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mobydick ALL’INTERNO L’INSERTO DI ARTI E CULTURA

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di Ferdinando Adornato

QUOTIDIANO • SABATO 2 LUGLIO 2011

DIRETTORE DA WASHINGTON: MICHAEL NOVAK

La libertà arriva dopo un’udienza straordinaria, anticipata poche ore prima dal New York Times

Ora chi risarcirà il “mostro”? Contrordine: Strauss-Kahn è innocente. Però lui è stato distrutto

Scarcerato l’ex direttore del Fmi. Secondo gli inquirenti di New York è stata tutta una montatura. Un’intercettazione smaschera le bugie della cameriera. Resta da scoprire l’autore del complotto CONDANNE SOMMARIE

di Antonio Picasso

Il neo-segretario: «Un partito di onesti»

Acclamato Alfano: «Berlusconi anche nel 2013»

Il Consiglio nazionale del Pdl sancisce l’investitura dell’ex Guardasigilli, che rilancia il Cavaliere per le prossime elezioni: «C’è bisogno di lui»

Una lezione per tutti i media del mondo

ROMA. Accertata la falsità del reato, va capito il motivo per cui è stata gonfiata un’inchiesta truffa ai danni di uno dei massimi esponenti della finanza mondiale. L’ex direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi), Dominique Strauss-Kahn, è innocente. Crollata l’accusa di stupro, è stato scarcerato per ordine della corte di New York. A cadere, invece, Lisa Friel, che ha passato la mano. a pagina 2

di Osvaldo Baldacci

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La denuncia di Piero Ostellino

Viaggio nella gauche francese

«Nessun giornale pronunci più la parola verità»

Ormai Parigi gli ha chiuso tutte le porte

«Questa vicenda induce tutti noi a riflettere seriamente sul mestiere e su tutti i suoi rischi»

L’arresto ha riaperto gli armadi di Dsk, pieni di scheletri e scandali che allontanano l’Eliseo

Francesco Lo Dico • pagina 5

Enrico Singer • pagina 4

Errico Novi • pagina 10

ritacarne mediatico. Senza entrare nel merito dei torti e delle ragioni, la vicenda Strauss-Kahn mostra in modo esemplare lo sviluppo preso dal potere mediatico e soprattutto dalle sue degenerazioni. Se i magistrati devono esercitare prudenza perché una lunga inchiesta può distruggere la vita di una persona anche se innocente, quanto più autocontrollo dovrebbero esercitare i mass-media che non conoscono gli atti e non hanno tutti gli elementi né le competenze né tantomeno l’autorità in materia. Eppure la condanna sui media precede ogni altro sviluppo, e resta impressa definitivamente anche se poi gli esiti giudiziari vanno in una diversa direzione. a pagina 3

Motivati allarmi sull’Italia dell’agenzia di rating

Ha ragione

Standard & Poor’s (e perciò è meglio votare subito)

Un saggio del grande teologo americano

Al via la sfida finale per la poltrona di Governatore

Operazione 2020: democrazia nell’islam

Fabrizio e Vittorio, due uomini in Banca

di Michael Novak

di Maurizio Stefanini

no dei temi più importanti di questo secolo è la libertà religiosa, e in particolare lo sviluppo della dottrina nell’Islam. Negli ultimi 50 anni ho fatto alcune scoperte in diversi campi che erano sfuggite alla maggior parte degli studiosi, come l’ortodossia “non storica”nel Concilio.

u il Western all’italiana a inventare il triello ma forse è il caso di lasciar perdere la suggestione sul “Buono, il Brutto e il Cattivo”, per la corsa tra Fabrizio Saccomanni,Vittorio Grilli e Bini Smaghi alla successione di Mario Draghi alla carica di governatore della Banca d’Italia.

a pagina 24

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di Enrico Cisnetto se ora si decidesse, concordemente, di andare alle elezioni anticipate a marzo-aprile del prossimo anno, magari usando il tempo che resta di questa legislatura per varare una legge elettorale di stampo europeo? A ben pensarci la struttura della manovra approvata dal governo dopo molti mal di pancia, sembra fatta apposta per spingere l’intero sistema politico in questa direzione. Non solo, anche l’elezione per acclamazione di Angelino Alfano a segretario politico del Popolo della libertà consolida il presidente del Consiglio. a pagina 6

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I QUADERNI)

• ANNO XVI •

NUMERO

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IN REDAZIONE ALLE ORE

19.30


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il fatto La Procura di New York gli restituisce la cauzione e lo rimette in libertà. Era costretto ai domiciliari dallo scorso maggio

Alla fine, lo stuprato era lui La scarcerazione di Dominique Strauss-Kahn rilancia la teoria del complotto contro di lui per eliminarlo dalla corsa all’Eliseo la polemica

di Antonio Picasso

ROMA. Accertata la falsità del reato, va capito il motivo per cui è stata gonfiata un’inchiesta truffa ai danni di uno dei massimi esponenti della finanza mondiale. L’ex direttore del Fondo monetario internazionale (Fmi), Dominique Strauss-Kahn, è innocente. Crollata l’accusa di stupro, è stato scarcerato per ordine della corte di New York. Nel mentre, la responsabile dell’unità crimini sessuali della Polizia di New York, Lisa Friel, ha passato la mano alla collega Martha Bashford. Le autorità hanno negato la connessione con il caso Dsk. Difficile però non pensarlo.

Ad aprire il caso prima del tempo - l’udienza ordinaria era in agenda per il 18 luglio prossimo è stata un’indiscrezione del New York Times. Nella sua edizione di ieri, il quotidiano parlava di un’intercettazione telefonica, giunta in possesso degli inquirenti assoldati dai rappresentanti legali di Strauss-Kahn, che metteva in discussione l’accusa di violenza sessuale. Prima ancora delle decisioni del giudice, i legali di StraussKahn avevano avanzato la richiesta di far cadere subito tutte le accuse nei confronti del loro assistito. Domandate inoltre la modifica delle condizioni della libertà su cauzione (un milione di dollari in contanti e cinque milioni in bond) e revocati gli arresti domiciliari e il monitoraggio elettronico dei suoi spostamenti. Il giudice ha accolto tutte le istanze e ordinato il rilascio dell’imputato. In attesa di giudizio. La decisione del tribunale Usa è nata dall’accertamento delle discrepanze nelle dichiarazioni recuperate dalla vittima. Ophelia, la cameriera 32enne, immigrata a New York dalla Guinea e qui assunta al Sofitel Hotel, non vanterebbe quella immagine candida che ha sempre cercato di presentare. I dubbi quindi non nascono dallo stupro, che non è avvenuto. Per quanto un rapporto sessuale sembra che si sia stato. Le ombre, piuttosto, sono concentrate sui trascorsi della diretta interessata. Le cinque linee telefoniche mantenute da Ophelia, per centinaia di dollari al mese ogni bolletta, contro la denuncia di un solo numero. I suoi legami con attività criminali, immigrazione clandestina e riciclaggio di denaro, specie il versamento di 100mila dolla-

I media mondiali e la “caccia al porco” contro l’ex direttore generale dell’Fmi

Tonnellate di articoli senza alcun fondamento di Pierre Chiartano ominique Strauss-Kahn potrebbe già essere un uomo libero. E non si tratta soltanto di un abbandono della vita da recluso, seppure ai domiciliari dorati di un appartamento lussuoso di New York. Dsk potrebbe essere libero di pensare a un futuro più grande di quanto non sia certamente il suo presente e non sia stato il suo passato. Mai un uomo così potente era finito sulle montagne russe delle alterne fortune. Il 14 maggio era entrato nella stanza a 5 stelle del Sofitel di Manhattan come futuro candidato socialista all’Eliseo, ne era uscito da uomo braccato dalla polizia, accusato di violenza e stupro. «È stato arrestato all’aeroporto Kennedy di New York per “brutale violenza” su una cameriera dell’hotel di Times Square che aveva lasciato poche ore prima», recitava l’articolo del corrispondente dagli Usa della Stampa di Torino. Montava la narrazione di un America dove la legge è veramente uguale per tutti – che è tendenzialmente vero – e dove non funzionano i meccanismi di copertura dei potenti che agiscono così bene in Europa e in Italia in particolare. Persino l’olimpico Mario Monti in un’intervista con Lucia Annunziata – dopo un’attestazione di stima per il Dsk economista – si era lasciato andare a un disarmante «erano a conoscenza di molti le debolezze private dell’uomo». Insomma, sembrava un sigillo sulla verosimiglianza delle accuse.

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approccio di quelli che, in America, scatenano la folla e la rabbia. Il quotidiano inglese si spendeva poi nel dipingere l’immagine – peraltro vera – di un oligarca del socialismo al caviale. Rimarcando ancora di più le differenze storiche tra la società angloamericana, puritana e democratica, e la cultura “feudale” europea che permane ancora nel XXI secolo.

«Caccia al porco», apertis verbis avrebbero detto i latini. Titolava infatti così un’inchiesta del periodico Usa Newsweek, fatta all’interno della Special victims division del Dipartimento di polizia della Grande Mela. Un posto che vantava di aver i migliori detective al mondo, compresi Alan Sandomir e Steve Lane, i due che si occupavano del caso Dsk. E una cartello davanti alla porta della sezione lo ricordava: «Home of the World’s Greatest Detectives». E anche nell’altro emisfero non erano teneri e non solo con Dsk. Infatti The Australian, ancora a metà giugno, titolava «Oltre a Strauss-Kahn sul banco degli imputati c’è la cultura francese», affermando che nella classifica mondiale degli scandali sessuali quello di Dominique superava di gran lunga sia la vicenda Bill Clinton-Levinsky che l’affaire Profumo. Più indulgente la stampa francese con Le Monde e la tesi del «complotto» oppure lo scoop di Libération che rilanciava un’intervista rilasciata dall’ex capo dell’Fmi, il 28 aprile, in cui egli stesso profetizzava: «mi faranno fuori con uno scandalo sessuale. I miei punti deboli sono i soldi, le donne e il fatto che sono ebreo». L’agenzia russa RiaNovosti, abituata agli intrighi di potere all’ombra del Cremlino, aveva subito evidenziato la possibilità che fosse una montatura per “fottere”la corsa di Dsk all’Eliseo: «perché un uomo che guadagnava un quarto di milione di dollari all’anno avrebbe dovuto inseguire una cameriera? Doveva trattarsi di una donna veramente irresistibile». La cameriera, presunta vittima della libido senza freni di Dsk, avrebbe mentito. Dunque potremmo affermare che veritas filia temporis, ma non sembra di essere davanti a un nuovo caso Dreyfus.

Il caso ha fatto riemergere sui media anche antiche frizioni fra l’Europa (latina) e gli Usa puritani

Elaine Sciolino sul New York Times era andata giù ancora più pesante, con un pezzo di costume: «per cominciare va subito chiarito un fatto: per i francesi la seduzione vuol dire saper fare dei gran complimenti, accompagnati da sorrisi, in una sorta di piacere reciproco, non certo rinchiudere qualcuno in una stanza d’albergo e costringerla con la forza a fare del sesso orale». Una specie di epitaffio sul Dominique pubblico. Il Guardian di domenica 15 maggio titolava «sex attack» contro una cameriera, sottolineando due volte la gravità del reato. Prima per l’abuso e la violazione della persona, poi per la grande disparità di condizione fra l’uomo di potere e la povera cameriera. Un

ri circa su un conto della proprietà della vittima. Accumulati negli ultimi due anni, eppure mai riconosciute come proprie dalla titolare. Infine il traffico di droga e l’ipotesi di un ricatto ai danni dell’ex leader dell’Fmi. Le incrinature nel passato della donna sono tante. Peraltro, torna poco chiaro come una giovane immigrata possa aver accumulato simili somme di denaro. Certo, non si tratta di tantissimi soldi, ma sono comunque impossibili da guadagnare in poco tempo nel fare la cameriera al piano nei Sofitel. Mance incluse. La difesa, per giunta, ha scoperto che la cameriera ha avuto un colloquio telefonico con un uomo in carcere (registrata dalle autorità penitenziarie) in cui discuteva i possibili benefici del portare avanti le proprie accuse. Si tratterebbe proprio di una delle persone che avrebbero effettuato versamenti in questione. La donna ha dichiarato di avere inserito negli incartamenti prove di un precedente stupro, ma non ne è stata trovata traccia nella richiesta di asilo. Il tutto va a pesare sul piatto della bilancia di Ophelia. In questo mese e mezzo, l’ex candidato socialista alle presidenziali francesi del 2012 è stato sommerso dalla marea di smascheramenti sul suo passato. Specie in riferimento ai proprio impulsi e interessi sessuali extra matrimonio. Se non è Ophelia, quindi, è tutto il resto a neutralizzare la corsa elettorale di Dsk. Un argomento, questo, messo in chiara evidenza dalla biografia ufficiale su Dsk, scritta dal giornalista francese Michel Taubman. Nel libro, che sarebbe dovuto uscire a maggio e che, per fortuna dell’autore, ha richiesto un rapido aggiornamento, ritorna sulla tesi del complotto ordito da mesi e di cui, per chi avesse avuto orecchie per sentire, se ne sarebbe potuta prevedere anche la data di realizzazione. Ricco, troppo interessato all’universo femminile e di origini ebraiche. Questo il quadro tratteggiato nel Roman vrai de Dominique Strass-Kahn di Taubman. La sua candidatura all’Eliseo era insostenibile per questi tre motivi. Di avere uno Strass-Kahn all’Eliseo ormai non se ne può più parlare quindi. I francesi, per quanto indulgenti possano essere, è difficile che eleggano un presidente le cui tentazioni profane sono state messe così in bella mostra. In questo mese e mezzo di detenzione, infatti, la Francia ha


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il commento La gogna mediatica aveva già condannato l’economista senza avere reali riscontri

Quando il quarto potere si sostituisce ai tribunali la democrazia va in tilt di Osvaldo Baldacci ritacarne mediatico. Senza entrare nel merito dei torti e delle ragioni, la vicenda Strauss-Kahn mostra in modo esemplare lo sviluppo preso dal potere mediatico e soprattutto dalle sue degenerazioni. Se i magistrati devono esercitare prudenza perché una lunga inchiesta può distruggere la vita di una persona anche se innocente, quanto più autocontrollo dovrebbero esercitare i mass-media che non conoscono gli atti e non hanno tutti gli elementi né le competenze né tantomeno l’autorità in materia. Eppure la condanna sui media precede ogni altro sviluppo, e resta impressa definitivamente anche se poi gli esiti giudiziari vanno in una diversa direzione. Non è un problema solo italiano, anche se da noi il livello del giornalismo è davvero crollato. È evidente che si tratta di un problema mondiale, ed un problema di struttura. Ma non un problema da poco. Nel caso del francese Dominique Strauss-Kahn non si è trattato solo di rovinare a torto o a ragione l’immagine di una persona. Si è piuttosto scatenata una crisi internazionale. Si è dovuto dimettere il presidente del Fondo Monetario Internazionale (ripeto, senza entrare nel merito del caso specifico, della colpevolezza o meno e quindi neanche della correttezza o meno di queste specifiche dimissioni) e l’intera istituzione mondiale, in un momento di grave crisi, ha avuto grave detrimento di immagine. Si può amare o meno il lavoro delicato che fa il Fondo monetario internazionale, ma laddove si voglia criticarlo non credo che tale immenso potere possa fondarsi su qualche scandalo privato. E non è finita lì, perché il terremoto è andato molto oltre: la crisi Strauss-Kahn è stata l’occasione per i Paesi emergenti di attaccare gli europei e rivendicare la guida del Fondo. Solo una pesante trattativa ha portato sul podio più alto non il primo presidente extra-europeo ma la prima presidente donna, la francese Christine Lagarde.

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fatto indigestione delle debolezze di una delle sue figure più carismatiche sul piano internazionale. Tre matrimoni in archivio, ma soprattutto troppe storie non proprio galanti, spesso messe a tacere dall’Fmi. Dsk aveva già visto rischiato grosso nel 2008, in seguito alla rivelazione di un flirt con una sua dipendente. Fu il cda del Fondo in prima persona ad ammettere l’apertura di un’inchiesta interna sui rapporti fra il direttore e una economista ungherese, Piroska Nagy, in forze al dipartimento africano. Strauss-Kahn era già sposato con la sua terza e attuale moglie, la giornalista Anne Sinclair, noto volto della tv francese e che in questa vicenda lo ha difeso a spada tratta. La signora Nagy pure era sposata e proprio il marito aveva scoperto la relazione nata a Davos in Svizzera - in occasione del forum economico. Fu lui stesso a parlarne al Fondo, il quale affidò la vicenda a uno studio legale di Washington. Il caso si era risolto con la negazione di molestie, favoritismi o abusi di potere. I francesi, da parte loro, non parevano male impressionati. Lo stesso il premier conservatore, François Fillon, sostenne il direttore dell’Fmi parlando di una vicenda assolutamente privata. Oggi, le esternazioni da parte della classe dirigente francese non hanno neanche atteso la sentenza.

Ancora prima che il tribunale Usa aprisse i battenti, la gauche si era stretta intorno al suo ormai bruciato candidato di punta. Al capezzale di qualcuno ci si avvicina sempre con poco timore. Di conseguenza, dal Partito socialista sono giunti i messaggi di solidarietà più spontanei. «Vorrei che i nuovi elementi, rivelati nella notte dall’ufficio del procuratore di New York, permettessero di sollevare dalle accuse Strauss-Kahn». «Questa sentenza diverrà una pietra miliare giudiziaria». Oltre che una lezione per giornali di tutto il mondo, diciamo noi. l’ex segretario

brano aver perso il senso della misura. E non si tratta di complotti, spesso ormai i media semplicemente rincorrono se stessi in un senso di onnipotenza che calpesta qualunque cosa o persona si pari loro davanti. Significativo che questa deriva abbia raggiunto il suo vertice più clamoroso negli Stati Uniti d’America.

Lì i media hanno consolidato il loro ruolo di quarto potere e inserendosi nella tradizione del giornalismo anglosassone di obiettività e perfino distacco, hanno innestato una loro specificità diventata esemplare di watchdog, cioè di cani da guardia del potere. Non per conto del potere ma nei confronti del potere. Media quindi non più totalmente distaccati e neutrali rispetto ai fatti, bensì neutrali rispetto alle fazioni politiche, con uno sguardo più attentamente critico verso chi governa e detiene il potere. Dalla parte dei cittadini e a loro tutela, in modo da garantire un ulteriore controllo su comportamenti ed onestà degli amministratori. E fin qui il tutto è esemplare. Per un mondo della comunicazione di questo tipo è un vanto non guardare in faccia a nessuno, e colpire se serve anche i vertici apparentemente più intoccabili, che si tratti del presidente degli Stati Uniti oppure del presidente del Fondo Monetario Internazionale. Ma siamo sicuri che ci stiamo muovendo ancora in questo ambito? Che si possa parlare di ruolo di “controllo”? Nel caso del Watergate, ad esempio, si è trattato di una lunga e paziente inchiesta, con molti riscontri, testimonianze e situazioni comprovate. Nel caso Strauss-Kahn tutto si è consumato in pochi giorni, la gogna mediatica ha condannato e distrutto una persona e aggredito una istituzione internazionale basandosi su un arresto (per quanto clamoroso) e qualche indiscrezione dal procedimento giudiziario. Dov’è l’inchiesta giornalistica? Quali elementi, quali riscontri sono stati cercati, trovati, esibiti? Bastava un po’ di pazienza e di prudenza e gli stessi sviluppi giudiziari avrebbero rimesso un po’ a posto le cose. Ma oggi il giornalismo troppo spesso non è un cane da guardia ma solo un cane rabbioso, che per aumentare vendite e pubblicità si scaglia con violenza ovunque ci sia odore di sangue. E non conta capire perché ci sia il sangue. L’importante è solo contribuire ad aumentarlo.

Dov’è andata a finire l’inchiesta giornalistica? Quali elementi sono stati cercati, raccolti, esibiti prima di sbattere il “mostro” in prima pagina e “sentenziarne” la colpevolezza?

Non perché Brasile, Russia, India e Cina, e gli altri con loro, non debbano farsi valere ed eventualmente contare di più, ma perché è assurdo che la messa in discussione del monopolio europeo della leadership dell’Fondo monetario avvenga in base non a titoli di merito o titoli di borsa, ma a titoli scandalistici sulla camera da letto di un presidente. I mezzi di comunicazione sem-

del Partito socialista, François Hollande, attualmente in corsa per le primarie ed eventualmente per le presidenziali, ha parlato di accuse che «dolorosamente e crudelmente sono pesate su StraussKahn». Ben più maliziosa la vicepresidente socialista del Consiglio regionale dell’Ile-de-France (Parigi), Michele Sabban. «Mi stupisco che queste informazioni escano il giorno dopo la designazione di Christine Lagarde al Fondo, in sostituzione proprio di Dks». Secondo la dirigente del partito, «questi elementi erano certamente noti da tempo e confermano che l’idea di una macchinazione diventa plausibile».

A sua volta, Jean Marie Le Guen, parlamentare molto vicino all’economista francese, ha dichiarato che «tutti coloro che hanno speculato sulla vicenda dovranno fare i conti con una persona che, io spero, sarà presto libera di muoversi e in grado di guardare al pubblico francese dritto negli occhi». Stima della stessa sincerità Dsk l’ha raccolta dall’ex ministro della Cultura, Jack Lang, ma soprattutto dalle due Marinane socialiste, Ségolène Royal e Martine Aubry, rispettivamente già candidata all’Eliseo nel 2007 e la seconda attuale “quota rosa” per il voto del prossimo anno. Sarkozy, invece, ha preferito non intromettersi nella vicenda. La laconicità della politica parigina è compensata dai commenti della stampa. Choc e stupore sono i termini che ricorrono maggiormente nei titoli dei media transalpini. Interessante e anche preveggente il paragone tra Dsk e il conte di Montecristo, delineato da Dominique Guillard, capo cronaca politica del Figaro. In effetti, se Sarkò si è liberato di un concorrente di peso, come pure la Aubry e Hollande, non possiamo pensare che l’economista torni in patria e beva l’amaro calice della condanna morale, senza vendicarsi di tutto il fango sollevato nei suoi confronti.


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l’approfondimento

Sarkozy guarda con apprensione alla scarcerazione e punta tutto sulla replica del colpaccio di Chirac: al ballottaggio contro Le Pen

Una cameriera all’Eliseo Il “caso Ophelia” ha spalancato le porte del passato di Dsk, che è stato travolto da un mare di episodi spiacevoli. Questi gli hanno precluso per sempre la corsa alla presidenza, che ora i socialisti vorrebbero consegnare a Martine Aubry di Enrico Singer

l colpo è già riuscito una volta a Jacques Chirac. Andare al ballottaggio contro Jean-Marie Le Pen e vincere grazie ai voti della sinistra che non poteva permettere al leader della destra estrema di entrare all’Eliseo e che, turandosi il naso, sostenne il vecchio presidente neogollista. «Votate contro il Fronte Nazionale» fu la consegna data ai suoi sostenitori da un triste Lionel Jospin, il candidato socialista che non era riuscito nemmeno a superare il primo turno elettorale. Era il 2002. E a questo punto Nicolas Sarkozy spera di poter ripetere quel colpo. Le presidenziali ci saranno tra meno di dieci mesi: primo turno il 22 aprile 2012, ballottaggio il 6 maggio.Tutti i sondaggi lo danno per spacciato con quasi il 70 per cento dei francesi che non lo vuole più alla guida del Paese. Lui, però, è testardo ed è deciso a inseguire lo stesso un secondo mandato. Confida nella sua buona sorte, in qualche successo internazionale – l’attivismo sul fronte europeo come

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su quello dell’intervento militare in Libia si spiega anche così – e magari nella simpatia che la nascita del figlio con Carla Bruni dovrebbe suscitare tra la gente. Ma, soprattutto, punta sulle debolezze incrociate dei suoi sfidanti e sulla grande confusione innescata dalla vicenda a luci rosse che ha investito quello che era il suo avversario più temibile: Dominque Strauss-Kahn. Una vicenda che si è clamorosamente riaperta ieri quando i giudici di New York hanno dovuto ammettere che la cameriera d’albergo che aveva accusato di stupro l’ex direttore del Fondo monetario aveva, sì, avuto rapporti sessuali con Strauss-Kahn, ma quanto alla violenza aveva inventato tutto per fare soldi.

Un coup de théâtre che dovrebbe chiudere in tempi rapidissimi la partita giudiziaria ma che – almeno questa è la speranza di Sarkozy – non dovrebbe essere sufficiente per rimettere in corsa l’economista socialista che al Fmi è stato già

sostituito dall’ex ministro delle Finanze di Parigi, Christine Lagarde, e che, dal 14 maggio scorso, quando è scoppiato lo scandalo, è stato sommerso da una valanga di rivelazioni sulle sue debolezze sessuali: dalle studentesse molestate come professore universitario, ai rapporti con una dipendente ungherese del Fondo, fino alla più famosa agenzia di escort americana che ormai gli rifiutava le ragazze perché quelle che erano state con lui si erano lamentate dei suoi vizi. E’ vero che

Ma gli analisti non ritengono Parigi pronta per una presidentessa

“Dsk” tornerà in patria quasi come un eroe, come l’uomo ingiustamente umiliato dal sistema giudiziario americano che è stato costretto ad ammettere l’errore con tanto di dimissioni annunciate del magistrato Lisa Friel che, da 10 anni, era capo dell’unità per i crimini sessuali della Procura distrettuale di Manhattan. Ma è anche vero che la sua credibilità di politico appare irrimediabilmente compromessa anche se dovesse essere cancellata la denuncia di Ophelia, la cameriera del Sofitel di New York. Anzi, più sarà lacerante il dibattito che, inevitabilmente, si aprirà in Francia sulla (mezza) rivalutazione di Dominique Strauss-Kahn, più Nicolas Sarkozy ne potrebbe essere favorito.

Quella che si è creata è una situazione paradossale. Appena tre giorni fa Martine Aubry, che guida da segretario il Ps dal 2008, si è ufficialmente candidata alle primarie del partito socialista che, entro il prossimo 16 ottobre, deve scegliere lo sfidan-

te per l’Eliseo. Quando StraussKahn era il grande favorito, tra lui e la Aubry era stato raggiunto un accordo: si sarebbe presentato alle primarie soltanto uno di loro, quello meglio piazzato nei sondaggi, per non dividere il partito. Adesso tutto è più complicato. Martine Aubry ha addirittura già ceduto la segreteria del Ps a Harlem Désir che, negli Anni Ottanta, fondò il movimento antirazzista Touche pas à mon pote (lascia stare il mio amico). Un vero rompicapo.

Martine Aubry è un pezzo da novanta nel partito. Il suo cognome – è quello del primo marito che lei non ha cambiato nemmeno dopo il secondo matrimonio – ne nasconde uno molto più famoso. Martine è la figlia di Jacques Delors, uno dei padri dell’Unione europea, storico ministro delle Finanze del presidente socialista François Mitterrand e due volte a capo della Commissione di Bruxelles. Una figlia d’arte, insomma. Diplomata all’Ena, una delle Grandes écoles che for-


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L’editorialista del “Corriere della Sera” predica maggiore prudenza da parte di giudici e media

«Nessun giornale osi più pronunciare la parola verità» «Con quale coraggio ci facciamo portatori del Verbo, se anche la realtà processuale è contradditoria?». L’opinione di Piero Ostellino di Francesco Lo Dico

ROMA. «Il rapido balzo dalle tesi colpevoliste a quelle innocentiste interroga una volta di più le coscienze di noi tutti. La vicenda di Strauss-Kahn induce a riflettere su un certo modo di fare giornalismo inteso come giustizia sommaria, su una certa maniera di fare politica che usa la presunzione di reato come ghigliottina per sbarazzarsi dell’avversario. Più in generale, questi ultimi snodi giudiziari ci domandano: dall’alto di quale verità parliamo, quand’anche una verità processuale è difficile ad appurarsi e in contraddizione con se stessa dalla sera alla mattina? A quale verità tendiamo, se spesso ci accontentiamo di ricalcare quella che una parte o l’altra si impone di accreditare, trasformando noi tutti in stenografi prezzolati di interessi contrapposti?». Sono molti gli interrogativi che Piero Ostellino, editorialista del Corriere della Sera,solleva in merito al curioso caso di Dominique Strauss-Kahn. Da mostro a martire in sole ventiquattro ore. Visto che siamo in Italia, la domanda è d’obbligo. Perché l’ex capo del Fmi non è rimasto in sella per difendere la sua onorabilità? La decisione di fare un passo indietro compete alla sensibilità individuale di ciascuno, alla temperie culturale nella quale essa si forma, al tipo di fiducia che l’uomo di potere ripone nelle istituzioni, e perché no, anche alla propria buona coscienza. Fino a prova contraria, ciascuno ha il diritto di presumersi innocente, e il dovere di assumersene la responsabilità. Strauss-Kahn potrà riprendere la corsa all’Eliseo, o la sua immagine è definitivamente compromessa da una sorta di ombra che si porterà dietro per sempre, anche da innocente? L’uomo politico è molto esposto al pericolo di incidenti che possono troncare la sua carriera, e in qualche modo sa metterli in preventivo. Ho la sensazione che uscire incolume dal processo, riuscirà però a ridare slancio alla sua candidatura. Gli elettori non giudicano in termini strettamente morali, ma più crocianamente, secondo competenza. Il medico come il politico: non conta quanto sia probo, ma quanto è capace di fare il suo mestiere? Croce definiva «petulante», l’esclusiva richiesta di onestà. Chiedere ai politici soltanto onestà, diceva, è segno di «volgare inintelligenza» Immaginare il Parlamento come un aeropago, è «l’ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli»,

ammoniva il filosofo. Ma molti giornalisti non conoscono Croce. E questa è l’unica attenuante che sono disposto a concedere loro. A proposito di giornalismo che fa discutere: non le pare paradossale che Strauss-Kahn sia stato scarcerato grazie a una sorta di dossieraggio, di metodo Boffo applicato alla cameriera Ofelia? Se fosse stato un comune cittadino, il francese sarebbe riuscito a provare la scar-

«Invece del gossip, dovremmo cercare di sapere chi parla, e perché: coltivare il dubbio, invece che lo strepito» sa attendibilità della donna? La prassi è antica, discutibile, ma efficace. Ma tutti noi non dobbiamo dimenticare che anche una sgualdrina di professione possa essere stuprata, e che pure una telefonata che ne mostra l’opportunismo, l’indole

ricatattoria, non è sufficiente ad escludere che sia stata vittima di reato. Altra ironia della sorte. Una maledetta intercettazione ha permesso a Strauss Kahn di tornare in libertà, invece che di finire in galera, come spesso si dice da noi con riprovazione. Il problema non è esercitare il diritto di cronaca, o il dovere di indagare. Le notizie vanno date, e i reati contestati. Il guaio è consentire che attitudini private, confidenze, rapporti amicali e dettagli pruriginosi finiscano nel tritacarne pur essendo penalmente irrilevanti. Le Procure non possono trasformarsi in redazioni scandalistiche che danno in pasto alla morbosità del pubblico le vite degli altri. A che giova sapere del bacio saffico di Minetti e Ruby? Se viene violato il segreto, esiste l’obbligo di indagare il reato. Ma nessuna procura ha mai aperto un fascicolo su se stessa. Era necessario sospendere il giudizio su Strauss-Kahn, visto che in Francia ci si è divisi in opposte tifoserie come nella vituperata Italia? C’era il “fumus criminis”, dietro la vicenda dell’ex capo del Fondo monetario. Il sospetto di violenza era di interesse pubblico, indubbiamente. Ma si sarebbe potuto invece esercitare lo spirito critico: giornalisti, politici e magistrati non dovrebbero cedere alla tentazione di lapidare il potente nella pubblica piazza. Dovremmo coltivare il dubbio, piuttosto che lo strepito. E invece spesso la carta stampata, si produce in intere articolesse di “si dice, si mormora, sembra”. Faremmo meglio a ricorrere ai virgolettati: sapere chi parla, che cosa dice, e perché. Questo caso conferma quindi che i media infrangono quel nitore etico che reclamano a gran voce dalla politica? Avere una concezione liberale, significa accettare, come spiega Kant, che il capo supremo deve essere giusto per se stesso e tuttavia essere un uomo. È l’idea del legno storto. Pretendere che esista qualcosa di umano interamente diritto, noi sappiamo bene che è utopistico e molto pericoloso. Una volta prosciolto dalle sue pendenze giudiziarie, Strauss Kahn torna un libero cittadino. E se torna alla politica, non va giudicato per irrilevanti debolezze private. A noi non importa che un medico sia onesto, ci ha spiegato Croce, ma soltanto che sia capace. E il politico, non dev’essere onesto? È molto importante che lo sia. Ma se fosse soltanto onesto, ma sommamente incapace, che ne sarebbe dei suoi cittadini?

mano la classe politica francese, è chiamata anche la «signora 35 ore» perché è stata protagonista della contestata legge sulla settimana lavorativa corta. A 60 anni, dopo tante sconfitte e divisioni, ha portato il Ps alla vittoria nelle ultime elezioni regionali. Nonostante la grande esperienza e il curriculum importante, Martine Aubry non convince i guru della politica francese che considerano il Paese ancora non pronto a eleggere un Presidente donna (il destino di Ségolène Royal insegna) e lei sin troppo “normale”con i suoi maglioncini portati su gonna e camicetta. Per di più Martine non ama i giornalisti, evita i fotografi e fa calare l’audience televisivo. Il 16 giugno scorso, 900mila telespettatori hanno cambiato canale mentre parlava su Tf1. I consiglieri di Sarkozy temono di più François Hollande, ex segretario socialista ed ex compagno di Ségolène Royal, che è avanti nei sondaggi rispetto alla Aubry (32 per cento contro il 30). Ma segretamente si augurano che le divisioni interne possano indebolire al primo turno il Ps che si troverà a fare i conti anche con altri candidati della gauche, compreso quello che rimane dei comunisti. Ecco perché la speranza è di bissare il colpo di Chirac nel 2002 scommettendo sulla forza della nuova candidata che il Front National metterà in campo per l’Eliseo: Marine Le Pen, figlia di Jean-Marie, il fondatore del partito che, dieci anni fa, conquistò il ballottaggio. Marine Le Pen, 43 anni, ha preso il posto del padre alla presidenza del Fn nel gennaio scorso, è europarlamentare dal 2004 e nei sondaggi ha raggiunto un sorprendente 21 per cento dei consensi. Ha ripulito il partito da buona parte degli estremismi xenofobi, ma sostiene ancora il proposito di abbandonare l’Unione europea e, di conseguenza, l’euro proponendo un referendum. Già questo basta per comprendere l’ostilità della stragrande maggioranza degli elettori, tanto quelli della destra moderata che quelli della sinistra. Con il risultato che un suo eventuale successo al primo turno aprirebbe due scenari opposti, ma in fondo convergenti: a guadagnarsi l’Eliseo sarebbe l’altro candidato ammesso al ballottaggio. Nel caso fosse Nicolas Sarkozy, su di lui confluirebbero i voti della sinistra. Nel caso fosse Martine Aubry – o François Hollande – sarebbero gli elettori dell’Ump a fare altrettanto. Alle presidenziali mancano ancora dieci mesi e tante cose possono ancora succedere. Ma, per il momento, all’orizzonte si annuncia un travaso di voti tra la sinistra e quella che i francesi chiamano la destra per bene. A meno che al ballottaggio non vadano direttamente Sarkozy e la Aubry. Allora a pesare saranno i voti del Fronte nazionale.


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la manovra

Se avesse ribaltato il rapporto del primo biennio, l’esecutivo avrebbe risparmiato le “lacrime e sangue” nell’anno che precede le Politiche

Un incrocio pericoloso

La cattiva distribuzione dei 47 miliardi messi in gioco lascia pensare che il governo abbia in testa elezioni anticipate. E sarebbe meglio... di Enrico Cisnetto se ora si decidesse, concordemente, di andare alle elezioni anticipate a marzo-aprile del prossimo anno, magari usando il tempo che resta di questa legislatura per varare una legge elettorale di stampo europeo? A ben pensarci la struttura della manovra approvata dal governo dopo molti mal di pancia, sembra fatta apposta per spingere l’intero sistema politico in questa direzione.

E

Non solo, anche l’elezione per acclamazione di Angelino Alfano a segretario politico del Popolo della libertà – a proposito, che errore continuare con i plebisciti e la mancanza di confronto dialettico – consolida il premier e lo dovrebbe rendere più incline al voto anticipato; così come, a sinistra, il parziale rafforzamento di Pierluigi Bersani e il neo-pragmatismo di Antonio Di Pietro dovrebbero

indurre ad accorciare i tempi elettorali, prima che Nichi Vendola e i movimentismi finiscano per avere il sopravvento.

E poi, se permettete, ne ha drammaticamente bisogno il Paese – se per questo, le elezioni avrebbero dovuto già esserci state o sarebbe meglio che ci fossero in autunno – che deve

Il fatto che il 2011 vedrà una manovrina da soli 1,8 miliardi offre un’indicazione precisa sulla “data di scadenza” di questa maggioranza recuperare la fiducia perduta, ed è impossibile che ciò accada se non si volta la pagina maledettamente buia che stiamo vivendo. Ma partiamo dalla ma-

novra. L’Italia necessita di interventi pari a 47 miliardi di euro entro il 2014 – salvo brutte sorprese derivanti dall’eventuale incremento degli oneri sul debito, sia per aumenti del tasso d’interesse Ue sia per un allargamento dello spread (160 milioni in più ogni punto base) – per poter raggiungere il pareggio di bilancio, obiettivo impostoci dall’Unione europea. Calcolatrice alla mano, sarebbero stati necessari interventi per circa 12 miliardi all’anno. Invece, la soluzione scelta dalla maggioranza – che porrà per l’ennesima volta la fiducia sul decreto – è una partenza soft, che in sostanza non va ad alterare l’attuale status quo.

Per il 2011 le cifre messe in campo dal governo sono assai modeste: 1,8 miliardi, ovvero il 4 per cento circa dell’intero ammontare. Per il 2012 la musica cambia poco, con 5,5 mi-

liardi messi in preventivo. Il restante 85 per cento, 40 miliardi, sarà spalmato sul biennio 2013-2014.

Ora, è vero che le correzioni minime previste per quest’anno e il prossimo sono sufficienti a rispettare la tabella di marcia verso l’azzeramento del deficit concordata con Bruxelles – perché Tremonti, per fortuna, ha già fatto un’ampia manovra nei primi tre anni della legislatura – ma è altrettanto vero che, avendo il fucile dei mercati finanziari puntato addosso, anticipare una parte più consistente degli interventi ci avrebbe consentito di metterci maggiormente al riparo. Come dimostra il giudizio secco – «restano sostanziali rischi per il piano di riduzione del debito principalmente a causa della debole crescita» – espresso ieri a caldo dall’agenzia di rating Standard & Poor’s. D’altra parte,Tremon-

ti sapeva perfettamente che non si poteva andare oltre, perché sarebbe saltato o lui o il governo (o forse entrambi), e saggiamente ha fatto in modo che la responsabilità politica di una manovra tutta congiunturale fosse ben chiaramente di Berlusconi. Adesso, però, chiunque abbia l’ambizione di occupare la stanza presidenziale di palazzo Chigi e quella che fu di Quintino Sella al Tesoro nella prossima legislatura, sa che se le elezioni si tenessero a tempo debito, si troverebbe obbligato nel primo biennio ad una manovra di 40 miliardi.

Più i correttivi che si rendessero necessari per gli eventuali scostamenti ulteriori dovuti sia alla crescita del prodotto interno lordo inferiore alle attese (sarà già così quest’an-


la manovra

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Le misure non convincono S&P: «Inadeguate» L’agenzia di rating: «Anche se approvate, non bastano per rassicurare i mercati mondiali» di Massimo Fazzi e agenzie di rating internazionali sono sempre circondate da un alone di sospetto. E, soprattutto, non possono vantare l’inattaccabilità che sarebbe fondamentale per chi si arroga il diritto di giudicare Paesi ed economie mondiali. Ma il fatto che nonostante la manovra da 47 miliardi di euro varata dal governo, in Italia «restino rischi sostanziali per il piano di riduzione del debito, soprattutto a causa delle deboli prospettive di crescita» non fa piacere.

L

E poco importa che il giudizio venga da Standard and Poor’s all’indomani del consiglio dei ministri che ha dato il via libera alle misure per il 20112014 che dovranno portare il nostro Paese al pareggio di bilancio. A peggiorare un pochino le cose arriva il premier Silvio Berlusconi, il quale conferma che sulla manovra, alla fine dell’iter parlamentare, «sarà posta la fiducia, eventualmente con l’aggiunta dei suggerimenti migliorativi». Suggerimenti che potranno arrivare anche dall’opposizione ma solo, avverte, se «si tratta di buoni consigli e non di emendamenti localistici e di parte». Quindi, secondo il premier, anche in Parlamento «dovrà continuare il criterio del buon senso del padre di famiglia che abbiamo utilizzato e saremo lì ad accettare eventuali miglioramenti, che mirino allo sviluppo ma tenendo ben presente il rigore dei conti». L’annuncio della fiducia suscita già le prime reazioni nell’opposizione. Secondo il leader dell’Idv, Antonio Di Pietro, «le pretese di Berlusconi

sono ridicole e contraddittorie. Da una parte chiede all’opposizione di collaborare per venire incontro a una necessità reale che è quella di far quadrare i conti e di risolvere l’emergenza economica. Dall’altra annuncia che metterà la fiducia. Insomma, quale collaborazione vuole? Quello che vuole è solo servilismo». Per il leader del Pd, Pier Luigi Bersani, si tratta di una manovra «inaccettabile sotto il profilo sociale». Scettici anche i sindacati. «Berlusconi sbaglia a mettere la fiducia sulla manovra», sottolinea il segretario generale della Cisl, Raffaele Bonanni, nel corso di una conferenza

del Mezzogiorno. Per l’Istituto, si tratta del tasso di disoccupazione giovanile più alto dall’inizio delle serie storiche omogenee, ovvero dal 2004, in base a confronti annui.

Nel mese di maggio il tasso di disoccupazione generale è salito all’8,1%,

Allarme anche dall’Istat: i dati sulla disoccupazione giovanile sono i peggiori dal 2008: le donne le più colpite stampa. «Questo - prosegue - è solo un appuntamento, altri ce ne saranno. Sbaglia quindi a mettere la fiducia per evitare il dibattito parlamentare, sbaglia a mettere la fiducia per difendersi dai suoi». Secondo Bonanni, però «sbaglierebbero le forze parlamentari qualora usassero il dibattito parlamentare solo per disturbare e rallentare» l’iter della manovra stessa.

Ma la mazzata peggiore per l’esecutivo viene dai dati dell’Istat, secondo cui sono sempre di più i giovani disoccupati in Italia. Il tasso di disoccupazione giovanile (15-24 anni) nel primo trimestre del 2011 sale a 29,6%, dal 28,8% dello stesso periodo del 2010, con un picco del 46,1% per le donne

no, se come stima Confindustria l’incremento di ricchezza starà sotto l’1 per cento) sia alla dinamica dei tassi.

Senza contare che è molto probabile che in quel momento l’Europa ci chiederà di cominciare a buttare giù anche il debito secondo quello schema – un ventesimo all’anno di ciò che eccede il 60 per cento di debito-pil, cioè circa una cinquantina di miliardi – imposto dalla Germania e già approvato con il rinnovo del patto di stabilità Ue. È evidente, dunque, che guadagnare un anno e riparametrare la manovra da 45 miliardi (e più) su tre anni anziché due sarebbe interesse di tutti. Ma la manovra è già stata pensata con le elezioni anticipate in testa? Almeno un indizio, e pure pesante, c’è: se fosse stato davvero convinto di con-

con un aumento di 0,1 punti percentuali rispetto ad aprile (quando era pari all’8%), ma in calo su base annua di 0,5 punti (a maggio 2010 era pari a 8,6%). Il numero complessivo dei disoccupati si riporta oltre la soglia dei 2 milioni: è pari infatti a 2.011mila unità contro 1.999mila unità di aprile. Per quanto riguarda gli occupati sono 22.914mila unità, in aumento dello 0,1% (21mila unità) rispetto ad aprile.

cludere a tempo debito la legislatura, il governo avrebbe quantomeno ribaltato il rapporto tra il 2011 e il 2012 o addirittura avrebbe sommato le due cifre e fatto subito una manovra da 7,3 miliardi, in ossequio alla logica, tanto populistica quanto stringente, che induce a risparmiare le cosiddette “lacrime e sangue” nell’anno che precede le elezioni in modo da non inimicarsi gli elettori.

Se le elezioni amministrative sono state un campanello di allarme, cui ha fatto seguito il risultato dei referendum, oggi dare spazio a una manovra impopolare avrebbe ridotto al lumicino le speranze del centrodestra di poter ottenere un’affermazione alle prossime politiche. Così, il fatto che il 2011 vedrà una manovrina da solo 1,8 miliardi offre un’indicazione precisa sulla “data di scadenza” di questo esecutivo:

Nel confronto con lo stesso mese dell’anno precedente l’occupazione cresce dello 0,2% (+34mila unità). L’aumento riguarda la sola componente femminile. Nel primo trimestre del 2011 la disoccupazione è scesa all’8,6%. Nel primo trimestre 2010 il tasso era 9,1%. Per la prima volta dall’inizio del 2008, il numero dei disoccupati «registra una riduzione su base tendenziale (-5,2%, pari a -118.000 Unità). La discesa riguarda sia gli uomini sia soprattutto le donne e si concentra nel centro-nord». L’occupazione straniera aumenta significativamente (+276.000 unità), ma il relativo tasso di occupazione è ancora in discesa rispetto allo stesso periodo del 2010, dal 62,8% al 62,4%. Dopo la caduta durata oltre tre anni, l’occupazione nell’industria in senso stretto manifesta un moderato recupero tendenziale (+1,5%, pari a 70.000 unità).

Il terziario registra un nuovo risultato positivo (+0,9%, pari a 140.000 unità), diffuso nelle posizioni lavorative dipendenti e autonome. Dopo una lunga fase di riduzione gli occupati a tempo pieno tornano ad aumentare su base tendenziale (+0,2%, pari a 37.000 unità); anche quelli a tempo parziale aumentano su base annua (+2,3%, 78.000 unità), ma si tratta ancora una volta di part-time involontario. Sono poi in crescita i lavoratori a termine. In confronto al recente passato, la riduzione dei lavoratori con contratto a tempo indeterminato è molto più contenuta (-0,1%, pari a -19.000 unità), mentre continua a crescere il numero dei dipendenti a termine (+4,1%, pari a 84.000 unità), in gran parte nell’industria in senso stretto. Insomma, un quadro terrificante.

salvo imprevisti, primavera 2012. Il tema, semmai, è con quale legge elettorale si andrebbe alle urne e quali scenari politici sono immaginabili di qui ad allora.

Fermo restando la ricandidatura di Berlusconi – inutile farsi illusioni, sua sponte non lascerà mai, sono ridicole le ipotesi che si fanno circa una sua disponibilità a trattare una sorta di “resa con contropartita” – la Lega riguadagnerebbe la propria autonomia o appoggerebbe di nuovo il Cavaliere? E Tremonti che farebbe, fermo in attesa degli eventi o disposto a giocarsi la partita provando a rimescolare le carte delle alleanze? Sarebbe pensabile un asse tra il ministro dell’Economia, il Terzo Polo e Montezemolo che negozi con il Pd (e Di Pietro new style) in cambio della definizione di un confine a sinistra che isoli gli antagoni-

sti? E in questo quadro Bersani sarebbe capace di fare in politica quello che la Camusso ha avuto il benemerito coraggio di fare nel sindacato? Con tutta evidenza molto, se non tutto, dipende dalla legge elettorale. Ora, da un lato l’anticipo del voto potrebbe aiutare lo status quo: si vota con il porcellum e poi la riapertura dei giochi si tenta dopo, specie se il risultato dovesse assegnare una camera al centrodestra e una al centrosinistra.

Ma dall’altro, proprio l’incertezza del dopo potrebbe indurre tutti, Berlusconi in primis, a valutare un sistema di computo dei voti che non consenta a chi vince di fare tutti gli altri prigionieri. E questo non potrebbe che essere un proporzionale con sbarramento, di tipo tedesco. C’è tutta l’estate per pensarci. (www.enricocisnetto.it)


La corsa per la successione al posto di governatore di Bankitalia si fa sempre più serrata: a novembre Draghi si trasferisce a Francoforte

Due uomini in Banca

Vittorio Grilli (il romano) e Fabrizio Saccomanni (il padano) incarnano due visioni diverse dell’economia. Ma hanno in comune molto più di quanto sembri di Maurizio Stefanini u il Western all’italiana a inventare il triello ma forse è il caso di lasciar perdere la suggestione sul “Buono, il Brutto e il Cattivo”, per la corsa tra Fabrizio Saccomanni, Vittorio Grilli e Lorenzo Bini Smaghi alla successione di Mario Draghi alla carica di governatore della Banca d’Italia. Primo: perché la Banca d’Italia stessa non sarà forse nel suo momento migliore; ma non è ancora un cimitero, sia pure imbottito di soldi, come il luogo dove avveniva il celebre duello a tre del film di Sergio Leone.

F

Secondo, perché in tanti stanno cercando di far passare Bini Smaghi per il Cattivo: per il modo in cui si è rifiutato di dare le dimissioni dal Board della Banca Centrale Europea, in modo da venire incontro al diktat francese che dopo la nomina dello stesso Draghi alla presidenza della Bce non vuole due italiani assieme alla testa dell’organismo. Ma, per il momento, risulta un po’ difficile stabilire chi tra Grilli e Saccomanni sarebbe il Buono, e chi il Brutto. Semmai, si po-

trebbe parlare del Romano e del Milanese. Romano Saccomanni: il direttore generale in carica della stessa Banca d’Italia. Milanese Grilli: il direttore generale del Tesoro.Tutti e due, in realtà, si sono formati alla Bocconi, anche se a diver-

rea negli anni del boom. Grilli è invece del 1957: generazione nata a inizio boom, cresciuta nei ruggenti anni ’60 e arrivata alla laurea tra la fine degli anni di piombo e l’inizio della nuova età ruggente craxiana. E tutti e due si sono perfezionati in America. Saccomanni a Princeton, nel New Jersey. Grilli a Rochester, Stato di

nomia lo ha visto comunque eccellere da subito, visto che tra i 29 e i 33 anni è stato Professore al Dipartimento di Economia dell’Università di Yale, per poi passare fino ai 37 anni a Woolwich Professor of Financial Economics dell’University of London. Solo nel 1994 è entrato al Ministero del Tesoro, come capo della Direzione I - Analisi Economico-Finanziaria e Ma Privatizzazioni. nel 2000 era tornato i cattedra, alla Bocconi. E tra 2001 e 2002 in Inghilterra, come Managing Director alla Credit Suisse First Boston di Londra. E solo dal luglio del 2002 lavorare definitivamente per la Repubblica Italiana. Prima come Ragioniere Generale dello stato. Poi, dal maggio del 2005, appunto come Direttore Generale del Tesoro. Incarico cui nel dicembre del 2005 ha aggiunto la Presidenza della Fondazione Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. Saccomanni, invece, nel 1967 è entrato alla Banca d’Italia: a

Entrambi si sono formati alla Bocconi, anche se a diversi anni di distanza l’uno dall’altro. Il primo è del 1942: generazione nata durante la guerra; il secondo è del 1957, gli anni del boom

si anni di distanza l’uno dall’altro. Saccomanni è infatti del 1942: generazione nata durante la guerra, cresciuta durante le ristrettezze della ricostruzione e arrivata alla lau-

New York, e americana era anche la sua prima moglie. Malgrado sia figlio di un imprenditore, Grilli aveva anche una madre nota biologa all’Istituto dei tumori, e in effetti lui da prima aveva iniziato a studiare da medico secondo un’influenza evidentemente materna. Pur scelta di ripiego, l’Eco-

un’epoca in cui Grilli faceva la quarta elementare. E lì è sempre rimasto. È vero che è stato al Fondo Monetario Internazionale, nella Banca Centrale Europea, nella Banca dei Regolamenti Internazionali e nell’Unione Europea. Ma sempre in rappresentanza di Bankitalia, di cui è stato una specie di ambasciatore itinerante.

In ultimo tra 2003 e 2006 lo avevano designato vicepresidente della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo, prima di essere designato il 2 ottobre 2006 direttore generale. A reincollare con un discreto successo un po’ di cocci, dopo i disastri dell’era Fazio. E anche di nuovo a rappresentare la Banca d’Italia all’estero, e stavolta ai massimi livelli, tant’è che è circolata la definizione del “ministro degli Esteri di Draghi”. E anche una battuta: “where’s Mario? c’è Fabrizio!”. Anche negli Usa ce l’aveva mandato d’altronde a studiare Bankitalia:


le nomine e Francesco Giavazzi. E tramite loro sarebbe stato poi chiamato al Tesoro. La sede centrale di Bankitalia, in via Nazionale a Roma. In basso a sinistra Fabrizio Saccomanni, direttore generale dell’Istituto praticamente da sempre. In basso a destra Vittorio Grilli. Nella pagina a fianco l’attuale governatore, il dimissionario Mario Draghi, che a novembre assumerà la guida della Bce

per la precisione l’allora governatore Guido Carli, soprannominato anche “il gauleiter della lira”, in coppia con Tommaso Padoa Schioppa. Al contrario, fu a Yale che Grilli conobbe Draghi, Luigi Spaventa

Irrequietezza imprenditoriale padana, potrebbe dunque essere lo stereotipo, versus radicamento ministeriale romano. Non fosse che due carriere di quel livello scappano del tutto a ogni tipo di inquadramento coloristico. E poi, mentre proprio lo stereotipo sul massimo esponente dell’imprenditorialità padana negli ultimi anni ha sterzato decisamente verso il modello della bulimia comunicativa, Grilli è un personaggio di cui quasi non ce se ne accorge. Non rilascia interviste, non fa quasi dichiarazioni, le frequentazioni anglo-sassioni gli hanno lasciato il gusto per quell’eleganza di cui Lord Brummel diceva che raggiungeva il massimo quando riusciva a passare inosservata. Il fatto, però, è che abbastanza spesso ci si accorge invece delle scelte che ha fatto. Come quando quasi in contemporanea ha imposto alla Cdp come amministratore delegato il suo ex-compagno di banco nel Cda di Borsa Italiana Giovanni Gorno Tempini, e a Intesa Sanpaolo come presidente del Consiglio di gestione il suo ex-allievo di Yale Andrea Beltratti. In compenso, sono circolati articoli a sua firma di argomento enologico che hanno fatto intravedere come Grilli sia tutt’altro che il robot asettico e silenzioso che ama apparire, e tutto il suo aplomb sia piuttosto una posa. Non diremmo “per non pagare il dazio”, giusto perché da Ragioniere Generale dello stato è stato comunque un pezzo grosso del Ministero dell’Economia e Finanze. Al contrario, il ministeriale ma cosmopolita Saccomanni rientra in pieno nello stereotipo del romano quando si apprende che il tratto caratteriale più descritto da chi l’ha conosciuto è la bonarietà. La passione per il golf, condivisa con Draghi, da una parte; la passione per la musica classica, con un abbonamento ormai trentennale a Santa Cecilia, dall’altra: sono ulteriori particolari di un carattere a cui dovrebbe piacere prenderla con calma. È vero che il golf piace anche a Grilli: ma assieme al calcetto, e al tifo per l’Inter, il che malgrado l’attitudine al silenzio sembra tradire un temansiogeno. peramento

L’accoppiata saccomaniana golf-classica fa invece subentrare la famosa battuta di Moltke, sugli ufficiali che erano divisibili in quattro gruppi in base alle due categorie sovrapponibili della capacità e della voglia di fare. Ovviamente da valorizzare al massimo i capaci e volenterosi; utilizzabili negli Stati maggiori gli incapaci e pigri; pericolosissimi e da allontanare immediatamente i volenterosi e incapaci; il generale prussiano sottolineava però il ruolo particolarmente prezioso dei volenterosi e pigri. «Hanno la freddezza per venire a capo di qualunque emergenza».

Appunto, con la sua pigra capacità Saccomanni fu appunto colui che riuscì a venire a capo dell’uscita della lira dallo Sme, nel terribile 1992. E colui che ne pilotò il rientro, nel 1996. Insomma: è a Saccomanni che dobbiamo se l’Italia è riuscita a farsi ammettere subito nell’Euro. Nel 2000 Saccomanni fu anche fra i grandi re-

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arginare gli eccessi dei mercati globali; ma oggi non ne hanno gli strumenti, se non accettano di cooperare.

Il ruolo di Saccomanni nell’assicurare quel grande successo di Prodi che a veder bene è stato anche l’unico grande successo dei governi dell’Ulivo e dell’Unione in Italia, ci ricorda poi un’altra sua caratteristica: l’essere considerato appunto vicino al centro-sinistra. Anche se sulla sua sostanziale indipendenza nessuno si permette di dubitare. In particolare, è stata la sua bonomia e esperienza diplomatica a consentire a Draghi e Tremonti di cooperare, senza prendersi per i capelli. E da molti la cosa è raccontata con toni da nomination per il Nobel per la Pace. Al contrario, Grilli è considerato vicino a Tremonti. In effetti fu Silvio Berlusconi nel 2002 a volerlo alla Ragioneria generale, dopo un lunghissimo regno di Andrea Monorchio. E tre anni dopo, quando Siniscalco venne nominato ministro al posto di Tremonti, fu ancora Berlusconi che lo mandò a sostituirlo alla direzione generale. Un problema dell’essere Saccomanni parte in causa, in fondo, è nel non poter fare lui la mediazione. E la quadratura del cerchio è diventata allora complessa. A 68 anni, sarebbe la sua candidatura la più ovvia. Anche perché già in passato si erano avute illustri staffette tra direttori generali e governatori: Donato Menichella dopo Luigi Einaudi; Guido Carli dopo Donato Menichella. È lui il candidato dello stesso Draghi, che grazie al collaudato feeling farebbe agire di concerto Bce e Bankitalia; ed è lui quello voluto dalla nomenklatura della Banca stessa. Ma l’imbroglio della Bce ha creato il problema di Bini Smaghi, di cui si dice che solo in cambio del governatorato accetterebbe di togliersi di torno. E d’altra parte l’idea di un Draghi in Bce e con una sponda in Bankitalia non è che faccia fremere il Cav dalla gioia. Una variante è dunque: Saccomanni governatore, con l’impegno di dimettersi prima dei sei anni del mandato; Bini Smaghi direttore generale, con la

Seppur defilato, resta ancora da sciogliere il nodo Bini Smaghi. Che “si dimetterà” dal board della Bce, d’accordo, ma che ha reso molto chiaro che vuole in cambio un ruolo all’altezza delle aspettative gisti dell’unico intervento mai fatto dalla Bce per frenare il superdollaro di allora. Sia che la calma non vada confusa con la pigrizia; sia che la passione europeista sua stata tale da farlo lavorare fuori dagli orari di ufficio a scapito anche i golf e concerti; all’opposto della silenziosa sfinge Grulli Saccomanni ha invece spiegato compiutamente la propria visione e il proprio operare in un libro pubblicato nel 2002 dal Mulino. Titolo: Tigri globali, domatori nazionali. Il difficile rapporto tra finanza globale e autorità monetarie nazionali. «Fuori dalla metafora, nel contesto di globalizzazione della finanza, le ‘tigri’ sono gli intermediari che agiscono simultaneamente sui mercati delle obbligazioni, delle azioni e dei cambi di tutto il mondo. I ‘domatori sono i ministeri del tesoro, le banche centrali e le agenzie di regolamentazione dei mercati. Il ‘circo’ è il contesto istituzionale in cui autorità e mercati operano», ha spiegato.

«La natura globale del mercato e la giurisdizione nazionale delle autorità monetarie rendono complessa la dialettica tra tigri e domatori e richiedono il rafforzamento della cooperazione internazionale”. Insomma: le istituzioni devono

promessa di subentrare dopo un poco, e l’imbarazzo di ritrovarsi con un vicedirettore come Ignazio Visco che ha 8 anni più di lui. Un’altra: Grilli alla Banca d’Italia; Bini Smaghi al Tesoro al suo posto; un francese nell’Esecutivo Bce; un tedesco al vertice del Comitato economico e finanziario di Bruxelles. Grilli avrebbe inoltre l’appoggio di Tremonti, che così toglierebbe a Draghi Bankitalia e potrebbe fare sponda con il ministero.

Ma dopo l’introduzione dell’euro e la nascita della Bce la funzione di Bankitalia si è ridotta in pratica a due funzioni sole: vigilare sulle banche e raccontare come va davvero l’economia italiana per suggerire soluzioni. Grave dunque per il Cav se il suo governo si trovasse contro lo sbarramento Bce-Bankitalia; potenzialmente controproducente però anche un potere aggiuntivo al ministro che sta coalizzando contro di sé antipatie per il suo rigorismo. Infatti anche tra Tremonti e il Cav c’è oggi tensione, e l’appoggio di Tremonti per Grilli non è che sia proprio il viatico che avrebbe potuto essere anche solo un mese fa.


politica

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Tra i big si apre subito un dibattito che pare sfuggire al controllo del premier ROMA. Effetto non voluto? Così sembra. Berlusconi incorona Alfano segretario politico: e mentre lo fa, mentre lo ascolta nel suo primo discorso da capo partito, il Cavaliere si accorge che quell’investitura non è un artifizio. E che la formalizzazione della leadership – di una leadership che non sia la sua – apre davvero un nuovo capitolo nella vicenda del Pdl. Così l’elezione del guardasigilli si arricchisce di una carica anche drammatica imprevista. All’auditorium della Conciliazione di Roma si celebra un passaggio di consegne. Più precisamente, si sancisce il primo vero passo indietro di Berlusconi. Visibile e chiaro, appunto, persino oltre le intenzioni del premier. È lui d’altronde a chiedere ai delegati del Consiglio nazionale di procedere per acclamazione. Detto fatto.Tutti in piedi ad applaudire il segretario: Tremonti, tra le primissime file, Frattini, Brunetta, persino Nicole Minetti. Dietro al banco della presidenza oltre al Cavaliere ci sono i triumviri e i due vicepresidenti della Camera Lupi e Leone. Gli applausi sono sinceri. Ce ne saranno altri durante l’intervento di Alfano.

Alfano segretario, fine del partito-azienda Il Consiglio nazionale del Pdl lo elegge per acclamazione, Berlusconi commosso di Errico Novi

Soprattutto quando lui si rivolge a Berlusconi e dice: «Caro presidente, dobbiamo costruire un partito degli onesti». La frase di per sé autorizzerebbe inquietudine,

Dal nuovo capo stoccate alla nomenclatura interna: «Il presidente è un perseguitato, altri no». Napolitano firma il dl rifiuti: «Ma non è risolutivo» perché sottintende che il Pdl non lo sia ancora. Poi l’appena eletto segretario politico precisa: «Tu sei un perseguitato, presidente, lo prova il fatto che fino a 58 anni non hai avuto problemi con la giustizia e che questi sono cominciati solo dopo il tuo ingresso in politica. Tu sei un perseguitato», dunque, ma Alfano aggiunge che «non tutti in questo partito lo sono». E di chi parla? In ogni caso il passaggio di Alfano è impegnativo, pesante. Prelude a un possibile, praticamente immediato conflitto interno sul tema della legalità. Non un inizio leggero. Tanto che di fronte al clima subito complicato lo stesso segretario dev’essersi reso conto che non sarà facile continuare a fare il guardasigilli. «Scenderò dagli aerei di Stato per mettermi sui treni e andare in girio per l’Italia», dice per chiarire che ovviamente da via Arenula andrà via. Ma non subito, appunto: «Non prima di aver completato il codice antimafia». Proposito lodevole. Se non fosse

che il clima incandescente creato dalle sue parole potrebbe impedirgli persino di dividersi tra via dell’Umiltà e via Arenula per i pochi giorni che restano.

Altre stoccate. «Il nostro dev’essere un partito del merito, fondato innanzitutto su dosi massicce di partecipazione popolare. A basso costo, direi quasi gratis. E per questo il nostro non può essere il partito delle tessere: chi ha davvero il consenso, chi ha i voti, vince». Anche qui è difficile non leggere un preavviso al partito-apparato. Cioè proprio a quel corpaccione ordinatamente disposto dietro i coordinatori nazionali. Ecco un altro fronte potenziale di scontro. Soprattutto, ecco come emerge con chiarezza che l’istituzionalizzazione di una leadership fatalmente infrange lo schema osservato finora dal berlusconismo. Non esiste più il leader carismatico dietro il quale si consumano pure faide sanguinose, ma sempre nell’ombra, sempre al riparo dai riflettori. Con una segrete-

ria formalmente eletta si formalizzano, si istituzionalizzano anche i conflitti politici.

È inevitabile. Tanto è vero che almeno tre grossi calibri come Alemanno, Cicchitto e Formigoni chiedono congressi e primarie. Il sindaco di Roma in particolare dice di volersi ricandidare sindaco di Roma solo a patto di passare egli stesso al vaglio delle primarie. Il governatore lombardo spiega che i militanti non ne possono più di sentirsi promettere partecipazione alla scelta dei candidati e di essere sistematicamente ingannati. «Anche per questo si sono astenuti». La nomina di Alfano apre il vaso di Pandora delle tensioni interne, dà la stura a contrapposizioni diluite finora negli arabeschi del partito padronale. Berlusconi se ne rende conto. Chissà se davvero aveva previsto tutto. La sensazione è che parte dell’effetto prodotto sia indesiderato. Peraltro, il Cavaliere si fionda immediatamente a Palazzo Grazioli subito dopo la fine dei lavori dell’audito-

rium. E subito tiene a rapporto Alfano, per ben due ore: quasi a voler rimarcare che sì, l’investitura si è celebrata, ma il capo resta lui.

Tra i due ci sono anche questioni pratiche in sospeso. I rapporti con la Lega, tanto per cominciare, complicati dal no padano sui rifiuti. Nel tardo pomeriggio Napolitano firma il decreto ma lo definisce «inadeguato» e «non risolutivo». Dossier impegnativo. Come gli ultimi atti, per Alfano, da ministro: il codice antimafia e qualche ritocco alla macchina dei

tribunali, ma anche la “grande, epocale” riforma della giustizia che è tra i rimpianti del guardasigilli uscente. Prima di lasciare il palco al segretario, non a caso, il premier ribadisce che su quel riassetto dell’ordinamento giudiziario «non c’è nessun passo indietro» e che anzi si metterà subito mano anche alle intercettazioni. Di fatto, il piano di lavoro per il nuovo guardasigilli. Chiunque subentrerà a via Arenula, lo farà con i compiti già ben assegnati. Da questo punto di vista è ovvio che la leadership del presidente del Consiglio resti perfettamente integra. Ma il governo è una cosa, gli equilibri di partito sono un’altra. Certo, ci sono questioni di “politica estera”, per il Pdl, sulle quali l’ultima parola resterà comunque a Berlusconi. Tra queste, i rapporti con l’opposizione. Alfano non manca tra l’altro di rivolgersi ai moderati quando immagina una «grande costituente popolare», da realizzare innanzitutto con «gli amici del centro» in vista di un Ppe italiano. Da Casini arriva l’augurio di riuscire a rasserenare i rapporti tra maggioranza e opposizione.

In uno dei passaggi più applauditi del suo intervento, il neosegretario si rivolge ancora a Berlusconi e dice: «Non c’è bisogno di lasciti o eredità, perché il candidato premier nel 2013 sarai tu». Precisazione che rassicura. Però lo stesso Berlusconi si mostra talmente commosso, alla fine dei lavori, quando risale sul palco per riabbracciare ancora Alfano, che l’impressione è un’altra: e cioè che lui stesso viva questo passaggio come un primo passo d’addio. Davanti alla platea ancora plaudente si rivolge al pupillo e gli chiede di «convocare questo Consiglio nazionale più spesso d’ora in poi. Almeno una volta ogni tre mesi». Richiesta che il premier giustifica anche con una ragione affettiva: «Così potremo starci più vicini». Intenerisce, quasi. Il velo di malinconia che gli fascia l’espressione lo vede bene, chi ricorda com’era il Berlusconi di qualche anno fa. Quando nel suo intervento Formigoni dice al Cavaliere «hai avuto un’idea geniale, con la nomina di Angelino a segretario», lui, Berlusconi, resta muto. Labbra serrate, pare voler dire «come no, guarda in che situazione mi sono messo». La politica istituzionalizzata lo esclude. Silvio sembra capirlo mente tutto si consuma in diretta. Perciò alla fine trattiene le lacrime a stento.


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INSERTO DI ARTI E CULTURA DEL SABATO

MITOLOGIE DEL POSTMODERNO “Transformers” atto terzo

di Pietro Salvatori itler va di moda nel carrozzone del cinema. È un abito giano su queste pagine, vi starete chiedendo che ci azzecca il blockbuster delche in tanti pensano di poter indossare con disinvoltura, salvo poi Soddisfa l’estate (che Harry Potter ci perdoni) con uno dei leader più sanguinari rivelarsi immancabilmente unfit per potersi riempire la bocdella storia contemporanea. Il trait d’union ha il viso angelico e le sia i neocon ca con sciocchezze a sfondo storico così dense e impeforme mozzafiato di Megan Fox. La modella considerata la dongnative. È successo di recente all’eclettico regista danese na più sexy del mondo, che deve la propria fama mondiale che gli obamiani la saga ai primi due capitoli della saga di Transformers - oltre Lars von Trier. Presentando non più di due mesi fa a di Michael Bay. Un fenomeno Cannes il suo ultimo Melancholia, si lasciò andache alla benevolenza di madre natura - ha riladi costume che vede questa volta in campo sciato alla fine del 2009 una divertita intervire all’ennesima provocazione di una carriera sta al magazine britannico Wonderland. Nella costruita anche sulla battuta a effetto: «Capigli Autobot contro i Decepticon. 157 minuti sco Hitler, mi fa un po’ di simpatia». E non ci fu verquale, oltre a mostrare generosamente centimetri in 3d di azione con venature so di precisare, puntualizzare e contestualizzare. I critiquadrati del proprio corpo sugli scatti a corredo, sosteda sit-com. Il costo? coni che gli avevano fatto passare lisce zozzerie come Idioti neva che «è un incubo lavorare con lui, ma al di fuori dal set o Antichrist hanno chiesto, e ottenuto, la sua testa, cacciandolo la sua personalità mi diverte in qualche modo perché è irrimedia195 milioni di (sic!) in tutta fretta dalla Croisette. bilmente goffo. Non ha alcuna capacità di relazioni sociali e osservardollari lo fa tenerezza». Ora, se unite quel che abbiamo detto fin qui al titolo e alle foto che campeg-

H

Parola chiave Seno di Franco Ricordi Ex Wave, due anime in un sound di Stefano Bianchi

PERSONAGGI

Prima di Keynes fu Cavour di Giancarlo Galli

Cronache dalla Via della Plata di Sergio Valzania Io, noi e gli altri secondo Todorov di Pier Mario Fasanotti

Incursioni alla corte di Morgante di Marco Vallora


mitologie del

pagina 12 • 2 luglio 2011

Il soggetto della frase era Michael Bay, il quale, incidentalmente, è proprio il regista della trilogia, del quale sintetizzava la personalità con un sobrio: «Sul set vuole essere come Hitler e ci riesce». Mentre il 99,9% dei lettori della rivista non si era nemmeno accorto che a far da contorno alle immagini ci fossero parole di senso compiuto, la cosa non sfuggì al produttore del film, un tale Steven Spielberg, uno che, a parte per pellicole come Schindler’s list e Munich, verrà ricordato dai posteri per aver fondato la Survivors of the Shoah Visual History Foundation, fondazione che ha lo scopo di raccogliere e catalogare l’immenso materiale memorialistico prodotto spontaneamente dai sopravvissuti dell’Olocausto. Spielberg alzò la cornetta, chiamò Bay, che già di suo non doveva aver preso benissimo la cosa, e gli disse di silurare in tronco il bel faccino di Megan. La quale provò

di Transformers non si gioca sul piano della lettura superficiale di una narrazione che, nel suo sviluppo sulla scena, risulta elementare al limite del semplicistico. Transformers non può non continuare ad attingere al proprio mito postmoderno, legato ai cartoni animati e all’infinità di giocattoli che hanno spopolato nel cuore di ogni bambino (ma le femminucce non si sentano escluse) per almeno un decennio. Si porta così dietro ancora una volta il difficile compito di non deludere i fans della saga, da una parte, ma al contempo di risultare un’opera appetibile anche a chi in quegli anni si dedicava ad altro (o magari non c’era proprio). E prova ancora una volta a giocare la propria partita nel mondo del cinema investendo nel tentativo di provare a innovare l’intrattenimento e a scavare in profondità nelle tematiche del genere. Fino a qualche lustro fa, probabilmente, il didascalismo di qualche nemico dallo spiccato accento russo avrebbe fatto inevitabilmente irruzione tra gli ingranaggi delle enormi macchine fantascientifiche. Oggi, invece, Michael Bay mostra la consapevolezza di

postmoderno

Un autore in grande spolvero, dunque, che è riuscito per la terza volta a mescolare sapientemente il tipo di cinema con il quale è ferrato - quello dei soldati che avanzano al crepuscolo, in controluce il disco del sole tramontante, quello delle pallottole che fischiano ancor più delle orecchie del pubblico, inondate da una colonna sonora invasiva - con un modello di cinema che potesse avvicinare qualsiasi tipo di pubblico al film. C’è dunque anche un lato più puramente «commediale», con venature addirittura da sit-com, nel quale fa da mattatore Shia LaBeuf, vero protagonista della scena, coadiuvato da due mostri sacri del genere, i due John, Turturro e Malkovich. Sfruttando appieno il budget a disposizione - 195 milioni di dollari, che, sommati ai primi due capitoli, portano l’investimento della Paramount a superare abbondantemente il mezzo miliardo di verdoni - una solidissima colonna sonora costruita da

Shia LaBeuf e Rosie Alice HuntingtonWhiteley protagonisti di “Transformer 3”. Il regista Michael Bay e una scena del film

inizialmente a schernirsi davanti ai propri fans delusi dicendo di volersi dedicare a nuove sfide professionali, salvo poi essere smentita dallo stesso Bay, che ha svelato qualche mese fa tutta la storia in un’intervista al tabloid Daily Mail, per poi minimizzare alla presentazione del film con parole al miele: «Era necessario ravvivare l’interesse amoroso del protagonista, solo per questo abbiamo dovuto cambiare». Cestinata la bella Megan, i fan si potranno consolare con l’affascinante - ma dal nome che rasenta lo scioglilingua - Rosie Alice Huntington-Whiteley, ventiquattrenne britannica, discendente di un noto politico conservatore del primo dopoguerra, Sir Herbert Huntington-Whiteley, nonché, da parte di madre, di un’influente famiglia di ebrei polacchi, selezionata da Bay che già l’aveva diretta in una pubblicità per il brand di lingerie Victoria’s Secrets. Nota, finora, per l’abbagliante bellezza sfoggiata nel calendario Pirelli e per poco altro, toccherà a Rosie portare quel tocco di garbo femminile in una trama che accelera forte sul versante dell’azione adrenalinica.

Si inizia nel 1969. Durante la missione sulla luna, il governo degli Stati Uniti conduce una missione segreta sul lato oscuro, che mira a reperire informazioni su un’astronave che ha impattato sul satellite terrestre qualche tempo prima. L’eccezionale rinvenimento di un robot alieno di dimensioni gigantesche viene, ovviamente, tenuto nascosto. Incauta operazione, dato che quarant’anni dopo gli Autobot, i giganteschi robottoni che giocano nel campo dei buoni, si ritroveranno impegnati a combattere contro i Decepticon, i loro omologhi cattivissimi, aiutati questa volta da Shockwave, un temibilissimo avversario alla guida del pianeta Cybertron. Al fianco degli Autobot ancora una volta Sam Witwicky, un ragazzo straordinario interpretato per la terza volta dal pupillo della scuderia Speilberg, Shia Lebeuf. Fine della storia, per una sinossi che esaurisce in poche righe una trama in cui giocano forte i buoni stereotipi del genere. A riempire i 157 minuti eh già, preparatevi a una permanenza in sala più lunga di quanto non siate normalmente abituati a fare - combattimenti, inseguimenti, esplosioni e una dose abbondante di sana ironia. La forza anno IV - numero 25 - pagina II

avere di fronte un mondo più complesso, una realtà che non è riducibile a una descrizione manichea delle forze in campo. Anche se, quale (involontario?) omaggio a un nemico che non c’è più ma forse c’è ancora, il film è stato presentato al Pushkinsky Theater di Mosca in anteprima assoluta, in occasione del trentatreesimo Moscow International Film Festival, importante evento «in un mercato emergente e sempre più importante» come ha affermato sornione Bay. Ma pur dovendo attenersi strettamente, cosa che gli riesce benissimo tra l’altro, ai canoni di un genere diventato ormai un classico del cinema di tutti i tempi, il regista prova a scavare in profondità, sviluppando pieghe impercettibilmente determinanti nei rapporti tra i propri eroi, instillando anche negli antagonisti quel briciolo di umanità che permette al pubblico più attento di alzarsi a popcorn finiti con un mucchio di certezze, ma anche con qualche domanda.

Linkin Park, Paramore, My Chemical Romance e Goo Goo Dolls e, naturalmente, la spettacolarità degli effetti speciali messa a disposizione dagli studios. Ovviamente, per il ripetersi di personaggi e situazioni, Transformers 3 non è un’opera priva di difetti. Alterna così gustosissimi momenti che filano via rapidi con sommo piacere, sorprendenti per come ancora oggi la costruzione di un cinema d’intrattenimento possa essere affatto banale e scontata, con ripetizioni, estremizzazioni e parodie di situazioni di per sé già perfettamente espresse e quasi esclusivamente risolte in altri frangenti della pellicola. Pecche imputabili al fatto che Bay è in qualche modo costretto a risolvere anche narrativamente i pochi nodi che vengono disseminati lungo le due ore e mezza di spettacolo, perdendo così la totale libertà di muoversi a proprio piacimento tra le pieghe della trama.

Al netto di qualche ingranaggio che poteva essere meglio rodato, il film sfrutta in modo divertente e utile la nuova tecnologia del 3d, troppo spesso ammennicolo utile a farsi venire qualche mal di testa di troppo: «Steven Spielberg mi ha convinto a convertirmi al tridimensionale - ha racconta Bay - e così, per farlo al meglio, ho accettato i consigli e l’aiuto di James Cameron: mi ha prestato la sua troupe di Avatar». Tecnologia o meno, la saga di Transformers si è ormai accreditata come un vero e proprio fenomeno di costume, osannata e ricoperta di denaro sia dall’America neocon di Bush che da quella in preda all’obamamania. Un segnale importante per una classe politica che si appresta a rinnovarsi l’anno prossimo, per un presidente in crisi di identità e per un partito repubblicano che fatica a sfornare un avversario che sia anche competitivo, oltre che bizzarro o estremamente competente ma privo di appeal come quelli che sinora si contendono la leadership. L’uomo che avrà saputo intercettare gli umori, la passione, la voglia di evasione da una realtà in cui ci si ritrova spesso stretti, così come è riuscito a fare Michael Bay dando vita a quattro giocattoli, potrà vivere di rendita almeno per un paio di lustri. Come farà la Paramount, per intenderci.


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parola chiave

2 luglio 2011 • pagina 13

SENO a parola seno possiede almeno tre significati: il riferimento al petto femminile, poi l’origine dell’accoglienza vitale anche in senso materno e infine il termine algebrico che tutti abbiamo studiato, chi meglio chi peggio, al liceo. Escludendo quest’ultimo dalla nostra disamina, essendo un concetto specialistico, vogliamo invece concentrarci sui primi due, e ovviamente sulla relazione che può intercorrere fra il seno inteso come parte del corpo femminile e il seno come apertura e accoglienza da parte di chi è più grande di noi, ovvero della madre natura, o madre terra se si vuole, ma anche della bella morte, come nella celebre poesia di Leopardi Amore e Morte: «Null’altro in alcun tempo/ sperar se non te sola;/ Solo aspettar sereno/ Quel dì ch’io pieghi addormentato il volto/ Nel tuo virgineo seno». La «bellissima fanciulla» di Leopardi, la morte, ci attende tutti nel suo «virgineo seno», pertanto dobbiamo attendere, secondo Leopardi, solo quella. Ma lo stesso poeta non manca di intendere il seno anche nel suo significato di attributo femminile, per il quale molti ancora oggi ritengono come esso rimanga l’aspetto più attraente in una donna; così nella Seconda sepolcrale il poeta si fa esplicito: «E il seno onde la gente/ Visibilmente di pallor si tinse», per indicare il culmine dell’esuberanza e anche della provocazione femminile.

L

È evidente la posizione maschile, che riguarda sia i poeti e autori che citeremo, e naturalmente anche il sesso maschile di chi scrive. È verosimile che per le donne potrà sembrare diverso. Tuttavia è indiscutibile il riferimento e l’utilizzo della parola «seno» in entrambi i casi, quindi il suo rimando eminentemente femminile: la Natura, il grande problema leopardiano che è «madre di parto e di voler matrigna», possiede evidentemente un «seno ingannevole»: la Natura è donna e, pertanto, ingannatrice. Nulla di questo genere è mai esistito nell’immaginario maschile: né si è mai intravisto, da parte della cultura femminile, qualcosa che corrisponda all’attrattiva del seno, qualcosa che sia mai stata decantata analogamente; forse si potrebbe pensare alle spalle maschili, le «spalle larghe» che si immaginano come prerogativa del grande atleta, dell’uomo forte (o del Dio Marte, cui peraltro può corrispondere il seno di Venere, sempre ritratto nella sua formosità), e che poi viene acquisito anche come metafora di altrettanto forte credibilità anche in ambito professionale (quell’uomo «ha le spalle larghe», si dice, per intendere che è ben preparato e ha esperienza nel suo settore). E tuttavia anche le «spalle larghe» dei Bronzi di Riace o di altre rappresentazioni maschili non hanno dato vita a un senso così grande di attrazione e di coinvolgimento come quelle del seno. Il seno femminile va certamente al di là di ogni altro immaginario erotico, e da sempre costituisce l’attrattiva più vistosa, in ogni epoca.Tanto che in una pubblicità di qualche tempo fa l’immagine

È l’attrattiva più vistosa dell’immaginario erotico maschile, ma anche fonte del nostro essere in vita. Simbolo del nutrimento che riporta alla terra verso cui tutto torna

Madre Natura andata e ritorno di Franco Ricordi

La società dell’immagine, dietro cui si nasconde il nuovo totalitarismo che stentiamo a riconoscere, l’ha scelto come icona. Occorre perciò, nell’ormai standardizzato e incessante bombardamento quotidiano a cui siamo sottoposti, riconoscere i limiti del suo potere imagologico di un seno nudo compariva senza alcuna giustificazione; poi sotto c’era scritto: «Perché le tette di fuori? Semplice, se non ci fossero state non avreste degnato di uno sguardo la nostra réclame!». E così è ormai configurata l’estroversione nel senso della pubblicità in tutto il mondo, con tutto ciò che comporta anche per il conseguente immaginario cinematografico, televisivo e in certi casi, ahimè, anche teatrale e operistico: oggi anche il grande Soprano, senza le tette di fuori, stenta più che mai ad accedere

all’onore della cronaca. Se si lascia ritrarre con un bel decolté, raggiunge possibilità assai maggiori di farsi immortalare sulle pagine dei giornali. Tanto più nella nostra epoca sembra sempre più frequente l’agguato della peggiore malattia, il tumore al seno: e accade spesso che all’operazione di salvataggio venga associata quella del rifacimento del seno stesso, una pratica che ha avuto inizi negli anni Sessanta del secolo scorso, e che ormai sta diventando sempre più una routine; e certo il se-

no femminile del XXI secolo risulta assai diverso da quello dei secoli precedenti, anch’esso più che mai vistosa conseguenza di questo spettacolo dell’apparire che viviamo e sempre più saremo costretti a vivere. Certo, il seno di una volta, quando era bello, era tutt’altra cosa, e in questo senso si può notare una differenza abissale fra le donne che mostravano il seno nei film degli anni Sessanta e Settanta e quelle di oggi: erano dei seni completamente diversi, forse meno appariscenti in certi casi, ma sicuramente più veri e più autentici. Oggi il seno femminile sembra divenuto quasi l’espressione più vistosa della suddetta società dell’immagine, quasi a doversi definire come una «società del seno rifatto». E se si pensa a quante 18enni chiedano come regalo della maggiore età proprio quello di rifarsi il seno, allora si comprenderà bene come ormai il nichilismo spettacolare si sia tradotto in tutto e per tutto nel nuovo totalitarismo che evidentemente stentiamo a riconoscere. Questo non significa naturalmente che siamo diventati bacchettoni: la visione di due belle tette non ha mai fatto male a nessuno, beninteso! Tutto sta nel capire il limite del potere imagologico che possa nascondersi dietro a esso, nell’ormai incessante e standardizzato bombardamento quotidiano che siamo costretti a subire.

Per ciò che riguarda il «seno materno» uno stimolo interpretativo ulteriore proviene sicuramente anche da Freud: secondo il padre della psicoanalisi l’allattamento al seno del neonato è la fonte anche orale del piacere che poi verrà anche dal bacio, quel nutrimento dolce e insaziabile. In questo caso, si potrebbe dire, il seno diviene veramente il tramite che, dal piacere sessuale, si fa esigenza e necessità vitale. Così il seno potrebbe essere inteso, per tutti uomini e donne, come la fonte principale del nostro essere in vita, il nutrimento. Un nutrimento analogo a quello che proviene dalla terra, la grande madre verso cui tutto ritorna, e che alla fine tutto fruttifica. Ma se la terra è la culla della nostra morte, ecco che il seno potrebbe essere inteso davvero, leopardianamente, come il simbolo di Amore e Morte, della relazione fra le due «cose più belle» che ha il mondo. Ecco dunque in ultima analisi la possibilità più autentica di questa nostra interpretazione: il seno come desiderio di amore ma anche di morte, quel sentimento «languido e stanco» che si sente «Quando novellamente/ Nasce nel cor profondo/ Un amoroso affetto», cui corrisponde «Un desiderio di morir» che, non si sa il perché, risulta «il primo effetto» del vero e grande innamoramento. Ecco, il seno è proprio quella dolce culla, quel luogo del sonno profondo, in cui tutti potremo addormentarci. E finalmente saremo sollevati da tutti questi nostri «terreni affanni». La vita è una corsa-verso-il-seno, il seno della terra (che comprende anche gli altri elementi, l’acqua, l’aria e il fuoco, ma che si stempera nella terra), verso quel «profondo seno» che tutti ci accoglierà.


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Pop

musica

INIZIA DA VASCO il downshifting del rock di Bruno Giurato

di Stefano Bianchi sservate (anche l’occhio vuole la sua parte) la copertina di questo disco che frulla in collage Pop Art e fumetto. Fra i volti pop & rockettari effigiati, riconoscerete senz’altro quelli di Freddie Mercury dei Queen, Robert Smith (Cure), Keith Flint (Prodigy) e Thom Yorke (Radiohead). Se poi aguzzate la vista, benché seminascosti non vi potranno sfuggire David Bowie e Marilyn Manson. E i due intrusi? Cosa ci azzeccano l’ottocentesco Robert Schumann e il pianista Arturo Benedetti Michelangeli? Così è, se vi pare, pop elettronico. Ma anche musica classica. Fusi assieme. Ecco il segreto: come ai bei tempi di Franco Battiato e degli Art Of Noise. Ma chi sono questi nuovi, audaci bohemiennes del suono cameristico/digitale? Gli Ex Wave, contrazione di Experimental Wave. Vedete? È scritto proprio lì, sul barattolo che scimmiotta la Campbell’s Soup di Andy Warhol ed è intitolato Plagiarism come il disco degli Sparks che rifacevano/plagiavano il loro già bislacco repertorio. Inglesi? Troppo scontato, non farebbe notizia e probabilmente non sarei qui a parlarvene. Gli Ex Wave sono due abruzzesi: Luca D’Alberto e Lorenzo Materazzo. Virtuoso della viola il primo, ma anche di violino, chitarre e violectra, nonché fine sperimentatore; pianista il secondo, a un soffio da Chopin, eppur propenso al battito elettronico, hanno debuttato nel 2009 con Apri gli occhi mettendo a frutto i trascorsi musicali al Teatro alla Scala di Milano, al Mozarteum di Salisburgo e alla Royal Academy di Londra. Accademici? Sì, ma anche abili dialogatori con la modernità. Le prove? Schiaccianti: hanno fatto da «spalla» concertistica ai Deep Purple, composto per Alan Wilder dei Depeche Mode alcuni brani per archi e pianoforte, collaborato con la cantautrice americana Sara Lov, i francesi The Electronic Con-

ora di rassegnarsi a un classico downshifting del rock in tutte le sue forme. Riflettiamo un attimo sui dati. Vasco Rossi suona a Milano e il concerto fa flop, come ha segnalato attirandosi una marea di critiche Gea Scancarello su Lettera43.it. Il buono (e furbo) Vasco pochi giorni dopo annuncia che si dimette da rockstar, che farà ancora concerti ma coi megatour (e probabilmente coi megapalchi), ha chiuso. Poi ci sono gli U2, che arrivano a Glastonsbury e vengono accolti a pernacchie dai fan. Diciamola tutta, non si può dar torto al pubblico nervoso. Un festival rock ormai è un’operazione di modernariato. Musica supposta giovane ascoltata da appassionati sempre più attempati (come del resto i protagonisti). Il target giovanile del rock è ormai un elemento teatrale che non funziona, anche perché diciamolo francamente, i megafestival costano e costringono il pubblico a soffrire: fango o polvere, affollamento, toilette che puzzano a chilometri di distanza, mancano solo le cimici, ma non è detto... E l’ultimo dato è che i festival musicali, anche in Italia, sono in calo di pubblico. Il che corrisponde alle leggi dell’economia: chi paga molto per uno spettacolo vuole un servizio confortevole, che non c’è, vuole musica fatta bene, che nel calderone del trecentomila watt in uno stadio si perde. Il megaconcerto è in crisi dunque. E resta tutto il tempo, per chi ha smaltito la favoletta del rock come diceria di trasgressione (da che? Ormai i veri trasgressivi sono i politici con le donne le droghe e il resto) per sognare un perfetto downshifting. Palchi piccoli, poco pubblico, ascolto tra i musicisti. Performance. Come nella musica classica. Anche musicalmente sarebbe tutto grasso che cola.

È

O

Jazz

zapping

Ex Wave, due anime

in un sound

spiracy e il pianista (prediletto da David Bowie) Mike Garson, orchestrato musiche per rassegne d’arte alla Quadriennale di Roma e al MoMA di NewYork. L’apprezzamento più grande? D’Alberto e Materazzo se lo sono guadagnati da George Michael, che dopo averli invitati a suonare al Palazzo Reale di Monaco di Baviera per un evento organizzato dalla Goss-Michael Foundation creata da lui e dal suo boyfriend Kenny Goss, ha dichiarato: «La musica degli Ex Wave è assolutamente nuova e fantastica. Avvolge e cattura dall’alto». L’ex Wham! dixit (con qualche volo pindarico), e io condivido sì e no: nel senso che la loro musica proprio nuova non è, ma senz’altro curiosa e mutevole. In certi pezzi, a vincere è la matrice classica: nelle avvolgenti melodie di Rome Is Pink, in una Nice Dream che si snoda fra

Erik Satie (pianoforte) e Ryuichi Sakamoto (archi). In altri, a imporsi è l’elettronica nuda e cruda: nel technopop (fra Blancmange e Cabaret Voltaire) di Glenn Gould Is Alive; nei cori campionati e nelle voci filtrate di Madonna Loves Teramo But Not The Pop(e); nella rivisitazione (giocata orecchiando i Depeche Mode) di My Body Is A Cage degli Arcade Fire e in quella depistante, qua e là al sapor mediorientale di Poker Face (Lady Gaga). E quando l’una e l’altra «anima» s’incontrano, ecco il guizzo cinematografico di una Wonderland cantata da AstridYoung, sorella di Neil; The Dope e Supernova che vedono duellare piano, violino e sintetizzatore all’insegna del cyber-reggae e della techno; Ex.5, che è come riascoltare il Michel Nyman di Lezioni di piano, ma poi c’è una distorsione elettronica che ti mette kappaò. Geniali. Ex Wave, Plagiarism, Bollettino/Sony Music, 12,99 euro

Solo Ascona celebra Mahalia cent’anni dopo egli ultimi giorni di giugno spostarsi lungo la Penisola per ascoltare ciò che offrono i primi festival jazz estivi, è sempre interessante. Prima di parlare del jazz di casa nostra è opportuno dare uno sguardo oltre confine. Ascona è da anni l’unica città europea che dedica il suo festival al jazz classico. Un appuntamento imperdibile per tutti coloro che amano le sonorità di una musica che riunisce sulla sponda svizzera del Lago Maggiore, appassionati che provengono da mezza Europa. Dal 22 giugno, con un primo concerto oltre confine, a Stresa, e un ultimo il 4 luglio, sempre in Italia, a Canobbio, il festival, che terminerà ufficialmente domani sera ha presentato un programma davvero allettante. Al concerto di chiusura sarà presente il sassofonista Big Jay Neely, sassofonista, oggi ottantatreenne, che sarà prota-

N

di Adriano Mazzoletti gonista, proprio ad Ascona, di una film che una casa produttrice americana sta realizzando sulla vita di questo musicista che è stato uno dei maggiori rappresentanti del rhythm’n’ blues. La stessa sera molto attesi Jon Faddis, forse l’ultimo delle grandi trombe post bop, e l’eccellente blues-singer Dana Gillespie. Durante il festival sono stati ascoltati altre due cantanti, Lilian Boutté di New Orleans e Alice Mc Clarity in un omaggio a Mahalia Jackson, l’indimenticabile cantante gospel, nel centenario della nascita. Chi, fra gli oltre duecento diret-

tori artistici, che in Italia organizzano gli oltre duecento festival, se ne è ricordato? La sera del 25 è stato attribuito al pianista tedesco Paul Kuhn, l’Ascona Jazz Award 2011. Kuhn, eccellente solista dallo stile personale, ha legato il suo nome alla famosa Sender Freies Berlin Big Band, una delle grandi orchestre radiofoniche, che ha diretto per oltre dodici anni. Un festival, quello di Ascona, con un preciso indirizzo, che spesso manca, ahimè, in molte manifestazioni organizzate nel nostro Paese. Udin Jazz, il festival ormai giunto alla XXI° edizione nella splendida

città friulana, ha presentato fra il 16 e 17 giugno eccellenti musicisti locali fra cui Francesco Bearzatti, ormai icona del jazz italiano e il trio del pianista Riccardo Morpurgo, ma anche, chissà per quale ragione, musicisti che con il jazz hanno poco o nulla a che vedere. Chi invece continua con grande capacità e rigore a organizzare il suo festival è Carlo Diguliomaria, direttore artistico dell’Alfina Blues Festival che il 23 e 24 luglio presenterà una vera celebrità del blues elettrico di Chicago, il chitarrista Lurrie Bell, figlio di Casey Bell, armonicista, legato a grandi bluesmen come Sunnysland Slim e Big Walter Hurton. La sera seguente, sarà il blues del Delta del Mississippi ad animare Torre Alfina, con il chitarrista Aaron Moreland e l’armonicista Dustin Arbuckle cresciuti all’ombra di Muddy Waters. Ma su questa manifestazione torneremo nelle prossime settimane.


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on si è ancora spento l’eco della ricomparsa (dopo il restauro) d’un’opera significativissima come il Morgante del Bronzino, nel cuore stesso della sua indimenticabile mostra, che a Firenze, nella sede del Museo Alinari, si ripresenta una legione di piccoli nani moltiplicati, che il fotografo torinese (1979) ma di stanza a Parigi, Nicola Lo Calzo, ha convocato, in una singolarissima parata, che porta appunto il nome di quell’eroe letterario. Perché nell’Italia delle corti, da Mantegna a Giambologna, a Faustino Bocchi, l’uomo dalle piccole dimensioni si confonde spesso con il giullare, con il saltimbanco, con il fool di tradizione inglese. Che è l’unico a possedere il paradossale lascia-passare di poter dire al suo Signore la verità scomoda, sfrontata. Personaggio vero, ma anche letterario, attraverso il poema del Pulci, che esalta questo nano spaccone che pare avere le provocatorie dimensioni, e non soltanto epiche, d’un gigante, il Morgante ritratto da Bronzino in due tele separate, di petto o di spalle, fu una personalità storica, celebre e influente della corte medicea. Ma per il pittore manierista diventa quasi un sapido pretesto per beccare e beffare le interminabili discussioni accademiche intorno al «primato dell’arte», se più efficace la scultura invece della pittura o viceversa. La fotografia di Lo Calzo, che penetra nel difficile continente africano, ancora animista, notoriamente restio a farsi rubare l’anima dal’obiettivo fotografico, pare preoccuparsi soprattutto di raccontare il «davanti» e il dentro, di straordinari personaggi segnati dal nanismo, in una società ancora retrograda e superstiziosa, che vede nel diverso naturale, addirittura anatomico, un frutto allarmante, da demonizzare e isolare. Questi, che sono a loro modo dei nani «fortunati», e lo diciamo con amara ironia, e che hanno diritto all’immagine,

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Incursioni

È la stessa lezione dei grandi fotografi africani, da Seytou Keita a Sidibé, a parlare: dove ogni singolo si lascia immortalare, affiancato però dai suoi feticci moderni, la moto, la radio, l’accendino. Qui la povertà di relazione, o di paradossale ricchezza, legata al solo corpo deforme, che diventa un’insperata risorsa (se si è attori, saltimbanchi, presentatori televisivi) è quasi assoluta, radicale, nuda. Anche se la lezione barthesiana del punctum ci permette d’isolare minimi dettagli significativi: l’orgoglio «cittadino» delle scarpe o del completo della festa, per lo più, la festa delle misere borse della spesa, appese a un attaccapanni inprovvisato, un frammento vanitoso di specchio, che occhieggia nel fondo, una povera modanatura da catapechia, che funge da orgoglioso arco di vanità. La piccola che abbondana i tacchi per salire sul divano. Alla fine, in questa trasudante sensualità dei corpi (basterebbe quel tracannare cinematografico d’una birra, nel piccolo bar in scala di Serge, commerciante, ove tutto è ridotto a misura di nano; o nel crudele doppio ritratto di Prosper, con il suo normalissimo fratello adescante, a contatto di pelle) non ti rendi neanche più conto che si tratta di nani, di vittime. Ma di straordinari interpreti della vita: «ognuno padrone della scena, unico e solo interprete di se stesso».Tutti partecipi d’una stessa società, di personnes de petite taille e non faille, come un crudele errore di stampa vorrebbe farci credere, sottolineando questo destino di colpa, di faglia, di fallimento. Perché non solo di colpiti di nanismo acondroplastico si tratta (dai tratti segnati di tragica maschera), ma anche di lindi lillipuziani che non paiono altro che ammonitrici miniature del vero, fermate nel tempo. Icone d’una spettrale «infanzia immobile», come avrebbe suggerito Bachelard, quarantenni bambini.

alla corte di Morgante

Moda

di Marco Vallora perché vivono nel Cameroun o in Mali, unici Stati che prevedono strutture protettive e famigliari per questi «figli del peccato», segnati a vita e nel corpo, hanno una loro esistenza, una loro professione (per lo più circense o legata allo spettacolo; ma sono anche giuristi e fortunamente studenti), un loro «spazio» protettivo, che la fotografia esalta con pudore e intelligenza. Lo Calzo, che non può nascondere d’esser stato particolarmente influenzato dalla lezione di Diane Arbus, cita significativamente la sua «madrina»: «Una fotografia è un segreto che parla di un segreto. Più essa racconta, meno è pos-

sibile conoscere». È pudica, dunque, ellittica e rispettosa, l’immersione complice di Lo Calzo, in questi spazi interiori, segreti, difesi con sofferenza, ma simbolici comunque del loro mondo. Come il piccolo monumento espugnato di Kwedi, con gli occhialoni sporpositati da dover essere sostenuti, come un Cristo deposto e le sguscianti scarpe, di finto coccodrillo, ben più grandi delle sue piccole mani. Il flipper variopinto di Alain, la poltrona tribunizia di Gisèle, giurista impavida che vi affonda come in un trono, il taxi orgoglioso di Lyne, che sembra possedere e possederla, come un carapace naturale.

Nicola Lo Calzo - Morgante, Firenze, Museo Alinari della Fotografia, fino al 30 luglio

Over 42 alla riscossa, è il momento del Curvy Pride li uomini preferiscono le curve, ma le donne? Sono tutte a dieta, con il sogno impossibile di una taglia 38. Ma anni di campagne anti-anoressia, anni di maggiorate curvissime, e abiti che restano appesi nei negozi perché le donne normali «non ci entrano», stanno spostando l’attenzione e il business su quelle che gli stylist chiamavano ciccione, cioè la maggioranza (come insegna Il diavolo veste Prada). Una donna su cinque in Italia supera la taglia 48. Oltre il 38 per cento fatica a entrare nella 44, il che fa un 45 per cento che, per quanto ci provi, non scende sotto la 46. Come se non bastasse, si calcola che le modelle siano il 9 per cento più magre e il 16 per cento più alte del normale. Conclusione: tra la donna reale e quella che sale in passerella c’è un abisso. Si spiega così la «rivoluzionaria» cover di Vogue Italia, «Belle vere», con tre stramodelle bellissime (Tara Lynn, Candice Huffine e Robyn Lawley), fotografate in lingerie sexy da

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di Roselina Salemi Steven Meisel davanti a una tavola apparecchiata con tanto di pastasciutta dall’altra parte del mondo, a Los Angeles. Come dire: le donne morbide sono fantastiche, la moda è per tutte, anche per le non-magre, e tutte devono sentirsi a proprio agio. Contemporaneamente a Vogue è uscito il libro di Daniela Fedi e Lucia Serlenga, giornaliste di moda (Curvy, Il lato glamour delle rotondità, Mondadori, 196 pagine, 17,00 euro) che potrebbe essere una specie di manifesto dell’orgoglio femminile di taglia extra. Sul nome curvy l’accordo è totale, ma quanto imbarazzo c’è, di solito, nel linguaggio! Taglie più, taglie morbide, taglie comode o «conformate». Eufemismi per «grasse». Ed è buffo, ma il complimento più grande che si può ricevere a una serata fashion è: «Come stai bene, quanto sei dimagrita!», mentre le nostre nonne consideravano la perdita di peso un sintomo preoccupante

se non di malattia, sicuramente di infelicità. Rivoluzione o svolta opportunista? Un esercito di curvy sta prendendo il potere o lo ha già preso, a cominciare dalla non proprio giunchiforme Michelle Obama - e ha voglia di vestirsi. Perciò la riconversione, almeno sul piano concettuale, c’è già stata. Piace Christina Hendricks, la rossa sinuosa di Mad Men. Piace Crystal Renn, anoressica a 16 anni che ora, a 25, anche grazie a Steven Meisel, va in copertina con il suo vero corpo, 96 di seno (una quarta), 76 di vita, 106 di fianchi. Piacciono Miriam Bon, Aija Barzdina, Eleonora Finazzer,Valentina Fogliani, Elisa D’Ospina e Marina Ferrari, le sei modelle che hanno lanciato il movimento Curvy can. È sempre piaciuta anche nella versione matronale, dopo la nascita della seconda bimba, l’attualmente dimagritissima Monica Bellucci. E senza le curve non si può spiegare il burlesque. Certo, ci saranno sempre abiti impossibili per le over 42, il sogno deve restare sogno, anche se le donne sembrano affamate di verità, e difficilmente le curvy saranno poco più che un’eccezione in passerella (Crystal Renn che conferma la regola) ma il risultato è politico-fashionista. Le Belle vere escono dal ghetto delle «conformate» e rivendicano il Curvy Pride. Purché, nel frattempo, qualcosa di mettibile arrivi anche nei negozi, altrimenti sono tutte chiacchiere…


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on è la distanza percorsa a dare la misura di un viaggio, quanto il mezzo usato per spostarsi. Basta un giorno di volo per arrivare in Australia, ma ci vogliono cinque settimane per coprire a piedi i 770 chilometri che dividono Merida da Santiago di Compostela. Anche l’uso linguistico ha registrato questa necessità moderna di specificazione relativa alle modalità di spostamento. È invalso l’uso del verbo essere per definire il viaggio nel quale non è data conoscenza di quanto esiste fra il punto di partenza e quello di arrivo. Ormai i fingers agli scali aeroportuali fanno sì che si possa andare da un aeroporto all’altro senza respirare una boccata d’aria fresca. Perciò è giusto chiedere «dove sei stato la settimana scorsa?». E non già «Dove sei andato?», domanda questa che presupporrebbe l’aver percorso in qualche modo una strada, essersi trovato coinvolto in uno spostamento e non solo essersi trovato in luogo anziché in un altro con una frattura temporale la più breve possibile fra i due momenti, prefigurazione del teletrasporto di Star Trek. In verità in Europa sono sempre più numerose le persone che invece di voler raggiungere in fretta una data meta amano andare, tanto da impiegare settimane per arrivare in luoghi nei quali prima di tornare a casa si

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me si era svolta la giornata. Ormai dalla Germania, dalla Francia, dalla Svizzera, dall’Italia, dal Belgio, dall’Olanda, persino dall’Inghilterra e dai Paesi baltici partono sentieri che si intrecciano ma il cui orientamento primario è rivolto a Santiago. Sono ancora pochi i pellegrini che si incamminano alla volta delle altre due mete tradizionali della devozione cristiana, Gerusalemme e Roma. Il luogo sacro del sacrificio di Cristo è lontano e per raggiungerlo a piedi, bisogna attraversare Paesi turbolenti, dove non esistono attrezzature né per viaggiare camminando, né per accogliere i pellegrini. I monaci del Monte Athos raccontano però che ogni anno qualcuno nel suo andare a piedi verso Gerusalemme fa una piccola deviazione, appena poche decine di chilometri, qualche giorno di cammino, per fermarsi da loro. Non sono in molti, si contano sulle dita di una mano, ma ogni anno qualcuno di loro si presenta alle porte dei monasteri. Per quanto riguarda la città di San Pietro, di recente un gruppo di camminatori molto determinati ha provveduto in modo del tutto abusivo a mettere nuove indicazioni lungo la Via Francigena, il cammino che va da Aosta a Roma, fino a oggi celebre per le difficoltà di individuazione del tracciato da parte dei

Visite a monasteri, indispensabili e gradite soste a ristoranti sorprendenti, incontri ravvicinati con animali dal forte valore simbolico. E poi la ritualità dell’approdo fermano solo un giorno o due, magari con lo sguardo distratto di chi conosce bene il posto per esserci già stato diverse volte. Il modo migliore per fare questo è spostarsi a piedi, con le giornate che non prevedono mai di percorrere una distanza maggiore di una trentina di chilometri e a volte si contentano di meno di venti; allora anche un viaggio di poche centinaia di chilometri si trasforma nell’avventura di settimane. Altri vanno in bicicletta, ma si arriva prima e sessanta, settanta, persino novanta chilometri al giorno sono tanti per chi ama spostarsi lentamente, rimanere prossimo ai posti che attraversa.

La madre di tutti i cammini che esistono oggi in Europa è la via Francese verso Santiago di Compostela, che parte da Saint Pier de Port e attraverso la Navarra, la Riocha, la Castiglia e Leon, raggiunge la Galizia e la città del santo, con una lunghezza totale di circa ottocento chilometri. Dagli anni Sessanta in poi il successo di questo percorso è stato tale che in tutto il vecchio continente si sono tracciati cammini dove viaggiare a piedi, in una rete molto diversificata per qualità dei servizi dell’accoglienza e dei segnali che indicano il percorso, ma in costante miglioramento. RadioRai ha cercato di raccontare quello che sta accadendo attraverso una serie di trasmissioni sul campo che sono iniziate nel 2004, quando per la prima volta una radio ha percorso interamente a piedi il Cammino di Santiago, raccontando ogni giorno ai microfoni coanno IV - numero 25 - pagina VIII

pellegrini mentre centinaia di cartelli giacciono nei magazzini in attesa che la burocrazia decida su come metterli in posa. Questo, insieme alla scarsa disponibilità di ostelli dove dormire a buon mercato, fa sì che a Roma giungano ogni anno a piedi solo poche migliaia di persone, mentre a Santiago di Compostela ne arrivano in media 700 al giorno, con punte che superano i 2000 nella stagione più frequentata. L’afflusso supera le capacità di accoglienza del tracciato classico e le amministrazioni spagnole si sono ingegnate nel potenziare il sistema dei sentieri che portano a Santiago, in modo da consentire ai pellegrini di rivivere l’esperienza seguendo ogni volta un percorso diverso. Alla via Francese si sono affiancati altri percorsi, i più noti dei quali sono il Cammino del Nord, che segue la costa atlantica, e la Via della Plata, che attraversa il Paese da Sud, partendo da Siviglia e attraversando Andalusia, Estremadura, Castiglia e Leon per entrare anche lui in Galizia e raggiungere Santiago. Sono mille chilometri. I primi duecentotrenta li ho fatti l’anno scorso insieme a Lorenzo Sganzini, in un sopralluogo tecnico durato poco più di una settimana.Volevamo verificare che il percorso fosse alla portata di noi camminatori radiofonici, avvantaggiati dall’avere al seguito i mezzi che trasportano le attrezzature di trasmissione, sui quali possiamo caricare una parte dei bagagli, ma prigionieri della necessità di rispettare le tabelle di marcia, collegate in modo

il paginone

Da Merida a Santiago di Compostela sulla Via della Plata che congiunge Siviglia con la città del santo. Un cammino di mille chilometri che attraversa la Spagna da Sud, toccando Andalusia, Estremadura, Castiglia e Leon, Galizia. Un viaggio dell’anima che pellegrini-conduttori raccontano momento per momento alla radio…

Il percorso che conduce da Siviglia a Santiago di Compostela. A destra, alcune tappe nell’itinerario. A sinistra un pellegrino in abiti storici. In basso, la facciata della cattedrale di Santiago

Dove vola di Sergio Valzania

stretto con i palinsesti della radio. Come piccolo handycap, compensativo dell’assenza di trasmissioni, abbiamo rinunciato a un mezzo al seguito e accettato di portare sulle spalle tutto il bagaglio che giudicavamo necessario per l’occasione. Ci siamo accorti che era molto più ridotto di quando capitava che le nostre valige venissero trasportate in altro modo. Il sopralluogo è stato positivo. Abbiamo verificato che il sentiero è ben tracciato, che le tappe sono di una lunghezza compatibile con le nostre possibilità fisiche e che esiste un sistema di accoglienza al quale i pellegrini in cammino, più numerosi di quanto ci aspettassimo, possono fare riferimento. Da Siviglia abbiamo raggiunto Merida, l’antica Emerita Augusta di romana memoria, e ci è sembrato naturale individuarla come luogo di partenza per l’esperienza di quest’anno, che abbiamo proposto all’Associazione delle radio televisioni italianofone e all’Ebu, che riunisce tutti i servizi pubblici radiotelevisivi europei, per una esperienza comune di trasmissione e di ricerca di nuovi formati per i nostri programmi. I 775 chilometri che separano Merida da Santiago ci sembravano la distanza giusta, sia fisica che temporale, sulla quale distribuire i pellegrini-conduttori delle varie radio che mi avrebbero accompagnato, una settimana ciascuno, mentre

comminavo verso la tomba del santo, dal primo maggio al 4 di giugno. Nell’ordine sono venuti con me Giovanna Gobbi di Radio San Marino, Rosario Tronnolone di Radio Vaticana, Andri Xhahi di Radio Tirana, Iva Pavletic di Radio Fiume, Donatella Pohar e Lara Drcic di Radio Capodistria e infine di nuovo Lorenzo Sganzini, della Radio Svizzera di lingua italiana che così facendo ha percorso con me i primi chilometri della Via della Plata partendo da Siviglia e gli ultimi arrivando fino a Santiago. Nel tratto finale era con noi anche Loredana Cornero, segretario generale dell’Associazione radiotelevisiva italofona.

Per preparare le trasmissioni, che per quanto riguarda la Rai andavano in onda ogni giorno su Radio1 e su radioweb, e ancora si possono ascoltare sul sito www.laviadellaplata.blog.rai.it, utilizzavo un piccolo taccuino sul quale ho appuntato gli argomenti di cui intendevo occuparmi insieme ai piccoli episodi della vita da pellegrino che mi erano sembrati così significativi o curiosi da meritare di essere raccontati. Sfogliandolo adesso mi accorgo di quante cose sono successe e di quante ne abbiamo viste in quelle cinque settimane, di come sia difficile scegliere quelle giuste per rendere almeno il sapore delle giornate trascorse in cammino.


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vecento è stato preso in consegna da una piccola comunità di benedettini francesi che ne cura un lento ma meticoloso restauro. I pellegrini che si fermano a visitare il monastero di pomeriggio sono invitati a trattenersi fino alle sei e mezzo per assistere al canto dei vespri.

Fra le avventure gastronomiche, aspetto del vivere che il pellegrino considera di primaria importanza nel suo andare, dato che l’elevato consumo di calorie effettuato nella giornata lo libera da molti dei limiti che si pone di solito, si segnala un incontro avvenuto a Salamanca. Quasi per caso abbiamo scovato il ristorante Mencìa, specializzato in preparazioni di baccalà, ingrediente tipico della cucina della Spagna settentrionale. La cena si è aperta con la pelle del baccalà tagliata in striscioli-

ano le cicogne Le visite ai monasteri segnano il nostro avanzare. Il primo,Yuste, è in Estremadura. Per la verità non si trova proprio sul cammino e per raggiungerlo abbiamo utilizzato il pulmino del supporto logistico, ma non volevamo perdere l’occasione di vedere il luogo dove alla metà del Cinquecento si è ritirato l’imperatore CarloV, l’uomo più potente del mondo, dopo aver abdicato a tutti i suoi titoli. L’edificio è in mezzo a un bosco, abbastanza in alto, e la brezza fresca che vi soffia in primavera lascia immaginare il gelo dell’inverno. In Castiglia e Leon, a Tabara, abbiamo in-

contrato il Monastero di Santa Maria, ovvero i suoi resti, dato che la grande costruzione fu lasciata andare in rovina nel corso dell’Ottocento e solo da pochi decenni si è provveduto a mettere in sicurezza l’abside della chiesa, le basi dei pilastri della navata e le parti ancora in piedi degli edifici destinati alla vita dei monaci. Miglior fortuna ha avuto il monastero di Oseira, in Galizia, a circa settanta chilometri da Santiago. Anch’esso abbandonato negli anni dell’incorporazione dei beni ecclesiastici da parte dello Stato, all’inizio degli anni Trenta del No-

dovevamo andare da un’altra parte. O almeno noi abbiamo interpretato l’incontro in questo modo e ci siamo allontanati in fretta. Sul piano artistico-culturale si sono rivelati di grande interesse anche alcuni resti archeologici dell’epoca romana. Non tanto i monumenti di Merida, teatro, tempio di Diana, arco e anfiteatro, dato che in Italia abbiamo gli originali ai quali si sono ispirati i costruttori di quelli spagnoli. Molto interessante risultava invece la presentazione della strada romana che univa Merida ad Astorga, quasi settecento chilometri di percorso, come un oggetto archeologico unico, da considerare nel complesso, ammirando il suo riapparire di continuo in forma di ponte, di arco, di porta, di pietra miliare o di tratto di basolato riportato alla luce durante gli scavi. Sfogliare il taccuino fa tornare alla mente tanti piccoli incontri e microscopiche avventure, che si impastano in un ricordo unitario, dominato dalla strana emozione che si prova al momento dell’arrivo a Santiago e nelle poche ore successive passate nella città. Allora si partecipa alla messa di mezzogiorno, destinata ai pellegrini e caratterizzata spesso dalla spettacolare manovra del Botafumero, il

La Via Francigena è la madre di tutti i cammini, ma negli ultimi anni, visto l’afflusso in costante aumento di persone, si sono tracciati nuovi percorsi in tutta Europa ne, infarinata e fritta, così da diventare croccante come una patatina. Il seguito si è rivelo anch’esso molto interessante per gusto negli accostamenti e intelligenza nel creare la sorpresa. Ma non ci sono solo gli uomini e le donne, sul cammino. Attraversando territori e borgate di campagna si incontrano animali diversi. Il momento della tenerezza l’ho vissuto nel paesino di Cagnaveral. Dormivo in una stanza affacciata sul tetto della chiesa, dove avevano costruito alcuni nidi le cicogne, che in molte zone della Spagna in primavera sono numerosissime e riempiono l’aria del tac-tac-tac che fanno col becco. In uno di questi nidi si era dischiuso l’uovo da pochi giorni e babbo e mamma cicogna si alternavano nella custodia del piccolo e nella ricerca del cibo con il quale imboccarlo. Meno sognante è stato l’incontro con alcuni cani che mentre camminavamo sono corsi verso di noi abbaiando: per fortuna volevano solo farci capire che avevamo sbagliato strada e per seguire il cammino

gigantesco incensiere che alla fine del rito viene fatto volare nel transetto, si va ad abbracciare la statua del santo che domina l’altare e a rendere omaggio alla sue reliquie nella cripta sotterranea, si fa la coda in arcivescovado per ricevere la Compostela, l’attestato di compimento del pellegrinaggio, per ricevere il quale bisogna aver percorso a piedi almeno gli ultimi cento chilometri verso Santiago e poi si comprano i ricordini per gli amici. In quei momenti la soddisfazione per aver raggiunto la meta, per aver portato a termine l’impresa che ci eravamo prefissi, per aver superato centinaia di piccoli ostacoli che ci siamo trovati di fronte, tutto si mescola con la mestizia per la fine di un’avventura che ci ha saputo prendere in modo completo. Noi camminatori quanto Giovanna Savignano e Maurizio Lepri, che hanno curato tecnica e logistica del viaggio, della trasmissione e del suo sito internet, facendo sì che tutto funzionasse alla perfezione e ogni puntata andasse regolarmente in onda.


Narrativa

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libri

Ernesto Ferrero DISEGNARE IL VENTO Einaudi, 187 pagine, 18,50 euro

er un titolo evocativo, un sottotitolo che dichiara la base storica dell’ultimo romanzo di Ernesto Ferrero, Disegnare il vento. L’ultimo viaggio del capitano Salgari (finalista al Premio Campiello), su cui mi piace tornare anche dopo l’esaustivo articolo di Pier Mario Fasanotti pubblicato su queste pagine il 23 aprile scorso e anche in ragione della futura competizione lagunare. La biografia romanzata di uno dei più importanti scrittori italiani d’avventure ha qualcosa insieme di tragico e lirico, e trova in Ferrero un interprete appassionato e straordinario, anche quando la scelta di raccontare parte proprio dalla morte dello scrittore veronese. Un suicidio acrobatico e feroce che segue senza timori la pista delle tante avventure imbastite in circa vent’anni di produzioni editoriali all’insegna dell’eroismo. E forse anche il suicidio di Salgari segue in parte quell’epica eroica oltre che le ragioni che il narratore andrà rintracciando nel corso del romanzo, ragioni di una vita paradossalmente difficile imbastita sul senso della precarietà e della malattia, vita in bilico e disordinata attorno a una famiglia che andrà inevitabilmente a rovinare. Emilio Salgari si suicida una mattina di primavera, per la precisione il 25 aprile del 1911, sulla collina torinese. Si apre la pancia con una sciabolata e si taglia il collo per affrettare la fine, fa quello che avrebbe fatto uno dei suoi tanti eroi o avventurieri. Compie un estremo atto di coraggio, ricco di simbologia e di sfida. La sfida era certo da gettare in faccia al mondo, un mondo con il quale Salgari ha una serie di conti aperti. Soltanto dieci giorni prima, infatti, la moglie è stata chiusa in manicomio per la malattia dei nervi, restano a suo completo carico i quattro figli, ancora molto giovani, la prima è malata di tisi. Il grande cruccio però di Salgari sono i soldi, una penuria che lo tiene sotto scacco, che lo affama relegandolo ai margini della società, e che lo prostra di fronte alla famiglia e al mondo. Gli editori lo hanno turlupinato pretendendo continuamente libri per poche lire: un lavoro senza tregua di scrittura veloce e notturna, una produzione senza sosta per mantenere in povertà la famiglia. La moglie di Salgari corre dietro ai sogni e ai

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L’ultima sfida di Salgari Finalista al Premio Campiello la biografia romanzata di Ernesto Ferrero dedicata al leggendario scrittore

Riletture

di Maria Pia Ammirati

personaggi del marito e cerca di metter su il pranzo e la cena per tutti, per anni gestisce una famiglia disordinata tra traslochi, animali e le carte del marito. Lo studio di Salgari è infatti un caotico microcosmo dove si accumulano oggetti, esperimenti e schede ricognitive dove lo scrittore scrive ogni cosa per un archivio formidabile. Poi, quando dopo mille peripezie la famiglia si stabilisce a Torino, in un quartiere periferico, l’instabilità psichica della donna fa crollare il sistema familiare. La spinta al suicidio di Salgari si fa strada sul senso di colpa per aver fatto rinchiudere la moglie in manicomio, per di più nella sezione dei poveri. La storia è narrata da un io narrante, la giovane Angiolina lettrice appassionata dei libri di Salgari, a cui si aggiunge una piccola folla di altri testimoni, in un concerto polifonico in cui si tratteggia la vita tumultuosa dello scrittore. Il tutto con la forte tensione espressiva di una forma letteraria autentica. Quel che emerge certo è la solitudine e il disagio psicologico che affondano le radici lontano (il padre di Salgari era morto suicida a sua volta), la frustrazione di un lavoro straordinario e non riconosciuto, la modernità di vedute che non appartiene all’epoca, un uomo completamente diverso e lontano da ciò che scrive, avventure frutto dell’enciclopedismo e della ricerca piuttosto che dell’esperienza. L’uomo che aveva immaginato le avventure perigliose e gli amori della tigre di Monpracen era in realtà un atipico padre di famiglia, schivo, fuori da giri mondani, vincolato a problemi di danaro e di riconoscimento pubblico. Uomo di studio, enciclopeda dedito a creare minuziose schede del suo lavoro certosino nel quale «ha concentrato tutto, lo scibile, le stranezze, le meraviglie del mondo».

Elogio della carta nell’era del digitale

l senso e la pratica di questa rubrica sono legati necessariamente alla carta. Il concetto di «rilettura» presuppone un testo da leggere/rileggere. Se non ci fosse il testo non ci sarebbe la rilettura. I testi consigliati per la rilettura, infatti, sono o il recupero di un libro che avevamo letto tempo addietro e che ora recuperiamo nella nostra libreria o, per chi ce l’ha, nella nostra biblioteca oppure sono la riproposizione di testi in nuove edizioni. Ma che cosa accade se il testo non è più pubblicato/stampato su carta bensì pubblicato/visualizzato su Internet? La «rilettura» sarà sempre possibile? La risposta è almeno duplice: la prima è positiva e dice che rileggere è possibile e forse sarà anche più facile perché tanti testi - addirittura milioni: ma c’è un lettore da milioni di testi? - sono reperibili sul web; la seconda risposta, invece, è negativa perché sottolinea la questione fondamentale della riproduzione «libraria» su Internet: la scomparsa del libro/testo come lo abbiamo conosciuto fino a oggi. Insomma, al contrario di quanto si creda comunemente è ancora la carta il miglior strumento di conservazione e trasmissione del «sapere» e del nostro patrimonio librario. Non lo dico io ma Robert Darnton, insigne storico del li-

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di Giancristiano Desiderio bro e direttore di uno dei più importanti sistemi bibliotecari d’America: il testo da consultare è Il futuro del libro edito da Adelphi. Bisogna chiedersi, come fa Darnton, se l’era digitale è una minaccia per il libro o rappresenta una nuova opportunità? L’era digitale significa che Google Book Search consente la digitalizzazione di milioni e milioni di libri. C’è un problema di diritti, ma è il minore. C’è un problema di conservazione ed è il maggiore: «Col tempo i bit si degradano. I documenti potrebbero andare smarriti nel cyberspazio a causa dell’obsolescenza del formato in cui sono codificati. Hardware e software si estinguono a un ritmo allarmante. Finché non sarà risolto l’increscioso problema della sopravvivenza elettronica, tutti i testi “nati digitali” appartengono a una specie a rischio. L’ossessione di creare sempre nuovi media ha inibito gli sforzi per salvaguardare quelli vecchi. Abbiamo perduto l’80 per cento di tutti i film muti e il 50 per cento di tutti i film girati prima della seconda guerra mondiale. Niente sa preservare i testi (eccettuato il caso di quelli scritti su pergamena o incisi nella pietra)

Secondo Robert Darnton è ancora l’inchiostro il miglior strumento di conservazione del sapere

meglio dell’inchiostro su carta, specialmente carta fabbricata prima dell’Ottocento. Il miglior sistema di conservazione che sia mai stato inventato è antiquato e premoderno: il libro». Robert Darnton elogia il libro: la sua praticità, l’intelligenza, la sua buona riuscita e spiega come il libro non solo non è destinato a scomparire, ma è addirittura indispensabile e necessario per la conservazione e trasmissione del sapere - o di quel sapere letterario che c’è in un testo - anche in futuro. Allo stesso tempo, però, Darnton è convinto che il matrimonio tra libri e tecnologia possa essere felice. Le biblioteche di tutto il mondo distruggono un gran numero di volumi per (presunta) mancanza di spazio: il libro elettronico potrebbe dare una mano a recuperare spazio. Ma la digitalizzazione è un’arma a doppio taglio. Mi sento di suggerire al lettore affezionato alle riletture di leggere e rileggere il capitolo 8 del libro di Darnton intitolato «Inno alla carta»: «I bibliotecari acquistano materiale “nato digitale” o convertito in formati digitali, ma non dispongono di metodi sicuri per la sua conservazione. La carta rimane tuttora il medium che si conserva meglio e le biblioteche hanno tuttora la necessità di riempire gli scaffali con parole stampate su carta». Carta canta.


Personaggi

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rivi di coagulante, gli ingredienti non hanno dato vita a quella nazione efficiente e dignitosa che gli eroi e gli intellettuali del Risorgimento avevano sognato. E il livello della guida del Paese, anno dopo anno, decennio dopo decennio, è deteriorato. Da Cavour e Giolitti a Benito Mussolini, e a Silvio Berlusconi». Con questa battuta intrisa di pessimismo sferzante si conclude lo stimolante saggio che Piero Ottone, ottuagenario «mostro sacro» dell’italico giornalismo, nel 150esimo dell’Unità ha dedicato alla complessa figura di Camillo Benso conte di Cavour (Cavour - Biografia privata di un politico spregiudicato, Longanesi, 191 pagine, 17,60 euro).

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Come spesso accade, il biografo finisce con l’innamorarsi del biografato. Nel caso di Ottone, cresciuto alla severa scuola del liberalismo anglosassone, con un pregio: all’esaltazione delle virtù del Cavour statista, fa da contraltare un’analisi senza veli del Cavour «uomo», grande amatore di belle donne, giocatore d’azzardo. Soprattutto posseduto da egocentrismo. «La verità è che Cavour non fece politica per unificare l’Italia. Fece politica, in primo luogo, per trovare se stesso», sostiene Ottone. Di Cavour, sin dai banchi di scuola, un po’ tutti sappiamo che è stato il protagonista dell’unificazione nazionale. Nella ricostruzione di Ottone, le cose andarono diversamente. Nel senso che il Conte, nato nel 1810 ed entrato in politica solo nel 1848 (prima s’era dedicato alla mondanità, ai viaggi da Ginevra a Parigi a Londra, nonché alla modernizzazione delle proprietà agricole familiari), aveva per principale obiettivo l’ampliamento dello «spazio vitale» del Regno Sabaudo. Con un presupposto, diremmo oggi civile: grandi riforme. Sostiene Ottone: «Uomo di potere, genio politico, aspirava in primo luogo, giunto al Governo (nel ’50, ministro all’Agricoltura, Commercio e Marina), a trasformare un Piemonte governato da una monarchia montanara e da un’aristocrazia retrograda, dominato dai gesuiti secondo i quali non conveniva insegnare ai comuni mortali a leggere e a scrivere, poiché si correvano tanti pericoli». Quindi il suo sogno si chiamava «progresso» cosicché Ottone arriva a etichettarlo «un keynesiano prima di Keynes». Cavour individuava nel progresso economico la vera rivoluzione che avrebbe cambiato il volto dell’umanità. Le ferrovie lo entusiasmavano, al pari delle navi a vapore; e intratteneva personali rapporti coi banchieri parigini, in primis i Rothschild, per ottenere prestiti: più del pareggio di bilancio, gli stava a cuore l’espansione economica. Il debito pubblico non gli faceva paura! Con un’efficace pennellata Ottone dipinge il Cavour divenuto (vincendo la resistenza del Re) ministro delle Finanze: «Voleva creare le condizioni favorevoli per la nascita e la crescita di una borghesia degli affari, intraprendente, destinata a cambiare la faccia del Paese». Detestava dunque i liberali, i mazziniani che volevano opporsi all’Austria (pur da lui deprecata), con le armi; la sinistra estrema, già allora definita «comunista». Precisa Ottone:

Prima di Keynes fu Cavour Il suo sogno si chiamava progresso: solo l’espansione economica avrebbe cambiato il volto dell’umanità. Per questo nella sua “biografia privata di un politico spregiudicato” Piero Ottone lo accosta all’economista britannico. E racconta altre premonizioni dell’egocentrico statista di Giancarlo Galli «Non per il timore che portasse via il denaro ai ricchi, ma perché avrebbe sconvolto l’ordine costituito, soffocato con le teorie egualitarie l’intraprendenza, lo spirito d’iniziativa, indispensabili per la crescita». Ecco allora il nocciolo dell’interpretazione ottoniana di colui che a malavoglia «fece l’Italia». L’agiografia ci ha consegnato un Cavour che per consentire all’Italia di venire ammessa al ta-

volo dei «Grandi», volle la partecipazione dei bersaglieri di La Marmora alla spedizione in Crimea (1855) a fianco degli anglo-francesi. Sbagliato o quantomeno inesatto. Cavour tergiversò, scontrandosi con il Re. A Sebastopoli il nostro contingente più che dai fucilieri dello zar fu falcidiato dal colera. E alla conferenza di pace che ne seguì, i potenti alleati ci trattarono con scarso riguardo, poiché il nostro contributo sul

campo di battaglia, sostiene Ottone, fu «poco convincente». Cavour, con abilità diplomatica e sfruttando la padronanza delle lingue e la consuetudine con i salotti dell’aristocrazia londinese e parigina, non avanzò pretese, limitandosi a porre sul tappeto la «questione italiana». Ciò piacque a Napoleone III. Invitato a pranzo il premier italiano, ricostruisce Ottone, l’Imperatore «come un vecchio zio avrebbe potuto chiedere al nipote che era stato buono, chiese se poteva fare qualcosa per il Piemonte». Cavour gli accarezzò il pelo, gettando un ponte fra il piccolo Regno di Sardegna e la potente e ambiziosa Francia, determinata a fare della penisola una propria zona di influenza, sostituendosi all’Austria. In sostanza, Cavour impostò la sua politica estera cercando di cavalcare e sfruttare le ambizioni napoleoniche. E ne fu generosamente ricompensato: dopo l’armistizio di Villafranca, allorché Napoleone III ottenne dall’Austria la Lombardia, subito trasferendola al Regno di Sardegna. Pretendendo però Nizza e la Savoia. Pur con in sospeso le «questioni» di Roma (rimasta al Papa, Pio IX) e Venezia ancora austroungarica, l’Italia s’andò rapidamente unificando. Sul letto di morte, ricevuti i conforti religiosi, lui che le chiese aveva ben raramente frequentato in vita, dettò alla nipote Giuseppina alcuni pensieri: «L’Italia del Nord è fatta, non ci sono più lombardi, piemontesi, toscani, romagnoli, siamo tutti italiani, ma ci sono ancora i napoletani. Oh, c’è molta corruzione nella loro terra. Non è colpa loro, poveretti, sono stati governati così male. Bisognerà moralizzare il Paese, educare i giovani. Non sarà con le ingiurie che si faranno cambiare i napoletani».

Camillo Benso conte di Cavour si spense all’alba del 6 giugno 1861. A marzo è stato nominato da Vittorio Emanuele II primo presidente del Consiglio del regno d’Italia, assumendo anche i dicasteri degli Esteri e della Marina. Alla Camera ha un vivace scontro con Giuseppe Garibaldi, intenzionato a «liberare» Roma. Non che Cavour sia contrario in linea di principio: prudentemente ritiene che i tempi non siano maturi, soprattutto sa che «l’amico» Napoleone non lo permetterebbe. Infatti il realismo politico, la perfetta conoscenza dei delicati meccanismi che sovrintendono alle relazioni internazionali, costituiscono il lato magico di un Cavour per altri versi nevrotico, impenitente, poco rispettoso dei rapporti gerarchici con la stessa Casa Savoia. Poiché la Storia esclude i «se», è impossibile immaginare cosa sarebbe stato del Piemonte sabaudo in assenza di un Cavour. Ottone, nella brillantissima, talvolta audace ricostruzione del personaggio, sembra lasciare intendere che, seppure in un arco temporale assai più lungo, l’unificazione si sarebbe comunque realizzata. Cavour accelerò, lasciandosi poi prendere la mano da Garibaldi. Da statista, intuì comunque e subito, il «problema del Mezzogiorno». Ma non aveva ricette nemmeno in quel campo che era la sua specialità: l’economia. E sappiamo come questo abbia pesato e continui a pesare.


Saggi

MobyDICK

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no dei più grandi intellettuali del nostro tempo si chiama Tzvetan Todorov, nato in Bulgaria nel 1939 e cittadino francese dal 1973. Si occupa di letteratura, linguistica, storia e più in generale di scienze umane. Nella prefazione all’ultima raccolta dei suoi saggi, dal 1983 al 2008, intitolata Gli altri vivono in noi, e noi viviamo in loro (Garzanti, 518 pagine, 25,00 euro), una sorta di autobiografia intellettuale dove disegna un itinerario di riflessione personale, letteraria e politica, che va da Raymond Aron a Edward Said, da Germaine Tillion a Primo Levi, da Mozart a Stendhal, da Beckett a Goethe, scrive a un certo punto: «Se rendere l’altro un fine è un valore legittimo, lo dobbiamo al fatto che l’essere umano è segnato da un’incompletezza innata, ha bisogno degli altri per esistere. Gli uomini dipendono gli uni dagli altri non soltanto per riprodursi e assicurare la propria sopravvivenza, come le altre specie, ma anche per diventare degli esseri coscienti e parlanti; scoprono di non poterne fare a meno, se vogliono realizzarsi: la felicità degli altri diventa la loro». Questo è il cardine del pensiero di Todorov, anzi è il timone concettuale col quale indirizza la sua barca di ricercatore nelle varie acque del sapere.

U

L’interdipendenza tra le persone è un elemento che fa da baricentro quando l’autore esamina il pensiero e l’opera di Samuel Beckett. Il drammaturgo reinterpreta quanto contiene il VII libro della Repubblica di Platone, là dove si parla della famosa caverna, ossia di quella «sotterranea dimora» simbolo della cecità intellettuale degli uomini, della loro schiavitù e dell’illusorietà di qualsiasi pretesa conoscitiva. Nel mito greco si afferma che nella caverna c’è un pertugio attraverso il quale si vede la luce. Una luce in contrasto con le tenebre dell’interno della cavità, una luce tuttavia «che esiste e i migliori riescono ad arrivarci». Todorov allarga l’analisi ricordando quanto scriveva Rousseau: «Sono nato con una predisposizione per la solitudine, accentuatasi via via che ho conosciuto meglio gli uomini. Mi ritrovo più a mio agio con gli esseri chimerici che raduno intorno a me piuttosto che con quanto vedo nel mondo». È dunque il distaccarsi dal mondo per dedicarsi a sé, solo a sé. O perlomeno alle creature «chimeriche» partorite dalla mente. Todorov incunea un quesito: siamo tutti in grado di sopportare in questo modo l’assenza di esseri reali? Secondo Beckett è possibile, e lo ha detto chiaramente nell’opera Compagnia. Una sorta di gioco degli specchi, o meglio di gioco di echi. Perché, se è vero che «una voce arriva a qualcuno nel buio», è altrettanto vero - o è legittimo controbattere - che colui che immagina la voce e l’ascoltatore è lui stesso». Se Rousseau intendeva sostituire il mondo con il proprio «io», beandosi di quest’unica visione, Beckett non permette mai all’io di manifestarsi. Spiega Todorov: «I ruoli che suscita non sono per lui; preferisce addirittura identificarli con dei nomi impersonali, per allontanarli ulteriormente». L’impossibilità di ammettere l’«io» conduce a cancellare ogni speranza di vedere emergere il «noi».Todorov, anche per la sua formazione culturale, esamina le scienze umane insistendo sugli scrittori. Non si dimentica, non vuole che si dimentichi, che la prima scienza umana è la letteratura, «che per millenni è stata la più importante forma di espressione e di preservazione della saggezza del-

libri ALTRE LETTURE di Riccardo Paradisi

GIUDA TRADITORE E PICCOLO BORGHESE in dai primi decenni dell’era cristiana l’aspetto più inquietante della figura di Giuda è l’inadeguatezza della sua scelta economica: che tipo d’uomo poteva essere colui che aveva scambiato la vita di Gesù Cristo con trenta denari? Giuda diventa così il prototipo negativo di chi non sa riconoscere il vero valore delle cose come sostiene Giacomo Todeschini nel suo Come Giuda (Il Mulino, 311 pagine, 24,00 euro), e, in particolare, di chi non riesce a comprendere le regole del mercato e dell’economia così come si sono venute assestando tra Medioevo ed età moderna. Al contrario la figura della Maddalena, che «sperpera» i suoi beni per onorare il Signore, diventa emblematica dell’agire economico lungimirante e istituzionalmente corretto.

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Io, noi e gli altri secondo

Todorov Da Raymond Aron a Edward Said, da Germaine Tillion a Primo Levi, da Mozart a Stendhal, da Beckett a Stalin. Nell’ultima raccolta di scritti, l’intellettuale bulgaro riflette sui comportamenti sociali, sui regimi politici, sulla letteratura e sulla capacità dell’uomo di realizzare la propria felicità

L’ORRORE IN DIRETTA IN FONDO A UN POZZO *****

11 giugno 1981, poco dopo le 13, l’Italia resta paralizzata davanti alla tv. Durante il Tg2, da un pozzo nella campagna di Vermicino, vicino a Frascati, proviene l’urlo di un bimbo che chiama la mamma. È Alfredino Rampi la cui vicenda resterà impressa per sempre nella mente degli italiani che l’hanno vissuta. Mentre Alfredino precipita nel pozzo, nel tardo pomeriggio del 10 giugno, alle 19, a San Benedetto del Tronto, Roberto Peci viene rapito e condotto in una «prigione del popolo». Qui le Br lo processano e poi lo uccidono per vendicarsi del fratello Patrizio, il primo pentito delle Br. Nel suo L’inizio del buio (Rizzoli, 267 pagine, 18,00 euro) Walter Veltroni racconta quelle due tragedie parallele cogliendo nei due episodi l’inizio di quello che sarebbe diventata la televisione reality.

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di Pier Mario Fasanotti l’uomo». E così aderisce in toto all’affermazione dell’etnologa Germaine Tillion, da lui profondamente studiata: «Solo i romanzieri ci liberano dall’approssimazione». Parole in apparenza sconcertanti, ma a ben vedere illuminanti se si tiene conto di desolanti labirinti logici in cui si trovano intrappolati sia scienziati che filosofi.

Todorov, che è vissuto in una Bulgaria sovietizzata e quindi a regime dittatoriale, non nega mai che l’origine dei suoi interessi storici siano da collegare alla sua condizione di esule. Ecco perché ha impiegato tante energie nello studio dei rapporti tra conquistatori e conquistati. Per esempio in La scoperta dell’America (1982). Riconosce che l’oggetto della sua ricerca era estraneo, tuttavia egli doveva «ricorrere all’esperienza personale e alla memoria». E spiega: «Oggi credo di capire perché questo incontro lontano tra popolazioni che si ignorano (la Conquista del XVI secolo, ndr) è apparso ai miei occhi come una sorta di parabola di ciò che avevo vissuto insieme a tanti altri immigrati lasciando il mio Paese d’origine. Naturalmente gli avvenimenti erano ben diversi (e molto meno gravi), tuttavia il quadro complessivo era il medesimo».

Meglio dunque si comprende l’attenzione di Todorov sul comportamento di Stalin. Al dittatore russo si avvicina attraverso la figura del bulgaro Georgi Dimitrov, uno dei dirigenti più in vista del Partito comunista di Sofia durante la prima metà del XX secolo. Curiosa è la sua storia: nel 1923 lascia il Paese e diventa funzionario del Comintern, l’organismo comunista internazionale. In modo più o meno legale si sposta tra Mosca,Vienna e Berlino. È nella capitale tedesca che sarà arrestato (nel 1933) alcune settimane dopo l’ascesa al potere di Hitler. È accusato, assieme ad altri, di aver appiccato l’incendio al Reichstag. Dimitrov si difende brillantemente dinanzi al tribunale di Lipsia e viene prosciolto e liberato. Segue la sua attività politica accanto a Stalin. Todorov giustamente osserva che il burocrate bulgaro «sarebbe solo una delle figure, patetiche o sinistre, del comunismo internazionale» se non avesse fatto una cosa insolita, ossia scrivere un diario. In queste pagine è tratteggiata minuziosamente la figura di Stalin. Il «baffone» di Mosca è uomo spietato che ricorre sovente alla minaccia e ripete la volontà di «sterminare» non solo singoli veri o presunti oppositori, ma anche intere popolazioni. Stalin è l’erede

nero di Machiavelli: il potere per il potere, attraverso la pratica del terrore. Era anche subdolo, nel senso che le sue direttive erano in qualche modo indeterminate, addirittura vaghe, con il risultato di disorientare i suoi fedeli servitori, che si sentivano sempre in colpa e immersi nel dubbio di non aver compreso bene gli ordini del «capo».

Lo stesso Dimitrov si farà umiliare e rimproverare come un ragazzino. Il dittatore e la sua cerchia di servi sciocchi. Ma Stalin aveva anche un vezzo, quello di essere simpatico, di raccontare barzellette. «Scherzava argutamente» annota il bulgaro nello sciame dei maggiordomi politici. Facile immaginare lo sforzo, diventato poi assuefazione al servilismo, di coloro che ovviamente si ritenevano in dovere di ridere e applaudire. Dimitrov scrive nel suo diario una frase di Stalin, esportabile in tutti i Paesi satelliti dell’Urss: «Le masse innumerevoli hanno la psicologia del branco.Agiscono solo attraverso i propri eletti, i propri capi». E ancora: «Non esistono imperativi categorici, tutta la questione sta nell’equilibrio delle forze: se sei forte colpisci». Eliminata, scrive Todorov, ogni relazione tra virtù morali e qualità politiche.


MobyDICK

spettacoli

di Enrica Rosso partita alla grande la prima parte della quarta edizione del Napoli Teatro Festival Italia in scena dal 26 giugno al 16 luglio per concludersi dopo la pausa estiva dal 9 settembre al 7 ottobre. Nuovo il direttore, il regista Luca De Fusco, subentrato a marzo, così come fresca è la presidenza della Fondazione Campania del Festival, affidata alla professoressa Caterina Miraglia; ma nonostante i cambi ai vertici e gli ulteriori tagli dei fondi restano ben salde le scelte di valorizzare luoghi inconsueti per le rappresentazioni in cui possano nascere nuove stimolanti espressioni d’arte per opera di gruppi internazionali e non in una sinergia di co-produzione con il Festival per la creazione di spettacoli di più ampio respiro. Attenendoci agli spettacoli teatrali della prima trance, un esempio di folgorante bellezza è stato la realizzazione di Le Dragon Bleu, firmato dal canadese Robert Lepage, recitato in francese, inglese e mandarino e sottotitolato in italiano. Un’ora e mezza di immagini superbamente costruite e incastonate nella scenografia a fotogrammi di Michel Gauthier da uno dei massimi registi mondiali andato in scena al Teatro San Carlo. A portrait of the artist as a young man è invece il titolo del progetto dell’italianissimo Lorenzo Gleijeses per il teatro Stabile di Calabria in scena a fine giugno in prima assoluta all’Ex asilo Filangieri. Non meno prestigiosa la presenza di Declan Donnellan, fino a ieri in prima italiana sul palcoscenico del Mercadante con la sua versione in russo di The Tempest. Ancora in scena invece le due proposte realizzate con il sostegno di The Japan Foundation/Performing Arts Programme for Europe: il pluripremiato Tokyo Notes e The Yalta Conference, entrambe in giapponese con sottotitoli italiani, firmate da Oriza Hirata per la sua compagnia Seinendan Theatre Company; due esperienze ospitate nella sognante cornice del Museo di Capodimonte per approcciare lo stile di teatro colloquiale contempora-

È

Danza

Teatro

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DVD

Napoli come Babele (l’arte parla a tutti)

IL DOLCE STIL NOVO DI DANTE FERRETTI ue Oscar per The Aviator e Sweeney Todd), tre Bafta Awards, cinque David di Donatello e dodici Nastri d’Argento. La storia di Dante Ferretti è una collezione di trionfi e di rapporti umani straordinari: da Fellini e Scorsese, il grande scenografo ha saputo regalare al fotogramma la compostezza squisita dell’arte pittorica. Gianfranco Giagni ci racconta la sua parabola in Dante Ferretti-Scenografo italiano, bel documentario in cui il maestro si racconta in una lunga intervista alternata a frammenti d’autore e testimonianze dei grandi uomini di cinema che l’hanno accompagnato.

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PERSONAGGI

LUIGI TENCO: LACRIME, JAZZ E CABARET neo messo a punto dal regista nipponico come punto d’incontro tra la cultura orientale e quella occidentale. Già varati la navigazione teatrale a vela liberamente tratta dall’Otello di Shakespeare di Antonella Monetti che si svolge a bordo della barca Maria Diletta e il radiodramma T.E.L., in diretta dal Molo San Vincenzo. riscrittura di Fanny e Alexander dedicata a Lawrence d’Arabia. Sempre in zona balneare a breve Ferito a morte-Preludio con Mariano Rigillo al Bagno Sirena. Se la troppa luce vi disturba fanno per voi Le variazioni sul mito - femminile sotterraneo, Arianna, Elena, Antigone con Giovanna Di Rauso in prima assoluta al Tunnel Borbonico, oppure alla Catacomba di San Gennaro La Tana diretta da Francesco Saponaro. A seguire è tutto un fuoco d’artificio di pri-

me assolute: Faust o della bella vita al San Ferdinando; Homunculus, il Nerone di Napoli di Enrico Groppali; Sai del feliz in francese; Cristiana famiglia al Mercadante; Hybris di Frattaroli in greco antico; L’opera da tre soldi con Massimo Ranieri, Gaia Aprea e Lina Sastri diretti da De Fusco; il teatro movimento di Miranda Henderson con i suoi danzatori acrobati; Ragù di Rosi Padovani al Sannazzaro per concludere con la Cantata scenica in 15 stazioni per Coro, Orchestra sinfonica e Voce Recitante di Enzo Avitabile al Real Albergo dei Poveri. Insomma, una babele linguistica a conferma che l’arte è di tutti e per tutti. Napoli Teatro Festival Italia 2001 26 giugno -17 luglio; 9 settembre - 7 ottobre, info: 081 19560383 - www.napoliteatrofestival.it

iovedì 7 luglio al teatro Golden di Roma, va in scena Dunque lei ha conosciuto Tenco?, bel monologo interpretato da Marcello Mazzarella coadiuvato dal quintetto musicale capitanato da Piji, autore delle musiche originali edite da Franco Bixio, e formato da Biagio Orlandi al sassofono, Augusto Creni alla chitarra, Marco Contessi al contrabbasso e Filippo Schininà alla batteria. Al centro la vita poetica dello sfortunato cantautore genovese, tra notti insonni, jazz, amici e donne. Una storia che inizia con un aneddoto profetico: Tenco che suona il sassofono in equilibrio su un binario.

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di Francesco Lo Dico

Riflettendo su Tersicore dal XV secolo alla Biennale a recente fioritura di pubblicazioni dedicate alla danza non può non attirare l’attenzione degli appassionati. Sebbene di natura e con finalità diverse, infatti, i mesi di maggio e giungo ci hanno regalato ben tre validi volumi votati all’arte di Tersicore: Virtute et arte del danzare, Imaging Dance e Choreographic Collision. Parte del merito di questa generosità editoriale è da attribuire alla storica della danza Barbara Sparti, la cui prolifica e pionieristica carriera è stata recentemente al centro di riconoscimenti e festeggiamenti. «Più di una generazione di studiosi […] e di esecutori (professionali e non) della così detta danza storica - scrive Alessandro Pontremoli, curatore di Virtute et arte del danzare - è in grande debito nei confronti di Barbara Sparti, pioniera di questo campo accidentato della ricerca». Con questa raccolta di saggi che spaziano dalla danza del

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di Diana Del Monte XV secolo fino a quella degli anni Trenta, dunque, il gruppo di studiosi italiani e anglosassoni ha voluto rendere omaggio alla storica newyorkese, regalando, al contempo, un ampio e interessante panorama della storiografia della danza a tutti gli appassionati. Curato dalla stessa Sparti in collaborazione con Judy Van Zile, professore emerito all’Università di Manoa e studiosa di caratura internazionale, è invece Imaging dance. Visual rappresen-

tations of dancers and dancing. «La relazione tra la visione dell’artista e la “realtà” è il cuore di questo volume», spiega la Sparti. «Cosa ci dice, o non ci dice, dell’atto del danzare e dei danzatori l’artista che sceglie la danza come suo soggetto?». Il volume è un viaggio trasversale tra l’arte coreutica e quella visiva, un itinerario, agevolato dall’organizzazione in aree tematiche, durante il quale le teorie e le relative spiegazioni vengono offerte al lettore attraverso lo studio diretto di casi specifici - esemplare, in tal senso, il saggio Nancy G. Heller su tre opere di Matisse. Percorrendo la strada tracciata dalle due curatrici, si diventa via via più consapevoli dei dettagli, del contesto, dell’atteggiamento socioculturale nei confronti di quest’arte e, probabilmente, della natura stessa della danza. Un volume che, tra l’altro, rappresenta un interessante fase di passaggio

all’interno della ricerca in questo ambito; dopo un lungo periodo di doverosa attenzione alla costruzione delle teorie, infatti, appare chiaro come gli studi dedicati alla danza siano finalmente entrati in una fase orientata a una maggiore applicazione sul campo. Un salto nella contemporaneità veneziana ci porta invece a Choreographic Collision, l’ultimo dei tre libri segnalati. Realizzato da DanzaVenezia in collaborazione con l’Arsenale della Danza e presentato in occasione della chiusura della manifestazione lagunare, il volume è una mappatura delle esperienze legate al progetto coreografico quadriennale (2007-2010) portato avanti all’interno della Biennale Danza. Curato da Stefano Tommassini e arricchito dalle immagini di Orlando Sinibaldi e Alvise Nicoletti, il libro narra l’intenso e stimolante periodo appena concluso attraverso un tracciato tanto testuale quanto visivo. Un reportage di quanto discusso e messo in pratica negli ultimi quattro anni per raccontare «a caldo» il senso della danza di oggi.


Babeliopolis

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iviamo in una società, e in una cultura sia alta che popolare, piena di paradossi. Uno di questi è un incessante rivolgersi al passato proprio mentre il progresso tecnologico ci trascina via con sé, non tanto per le grandi cose, ma per le tante, piccole innovazioni che modificano sostanzialmente la nostra vita di ogni giorno. Questo rivolgersi al passato lo si nota soprattutto nei mezzi di intrattenimento di massa: cinema, televisione, giochi di ruolo, videogames, internet, narrativa popolare. Accanto a tematiche futuribili (in primis i supereroi) ecco la incessante e insistente riscoperta del passato più lontano: antichi popoli, antiche gesta, antichi eroi. Ma è Roma con il suo Impero millenario che la fa da padrona nell’Immaginario collettivo. Certo una Roma spesso non capita e banalizzata da autori che si sono limitati al suo aspetto esteriore e alla vulgata hollywoodiana che, come spiega un divertente libro di alcuni anni fa, ha imposto dei luoghi comuni duri a morire. Ma non sempre è così. Ci sono anche opere - sia film che romanzi - che hanno lasciato una traccia positiva e non sono scomparsi nell’oblio, proprio perché hanno saputo afferrare ed esprimere lo «spirito» di Roma, dei suoi cittadini, dei suoi soldati, dei suoi generali e dei suoi imperatori. Una civiltà che ha dato una impronta indelebile a tutta l’Europa e a tutto l’Occidente, anche se ufficialmente chissà perché non lo si vuol riconoscere (si pensi alla famosa questione delle «radici ebraico-cristiane dell’Europa» che invece dovrebbero più oggettivamente almeno essere le «radici romano-cristiane dell’Europa»).

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Ecco allora che si legge con grande soddisfazione un romanzo come La vendetta di Augusto di Roberto Genovesi appena pubblicato (Newton Compton, 464 pagine, 14,90 euro). E per due motivi. Si sa che ogni scrittore viene atteso alla seconda prova per controllare se sono confermate o meno certe aspettative, se sono stati superati o meno certi difetti. In realtà Genovesi non è per nulla un esordiente e questo è per la precisione il suo quarto romanzo dopo Il solstizio del tempo (Keltia, 1996, con Errico Passaro), Inferi on Net (Urania Mondadori, 2000) e La legione occulta dell’Impero romano (Newton Compton, 2010). Però, lo si aspettava per così dire al varco - o almeno lo aspettavo io - proprio dopo l’uscita di quest’ultimo romanzo, inizio di una trilogia, dato che, sempre a mio parere, pur centrato su una ottima e originale idea, aveva parecchi difetti. Si deve dire allora che l’attesa è stata premiata e che questa Vendetta di Augusto è sicuramente superiore alla prima puntata della saga della Legione Occulta per tutta una serie di motivi intrinseci ed estrinseci. Intanto, forte probabilmente della prima esperienza, questo secondo episodio si presenta narrativamente più compatto e meno slegato del precedente, forse perché l’auto-

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ai confini della realtà

La battaglia di Idistavio minuto per minuto di Gianfranco de Turris

re ha avuto più tempo per svilupparlo: i salti temporali sono ridotti all’essenziale e quindi più comprensibili e tali da non sbalestrare il lettore; la trama è più lineare e non si disperde in troppe ramificazioni laterali, che comunque tutte alla fine trovano una spiegazione e/o uno scioglimento; sono stati accuratamente evitati tutti gli anacronismi non solo lessicali ma anche culturali che davano una sensazione di incongruenza nell’opera precedente.

sto è apprezzabile e si eleva di un palmo e più rispetto ad altri romanzi consimili italiani e stranieri, è che amalgama ancor meglio della Legione Occulta quell’intreccio di storia, mito, religione e occulto che è la sua caratteristica. E lo fa senza cedere al sensazionalismo gratuito, senza sbracarsi nei luoghi comuni cinematografici, senza al contrario conformarsi al politicamente corretto che c’è da sempre nei confronti del cosiddetto «imperialismo

Nella “Vendetta di Augusto”, seconda parte della trilogia sulla Legione Occulta, Roberto Genovesi descrive in modo suggestivo e incalzante la rivincita di Germanico nei confronti di Arminio. Un intreccio di storia, mito, religione e paranormale, al riparo da sensazionalismi e luoghi comuni E, dal punto di vista estrinseco, si è posta una notevole cura per aiutare il lettore a districarsi non solo in un romanzo articolato, ma in un periodo storico complicato come quello intorno alla data della morte di Augusto (14 d.C.): quindi ecco una galleria di personaggi che servono anche da sunto dell’episodio precedente, una cartina geografica dell’Impero all’epoca, un albero genealogico della famiglia Giulio-Claudia, qualche nota esplicativa a termini e fatti «romani» non immediatamente comprensibili. Ma, ecco il secondo motivo per cui La vendetta di Augu-

romano». Un autore che scriva di un periodo passato deve mettere da parte la sua mentalità, le sue idee, la sua morale del XXI secolo ed entrare in quelle dell’epoca che descrive, i cui valori sono di duemila anni diversi dai nostri, e quindi deve evitare nel modo più assoluto di trinciare giudizi etico-politici seppur tra le righe. Roberto Genovesi non cade nella trappola del conformismo e lo fa appunto calandosi nella mentalità degli uomini del’Impero nel momento della morte di Augusto e, cosa ancor più difficile, lo fa entrando nelle personalità dei personaggi che della Legio occulta fanno parte. Così di Madron, diventato l’ormai anziano prefetto Victor Iulius Felix, di Dryantilla che sa anticipare il futuro, del cieco Jago che può vedere, parlare e

trattare con le divinità dei nemici di Roma, di Sibian che riesce a manipolare i metalli, di Assum l’eterno bambino balbuziente.

La loro nuova avventura è trafugare gli Oracoli Sibillini per ordine di Augusto morente dato che in essi c’è una profezia dalla quale dipende la sorte di Roma. Questo li porterà ai confini dell’Impero, imbattendosi in nuovi giovani personaggi dalle straordinarie capacità che verranno assoldati per la rinata Legione Occulta, distrutta nel primo romanzo da un complotto dei pretoriani. La legione formata da militi dalle capacità che oggi definiremmo paranormali e che accompagna, e aiuta, le legioni di Roma in difficoltà. Ma qual è la vendetta di Augusto cui è intitolato il romanzo? È quella che suo nipote Germanico si prenderà nei confronti di Arminio che aveva distrutto le legioni di Varo nella foresta di Teutoburgo nel 9 d.C.: sette anni dopo, nel 16 d.C., nella prima battaglia di Idistaviso vi sarà la rivincita, la sanguinosa sconfitta vendicata, le insegne perdute riconquistate. Genovesi dedica ben sessanta pagine alla descrizione dello scontro, dividendolo e descrivendolo ora per ora, lungo undici ore: un tour de force notevolissimo, suggestivo e mozzafiato, incalzante, in cui si fronteggiano non solo armi materiali e terrestri, ma anche armi occulte e celesti, a dimostrazione di come l’autore abbia assorbito il senso di certi insegnamenti antichi mettendo da parte la razionalizzazione e lo scetticismo moderni. Vogliamo sperare che continuerà così.


o p i n i o n ic o m m e n t il e t t e r ep r o t e s t eg i u d i z ip r o p o s t es u g g e r i m e n t ib l o g

Un saluto a Silvio Fagiolo, uno dei padri del progetto europeo I GIOVANI: IL FUTURO DELLA POLITICA L’autunno di questo centrodestra è dei più tristi, come cupa è l’immagine della figura politica di Berlusconi: l’uomo con il sole in tasca, il leader ottimista capace di tenere per 5 anni salda la barra dell’opposizione al centrosinistra, ora è solo un leader circondato da piccoli uomini che lo stanno portando alla rovina. Di fronte a questa crisi, c’è bisogno di una opposizione giovanile in grado di rappresentare nella società un richiamo ai valori del Paese e alla concretezza. I giovani non sono tutti schierati a sinistra come vogliono far credere la stampa e le tv, soprattutto quelle berlusconiane. C’è una grande parte del mondo giovanile che non è prigioniera del Grande fratello e dell’Isola dei famosi, ma crede nel lavoro, nella famiglia, nell’impegno, nella costruzione del proprio futuro; ed è a questo mondo cui bisogna guardare, e dobbiamo mobilitarlo sulle parole d’ordine della sussidiarietà di una società in grado di organizzare un diverso modello di Stato sociale che faccia gli interessi di chi ha bisogno, e non delle burocrazie parassitarie che speculano proprio su di questo. Nelle università e nelle fabbriche, c’è un mondo giovanile che non crede al miracolismo delle utopie, ma vuole impegnarsi con spirito di sacrificio. Ma, bisogna anche porre come centrale la questione della precarietà, e della rispettiva fuga di cervelli. Infine, lo stesso Papa Ratzinger, ha dichiarato che i giovani non possono essere condannati a una perenne instabilità, né è possibile chiedere sempre più sacrifici di fronte a una speculazione finanziaria che impoverisce il Paese. Non c’è molto tempo. La piazza di Bengasi come quella di Atene e Damasco, sta a significare che c’è tutto un mondo giovanile che non è più disposto a pagare. Per una forza come i giovani di liberal c’è l’esigenza di impegnarsi per evitare che populismo ed estremismo seducano i giovani: ecco perché c’è bisogno di un movimento capace anche di una strategia delle alleanze per riformare il Paese. Ci presentiamo come sistema alternativo e coerente con se stesso, che vuole porre fine a una politica schiava di lotte di principi mascherate da lotte personali. A noi non serve Berlusconi, che si assurge a pittore della Gioconda. Noi, se mai, crediamo a chi finalmente vorrà “scolpire” la Pietà di Michelangelo. Emiliano Agostini de Angelis COORDINATORE GIOVANI CIRCOLI LIBERAL ROMA CAPITALE

«Silvio Fagiolo è stato una figura eminente della diplomazia e dell’europeismo italiano, rappresentando nel modo più degno il Paese in numerose importanti sedi, da Washington e Berlino, e in missioni internazionali. Il suo contributo alla elaborazione dei Trattati europei e in generale alla costruzione dell’Europa unita resta inestimabile. E resta l’esempio del suo senso dello Stato, della sua operosità e sobrietà, senza alcun cedimento a protagonismi». È stato con queste parole che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, ha salutato l’ambasciatore Silvio Fagiolo, uno dei padri della visione europea, scomparso martedì sera a Milano. «Uno stratega, in grado come non molti di esprimere una proiezione politica, capace di guardare le cose nel loro insieme e con una prospettiva di lungo periodo», come ha sottolineato il capo dell’ufficio stampa della Farnesina, Massari. L’ambasciatore Silvio Fagiolo è stato un diplomatico brillante, stratega e negoziatore acuto, scrittore e professore di relazioni internazionali alla Luiss, dove ha lasciato un grande vuoto soprattutto tra gli studenti. Io che ho conosciuto l’Ambasciatore da vicino posso dire che ci mancheranno le sue analisi profonde e argute, ma soprattutto ci mancheranno la sua preparazione e il suo garbo con tutti.

Martha Nunziata

PERCHÉ UNA POLITICA SENZA PRIVILEGI FAREBBE IL GIOCO DEI POTERI FORTI Nell’articolo “Le forbici della democrazia” Errico Novi esprime dubbi sull’abolizione dei vitalizi per i parlamentari. In particolare egli obietta il punto di vista di Enrico Morando, sostenendo che «chi entra in Parlamento spesso compromette in modo irreparabile la propria attività professionale, e per questo è difficile concepire il vitalizio degli onorevoli alla stregua di un trattamento pensionistico qualsiasi». Salvo errori però, nessuno è mai entrato in Parlamento minacciato con la pistola alla tempia. E francamente, vorrei conoscere alcuni di questi casi di compromissione professionale; sì, di quelli che capiterebbero spesso. In questa crisi prima negata, poi taciuta e infine affrontata con dilettantismo tipico di questo governo di nani e ballerine, il Parlamento dovrebbe e potrebbe lanciare un messaggio forte al Paese, per esempio abrogando le Province; riducendo il numero dei parlamentari, i loro stipendi e i loro privilegi. Ma tende a non farlo: l’articolo di Novi purtroppo va proprio in tal senso.

Giuseppe Picari

(risponde Errico Novi) Gentile Picari, con l’articolo che lei cita, liberal vuole invitare a riflettere su almeno due cose. Innanzitutto, sul fatto che la politica non è un’attività disonorevo-

le, come oggi purtroppo il senso comune tende a rappresentarla; piuttosto è un servizio alto, è la missione che tutti chiedono ad alcuni di svolgere; e già solo per questo meritevole di riconoscimenti e persino di privilegi. Questo in senso generale. In secondo luogo, e più nello specifico, lei crede davvero che persone assennate, con un lavoro, un mestiere, insomma una vita più o meno assestata, possano sospendere tutto per cinque, dieci, quindici anni, senza un paracadute? Ma sa chi se lo potrebbe permettere? O persone molto abbienti, che vivono di rendita e non hanno nulla da fare; oppure degli spiantati completi, avventurieri che viceversa non hanno nulla da perdere. Lei dirà che ce ne sono anche ora: può darsi. Ma sono personalmente convinto che un Parlamento senza vitalizi, con modesti gettoni al posto delle indennità e così via, realizzerebbe pure i sogni di Grillo, ma di avventurieri pronti a rifarsi con tangenti e affini ne avrebbe il triplo. Ultima questione, del tutto personale: la campagna contro la politica in corso, grossomodo, dal 2006, per me ha un solo vero obiettivo: delegittimare i rappresentanti del popolo fino al punto da sostituirli con una schiera di fantasmi al servizio delle più varie tecnocrazie. Deputati e senatori dovrebbero ridursi a spettri senz’anima e senza volto più fa-

L’IMMAGINE

REGOLAMENTO E MODULO DI ADESIONE SU WWW.LIBERAL.IT E WWW.LIBERALFONDAZIONE.IT (LINK CIRCOLI LIBERAL)

Reattori chiusi dalle meduse DUNBAR. Possono alcune piccole creature in gelatina provocare la chiusura di due reattori nucleari? A quanto pare sì: quattro giorni fa entrambi i reattori della centrale elettronucleare di Torness, in Scozia, sono stati spenti dopo il ritrovamento di una serie di “intrusi” nel sistema di filtraggio dell’acqua marina usata per il raffreddamento dell’impianto. Meduse, alghe e detriti presenti nei filtri hanno fatto scattare una normale procedura di sicurezza che ha portato allo spegnimento temporaneo dei reattori. Il tutto è avvenuto senza alcun danno per la popolazione e per l’ambiente e l’impianto sarà riavviato a “pulizie” concluse. Anche nel febbraio dello scorso anno uno dei reattori nucleari, che fornisce corrente per 400mila famiglie, fu spento alla centrale di Torness Power, per la rottura del trasformatore di un generatore e la conseguente perdita di olio. Le persone del posto videro molto fumo bianco uscire dalla centrale dopo l’incidente, e fortunatamente anche allora non ci furono conseguenze né per l’ambiente né per i suoi abitanti.

cilmente controllabili da chi il potere già lo detiene davvero: grandi banche, grandi centrali della speculazione finanziaria, tecnocrazie sovranazionali colluse con le prime due. Le andrebbe bene questo?

VIVERE A CARICO ALTRUI Alcuni cercano di scansare fatiche e campare a spese altrui. L’amore dichiarato può essere un affare fattuale: la relazione amorosa è chiamata “love affair”dagli anglosassoni. Chi è debole economicamente può sposare una persona benestante, per vivere nell’agio e ottenere altri vantaggi: un mensile in caso di separazione, l’eredità e la pensione di reversibilità alla premorienza del coniuge. Lo straniero(a) che sposa partner italiana(o) ottiene la cittadinanza del Bel Paese. Chi sposerebbe una persona più vecchia di 20, 30, 40 anni se non ottenesse benefici, specie economici? L’eventuale parassitismo sta dietro l’amore e la solidarietà. Lavoro, risparmio, responsabilità, correttezza e onestà vengono talvolta sfruttati da ozio, sperpero, sventatezza, irregolarità e furbizia. Se taluni gettano illegalmente rifiuti sulle strade, altri puliranno. Lo Stato è la grande finzione, attraverso la quale ognuno cerca di vivere a carico altrui (Frédéric Bastiat). L’invidia e la ricerca di parassitismo si orientano prevalentemente a sinistra. Il lavoratore instancabile si libera dalla povertà per suo merito e non abbisogna della redistribuzione assistenziale.

Gianfranco Nìbale

APPUNTAMENTI LUGLIO VENERDÌ 22 ORE 11 - ROMA AUDITORIUM CONCILIAZIONE Iª Convention Nazionale del Terzo Polo per l'Italia

LE VERITÀ NASCOSTE

MANOVRA FINANZIARIA E SANITÀ

Tintarella “ecologica” La corsa al bikini perfetto è cominciata. Quest’estate potreste puntare su un modello decisamente “verde”. Il costume nella foto, infatti, è formato da una serie di piccoli pannelli fotovoltaici cuciti insieme dal designer newyorkese Andrew Schneider. Chi lo indossa può sfruttare l’energia ricavata per alimentare l’iPod o la macchina fotografica

Ancora una volta una manovra finanziaria andrà a riportare dal primo gennaio 2010 il ticket sanitario di 10 euro per le visite specialistiche ambulatoriali. Ciò significa aggiungere dei costi agli italiani, i quali si trovano già a dover aspettare mesi per un intervento urgente, a pagare medicinali non prescrivibili, a entrare in conflitto con tutte le pecche del sistema sanitario italiano. Con quale coraggio infierire anche di poco?

Bruno Russo


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il saggio

Uno dei maggiori teologi del mondo contemporaneo analizza la primavera araba e i suoi frutti. E azzarda una previsione

Operazione 2020 l’Islam sarà democratico La natura umana impone lo sviluppo dei diritti di base. Questo avverrà anche nel mondo musulmano, che vive il suo Rinascimento di Michael Novak no dei temi più importanti di questo secolo è la libertà religiosa, e in particolare lo sviluppo della dottrina nell’Islam. Negli ultimi 50 anni ho fatto alcune scoperte in diversi campi che erano sfuggite alla maggior parte degli studiosi, dalla “ortodossia non storica” nel Secondo Concilio Vaticano, alla teologia degli sport, e al ruolo creativo da assegnare al capitalismo nella dottrina sociale cattolica. All’Università Cattolica ho avuto il privilegio di seguire i corsi di monsignor Joseph Fenton, il duro e impopolare antagonista di John Courtney Murray sulla libertà religiosa, uno di quelli che avvisò Roma sui “rischi” degli insegnamenti di Murray. Monsignor Fenton sapeva che stavo dalla parte di Murray, ma si divertiva a stuzzicarmi, in classe poi ero favorito avendo ricevuto da lui un libro da recensire per il giornale sulla teologia pastorale che dirigeva. Presto quindi fui al centro delle discussioni cattoliche americane sulla libertà religiosa.

U

Da inviato a Roma per il Concilio Vaticano II, registrai le prime avvisaglie della discussione sulla libertà religiosa e seguii i retroscena dei dibattiti privati alle singole conferenze episcopali. È qui che sentii per la prima volta il nome di Karol Wojtyla, il nuovo cardinale di Cracovia, il più giovane mai eletto prima, e la sua fresca insistenza affinché le conferenze episcopali dell’Europa centrale e orientale dovessero avere una dichiarazione di libertà religiosa dal Concilio. Alcuni dicono che la sua sobria passione intellettuale fu più utile di qualsiasi altra cosa per convincere Paolo VI ad esporsi per portare al voto la questione, anche se delle potenti forze (soprattutto ma non solo) nel mondo latino temevano che avrebbe condotto al relativismo e a un indifferentismo religioso. In una parola: vidi un chiaro segnale di

come la Chiesa Cattolica aveva bisogno di uno “sviluppo di dottrina” – e subito – sulla libertà religiosa. In quanto americano, fui consapevole che era già tardi.

Uno sviluppo simile si sta già verificando in decine di Paesi islamici, specialmente nei 18 paesi chiave del Medioriente. Dai notiziari, ci arrivano ogni sera testimonianze che sta avvenendo da gennaio in Egitto, poi in Libia, poi ancora in Siria. E come possiamo dimenticare l’eroica rivolta dello scorso autunno in Iran, nel nome della liberazione dalla crudele tirannia dei Mullah, una rivolta soppressa senza pietà? Fino ad oggi abbiamo vissuto attraverso un’improvvisa e sorprendente rivolta

La ribellione contro i tiranni non è sufficiente, ma è necessaria: è un passo importante sulla strada verso la libertà religiosa e il rispetto per tutti gli altri diritti umani contro la tirannia lungo tutto il confine meridionale e orientale del Mediterraneo, una tempo roccaforte della prima chiesa cristiana da Antiochia ad Alessandria e Ippona. Alcuni obiettano che queste battaglie oggi sono rivolte contro la tirannia, ma non per la democrazia ne’ per i diritti umani o per la libertà religiosa. Il che potrebbe essere vero.

Tuttavia Benjamin Franklin nel 1776 dichiarò che «La ribellione contro i tiranni è obbedienza a Dio». La ribellione contro i tiranni non è una visione sufficiente, ma è necessaria e è anche un passo importante sulla strada verso la libertà religiosa e il rispetto per tutti gli

altri diritti umani. E questo piccolo passo, combinato con altri fattori di secondo piano, ci consente di compiere quello che alcuni potranno considerare una previsione ardita, anche se io non la considero affatto ardita. La mia previsione è questa: entro il 2020, una dura e dolorosa esperienza umana condurrà i Paesi islamici del Bacino Mediterraneo a far sentire forti le loro richieste di Democrazia, Diritti Umani, Libertà Individuale e dignità di ogni uomo, donna e bambino musulmano. Entro il 2020, i popoli islamici grideranno pubblicamente in favore di regimi che consentano a uomini e donne di agire con riflessione e arbitrio, e di vivere come persone libere e adulte e responsabili, e sono desiderosi di manifestare la loro iniziativa e creatività senza precedenti. Ci sono molte buone ragioni, non sempre portate alla luce, che suggeriscono che è probabile che questa previsione diventi realtà.

«Ma dai…» qualcuno di voi potrà dire. «Non esiste alcuna tradizione di sviluppi simili nel Medioriente islamico». È vero, nell’islam esistono solo deboli tradizioni per una possibilità di uno “sviluppo della dottrina”. Tuttavia… Sin dal 1991, un grande numero di astuti osservatori arabi ha notato che il susseguirsi di parziali successi elettorali, il veloce e riuscito rovesciamento di Saddam Hussein, il megalomane e sadico tiranno dell’Iraq, avevano stimolato la pubblicazione di molti più libri e articoli nel mondo arabo su libertà, diritti umani, e democrazia rispetto ai precedenti cinquecento anni. È come se milioni di persone che assistevano a questi eventi dalla televisione, improvvisamente si fossero chieste perché non possiamo governarci con il nostro stesso consenso? Perché non possiamo raggiungere una risoluzione costituzionale tra l’islam e

lo Stato, in cui ognuno si impegna a evitare che l’altro predomini sulle nostre società? Inoltre, desidero fare altre due previsioni di percorsi su cui questo sviluppo di dottrina, sia religioso che politico, riuscirà lentamente ma inesorabilmente a guadagnare potere negli stati arabi. Il primo percorso è il lento e lungo sviluppo di cinque o più principi ben radicati nella teologia islamica e nella pratica concreta da molti secoli.

Sarebbe sbagliato sviluppare in dettaglio i molti fattori che operano nella fede e nella pratica dell’islam oggi. Queste esperienze politiche e storiche si sono manifestate lungo i tre maggiori continenti dall’Estremo Oriente al Medioriente all’Africa, in decine di vari territori musulmani, in molti climi, in una ricca varietà geografica e topografica, in storie culturali e politiche ampiamente diverse. Il corpo dell’esperienza pratica vissuto attraverso le culture islamiche per più di un millennio è immenso e variegato. Chiunque oggi parli di cultura islamica come una sola cosa, commette un enorme errore intellettuale. Anche se brevemente, ho raccontato molte di queste diversità nel mio libro “Noi, voi e l’Islam”. Vorrei citarne due o tre passaggi, per soffermarmi su due forti caratteristiche del pensiero musulmano. La prima riguarda l’alto concetto di trascendenza che la teologia musulmana ha da tempo riverito ad Allah; la seconda riguarda l’ipotesi raccolta nell’etica dell’islam, secondo cui il fatto fondamentale nella vita religiosa e morale islamica è la libertà personale. Sulla prima caratteristica: Allah è così grande, al di là di qualsiasi misura, al di là di qualsiasi paragone, che la sua grandezza è un avviso per qualsiasi portavoce mortale della sua stessa miopia e inadeguatezza di fronte ad Allah. La


il saggio

grandezza di Allah relativizza tutte le pretese umane. Non importa quanto un essere umano sia ricco o potente, paragonato ad Allah, non è niente. “Allahu Akbar!” apre la mente alla possibilità che sono Allah conosce tutti i percorsi che conducono a lui, e tutte le donne e gli uomini farebbero bene a rispettare la libertà di coscienza religiosa di tutte le persone. Per i musulmani l’islam è la sola vera religione, ma nessun musulmano può affermare di conoscere tutti i percorsi misteriosi su cui Allah conduce tutte le altre persone della terra. Storicamente, la supertrascendenza della dottrina islamica di Dio non è stata resa prominente come avrebbe dovuto. Ma forse ha trovato un terreno incolto per molti anni, così la sua vera bellezza potrà – come sta accadendo – sbocciare in una ritardata primavera per l’islam e per tutto il mondo. A questo proposito, vorrei citare ancora una sorprendente osservazione accademica.

«Se Dio avesse voluto, vi avrebbe sicuramente resi un unico popolo, con un’unica fede, ma non lo ha fatto. Dio ha voluto mettervi alla prova. Cercate quindi di competere l’uno con l’altro in buone azioni. A Dio ritornerete, tutti insieme. E Dio vi dirà la verità sulle questioni delle vostre dispute». (Mumtaz Ahmad,“Islam e la Libertà religiosa”, citato in “Noi,Voi e l’Islam”). L’islam parla continuamente di ricompense e punizioni, non solo dopo la morte ma anche nella vita terrena. Queste affermazioni non hanno alcun senso se la teologia musulmana non prevede la scelta personale, su cui queste ricompense e punizioni sono ripartite. La dottrina di libertà e responsabilità personali può rimanere implicita, nella tradizione e catechesi musulmane. Ma senza di questa come fondamento, la predicazione dell’islam sulla ricompensa contro la punizione non ha alcun senso. Per esempio, come scrisse Ismail al-Faruqi nel 1992: La realizzazione della sua vocazione è l’unica condizione che l’islam conosce per la salvezza dell’uomo. Se non è per sua azione, non ha valore. Nessuno può agire per conto dell’altro, nemmeno Dio, senza che questi venga reso un burattino. Ciò deriva dalla natura dell’azione morale, che non è morale finché non è intesa e intrapresa liberalmente da un agente libero. Senza l’iniziativa e lo sforzo di un uomo, qualsiasi morale o valore crolla. Sebbene siano diverse, le culture musulmane in tutto il mondo condividono decine di caratteristiche radicate nella loro tradizione scritturale e teologica – risorse culturali che rendono queste impostazioni ospitali per le trasformazioni democratiche. Un numero di studiosi le hanno individuate e le hanno analizzate. Ad esempio Bernard Lewis segnala cinque caratteristiche della cultura mu-

2 luglio 2011 • pagina 25 Dalla pagina a fianco, in senso orario: manifestanti per le vie di Marrakech e al Cairo; un rabbino sotto la cupola di al Aqsa; al Zawahiri e bin Laden; una manifestazione pro-democrazia in Giordania

sulmana. La prima: «La tradizione islamica disapprova fortemente la regola arbitraria». Lewis aggiunge che nella tradizione islamica l’esercizio del potere politico è concepito come «un contratto, che crea legami di obbligo reciproco tra chi governa e chi è governato». Altri scrittori enfatizzano su questo punto i grandi sforzi che ci si aspetta compiano i governatori musulmani per raggiungere un consenso in tutti i rami della società. La seconda risorsa secondo Lewis è il bisogno di un continuo consenso: «Il contratto può essere scisso se il governatore non riesce a realizzare o smette di essere in grado di realizzare i suoi obblighi».

La terza riguarda la nozione islamica di disobbedienza civile, ovvero «se il sovrano ordina qualcosa che è peccato, il dovere di obbedienza decade». Un Hadit dice: «Non obbedite a una creatura contro il suo Creatore», un altro aggiunge: «Non esiste alcun dovere di obbedienza nel peccato». La quarta risorsa riguarda il principio di accettare la diversità. Come dice il profeta, «la differenza di opinione all’interno della mia

Entro 10 anni i popoli islamici grideranno in favore di regimi che consentano a uomini e donne di agire con riflessione e arbitrio, e di vivere come persone libere e adulte e responsabili comunità è segno della misericordia di Dio». La quinta risorsa è l’importanza tradizionale sulla dignità e l’umiltà di tutti i cittadini. La dignità dà a tutti i cittadini un posto e un diritto per essere considerati. L’umiltà si applica sia ai grandi e potenti che alle persone normali. La trascendenza del Creatore Onnipotente è un efficiente equalizzatore. Allo stesso, nel saggio “Rianimare il liberalismo del Medio Oriente”, Saad Eddin Ibrahim sottolinea il periodo tra il 1850 e il 1952 che vide la nascita in Egitto di un’età liberale, luce del moderno mondo musulmano.

In quel periodo, la società civile era definita come «uno spazio libero in cui le persone possono riunirsi, lavorare insieme, esprimersi, organizzare, e perseguire interessi comuni in maniera aperta e pacifica». Infine, uno dei più importanti studiosi musulmani negli Stati Uniti, Khaled Abou El Fadl della Scuola di Legge dell’UCLA, ha riassunto molti dei suoi scritti sugli sviluppi musulmani in libertà religiosa, democrazia e diritti umani in un breve paragrafo che vale la pena citare: «Il mio discorso per la de-

mocrazia si basa su sei idee basilari: 1) Gli esseri umani sono i vice di Dio in terra; 2) questa vicegerenza è la base della responsabilità individuale; 3) la responsabilità individuale e la vice gerenza sono la base dei diritti umani e dell’uguaglianza; 4) gli esseri umani in generale, e in special modo i musulmani, hanno un obbligo fondamentale di favorire la giustizia (e più in generale a comandare il bene e proibire il male) , e di preservare e promuovere la legge di Dio; 5) la legge divina deve essere distinta dalle fallibili interpretazioni umane.; e 6) lo stato non dovrebbe pretendere di rappresentare la sovranità e la maestà divine». Il materiale fin qui rappresentato anche se brevemente è molto ricco, e inesplorato da tematizzazioni e attenti sviluppi teorica. Un enorme quantità di lavoro per realizzare questa esplorazione teorica e questa formulazione spetta a questa e alla prossima generazione.Torniamo ora al secondo propellente di rapido sviluppo di dottrina.

Il secondo percorso è quello che chiamo Via Negativa che è costituita da forte persecuzione, violenza e sofferenza. È vero che negli ultimi 60 anni, dopo la Seconda Guerra Mondiale, i diritti umani di alcuni popoli, tra cui i musulmani mediorientali, sulla Terra sono stati trascurati da buona parte del mondo. I sovietici non riuscirono a difendere i diritti dei popoli in Medioriente, e allo stesso tempo rinnegavano i diritti della loro gente. I Paesi occidentali non intendevano creare un tumulto sociale e politico in una regione la cui strategica posizione fra i tre grandi continenti era di importanza così delicata per le società libere. La popolazione delle società arabe fu lasciata da sola a soffrire per mano di leader crudeli e senza pietà, sotto un serrato controllo di uomini della polizia segreta del regime, di agenti di sicurezza delle giurisdizioni locali e della polizia religiosa. Le libertà di intere popolazioni furono limitate al massimo. I musulmani soffrivano senza empatia, senza considerazione e soprattutto senza alcun sollievo dall’esterno. Per essere ancora più chiari, milioni di arabi sono morti per mano della violenza negli ultimi 60 anni. Centinaia di migliaia di persone sono marcite in prigioni orribili. In alcune zone, tutti i segnali di vita civile indipendente sono stati soffocati. La pressione di questa intensa sofferenza probabilmente sarà l’incentivo più potente per trovare una nuova politica di libertà e dignità in Medioriente. La Via Negativa insegnerà che nessuno sviluppo di dottrina astratta può andare bene – come è sempre stato nella storia passata – e che grandi sofferenze hanno portato ad un rapido sviluppo di una dottrina religiosa e politica, e così sarà anche qui. La natura umana da sola la sosterrà.


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grandangolo Esce “L’amico Putin, l’invenzione della dittatura democratica”

Tutta la storia di Putin. Un manuale per diventare dittatore

Sbeffeggiato dai compagni d’arme per non essere riuscito a farsi nominare colonnello, il timido e pallido agente del Kgb entra nelle grazie della “Famiglia”, il gruppo di potere che circonda l’allora presidente Yeltzin, che si impegna a difendere. E alla fine degli anni 90, una serie di esplosioni (sospette) lo consacra uomo forte della Russia di Luisa Arezzo lla scadenza del secondo mandato del presidente Yeltsin, la cerchia di alti ufficiali di Stato e finanzieri che determinava la politica russa del tempo cercava un erede, una persona che avrebbe permesso loro di continuare a controllare il Paese. Putin sembrava avere le qualità necessarie, ma era sconosciuto ai più, e gli abili politologi del Cremlino si misero al lavoro per crearne l’immagine più appropriata. Ma a loro insaputa anche un gruppo di ex agenti del Kgb lavorava a pieno ritmo al cosiddetto progetto Putin. A settembre di quell’anno, il 1999, alcune esplosioni distrussero una serie di palazzi a Mosca e in altre due città, provocando più di trecento vittime. Chi erano i misteriosi terroristi? Le autorità puntarono subito il dito sui ceceni (anche se diverse fonti sostengono che la responsabilità fosse dell’Fsb, l’erede del Kgb sovietico). Prima della fine del mese fu dato il via alla seconda campagna cecena. Con l’ascesa della violenza nel Caucaso, la popolarità di Putin crebbe: da allora la Russia non sarebbe stata più la stessa.

A

Il settantotto per cento degli uomini al potere, in Russia, è costituito da agenti del Kgb. In una decade Putin ha messo la stampa sotto controllo, ha eliminato tutti gli avversari politici e ha fatto approvare leggi che gli permettono di manovrare qualsiasi risultato elettorale. Sul pugno di ferro con cui lo Zar governa la Russia tanto è già stato scritto, ma per capire davvero tutti i passaggi che han-

no permesso a uno sconosciuto tenente colonnello di raggiungere, dopo la direzione del servizio segreto, l’alta carica di primo ministro di Yeltzin e poi di suo successore al Cremlino, bisogna leggere “L’amico Putin – l’invenzione della dittatura democratica” (Aliberti editore) – di Francesca Mereu. Giornalista tenace, che oltre a scrivere per liberal pubblica i suoi articoli sull’International Herald Tribune e il New York Times e che ha lavorato e vissuto a Mosca per più di dodici anni. Autrice di un dizionario russoitaliano, ha messo in cantiere questo libro già alcuni anni fa, ma per scriverlo con calma è dovuta andare in Germania.

Fu Berezovsky a scegliere di puntare su di lui: «All’epoca era un nostro amico... Ho compiuto un grosso errore» Le sue indagini a Mosca non erano gradite: troppe domande, troppi incontri, troppo tutto. Da dove è spuntato - si è chiesta la Mereu - questo pallido uomo che ha inventato la “dittatura democratica” e che aveva passato una vita a Dre-

sda, nella Germania orientale comunista, come ufficiale di collegamento fra la Stasi e il Kgb? Partendo da qui, e grazie a una minuziosa ricostruzione corroborata da decine di intrviste, la Mereu prova a svelare dall’interno le impressionanti vicende legate all’ascesa e al consolidamento del potere dello Zar e la sua modernissima presa del potere. Quello che emerge è la storia di un complotto, di un sistema, di un piano svolto e realizzato con metodo implacabile.

Ecco le tappe di quella improvvisa e folgorante carriera. Nel maggio del 1998 «Yeltzin aveva nominato Putin vicecapo dello staff presidenziale responsabile delle regioni, in luglio direttore dell’Fsb, in ottobre membro permanente del Consiglio di Sicurezza e nel marzo del 1999 suo segretario. Una carriera in continua ascesa: il timido Vladimir era riuscito come nessun altro a conquistarsi i favori di Yeltzin». Ma questo a Vladimir Vladimirovic non era sufficiente. Perché “papà” Boris, a causa della salute cagionevole e notoriamente alcolista, diventava sempre più lunatico. E assente dalla scena pubblica. Per perseguire il suo disegno il tenente colonnello Putin, all’inizio “sbeffeggiato”e apostrofato come l’uomo che non era riuscito a diventare colonnello, capisce che per conquistare il potere deve prima conquistare la fiducia e il sostegno incondizionato dell’intero clan del vecchio presidente, la cosiddetta Semya, la Famiglia. La famiglia era formata dalla ristretta cerchia di alti fun-

zionari di Stato e finanzieri che determinavano a quell’epoca la politica russa. I maggiori esponenti della Famiglia erano: la figlia del presidente e sua conisgliera, Tatyana Dyachenko; il compagno (ora marito) della Dyachenko, Valentin Yumashev; gli oligarchi Boris Berezovsky e Roman Abramovich, oggi patron del Chelesa e assurto agli onori internazionali. E infine il giovane riformista Anatoly Chubais che, come direttore del Comitato della proprietà dello Stato, aveva diretto il programma di privatizzazione dei beni statali. Ferrea anche la divisione dei compiti: Tatyana era il perno attorno cui tutto l’ingranaggio ruotava, Valentin, suo marito un tessitore di rapporti, Boris il grande stratega politico e Roman il cassiere, visto che curava gli interessi finanziari della famiglia. Tutti loro avevano letteralmente privatizzato lo Stato tramite un’oculata collocazione dei propri uomini nei posti chiave durante il regno di Yeltzin diventando ricchi e potenti. E ora alla vigilia di un cambio di regime, erano alla ricerca di un erede che garantisse loro il mantenimento dello status quo. Un erede capace di garantire obbedienza alla Famiglia. E che si sentiva franare la terra sotto i piedi come non mai, anche grazie all’operato di un procuratore generale, a Mosca, che non andava per il sottile con tutti loro. Il suo nome era Yuri Skuratov, che sostenuto dall’allora primo ministro Primakov, aveva dato il la a un’indagine per corruzione che coinvolgeva personalità di primissimo piano.


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e di cronach

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Una sorta di mani pulite in salsa russa, ecco cosa si stava paventando a Mosca.

Per la Famiglia un incubo, che prevedeva la riconsegna allo Stato dei beni di cui si era impossessata con le privatizzazioni selvagge degli otto anni precedenti. Skuratov andava fermato e loro ci avevano più volte provato, ma senza successo. Lo stessoYeltzin, seppur annebbiato dall’alcol, scese in campo chiedendo esplicitamente le sue dimissioni, incontrando però il rifiuto della camera alta del Parlamento. Erano gli anni - fa capire la Mereu scrivendo - in cui il consiglio federativo conservava ancora un’autonomia di lavoro. La tenacia di Skuratov apparve al 45enne tenente colonnello come la chiave di volta delle sue ambizioni per farsi accettare dalla Famiglia. «Alla scuola del Kgb agli agenti veniva insegnato che chiunque può essere incastrato, perché non esiste persona che non abbia il suo scheletro nell’armadio. O comunque sarebbe stato compito di un bravo agente fabbricarne uno». Putin, allora capo dell’Fsb, decise di applicare questa regola e mise alle calcagna di Skuratov una squadra ad hoc. Il compito fu pù semplice del previsto: il procuratore generale amava le belle donne, facile presentargliene due e poi filmare l’amplesso di nascosto. L’arma del ricatto era pronta, Skuratov venne convocato da Putin ma non si dimise. La cassetta (secondo una fonte dell’autrice consegnata di persona dallo stesso Vladimir Vladimorovic) finì integralmente in onda il 17 marzo 1999. Il tempo di Skuratov era terminato, non era più credibile e con lui nemmeno le sue indagini. Restava Primakov, in quegli anni davvero molto popolare, tanto da ambire alla presidenza. «Secondo un sondaggio di Vtsiom, condotto il 27 -30 marzo, il 64% dei russi era pronto ad appoggiarlo se si fosse candidato al Cremlino, mentre soltanto il 6% avrebbe votato per Yeltzin». Peccato che Primakov, al forum mondiale di Davos di quell’anno, avesse detto di voler liberare più di novantamila detenuti per sostituir-

li con imprenditori. La famiglia era nel panico. Yeltzin reagì sostituendo Primakov dopo solo 8 mesi, ma era senza dubbio un rimedio nell’immediato. In assenza di un’alternativa, Primakov li avrebbe schiacciati. Fu Berezovsky a scegliere di puntare su Putin: «Putin era allora un amico e mai avrei potuto immaginare che una volta salito al potere avrebbe messo il Paese sottosopra. - dice all’autrice - Ho fatto un grosso errore, succede a tutti». Berezovsky era una vera potenza alla fi-

Gli attentati nella capitale del 1999 furono imputati ai ribelli di Cecenia e Daghestan. Oggi le indagini puntano invece sull’Fsb ne degli anni Novanta, oligarca di stampo russo era diventato il proprietario della compagnia petrolifera Sibneft e il maggiore azionista del canale Tv Ort, primo strumento di propaganda di Yeltzin (assieme al canale statale Rtr e Ntv dell’oligarca Gusinsky) e a convincere la Famiglia di puntare su di lui. Detto fatto, nell’agosto del 1999 Yeltzin nominò il quinto premier in diciassette mesi, annunciando al contempo che sarebbe diventato il suo successore. «Putin accettò la sfida di buon grado: siamo soldati, disse, la decisione è stata presa e la porteremo a compimento». Ma se la poltrona era stata occupata, bisognava adesso far conoscere Vladimir Vladimirovic alla Russia, altrimenti non sarebbe mai potuto diventare presidente. Sono queste forse le pagine più oscure della sua presa del potere, visto che è grazie a una serie di attentati avvenuti a Mosca nel 1999 provocando cen-

tinaia di vittime e gettando nel panico la cittadinanza, che Putin è salito alle cronache come l’unico vero salvatore del Paese. Le indagini indicarono nei mandanti i leader della dissidenza del Daghestan e della Cecenia, da lì a lanciare la campagna contro i terroristi di Grozny bastò pochissimo. Putin si vestì da aviatore e pilotò il caccia sulla capitale cecena per stanare i terroristi che avevano messo a ferro e fuoco la città. Peccato che alcune indagini, poi messe a tacere, mostrarono che forse furono proprio gli uomini dell’Fsb a collocare gli esplosivi. Ma queste voci si persero nel nulla, mentre la popolarità di Vladimir, toccando punte del 78%, lo portarono dritto dritto a vincere le presidenziali al primo turno con il 53% dei voti.

Da quel momento in poi la sua ascesa sarà inarrestabile (come ben riporta la Mereu, capitolo dopo capitolo). Mentre molte delle persone che cercarono di capire che cosa fosse veramente successo in quel settembre del 1999 sono state assassinate. Il deputato Sergei Yushenkov, che era il vicecapo della commissione indipendente, è stato ucciso a Mosca nell’aprile del 2003 davanti al portone del caseggiato in cui viveva. A luglio dello stesso anno è morto il deputato e giornalistaYuri Shchekochikhin, un altro membro della commissione. Ufficialmente la morte è stata attribuita a un’allergia, ma i colleghi di Novaja Gazeta, il giornale per il quale scriveva, sono sicuri che sia stato avvelenato. Shchekochikhin, dicono, aveva manifestato sintomi simili a quelli di Litvinenko. Oltre che sugli attentati, Shchekochikhin indagava su altri loschi affari che coinvolgevano alti ufficiali dell’Fsb. Litvinenko, che nel 2003 ha pubblicato i risultati della sua indagine in un libro, accusando l’Fsb di essere l’artefice delle esplosioni, è stato avvelenato a Londra nel 2006 con il polonio 210. La giornalista Anna Politkovskaya è stata freddata nell’ascensore del suo palazzo nell’ottobre del 2006.

Collaboratori Maria Pia Ammirati, Mario Arpino, Bruno Babando, Giuseppe Baiocchi, Osvaldo Baldacci, Sergio Belardinelli, Stefano Bianchi, John R. Bolton, Mauro Canali, Franco Cardini, Giuliano Cazzola, Enrico Cisnetto, Claudia Conforti, Renato Cristin, Francesco D’Agostino, Anselma Dell’Olio, Gianfranco De Turris, Rossella Fabiani, Pier Mario Fasanotti, Marco Ferrari, Aldo Forbice, Antonio Funiciello, Giancarlo Galli, Pietro Gallina, Aldo G. Ricci, Filippo La Porta, Maria Maggiore, Paolo Malagodi, Gennaro Malgieri, Marzia Marandola, Andrea Margelletti, Adriano Mazzoletti, Gabriella Mecucci, Roberto Mussapi, Francesco Napoli, Ernst Nolte, Antonio Picasso, Leone Piccioni, Francesca Pierantozzi, Daniel Pipes, Marina Pinzuti Ansolini, Gianfranco Polillo, Loretto Rafanelli, Franco Ricordi, Carlo Ripa di Meana, Roselina Salemi, Emilio Spedicato, Maurizio Stefanini, Davide Urso, Marco Vallora, Sergio Valzania Società Editrice Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Amministratore Unico Ferdinando Adornato Concessionaria di pubblicità e Iniziative speciali OCCIDENTE SPA Presidente: Emilio Bruno Lagrotta Amministratore delegato: Raffaele Izzo Consiglio di amministrazione: Ferdinando Adornato, Vincenzo Inverso, Domenico Kappler, Antonio Manzo Angelo Maria Sanza Amministrazione: Letizia Selli, Maria Pia Franco Ufficio pubblicità: 0669924747 Agenzia fotografica “LaPresse S.p.a.” “AP - Associated Press” Tipografia: edizioni teletrasmesse New Poligraf Rome s.r.l. Stabilimento via della Mole Saracena 00065 Fiano Romano Distributore esclusivo per l’Italia Parrini & C - Via di Santa Cornelia, 9 00060 Formello (Rm) - Tel. 06.90778.1 Diffusione Ufficio centrale: Luigi D’Ulizia 06.69920542 • fax 06.69922118 Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro - Annuale 130 euro Sostenitore 200 euro c/c n° 54226618 intestato a “Edizioni de L’Indipendente srl” Copie arretrate 2,50 euro Registrazione Tribunale di Salerno n. 919 del 9-05-95 - ISSN 1827-8817 La testata beneficia di contributi diretti di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni. Giornale di riferimento dell’Udc

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cultura

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Dai dischi a 78 giri a quelli in vinile per la sua “Reprise”, un libro analizza l’opera incisa del mitico cantante italo-americano

E Frank suonò la sua Voice Il jazz fu il primo amore di Sinatra ragazzino, ma la consacrazione arrivò con Duke Ellington e Count Basie di Adriano Mazzoletti uanti libri, articoli di giornali e riviste specializzate o di gossip sono stati scritti su Frank Sinatra è difficile dirlo, di sicuro molte migliaia. Sinatra è stato il personaggio dello show business su cui, più di ogni altro, si sono versati fiumi di inchiostro. Cantante, attore, idolo di milioni si persone in tutto il mondo, ma anche uomo dal carattere violento, spesso vendicativo, con amicizie nel mondo della malavita italoamericana e in quello della politica. Da sempre, però, vicino alle cause per i diritti umani, soprattutto in favore dei neri e dei bambini delle classi disagiate. Quattro matrimoni (Nancy Barbato la donna della sua vita, Ava Gardner, Mia Farrow, Barbara Marx). Tre figli (Nancy, Frank jr., Tina) e un’infinità di storie d’amore vere o presunte, da Grace Kelly a Lauren Bacall, da Juliette Powse a Marylin Monroe, da Lana Turner ad Anita Ekberg, da Angie Dickinson e perfino, si dice Nancy Reagan. Anche se lui stesso ha più volte affermato: «Secondo tutti sono un grande esperto di donne, ma a dire il vero ho avuto molto meno successo di quello che si potrebbe credere. Adoro le donne, le ammiro, ma come qualsiasi altro uomo, non riesco a capirle».

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Tutto si è detto e scritto su di lui, anche cose non vere o inventate di sana pianta. Mancava però un libro dove venisse analizzata compiutamente la sua produzione discografica, dalle prime incisioni con l’orchestra di Harry James alle ultime, che a differenza di molti grandi artisti suoi contemporanei, non denunciano il decadimento. Sull’opera incisa da Sinatra ecco il libro di Francesco Meli Il mio nome è Frank Sinatra. Una leggenda italo-americana appena pubblicato dalle edizioni Arcipelago di Milano. In poco meno di duecento pagine, l’autore analizza molte delle interpretazioni che Sinatra ha lasciato alla posterità conservate in un numero imponente di dischi a 78 giri (i primi con Harry James, Tommy Dorsey, Alex Stordahl), a quelli su vinile per Capitol - sette anni di

grandi successi - e successivamente per Reprise, la casa discografica che fondò nel 1960 «stanco - racconta egli stesso di far arricchire gli altri con la mia voce». Assenti in questa analisi, ma non poteva essere

Decisivo fu per lui il modo in cui Tommy Dorsey suonava il trombone: «Volevo che la mia voce - disse funzionasse come uno strumento»

diversamente, le incisioni del 1945 con la tromba Red Nichols che tanto, negli anni Venti, aveva suonato e inciso con l’altro cantante, il primo di una lunga genealogia di grandi interpreti della canzone americana, quel Bing Crosby di cui Meli riferisce la celebre frase: «Un cantante come Sinatra s’incontra una sola volta nella vita, ma perché proprio nella mia vita?». Assai interessante, invece il giudizio, espresso dall’autore, su Sinatra cantante jazz. In effetti quel ragazzo di Hoboken, figlio di una ligure, Natalia Garaventa detta Dolly, nativa di Rossi di Lumarzo in provincia di Genova e di un siciliano di Palermo, fin da adolescente,

pur facendo i mestieri più umili, sognava di diventare un cantante. Aveva una immensa passione per la musica che veniva trasmessa dalla stazione radio della sua città. Ascoltava la sua coetanea Billie Holiday, Louis Armstrong, Bing Crosby naturalmente, ma era soprattutto affascinato dal quartetto vocale dei Mills Brothers tanto che, con tre amici, aveva formato gli Hoboken Four. Di quella prima esperienza musicale non esistono testimonianze discografiche, si è solo salvata una registrazione discografica in cui Frank e i suoi amici eseguono Dinah, uno dei grandi successi dei Mills, dove già si riconosce quella voce che di lì a poco sarebbe diventata la voce stessa dell’America. Fra le molte incisioni, le più interessanti per un impegno jazz, Meli indica soprattutto quelle i cui arrangiamenti sono di Billy May e Sy Oliver, eccellenti solisti di tromba e arrangiatori di grande valore, oltre agli album con Count Basie e Duke Ellington. Aggiungerei anche le incisioni che Sinatra aveva realizzato già nel 1954 con l’orchestra di un’altra tromba, Ray Anthony, musicista di origine italiana il cui vero nome era Raimondo Antonini, che già nel 1938 aveva fatto parte della sezione trombe delle orchestre di Sam Donahue e Glenn Miller e che nell’immediato dopoguerra ne aveva formata una propria. Gli arrangiamenti di Anthony avevano la capacità rara di unire modi della musica popular e del jazz, che colpì favorevolmente Sinatra in cerca di nuove sonorità. Ray Anthony, della cui orchestra facevano parte eccellenti musicisti jazz, il pianista Paul Smith e il batterista Alvin Stoller, modernizzò e rese attuale la scrittura che caratterizzava l’orchestra di Tommy Dorsey del 1940, dove Sinatra era relegato nella semplice veste di crooner, il cui stile era però così diverso da quello dei suoi colleghi dell’epoca. Fu lo stesso Sinatra a spiegare

Tre immagini di Frank Sinatra in epoche diverse. Nella colonna a destra, con Count Basie, Ava Gardner, Bing Crosby, Marylin Monroe, Quincy Jones, Diana Ross, Pavarotti e Montserrat Caballé. Accanto la copertina del libro di Francesco Meli

quella diversità: «Quello che più mi ha influenzato è stato il modo in cui Tommy Dorsey suonava il trombone. Volevo assolutamente che la mia voce funzionasse proprio come un trombone o un violino; non volevo che il suono fosse lo stesso, ma volevo “suonare” la voce come quegli strumenti». Con Anthony incise pagine memorabili, Can’t we be Friends?, What is this thing called love, When your Lover has Gone, temi cari anche ai musicisti jazz, oltre all’ellingtoniano Mood Indigo. Dal canto suo Billy May che aveva fatto anch’egli parte, dalla fine degli anni Trenta, di importanti orchestre swing quali Charlie Barnet e Glenn Miller, dal 1950 aveva iniziato a scrivere arrangiamenti per un’orchestra che aveva appena costituito. I glissando all’unisono eseguiti dalla sezione sassofoni, sono quasi un marco di fabbrica del suo stile che tanto interessò Sinatra. Ridurre tuttavia a questo l’opera di May significherebbe trascurarne una parte importante: quella che firma, prima con Barnet, in seguito con Miller, partiture di notevole valore.

Sinatra incaricò May di realizzare gli arrangiamenti per alcuni long-playing pubblicati da Capitol nel 1957, 1958 e 1961. Capolavori come Come Fly with Me, Autumn in New York, Moonlight in Vermont, Day By Day o Paper Doll (omaggio ai Mills Brothers suoi idoli giovanili), non solo fanno di Sinatra un autentico can-


cultura

tante jazz, ma sono i presupposti di un cambiamento. Le pagine scritte da Ray Anthony e Billy May, pur diverse, riflettono la tradizione delle grandi orchestre swing bianche degli anni Quaranta. Quando Sinatra decide di rivolgersi a Sy Oliver, specialista della sordina wa wa, uno dei primi e più grandi arrangiatori che abbia conosciuto la storia del jazz, creatore di quello «stile Lunceford» a cui, eccetto Duke Ellington e Count Basie, si ispirarono tutte le grandi orchestre, il suo stile subisce una decisa inclinazione verso la musica nera. In The One I Love belongs to Somebody Else, ad esempio, canzone scritta nel 1924 da Isham Jones e Gus Kahn, Sinatra duetta con Sy Oliver, come sarebbe poi successo con Armstrong. Quando - prima nel 1962 e infine nel 1964 - incide tre album, due con Basie e uno con Ellington, preceduti di poco dallo splendido Sinatra and Swingin’ Brass con arrangiamenti di Neal Hefti, già con Count Basie, la sua consacrazione nel mondo del jazz è definitiva. Anche se Meli, a questo proposito riferisce: «Sia pure con qualche discontinuità - in alcune canzoni vi è segno di una certa stanchezza, in particolare nel fraseggio - l’album è fra i più affascinanti tra quelli che possiamo definire i dischi jazz di Frank». Mentre sul primo dei due al-

bum incisi con Basie, Meli non lesina elogi «Quest’ultimo brano (si riferisce a Please Be Kind, nda), raggiunge una notevole tensione quando Sinatra, del tutto inaspettatamente, si “ferma” e lascia spazio alla band che riporta progressivamente energia fino al momento esatto in cui rientra la voce» - trova «discontinuo, banale e inferiore al primo» il secondo, con arrangiamenti di Quincy Jones. Giudizio, in parte confermato anche da Don De Micheal della rivista Down Beat che conferisce all’album solo due stelle, in netto contrasto con il Readers Poll della stessa rivista dove, nel referendum del dicembre 1964, Sinatra si aggiudica il secondo posto con 1235 voti contro i 1372 di Ray Charles e i soli 847 di Mel Torme.

Nelle prime pagine del suo libro Meli si sofferma sul mondo degli italo-americani all’inizio del secolo, descrivendone l’ambiente e la discriminazione razziale che colpì molti dei nostri migranti al loro arrivo: «Quel che inizia a caratterizzare in quanto gruppo etnico molto definito - spiega Meli - sono una serie di sospetti: in particolare una “propensione” al radicalismo politico e alla criminalità che nel tempo, come è noto, diverrà sempre più organizzata e radicata nel Paese a diversi livelli. Entrambe le “propensioni”

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vengono da subito enfatizzate dai media e considerate eredità di un “vecchio mondo”, particolarmente pericolosa per l’intero assetto sociale». Sinatra e soprattutto i suoi genitori, in quei primi anni, furono certamente oggetto di discriminazione, ma fu la stessa che colpì altri gruppi etnici: irlandesi, polacchi, russi e soprattutto neri. E sappiamo quanto fosse terribile verso questi ultimi. Il volume di Meli che ricostruisce con dovizia di particolari la vita spesso «turbinosa e discutibile» di Sinatra, non accenna ai periodi più o meno lunghi trascorsi in Italia, a cui fu sempre molto legato, tanto da non voler, all’inizio della sua carriera nel mondo dello spettacolo, americanizzare il suo nome come fecero in molti, dal suo fraterno amico Dino Crocetti che divenne Dean Martin, a un numero molto elevato di musicisti, Salvatore Massaro, Giacomo Serrapede, Giacinto Francesca Figlia, Chiarina Bertocci che divennero Eddie Lang, Jimmy Lytell, George Wallington, Frances Wayne. La prima volta che l’orma trentenne Sinatra mise piede sul suolo della sua patria d’origine fu nella notte fra il 6 e 7 giugno 1945, quando giunse all’aeroporto di Pisa, con un volo militare dagli Stati Uniti. Era ancora sconosciuto in Italia, se non per i V disc che aveva inciso durante la guerra, ma vedette incontrastata in America. Giunto a Pisa, si trasferì a Livorno dove diede, allo stadio dell’Ardenza (oggi Armando Picchi) un concerto per i militari americani. Si trasferì successivamente a Foggia, per un altro concerto, questa volta in un hangar dell’aereporto e successivamente al Petruzzelli di Bari. Passò poi una settimana di vacanza a Capri e il 20 giugno a Roma cantò al rest camp alleato che si trovava nella zona dell’ex Foro Mussolini (oggi Foro Italico). Fu anche ricevuto, il 9 luglio, in udienza da Papa Pio XII, anche se la sua fede non era certo incrollabile.

«Non ignoro il bisogno di fede, - disse una volta - sono per qualunque cosa ti permetta di passare bene la notte, siano preghiere, tranquillanti o una bottiglia di Jack Daniels. Quelle di Sinatra furono tra le tante esibizioni, organizzate dall’Uso (United States Organizations), che ingaggiava musicisti americani per le truppe in Italia, soprattutto a Palermo, Bari, Napoli e Roma. Arnold Shaw, uno dei suoi primi biografi scrisse di quel viaggio italiano: «Quando si imbarcò per il suo giro con l’Uso con una piccola compagnia che comprendeva il comico Phil Silvers, l’autore di canzoni Saul Chaplin e il suo accompagnatore, Frank era piuttosto preoccupato dell’accoglienza che avrebbe ricevuto. Un militare americano che fu presente allo spettacolo a Livorno riferì più tardi che la folla non soltanto stipava lo stadio, ma si era arrampicata sugli autocarri che stazionavano lì vicino. Vi erano poche infermiere e Wac (Women’s Army Corps). La maggior parte erano soldati venuti a vedere il perché del chiasso.

«Finalmente arrivò il momento: Silvers fece una bella presentazione di Sinatra. Sinatra era un po’ nervoso… ci fu qualche fischio fra i ragazzi, ma dopo qualche canzone la sua personalità ebbe la meglio e il pubblico cominciò a pensare che era un uomo veramente in gamba. Frank si sentì sollevato e incominciò a scherzare e a mettere in ridicolo l’effetto che aveva sulle ragazzine americane. Tutti si divertirono compreso Frank. Cominciarono ad applaudire man mano che riconoscevano le sue canzoni. Ci voleva del fegato per affrontare quei ragazzi; se conta qualcosa, questo giro dovrebbe giovare molto a Sinatra. Gli giovò senza dubbio, ma non impedì che si facesse un gran chiasso al suo ritorno. Invece di starsene zitto, Frank si mise a sparlare degli spettacoli Uso per la qualità scadente dei complessi mandati all’estero, per il modo arrogante di trattare gli artisti durante il giro e la mancanza di esperienza professionale nel campo dello spettacolo, fra gli uomini dei Servizi Speciali che lo organizzavano.“Ciabattini in uniforme”, fu una delle espressioni che gli furono attribuite e che ebbero una grande diffusione». Pessimo carattere, che si evince dalle sue molte dichiarazioni: «Sono quello che sono e non mi pongo domande. Quando inizi a parlare con te stesso significa che sei infelice, che vuoi cambiare. Io non voglio cambiare. Sono soddisfatto di quello che sono»; «Devi amare la vita, perché la morte è una scocciatura». E sulla sua tomba volle che fosse riportata una frase da una sua canzone: «Il meglio deve ancora venire». Anche questo era Sinatra.


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il personaggio della settimana Secondo l’ultima perizia, non ci sarebbero tracce del Dna di Meredith Kercer sull’arma del delitto

L’angelo e il demone L’abbiamo vista ammiccare, confessare, ritrattare. È passata da spregiudicata tombeuse des hommes a castigata donna di chiesa. Oggi, Amanda Knox torna alla ribalta grazie a un colpo di scena alla Csi di Gabriella Mecucci a vita di due ventenni corre sul filo del cromosoma. Sono Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Hanno già avuto una condanna rispettivamente di 26 e 25 anni di carcere. E ora, due periti nominati dal tribunale hanno abbattuto la “prova principe”. Sostengono che la polizia scientifica ha sbagliato quasi tutto: che sul gancetto del reggiseno di Meredith, la studentessa inglese uccisa a Perugia nel novembre 2007, non ci sono le tracce del Dna di Raffaele e sulla probabile arma del delitto, un coltello, impugnato secondo l’accusa - da Amanda, non ci sono tracce del sangue della giovane assassinata.

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Dna che viene, Dna che va. È incredibile: uno pensa che una testimonianza si può cambiare, che si può smentire anche una confessione, ma che la scienza è scienza. Dovrebbe fornire qualche certezza in più. E invece la “prova principe”si è sbriciolata sotto i colpi di due periti che giudicano l’operato della polizia scientifica - quella che vediamo intervenire con le tute bianche ad ogni delitto e di cui ormai attendiamo i responsi come fosse l’oracolo di Delfi - non è altro che una sequela di errori. Stefano Conti e Carla Vecchiotti - così si chiamano gli specialisti interpellati dalla Corte d’Appello di Perugia - hanno distrutto un mito. È emerso così che nel modo di fare le famose indagini scientifiche esistono diverse scuole di pensiero, diversi protocolli. Basta abbracciare l’uno o l’altro e anche le conclusioni a cui si perviene possono cambiare. La prova scientifica è insomma più labile di quanto si creda. E quella di Conti e Vecchiotti non sarà con tutta probabilità l’ultima perizia. Nei corridoi del Palazzo di

Giustizia di Perugia già circola l’indiscrezione che ne verrà commissionata una terza. Questa volta saranno chiamati i più grandi esperti internazionali. Ed è molto probabile che dirà una cosa diversa dalle precdenti. Speriamo bene, ma la fiducia su gli “sputa certezze” ormai è incrinata e ci assale la nostalgia per quelle belle indagini poliziesche fatte da acuti commissari che arrivavano all’assassino senza dover ricorrere ai laboratori, guardando alla concatenazione dei fatti e alla personalità degli indiziati. E allora raccontiamo questi e in particolare descriviamo la protagonista principale del caso: Amanda Knox. Raffaele Sollecito, infatti, è sempre apparso come una marionetta nelle sue mani: un ragazzotto caduto nella rete della giovane e seducente Circe americana. Intanto, il contesto: Perugia, 160mila abitanti, è una città con due università, diecimila iscritti alla Stranieri e trentamila all’Ateneo italiano. Il centro storico è pieno di camere per studenti e di pub, dove si tira fino a tardi fra alcol, droga, e promesse di sesso. Una sorta di Ibiza, di città viziosa: è questa l’immagine che circola oggi del capoluogo umbro, un tempo conosciuto per essere tranquillo sino alla noia, probo, laborioso, e ingraiano. Insomma, negli ultimi venti anni, è avvenuta una sorta di rivoluzione: Perugia è uno dei tre o quattro centri più importanti dello smistamento di eroina e cocaina, traffico gestito dai nordamericani. C’è poi uno strano e continuo passaggio di terroristi: dall’epoca di Ali Acga sino agli arresti più recenti di gruppi islamisti che si addestravano per gli attentati. Il centro storico, spopolato dalle famiglie, senza più un cinema (hanno chiuso tutti), è diventato un luogo insicuro, mentre sino a trenta anni fa era una sorta di salotto buono: a Corso Vannucci c’era lo “struscio”, tipico della provincia anche dopo le dieci di sera. Naturalmente in estate, che in inverno sull’acropoli della città umbra tira una tramontanaccia tanto famosa da essere citata anche da Dante Alighieri.

In questo scenario si muovono i protagonisti di uno dei delitti più efferati e che più hanno fatto discutere l’opinione pubblica e i media: Bruno Vespa presentò plastici a ripetizione e fece una trasmissione dietro l’altra con audience alle stelle: come per Cogne e per la piccola Sara. Le cose andarono così: in una

rigida sera di novembre, una giovane e bella studentessa inglese, Meredith Kercher, venne sgozzata, dopo che l’assassino, o uno che lo accompagnava, aveva avuto con lei un rapporto sessuale. Non ci sono tracce di violenza carnale, ma da qui a dire che fosse consenziente ce ne corre: potrebbe aver accettato anche solo per paura. Amanda e Raffaele appaiono sin da subito sulla scena del delitto: stanno fuori della casa dove si è consumata la tragedia: sono quei due ragazzi molto carini che si scambiamo tenerezze nelle immagini di repertorio che la tv ha mandato milioni di volte.

Dopo tre giorni la polizia di Perugia fa una conferenza stampa nel corso della quale afferma trionfalmente: «Il caso è chiuso». Che cosa è successo? Amanda ha confessato. A uccidere è stato Patrick, detto Lumumba, un quarantenne gestore di un pub del centro, cultore di musica esotica e datore di lavoro della ragazza americana, che nel suo locale fa la cameriera. L’uomo è rientrato insieme ad Amanda a casa ed è andato in camera con Meredith. Lì, dopo aver fatto l’amore con lei, ha ucciso la studentessa inglese. La cara amica era in cucina e non ha fatto niente per evitarlo: eppure un delitto tanto atroce non deve essere avvenuto in silenzio, nemmeno un grido? Nemmeno un tentativo di fuga? I vicini, invece, testimoniano di aver sentito strillare. Della coppia di “fidanzatini diabolici”, insomma, chi si ritaglia sin dall’inizio un ruolo da protagonista è lei: Amanda. Lui è sempre il suo accompagnatore, stordito dalla sua sensualità «rapace» - così venne dipinta da qualche giornale - l’americanina. Amanda è molto bella e - dicono - parecchio spregiudicata. Ha la faccia d’angelo, un bel corpo e inanella una storia dopo l’altra. Non c’è un ragazzo di quelli che girano per pub, ma anche per le aule dell’Università per Stranieri che non tenti avvicinarla. E lei - parole sue - «si ubriaca» di quella libertà perugina. La coppia di ventenni diventa protagonista sulla stampa di un sesso hard: gira per negozi a comprare lingerie molto trasgressive, parla e straparla di erotismo scatenato. Il tutto a due giorni dall’omicidio della più cara amica. Eros e Tanatos? O insopportabile cinismo? Ce n’è abbastanza però perché Amanda entri nel mirino e insospettisca, oltreché la polizia, anche l’opinione pubblica: quella ragazza di Seattle, città pe-


raltro gemellata con Perugia, è davvero antipatica a tutti. Intanto, matura il primo colpo di scena: la sua confessione viene smentita dai fatti. Patrick non c’entra niente col delitto Meredith: ci sono prove inconfutabili che il titolare del pub nelle ore indicate era altrove. Le testimonianze su questo punto sono incontrovertibili. Il congolese viene così scarcerato subito, Amanda, dal canto suo, denuncia che la confessione le è stata estorta dalla polizia, che è stata spaventata e picchiata. E poi c’è il problema che, essendo di ma-

A questo punto scatta il secondo colpo di scena: nella casa del delitto c’era anche un terzo uomo, la sua presenza è certa. Si trovano «prove biologiche» in bagno. Si chiama Rudy Guede, è un ivoriano ventenne, dalla vita molto trasgressiva, per usare un eufemismo. È scappato subito dopo quella terribile notte, ma viene rintracciato in Germania. E interrogato, appena rientrato, e ammette di essere stato nella camera di Meredith, ma di non averla uccisa. Insomma, per farla breve, il quadro ormai è composto: i tre - Amanda col fi-

Raffaele è apparso un burattino nelle sue mani: un giovane caduto nella rete della Circe americana dre lingua inglese, non ha capito bene che cosa le veniva chiesto. Insomma, tutte le certezze azzerate? No.

È sicuro che gli assassini siano entrati nella casa con le loro chiavi e che abbiano inscenato dall’interno - dopo l’omicidio - un furto. E a poter aprire la porta, senza insospettire Meredith, erano in pochi: prima fra tutti Amanda che ne era la convivente. Poi, la giovane coppia fornisce testimonianze contraddittorie che destano più di un sospetto. E infine viene fuori il Dna del gancetto del reggiseno e del coltello.

danzato Raffaele e Rudy - si trovavano nella stanza da letto della studentessa inglese, e, ad un certo punto hanno cercato con minacce e violenze - probabilmente sotto i fumi dell’alcol e/o sotto quelli della droga - di indurre l’amica a fare sesso hard. Lei si è rifiutata ed è finita in tragedia. È questa la tesi di fondo che sostengono a processo i pubblici ministeri Giuliano Mignini e Emanuela Commodi. E strappano ben tre condanne.

A questo punto si apre un nuovo capitolo del giallo di Perugia che consta di

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La nuova analisi dei periti e i balli in cella

A fianco, un’immagine di Raffaele Sollecito e Amanda Knox, giudicati colpevoli dell’omicidio di Meredith Kercher. In basso, l’ivoriano Rudy Guede, anche lui implicato nel brutale omicidio di Perugia. Nella pagina a fianco, uno scatto di Amanda Knox dopo il suo “cambio d’immagine” durante il primo processo

La vicenda processuale relativa al delitto della giovane Meredith Kercher, avvenuto a Perugia nel novembre 2007, è sempre stato costellato di confessioni, ritrattazioni e soprattutto di colpi di scena. L’ultimo, a oggi il più clamoroso, quello che rischia di rimettere in discussione la colpevolezza di Amanda Knox e Raffaele Sollecito (rispettivamente condannati a 26 e 25 anni di carcere), è arrivato due giorni fa, quando la stampa ha diffuso la notizia che, secondo i periti Stefano Conti e Carla Vecchiotti, che hanno depositato la perizia genetica sul coltello e sul gancetto del reggiseno di Meredith Kercher nell’ambito del processo d’appello ad Amanda Knox e Raffaele Sollecito, «non sussistono elementi scientificamente probanti la natura ematica della traccia B (lama del coltello)». Secondo la polizia scientifica invece, che aveva analizzato i reperti in fase d’indagine, quella traccia era sangue di Meredith Kercher. Se Raffaele Sollecito, tramite il proprio legale, l’avvocato difensore Giulia Bongiorno, si è limitato a sottolineare ironicamente l’errore, «l’ultimo di una lunghissima serie compiuta dagli investigatori e che riapre completamente il caso», Amanda Knox si è scatenata in balli e canti celebrativi, probabilmente conscia del fatto che, a breve, salvo ulteriori colpi di scena, verrà scarcerata in attesa di nuovi e più precisi accertamenti, che hanno coinvolto prima la sua cella e poi l’intera sezione del carcere presso la quale è detenuta, e urlando più e più volte la frase: «Finalmente, adesso mi crederanno, questa è la prova che serviva». Ad ogni modo, nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Perugia già circola l’indiscrezione che ne verrà commissionata una terza. Questa volta saranno chiamati i più grandi esperti internazionali. Ed è molto probabile che dirà una cosa diversa dalle precdenti.

due strategie della difesa. La prima riguarda il radicale cambiamento dell’immagine di Amanda. La giovane nel carcere di Capanne, anziché apparire spregiudicata e un po’ diabolica, diventa amica del cappellano, frequenta la messa, canta le canzoni di John Lennon. Riceve anche le frequenti visite di un giovane parlamentare del Popolo della libertà, Rocco Girlanda, che su questi incontri scrive un libro. Ne viene fuori un ritratto di una ragazza normale che vorrebbe tornare in famiglia e avere un bambino. Che pensa spesso alla sua povera amica Meredith e piange. L’operazione-immagine è attentamente costruita: l’abbigliamento di Amanda al processo è molto semplice, da brava figliola: maglioncini chiari, gonne e pantaloni castigati. E poi ci sono le dichiarazioni commoventi, le proclamazioni strappalacrime sulla sua giovane vita spezzata, e sulla sua convivente barbaramente uccisa, i proclami di innocenza, i sorrisi dolci, i modi timidi. È un’altra Amanda, come riferirà lo stesso Rocco Girlanda. La seconda strategia della difesa è quella che mettono in campo i genitori dell’americanina di Seattle. Negli Stati Uniti i giornali scrivono con insistenza che nel processo di Perugia ci sono solo labili indizi, viene fatto un film, si arriva persino a coinvolgere il segretario di stato Hillary Clinton che, pur dicendo di rispettare l’autonomia e la professionalità della magistratura italiana, fa sentire la sua voce. Un’intensa attività che tocca anche alcuni grandi settimanali italiani. Sia chiaro: sono opinioni e come tali del tutto legittime. E chi più che la famiglia è autorizzata a difendere una figlia finita in una situazione altamente drammatica?

Fra campagne stampa e apparizioni celestiali di Amanda, versione brava ragazza, si arriva al processo di Appello. E qui c’è un terzo colpo di scena: Alessi, l’efferato assassino che ha rapito e ucciso il piccolo Tommy, va in aula per raccontare che Rudy Guede - in carcere con lui - gli ha raccontato che la notte dell’omicidio di Meredith, Raffaele Sollecito e

Amanda Knox non c’erano. Si tratta di un vero autogol della difesa e non solo perché il teste viene giudicato inattendibile, ma soprattutto perché l’ivoriano, che certamente a casa della studentessa inglese c’era, finalmente afferma senza alcun dubbio, che insieme a lui erano presenti anche Raffaele e Amanda. E che non è stato lui ad uccidere.

Infine, il quarto colpo di scena che mette in discussione ogni certezza legata alle “prove scientifiche”. Dopo la lettura della perizia, raccontano che Amanda abbia passato la notte successiva nel carcere di Capanne ad esultare e a cantare. Ha affermato. «Adesso finalmente mi crederanno». Un colpo mortale all’accusa? Difficile a dirsi, quando si tratta di un caso che ci ha abituato a continui ribaltamenti. Non resta che aspettare il prossimo colpo di scena. Chi favorirà?


ULTIMAPAGINA Hu Jintao avverte: «Basta con la corruzione, rischiamo di sparire»

La Cina in festa, il Partito comunista fa di Vincenzo Faccioli Pintozzi

lle celebrazioni per i 90 anni del Partito comunista cinese (Pcc), che si sono svolte ieri in tutto il Paese, il Politburo non ha festeggiato. Il presidente Hu Jintao ha messo infatti in guardia i membri del Pcc, dicendo che il Partito è segnato da “crescenti sofferenze” e che la corruzione sempre più grande spinge la gente a perdere la fiducia in esso. Hu ha espresso queste idee davanti a migliaia di leader e membri radunati nella Grande Sala del popolo per celebrare la fondazione del Pcc nel 1921. Le sue parole sono sembrate stonate nel mezzo della frenesia che da mesi caratterizza la Cina, con celebrazioni, spettacoli, canzoni, film, libri, show televisivi sull’eroismo e sui grandi risultati del Partito. Hu ha detto che “l’incompetenza” di alcuni membri “separati dal popolo”ha creato problemi e per questo è importante che “il Partito imponga una disciplina ai suoi membri”. In particolare, egli ha sottolineato che «punire e prevenire la corruzione è la chiave per vincere o perdere il sostegno del popolo, per la vita e la morte del Partito». E ancora: «La lotta contro la corruzione rimane seria e il compito è ancora arduo… La corruzione costerà al Partito il sostegno e la fiducia del popolo». Seppure stonato rispetto all’entusiasmo ufficiale sui 90 anni del Pcc, il discorso di Hu Jintao non è nuovo. Ogni anno lui e il suo premier Wen Jiabao predicano contro la corruzione e esigono ubbidienza alle regole interne, ma i risultati sono

A

realtà, la riunione fondativa è avvenuta il 23 luglio a Shanghai. Sotto la guida di mao Zedong, ha preso il potere nel 1949, dopo una lunga guerra civile con i nazionalisti di Chiang Kaishek, e con l’aiuto di Stalin.

Nel ’58 Mao ha lanciato la campagna del Grande Balzo in avanti, per potenziare la produzione industriale, facendo abbandonare le campagne e producendo una carestia che ha portato alla morte fra i 35 e i 50 milioni di cinesi. Dal 1966 al ’76 ha lanciato la crociata della Rivoluzione culturale, in cui milioni sono morti e decine di milioni sono stati incarcerati. Dopo la morte di Mao, nel 1976, grazie a Deng Xiaoping, il Paese si è lanciato nelle modernizzazioni che lo ha portato ai successi economici attuali. Il potere rimane nelle mani di un piccolo

NOVANTA gruppo del Partito, che continua ad esercitare il pugno di ferro verso tutti coloro che dissentono, controllando media, polizia e l’esercito più grande del mondo. Ma la “tristezza” delle celebrazioni ufficiali non ha colpito i festeggiamenti “di facciata”nel resto del Paese. In molte città della Cina sono in atto manifestazioni, canti, film, mostre e cerimonie per celebrare i 90 anni del Partito comunista cinese, il cui anniversario cade domani. Di per sé, già nel 1920 esistevano cellule comuniste in almeno 4 città della Cina, ma la storia ufficiale stabilisce che il Partito è nato il 1° luglio 1921 a Shanghai, alla presenza di 50 persone, con l’assenza di Mao Zedong e con il sostegno di emissari della Russia bolscevica. In prossimità dell’anniversario il messaggio del Partito per il popolo è di “amare il Partito, amare la nazione, amare il socialismo”. Per questo, il direttore dell’Ufficio di propaganda. Li Changchun, ha dato ordine ai media controllati dallo Stato di creare «una densa atmosfera di solennità e ardore, gioia e pace, unità, progresso e sviluppo scientifico». Così, da mesi e mesi, vi sono spettacoli teatrali e di canti rivoluzionari, sui quali spicca il famoso “L’oriente è rosso”, che celebra “l’eternità”di Mao Zedong. Molte province hanno perfino indetto concorsi per le migliori canzoni o performances. Oltre alle “canzoni rosse”, vi sono anche rassegne di “film rossi” e di “libri rossi”, oltre a il “turismo rosso”. Quest’anno sono almeno 28 i film consigliati ai giovani, che nar-

La crescita economica ha portato il Paese verso lo sfruttamento delle persone, l’inquinamento dell’ambiente, le tangenti e un abisso fra ricchi e poveri fra i maggiori di tutto il mondo

minimi. Un rapporto della Banca centrale di Cina, pubblicato alcune settimane fa, afferma che in meno di 20 anni almeno 18 mila cinesi dell’establishment sono fuggiti all’estero portando con loro circa 800 miliardi di yuan (pari a 87,24 miliardi di euro) guadagnati con la corruzione. Il Pcc è stato fondato ufficialmente il 1° luglio 1921 da un gruppo di intellettuali. In

rano il patriottismo di eroi ed eroine, con pellicole “storiche”a cui hanno partecipato attori fra i più famosi di Hong Kong,Taiwan, e della Cina. Il “turismo rosso” si svolge con “pellegrinaggi” a Yanan (Shaanxi, la “culla della rivoluzione”), a Shaoshan (Hunan), patria di Mao Zedong. Liu Yunshan, membro del Politburo, ha dichiarato che “promuovere il turismo nei luoghi rivoluzionari può accrescere la vicinanza del popolo ai valori socialisti”. Proprio questo è il problema del Partito comunista cinese: l’allontanamento dai valori socialisti, l’essere comunista solo di nome e essersi allontanato dai bisogni della gente. Il viraggio è avvenuto con Deng Xiaoping e le modernizzazioni economiche, che hanno lanciato la Cina in una corsa allo svilup-

po tecnico ed economico che ha salvato dalla fame almeno 150 milioni di persone, ma ha creato anche innumerevoli problemi.

La crescita economica ha infatti portato a sfruttamento delle persone, inquinamento dell’ambiente, corruzione e un abisso fra ricchi e poveri fra i più ampi del mondo.Il Partito, nato da una rivoluzione dei contadini, ha ora nella povertà dei contadini la sua macchia più nera, con una media di 5900 yuan di reddito annuo (in città la media è oltre 19mila yuan). Intanto, nel Partito sono rifluiti come membri a parte intera imprenditori e finanzieri, certi di mangiare alla greppia del Partito più ricco del mondo. Alcuni giorni fa il Partito si è vantato dei suoi 80 milioni di iscritti, ma non ha detto che le inchieste fra i giovani mostrano che essi chiedono di entrare nel Partito per i vantaggi economici e legali che ne derivano. Chiunque critica la supremazia del Partito è subito condannato per “cospirazione contro lo Stato”; chi usa il Partito per i suoi affari, ha la protezione delle alte sfere. E mentre il Partito (per cooptazione) si ingrossa di membri, fra i più avvantaggiati dalle riforme economiche, le prigioni si riempiono di studiosi come Liu Xiaobo, attivisti, avvocati per i diritti umani, poveri portatori di petizioni, personalità religiose. Con la scusa di non volere in modo assoluto una democrazia di stile occidentale – come dichiarato tante volte dai leader – la Cina soffoca in realtà tutte le persone che chiedono giustizia usando le poche leggi a disposizione del Paese. Questo anniversario rischia di rimanere amaro nella memoria del Paese. Che ha tradito il Grande Timoniere.


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