della Cosco con tutto il movimento merci. In parole povere: sono i cinesi a decidere cosa sbarca in Grecia e cosa no. E anche per questo gli scioperi, fra i camalli del Pireo, sono durati mesi. Ma tutto il mercato ellenico è in subbuglio: i container orientali inonderanno i negozi e i supermercati di paccottiglia a basso costo made in China, mandando in rovina i bottegai di prodotti locali.

Non basta: la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell’inquietudine è stato l’annuncio, in

Il “dragone” è già arrivato sulle coste elleniche: ingoiando il padre di tutti i porti, quello ateniese, primo in Europa e terzo al mondo per numero di passeggeri

cooperazione nei trasporti marittimi, il credito, le telecomunicazioni, gli scambi culturali e commerciali. «L’avvio di voli diretti Atene-Pechino è importante, perché diventa realtà nel momento in cui i greci hanno capito che la Cina è per noi un amico in questi momenti difficili», ha sottolineato Kouvelis.Tanto è vero che le esportazioni elleni-

che verso Pechino sono aumentate negli ultimi mesi del 56%. Sì, proprio dall’Ellade “appestata dell’Ue”per il suo enorme debito pubblico, che si aggira intorno ai 360 miliardi di euro, e per un deficit statale che non accenna a scendere sotto il 10%, partono alla volta degli sterminati mercati orientali sempre più latticini, cereali e pellame.

«E le nostre esportazioni si estenderanno anche a prodotti più elaborati e di alta qualità, perché la domanda cinese di prodotti ellenici è in aumento», ha dichiarato a fine maggio Michalis Chrisochoidis, ministro dello Sviluppo e della Competitività, annunciando la firma di altri due trattati di collaborazione economica fra la Grecia e la

merci importate dalla Cina in Grecia siano di qualità sottoposta ad accertamenti certificati. Questi accordi avranno durata quinquennale, rinnovabile automaticamente per ulteriori cinque anni, e prevedono una Commissione ispettiva mista. Viene da chiedersi: la Cina vede la Grecia come una testa di ponte per contare sempre di più nell’eurozona? A dire il vero il dragone cinese è già arrivato sulle coste elleniche: “ingoiando” il padre di tutti i porti, quello ateniese del Pireo, primo in Europa e terzo al mondo per numero di passeggeri, il più grande del Mediterraneo orientale per il

nella questione greca può essere complicato. «Do un giudizio contrario ad ogni concetto che non sia puramente volontario» ha spiegato Trichet. «Alle volte sono sorpreso dalla visione limitata del coinvolgimento del settore privato. Il coinvolgimento del settore privato è un buonissimo modo per mobilitare i capitali privati».

La legge attuativa approvata ieri prevede 28,4 miliardi di tagli in quattro anni e 50 miliardi di privatizzazioni tuazione, Ue e Fondo monetario internazionale metteranno a disposizione di Atene la quinta tranche del prestito di 110 miliardi di euro garantito lo scorso anno. I ministri delle Finanze della zona euro hanno infatti messo in agenda un incontro per domenica prossima per dare il via li-

bera al prestito e cominciare a definire un nuovo piano di aiuti. Anche il presidente uscente di Eurotower, Jean-Claude Trichet, è intervenuto sulla vicenda greca. Riguardo la proposta francese sul coinvolgimento delle banche in un secondo piano di aiuti, il numero uno della Bce ha spiegato che al momento Francoforte non ha ricevuto alcun piano dai singoli governi che possa essere esaminato. «Siamo all’erta ma non posso dare un giudizio preciso su quello che succede, ci sono parecchi concetti sotto esame al momento» ha affermato. Trichet ha comunque avvertito che un coinvolgimento del settore privato

Sul fronte sociale della crisi Atene deve risolvere non pochi problemi. A cominciare dalla mano pesante della polizia. Il governo greco ha ordinato infatti l’avvio di un’inchiesta sulle violenze scoppiate mercoledì nel centro di Atene che ha causato oltre 100 feriti. Gli scontri tra forze dell’ordine e manifestanti sono andati avanti fino alla tarda serata davanti al Parlamento. L’inchiesta è stata ordinata dal ministro per la Protezione del cittadino, Christos Papoutsis, dopo la trasmissione sulla tv privata Alter delle immagini che mostrano agenti di polizia in tenuta anti-sommossa collaborare con uomini in borghese, usciti dalle file dei dimostranti violenti, per disperdere altri manifestanti. Papoutsis «ha ordinato al capo della polizia di avviare un’indagine meticolosa per chiarire la vicenda riguardante le immagini video diffuse dalla televisione privata Alter mercoledì sera», si legge in un comunicato ministeriale.

una visita lampo sempre a fine 2009 di “Mr.Cosco”, Guei Zian Fu (che ama farsi chiamare “Captain Guei”): «Datemi il porto del Pireo per investire nel settore crociere e lascerò tutti gli altri porti europei!». Sembrerebbe un affare, ma non lo è: gli abitanti del Pireo ricordano l’attracco della supernave crociera “Splendida” nel gennaio 2010, lunga come la torre Eiffel e alta 28 piani. Speravano che sciami di gitanti scendessero a terra per visitare Atene e fare shopping. Ma in maggioranza i passeggeri sono rimasti a bordo a guardare il panorama dal ristorante. E addio incassi. Altre 7 società cinesi son già attive in Grecia, per estendere i loro tentacoli su tutti i Balcani. Ora, a un anno e mezzo di distanza, c’è molta meno diffidenza verso le offerte in arrivo dalla Cina. Anche perché la quinta tranche de megaprestito Ue-Fmi alla Grecia verrà sì concessa in questi giorni, ma al prezzo di ulteriori tagli alla spesa pubblica, dell’aumento delle tasse su tutti gli immobili (anche quelli piccoli) e di nuovi licenziamenti. Poche settimane fa Song Zhe, ambasciatore di Pechino presso l’Unione europea, ha ribadito che «l’Ue è il principale partner commerciale della Cina, che ha tutto l’interesse nella stabilità dell’economia europea e in una veloce ripresa dalla crisi». Sottolineando che Pechino ha già comprato miliardi di euro del debito pubblico greco e portoghese, Song ha aggiunto che «questo è solo l’inizio. È possibile che investiremo ancora di più». La Cina è dunque vicina? Lo vedremo già quest’estate, contando i turisti orientali che scenderanno dalla scaletta dei due voli settimanali di Air China verso l’aeroporto di Atene.


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grandangolo Picchetti e manifestazioni in tutto il Paese. Sale lo scontento

Londra, il primo sciopero dell’era Cameron

Migliaia di scuole, tribunali e uffici pubblici sono rimasti chiusi ieri nel Regno Unito per lo “strike” di 24 ore proclamato contro la riforma pensionistica voluta dal governo per contrastare il debito pubblico entro il 2015. Dopo anni di silenzio, i sindacati tornano a scuotere le piazze e la politica. Con l’appoggio dei cittadini di Antonio Picasso arlare di sciopero in Gran Bretagna significa rivangare i ricordi degli anni Ottanta, quando i sindacati fermarono il Paese per protestare contro la poll tax della Thatcher. I tempi sono cambiati però. Ieri, Inghilterra e Galles sono stati bloccati dalla serrata del settore pubblico. L’iniziativa è stata adottata per fermare il governo Cameron, impegnato nella riforma delle pensioni. Il complessivo di lavoratori scesi in piazza è di 750mila unità, circa l’1% della forza lavoro dislocata nel settore dei servizi. Numeri importanti, ma i disagi sono stati contenuti. In Inghilterra, è rimasto chiuso il 75% degli istituti scolastici. In Galles, si è trattato di poco più della metà. In tutto, sono state 12mila le scuole che ieri non hanno aperto. A queste si aggiungono tutte le corti di giustizia e gli uffici di collocamento. Coinvolti in parte anche gli aeroporti. Da segnalare inoltre il fermo dei call center della polizia e dei vigili del fuoco. Scotland Yard ha reso nota l’inefficienza del 90% del servizio. Il fatto che la popolazione sia stata avvisata con adeguato anticipo ha limitato i disagi. I ritardi negli hub di volo sono risultati contenuti. Sebbene il 70% degli addetti ai controlli dei passaporti non abbiano lavorato. Il governo, in merito, ha provveduto a garantire le necessarie sostituzioni affinché il Paese non pagasse esageratamente la scelta dei sindacati. Insomma, da un punto di vista fattua-

P

le Londra e le altre città inglesi non sono state messe in ginocchio. È la linea politica, invece, che merita una riflessione. Lo sciopero è stato indetto non dal partito laburista, un tempo promotore delle braccia incrociate di massa, bensì isolatamente dalle Unions. Vale a dire quei rappresentanti di categoria che, ufficialmente, non hanno un’effettiva rappresentanza politica a Westminster, ma che evidentemente dispongono di un sostegno collettivo molto più ampio di quanto si possa pensare. La National union of teachers (Nut), l’Association of

La protesta è stata indetta non dal partito laburista, un tempo promotore delle braccia incrociate, bensì dalle Unions teachers and lecturers (Atl), l’University and college union (Ucu) e soprattutto la Public and commercial service (Pcs). Queste le quattro sigle più importanti che, sotto il logo di coalizione dell’Unison, hanno chiamato a rapporto gli im-

piegati statali. I manifestanti sono i diretti interessati della manovra di riforma del sistema pensionistico pubblico che Downing street sta cercando di apportare. La manovra si dovrebbe impostare sull’aumento dell’età pensionabile e su un nuovo sistema di versamento dei contributi. Attualmente, gli impiegati statali hanno diritto alla pensione già a 60 anni, contro i 65 dei loro colleghi privati. Il governo aspira a eguagliare le condizioni anagrafiche entro il 2018 e a portarla a 66 in un biennio successivo. L’ammontare economico spettante dovrebbe essere calcolato non più sulla base dell’ultima busta paga ricevuta, bensì attraverso la media dei salari recuperati nel corso di tutta la carriera lavorativa. È stato calcolato infine un aumento di tre punti percentuali dell’ammontare di versamento da parte degli attuali contribuenti. Il tesoro britannico ha deciso di lottare con adeguata preveggenza contro il rischio greco. La riforma rientra nel piano di austerità voluto per contrastare il deficit pubblico da qui al 2015 e che prevede anche un congelamento dei salari e il taglio di 330mila posti di lavoro. Il rischio di un default, per un bilancio vessato da una spesa pubblica incontrollabile, è lontanissimo da Londra. Tuttavia, in un momento di così alta tensione, anche la classe dirigente britannica rischia di perdere il suo proverbiale aplomb. Timori e paranoie di conseguenza si inter-

secano. Cameron vuole, se non chiudere, circoscrivere la falla delle spese statali. La prima voce a prevedere un netto ridimensionamento, di conseguenza, riguarda proprio le pensioni dorate degli impiegati statali. I calcoli dell’esecutivo mettono in evidenza un delta di 2.200 sterline all’anno tra la pensione media degli ex impiegati privati (5.600 sterline) e quella del comparto pubblico (7.800). Per ridurre questa forbice, Cameron sta facendo pressione sull’opinione pubblica in favore dei versamenti volontari e delle casse integrative, secondo il sistema statunitense, e contro l’attuale sperequazione pensionistica.

In questi ultimi giorni, il segretario generale di Unison, Dave Prentis, ha sottolineato più volte la miopia delle cifre sfoggiate da Cameron. «Oltre centomila lavoratori pubblici ricevono un vitalizio inferiore a 2.000 sterline», si legge nella nota sindacale. «Mentre solo un centinaio di ex dipendenti d’oro sono coperti da oltre 500mila sterline all’anno». La critica morale alla scienza statistica, di trilussiana memoria, non è certo originale. E altrettanto appare populistico lo sdegno contro le pensioni riservate ai parlamentari. Al contrario, è interessante l’accento posto sulla scelta di aumentare l’età pensionistica. In questo caso, il sindacato ne fa una questione sociale. «Immaginiamoci gli squilibri anagrafici tra un insegnante di 68 anni e i suoi stu-


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«Il Vecchio Continente è allo sbando». L’attacco del New York Times all’alleanza Usa-Ue

L’Europa è debole e per gli Stati Uniti è diventata un problema di Laura Giannone a sopravvivenza della valuta comune dell’Unione europea, la libertà di circolazione interna, la sicurezza transatlantica sono tutte conquiste che oggi vengono messe in discussione. I governi europei smentiscono o rimangono paralizzati. Com’è possibile che un qualsiasi leader europeo permetta che questi pilastri fondamentali per il benessere del continente siano messi a repentaglio? Il vero problema è che di leader europei oggi non ce ne sono: esistono soltanto una cancelliera tedesca, un presidente francese, un primo ministro italiano e altri capi di governo che assicurano di avere una visione continentale, ma che in realtà non guardano più in là dei propri interessi locali. È un editoriale durissimo quello pubblicato ieri dal New York Times che sintetizza in modo manifesto tutti i mal di pancia che Washington sta covando davanti all’impasse del Vecchio Continente. Fino ad arrivare a mettere in discussione l’alleanza, o meglio, la sua solidità. «Gli intrighi europei - continua l’editoriale - sono una fonte di preoccupazione per gli statunitensi. Il crollo dell’euro potrebbe trascinare verso il basso tutta l’economia globale, mentre una spaccatura in seno alla Nato comporterebbe per gli Usa maggiori oneri in materia di sicurezza. Dopo più di un anno di crisi, i principali leader europei sono tuttora incapaci di prendere le decisioni, dure ma necessarie, che andrebbero prese. Il modo più costruttivo per uscire dall’impasse sarebbe una ristrutturazione del debito, accompagnata dalla ricapitalizzazione delle banche coinvolte e dall’allentamento delle misure di austerità già varate per consentire ai paesi indebitati – Grecia, Irlanda e Portogallo – di uscire dalla crisi e di ritrovare la solvibilità. Nessun paese può permettersi di finanziare da solo un’operazione simile. Ma l’Europa unita sì. Facendo una graditissima concessione alla realtà, il presidente Nicolas Sarkozy ha annunciato che le banche francesi sono pronte,“per loro iniziativa”, a far slittare alcune scadenze a carico della Grecia.Tutto questo può sicuramente essere utile, a patto però che tutti in Europa seguano l’esempio della Francia, alleggerendo la pressione su Atene. Affinché i cittadini europei accettino tutto questo, i politici dovranno dire loro come stanno davvero le cose. L’alternativa è lasciare che la zona euro si sbricioli, con

«L

denti ancora adolescenti», dicono con originale acutezza di analisi i rappresentanti del Pcs. Al di là di questo, l’intransigenza permane su ambo le barricate. C’era da aspettarselo, dopo appena una giornata di cortei e picchetti fuori dai tribunali e dalle scuole. Così come per i conti pubblici, anche le piazze inglesi sono lontane anni luce dai disordini che hanno ferito Atene e il resto della Grecia. Tuttavia, una stagione calda non deve essere esclusa dalle previsioni. È di tutta Europa, infatti, l’indignazione nei confronti dei governi di qualunque colore, che

Gli impiegati statali hanno diritto alla pensione a 60 anni, contro i 65 dei privati. Il governo vuole portare la soglia a 66 stanno cercando di adottare significativi tagli alla spesa pubblica nazionale. I casi di Germania, Portogallo e Spagna si affiancano a quello ellenico e mettono in luce la fiacchezza delle istituzioni del Vecchio continente. D’altro canto, va detto che il Regno Unito è Europa solo in certi momenti e i nervosismi dell’opinione pubblica nazionale spesso sono unicamente contemporanei a quelli continentali. Ma di tutt’altra natura. Il semplice fatto che tra Inghilterra e Galles non si siano registrati episodi di tensione collettiva deve indurre al ragionamento. Quello odierno è uno sciopero moderato, fatto di cortei sì, ma volti a non urtare la sensibilità degli altri cittadini. In questo l’Unison sta dimostrando un’identità del tutto nuova, rispetto ai sindacati che l’hanno preceduta nel Paese, come pure a quelli d’Oltremanica. È come se il Pcs e le altre sigle

avessero chiesto il permesso alla popolazione britannica, prima di rallentare i servizi. Una mossa volta a evitare di rovinare la propria immagine e di scadere nella qualunquistica conclusione per cui lo sciopero sarebbe una giustificazione per non lavorare. È una storia completamente diversa dalla storia degli scontri che, tra il 1984 e il 1990, segnarono la seconda parte dell’epoca Thatcher. Peraltro, alla fine di quel capitolo di tensione, le Trade Unions si trovarono costrette a leccarsi le ferite. Non solo erano passate tutte le riforme della Lady di ferro, ma anche l’opinione pubblica si era detta non più rappresentata dai sindacati. Furono tre milioni e mezzo, infatti, gli iscritti che, nell’arco degli anni Ottanta, abbandonarono la tessera.

Non è da escludere che, oggi, il trend si sviluppi in senso diametralmente contrario. Sono anni, questi, di scollamento tra il singolo establishment nazionale e la massa di elettori/contribuenti. A Westminster chi è opposto allo sciopero non è solo il partito conservatore. Bensì anche i liberali, che comunque fanno parte della compagine di governo, e persino i laburisti. «Un’iniziativa che è un campo minato», ha detto il leader del Labour, Ed Miliband, in riferimento alla decisione unilaterale di Unison. Il numero uno dell’opposizione non ha risparmiato comunque critiche al premier, il cui comportamento è stato indicato come «irresponsabile». Il tutto però resta contenuto negli austeri corridoi del parlamento di Londra. Perché mentre gli scioperi erano in corso, con i privati cittadini organizzati di buon grado per far fronte ai disagi, la classe politica disquisiva del medesimo problema. Senza però entrare in contatto né con i manifestanti né con l’Unison. Politica e collettività, anche in Gran Bretagna, stanno imboccando strade disunite. Le realtà extraparlamentari, i sindacati inglesi, che vantano una tradizione ormai secolare, stanno assumendo un aspetto e una strategia operativa del tutto nuovi, che il potere istituzionale non riesce a percepire.

conseguenze gravi sul commercio nel continente. L’apertura della maggior parte delle frontiere interne negli ultimi venti anni è stata un grande passo avanti per l’economia, ma allo stesso tempo quasi tutti i paesi europei hanno assistito all’allarmante ascesa di partiti fortemente ostili all’immigrazione. La crisi economica e l’arrivo di decine di migliaia di profughi tunisini e libici hanno alimentato la xenofobia, che ha raggiunto livelli senza precedenti: Francia, Italia e Danimarca hanno cercato in modo unilaterale di uscire dallo spazio di Schengen, che prevede frontiere aperte e attraversabili senza passaporto.

Il problema dei profughi è troppo complesso perché un paese possa risolverlo da solo: anche in questo caso è evidente la necessità di un’autentica leadership europea. L’iniziale risposta dell’Europa alla feroce repressione messa in atto da Gheddafi in Libia è stata promettente: la Francia ha spinto per un intervento e gli alleati della Nato hanno acconsentito ad assumere la leadership dell’operazione dopo un primo round di bombardamenti americani. Indubbiamente, però, le conseguenze dei mancati investimenti militari dei paesi europei sono emerse con chiarezza quando, per approvvigionarsi di bombe e altro materiale bellico, alcuni governi del vecchio continente si sono dovuti rivolgere a Washington. Il trattato di difesa comune ha sempre dato per scontato che l’America sarebbe venuta in soccorso dell’Europa. Ma l’incapacità dei paesi europei della Nato di affrontare una minaccia di secondo livello come quella libica dovrebbe far riflettere tutti i ministri della difesa europei». «Gli americani - prosegue il Nyt - sono stanchi della guerra, e il timore di indebolire la Nato non è più un deterrente per i leader politici. Non sappiamo per quanto tempo ancora gli elettori americani daranno il loro appoggio a un’alleanza nella quale agli Stati Uniti spetta l’onere del 75 per cento delle spese militari e una percentuale più o meno analoga dei combattimenti. I leader del vecchio continente devono necessariamente trovare in tempi rapidi una visione più ampia». In caso contrario, ecco la chiosa finale, i loro alleati americani potrebbero dover pagare un prezzo troppo alto.


cultura

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Da sempre i “resuscitati” hanno catturato l’attenzione di scrittori, registi, scenografi e artisti. Oggi, anche un saggio politologico americano ne indaga il “fenomeno”

Week end col mostro Da una finta invasione di zombie domenica scorsa in Inghilterra a un film cubano in chiave anti-Castro: tutti pazzi per i morti viventi di Maurizio Stefanini cinema sono invasi dai vampiri, ma il giorno degli zombi sta arrivando. Nel 1988 Wes Craven, il regista di Le colline hanno gli occhi e di Nightmare, presentò il film Il serpente e l’arcobaleno. Una storia molto romanzata tratta dal libro già di per sé abbastanza romanzato dell’antropologo e etnobotanico canadese Wade Davis, in cui pur calcando abbastanza la mano su effetti speciali e anime dei morti si raccontava una vicenda in principio vera. Cioè, del modo in cui Wade era andato a indagare sulla leggenda dei morti viventi di Haiti, per scoprire che esistono davvero.

I

Solo che non si tratta di morti viventi, ma di vivi ridotti a uno stato di catalessi ipnotica da una pozione imperniata sul veleno allucinogeno del pesce palla, che solo può essere annullato dall’assunzione di sale. «La polvere Zombie e il suo ingrediente attivo, la tetradossina, sono attualmente oggetto di studi negli stati Uniti e in Europa», era la scritta finale sui titoli di coda del film. «Fino a oggi, la dinamica con cui la polvere agisce rimane un mistero». Mentre gli stregoni vudu usano il ritrovato per spargere il terrore, fare vendette e procurare infaticabili schiavi a buon mercato, Davis aveva cercato invece un nuovo, più efficace anestetico. Per la verità, non sono mancati né scienziati che hanno accusato l’etnobiologo di aver esagerato nel valutare il potenziale della tetradossina; né conoscitori della cultura haitiana secondo cui si era fatto prendere in giro dai suoi informatori, che avrebbero approfittato della sua ignoranza della lingua creola. Comunque la legge penale haitiana prevede espressamente il reato dell’«impiego contro una persona di sostanze che, senza causare vera morte, producano coma letargico», equiparato a un tentato omicidio. Ma il film di Craven, per dirla alla Guareschi, buttava la cosa in politica.

Il libro di Davis era infatti uscito nel 1985, ma la pellicola ambienta la sua ricerca durante la rivolta che nel 1986 costringe alla fuga il dittatore Jean-Claude Duvalier: figlio di quel François Duvalier che proprio riutilizzando le ricerche antropologiche compiute da un me-

dico rurale aveva trasformato i miti vudu in strumenti del suo regime di terrore. E la morale di Craven, alla fine, è che i veri mostri non sono gli zombie, ma i dittatori. Anzi, in una dittatura è destino un po’ di tutti i sudditi di essere trasformati in una sorta di zombie.

Lo zombie, dunque, può essere una categoria del politico.

Fu la celebre pellicola di Romero a dare inizio sul grande schermo al filone sui paurosi cadaveri che ritornano in vita Se ve lo ricordate, già nel 1992 Francesco Cossiga durante una delle sue «esternazioni presidenziali» si era tolto un «sassolino dalla scarpa» col dare all’allora segretario dell’allora Pds Achille Occhetto dello «zombie con i baffi». Lo stesso Occhetto racconterà poi di averci riso sopra, e an-

che che lo stesso Cossiga gli aveva telefonato per chiedergli scusa. «Guarda Achille, mia figlia mi ha rimproverato per averti definito uno zombie coi baffi. Perché vedi papà se dicessero qualcosa di simile a te io ci resterei molto male ed anche Occhetto ha dei figli

che potrebbero esser rimasti molto male per come hai chiamato il loro padre».

Comunque, ne fecero un cartone animato in cui Cossiga col suo picconcino colpiva tra gli altri anche un Occhetto dall’aspetto zombico, sull’aria di un brano house costruito appunto mettendo in musica le sue esternazioni. E non mancò qualche settimanale che ci fece sopra dotte dissertazioni, sugli zombie e il loro ruolo nel cinema e nella letteratura. D’altra parte anche la Notte dei morti viventi di George Romero, il film che nel 1968 diede inizio al filone sugli zombie che dura ancora oggi, alludeva a tematiche abbastanza pesanti: dall’ecologia al razzismo e al maccartismo. Con i cadaveri che riprendevano vita e si trasformavano in mostri cannibali per via di una contaminazione spaziale, e il negro unico sopravvissuto all’assedio che veniva poi scambiato per zombie a sua volta e ucciso da una squadra di vigilantes. Ma adesso

una città inglese è stata attaccata sul serio da zombie, sia pure fasulli. Leicester, nelle East Midlands, che con quasi 300.000 abitanti è il decimo centro urbano dell’Inghilterra, e il tredicesimo del Regno Unito. Amministrazione laburista, che in base alle disposizioni sulla trasparenza e la libertà di informazione si è vista mandare il 10 giugno questa lettera: «Caro Consiglio della Città di Leicester, Potreste per favore farci sapere quali precauzioni avete predisposto per affrontare una eventuale invasione di zombie? Avendo visto vari film è chiaro che la preparazione per un tale evento è scarsa e coloro che sono stati eletti consiglieri del Regno dovrebbero prepararvisi. Per favore dateci informazioni se ne avete. Vostri sinceramente, un gruppo di cittadini preoccupati».

Il responsabile informazione del Consiglio Lynn Wyeth ha mostrato effettivamente un aplomb britannico: «A qualcuno potrà sembrare frivolo e una perdita di tempo, ma per altri può

effettivamente essere importante. Ognuno ha i propri interessi e le proprie motivazioni per sollevare questo genere di domande”. Tuttavia, ha dovuto riconoscere che la possibile emergenza non era passata neanche nell’an-


cultura

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Guzzanti sul terremoto abruzzese avrebbe dovuto essere sugli edifici, che per non aver pensato agli Zombie si erano trovato a fa’ li zompi, come si dice nell’Italia Centrale.

ticamera del cervello dei consiglieri. Il 26enne James Dixon ha ascoltato la risposta, e per il sabato successivo ha dunque convocato via Facebook un’invasione di simil-zombie. In realtà circa 200 buontemponi che si sono truccati in modo orripilante e si sono aggirati barcollando per le vie: va detto, astenendosi dal nutrirsi dei passanti. Invece, si sono dissetati nei pub. Goliardia? Probabilmente l’idea è venuta proprio perché meno di un mese prima negli Stati Uniti erano stati i Centers for Disease Control and Prevention, entità federale per la prevenzione di catastrofi con sede centrale ad Atlanta, a inserire sul loro sito web un completo prontuario su come comportarsi nel caso di un’«Apocalisse degli Zombie».

«Cosa dovete fare prima che gli zombie vengano davvero? Prima di tutto, dovreste tenervi in casa un kit di emergenza. Questo dovrebbe includere cose come acqua, cibo e altri generi di prima necessità da tenere con voi per il paio di giorni che vi ci vorranno per individuare il primo campo libero da zombie». Non è che la Polvere Zombie di Davis era scappata di mano, o che davvero fosse tornata dallo Spazio una sonda contagiosa. Semplicemente, è in arrivo dal primo giugno la stagione degli uragani, ed i Centri hanno ben pensato con una simpatica provocazione di ravvivare

Sopra, un fotogramma del videoclip di Michael Jackson “Thriller”. A sinistra, la locandina del film “La notte dei morti viventi di Romero”. In basso, due immagini relative al film e al videogioco “Resident Evil”

un’attenzione, altrimenti passibile di decadere per la routine. La postilla era infatti: «Ricordate che quel che serve per fronteggiare un’Apocalisse di Zombie serve in linea di principio per ogni altro tipo di emergenza». «Ci sono molti tipi di emergenza lì fuori cui ci possiamo preparare. Prendano l’Apocalisse Zombie come un esempio. Magari oggi ci riderete sopra, ma se avverrà davvero saranno felici di aver letto questo messaggio, e forse

Continuando a buttarla in politica e tornando nei Caraibi, d’altronde, a Cuba si aspetta spasmodicamente un film che uscirà in autunno, ma che già in fase di preparazione ha fatto parlare di sé in modo incredibile, per essere una piccola produzione indipendente di stile non hollywoodiano. Addirittura, lo si è visto come un segnale del dopo-Castro, anche se in modo ambiguo: indice di una nuova libertà di fare satira; ma anche amara constatazione che ci vorrebbe una catastrofe sovrannaturale per fare veramente cambiare Cuba. La storia di Juan de los muertos, il primo film indipendente sugli zombie Hecho en Cuba, si presenta così: «Cinquanta anni dopo la rivoluzione cubana una nuova rivoluzione sta per iniziare e solo un uomo può fermarla». Il regista è Alejandro Brugués. La coproduzione è Spagna-MessicoCuba, con un budget di oltre 2,5 milioni di dollari: il progetto più costoso mai realizzato dalla cinematografia cubana. E il protagonista è Juan: un quarantenne che passa le sue giornate senza fare assolutamente nulla. Tutto però cambia, quando all’improvviso incominciano ad apparire sull’isola degli zombie. Mentre i

potranno anche apprendere una o due cose su come prepararsi per una emergenza reale».

Dai 1000-3000 contatti abituali il blog è arrivato a 60.000, attirando l’attenzione di Twitter. Insomma, gli zombie sono una ideale cartina di tornasole di come funziona la Protezione Civile. Quindi, altro che Draquila il vampiro: semmai la polemica di Sabina

media di regime danno la colpa a dissidenti sovvenzionati dagli Stati Uniti, Juan prima trova il modo di far fuori i mor-

ti viventi a colpi di rem. Poi decide di sfruttare la situazione, offrendo i suoi servizi a prezzi ragionevoli. Ma la situazione precipita, e a Juan non resterà altro che prendersi le sue responsabilità e indossare i panni dell’eroe per liberare Cuba. Ma lasciamo la parola a Alejandro Brugues: «È comunque un film molto “cubano”, che prende in giro il nostro modo di pensare e fare. Per esempio, ecco come reagiamo ai problemi: prima cerchiamo di ignorarli; poi proviamo a fare soldi sfruttando il problema; e infine ci buttiamo in mare e cerchiamo di scappare dal Paese. È proprio quello fanno i nostri eroi nel film». Juan infatti prima crea una nuova società con lo slogan: “Juan de los Muertos: ammazziamo i vostri cari”. Per una piccola tariffa, Juan e il suo partner eliminano infatti parenti e amici morti-viventi che i cittadini cubani non hanno il coraggio di uccidere. Poi, quando gli zombie invadono l’intera capitale, Juan deve decidere se scappare a Miami e trasforma la sua macchina in una zattera: episodio che ricorda quanto realmente accaduto nel 2004, quando un gruppo di cubani raggiunse le coste della Florida su una vecchia Buick 1959 galleggiante. Nel frattempo, i media nazionali accusano gli americani di sostenere i dissidenti-zombie con l’obiettivo di destabilizzare Cuba. Top secret, per ora, il finale.

Demenziale? Ma gli Zombie in politica sono stati oggetto addirittura di un saggio politologico. È Theories of International Politics and Zombies: un libro uscito a gennaio per la Princeton University Press e opera di Daniel W. Drezner. Che è docente di politica internazionale alla Fletcher School of Law and Diplomacy della Tufts University, un ateneo privato nei pressi di Boston che è tra i più prestigiosi degli States. Ed è inoltre editorialista sia di The National Interest sia di Foreign Policy. Allo scopo di spiegare le varie teorie sulla politica internazionale, lui immagina un mondo invaso dagli zombie, e quale sarebbero le probabili risposte di entità tipo i governi nazionali, l’Onu, altre organizzazioni internazionali, le Organizzazioni non Un governative. ventaglio di ipotesi però poi raggruppabile in sette approcci teorici: dalla realpolitik al liberalismo, e dal neo-conservatorismo alla risposta burocratica. Con la conclusione che probabilmente la lotta delle ong per la difesa dei morti viventi e l’approccio militare dei neocons lascerebbero gli zombie “egualmente indifferenti”.



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